Lampada interiore

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MISTERO GENOVESE Roma, 2004. Pietro, trentaquattrenne di origini meridionali, sposato con Valentina, di cinque anni più giovane di lui. Non hanno ancora figli. E’ domenica pomeriggio. Regime di sonnolento dopopranzo. Qualche coccola sul divano, poi Valentina – piacevolmente assonnata - va in camera a riposare. Pietro resta a guardare la TV: fanno il gran premio di F1, che sta a pochi giri dalla conclusione – la raggiungerà tra poco. Pietro si accende una sigaretta e si appassiona per qualcosa (un sorpasso o un’uscita di pista), commentando ad alta voce. Squilla il telefono. E’ Tedeschi, da Genova: il direttore dell’Istituto di assistenza per anziani dove, dodici anni prima, Pietro ha assolto il “servizio civile”. Sorpresa e gioia di Pietro. Tedeschi chiama per annunciargli che è stato casualmente rinvenuto il testamento di Loris Bernardi, l’anziano che più di tutti ebbe modo di accudire, durante il servizio: un testamento segreto, depositato all’insaputa di tutti da più di vent’anni, in busta sigillata, presso un notaio di Genova – e Pietro risulterebbe unico erede del “tesoro” (tuffo al cuore di Pietro, che subito pensa ad un sacchetto di diamanti). Così, dovrebbe andare a ritirare l’eredità, custodita dentro una busta più piccola, sigillata anch’essa, acclusa a quella del testamento…e, se possibile, entro pochi giorni: c’è urgenza di chiudere la pratica. Pietro ringrazia e chiude la telefonata. E’ sconvolto. Come ha fatto, Loris, a nominarlo unico erede dieci anni prima di conoscerlo? Ne parla a Valentina, che già stava quasi dormendo. Lei sa chi è Loris, ma non più di tanto: non ha mai fatto in tempo a conoscerlo personalmente, e Pietro, in proposito, non è mai stato prodigo di particolari. Cerca di tranquillizzare Pietro. Gli chiede maggiori informazioni su Loris. Pietro racconta. Flashback. Genova, 1992. Loris è uno tra gli ospiti più schivi, solitari e ombrosi dell’ospizio. Tempra d’uomo burbero, ispido, segnato. Ha l’aspetto artistoide, malgrado l’età: la barba bianca e lunga, come i capelli raccolti a coda di cavallo; sulla pelle, qua e là, antichi e scoloriti tatuaggi. Gli occhi limpidi e chiari di un bambino, tuttavia, come scalfiti appena dalla vita. Veste sempre di nero. Parla pochissimo, non dà confidenza a nessuno: non si lascia “leggere”, ma solo legge, tutto il giorno sprofondato in libri di ogni tipo. Burbero, sì, ma anche cortese e rispettoso, a suo modo. Vive e lascia vivere: si contenta di poco, non dà fastidio a nessuno – ma vuole esser lasciato in pace. Gli altri? Un po’ lo temono, un po’ lo disprezzano. Hanno imparato a conoscerlo (e ogni nuovo arrivato fa presto ad imparare, informato dagli altri): è lui, sempre in disparte, inafferrabile come uno spettro, sfuggente come un presentimento, un pensiero che inquieta. Scandalo, fra l’altro, per i benpensanti: si è mai visto un uomo di quell’età con quell’aspetto lì? Invano hanno tentato di ricondurlo a un “decoro” più confacente (almeno il taglio dei capelli)…Mormorii, lettere anonime, proteste in direzione: macché! Han dovuto con il tempo “rassegnarsi”… Ogni notte Loris ha l’abitudine di scrutare il cielo stellato. Ci passa qualche ora, al solito da solo. Si tuffa nel silenzio delle vertigini cosmiche: e son le sole ore in cui pare rasserenarsi e vivere di vita autentica, libero da richiami terreni e fastidiosi orpelli sociali. Una minuscola mansarda, che ha ottenuto il permesso di adibire a “specola”, con annesso sgangherato telescopio. Pietro cerca di farsi accettare da Loris. Pian piano riesce ad avvicinarlo, a sciogliere la sua diffidenza. Si compie così il “miracolo”: nasce un’amicizia. Chiave di volta: la passione del ragazzo per l’astronomia e la poesia. Già, perché…oltre che “astronomo”, Loris è la spoglia delusa e stanca di un autentico, ancorché inedito, poeta: così almeno si par d’indovinare dai suoi labili quanto intermittenti ricordi, reticenti confessioni che trapelano, qua e là, nel cuore di ermetici discorsi. Pietro si fa spedire da casa il telescopio e, dopo qualche tempo, decide di regalarlo a Loris. Il quale, ovviamente, non vuole accettarlo come dono; acconsente tuttavia ad utilizzarlo insieme a lui, in comuni sedute notturne di “lettura” dei cieli.

