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L'angolo del cerchio la newsletter del cerchio vuoto luglio-agosto 2018 www.ilcerchiovuoto.it René Magritte - The Banquet, 1958

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L'angolo del cerchiola newsletter del cerchio vuoto

luglio-agosto 2018

www.ilcerchiovuoto.it

René Magritte - The Banquet, 1958

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ichi go, ichi e

interno ed esterno: illusorietà della distinzione

regalità e sacralità

abiti cuciti a mano e abiti acquistati

politéia

diegustibus

news e attività

torino spiritualità

in questo numero3

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In occasione del suo viaggio in Europa per presenziare alla Cerimonia d'insediamento del rev. Jōkei Lambert, nuova badessa del monastero di Hōkaiji, 'La dimora senza limiti' in Francia, Shundo Aoyama rōshi1,

ha offerto un teisho - insegnamento formale - nel corso dell'unico incontro in Italia, ospi-tato dal monastero di Shōbōzan Fudenji a Salsomaggiore Terme.Sapendo che sarebbe stata forse la prima e ultima occasione per incontrare una autore-vole rappresentante della Tradizione Zen Sōtō, ho proposto ai praticanti della Comunità del-l'Enku dōjō di Torino di accompagnarmi, e al-cuni di loro hanno colto al volo l'opportunità. La Tradizione Zen ha fatto suo il detto - yojijukugo2 - 'ichi go ichi e', '一期一会', 'un incontro, una vita'. L'espressione attribuita al famoso Maestro della Cerimonia del tè, Senno Rikyu3, è ancor oggi praticata da chi studia quella Via: 'Mi impegnerò al massimo per dimostrarti ospitalità ed eseguire per-fettamente questa cerimonia, poiché ogni in-contro è unico nella vita'.Ripropongo alcuni spunti dell'Insegnamento del rev. Shundo Aoyama, liberamente artico-lati come fossero indicazioni di un Ottuplice Sentiero, dove l'Insegnamento 'faccia a faccia' dei Buddha e dei Patriarchi della Tradizione incontra la nostra vita quotidiana. Ricordo il mio primo incontro con Shundo Aoyama rōshi.Fu nel 2006, a Nagoya all'Aichi Nisodo, pri-ma tappa di un mio viaggio di studio in Giappone. Praticai per due mesi la vita del

Sodo con le monache che stavano seguendo il loro training di formazione nell'unico monastero di formazione femminile della Scuola Zen Sōtō, di cui Aoyama rōshi è stata per molto tempo badessa.L'arrivo di Sensei4, di ritorno da una delle sue tante conferenze per il Paese, era atteso con gioia dalle monache, la cui gratitudine per averla incontrata nel proprio cammino di ricerca si manifestava nella cura amorevole con cui si dedicavano al-la sua persona: una donna forte e determinata, che si avviava però agli ottanta continuando la sua missione imperterrita, nonostante un brutto incidente qualche anno prima. Scendeva sempre qualche lacrima quando, accennando all'incidente, le monache ricordavano la paura passata di perderla.

Finalmente la conobbi all'incontro consueto del pomeriggio, un momento di pratica e condivisio-ne del tè informale. Nella sala in cui sarebbe sta-to servito, per l'occasione speciale, il macha, il Tokonoma davanti a cui si sarebbe seduta la Maestra era ornato da una composizione di fiori freschi, uno dei miei primi approcci all'ikebana, e uno dei compiti che mi avevano assegnato.Aoyama rōshi si fermò qualche istante assorta nell'osservazione della composizione, e poi, con un tocco gentile, ma rapido e definitivo, spostò un fiore, offrendo un punto di vista completa-mente diverso, e senz'altro più dinamico, alla composizione.Non capii le poche parole in giapponese a commento della sua azione, ma la sua risata è rimasta indelebile nella mia memoria. Tutto il suo corpo rideva, lasciando così percepire

Ichi go, ichi e

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un'armoniosa integrità.Un incontro, una vita: anche nel suo breve e, credo, anche ultimo passaggio in Italia, Sensei ha, con la leggerezza ed eleganza che la con-traddistingono, offerto 'un nuovo punto di vista', una prospettiva in cui emergono le medesime qualità di integrità e armonia nel vivo Insegnamento dei Maestri che ci hanno preceduto nel cammino.

Retta visione La verità che va al di là dei tempi e dei luoghi, e che indichiamo con il termine 'Ho', 'Dharma', ed è quel Dharma che Buddha Sha-kyamuni ha percepito con il discernimento di una pratica limpida. È stato risvegliato. E allora, la chiamiamo 'Buppo', 'BuddhaDharma'Nacque così l''Insegnamento del Dharma', 'Buk-kyo': 'L'Universo è fatto così. In esso anche la vita umana per cui anche noi dovremmo procedere in tal modo nella vita, uniformandoci alla forma dell'universo e al suo funzionamento'.Siccome questa è la Via che ora qui mettiamo in pratica insieme, la chiamiamo 'Butsudo', la 'Via del Buddha'.

Retta intenzione “Essere monaca non è un mestiere! Non è un espediente per campare. Chiunque vorrebbe vivere al meglio questa unica, irripetibile vita che abbiamo.

Ho cercato a lungo il modo di vivere più eleva-to, la condizione in cui trovare stabilità, e alla fine, la conclusione a cui sono giunta è proprio semplicemente questa forma.”

