LAMPADA AI MIEI PASSI È LA TUA PAROLA · ad una prima veloce lettura è che non c’è un filo...

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1 LAMPADA AI MIEI PASSI È LA TUA PAROLA SALMO 119 Una preghiera meccanica e noiosa? La preghiera tra monotonia inevitabile e sorprese imprevedibili Questo salmo subito ci colpisce per la sua estensione: è il più lungo del salterio, 179 interminabili versetti, tali da scoraggiare qualsiasi tentativo di impararlo a memoria! La seconda osservazione ad una prima veloce lettura è che non c’è un filo logico che determini la sequenza di un pensiero, ma un (o alcuni, pochi) unico oggetto della riflessione che viene costantemente ripetuto. Come se il pensiero girasse attorno ad un unico tema nella forma della ripetizione. Anche questo può enfatizzare il senso di monotonia che sicuramente il salmo suscita ad un primo approccio. Ma fermiamoci subito su questi aspetti: una preghiera monotona, ripetitiva, che rischia per questo di essere meccanica e noiosa. Non sono forse queste le componenti inevitabili di ogni preghiera? Se usciamo da una retorica enfatica sulla preghiera e la guardiamo nella sua pratica concreta, la “nostra” reale preghiera non è forse ripetitiva e non ha qualcosa di monotono? La ripetitività è uno degli aspetti che più temiamo della preghiera, perché la associamo ad un gesto meccanico, fatto senza sentimenti, arido e, per questo, privo di significato. Non è detto che sia necessariamente così; la ripetizione ha infatti anche un senso positivo: ripetiamo ciò che non finisce mai di rivelare nuovi misteri, come un amante ripete le sue parole d’amore, quasi a coglierne e farne udire nuove sfumature prima non ancora comprese. Non solo: la ripetizione ha la forza di imprimere – come gocce d’acqua che scavano la roccia nello scorrere infinito del tempo – nel cuore quello che la bocca dice. Certamente la ripetitività di alcune preghiere (pensiamo al nostro rosario, o alla stessa messa che nelle sue parti fisse non fa che ripetersi) ci espone al rischio di un gesto che diventa meccanico, ovvero fatto senza consapevolezza e senza sentimento: la bocca ripete, ma il cuore e la mente vanno altrove. Eppure non è detto che accada esattamente il contrario: proprio le parole che la bocca ripete, si imprimono nella mente e vanno al cuore, si depositano nel profondo, rimangono impresse. Proprio perché sono parole che conosciamo “a memoria”, le energie migliori della preghiera sono spese per “accordarci” (dire con tutto il cuore) interamente a quelle preghiere, per esserci in esse interamente. Ed anche sulla noia forse dobbiamo rivedere il nostro giudizio. Da una parte il sentimento di monotonia arida è data spesso dal fatto che manca in noi una certa “vivacità” del cuore e della mente, per cui effettivamente nella preghiera non facciamo che ripetere sempre le stesse cose. Questo non accade solo quando utilizziamo le preghiere antiche, ma forse ancor di più quando proviamo a esprimere la preghiera con parole nostre. Le nostre parole sono poche, ripetitive e prive di profondità, come la nostra vita che in certi periodi gira sempre attorno a quelle “quattro cose” che non fanno che ripetersi. Forse noi ci annoiamo nella preghiera, ma pensate a quanto debba annoiarsi Dio nell’ascoltarla! Quante volte lo “stufiamo” con le stesse cose! Eppure non si stanca – Dio – perché sa che dentro le cose di sempre c’è forse qualcosa di così profondo da poter essere ogni volta ripreso. Da ultimo un’ osservazione sulla lunghezza della preghiera. Saggiamente i padri del deserto dicevano che è meglio non dilungarsi nella preghiera, perché non reggiamo. Meglio preghiere brevi e ripetute. Così scrive Agostino: è meglio servirsi «di preghiere, ripetute frequentemente, che, tuttavia, sono estremamente concise e (per così dire) lanciate velocemente come giavellotti (quodam modo iaculatus), affinché quella vigile attenzione che si è creata e che è sommamente necessaria per chi prega, non svanisca o non si smussi attraverso lassi di tempo troppo lunghi». (Epistola 130, lettera a Proba, 10.20). Sembrerebbe che questo salmo contraddica l’indicazione,

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LAMPADA AI MIEI PASSI È LA TUA PAROLA SALMO 119

Una preghiera meccanica e noiosa? La preghiera tra monotonia inevitabile e sorprese imprevedibili Questo salmo subito ci colpisce per la sua estensione: è il più lungo del salterio, 179 interminabili versetti, tali da scoraggiare qualsiasi tentativo di impararlo a memoria! La seconda osservazione ad una prima veloce lettura è che non c’è un filo logico che determini la sequenza di un pensiero, ma un (o alcuni, pochi) unico oggetto della riflessione che viene costantemente ripetuto. Come se il pensiero girasse attorno ad un unico tema nella forma della ripetizione. Anche questo può enfatizzare il senso di monotonia che sicuramente il salmo suscita ad un primo approccio. Ma fermiamoci subito su questi aspetti: una preghiera monotona, ripetitiva, che rischia per questo di essere meccanica e noiosa. Non sono forse queste le componenti inevitabili di ogni preghiera? Se usciamo da una retorica enfatica sulla preghiera e la guardiamo nella sua pratica concreta, la “nostra” reale preghiera non è forse ripetitiva e non ha qualcosa di monotono? La ripetitività è uno degli aspetti che più temiamo della preghiera, perché la associamo ad un gesto meccanico, fatto senza sentimenti, arido e, per questo, privo di significato. Non è detto che sia necessariamente così; la ripetizione ha infatti anche un senso positivo: ripetiamo ciò che non finisce mai di rivelare nuovi misteri, come un amante ripete le sue parole d’amore, quasi a coglierne e farne udire nuove sfumature prima non ancora comprese. Non solo: la ripetizione ha la forza di imprimere – come gocce d’acqua che scavano la roccia nello scorrere infinito del tempo – nel cuore quello che la bocca dice. Certamente la ripetitività di alcune preghiere (pensiamo al nostro rosario, o alla stessa messa che nelle sue parti fisse non fa che ripetersi) ci espone al rischio di un gesto che diventa meccanico, ovvero fatto senza consapevolezza e senza sentimento: la bocca ripete, ma il cuore e la mente vanno altrove. Eppure non è detto che accada esattamente il contrario: proprio le parole che la bocca ripete, si imprimono nella mente e vanno al cuore, si depositano nel profondo, rimangono impresse. Proprio perché sono parole che conosciamo “a memoria”, le energie migliori della preghiera sono spese per “accordarci” (dire con tutto il cuore) interamente a quelle preghiere, per esserci in esse interamente. Ed anche sulla noia forse dobbiamo rivedere il nostro giudizio. Da una parte il sentimento di monotonia arida è data spesso dal fatto che manca in noi una certa “vivacità” del cuore e della mente, per cui effettivamente nella preghiera non facciamo che ripetere sempre le stesse cose. Questo non accade solo quando utilizziamo le preghiere antiche, ma forse ancor di più quando proviamo a esprimere la preghiera con parole nostre. Le nostre parole sono poche, ripetitive e prive di profondità, come la nostra vita che in certi periodi gira sempre attorno a quelle “quattro cose” che non fanno che ripetersi. Forse noi ci annoiamo nella preghiera, ma pensate a quanto debba annoiarsi Dio nell’ascoltarla! Quante volte lo “stufiamo” con le stesse cose! Eppure non si stanca – Dio – perché sa che dentro le cose di sempre c’è forse qualcosa di così profondo da poter essere ogni volta ripreso. Da ultimo un’ osservazione sulla lunghezza della preghiera. Saggiamente i padri del deserto dicevano che è meglio non dilungarsi nella preghiera, perché non reggiamo. Meglio preghiere brevi e ripetute. Così scrive Agostino: è meglio servirsi «di preghiere, ripetute frequentemente, che, tuttavia, sono estremamente concise e (per così dire) lanciate velocemente come giavellotti (quodam modo iaculatus), affinché quella vigile attenzione che si è creata e che è sommamente necessaria per chi prega, non svanisca o non si smussi attraverso lassi di tempo troppo lunghi». (Epistola 130, lettera a Proba, 10.20). Sembrerebbe che questo salmo contraddica l’indicazione,