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MISTERO GENOVESE

Roma, 2004. Pietro, trentaquattrenne di origini meridionali, sposato con Valentina, di cinque anni più giovane di lui. Non hanno ancora figli. E’ domenica pomeriggio. Regime di sonnolento dopopranzo. Qualche coccola sul divano, poi Valentina – piacevolmente assonnata - va in camera a riposare. Pietro resta a guardare la TV: fanno il gran premio di F1, che sta a pochi giri dalla conclusione – la raggiungerà tra poco. Pietro si accende una sigaretta e si appassiona per qualcosa (un sorpasso o un’uscita di pista), commentando ad alta voce. Squilla il telefono. E’ Tedeschi, da Genova: il direttore dell’Istituto di assistenza per anziani dove, dodici anni prima, Pietro ha assolto il “servizio civile”. Sorpresa e gioia di Pietro. Tedeschi chiama per annunciargli che è stato casualmente rinvenuto il testamento di Loris Bernardi, l’anziano che più di tutti ebbe modo di accudire, durante il servizio: un testamento segreto, depositato all’insaputa di tutti da più di vent’anni, in busta sigillata, presso un notaio di Genova – e Pietro risulterebbe unico erede del “tesoro” (tuffo al cuore di Pietro, che subito pensa ad un sacchetto di diamanti). Così, dovrebbe andare a ritirare l’eredità, custodita dentro una busta più piccola, sigillata anch’essa, acclusa a quella del testamento…e, se possibile, entro pochi giorni: c’è urgenza di chiudere la pratica. Pietro ringrazia e chiude la telefonata. E’ sconvolto. Come ha fatto, Loris, a nominarlo unico erede dieci anni prima di conoscerlo? Ne parla a Valentina, che già stava quasi dormendo. Lei sa chi è Loris, ma non più di tanto: non ha mai fatto in tempo a conoscerlo personalmente, e Pietro, in proposito, non è mai stato prodigo di particolari. Cerca di tranquillizzare Pietro. Gli chiede maggiori informazioni su Loris. Pietro racconta. Flashback. Genova, 1992. Loris è uno tra gli ospiti più schivi, solitari e ombrosi dell’ospizio. Tempra d’uomo burbero, ispido, segnato. Ha l’aspetto artistoide, malgrado l’età: la barba bianca e lunga, come i capelli raccolti a coda di cavallo; sulla pelle, qua e là, antichi e scoloriti tatuaggi. Gli occhi limpidi e chiari di un bambino, tuttavia, come scalfiti appena dalla vita. Veste sempre di nero. Parla pochissimo, non dà confidenza a nessuno: non si lascia “leggere”, ma solo legge, tutto il giorno sprofondato in libri di ogni tipo. Burbero, sì, ma anche cortese e rispettoso, a suo modo. Vive e lascia vivere: si contenta di poco, non dà fastidio a nessuno – ma vuole esser lasciato in pace. Gli altri? Un po’ lo temono, un po’ lo disprezzano. Hanno imparato a conoscerlo (e ogni nuovo arrivato fa presto ad imparare, informato dagli altri): è lui, sempre in disparte, inafferrabile come uno spettro, sfuggente come un presentimento, un pensiero che inquieta. Scandalo, fra l’altro, per i benpensanti: si è mai visto un uomo di quell’età con quell’aspetto lì? Invano hanno tentato di ricondurlo a un “decoro” più confacente (almeno il taglio dei capelli)…Mormorii, lettere anonime, proteste in direzione: macché! Han dovuto con il tempo “rassegnarsi”… Ogni notte Loris ha l’abitudine di scrutare il cielo stellato. Ci passa qualche ora, al solito da solo. Si tuffa nel silenzio delle vertigini cosmiche: e son le sole ore in cui pare rasserenarsi e vivere di vita autentica, libero da richiami terreni e fastidiosi orpelli sociali. Una minuscola mansarda, che ha ottenuto il permesso di adibire a “specola”, con annesso sgangherato telescopio. Pietro cerca di farsi accettare da Loris. Pian piano riesce ad avvicinarlo, a sciogliere la sua diffidenza. Si compie così il “miracolo”: nasce un’amicizia. Chiave di volta: la passione del ragazzo per l’astronomia e la poesia. Già, perché…oltre che “astronomo”, Loris è la spoglia delusa e stanca di un autentico, ancorché inedito, poeta: così almeno si par d’indovinare dai suoi labili quanto intermittenti ricordi, reticenti confessioni che trapelano, qua e là, nel cuore di ermetici discorsi. Pietro si fa spedire da casa il telescopio e, dopo qualche tempo, decide di regalarlo a Loris. Il quale, ovviamente, non vuole accettarlo come dono; acconsente tuttavia ad utilizzarlo insieme a lui, in comuni sedute notturne di “lettura” dei cieli.

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Si sviluppa così un rapporto taciturno, ma significativo e profondo: per Pietro è già un privilegio godere dell’attenzione di Loris, poter usufruire del suo permesso di stargli accanto, violare in qualche modo il suo mistero impenetrabile. I dialoghi diventano man mano più estesi, intimi e frequenti. Loris comincia per gradi, quasi impercettibilmente, ad aprire il suo cuore: è disposto a svelare l’enigma della sua storia, della sua esistenza, a patto che il ragazzo giuri di non riferire a nessuno ciò che gli racconta. Pietro ovviamente dà la sua parola, e così viene a sapere che il Loris effettivamente è un poeta. Flashback nel flashback. Emiliano, nato nel ‘29 in un paese degli Appennini da una coppia di emarginati (il padre etilista, la madre sofferente di disturbi nervosi – vivevano dentro una baracca), dopo la morte della madre, per tubercolosi, era stato abbandonato dal padre, datosi alla macchia come partigiano; al che, ancora adolescente, era sceso in città, a Bologna, dove aveva condotto una vita di espedienti e di miseria. Poi, a ventidue anni (la stessa età di Pietro), la “grande occasione”: l’imbarco su una nave, a Genova, mozzo di bordo. Da lì in avanti l’avventura della “conoscenza”: aveva viaggiato per tutti i mari del mondo, alla ricerca del senso della vita da scrivere in poesia, ammontando le parole in un diario. L’America easy rider, il mito del coast to coast. Woodstock, 21 agosto ’69: lui c’era. I “figli dei fiori”, l’erba, l’anarchia, la libertà. Un giorno (era l’inizio degli anni Settanta), naufrago su un’isola sperduta del mar dei Caraibi, era entrato a far parte di una sorta di “setta religiosa” capeggiata da un “santone”, un americano stravagante che, avendo avuto la fortuna di vincere una somma esagerata ad una lotteria, aveva deciso di utilizzare la metà del patrimonio (l’altra già devoluta in beneficenza) nell’esperimento di questa “comune”, “The New Babylon”, dove ciascun nuovo arrivato poteva restare ospite, a sbafo, per un anno e non di più: giusto il tempo necessario per abituarsi agli agi da nababbo. Il santone si era comprato l’isola e vi aveva edificato un complesso meraviglioso, con tanto di piscine, saune, palestre, ristoranti a buffet, e quanto di meglio si possa desiderare per il benessere e il relax: il tempio dell’effimero incarnato. Gli ospiti, uomini e donne di ogni nazionalità, tutti di bassa o media estrazione, non avevano di che affannarsi o sgomitare - la ricchezza essendo liberamente ed inesauribilmente a disposizione di ciascuno. Un anno di Bengodi assicurato: pensava a tutto lui. Il percorso iniziatico della setta era: provare fino in fondo la ricchezza materiale, da sempre tanto desiderata, per conoscere la sua inconsistenza e, solo allora, abbracciare autenticamente la propria dimensione interiore - non prima di aver deciso se optare per la materia, o rinunciarvi in cambio dell’oro spirituale. Chi avesse scelto la materia, non essendo evidentemente riuscito a goderla senza restarne schiavo, era con ciò stesso espulso dalla “comune”: riceveva una buonuscita di un “tot” per gestire il riequilibrio, il ritorno alla vita di prima, ma…doveva andarsene. Giungeva voce che molti non sapessero reggere il contraccolpo e, nel giro di qualche mese dalla partenza, finissero addirittura per suicidarsi. Chi invece avesse scelto lo spirito, accedeva all’”Accademia di pensiero” (sita in un’isola imprecisata dei paraggi), dove avrebbe condotto per tre anni un’esistenza frugale e limpida, di studio, di contemplazione. I migliori avrebbero poi completato in Tibet il proprio “percorso”. Il santone viveva all’”Accademia”, peraltro da lui presieduta. Due o tre volte l’anno si faceva vedere a “New Babylon”, scortato da scagnozzi e guardaspalle. Era a metà circa del suo soggiorno che Loris l’aveva visto per la prima, ed ultima, volta: proprio quando il santone si era presentato per annunciare la chiusura improvvisa della “comune” (forse perché i soldi eran finiti? O forse perché più nessuno, in fin dei conti, optava per l’Accademia?)… Egli li avrebbe attesi per un raduno finale, del quale ciascuno avrebbe catturato dentro sé la “chiamata”, il grande appuntamento: uno per uno, sarebbe passati a prenderli, quelli di ora e quelli di prima, per sempre. L’annuncio aveva suscitato un pandemonio di proteste da parte di chi voleva comunque arrivare al compimento del proprio anno, come gli altri. Rivolta sfociata in sommossa, in rissa furibonda, generale. Si erano precipitati per massacrarlo, quand’ecco che lui, in posa ieratica