Retta parola Ricordo l'ultimo sermone di Sawaki rōshi a proprosito dell'Hachi Dai Nin Gaku5 – 'Le otto attenzioni rideste nell'uomo adulto', soprattut-to quello che disse a proposito dell'ottavo pun-to, 'Fukeron', 'Parole a vanvera':“Continuare a ripetere, 'Ah, lo ha detto Shakya-muni Buddha', oppure, 'Lo ha detto il venerabile Dōgen Zenji' senza che proprio ora, proprio qui quelle parole penetrino concretamente la mia vita di essere umano, si chiama 'Buddhadharma degli SMS', o 'Buddhadharma da posto in piedi', cioè da spettatore”.

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Retta azione “La religione è il modo di vivere. Ci sono molte persone che erroneamente ritengono che la religione sia studio dottrinale. Senza dubbio, come ho già detto, testi scritti e studio sono importanti come lo sono gli spartiti, in quanto traccia per eseguire la musica dal vivo, ma se dimentichiamo di suonare dal vivo, guai, ci si ubriaca di splendide teorie e belle parole”.

Retto modo di vivere Nel mondo del chado, la Via del tè, c'è questa espressione:“All'estremità della pianura, nel profondo della montagna, al limite della strada, anche nella stanza di ogni giorno, tutto fa parte”, per dire di far vivere completamente tutte le vitalità delle ventiquattr'ore. A maggior ragione, la religione prende senso prima di tutto dall'essere messa in pratica passo per passo nelle attività di ogni giorno. Ed è questo che intendeva dire Sawaki rōshi con l'espressione: 'La religione è il modo di vivere'”.

Retto sforzo Ci sono due modi di praticare il Buddha Dharma. Uno stabilendo un tempo, da quando a quando, come la pratica di camminare mil-le giorni in montagna6, e considerandola così come fare qualcosa di speciale. L'altro, il modo di praticare nelle ventiquattro ore l'attitudine per cui ogni singolo istante viene vissuto con cura, come insostituibile passo della propria vita.'È facile tagliar via pezzi del proprio corpo. Ben più difficile mettere ordine nelle funzioni del-lo spirito': la visione della pratica religiosa di Dōgen Zenji non è l'effetto di un rito segreto, e pertanto è una pratica da praticare in silenzio senza fine, che non dà nessuna soddisfazione personale.

Retta presenza mentale Se una persona non ha mai visto un giglio, per quanto glielo si spieghi a parole, non capirà mai, ma se glielo si mostra direttamen-te, allora comprenderà. Se si cerca di spiegare il sapore di un cibo a parole, non lo si capisce, ma assaggiandone un boccone, si comprende. Allo stesso modo, senza frapporre parole, o ca-tegorie, o teorie, vedere direttamente la real-tà con i propri occhi, ascoltare con le proprie orecchie la voce della realtà. Questo è il pun-to centrale dell'Insegnamento di cui parla lo

Shoyoroku7: "Guarda con questi occhi, ascolta con queste orecchie direttamente la forma fon-damentale dell'universo.”

Retta concentrazione 'Gū ichi nyō, shū ichi nyō': 'se incontri una pratica, pratica quella!'. Posso ripeterlo in cuor mio, ma farlo nei confronti di ogni cosa è difficile. Negli ultimi anni della sua vita, Uchiyama rōshi ripeteva sempre: “Alla fine della vita, non sono uno che ha gettato via il mondo: mi aspetta la condizione di essere gettato via dal mondo, senza lamentarmi, correggendo il mio modo di pormi.”'Se incontri una pratica, pratica quella', non è davvero una cosa facile, ma permettetemi di dire che nel viaggio della vita, qualsiasi cosa mi attenda, la pratico, facendo un altro passo godendomi il panorama, spero di procedere nella Via.

(E.S.V.)

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1. Già badessa dell'Aichi Ni Sodo di Nagoya e del Tempio di Muryōji, monaca Zen di Tradizione Zen Sōtō dall'età di 15 anni. Oggi ne ha 85 e rappresenta una dei leader di maggiore spicco del Buddhismo Zen giapponese.

2. Il termine giapponese 'yojijukugo' indica tutte quelle espressioni composte da quattro caratteri. La stessa parola yojijukugo (四字熟語) è uno yojijukugo: 四字 yoji significa quattro caratteri e 熟語 jukugo composto di kanji. Letteralmente significa “compo-sto di quattro kanji”. Solitamente con il termine yo-jijukugo si indicano espressioni idiomatiche compo-ste da quattro kanji, cioè che esprimono un particolare proverbio o modo di dire in un’unica parola.

3. Sen no Rikyū (千利休, anche Sen Rikyū; Sakai, 1522 – 21 aprile 1591) è stato un monaco buddhista giapponese, zen, riformatore della cerimonia del tè giapponese, che codificò in maniera definitiva nella forma wabi-cha, e maestro del tè di personaggi politi-ci di primo piano del suo tempo, quali Oda Nobunaga e Toyotomi Hideyoshi.

4. Sensei, letteralmente 'chi è venuto prima', cioè un Maestro

5. Hachi Dai Nin Gaku, 'Le otto attenzioni rideste dell'uomo adulto': sono le parole testamentarie di Buddha Shakyamuni raccolte nello Yuikyoge, il 'Sutra dell'Insegnamento finale'. Ma sono anche il titolo di un capitolo dello Shōbōgenzō di Dōgen Zenji.

6. Si tratta di una pratica religiosa giapponese, le-gata al senso di 'gyō': In senso letterale, 'gyō' signifi-ca 'camminare', o 'il cammino'. Utilizzato dapprima per designare la pratica di chi segue una forma par-ticolarmente difficile di ricerca religiosa, il termine si è in seguito esteso alle arti tradizionali. Il significato del 'gyō' appare chiaramente nell'approccio di certi monaci buddhisti che, sul monte Hiei, praticano mil-le giorni di gyō per arrivare al livello di 'ajari', inse-gnante o maestro. L'espressione 'Sen Nichi Kai Ho Gyō' designa il fatto di percorrere le montagne per mille giorni recitando e meditando frasi sacre.