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così come la nostra abitudine a riempire la preghiera di troppe parole. O forse no. Forse il nostro salmo è proprio una miniera di brevi e folgoranti intuizioni, di formulazioni concise che sorprendono e si prestano esattamente per imparare a pregare con brevi frasi ripetute. Troviamo queste folgoranti intuizioni quasi sospese nel corso di un fiume di parole, di un incessante movimento della bocca e del cuore. Proprio per il fatto che non segue un percorso logico, il nostro salmo permette di lasciare che il cuore si soffermi su una sola frase e, quasi rapito da essa, si trovi a tralasciare le altre, per ripeterla riponendola nell’animo. Lo stile: la struttura acrostica e alfabetica Una parola è utile sullo stile, la retorica che questa preghiera utilizza. Il procedimento è musicale e reiterativo. Lo stile del salmo è condizionato dall’acrostico alfabetico. Ogni strofa inizia con una delle 22 lettere dell’alfabeto ebraico e tutte le prime parole degli otto distici di ogni strofa riprendono la medesima lettera. Questo procedimento d tecnologia lessicale risulta un poco «massacrante» (Ravasi) e un po’ folle (Beaushamp) perché non necessario, oscurando talvolta il senso e sprecando risorse di tempo e di acribia. Il secondo elemento stilistico è l’utilizzo in ogni strofa di un ottonario lessicale che illumina tutti gli ottonari alfabetici. Il salmista ripetutamente utilizza otto termini che gravitano attorno al tema della Torah. Sono: Torah (legge, ma anche Parola di Dio con allusione ai primi cinque libri del pentateuco), Dabar (parola, che ricorre 22 volte), edut (testimonianza, istruzione), Mispa (giudizio, dirittto), imrah (detto, oracolo, promessa), Hoq (decreto), Piqqudim (precetti, volontà, norme) e Miswah (comando). In alcune strofe sono utilizzati anche più di otto sinonimi, mentre in altre sembra mancarne uno (come nel v 3 e 37), ma è sostituito dal termine via o un termine analogo dell’alleanza. Il procedimento stilistico, proprio per queste ragioni, risulta macchinoso e artificioso. Questo appesantisce di molto l’utilizzo del salmo nella preghiera, soprattutto se si vuole seguirne un possibile filo logico. Perché usare un stile di questo tipo? Qualcuno attribuisce al procedimento acrostico e alfabetico un utilizzo mnemonico. Se questo può essere vero per alcuni salmi (come i salmi 111 e 112 che comprimono l’alfabeto in undici versi e 22 emistichi), difficilmente vale per il nostro che, nella sua lunghezza, rende particolarmente difficile l’apprendimento mnemonico. Piuttosto il nostro sembra un esercizio letterario, una prova di bravura e di tecnica compositiva, che però non è privo di intuizioni e di momenti di acuti slanci. E’ appunto come le nostre normali preghiere che, mentre scorrono monotone come esercizi di allenamento tecnico, possono custodire momenti d’improvvise quanto straordinarie folgorazioni. Qualcuno suggerisce che la composizione sia ad opera non tanto di un individuo, ma di un gruppo: «perché dobbiamo pensare ad un unico autore? Supponiamo che si siano riuniti 22 maestri e ad ognuno tocchi comporre una strofa, sul tema della legge ad alta voce. L’esercizio non esige altra unità, la giustapposizione successiva rimpiazza la composizione. Oppure, dal momento che immaginiamo, supponiamo siano otto maestri e ognuno debba contribuire con un verso per strofa. Sono supposizioni che non pretendono di indovinare quanto è accaduto, ma vogliono mostrare l’estrinsecità dell’esercizio, il suo carattere di gioco letterario o linguistico» (Shokel). Un gioco linguistico quindi, ma potrebbe non essere in senso dispregiativo. Non è forse la preghiera un’ inutile (nel senso anti-efficiente del termine) perdita di tempo, un tempo del tutto gratuito e non funzionale a nulla? Ed ancora: un gioco e un esercizio che richiamino il mondo musicale. «Il salmo si può paragonare a un tema con variazioni, ha somiglianza con un basso

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ostinato, assomiglia soprattutto a esercizi di scale e arpeggi» (Scokel). E proprio come gli esercizi musicali, ha una buona dose di monotonia e noiosità, certo, ma è condizione necessaria perché la mano s’impratichisca dello strumento e poi possa accadere che, con leggerezza e naturalezza sorprendenti, anche solo la sequenza di tre semplici note possa dare forma ad un componimento straordinario. Qui, nel mondo della musica come nell’arte e nella vita, rigore e spontaneità non sono estranei l’uno all’altra. La preghiera conosce così una monotonia inevitabile e delle sorprese imprevedibili. L’una non senza l’altra. Il genere letterario Il salmo si presenta anzitutto come una meditazione sapienziale. La Torah/Parola è guida alla vita, insegnamento, via per la vera sapienza e il fedele non fa che “meditare giorno e notte” (Sal 1,2). La preghiera ha qui la forma della meditazione, dove ci si esercita a discernere nelle diverse dimensioni della vita, la via che la Torah/Parola indica e mostra. La sapienza nasce da questo movimento che familiarizza sempre più – per ripetizione ed esercitazione continua – con la sorgente della sapienza che è la Parola. Più la parli e più diventa il tuo mondo, più la mastichi e più dà forma ai tuoi pensieri. La pratica della legge e della Parola (pratica nel senso sia di frequentazione, conoscenza, studio, sia di messa in opera) rende saggio il credente. Ma dentro questo esercizio sapienziale, se ascoltiamo attentamente il salmo, scopriamo presente un'altra forma di preghiera che ci fa cogliere come questo esercizio non sia del tutto facile e spontaneo, ma debba fare i conti con una serie di ostacoli e di nemici. Così il salmo è anche un grande lamento e una pressante invocazione. L’esperienza del salmista è quella di chi, proprio perché pratica la via della legge, deve fare i conti con una serie di persecuzioni e di minacce: “Spogliami della vergogna e del disprezzo perché ho osservato i tuoi insegnamenti” (v24). Eppure egli è certo che il Signore è dalla sua parte e non verrà meno il suo aiuto, anzi, in qualche modo lo reclama come dovuto, lo esige come chi è certo del suo intervento. La certezza che lo anima è quella classica della sapienza: chi segue la legge è beato, troverà vita; chi segue la via della menzogna raccoglierà tempesta. È proprio così? Non manca nella riflessione sapienziale chi si scontrerà proprio con la contraddizione che la vita sembra opporre a questa certezza. A volte sembra che seguire la via dei comandi non porti ad una vita migliore, ma a una condizione di miseria che suscita solo l’irrisione dei potenti che invece se la godono proprio perché non seguono quella via. E allora? Allora il salmo non risponde con argomentazioni a questa contraddizione (che rimane), ma piuttosto non fa che riaffermare un principio “affettivo”, una certezza che sfida le evidenze immediate e che semplicemente si consegna nelle mani della Parola, senza sicurezze frutto di prove. Anche per questo la ripetizione è necessaria. Come nel caso di una dichiarazione d’amore: nessuna prova basterebbe e per questo l’amante non fa che ripetere la propria dichiarazione perché essa resista alla prova del tempo e della distanza. Qualcuno ha chiamato il nostro salmo alfabeto della preghiera. Tra meditazione, invocazione, lode e rendimento di grazia, qui troviamo tutte le sfumature della preghiera. «Questa summa dell’arte della preghiera insegna che il testo-base di ogni meditazione e preghiera è la Parola di Dio, la Torah, la Bibbia» (Ravasi). Nella Scrittura Dio stesso ci istruisce, mette le sue parole sulla nostra bocca, dona luce nei momenti oscuri, corrisponde alla promessa di essere al nostro fianco sempre: l’unica condizione è che noi gli prestiamo un ascolto totale e coinvolgente, di tutto cuore.