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(ah, la luce del suo sguardo!) si era letteralmente disciolto in aria, sotto gli occhi di tutti, provocando reazioni ancora più scomposte, di panico e di orrore. Sfollata bruscamente dei suoi ospiti, New Babylon era stata fatta saltare in aria e bruciare, senza pietà. Loris si era allontanato dall’isola insieme a quelli con cui nel frattempo, aveva stretto amicizia. Un australiano (Kevin), uno spagnolo (Ramòn), un irlandese (Jim)…Si erano “riciclati” come filibustieri, depredando imbarcazioni di passaggio ed impiantando commerci illeciti presso popolazioni indigene. Vita dissoluta e avventurosa, giornate campali di crimini e pericoli, fughe rocambolesche, avventure indimenticabili…e, a sera, il “meritato” riposo, con bisbocce di donne, canti e droghe a volontà. Ma l’entusiasmo e le emozioni forti di quelle imprese non riuscivano a fugare la percezione di un vuoto cosmico, abissale, che niente e nessuno poteva riempire, anzi: finivano per accrescerlo, se possibile. La risata oscena del greve godimento era in realtà gonfia di nausea interiore. In fondo, eran tutti tristi e disperati. Gli capitava talvolta di rileggere a notte, mentre i compagni russavano (disfatti dalle orge, “strafatti” ed ubriachi), il diario poetico di un tempo (adesso la vena inaridita), e trovava quegli scritti lontani, quasi incomprensibili, seppure sempre intensi di una voce lor propria, che non sapeva più riconoscere. Era quella la prova iniziatica? Attraversare gli antipodi della spiritualità per arrivare a conoscerla in modo diverso, da altre prospettive? Ma cos’era, poi, spiritualità? Non ce n’era anche nel gozzovigliare, nel dissipare, nel godersi la materia della vita? E perché il bisogno di spiritualità? Perché questo rapporto necessario con la poesia? Ed era vera poesia quella di un tempo? Che cosa aveva e non aveva ancora, e cosa stava davvero cercando? - domande che sorgevano dal vuoto del pensiero come squarci di lampi dal silenzio dell’oscurità, sotto un cielo di stelle giganti che respiravano al ritmo del mare. Dopo tre anni, accumulati crimini e ricchezze in quantità, Loris e i suoi soci avevano deciso di spartire equamente il malloppo e sciogliere la banda. Ciascuno, in realtà, pensava di uccidere gli altri e prendersi tutto. Prima, però, l’ultimo “colpo”. Che era andato male: due compagni rimasti uccisi in un conflitto armato con l’altra imbarcazione, altri sommersi da una tempesta; solo lui superstite in una scialuppa. Ma aveva fatto in tempo a salvare un sacchetto di diamanti e il diario con le poesie. Dopo giorni di naufragio, ormai allo stremo delle forze, si era misteriosamente ritrovato davanti alla costa ligure, quindi dentro la darsena del porto genovese, precisamente là dove si era imbarcato la prima volta. E’ notte. La scialuppa ormai fa acqua: Loris prende sacchetto e diario e si tuffa nell’acqua nera del porto per raggiungere terra, ma dopo poche bracciate perde entrambi. Da allora passa anni “ronzando” attorno al porto di Genova, come calamitato da quel mare che nasconde il suo tesoro (che – ne è sempre più convinto - è il diario, più che i diamanti). La sua ultima speranza resta l’attesa del santone che, come promesso, apparirà su un “vascello fantasma” (dal mare o dal cielo non sa) e li accoglierà a bordo, lui e i suoi compagni, uno ad uno, dovunque si trovino e qualunque cosa facciano, morti o vivi non importa, per portarli via, nell’oltre, nell’assoluto, degni finalmente di conoscer le supreme verità. Passerà una notte d’estate, intorno a mezzanotte: questo sa, questo sente, questo ricorda. Perciò, ogni notte delle sue estati, quell’ora la passa seduto su una panchina davanti al porto, a contemplare ad occhio nudo le sue stelle, ascoltando il quieto sciacquio del mare e il traffico dei carghi, in attesa da un momento all’altro di veder l’apparizione del vascello, e…di andare via. Perciò risponde sempre con un “addio” a chi lo saluta, mentre esce per la sua abituale passeggiata, che ogni sera potrebbe essere l’ultima, senza più ritorno. Poi, passata l’ora, lascia la panchina e torna lentamente all’Istituto, deluso sì, ma in fondo anche contento. Gran parte del resto della notte (tende all’insonnia) la passa al telescopio. Pietro non sa se credergli. E’ una storia bislacca e un po’ improbabile. Certo, l’aria ce l’ha “vissuta”, e il suo sguardo è, malgrado la luce innocente, all’altezza delle cose che dice…inoltre, gli ha mostrato qualche “reperto” dei mari del Sud, qualche foto che lo ritrae ai tempi dell’avventura…ma potrebbero essere “patacche” o fotomontaggi: c’è da dubitare non si tratti di un