7. Shōyōroku, approssimativamente 'Libro della se-renità'. Raccolta di cento kōan composti nel XII secolo dal maestro di chan Hongzhi Zhengjue (giapp. Wanshi Shōgaku).

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"Non ci si può rialzarese non dal puntoin cui si è caduti"

Composizione calligrafata di Shundo Aoyama RoshiShobozan Fudenji, 26 giugno 2018

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Una comune reazione circa gli Abiti cuciti a mano è il commento sorpreso: “Pen-savo che gli O-Kesa fossero qualcosa da comprare”. L’idea che un abito possa essere realiz-

zato in modo non professionale, e che la sua realizzazione sia considerata come parte della pratica religiosa, risulta sorprendente per la mag-gior parte delle persone. In parte questa percezione è basata sulla con-vinzione che gli Abiti buddhisti debbano essere realizzati in preziosi broccati con ricami elaborati, un manufatto fuori dalla portata delle persone ordinarie. Ma il commento mette in evidenza anche l’attitudine generale riguardo agli abiti commerciali rispetto a quelli cuciti a mano, sottolineando come la cultura giapponese con-temporanea vada di pari passo con la produ-

Abiti cuciti a mano e abiti acquistati

zione commerciale e il consumo di massa. La mia personale opinione in merito, confer-mata da interviste, è che sono soprattutto le donne anziane e di mezza età a essere at-tratte dal fukudenkai, e sono, rispettivamente, l’ultima generazione, e la generazione di tran-sizione tra quelle che si cucivano da sé tutti i propri abiti e quelle che per tutta la vita hanno comprato abiti commerciali. Le donne dai settant’anni in su ricordano quando i kimono venivano tutti cuciti a mano; le donne sui quaranta-cinquant’anni hanno qualche esperienza di cucitura sia di kimono che di abiti occidentali. In molte scuole si in-segna ancora a cucire, ma per le generazioni più giovani non è più una necessità vitale.La mia ricerca sul campo ha messo in luce co-me le persone che sanno cucire bene abbiano

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maggiori probabilità di incontrare difficoltà nella cucitura degli Abiti buddhisti, rispetto a chi ha poca esperienza. Dai commenti sia degli insegnanti che dei partecipanti, la cucitura degli Abiti buddhisti risulta ardua e frustrante per i più esperti, abituati a differenti modalità di cucitura. Una responsabile di gruppi di cucitura di scuo-la Shingon ha affermato che le difficoltà con-sistono in due fatti: in primo luogo, il 'punto indietro' richiesto - kyakushi - non viene usato né per la cucitura dei kimono, né per nessun altro tipo di lavoro di cucito ordinario, per i quali si usa un punto dritto, realizzato entran-do e uscendo con l’ago in avanti. Ha osservato come gli 'esperti' si sentano improvvisamente goffi e impacciati, incapaci di controllare le mani in un’attività che ritenevano famigliare.

In secondo luogo, ha notato come la qualità dei punti nei kimono non sia importante, dato che tutte le cuciture restano nascoste, mentre negli O-Kesa quasi ogni punto resta visibile, e quindi l’uniformità della distanza tra i punti e la precisione di ogni punto salta subito all’occhio. Si dice che la qualità dei punti riflette quanto la persona che cuce sia concentrata su ciò che sta facendo.

Per chi è nuovo alla pratica della cucitura ciò ri-sulta particolarmente difficoltoso, perché nel Rakusu, generalmente il primo lavoro affrontato, i punti sono molto visibili. Molti sono imbarazzati dall’aspetto del proprio Rakusu.Per rassicurare i nuovi arrivati, gli insegnanti, o i praticanti anziani, pronunciano la frase 'cuci un punto dopo l’altro col cuore' - 'hito hari hito

hari kokoro o komete'. I partecipanti ai gruppi fukudenkai la conoscono molto bene: essa sembrerebbe portare a cre-dere che cucire gli Abiti a mano possa essere considerata un’offerta a un antenato defunto grazie ai meriti prodotti da questa attività. Ma in realtà, nella letteratura buddhista sull’Abito non c'è nessun riferimento al fatto che la cucitura degli Abiti produca particolari meriti. Nel Vinaya1 l’accento è posto soprattutto sul fat-to che l’Abito sia puro, cioè adeguato alle regole monastiche, cosa che include anche la scelta di un istruttore esperto per dirigere e portare a termine il lavoro entro il tempo stabilito. L’istruttore deve dichiarare il proprio progetto pas-so dopo passo, dalla tintura, al taglio, alla cucitura degli Abiti. Ma non viene mai detto che la cucitura sia una pratica religiosa che produca meriti2.