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La devozione alla Thorà (Legge/Parola) Veniamo infine al “tema” di questa meditazione, all’oggetto della contemplazione. Tutto ruota attorno ad un centro, che è chiaro e insieme sfaccettato e non così uniforme. Si tratta della Torah, della Legge/Parola. Infatti il termine Torah oscilla tra questi due fuochi entrambi necessari: da una parte la Legge che ne declina la parte più oggettiva e istruttiva, dall’altra la Parola che ne esprime la parte più dialogica e relazionale. Non si può ovviamente separare l’una dall’altra, anche se non sono sovrapponibili del tutto. Noi abbiamo un’istintiva avversione alla dimensione nomistica (non necessariamente legalista) della fede. La fede come nomos, legge, per il pensiero biblico, invece, non è subito da associare a una rigida osservanza costrittiva, quanto ad una indicazione di percorso che prende forma in una dialogica relazione. Già la parola – torah, nomos, lex – «suggerisce l’indicare con il dito, tirare, cogliere nel segno o bersaglio. È orientamento, direttiva, istruzione, norma regola» (Shokel). Ma soprattutto nella storia di Israele la legge è tutto fuorché l’imposizione tirannica di una volontà estranea o di funzionamenti universali necessari. Non si capisce la legge senza la storia dell’Esodo e quindi una storia di libertà e di alleanza. La legge per Israele è un dono per la libertà. La legge, anche quella scritta, è il condensato di una storia e non la si comprende senza il racconto. Proprio perché liberato, Israele può seguire le istruzioni per la via della vita (uno schiavo non può scegliere, può solo obbedire, nella forma della necessità, ad un padrone che impone, non dà indicazioni orientative) e il dono della legge è un codice di alleanza, un patto tra liberi, una promessa di camminare insieme. La legge non precede il patto, ma ne è l’espressione. L’adempimento dei precetti non è la condizione per essere amati da Dio, per diventare suoi alleati. Il suo intervento precede la nostra risposta e la rende possibile. Proprio perché amati e liberati, possiamo rispondere con l’adesione al patto. Israele riceve la legge nel deserto ed essa è donata a lui come una indicazione, l’orientamento verso la terra promessa, perché, se il primo passo è stato compiuto da Dio in modo unilaterale, senza che Israele potesse far altro se non invocarlo nel grido, il compimento della libertà chiede la piena partecipazione del popolo. Se all’inizio Israele è come un bambino portato in braccio, con il dono della legge diventa adulto, chiede di essere parte attiva di quel cammino cui Dio lo ha introdotto. Si obbedisce alla legge non per paura della punizione, ma per amore e per fiducia nei confronti dell’alleato, perché si crede che sia per la vita. Per questo serve una meditazione affettiva della legge, proprio per correggere un approccio legalistico o interessato (“compio tutti i precetti, così sono in credito con Dio che mi ‘deve’ venire incontro”). Se tutto questo è vero – il senso della legge non è di tipo legalistico – tuttavia l’utilizzo di un certo vocabolario non è del tutto estraneo ad una interpretazione più ristretta della legge. «È vero che se l’autore si fosse limitato alla torah, ci avrebbe risparmiato delle difficoltà. Infatti “comandi, decreti, precetti, disposizioni”, non si prestano a questa ampiezza di intelligenza, tendono a formare una inferriata che incarcera la libertà e annulla la spontaneità» (Shokel). La legge, senza un racconto, senza un ricordo affettivo, si espone sempre ad una sua interpretazione legalista. L’altro fuoco e l’altro orizzonte di senso in cui posizionare la torah è la Parola. Così ne parla Bonoheffer: «Indubbiamente il sal 119 è particolarmente pesante per la sua lunghezza e monotonia; ma proprio dobbiamo procedere parola per parola, frase per frase, molto lentamente, tranquillamente, pazientemente. Scopriremo allora che le apparenti ripetizioni sono in realtà aspetti nuovi di una sola e medesima realtà: l’amore per la Parola di Dio. Come quest’amore non può aver mai fine, così non hanno fine le parole che lo confessano. Esse possono accompagnarci per tutta la nostra vita e nella loro semplicità esse divengono la preghiera del fanciullo, dell’uomo e del vegliardo» (Pregare i Salmi con Cristo, p 48).

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La Parola celebrata e cantata in questo salmo anticipa l’intuizione folgorante del prologo giovanneo: in principio il logos, la Parola, la rivelazione di Dio. Ovvero, fin dal principio Dio intende tessere un dialogo con l’uomo, si rivolge a lui con una storia, parla, si rivela facendosi conoscere, comunicando se stesso, entrando nella storia come alleato. Dio/Parola si rivela, toglie il velo che lo tiene lontano e apre alla verità che è la sua stessa fedeltà incrollabile, promessa immutabile, sapienza di vita e per la vita. Via, verità e vita, direbbe Giovanni. Ovvero, non una verità universale e astratta, ma quella verità che si disvela lungo in cammino (la via) e che promette e conduce verso una promessa di bene (vita). Se Dio nella Torah/Parola parla all’uomo, allora questi diventa un “uditore della parola” secondo la felice definizione del teologo Karl Rahner, come un ascoltatore che è chiamato a rispondere, obbedire (ab-audire, stare sotto la parola ascoltata), non dimenticare le parole ricevute. Per questo la preghiera cristiana è anzitutto un incessante meditare sulla Parola e questo salmo lo ricorda, ne fa l’unico oggetto della sua preghiera affettuosa, perché quella di Dio è una parola, una promessa di bene, alla quale non si può prestare ascolto se non in una relazione di affetto e di confidenza. Una seconda dimensione della Torah come Parola è il suo carattere di Sapienza, di istruzione che apre la mente al senso e il cuore alla bellezza e dolcezza della rivelazione di Dio e dona un’ intelligenza per capire i misteri della vita (“Dammi intelligenza per seguire la tua legge” v 34). La sapienza è quella che dà sapore e senso alla vita e il credente la gusta, è per lui dolce e amabile. (“Il tuo comando mi fa più sapiente dei miei nemici… sono più saggio dei miei maestri… sono più assennato degli anziani… quanto sono dolci al mio palato le tue promesse, più del miele per la mia bocca” vv. 98.99.100.103). Il credente che cresce nella via della sapienza è colui che approfondisce (vv 15.23.27.45.48.78.82.97.99.123.148), scruta riflettendovi (vv 2.13.18.59.94), stampa nella memoria (16.52.55.61.83.93.109.141.153), considera un tesoro e vi si appoggia nelle oscurità della vita (24.30.42.57.66.74.81.127.147. 162.166.173). In sintesi ama totalmente la Torah (31.47.97.113.119.127.132.140.159.163.). Infine la Torah come Parola è orientamento, direzione, indicazione di una via, come la mappa che permette di trovare la strada. Per questo spesso in questo salmo ritroviamo la grande metafora della via, un cammino che ha inizio per opera della grazia di Dio (il suo amore fedele, hesed) e ha come termine la vita, la gioia e la pace. Il discepolo che si lascia guidare dalla Parola è come un pellegrino che, alla luce della Parola come di una lampada che orienta i passi (vv. 9.11.28.45.59.101.104.105.128.130.133), «procede (vv.1.23.27.), corre (v.32), procede passo passo (v. 33), senza mai deviare come un gregge fuori pista irrimediabilmente votato alla morte (vv. 10.21.51.67.102.110.118.128.157.176)» (Ravasi). Commento alle strofe Più che dilungarci in annotazioni esegetiche, ci pare utile offrire spunti di riflessione meditativa e spirituale delle strofe di questo salmo, senza cercare un filo narrativo e consequenziale, ma piuttosto immergendoci in un clima e in un’atmosfera che esprimono l’affetto e la devozione per la Parola di Dio, in una Alleanza vitale di cui la Legge non è un carcere costrittivo, ma un codice di appartenenza.

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Alleluia.Alef 1 Beato l'uomo di integra condotta, che cammina nella legge del Signore. 2 Beato chi è fedele ai suoi insegnamenti e lo cerca con tutto il cuore. 3 Non commette ingiustizie, cammina per le sue vie. 4 Tu hai dato i tuoi precetti perché siano osservati fedelmente. 5 Siano diritte le mie vie, nel custodire i tuoi decreti. 6 Allora non dovrò arrossire se avrò obbedito ai tuoi comandi. 7 Ti loderò con cuore sincero quando avrò appreso le tue giuste sentenze. 8 Voglio osservare i tuoi decreti: non abbandonarmi mai.

1 Beati quelli la cui via è perfetta, quelli che camminano nella legge di Jahweh. 2 Beati quelli che osservano i suoi insegnamenti e lo cercano con tutto il cuore. 3 Essi, certo, non commettono iniquità, camminano nelle sue vie. 4 Tu hai comandato di osservare intensamente i tuoi precetti. 5 Oh, siano stabili le mie vie nell’osservare i tuoi decreti! 6 Allora non mi vergognerò, se avrò badato a tutti i tuoi comandi. 7 Ti renderò grazie con cuore sincero quando avrò appreso i tuoi giusti giudizi. 8 Voglio osservare i tuoi decreti: non abbandonarmi mai!