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mitomane, sebbene innocuo: di un ballista, di un pazzo, un esaltato, acceso ulteriormente dal trovarsi di fronte ad un ragazzo, e alla sua presumibile credulità. Così, non la beve d’un fiato, anche se decide comunque di restarci amico. Gli altri ospiti del centro lo invitano a non dargli retta, a non lasciarsi imbambolare dalle sue chiacchiere e, in assoluto, a non farci troppa comunella: lui risponde con un sorriso. Pietro cresce la sua esperienza di vita, comunque arricchito dai dialoghi con Loris. Un giorno gli dice (non sa neppure lui se per convinzione o se solo per compiacerlo): “Quando verrà il santone, io sarò con te: gli chiederemo di portarmi, e resteremo insieme”. Loris lo contraddice, lo consiglia di non immischiarsi nella sua avventura, di vivere la vita normalmente. Pietro si innamora di Valentina, che abita da quelle parti, ma lei non vuol saperne. I consigli di Loris. Gli regala tre pietre preziose che sembrano diamanti ma, stando a ciò che dice, non lo sono: le ultime rimastegli di quelle con cui lui e i suoi soci truffavano gli indigeni: serviranno a Pietro per realizzare con le sue stesse mani un anello da regalare alla ragazza. “Vedrai, ti porterà fortuna: quando l’avrai finito, se ci avrai messo davvero tutto l’amore che provi, varranno come diamanti: lei ti dirà di sì”. Così accade: riesce finalmente a far breccia, a ottenere un appuntamento. Le regala l’anello. La notte che ci fa l’amore (ed è la prima volta, per lui) è la notte fatale che il santone finalmente passa: la notte del 10 agosto 1992. Il ragazzo ritrova Loris l’indomani all’alba, seduto esanime sulla panchina, con gli occhi fissi che guardano il cielo, sfrecciante di gabbiani, proprio mentre, felice, si precipitava da lui, all’Istituto, per annunciargli il “trionfo”. Il giorno dei funerali. Dispiace a tutti: in fondo era un povero cristiano, anche se un po’ tocco – sì, era una “presenza”, benché assente: una sorta di “istituzione” dell’ospizio (“senza di lui, certo, non è più lo stesso”). Pietro rifiuta infastidito la tipica “riabilitazione” post mortem: improvvisamente tutti bravi, tutti “santi”, tutti “buonanime”. Qualcuno piange, identificando nella morte di Loris la propria. Pietro è tra quelli che portano la bara. Viene sepolto a Genova, al cimitero di Staglieno. Pietro conclude il servizio civile. Due giorni prima del congedo, lui e Valentina scoprono fortuitamente che quelli incastonati nell’anello sono diamanti per davvero! Li vendono, ricavandone una gran quantità di denaro, con cui possono comprarsi casa, sposarsi ed essere felici. Genova, 2004. L’apertura della busta presso lo studio notarile. L’emozione dei ricordi e, insieme, l’attesa, la speranza, l’incertezza (più che altro scaramantica), di ritrovarsi ricchi tutto a un tratto. Dentro la busta viene trovato unicamente un quaderno (delusione!), manoscritto di pugno da Loris, la cui firma all’ultima pagina reca la data del 10 agosto 1982 …esattamente dieci anni prima della sua morte! Ma ancora più incredibile è che sul quaderno c’è scritta anticipata, con impressionante rispondenza di dettagli, tutta la storia del loro incontro, della loro amicizia, delle rivelazioni biografiche di Loris, dell’amore del ragazzo per quella che ora è sua moglie, dell’anello, dei “diamanti” poi scoperti veri… fino alla stessa comunicazione del testamento, rinvenuto, guarda caso, proprio il giorno previsto sul quaderno…insomma: tutta la storia che il film stesso racconta nel suo farsi. Come faceva, Loris, a sapere quelle cose con tanti anni di anticipo? Il film, in definitiva, è la visualizzazione in flashback (intervallata dal ritorno al presente, ad es. il viaggio in macchina da Roma a Genova) della lettura che del manoscritto, dopo l’apertura della busta e la visita al cimitero, Pietro fa a sua moglie, uno di fronte all’altra, a cavalcioni su un muretto del lungomare genovese. Questa immagine (senza sonoro) viene di tanto in tanto misteriosamente sovrapposta al flashback di Pietro. Solo alla fine del film, essa acquista senso e sonoro - ed è quando si ricongiunge al presente dell’azione filmica: vediamo allora Pietro leggere effettivamente l’ultima pagina del quaderno di Loris, laddove è scritto: “Arrivo - così - all’ultimo foglio, e mi duole il dito, sono stanco. Va verso la sua fine e non conclude, la storia dell’incontro che ci unisce: il corso delle impronte sulla sabbia, è il giorno nella notte che svanisce. Ora tu, caro Pietro, già da un pezzo ti starai chiedendo come ho fatto a conoscerti prima ancora di incontrarti; e a sapere tutto questo, in anticipo di anni. E’ proprio per questo che ti scrivo: per dimostrarti che il tempo non esiste; che è solo un’invenzione della nostra

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mente; che non ci sono limiti alla conoscenza, se solo lo vogliamo, se solo ci crediamo per davvero. Ti scrivo dal tempo, attraverso la distesa del tempo che, come vedi, nulla può impedire: ci stiamo parlando lo stesso, dal nostro rispettivo presente, essere di ora. Ti chiederai quale sia il tesoro di cui ti faccio erede. Probabilmente sarai rimasto deluso dal vedere “solo” questo manoscritto. Vai oltre, oltre l’apparenza. Il libro è galeotto, certo; ma il tesoro vero è l’esperienza. Guarda, guarda dentro te. Specchiati nel mondo. Lo smalto limpido del cielo, il suo colore blu. Guardati attorno. Il mare che hai davanti. Le nuvole laggiù. La persona cara che è al tuo fianco. Pensa a quanto l’ami, all’aria che respiri e ti fa vivo. La forza che fa battere il tuo cuore. Non posso donarti nulla perché tutto ti è stato già donato, da sempre e per sempre. Sei erede del mondo. E nulla, ricorda, nulla è mai per caso: neppure, dunque, il nostro incontro. Ti abbraccio tutta l’anima da dentro. Ricambiami, se puoi: ti sto per salutare tuo Loris”. Pietro ride e piange al tempo stesso. Valentina, commossa a sua volta, gli asciuga le lacrime e lo abbraccia forte. In quell’istante un gabbiano si posa sul muretto, a un metro di distanza, e, fissandoli, emette tre striduli versi (loro sobbalzano); quindi spicca il volo. Pietro e Valentina lo seguono con lo sguardo, fino a che scompare all’orizzonte.