La maggior parte delle fonti scritte le argo-mentazioni relative ai meriti degli Abiti buddhis-ti generalmente si basa sul considerare l’Abito come 'reliquia' del Buddha. E così gli insegnanti del fukudenkai spesso fanno menzione del merito di cucire gli Abiti usando incoraggiamenti come 'cuci un punto dopo l’altro col cuore', o 'ogni punto equivale a tre prosternazioni al Buddha', o il suo co-rollario 'poiché l’Abito di stracci richiede così tanti punti, produce molti meriti'. Allo stesso modo, negli Stati Uniti, presso alcuni gruppi si usa recitare silenziosamente, ad ogni punto, 'Namu kie Butsu' - 'Prendo rifugio nel Buddha'.Non ho però trovato traccia di questa prati-ca in nessuno dei gruppi giapponesi che ho frequentato. Questo fatto è degno di nota, perché attesta la tendenza a connotare reli-

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giosamente la cucitura dell’Abito, benché sen-za alcun supporto dei testi. L’espressione 'cuci un punto dopo l’altro col cuore' non appare neanche nei testi utilizzati dai gruppi fukudenkai, come i commentari al-lo Shōbōgenzō di Kōdō Sawaki, la postfazione di Sakai Tokugen, i due libri sull’O-Kesa di Echū Kyūma, o lo studio di Mizuno Yaoko sul Kesa kudoku.Tuttavia, la biografia di Sawaki rōshi riporta que-sta espressione descrivendo gli sforzi del rev. Sawaki per promuovere ciò che egli chiamava "gli Abiti eseguiti secondo l’insegnamento del Buddha”, cioè 'Nyohōe'.

“La conoscenza dell’Abito eseguito secondo l’insegnamento Nyohōe si diffuse gradualmen-te, e quando, infine, dai monasteri raggiunse ogni angolo del Giappone, i professionisti fu-rono i primi a opporsi. E questo perché, per realizzare un Abito Nyohōe, ogni punto deve essere eseguito con fede nell’Insegnamento del Buddha, a 'punto indietro' - kyakushi - e non si può cambiare questo punto in nessuna parte dell’Abito. I professionisti che non riu-scivano a sviluppare un tale atteggiamento religioso, non riuscivano a realizzare un la-voro così scrupoloso e impegnativo. E quindi, nonostante i monaci e monache richiedessero Abiti Nyohōe, i laboratori non erano in grado di rispondere a tale richiesta”3

L'autore Tanaka Tadao non afferma che gli Abiti vengono cuciti per produrre meriti, ma piut-tosto che l’autenticità dell’Abito richiede fede da parte di chi cuce e conformità alle regole nell’usare il punto kyakushi. Sawaki rōshi ri-tiene che un Abito realizzato senza fede non sia un vero Abito buddhista.

In un altro passaggio Tanaka riporta come altri monaci fossero critici rispetto alla promozione del Nyohōe fatta da Sawaki rōshi, perché non erano d’accordo col fatto che ogni punto dovesse essere impregnato di spirito religioso e non accettavano l’importanza del punto kyakushi. Tanaka riporta la risposta di Sawaki rōshi: “Chi non è disposto a mettere il proprio corpo in linea con la realtà del Buddhadharma e non può seguire il filo degli eventi, indubbiamente considera l’Abito nyohōe una seccatura”, e ancora “Dove non c’è il vero O-Kesa realizzato secondo l’Insegnamento, non c’è Insegna-mento del Buddha. Dove non c’è Insegnamento del Buddha, non c’è il vero O-Kesa”. La frase 'cuci un punto dopo l’altro col cuore' rappresenta un’alternativa al messaggio più rigoroso di Kōdō Sawaki, 'Indossa l’Abito e siedi in zazen, questo è tutto'. Secondo Kōdō Sawaki rōshi, si deve onorare l’Abito come Corpo del Buddha, come Mente e Cuore del Buddha, e il miglior modo per farlo sia indossarlo e sedersi in zazen. L’attività della cucitura a mano di per sé non fa dell’Abito un oggetto sacro. Il vero Abito è quello realizzato con fede, usando il punto kyakushi.

(C.D.G)

1. Il Canestro delle Regole monastiche del Canone buddhista.

2. Nel Kaţhina vastu (sezione del Vinaya che riporta le regole per ricevere e donare l’O-Kesa) sono riportate le regole per il periodo successivo al ritiro di tre mesi della stagione delle piogge, durante il quale vengono confezionati gli Abiti nuovi e distribuiti tra i monaci.

3. Tanaka Tadao Sawaki Kodo: Kono koshin no hito, Tokyo 1990, pag. 93.

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angosesshin d'estate

INFO: Tel 333 521 8111 - email [email protected]

dal 20 al 26 agosto - ca' d'la pais, val d'angrogna

L'illuminazione è come il rifl esso della luna

nell'acqua. La luna non si bagna né l'acqua si

rompe. Sebbene la sua luce sia di� usa e grande,

la luna si rifl ette anche in una pozzanghera di

pochi centimetri. La luna tutta quanta e l'intero cielo si rifl ettono in

una goccia di rugiada sull'erba.

Dōgen Zenji

associazione il cerchio vuoto

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illusorietà della distinzione

Interno ed esterno

Con questo articolo concludiamo la serie sui giardini cinesi e giapponesi, inizia-ta nella newsletter di settembre 2017 e continuata nei numeri di novembre e gennaio.

Questa volta osserviamo un altro tipo di giar-dino tipicamente giapponese, quello associato a un tempio o monastero.È importante innanzitutto specificare che sono soprattutto i Templi di Tradizione buddhista, in particolare Shingon e Zen, che sviluppano un gusto e uno stile particolare in questo campo.Nella Tradizione Shinto, infatti, tutta la Natura è sacra e popolata da divinità. Si potrebbe quindi dire che i Templi sono di fatto giardini, proprio perché gli elementi na-turali che li compongono - montagne, pietre, alberi - sono il cuore della devozione e delle pratiche religiose shintoiste.Nella Tradizione buddhista, invece, nascono i monasteri e i Templi e, con essi, il desiderio di abbellire lo spazio esterno in modo armonico e coerente con quello interno.Negli edifici giapponesi la distinzione fra in-terno ed esterno è molto più labile che in Oc-cidente: gallerie coperte collegano fra loro le diverse sezioni, e pareti scorrevoli permettono di aprire completamente una stanza all'ambien-te circostante.In un monastero o in un Tempio, quindi, lo spazio esterno viene visto come ispirazione continua per la pratica quotidiana.