La prima strofa è programmatica e in essa possiamo trovare già anticipati tutti i temi dell’intero salmo. Soprattutto l’inizio descrive il clima della preghiera: “Beato”. Come il primo salmo dell’intero salterio (Beato l’uomo che non cammina secondo il consiglio degli empi Sal 1,1), la preghiera inizia con un grido di felicità. La Parola è la via per la gioia, la felicità, la vita buona. La legge non è per limitare il cammino, ma per dirigerlo verso grandi orizzonti. Certo questa beatitudine chiede l’adesione di tutto il cuore. Questa Parola la devo cercare con tutto me stesso, con sincerità e rettitudine. Il credente tiene gli occhi fissi alle labbra del suo Signore (vv 5-6) per non perdere nessuna delle sue parole perché da esse vengono la sua beatitudine e la sua felicità. Se prego è per ritrovare la gioia, perché sono felice, perché ritrovo beatitudine nello stare in alleanza con Dio. In questa strofa sembra mancare la ripetizione di otto sinonimi del termine Torah, ma troviamo presente il tema della via che in qualche modo lo sostituisce. Aderire alla Parola è un modo di camminare, di procedere per la retta via, per una strada stabile e sicura. Quando prego, alla fine questo cerco e questo mi dà gioia e beatitudine: discernere la via di Dio, trovare il retto cammino, evitare il male e perseguire il bene. La promessa finale è il premio sperato e certo: “non abbandonarmi mai!”. Se la beatitudine sembra essere una conseguenza della sequela, in realtà e più profondamente, è il dono di chi si sente accompagnato sempre, preceduto e guidato, preso per mano nel cammino. Non abbandonarmi Signore, perché senza di te non c’è gioia nella mia vita.

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Bet 9 Come potrà un giovane tenere pura la sua via? Custodendo le tue parole. 10 Con tutto il cuore ti cerco: non farmi deviare dai tuoi precetti. 11 Conservo nel cuore le tue parole per non offenderti con il peccato. 12 Benedetto sei tu, Signore; mostrami il tuo volere. 13 Con le mie labbra ho enumerato tutti i giudizi della tua bocca. 14 Nel seguire i tuoi ordini è la mia gioia più che in ogni altro bene. 15 Voglio meditare i tuoi comandamenti, considerare le tue vie. 16 Nella tua volontà è la mia gioia; mai dimenticherò la tua parola.

9 In che modo un giovane potrà tener pura la sua strada se non osservando la tua parola? 10 Con tutto il cuore ti cerco; non farmi deviare dai tuoi comandi! 11 Conservo nel mio cuore la tua promessa così da non peccare contro di te. 12 Benedetto sii tu, Jahweh: insegnami i tuoi decreti! 13 Con le mie labbra enumero tutti i giudizi della tua bocca. 14 Nella via dei tuoi insegnamenti è la mia gioia, simile al culmine di ogni fortuna. 15 Voglio meditare sui tuoi precetti, badare alle tue strade. 16 Nei tuoi decreti è la mia felicità, non dimenticherò la tua parola.

La domanda iniziale è un poco retorica, ma serve a dialettizzare la preghiera. L’orante viene identificato con un giovane, ovvero un inesperto (anche se alla fine – cf vv 99-100 – si dichiara più saggio dei saggi) davanti al quale si apre il sentiero della vita, ovvero il bivio (come sempre la via è la scelta tra due vie, tra il bene e il male, la benedizione e la maledizione) che impone un discernimento e una decisione. Proprio questo è il cuore della preghiera: discernere la via della vita e seguirla con tutto il cuore, interamente. Ogni volta che preghiamo siamo come un giovane inesperto che invoca una saggezza che ancora non ha. Per questo, un altro polo di questa strofa è il cuore. Con tutto il cuore si deve cercare e nel cuore si devono conservare le parole: esse sono per me un tesoro prezioso e le custodisco nell’intimo, come Maria che «custodiva tutte queste cose» Lc 2,19.51). Le trattengo in me prima ancora di comprenderle, o meglio, per ruminarle, rammentarle, appropriarmene in profondità, assimilarle. Qui ritroviamo il percorso che i salmi indicano dalle labbra al cuore tramite la mente. Le labbra “enumerano” le parole uscite dalla bocca del Signore (una bella immagine: le parole passano di bocca in bocca), la mente medita, considera, ovvero approfondisce, studia scruta. Infine il cuore custodisce, trattiene, conserva, e prova gioia e felicità. È questa la via della preghiera e del cammino del credente.

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Ghimel 17 Sii buono con il tuo servo e avrò vita, custodirò la tua parola. 18 Aprimi gli occhi perché io veda le meraviglie della tua legge. 19 Io sono straniero sulla terra, non nascondermi i tuoi comandi. 20 Io mi consumo nel desiderio dei tuoi precetti in ogni tempo. 21 Tu minacci gli orgogliosi; maledetto chi devìa dai tuoi decreti. 22 Allontana da me vergogna e disprezzo, perché ho osservato le tue leggi. 23 Siedono i potenti, mi calunniano, ma il tuo servo medita i tuoi decreti. 24 Anche i tuoi ordini sono la mia gioia, miei consiglieri i tuoi precetti.

17 Sii benevolo con il tuo servo, vivrò e osserverò la tua parola. 18 Aprimi gli occhi perché io badi alle meraviglie della tua legge. 19 Straniero io sono sulla terra, non nascondermi i tuoi comandi. 20 Si consuma la mia anima nel desiderio dei tuoi giudizi in ogni tempo. 21 Minaccia gli orgogliosi maledetti che devìano dai tuoi comandi. 22 Spogliami della vergogna e del disprezzo perché ho osservato i tuoi insegnamenti. 23 I potenti siedono e mi calunniano, ma il tuo servo medita sui tuoi decreti. 24 I tuoi insegnamenti sono la mia felicità, sono essi i miei consiglieri.

La strofa si apre con tre imperativi (Sii buono, aprimi gli occhi, non nascondermi i tuoi comandi) che si levano da chi si sente un “umile servo”. Chiede benevolenza, ma soprattutto chiede di saperla riconoscere. È come se pregasse dicendo: io lo so che mi vuoi bene, ma a volte non vedo la tua misericordia; aprimi gli occhi perché io veda! Ed è la parola che apre gli occhi, perché le meraviglie di Dio, gli eventi salvifici rimangono una nomenclatura di fatti se non sono trasformati dalla Parola in storia di salvezza, in momenti rivelativi. Questo svelamento non è facile perché il credente vive assediato dagli arroganti, gli orgogliosi, i superbi: sente un clima aggressivo nei suoi confronti e questo lo rende straniero. Cammina su questa terra come uno straniero, come chi non vi trova stabile dimora, come un forestiero sempre in pericolo. Ma questa condizione gli consente di rivolgersi a Dio reclamando il diritto di essere protetto (quel diritto che la Scrittura dice che Dio stesso difende e che impone come legge ai suoi fedeli), che gli sia tolta di dosso (“spogliami”) la vergogna, il senso di estraneità che lo fa sentire fuori posto. Questo è proprio quello che fa la Parola: ci fa passare da stranieri e ospiti a concittadini e familiari (cf Ef 2,19). Così commenta Buber nei racconti dei Hassidim: «Chi è sbattuto lontano in terre straniere e finisce in un paese sconosciuto, costui non ha commercio con alcun uomo e non può trattenersi con alcuno. Ma se allora appare un altro forestiero, anche se la sua patria è un’altra, i due possono diventare amici e da allora in poi dimorano insieme e si vogliono bene. E se non fossero ambedue forestieri non sarebbero diventati così intimi. Questo intende il salmista: Tu sei come me forestiero sulla terra e non hai dove posarti: dunque non sottrarti a me, ma svelami i tuoi comandamenti perché io possa diventare tuo amico». Non è forse come un forestiero che il Cristo si fa nostro compagno di viaggio e la Parola diventa la nostra casa, ci fa sentire a casa, vince l’estraneità che ci affligge?

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Dalet 25 Io sono prostrato nella polvere; dammi vita secondo la tua parola. 26 Ti ho manifestato le mie vie e mi hai risposto; insegnami i tuoi voleri. 27 Fammi conoscere la via dei tuoi precetti e mediterò i tuoi prodigi. 28 Io piango nella tristezza; sollevami secondo la tua promessa. 29 Tieni lontana da me la via della menzogna, fammi dono della tua legge. 30 Ho scelto la via della giustizia, mi sono proposto i tuoi giudizi. 31 Ho aderito ai tuoi insegnamenti, Signore, che io non resti confuso. 32 Corro per la via dei tuoi comandamenti, perché hai dilatato il mio cuore.

25 La mia gola aderisce alla polvere, fammi vivere secondo la tua parola. 26 Ti ho narrato le mie vie e mi hai risposto; insegnami i tuoi decreti. 27 Fammi capire la via dei tuoi precetti e mediterò le tue meraviglie. 28 Il mio essere è piegato nella tristezza, sollevami secondo la tua parola. 29 Tieni lontano da me la via della menzogna, fammi grazia della tua legge. 30 Ho scelto la via della fedeltà, mi sono proposto i tuoi giudizi. 31 Ho aderito ai tuoi insegnamenti, Jahweh, che io non resti deluso. 32 Corro per la via dei tuoi comandi perché tu dilati il mio cuore

L’inizio descrive una situazione angosciosa: l’orante è prostrato, schiacciato, la sua gola aderisce alla terra, alla polvere. Nel v. 31 vedremo invece che aderisce agli insegnamenti del Signore. Qualcosa è cambiato, il credente si è alzato, ha ritrovato una via per sollevarsi e una direzione. Quella che prima era un’adesione che prostrava, ora è un’ adesione (segno di intimità e familiarità) che solleva e dilata il cuore. Infatti dominante in questa strofa è il tema della via, del camminare, una via di fedeltà da scoprire (fammi capire la via) dalla quale non distrarsi (tienimi lontano dalla via della menzogna) e sulla quale correre, procedere spediti. Il finale è una dilatazione di orizzonti, una apertura senza limiti, del cuore che si apre a tutto il mondo. Raccontare a Dio il nostro vagare è una bella forma di preghiera: Egli ha pazienza nell’ascoltare e volontà di rispondere (ma la risposta resta fuori dal nostro salmo).