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IL PALAZZO

In un quartiere periferico di Roma, ai giorni nostri. Andrea è un bambino emarginato. Ha 12 anni. Vive con la madre (una “ragazza” vissuta, di 36 anni); il padre non lo ha mai conosciuto. Lui non lo sa, ma la madre “riceve” a casa, previo appuntamento. E’ il modo più diretto che ha trovato, spinta dalla disperazione, per tirare avanti. Un lavoro stabile non si trova, da quelle parti; così per lei, che ha bisogno di contarci, l’unica è stata affidarsi al proprio corpo: “quello almeno non ti licenzia all’improvviso (a meno che non crepi- Tiè); puoi disporne come e quando vuoi; in fondo sei padrona del tuo tempo e del lavoro…i clienti, tanto, non mancano mai: certi porci, gli uomini...”. Ne approfitta specialmente quando Andrea è a scuola, la mattina. In casi eccezionali anche di pomeriggio. E così, di pomeriggio o anche di mattina (quando era malato o non c’era scuola), Andrea ha potuto assistere alla scena. Ci sono questi signori estranei (per lo più anziani) che si avvicendano nel corso di tre-quattro ore: suonano alla porta, la mamma in vestaglia li fa accomodare e si chiude in stanza con loro per una mezz’ora ciascuno…poi escono e se ne vanno. Andrea osserva di soppiatto, ascolta con il fiato sospeso. Lei giustifica il tutto dicendo che si tratta di signori che vengono a portare notizie del papà scomparso (Andrea sa che la mamma ha fatto pubblicare un annuncio sui giornali), ma non si tratta quasi mai di notizie liete. E tuttavia questi signori, impietositi dal caso, lasciano sempre qualche soldo perché possano sopravvivere, lui e la mamma, sicché Andrea deve accettarli e volergli bene, perché sono tanto buoni e senza di loro sarebbe la fine. Andrea ci crede. Tanto che un giorno insegue sul corridoio uno di questi signori, lo ferma e lo ringrazia, tendendogli la mano. Il signore lo guarda stupito negli occhi: in silenzio Andrea gli stringe la mano, poi scappa: il signore lo guarda ancora e se ne va. Andrea è un puro, ha gli occhi buoni e luminosi. Piuttosto piccolo per la sua età, esile, biondino. Timido e intelligente. Ha una fiducia illimitata nella madre; ma anche degli altri tende a fidarsi, a credere il meglio che può. A scuola i compagni sono violenti: lo sovrastano, lo picchiano, lo prendono in giro. Lui reagisce con il silenzio e la chiusura. Ogni sera, all’ora di cena, viene il portiere del palazzo: Oreste Batacchi. E’ un signore sui sessanta, una persona strana: ad Andrea non è mai piaciuto granché (il che è tutto dire). Ufficialmente viene a portare la posta. In realtà è il magnaccia della madre, e viene a prelevare la metà almeno degli incassi di giornata (è lui stesso che procaccia gli affari e smista i clienti dalla “consolle” della guardiola, mandandoli su). Spesso anche con lui la mamma si chiude in camera (è lui che la costringe: il padrone consuma gratis, per diritto). Ancora più spesso (ad esempio quando lei tenta di rifiutarsi) volano insulti e botte. Lei deve tacere e subire in silenzio, poiché lui non vuole vederla piangere (dice che le vuole bene e gli dispiace) o urlare (detesta gli isterismi delle donne). Non deve piangere neanche quando la picchia, altrimenti la picchia più forte. Così, lei ha imparato che è meglio cedere subito: inutile opporre resistenza. Lui usa ordini freddi, sottili, penetranti, inequivocabili: non ha mai bisogno di alzare la voce. La tormenta in silenzio. Lei è del tutto schiava, sia nel corpo che nella mente. Infatti sente di amarlo, nonostante tutto, e di non poterne fare a meno. Quando ha finito di insultarla, picchiarla e fotterla, Batacchi esce dalla camera come se niente fosse e passando, se per caso lo incontra sul tragitto fino alla porta di casa, si ferma a salutare Andrea (gli dà un buffetto o una carezza sui capelli), resta un attimo a guardarlo, poi silenzioso prende e se ne va. Da un po’ di tempo Batacchi ha messo gli occhi su Andrea per il “mestiere”. Sia per suo proprio uso personale (è anche pedofilo), sia come ulteriore servizio da offrire ai clienti. E ha già comunicato le proprie intenzioni alla madre: aspetta solo che il bambino sia maturo al punto giusto. La madre ovviamente non vuole, ma sa anche che per Andrea il destino è segnato.

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Un giorno Batacchi ferma Andrea mentre esce dal portone per andare a scuola. Gli parla con melliflua dolcezza, con affettuosa e desueta confidenza. Lo attira negli scantinati del palazzo con la scusa di mostrargli alcuni videogames. Poi, arrivati giù, davanti a un lurido materasso gettato per terra, Batacchi cala improvvisamente la maschera, afferra il bambino e comincia a spogliarlo con la forza. Andrea si divincola e riesce per miracolo a scappare. Batacchi lo rincorre come una belva feroce, ansimante di foia. Inseguimento fra tubi, condutture, caldaie, cunicoli. Andrea ce la fa a raggiungere l’androne e, quindi, il portone del palazzo. Esce e corre a perdifiato fino a scuola. Batacchi lo rincorre fino al portone, poi desiste, si ferma, si rassetta e torna tranquillamente in guardiola. Il giorno all’una, quando torna da scuola, Batacchi ferma Andrea (lo coglie alle spalle mentre aspetta l’ascensore) e lo minaccia dolcemente: se dirà qualcosa alla mamma, lui li scotennerà, entrambi. Il bambino, terrorizzato, obbedisce. Nel palazzo c’è un mito vivente: l’inquilino dell’ultimo piano: Annibale Supremi. E’ l’architetto che costruì il palazzo. Abita nell’appartamento superiore (tipo attico-mansarda), che si raggiunge alla fine di una ripidissima e stretta rampa di scale, oltre l’ascensore. Nessuno lo conosce bene, nessuno va a trovarlo. Non esce praticamente mai di casa. Che è ancora vivo lo si capisce dal suono di violino che talvolta si diffonde dolcemente dall’alto, proveniente dal suo appartamento. E’ una musica strana e affascinante che nessuno riesce a ricordare (eppure è da anni sempre la stessa). Hanno provato anche a registrarla, ma neppure su nastro attecchisce – resta solo il silenzio. Quasi tutti possono dire di averlo incontrato, almeno una volta; ma si tratta di racconti nebulosi, che sconfinano nella leggenda. Testimonianze immaginarie. Di sicuro si sa che è vecchio, vecchissimo forse. Si dice che, si dice che…Il Supremi è oggetto di maldicenze (messe in giro principalmente dal Batacchi, che lo odia) ed è usato come facile capro espiatorio per tutto quello che non va. Lo accusano di portare jella. I giorni che Supremi “suona” sono da tutti considerati infausti, peggio del famigerato “venerdì 17”. Quando si sente quella musica tutti si toccano, mormorando i più efficaci scongiuri. Insomma: Annibale Supremi è un mistero fastidioso solo a pensarci. Incombe sulla testa di tutti, incancellabile. Hanno più volte tentato di cacciarlo (Batacchi in testa), ma non si può…perché pare che, senza Supremi, il palazzo crollerebbe subito: è una delle tante leggende, forse, ma meglio non rischiare. Le mamme del palazzo e del quartiere lo usano come babau per spaventare i bambini disobbedienti. Anche Andrea è cresciuto con il tabù di Supremi. Una mattina sente il suono del violino mentre sta per chiudere la porta di casa. Era un bel po’ che non si sentiva più: la gente cominciava a crederlo morto. Andrea resta fermo sul pianerottolo, ad ascoltare. Deve sbrigarsi, o farà tardi a scuola. Ma, invece di scendere, Andrea sale quelle scale, una rampa dopo l’altra, zaino in spalla, seguendo la traccia della musica, come in trance. Ecco, l’ultima rampa, il limite invalicabile: la terra di nessuno dove nessuno (neanche gli adulti) ha il coraggio di avventurarsi. Ecco, la fonte della musica che si avvicina, e la musica stessa che cambia (è una e mille insieme, la stessa ma diversa), man mano si avvicina. Chiunque, al suo posto, a questo punto urlerebbe, pazzo di terrore. Andrea no: è calmo e sereno come non mai. C’è un richiamo d’amore in quel suono, un invito di comprensione assoluta. Ecco, ormai è davanti alla porta…La porta si apre e…appare Supremi. Andrea si scuote e fa per scappare, ma il vecchio lo chiama per nome (come fa a conoscerlo?) e lo blocca con la forza magnetica della voce. Ha uno sguardo che non si può dimenticare, pieno di luce e di amore. Gli parla con indicibile dolcezza. Comincia un rapporto di amicizia: sono entrambi due diversi, due emarginati. Quando può, di nascosto da tutti, Andrea va su a trovarlo. E scopre che non c’è niente di vero in ciò che si dice del vecchio. Supremi vive nella solitudine e nella semplicità. Odora di buono, di luce e di pulito. Non fa male a nessuno e non porta affatto jella, anzi: comunica forza positiva, spirito di pace. Eremita di città sulla cima di un palazzo, vive di niente, parla da solo allo specchio, all’aria e al vuoto, al silenzio e al cielo…agli uccelli delle grondaie, alle nuvole che passano, forse agli angeli (angelo lui stesso). Ogni tanto suona il violino, ogni volta che è triste e ha voglia di piangere.