I primi giardini associati ai Templi si trovano nella Tradizione Shingon, e sono quindi ric-chi di simboli e rappresentazioni esoteriche

dell'Insegnamento. In particolare, il giardino rappresentava il Paradiso del Buddha Amida, il luogo dove ogni devoto sperava di rinascere dopo la morte.I canoni estetici erano gli stessi che si stavano sviluppando per i giardini di piacere - descritti nell'articolo del numero di novembre 2017 - ma il significato simbolico era molto diverso.Ad esempio un lago, che in un giardino 'priva-to' rappresentava il mare o un paesaggio na-turale, inserito in un tempio simboleggiava lo stagno dei loti della Terra Pura di Amida.Osservare il giardino era quindi un modo per ricordare e approfondire lo studio della Via.

I vari tipi di giardino nascono e si sviluppano più o meno nello stesso periodo, dal XI al XIII secolo. Da subito si trovano infatti sia i giardini intorno allo stagno, sia quelli, più frequentemente as-sociati nella nostra fantasia ai Templi buddhisti giapponesi, di pietre e sabbia, o 'karesansui', per non dimenticare i giardini di muschi.In tutti i casi, l'elemento comune è il punto di vista.

Il giardino associato a un Tempio o un mona-stero è soprattutto un luogo da contemplare seduti, e qui entrano in gioco due aspetti in cui, come spesso succede nello Zen, il significato non è comprensibile solo con l'intelletto o rappresentabile solo a parole.

Il primo aspetto è proprio il punto di vista: os-servare da seduti sposta l'asse dell'osservatore che, invece di guardare dall'alto in basso o in diagonale, si trova allo stesso livello di ciò

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che osserva. Inoltre, l'atto dell'osservazione richiede necessariamente che il giardino sia associato a un edificio: l'uno non esiste senza l'altro.

Il secondo aspetto è la linea di separazione fra l'osservatore e l'osservato: chi guarda di solito si trova seduto su una piattaforma, e al di là di essa si trova il giardino che diventa quindi una rappresentazione del Buddha, che è Natura e che solo apparentemente è separato dal-l'uomo.Anzi, tale separazione è basata unicamente sulla percezione illusoria dell'uomo stesso. L'osservazione dall'esterno sottolinea ed eviden-zia lo stato illusorio in cui ci troviamo.

Ma, oltre alla contemplazione, un giardino ri-chiede manutenzione e questo, come tutte le attività in un monastero, rientra nella pratica religiosa.Nella manutenzione di un karesansui emerge in modo palese lo stato mentale della persona che agisce: una mente disturbata o non con-centrata non riuscirà a tracciare le linee di ghiaia o di sabbia come richiesto. Ecco che la pratica nel giardino diventa anche luogo di osservazione del proprio stato mentale e, na-turalmente, dall'osservazione scaturiscono la comprensione, l'accettazione e la pacificazione.

Altra caratteristica tipica e peculiare del karesan-sui è il 'gioco di scala': una pietra rappresenta un monte, a volte addirittura il Monte Sumeru2, una distesa di sabbia l'oceano in cui galleggiano le Isole Beate.E questo non è solo un modo per rappresenta-re in piccolo ciò che è grande; è piuttosto un modo per evidenziare che piccolo e grande sono categorie relative.Come scrisse Muso Soseki3 “In origine, in tutte le cose dell'universo non esisteva il concetto di grande o di piccolo; il grande e il piccolo esistono nello spirito dell'uomo. Sono soltanto apparenze illusorie che galleggiano nei cuori ingannati."

(D.M.P)

1. Anzi, il testo Sansui narabini yagyo no zu, citato nell'articolo fu scritto proprio da un monaco Shingon.

2. Il Monte Meru, o Sumeru, nella cosmologia simbolica induista e poi buddhista, rappresenta il centro del mondo, oppure un mondo a se stante, al centro di un immenso oceano. e popolato. da esseri soprannaturali.

3. Monaco Zen vissuto fra la fine del XIII e l'inizio del XIV sec.; inizialmente studiò nella tradizione Shingon e poi, all'età di diciannove anni, si trasferì nel monastero Zen di Kennin-ji. È noto come uno dei più grandi maestri giapponesi di giardini.

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Nell'ultima newsletter abbiamo trattato la figura del Messia nei tre grandi mo-noteismi, così come era stato esposto in una conferenza interreligiosa al centro italo-arabo di Torino.

In questo contributo ci occuperemo della figura regale e di alcune sue implicazioni con la sfera del sacro, restando in linea con quello precedente. Come si era accennato, per l'ebraismo il Messia può (e in qualche misura deve essere) una fi-gura di elevata dignità politica, dunque anche un re (come lo era stato Ciro il Grande, gran re persiano, salutato come Messia).

Anche nel Cristianesimo messianismo e regali-tà sono inscindibili. Cristo scenderà in veste di giudice e, successivamente, salirà in trono inau-gurando il Regno di Dio sulla terra.Cristo è iudex tanto quanto è rex, e le due funzioni sono inseparabili. Il Nuovo Testamento, inoltre, saluta Gesù come re non meno di 35 volte: Re d'Israele, Re dei Giu-dei, Re dei re e Re di tutte le nazioni.