10

He 33 Indicami, Signore, la via dei tuoi decreti e la seguirò sino alla fine. 34 Dammi intelligenza, perché io osservi la tua legge e la custodisca con tutto il cuore. 35 Dirigimi sul sentiero dei tuoi comandi, perché in esso è la mia gioia. 36 Piega il mio cuore verso i tuoi insegnamenti e non verso la sete del guadagno. 37 Distogli i miei occhi dalle cose vane, fammi vivere sulla tua via. 38 Con il tuo servo sii fedele alla parola che hai data, perché ti si tema. 39 Allontana l'insulto che mi sgomenta, poiché i tuoi giudizi sono buoni. 40 Ecco, desidero i tuoi comandamenti; per la tua giustizia fammi vivere.

33 Insegnami, Jahweh, la via dei tuoi decreti e la seguirò sino alla fine. 34 Dammi intelligenza per seguire la tua legge e osservarla con tutto il cuore. 35 Dirigimi sul sentiero dei tuoi comandi perché in esso è il mio piacere. 36 Piega il mio cuore verso i tuoi insegnamenti e non verso il guadagno. 37 Distogli i miei occhi dalla visione di vanità, fammi vivere sulla tua via. 38 Mantieni la tua promessa con il tuo servo perché ti si tema. 39 Allontana l’oltraggio che mi spaventa perché sono buoni i tuoi giudizi. 40 Ecco, anelo i tuoi precetti; nella tua giustizia fammi vivere.

L’originalità di questa strofa è che è ritmata da una serie di invocazioni rivolte a Dio, richieste del suo intervento perché tutto dipende e parte da Lui. Il soggetto delle azioni è il Signore, mentre l’orante è il soggetto della richiesta. Che cosa chiedere al Signore nella preghiera? Che lui diventi maestro, guida, artefice del nostro cammino, perché senza la sua iniziativa non possiamo nulla. La prima richiesta è l’insegnamento, il dono dell’intelligenza, di quell’intima convinzione che orienti le scelte del credente. Si chiede la luce interiore, per il discernimento della vita. E poi la ferma decisione nel perseguire il bene, con un’immagine molto bella: “piega il mio cuore”. L’inclinazione del cuore deve essere diretta non al guadagno – neppure al merito attraverso un bene fatto per ottenere dei favori – ma ad un amore puro, proprio degli animi semplici. Commenta Pascal: «non stupitevi di vedere persone semplici credere senza ragionamento. Dio dà loro l’amore di lui e l’odio per se stesse. Inclina il loro cuore a credere. Non si crederà mai se Dio non inclina il cuore e si crederà solo quando lui inclinerà il cuore» (Pensieri 284). La terza dimensione dell’ invocazione è la ricerca di una protezione contro i pericoli che distolgono (distogli i miei occhi dalle cose vane, mantieni la promessa, allontana da me l’oltraggio), perché da solo il credente non sa difendersi da quanto lo può allontanare dalla via della vita. Infine chiede semplicemente questo: “fammi vivere”. Perché Egli è la fonte della vita e vivere è vivere di lui e con lui, in cammino verso di lui. Lontano dal Signore ci scopriamo lontano dalla vita e proprio per questo aneliamo a qualcosa di più grande che sopravvivere, ad una luce, una verità, una giustizia che rende degna la vita. Non si tratta di aggiungere anni alla vita, ma vita agli anni!

11

Vau 41 Venga a me, Signore, la tua grazia, la tua salvezza secondo la tua promessa; 42 a chi mi insulta darò una risposta, perché ho fiducia nella tua parola. 43 Non togliere mai dalla mia bocca la parola vera, perché confido nei tuoi giudizi. 44 Custodirò la tua legge per sempre, nei secoli, in eterno. 45 Sarò sicuro nel mio cammino, perché ho ricercato i tuoi voleri. 46 Davanti ai re parlerò della tua alleanza senza temere la vergogna. 47 Gioirò per i tuoi comandi che ho amati. 48 Alzerò le mani ai tuoi precetti che amo, mediterò le tue leggi

41 Venga a me il tuo amore, Jahweh, la tu salvezza secondo la tua promessa. 42 Darò una parola di risposta a chi mi oltraggia perché ho fiducia nella tua parola. 43 Non togliere dalla mia bocca la parola vera perché confido nei tuoi giudizi. 44 Osserverò la tua legge per sempre in eterno nei secoli. 45 Camminerò in libertà perché cerco i tuoi precetti. 46 Parlerò davanti ai re dei tuoi insegnamenti e non ne avrò vergogna. 47 Gioirò per i tuoi comandi che amo. 48 Alzerò le mie mani verso i tuoi comandi (che amo) e mediterò i tuoi decreti.

Se nella strofa precedente Dio era il protagonista, qui il soggetto è l’orante, che prende l’iniziativa almeno dichiarando i suoi propositi. Sappiamo quanto siano esili i nostri propositi dichiarati nella preghiera, eppure è un moto dell’anima quello di esporsi, dichiarando le proprie intenzioni di bene. Proprio perché consapevole dalla fragilità dei propositi umani, l’apertura della preghiera chiede anzitutto il dono dall’amore fedele (hesed), perché sempre tutto parte da Dio: “Venga a me il tuo amore, la tua salvezza, la tua promessa”! Custodito e protetto da questo amore, il credente può affrontare i suoi nemici e le situazioni difficili della vita. Perché qualcuno ha risposto e non toglie dalla sua bocca la parola vera. «Ma quando vi metteranno nelle loro mani, non preoccupatevi di come parlerete o di quello che dovrete dire; perché in quel momento stesso vi sarà dato ciò che dovrete dire. Poiché non siete voi che parlate, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi» (Mt 10,19-20. «io vi darò una parola e una sapienza alle quali tutti i vostri avversari non potranno opporsi né contraddire» (Lc 21,15). Così, anche se stretto in situazioni difficili, il clima che vive l’orante è «come una pianura sterminata nella quale inoltrarsi in libertà, con sicurezza e felicità» (Ravasi).

12

Zain 49 Ricorda la promessa fatta al tuo servo, con la quale mi hai dato speranza. 50 Questo mi consola nella miseria: la tua parola mi fa vivere. 51 I superbi mi insultano aspramente, ma non devìo dalla tua legge. 52 Ricordo i tuoi giudizi di un tempo, Signore, e ne sono consolato. 53 M'ha preso lo sdegno contro gli empi che abbandonano la tua legge. 54 Sono canti per me i tuoi precetti, nella terra del mio pellegrinaggio. 55 Ricordo il tuo nome lungo la notte e osservo la tua legge, Signore. 56 Tutto questo mi accade perché ho custodito i tuoi precetti.

49 Ricordati della parola data al tuo servo con la quale mi hai fatto sperare. 50 Questo è il mio conforto nella mia miseria: la tua promessa mi fa vivere. 51 Gli orgogliosi mi insultano duramente, ma dalla tua legge non devio. 52 Ricordo i tuoi eterni giudizi, o Jahweh, e ne sono confortato. 53 Mi ha afferrato lo sdegno contro gli empi che abbandonano la tua legge. 54 Inni per me sono i tuoi decreti, nella dimora del mio pellegrinaggio. 55 Nella notte ricordo il tuo nome Jahweh, e osservo la tua legge. 56 Tutto questo mi avviene perché custodisco i tuoi precetti.