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Supremi sa tutto di tutti, anche di Andrea, anche della madre e di Batacchi. Andrea si lascia cullare dalla voce carezzevole del vecchio che gli racconta storie e lo delizia con ombre magiche di misteri e di ricordi, cose “infinite”. Giocano e ridono insieme. Come nonno e nipote. Un giorno Supremi gli svela il segreto dell’ascensore. Scendono l’ultima rampa, chiamano l’ascensore all’ultimo piano ed entrano. Quindi Supremi spinge tutti i bottoni del quadro comandi, uno dopo l’altro: l’ascensore si muove e poi si ferma, e si aprono le porte su posti sconosciuti, fuori del palazzo! Mondi lontani o fantastici, altre dimensioni. Paesi di amore e giustizia, dove non esiste egoismo odio e sofferenza, dove la gente è felice perché vive per fare il bene degli altri. Il vecchio e il bambino escono a passeggiare, e tutti li amano e li accolgono per quello che sono…Ad es.: in riva al mare: tac! Compare all’improvviso l’ascensore, ed escono Supremi e Andrea. Dopo queste escursioni rientrano puntualmente nell’ascensore, e quindi nel palazzo. Andrea non svela a nessuno i suoi segreti. Eppure Batacchi sa che Andrea va a trovare Supremi, sa della loro amicizia, delle loro passeggiate. Batacchi minaccia Andrea, ordinandogli di non vedere più Supremi, e racconta alla madre che il figlio si incontra col vecchio: farà bene a proibirglielo e a sorvegliare l’obbedienza del piccolo, altrimenti… La madre è indignata, sgrida e punisce Andrea. Lo chiude in camera sottochiave: unica uscita consentita, la mattina per recarsi a scuola (e sarà Batacchi ad aspettarlo davanti al portone e ad accompagnarlo fin sulla porta di casa, al rientro). Andrea cerca di difendere Supremi, invano: è costretto a disertare le visite per un certo periodo. Gli dispiace soprattutto per la brusca e immotivata interruzione: vorrebbe tanto fargli sapere che non è colpa sua se non va più a trovarlo. Ma un giorno Andrea riesce a eludere il controllo della madre: provando e riprovando una serie di chiavi, apre finalmente la porta della camera, esce di soppiatto da casa, chiama l’ascensore e sale all’ultimo piano per andare da Supremi. La porta dell’ascensore si apre e…c’è Batacchi ghignante che lo aspetta. Andrea riesce a chiudere in fretta e a spingere il bottone di un piano inferiore. Ma dopo qualche istante l’ascensore si ferma: è Batacchi che ha tolto la corrente. Poi l’ascensore ricomincia a salire, a strattoni: è Batacchi che tira la carrucola con il comando manuale, dalla cabina posta sopra la tromba dell’ascensore, a metà delle scale che portano da Supremi. Quando è arrivato alla fine (e quindi l’ascensore è di nuovo all’ultimo piano), Batacchi blocca il meccanismo e si precipita giù ad aprire la porta esterna, da lui chiusa a chiave per impedire la fuga ad Andrea. Il quale urla terrorizzato, invocando l’aiuto di Supremi. Ma, proprio mentre Batacchi sta per raggiungerlo, l’ascensore si sblocca, sale ancora un po’, si ferma e si apre al centro del salotto di Supremi. Supremi non c’è. Sta scendendo le scale che portano all’ultimo piano. Batacchi è già davanti alla porta. Sogghigna e freme. Apre con la chiave e trova il vuoto, anziché l’ascensore. Alle sue spalle Supremi. Batacchi si ferma stupefatto, fa per voltarsi ma Supremi, solenne, gli dà una spinta… e Batacchi precipita nel vuoto, con un grido gorgogliante e soffocato. Nel salotto l’ascensore, Supremi e Andrea abbracciati. Supremi rassicura Andrea, ancora ansimante per lo spavento. Batacchi lo crediamo morto, ma l’indomani mattina lo vediamo tranquillamente al suo posto in guardiola, come nulla fosse. Osserva ghignando e ammiccando Andrea, mentre passa per andare a scuola. Poi sale da Supremi e gli bussa alla porta. Colloquio gelido, dichiarazione d’intenti, contrasto sottile e pieno di tensione. Capiamo che in realtà ciascuno dei due sa benissimo chi è l’altro. Batacchi minaccia Supremi (“Il bambino è mio, appartiene a me, come la madre. Lascialo perdere.”) e lo sbeffeggia, maligno e farneticante. Supremi respinge con calma i suoi attacchi. Andrea continua le sue visite clandestine. Nel frattempo parla di Supremi alla madre con parole illuminate, parole di speranza che le toccano il cuore e la convincono a concedere il suo assenso, nonostante il peso della “leggenda” e il divieto di Batacchi. Andrea abbraccia la madre, ringraziandola. Allora Batacchi cambia “tattica”: consiglia lui stesso ad Andrea di andare a trovare Supremi e, anzi, di estendere l’invito agli altri bambini del palazzo. Batacchi stesso si fa promotore dell’iniziativa (ferma i bambini al portone e li manda in guardiola, uno dopo l’altro, a parlare con