Andando oltre la figura di Cristo, è bene ricor-dare che la regalità nasce come supremo sa-cerdozio. Al giorno d'oggi è ancora possibile rintracciare questo aspetto della monarchia: nel Regno Uni-to è la regina a essere il capo della Chiesa ingle-se, mentre nell'Islam, da sempre, spetta a chi detiene il potere politico organizzare e dirigere la comunità dei credenti del proprio paese. Sin dalle origini delle prime grandi civiltà, tanto il faraone quanto un re mesopotamico erano delle figure altamente sacre e ieratiche,

Regalità e sacralità

ritenute garanti dell'ordine cosmico e interme-diari privilegiati fra la sfera degli dèi e quella dei mortali.

Un caso a parte merita certamente l'Europa greco-romana. Qui, come molti sapranno per reminiscenze sco-lastiche, la figura reale andò perdendo la sua ra-gione sacrale semi-divina, benchè nei racconti mitici dei Greci Agamennone, Ulisse, Achille fos-sero tutti sovrani eroici figli di grandi divinità olim-piche, e a loro spettava officiare i riti e i sacifici per la comunità.

A Roma, dopo la cacciata dei re etruschi, si instaurò la repubblica, ma un considerevole e progressivo ritorno a una monarchia sacra-lizzata si ebbe con la figura del primo impe-ratore, Augusto. Il termine 'imperator', di per sé, non dice molto in questo senso, in quanto rimanda a colui che è investito del comando militare supremo; ma il titolo 'Augustus' deriva dal verbo augere, cioè 'aumentare, accrescere', e si deve intendere come "venerabile, degno di adorazione", colui insomma che è di più e al di sopra dei mortali, come un dio.Per quanto non fosse costume di Roma di-vinizzare gli imperatori viventi, questi erano nondimeno oggetto di pratiche di reverenza, culti e onori analoghi a quelli tributabili alle divinità.Inoltre, non va dimenticato che da Augusto in poi alla carica imperiale venne strettamente associata anche quella di pontefice massimo, cioè il sommo rango sacerdotale di tutti i culti praticati a Roma.

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Un ulteriore passo lo si fece con il dilagare e l'accettazione del Cristianesimo.Imperatori come Diocleziano, Costantino, Te-odosio erano ormai chiamati 'Dominus', Si-gnore, con tutta la venerabile ambiguità che questo termine, volutamente, suggerisce.Costantino fu il primo imperatore che volle specchiarsi nell'unicità del dio dei cristiani. Così come uno è l'Impero, una la Verità - cristia-na - e uno Dio, allo stesso modo uno e assoluto deve essere il signore del mondo, l'imperatore romano.

Una concezione assolutistica e universalistica che durerà fino ai tempi di Dante, seppur con qualche secolo di oblio, e che nel Medioevo caratterizzerà la lotta per la supremazia fra impero germanico e papato romano.Questo per dire come anche nell'Occidente gre-co-romano e in seguito medievale e cristiano, tanto i re quanto gli imperatori possedessero un loro carisma tutto religioso.Intendiamoci, nel quadro normativo del Cristia-nesimo, contrariamente al paganesimo, è rigo-rosa la distinzione tra laici e clero. Re e imperatori nell'esercizio delle loro funzioni secolari non sono e non possono in alcun modo essere anche sa-cerdoti e amministrare i sacramenti.Nondimeno il carisma, il simbolismo, il sen-so della loro funzione erano assolutamente circonfusi di trascendenza, fornendo così le-gittimazione e dignità ultraterrena a un po-tere terreno sulla base delle Scritture ("Non c'è autorità che non venga da Dio, e quelle che esistono sono stabilite da Dio", Lettera ai Romani, 13.1).

E il Buddhismo, invece, come ha affrontato il rapporto fra istituzione regale e sacralità?Anzitutto guardiamo il Buddha. Come sappia-mo il termine significa 'Risvegliato' - dalla radice budh - dunque sembra non esservi alcuna con-notazione regia. Ma Siddharta era un principe, un figlio di re, e difatti il simbolismo religioso del Buddhismo indiano trabocca di elementi di regalità.Anzitutto anche il Buddha è chiamato con tito-lo reverenziale 'Signore' o 'Sublime' - insomma, un 'Augusto' -, inoltre non mancano passi nelle scritture del Canone dove il Buddha evidenzia la regalità del suo Insegnamento connessa con la regalità della sua persona. La contraddizione tra il rivestire una carica regale o una monastica, cioè reggere il mondo o rinunciarvi, è solo apparente. Questo aspetto è ben esemplificato nel Sela Sutta. Il brahmano Sela esprime la concezione che vuole il re e il santo come opposti:"Questa parola ‘Rivegliato’, si sente assai di rado nel mondo! Se resta a casa, diviene un re, un sovrano giusto e virtuoso, imperatore della terra, protettore del popolo [...]. Ed egli avrà oltre cento figli, valorosi, eroici, distruttori degli eserciti nemici: così egli reggerà e governerà solo con la giustizia [...]. Se però rinuncia alla casa per l’ascetica povertà, allora diviene un santo, perfetto Svegliato, uno svelatore del mondo".Incontrato il Buddha, questi gli disse: "Un re io sono, o Sela, ma un re della dottrina: con la dottrina io reggo il regno, un regno insupe-rabile".

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Un passo che ci ricorda un po' il più celebre: "Il mio regno non è di questo mondo" (Giovanni, 18.36).

Altri simboli che denotano la dignità regale dell'insegnamento buddhista sono il leone e la ruota.Il leone, va da sé, è un animale maestoso e imponente, e i passi del Canone dove il Bud-dha è chiamato il ' Leone' e la sua predicazione accostata a un possente ruggito che si span-de in tutte le direzioni dello spazio sono as-sai numerosi.Anche la ruota è un simbolo importantissimo, anzi, il simbolo par ex-cellence del Dharma che sempre letto in chiave regale.