Il tema dominante è di quelli teologicamente rilevanti: “ricordare”. Dio ricorda la sua parola per compierla (v49) e l’uomo ricorda i comandi e, pronunciandolo, il nome (vv 52.55). Il primo aspetto è quello teologico, il ricordo efficace di Dio, conforto e speranza del credente. Se Dio si ricorda di me sono salvo, la sua parola – con la quale appunto Dio si ricorda – è parola efficace che dona la vita. Il secondo aspetto è antropologico e designa sia il memoriale liturgico (nel culto invocando il suo nome con inni il credente non dimentica Dio), sia etico e morale (il credente si impegna a praticare la parola che ricorda). In questo memoriale l’orante trova casa, nel tempo del suo pellegrinaggio (siamo sempre nel clima di estraneità che piano piano emerge dalle strofe del salmo). Viene chiamata letteralmente “casa ospitale”, il luogo dove il salmista è ospite di Dio (abita nella sua parola), la terra promessa. Se pensiamo che questo salmo è molto probabilmente di epoca postesilica, allora comprendiamo come il credente trovi rifugio nella parola, nella memoria (di Dio e sua): egli, straniero e pellegrino, ha però un centro, una casa dove riposare, dove trascorrere la notte nel ricordo (nella notte ricordo il tuo nome).

13

Het 57 La mia sorte, ho detto, Signore, è custodire le tue parole. 58 Con tutto il cuore ti ho supplicato, fammi grazia secondo la tua promessa. 59 Ho scrutato le mie vie, ho rivolto i miei passi verso i tuoi comandamenti. 60 Sono pronto e non voglio tardare a custodire i tuoi decreti. 61 I lacci degli empi mi hanno avvinto, ma non ho dimenticato la tua legge. 62 Nel cuore della notte mi alzo a renderti lode per i tuoi giusti decreti. 63 Sono amico di coloro che ti sono fedeli e osservano i tuoi precetti. 64 Del tuo amore, Signore, è piena la terra; insegnami il tuo volere.

57 La mia sorte – ho detto – Jahweh, è osservare le tue parole. 58 Con tutto il cuore ho bramato il tuo volto, fammi grazia secondo la tua promessa. 59 Ho esaminato le mie vie, ho rivolto i miei passi verso i tuoi insegnamenti. 60 Mi affretto e non voglio tardare nell’osservare i tuoi comandi. 61 I lacci degli empi mi hanno avvinto, ma la tua legge non ho dimenticato. 62 A mezzanotte mi alzo a renderti grazie per i tuoi giusti giudizi. 63 Sono amico di coloro che ti temono e che osservano i tuoi precetti. 64 Del tuo amore, Jahweh, è piena la terra; insegnami i tuoi decreti.

Possiamo sottolineare tre immagini che nutrono la preghiera di questa strofa. La prima è quella della “eredità”, della sorte, la parte che spetta di diritto. Il riferimento è alla porzione di terra di cui i leviti non ricevono parte perché la loro “sorte” è il culto, la parola, la legge. Questa è il loro bene, l’eredità ricevuta cui dedicarsi con tutto il cuore. Qui il salmo usa un’espressione curiosa e dolcissima; letteralmente: “accarezzare il volto”, onorarlo. Nella preghiera accarezziamo Dio considerandolo la nostra parte più cara, la sorte che ci è donata. La seconda immagine usata è quella nota della via, che qui viene arricchita di particolari: si parla di piedi che camminano, di una corsa che accelera il passo, di lacci da cui liberare il piede. Potremmo dire che qui siamo invitati a “pregare con i piedi”, a fare della preghiera un cammino e del cammino una preghiera. La terza immagine è temporale. Nel cuore della notte – segno della più profonda tenebra – si leva una preghiera corale. È quella degli amici di Dio – sono amico di coloro che ti temono – di una comunità di giusti e di timorati di Dio con cui il salmista è solidale. Trova qui il suo fondamento la prassi di una preghiera notturna, di chi nel cuore della notte veglia perché non ci sia un solo momento nel quale non riecheggino la lode e la parola. La conclusione è una giaculatoria – del tuo amore è piena la terra – che plasticamente esprime questa presenza nel tempo che tutto avvolge. Siamo immersi in una preghiera che ci accompagna, in una comunità orante della quale ci sentiamo parte.

14

Tet 65 Hai fatto il bene al tuo servo, Signore, secondo la tua parola. 66 Insegnami il senno e la saggezza, perché ho fiducia nei tuoi comandamenti. 67 Prima di essere umiliato andavo errando, ma ora osservo la tua parola. 68 Tu sei buono e fai il bene, insegnami i tuoi decreti. 69 Mi hanno calunniato gli insolenti, ma io con tutto il cuore osservo i tuoi precetti. 70 Torbido come il grasso è il loro cuore, ma io mi diletto della tua legge. 71 Bene per me se sono stato umiliato, perché impari ad obbedirti. 72 La legge della tua bocca mi è preziosa più di mille pezzi d'oro e d'argento.

65 Hai fatto il bene al tuo servo, Jahweh, secondo la tua parola. 66 Insegnami il buon senso e la saggezza perché ho fiducia nei tuoi comandi. 67 Prima di essere umiliato andavo errando, ma ora osservo la tua promessa. 68 Buono tu sei e fai il bene, insegnami i tuoi decreti. 69 Gli orgogliosi hanno scagliato menzogne contro di me, ma io con tutto il cuore custodisco i tuoi precetti. 70 Torbido come grasso è il loro cuore ma io mi diletto nella tua legge. 71 Bene per me se sono stato umiliato, perché impari i tuoi decreti. 72 Bene per me è la legge della tua bocca più di mille pezzi d’argento.

La parola chiave di questa strofa è tob: bene, buono, bello ecc. Il bene che viene all’inizio affermato (“hai fatto bene al tuo servo”), poi diventa oggetto di un gusto, un buon senso che orienta la vita. A questo si oppone una sensibilità ottusa, quella dei malvagi il cui cuore è indurito da uno schermo di grasso (sempre nel registro sensitivo del gusto) che impedisce loro di gustare la bontà della parola. La preghiera è un esercizio dei sensi spirituali nel quale impariamo a gustare la dolcezza della promessa di Dio. Questa bontà tiene anche nel momento della prova. Troviamo qui un topos della letteratura sapienziale ortodossa: la prova è uno strumento della pedagogia divina. È bene anche quando sono umiliato, perché proprio nell’umiliazione imparo a gustare la parola che mi guida. A questa sapienza che legge come bene anche l’umiliazione, si opporrà Giobbe, ad esempio, che non accetta di giustificare la prova come uno strumento educativo di Dio. O meglio: non sempre e non comunque! In che senso il dolore educa? Certamente, nella prova, chi ha esercitato i sensi spirituali può meglio trovare un bene, il buono che Dio non fa mancare anche nell’amaro della vita. Rimane la contraddizione del male che però il nostro salmo stempera in una visione anche troppo positiva.

15

Iod 73 Le tue mani mi hanno fatto e plasmato; fammi capire e imparerò i tuoi comandi. 74 I tuoi fedeli al vedermi avranno gioia, perché ho sperato nella tua parola. 75 Signore, so che giusti sono i tuoi giudizi e con ragione mi hai umiliato. 76 Mi consoli la tua grazia, secondo la tua promessa al tuo servo. 77 Venga su di me la tua misericordia e avrò vita, poiché la tua legge è la mia gioia. 78 Siano confusi i superbi che a torto mi opprimono; io mediterò la tua legge. 79 Si volgano a me i tuoi fedeli e quelli che conoscono i tuoi insegnamenti. 80 Sia il mio cuore integro nei tuoi precetti, perché non resti confuso.

73 Le tue mani mi hanno fatto e plasmato, fammi capire e imparerò i tuoi comandi. 74 Quelli che ti temono mi vedranno e gioiranno perché ho confidato nella tua parola. 75 So, Jahweh, che giusti sono i tuoi giudizi e che per trovare la verità mi hai umiliato. 76 Il tuo amore sia il mio conforto secondo la promessa fatta al tuo servo. 77 Venga su di me la tua tenerezza e vivrò perché la tua legge è la mia felicità. 78 Siano svergognati gli orgogliosi che ingiustamente mi opprimono e io mediterò sui tuoi precetti. 79 Si volgano a me quelli che ti temono e che conoscono i tuoi insegnamenti. 80 Sia il mio cuore integro nei tuoi decreti perché non sia svergognato.

Per quanto riguarda questa strofa potremmo soffermarci sul tema posto all’inizio del Dio creatore. È un’ architrave della fede sapienziale. La fede nel Dio creatore si fa strada soprattutto nel postesilio, a contatto con altre religioni e altre culture – in particolare quella greca. Nasce la domanda della relazione di Dio, non solo con il popolo che si è scelto, ma con tutto il mondo e tutti gli uomini. La certezza di essere nelle mani sapienti di Dio – che il popolo di Israele ha conosciuto anzitutto come salvatore e liberatore – poggia sul fatto che tutto viene da lui e che noi stessi siamo stati creati dalle sue mani. Qui, alla creazione il salmo aggiunge l’istruzione: “fammi capire”. I padri nella loro lettura allegorica vi leggevano prima la creazione della struttura dell’essere e poi quella dell’anima; certamente l’atto creatore non si limita a porre in essere, ma chiede di accompagnare il cammino per cui una creatura da essere incipiente cresce fino alla sua piena statura, di cui la consapevolezza e l’intelligenza sono parti essenziali. È come per l’uomo che genera: non basta mettere al mondo; da quel momento la creatura si lega a sé con un impegno di formazione che non si può declinare. Così Dio non può limitarsi a “gettare nel mondo”, deve anche rivelarne il senso. Non basta che Dio sia il creatore nel senso impersonale e anaffettivo: occorre riconoscerlo come un educatore, come colui che accompagna nel corso della vita, nel venire alla luce (ovvero all’intelligenza delle cose). Proprio da questa consapevolezza sgorga il clima positivo e fiducioso dell’intero salmo e di questa strofa in particolare. La preghiera si conclude con una acclamazione nella quale vengono convocati tutti i credenti. Il salmista si considera parte di una comunità orante, che si stringe attorno a lui.