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Andrea). Andrea è al settimo cielo: crede davvero che Batacchi sia cambiato...che anche lui l’abbia capito, finalmente, che da Supremi non c’è proprio nulla da temere, anzi…Andrea, tutto infervorato, racconta la propria straordinaria esperienza: ha visto e conosciuto Supremi! Sì, ed è possibile andarlo a trovare: tutti insieme, domani sera! Le reazioni si succedono puntuali: prima incredulità, poi curiosità insaziabile (come è, come non è…Andrea, ovviamente, ne parla in termini entusiastici), infine paura ed eccitazione. Andrea si fa giurare da ogni bambino il silenzio assoluto con i genitori, altrimenti tutto va a monte. L’appuntamento è per la sera dell’indomani, dopo cena, davanti alla guardiola. Ognuno cerchi di disimpegnarsi come può; al limite, venga di nascosto. La sera del giorno dopo. Si presenta un gruppetto di dieci bambini. Capitanati da Andrea e accompagnati da Batacchi, salgono all’ultimo piano e poi le scale che portano da Supremi. Giunto all’ultimo piano, Batacchi li lascia sfilare; poi fa finta di seguirli fin da Supremi, ma in realtà scende a suonare a tutti gli inquilini, piano per piano, appartamento per appartamento. Annuncia che per Supremi è suonata l’ora della fine: quel maniaco ha osato invitare i bambini del palazzo, e molti di loro (molti dei loro figli) si trovano ora a casa sua, oggetti della sua libidine. Finalmente si è tradito! E’ un pedofilo, e va cacciato dal palazzo: a tutti i costi! (quello della pedofilia è uno degli argomenti “storici” usati da Batacchi contro Supremi, nella sua continua opera di diffamazione). I genitori urlano di rabbia, combattuti fra l’impulso di andare su a linciare Supremi e l’orrore metafisico di compiere il gesto: succede il pandemonio. Tutti si affacciano alla ringhiera delle scale e, aizzati da Batacchi, cominciano a percuoterla ritmicamente, lanciando accuse e minacce contro Supremi. Si leva un coro progrediente e davvero poderoso, nel rimbombo delle scale. Invano la madre di Andrea cerca di fermarli. Appare finalmente Supremi dalla ringhiera dell’ultimo piano. Silenzio improvviso. Supremi li guarda dall’alto vertiginoso scorcio prospettico. Poi allarga le braccia e…scompare, si smaterializza sotto i loro occhi. I bambini sgusciano dalla casa di Supremi e tornano sorridenti dai genitori, che li abbracciano isterici. Si sente il suono del violino. Incoraggiati e guidati da Batacchi, un manipolo di padri decide di salire a massacrare Supremi. Sfondano la porta (il suono tace) e…trovano Supremi, morto, su una sedia a dondolo in movimento. Batacchi organizza il funerale come una gran festa barocca e pantagruelica, che si trascina a notte intera, fino all’indomani. Risate oscene, osanna di liberazione, cibo e vino a monti e fiumi. Il corpo di Supremi viene gettato nella spazzatura. Grande applauso quando, la mattina, il camion della nettezza urbana carica e poi svuota al proprio interno il cassonetto (i netturbini non capiscono e guardano stupiti). Andrea e i bambini del palazzo che l’hanno conosciuto sono gli unici a piangere. La madre è furente contro Batacchi, sente ormai di odiarlo. Ha il grosso rimpianto di non aver fatto in tempo a conoscere Supremi. Andrea comincia a ricevere messaggi e segni da Supremi. Gli parla dentro, lo invita a raggiungerlo con l’ascensore, come quando ci viaggiavano insieme. Mica è così facile, però: Supremi spingeva tutti i bottoni del quadro comandi (questo Andrea lo ricorda), ma pronunciava anche delle frasi (forse formule magiche) che Andrea non conosce. Sicché chiede aiuto a Supremi; ma questi gli “trasmette” che non può: dovrà farcela da solo. Andrea comincia a provare. Schiaccia i bottoni, si concentra…l’ascensore si apre sul vuoto oscuro e stellato dell’universo, che lo attrae come una forza irresistibile. Andrea riesce a chiudere la porta. Riprova, e…stavolta l’ascensore si apre sulla faccia sfigurata e ansimante di Batacchi, che sta lì, sul limite del piano…vorrebbe afferrare Andrea, ma non può: un’invisibile barriera gl’impedisce di varcare la soglia della cabina. Batacchi supplica Andrea di smetterla, lo scongiura di uscire dall’ascensore. Andrea lo guarda senza paura, sorride e chiude la porta (urlo atroce di Batacchi). Andrea prova per la terza volta e…l’ascensore si apre sul mondo di Supremi. In quel preciso istante il palazzo crolla. Andrea vede Supremi e si precipita ad abbracciarlo. Dalle macerie fumanti escono, affatto illesi, la madre e gli altri bambini. La madre vede finalmente Supremi e…riconosce che è il marito. Supremi annuisce: sapeva tutto. E dunque…è anche il padre di Andrea. Si ricostituisce l’antica famiglia. E gli altri bambini? Adottati come figli, insieme ad Andrea.

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LA LAMPADA INTERIORE Bologna, 2004. Rubens Marelli, bolognese trentenne, laureato in Lettere ed ex obiettore di coscienza. Vive con la nonna Ester, simpatica e arzilla bolognese di novant’anni, a casa di lei che, praticamente, lo mantiene con la sua pensione. E’ molto legato alla nonna: si fanno compagnia. Rubens vive una vita inconcludente di sogni e “astratti furori”, di vaghe aspirazioni, di impulsi velleitari e fuochi di paglia, entusiasmi che si accendono all’improvviso e, altrettanto rapidamente, si spengono in cenere. Passa le giornate a leggere romanzi di genere “Fantasy” e a vedere film col videotape. La sera, talvolta, un’uscita economica con qualche amico “sfigato” come lui, a lamentarsi e piangersi addosso, rigirando il coltello nella piaga. Con le ragazze poche, anzi rarissime, avventure (si sente “spiantato” e non si dà coraggio, non ci prova). E’ stufo di illudersi, di raccontarsi storie. Si sente ancorato al muro di un vicolo cieco, senza prospettive. La vita gli sta passando davanti come un treno che non si ferma: l’ultimo, l’unico. Dovrebbe in teoria cercarsi un lavoro, ma è stanco di farlo, di girare a vuoto come i pedali di una bicicletta senza catena. Il lavoro scarseggia e, comunque, non si trova adeguato a ciò che uno è, o è diventato…Francamente non gli va di rinnegare il proprio percorso, di ritrovarsi a fare ciò che poteva già da diplomato: a che, altrimenti, tanto sudore e sacrificio per una laurea che è pur sempre una laurea, anche se ci fai ben poco? I concorsi – peraltro - sono già assegnati, e tutto, si sa, procede per conoscenza. Lui è un piccolo borghese senza agganci. La nonna lo sostiene e lo incoraggia, ma soprattutto lo compatisce, gli dice le parole che lui vuole sentirsi dire per stare con la coscienza a posto (che è sfortunato, che è una vittima dei tempi, ecc.)…anche per questo lui le vuole bene, e guai a chi gliela tocca! La sua situazione è disperante, per limiti di età, ma certamente ci mette del suo. Poiché infatti, nonostante la sua fragile posizione (da bolla di sapone sul punto di scoppiare), Rubens si permette di assumere pose da idealista anarcoide. Giudica il lavoro, per come è concepito e organizzato, come una sorta di schiavitù mascherata. La società ti impone desideri, e quindi bisogni, e quindi consumi: concepiti tutti a tavolino, per fini economici; così, per poterli soddisfare, sei costretto a massacrarti di lavoro, occupando tutta la giornata: basterebbe invece vivere di poco, eliminando l’effimero, il superfluo, per migliorare la qualità della propria vita, dedicando più tempo a se stessi, al nutrimento dello spirito che, altrimenti, finisce per svilirsi e poi morire. E’ un po’ il paradosso di uno che usa la macchina per andare a lavorare, ma lavora per mantenere la macchina che usa: non farebbe meglio a restare a casa, dedicandosi a cose più importanti? La gente a stento “sopravvive”,