La ruota, infatti, è sia la ruota di un carro, strumento di guerra riservato alla nobiltà e ai re indo-ari, sia un simbolo solare. In questa associazione ritroviamo sempre il tema dell'estensione nello spazio, dove il sole è accostato alla ruota di un carro che percorre il cielo, e la ruota del Dharma un sole che estende i suoi raggi di dottrina a ogni angolo del globo.

Ma quali sono i rappor-ti tra dominio politico e sfera religiosa nel Buddhismo delle origini?Potrà sembrare stra-no, ma le somiglianze con il simbolismo me-dievale occidentale so- no sorprendenti.

Qualcuno forse ricor-derà la dottrina delle due spade - discussa e criticata anche da Dante nel De Monar-chia - cioè delle due

supreme autorità in terra che si spartiscono rispettivamente il dominio spirituale - il papa, successore di Pietro - e quello secolare, ter-reno - l'imperatore. Ebbene, qualcosa di molto simile la si ritrova anche nel pensiero buddhista, dove si può legittimamente parlare di una 'Dottrina delle due ruote': la ruota del dharma (dharmachakra) che rimanda all'Insegnamento rivelato dal Buddha, e quella dello Stato (anachakra) che è di competenza del sovrano universale che

si conforma alla bontà degli Insegnamenti del Risvegliato.

Per 'sovrano universale' il pensiero buddhista indiano intende una fi-gura assai simile a quella imperiale, un re dei re, un sovrano di tutte le genti, denominato 'chakravartin', letteral-mente: 'colui che mette in moto la ruota del Dharma'. La dignità spirituale di questo imperatore bud-dhista e l'universalità del suo diritto di governare provengono dall'ecume-nismo proprio del Dhar-ma, così come i criteri della giustizia che ha il dovere di perseguire trovano riscontro nella nuova moralità deline-ata dal Buddha nei suoi sermoni, in modo analogo, se si vuole, con quanto avvenne con Costantino.Un Costantino buddhi-sta è storicamente esi-stito, ed effettivamente regnò su tutto il subcon-tinente indiano due se-coli e mezzo prima di Cristo: Ashoka.

(continua)

(M.S.)

Pilastri di Ashoka, III a.C.

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Seduto soloprego senza un dioin silenzio

(G.R)

Vasilij Kandinskij - Far Away, 1930

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Il Programma del Cerchio Vuoto

Venerdì 28 ore 20.30presso Il Cerchio Vuoto

Antispecismo e visione buddhistaNon uccidere il vivente, non approvare l'uccisione del vivente e non causare l'uccisione del vivente.

Interviene Francesca Mandarini, avvocato del Foro di Torino da sempre impegnata a tutelare le fasce deboli, membro del direttivo e dell'ufficio legale della LAV Torino.Introduce Diana Myoshin Pace.

Sabato 29 ore 16.00 presso il M.A.O., Museo di Arti Orientali

Pragmatiche del no: l'intelligenza della fedeLe voci dissonanti da sempre costituiscono la ricchezza delle Tradizioni religiose perché, nel migliore dei casi, sono manifestazioni dello Spirito che 'soffia dove vuole' e di una fede che non concede compromessi. Teoria e pratica del no nel Dharma buddhista.

Rev. Elena Seishin VivianiReligiosa di Tradizione Zen Sōtō, Ministro di Culto dell'Unione Buddhista Italiana e membro del Comitato Interfedi della Città di Torino. È guida spirituale dell'Enku dōjō di Torino.

Sabato 29 ore 20.30 presso Il Cerchio Vuoto

Dire di no all'ordine del mondo: la risposta di Viratha e di Siddharta Dire di no alla giustizia del mondo: brani tratti da L'occhio dell'eterno fratello di Stefan Zweig, e dalle Scritture buddhiste, a cura dei praticanti dell'Enku dōjō.Introduce il rev. Elena Seishin Viviani

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Domenica 30 ore 11.00 presso il M.A.O., Museo di Arti Orientali

La Via del perfezionamento spirituale e il rifiuto del mondo nel Giappone medievale

In Giappone, chi si dedicava a una Via rifuggiva il comune sentire per intra-prendere un percorso diverso, personale e talvolta arduo, contro-corrente. Certamente diceva NO a una vita facile, alle convenzioni, e si poneva al di fuori, completamente concentrato nella ricerca del proprio perfezionamento spirituale, che non può infatti avvenire seguendo le convenzioni sociali, ma solo trovando la propria Via.

Lectio magistralis del professor Aldo Natale Tollini.Introduce il rev. Elena Seishin Viviani

Aldo Tollini ha insegnato lingua giapponese classica all'Università Ca' Foscari di Venezia. Si interessa di cultura giapponese medievale, e in particolare di Buddhismo, di cultura del Tè, e traduce testi classici giapponesi. Per Einaudi ha finora pubblicato Antologia del buddhismo giapponese (2009), Lo Zen. Storia, scuole, testi (2012), La cultura del Tè in Giappone e la ricerca della perfezione (2014) e L'ideale della Via (2017).

Domenica 30 ore 20.00presso Il Cerchio Vuoto

Il poeta e le montagneStoria di Andrea che si visse fino in fondo

Presentazione del libro Il poeta e le montagne, un uomo che visse fino in fondo. Andrea Chaves era un ragazzo speciale, eclettico nei suoi interessi fin dalla giovanissima età, studente modello sia al liceo che all'università, sportivo fino al midollo: arti marziali, volo a vela, podismo, montagna e cento altre specialità in cui eccelleva sempre.Ma il suo grande amore era Dante.