16

Caf 81 Mi consumo nell'attesa della tua salvezza, spero nella tua parola. 82 Si consumano i miei occhi dietro la tua promessa, mentre dico: «Quando mi darai conforto?». 83 Io sono come un otre esposto al fumo, ma non dimentico i tuoi insegnamenti. 84 Quanti saranno i giorni del tuo servo? Quando farai giustizia dei miei persecutori? 85 Mi hanno scavato fosse gli insolenti che non seguono la tua legge. 86 Verità sono tutti i tuoi comandi; a torto mi perseguitano: vieni in mio aiuto. 87 Per poco non mi hanno bandito dalla terra, ma io non ho abbandonato i tuoi precetti. 88 Secondo il tuo amore fammi vivere e osserverò le parole della tua bocca.

81 Si strugge l’anima mia per la tua salvezza: confido nella tua parola. 82 Si struggono i miei occhi per la tua promessa mentre dico: Quando mi conforterai? 83 Si, sono diventato come un otre esposto al fumo, ma non dimentico i tuoi decreti. 84 Quanti saranno i giorni del tuo servo? Quando farai il giudizio sui miei persecutori? 85 Mi hanno scavato fosse gli orgogliosi che non seguono la tua legge. 86 Tutti i tuoi comandi sono verità; ingiustamente mi perseguitano: aiutami! 87 Per poco non mi hanno distrutto dalla terra, ma io non ho abbandonato i tuoi precetti. 88 Secondo il tuo amore fammi vivere e osserverò l’insegnamento della tua bocca.

L’ottonario è tra i meno convenzionali in un salmo che non brilla per originalità. Il destro è dato da una costellazione di vocaboli proposti dalla lettera klh come il verbo finire e il sostantivo tutto. Questi descrivono un arco di significati che comportano l’idea di totalità e di fine. L’orante si sfinisce, i suoi occhi si struggono, per poco lo distruggono dalla terra. È forse la strofa più oscura e drammatica dell’intero poema, anche se rimane attraversata da una luce e da una fiducia rese ancor più intense dall’opera dei malvagi. I nemici infatti si danno da fare: perseguitano, tendono trappole, scavano fosse, tentano di eliminarlo, quasi riescono a distruggerlo dalla terra! Questo sposta il poema verso il lamento e la supplica. Ma il versetto più enigmatico e misterioso è l’83: “come un otre esposto al fumo”. Le esegesi si sprecano e si lanciano in fantasiose interpretazioni: come un otre che è stato dimenticato, sospeso in mezzo al fumo, forse vicino al camino. Così il Targum e Kittel spiega che l’idea è quella di una cosa dimenticata, abbandonata, un rifiuto. Assieme a questo, l’immagine richiama una faccia screpolata, infelice, stanca e afflitta, simile alla pelle che per il troppo fumo diventa grinzosa, screpolata, non curata. Come il credente si strugge, è sfinito, così la sua pelle è come quella di un otre consumato. Come si vede, l’immagine riproduce in campo corporeo e metaforico proprio lo stato d’animo dominante nell’ottavario, quello dello struggimento. A questo possiamo aggiungere l’idea di un’intossicazione, di uno sfinimento per mancanza di fiato, per soffocamento. In questa situazione l’orante si chiede: fino a quando? Quanti anni mi restano? E poi: quando farai giustizia contro gli empi? Sono due domante comprensibili: quanto posso resistere? C’è una giustizia e qualcuno che la difenda? Proprio per questo clima drammatico, ancora più netta è la fiducia incrollabile che non poggia su alcuna giustificazione. L’orante spera tenacemente che il suo Signore lo farà vivere!

17

Lamed 89 La tua parola, Signore, è stabile come il cielo. 90 La tua fedeltà dura per ogni generazione; hai fondato la terra ed essa è salda. 91 Per tuo decreto tutto sussiste fino ad oggi, perché ogni cosa è al tuo servizio. 92 Se la tua legge non fosse la mia gioia, sarei perito nella mia miseria. 93 Mai dimenticherò i tuoi precetti: per essi mi fai vivere. 94 Io sono tuo: salvami, perché ho cercato il tuo volere. 95 Gli empi mi insidiano per rovinarmi, ma io medito i tuoi insegnamenti. 96 Di ogni cosa perfetta ho visto il limite, ma la tua legge non ha confini.

89 In eterno, Jahweh, la tua parola è stabile come i cieli. 90 La tua fedeltà dura di generazione in generazione; hai reso salda la terra ed essa sta. 91 Secondo i tuoi giudizi essi oggi stanno saldi perché tutti gli esseri sono tuoi servi. 92 Se la tua legge non fosse la mia felicità, certo sarei perito nella mia miseria. 93 Non dimenticherò in eterno i tuoi precetti perché con essi tu mi fai vivere. 94 Tuo io sono: salvami, perché ho cercato i tuoi precetti. 95 Gli empi mi aspettano per distruggermi, ma io cerco di comprendere i tuoi insegnamenti. 96 Di ogni perfezione ho visto la fine, ma i tuoi comandi sono infinitamente immensi.

Siamo al centro del salmo, in qualche modo anche al “centro e al vertice”. Il tema sviluppato è quello di una duplice stabilità che regge ogni cosa. In questa duplice stabilità (del creato e della alleanza) il salmista coniuga il profilo storico della salvezza operata da Dio e quello cosmologico del Dio creatore. Storia e cosmo sono il teatro dove la salvezza giunge all’uomo per opera di un Dio stabile e affidabile perché fedele. La stessa volontà lo muove nel creare e nel salvare il mondo e l’uomo. Il primo versetto stabilisce questa correlazione insieme al secondo. Come la tua parola è stabile nei cieli (o è stabile come sono stabili e immutabili i cieli), così la tua alleanza, la tua fedeltà permangono di generazione in generazione. La fedeltà di Dio percorre lo spazio – la creazione – e il tempo – la storia di salvezza. Il punto di convergenza è la Parola, quella creatrice e quella dell’ Alleanza. Tutto (hakkol) si regge in questa fedeltà/stabilità. Ancorato in questa ferma certezza il salmista può abbandonarsi ad una preghiera, ad uno slancio di adesione e consacrazione personale: io sono tuo, salvami! Commenta Agostino: «Io sono tuo perché non ho cercato il mio volere per il quale sarei stato mio; ma sono tuo perché ho cercato il tuo volere». La conclusione è un mini-inno in onore della legge e della Parola che risulta incomparabile, perfetta, compiuta, in contrasto con la condizione caduca dell’uomo e di ogni cosa. La meditazione sulla finitezza dell’esistenza e delle cose, fa risaltare ancor più la stabilità e la pienezza della Parola che rimane e sulla quale l’uomo può fondare la propria speranza. «Tutte le cose, le azioni, gli splendori di questo mondo conoscono la frontiera della fine, della morte e del silenzio. Soltanto la parola di Dio ha un’estensione sconfinata, spazi aperti, distese immense» (Ravasi).

18

Mem 97 Quanto amo la tua legge, Signore; tutto il giorno la vado meditando. 98 Il tuo precetto mi fa più saggio dei miei nemici, perché sempre mi accompagna. 99 Sono più saggio di tutti i miei maestri, perché medito i tuoi insegnamenti. 100 Ho più senno degli anziani, perché osservo i tuoi precetti. 101 Tengo lontano i miei passi da ogni via di male, per custodire la tua parola. 102 Non mi allontano dai tuoi giudizi, perché sei tu ad istruirmi. 103 Quanto sono dolci al mio palato le tue parole: più del miele per la mia bocca. 104 Dai tuoi decreti ricevo intelligenza, per questo odio ogni via di menzogna.