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ed esiste, più che vivere: macerata, umiliata, devitalizzata, passata al tritacarne. Il lavoro non nobilita l’uomo, anzi: lo nullifica, riducendo lo spirito (immortale) alla spoglia mortale del corpo. Il lavoro mercifica e compra il tuo tempo, ovvero: tutto quel che sei. E lo vuole tutto: per renderti innocuo, per non darti modo di pensare o fare altro. Il lavoro ti succhia energia: spegne quella che Rubens chiama la “lampada interiore”, cioè lo spirito, la sorgente creativa e universale dell’individuo. Si passa, come le nuvole in cielo. Non devi rompere i coglioni più di tanto: sei un “x” di poco conto, un ingranaggio dentro un meccanismo disumano: che cosa pretendi? Che cosa vorresti fare? Forse cambiare il mondo (non sia mai)? Dopo l’ennesima “giornata nera”, Rubens sta seriamente meditando di andar via, di darci un taglio, di rompere i ponti con tutto: Guatemala, Cuba, Martinica…o ancora più lontano, qualche sperduto atollo della Micronesia…vita semplice, essenziale, genuina, ancora a contatto con la natura vergine e ancestrale, con il cuore più profondo delle cose… Al telegiornale, nel corso di un approfondimento, si parla di un’interrogazione parlamentare sullo stato in cui versano i malati di mente privi di famiglia dopo che i manicomi, uno dopo l’altro, vengono dismessi - ai sensi della legge. Segue un servizio su una struttura residenziale di Roma, che proprio il giorno prima ha chiuso i battenti. E’ proprio quella dove Rubens ha svolto il servizio civile, tre anni prima! Un’esperienza straordinaria, che gli ha lasciato un segno indelebile nel cuore e ha contribuito a rafforzare certe idee, a renderlo così come, nonostante tutto, è orgoglioso di essere oggi. Ah, quanti ricordi! E quanti affetti! Loro, i pazzi, sì, gli idioti, i puri… Paolone, Osvaldo, Alvarello… e Picchi, Beppo, Ghigo… e Zoe, Elide, Adelia… Eccola, l’occasione giusta per tornare a dare un senso alle giornate, a respirare, a vivere di nuovo! Rubens decide all’istante di andare alla ricerca dei suoi amici. L’unico problema è la nonna (non vuole lasciarla sola); ma lei gli dice che non deve preoccuparsi (chiamerà la Maurilia, la tata degli Adani) e, anzi, tira fuori un bella sommetta per il viaggio e le spese di soggiorno… Rubens (abbracciandola): “Nonna sei un mito!”. Ester (sorridendo): “Piano, piano, che mi fai male”… Roma. Alla struttura non sanno più nulla. Rubens non trova nessuno di quelli che ricordava e conosceva: ci sono solo due custodi sgarbati che lo liquidano con un lapidario “Dopodomani qui si chiude tutto, e amen”. Carabinieri, Polizia, Ospedali: dei malati di mente si son perse le tracce. Ma Rubens non si scoraggia: sa dove cercarli perché ricorda cosa piaceva a ognuno di loro. E così, infatti, li trova: uno dopo l’altro. Grande gioia, amore palpitante e commozione. Li raccoglie e li porta con sé, come il Pifferaio di Hamelin. Sono in tutto dodici, più lui. Decide di occupare un casale abbandonato, in una zona periferica di campagna. Compra secchi di vernice e lascia che siano i suoi amici a dipingere, con le mani, le pareti della costruzione. Entusiasmo, amabili schiamazzi. Rubens stesso scrive “La lampada interiore” sulla facciata. Decidono tutti insieme di istituire un aeroporto di voli immaginari. E’ un luogo di libera fantasia, dove tutto può accadere. I matti agitano le bandierine, spostano le scalette, accompagnano i viaggiatori dopo che l’aereo è atterrato o poco prima che decolli (tutto invisibile, naturalmente). Rubens rimedia una trentina di sedie e le sistema nello spiazzo antistante il casale, tipo cinema all’aperto. Le file di sedie corrispondono alle poltrone di un aereo. Provano un “volo collettivo”. Rubens fa stampare e distribuire dei volantini, per richiamare la gente dai quartieri vicini. La prima volta è un fiasco: viene solo un signore. I matti improvvisano uno spettacolo poetico, naif, commovente. Si sparge pian piano la voce, cominciano ad affluire numerosi, diventa una moda. Anche professionisti in giacca e cravatta: è un’occasione per staccare, per liberarsi dalle tossine del lavoro. Si torna rigenerati. Fioccano le offerte, libere. Fino a tre spettacoli al giorno (di cui uno in corrispondenza con la pausa pranzo), e la domenica fiera-mercatino con gli oggetti creati e i quadri dipinti durante la settimana.

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Ma tutto crolla, repentinamente. Rubens, telefonando a casa, viene a sapere che la nonna è morta (l’aveva sentita appena il giorno prima)…Quella sera i matti lo fanno singhiozzare, perché – in lacrime loro stessi - dedicano lo spettacolo a “nonna Ester”. Poi d’improvviso irrompono le forze dell’ordine e fanno sgombrare. Rubens viene incriminato per occupazione abusiva, evasione fiscale e abuso di professione. Non può neanche andare ai funerali della nonna. Scoppia un vero e proprio scandalo, anche perché fra gli spettatori vengono riconosciuti (e fotografati da paparazzi, prontamente avvertiti e accorsi) alcuni politici influenti, in compagnia di prostitute e viados. Gli si rovescia tutto contro, gli casca il mondo addosso: Rubens finisce in carcere. Dalle sbarre di Regina Coeli vede, con gli occhi umidi, gli aquiloni colorati che, per salutarlo e farsi sentir vicini, reggono da fuori i suoi amici. Una giovane giornalista, di nome Giulia, si interessa al caso e riesce a farlo riaprire. Lo va a trovare in carcere. E’ carina, intelligente, affascinante. Nasce un’amicizia che poi sfocia in amore. Nel frattempo il caso di Rubens, sostenuto dalle famiglie dei malati di mente, monta d’interesse pubblico e domina le pagine dell’attualità. Si organizzano dibattiti, conferenze, manifestazioni. Il simbolo scelto dalla gente è quello di un gabbiano che vola remigando: centinaia di persone che, nelle piazze di tutta Italia, muovono le braccia a mo’ di ali… Segue, ovviamente, la strumentalizzazione politica: nasce addirittura il “Partito umanista del gabbiano”. Rubens viene scarcerato, infine, e si sposa con Giulia, fra il tripudio della gente e dei suoi amici.