Ne parlano Marcus Risso, curatore del libro, insieme a Patrizia Marchesotti e Yonny Chaves Lopez, i genitori.Introduce il rev. Elena Seishin Viviani.

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Il Centro Interculturale della Città di Torino, nell'ambito di una serie di incontri con i bambini del quartiere sulle diverse realtà religiose presenti in città, ha organizzato una visita presso il centro Enku dōjō di

Torino.Giovedì 28 giugno, oltre 15 bambini, fra i 6 e i 10 anni, accompagnati da un educatore e alcuni volontari, hanno visto, per la prima vol-ta, un luogo di pratica buddhista e parlato con una monaca, rev. Elena Seishin Viviani.

politèia

I bambini, di diverse provenienze culturali e religiose, hanno avuto occasione di ascoltare delle storie tradizionali sulla vita del Buddha e di confrontarsi con noi con vivace curiosi-tà, mettendosi anche in gioco con pennello e carta di riso per una prova di calligrafia giapponese.

Questa iniziativa costituisce una prima signifi-cativa apertura ad altre realtà operanti sul ter-ritorio, soprattutto per quanto riguarda l'am-bito formativo ed educativo dei più giovani.

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Zentaglia

maestro, qual è il segreto della vostra calma imperturbabile?

la pressione bassa...

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Il 14 giugno è iniziata la fase finale del 21° campionato del mondo di calcio che, come di consueto si svolge ogni quattro anni - a organizzare l’evento planetario quest’anno la Russia -, uno degli spettacoli più importanti

a cui si possa assistere, e che richiama l’interes-se mediatico di milioni di adepti, riuscendo a superare le barriere culturali ed etniche.

Adem Ljaijc è un giocatore serbo che non ha cantato l’inno nazionale, provocando proteste e malumori: musulmano di origine bosniaca, durante la guerra di Jugoslavia la sua etnia fu sterminata dagli ultra-nazionalisti serbi, oggi è uno dei più talentuosi centrocampisti della propria nazionale.

Meno fortunato nel 1950 il portiere della na-zionale brasiliana Barbosa che, facendosi bef-fare da un tiro dell'uruguaiano Ghiggia durante la partita che assegnava il titolo, visse da quel momento una vita da reietto osteggiato dai suoi connazionali, nonostante la brillante carriera, e morì in solitudine all’inizio di questo secolo.

Anche attraverso lo sport la vita può cambia-re velocemente, in un attimo, una situazio-ne improvvisa muta radicalmente il nostro cammino e l'imprevista condizione diventa realtà: che sia essa favorevole o meno, siamo in una nuova direzione da percorrere senza rimuginare e con passo fermo.

Storie mondiali

Ci sono poi storie di squadre e di tifosi.In questo mondiale russo la formazione giappo-nese è diventata famosa non solo per le ottime prestazioni sportive, ma anche per aver lasciato lo spogliatoio completamente sgombro e pulito, pronto per essere riusato, con tanto di ringra-ziamento scritto in russo agli organizzatori; così come i tifosi senegalesi che, dopo aver incita-to festosamente i loro beniamini dagli spalti, hanno ripulito con attenzione lo spazio da loro occupato, lasciandolo pronto per l’arrivo di nuovi entusiasti tifosi.

Ogni luogo che ci ospita andrebbe, se possi-bile, lasciato meglio di come lo si è trovato, e queste due vicende legate ai mondiali di calcio, che coinvolgono protagonisti lontani fra loro, ci aiutano a capire quanto la cura di ciò che è comune sia preziosa per tutti.

Anche io, a mio modo, sono debitore di un bellissimo ricordo ai mondiali svoltisi in Italia nel lontano 1990: durante la partita Svezia-Brasile , all'esterno dello stadio delle Alpi, io e i miei amici, allora diciottenni, ci schierammo senza la minima riserva non per i tifosi biondi, alti e sorridenti, e con i visi colorati di giallo e blu ma, – chissà perché – con quelli brasiliani, che passarono tutto il tempo della partita a ballare un samba improvvisato sul tetto di un camper.

(D.D.Z.)

Diegustibus

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news e attività

Incontro al Jikai dojo col rev. Elena Seishin Viviani

Incontro di cucitura dell'O-Kesa

Incontro al Jikai dojo col rev. Elena Seishin Viviani

Sesshin di lavoro presso l'Enku Dojo

(Con)fine vita Montebelluna, Biblioteca comunale - ore 10.00partecipa il rev. Elena Seishin Viviani

Ango - Sesshin d'Estate presso Ca' d'la Pais

Torino Spiritualità: Preferisco di no

Zen a porte aperte: Incontro introduttivo sulla pratica dello Zen

LUGLIO

6

15

19

22

AGOSTO

3

20-26

SETTEMBRE

26-30

4

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Il Cerchio Vuoto è un'associazione religiosa per la pratica e lo studio del Buddhismo di scuola Zen Sōtō,membro dell'Unione Buddhista Italiana(Intese con lo Stato Italiano, legge 245 del 31-12-2013)

Via Carlo Ignazio Giulio 29 - 10122 TorinoTel: [email protected]

Via Alessandro III 28 - 15121 [email protected]

l'associazione

enku dojo

jikai dojo

info e contatti

Hanno collaborato a questo numero: Elena Seishin Viviani, Chiara Daishin Grassi, Diana Myoshin Pace, Diego Daigen Zani,

Giampiero Riscaldino, Marco Serravalle, Andrea Petrosillo