97 Quanto amo la tua legge! Tutto il giorno la vado meditando. 98 Il tuo comando mi fa più sapiente dei miei nemici, perché sempre è con me. 99 Sono più saggio dei miei maestri perché i tuoi insegnamenti sono la mia meditazione. 100 Sono più assennato degli anziani perché custodisco i tuoi precetti. 101 Da ogni sentiero malvagio tengo lontano i miei piedi per osservare la tua parola. 102 Non mi allontano dai tuoi giudizi perché sei tu ad istruirmi. 103 Quanto sono dolci al mio palato le tue promesse, più del miele per la mia bocca. 104 Sono reso saggio dai tuoi precetti cosicché odio ogni sentiero menzognero.

Se la parola di Dio è infinita, (v 96) l’atteggiamento corrispondente del credente non può che essere un amore totale: “quanto amo la tua legge!”. Sulla base di questa prospettiva la strofa si sviluppa sulla falsariga di tre paradigmi: la comparazione (sono più sapiente, più saggio…) la via e il gusto (una sapienza che dà sapore alla vita). Mentre fa da basso continuo il motivo della confidenza amorevole con la Parola “è sempre con me”, “sono la mia consolazione” “custodisco”, “sei tu a istruirmi”… il credente si sente protetto dalla parola. Il primo paradigma esalta la superiorità dell’orante sulle tre categorie della società semitica: i nemici (gli esterni), i saggi (c’è una certa polemica con la sapienza: non basta sapere, occorre amare e l’amore della legge vale più dello studio puramente teorico; la vera sapienza combina il sapere e il praticare) e gli anziani (che erano al vertice del potere e del sapere). Il secondo paradigma sviluppa il tema diffuso della via: i piedi di chi ascolta e custodisce la parola sono tenuti lontano dai sentieri sbagliati e si orientano verso il bene. Infine il gusto: l’amore per la parola dona un sapore alla vita e chiede una sensibilità particolare. Il fascino della torah è tattile e gustativo, sperimentabile sensitivamente, come già il profeta Geremia confessa: «Quando le tue parole mi vennero incontro le divorai con avidità e la tua parola fu la gioia e la letizia del cuore» (Ger 15,16).

19

Nun 105 Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino. 106 Ho giurato, e lo confermo, di custodire i tuoi precetti di giustizia. 107 Sono stanco di soffrire, Signore, dammi vita secondo la tua parola. 108 Signore, gradisci le offerte delle mie labbra, insegnami i tuoi giudizi. 109 La mia vita è sempre in pericolo, ma non dimentico la tua legge. 110 Gli empi mi hanno teso i loro lacci, ma non ho deviato dai tuoi precetti. 111 Mia eredità per sempre sono i tuoi insegnamenti, sono essi la gioia del mio cuore. 112 Ho piegato il mio cuore ai tuoi comandamenti, in essi è la mia ricompensa per sempre.

105 Lampada ai miei passi è la tua parola luce sul mio cammino. 106 Ho giurato e confermo di osservare i tuoi giudizi giusti. 107 Sono afflitto oltre misura, Jahweh, fammi vivere secondo la tua parola. 108 Gradisci, Jahweh, le offerte della mia bocca, insegnami i tuoi giudizi. 109 La mia anima sta sempre nelle mie mani: non dimentico la tua legge. 110 Gli empi mi hanno teso una trappola ma io non devìo dai tuoi precetti. 111 Mia eredità in eterno sono i tuoi insegnamenti; si, sono la gioia del mio cuore. 112 Inclino il mio cuore a fare i tuoi decreti: eterna è la mia ricompensa.

Questo ottonario è aperto da un versetto diventato sigla dell’intero poema. La parola di Dio è lampada ai miei passi e luce sul mio cammino. Anche altri salmi parlano della legge con attributi solari (Sal 19); qui si tratta di una luce più vicina e prossima, come quella di una lampada che rischiara passo passo, che fa quel tanto di luce che basta per trovare la via, per i passi necessari e possibili. Il tema troverà grande risonanza nel Vangelo di Giovanni dove Gesù stesso dirà di sé «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Gv 8,12). E viene ripresa in modo diretto anche da 2Pt: «Alla parola dei profeti fate bene a volgere l’attenzione come a lampada che brilla in un luogo oscuro, finché spunti il giorno e la stella del mattino non spunti nei vostri cuori» (1,19). Così prega, in una famosa ode, il card. Newman: «Guidami benefica luce in mezzo a queste ombre! La notte è oscura, io sono lontano dalla casa: guidami in avanti! Veglia sul mio cammino; che m’importa di vedere l’orizzonte lontano? Un solo passo basta… Mai come oggi ti ho pregato di condurmi. Un tempo preferivo scegliere e conoscere da solo la mia via. Ora guidami tu!». La luce della parola squarcia l’oscurità e orienta il cammino, ma nulla toglie al carattere faticoso e alla decisione ferma che spetta al credente che procede sotto la guida della parola. Come sempre il cammino è costellato da afflizioni oltre misura e da trappole. In questa condizione l’orante tiene ferma la sua preghiera (l’offerta della mia bocca) e la decisione (la mia anima nelle mie mani: versetto un poco oscuro che può significare sia una vita offerta, sia un rischio che responsabilmente si ha il coraggio di prendere); come pure ferma è la meta, l’eredità, la terra promessa, il tesoro più caro, l’eterna ricompensa.

20

Samech 113 Detesto gli animi incostanti, io amo la tua legge. 114 Tu sei mio rifugio e mio scudo, spero nella tua parola. 115 Allontanatevi da me o malvagi, osserverò i precetti del mio Dio. 116 Sostienimi secondo la tua parola e avrò vita, non deludermi nella mia speranza. 117 Sii tu il mio aiuto e sarò salvo, gioirò sempre nei tuoi precetti. 118 Tu disprezzi chi abbandona i tuoi decreti, perché la sua astuzia è fallace. 119 Consideri scorie tutti gli empi della terra, perciò amo i tuoi insegnamenti. 120 Tu fai fremere di spavento la mia carne, io temo i tuoi giudizi.

113 Detesto le persone doppie e amo la tua legge. 114 Mio riparo e mio scudo tu sei, confido nella tua parola. 115 Allontanatevi da me, malvagi; io custodisco i comandi del mio Dio. 116 Sostienimi secondo la tua promessa e avrò vita, non deludermi nella mia speranza. 117 Aiutami e sarò salvo, avrò sempre fisso lo sguardo sui tuoi decreti. 118 Tu disprezzi quelli che devìano dai tuoi decreti perché fallace è la loro astuzia. 119 Come scorie tu elimini tutti gli empi dalla terra, per questo amo i tuoi insegnamenti. 120 La mia carne rabbrividisce per paura di te, io temo i tuoi giudizi.

Di questo ottonario possiamo semplicemente sottolineare una contrapposizione che per altro percorre tutto il salmo. Da una parte c’è l’orante, il giusto che trova in Dio la sua forza e la sua gioia. Qui viene espressa con immagini particolari: la parola è un riparo, uno scudo, una stella polare verso la quale tenere gli occhi fissi. Dall’altra ci sono gli empi: qui vengono descritti come persone doppie (il v 113 è di difficile interpretazione; si può anche dire coloro che sono stati “tagliati”, i dissidenti o secessionisti). Su costoro si abbatte il giudizio di Dio che in questa strofa appare particolarmente duro. “La loro astuzia è fallace, come scorie tu li elimini”! Il giudizio di Dio è come una tempesta che spazza via il male incenerendolo. Davanti a questa potenza del giudizio di Dio, l’orante non perde il senso d’intimità (infatti in lui ha rifugio e scudo, quasi a trovare riparo da quello stesso giudizio che incombe), eppure è preso da un brivido che viene espresso nell’ultimo versetto: la mia carne rabbrividisce per paura di te. Come se fosse spaventato proprio da quel giudizio nel quale confida. Merita di essere ricordata poi la traduzione cristiana di questo versetto, che lo trasforma. Essa ne fa una profezia della croce di Cristo in quanto, seguendo il latino della vulgata (Confige timore tuo carnes mea), traduce: trafiggi le mie carni col tuo timore; per questo Girolamo e Agostino vi leggevano un riferimento alla croce di Gesù: “crocifiggi la mia carne con te” (Girolamo); «Il salmista si ricorda che bisogna soffrire e morire col Crocifisso. Crocifiggiamo dunque la nostra carne alla croce del Signore e così diverremo l’uomo nuovo» (Agostino).

21

Ain 121 Ho agito secondo diritto e giustizia; non abbandonarmi ai miei oppressori. 122 Assicura il bene al tuo servo; non mi opprimano i superbi. 123 I miei occhi si consumano nell'attesa della tua salvezza e della tua parola di giustizia. 124 Agisci con il tuo servo secondo il tuo amore e insegnami i tuoi comandamenti. 125 Io sono tuo servo, fammi comprendere e conoscerò i tuoi insegnamenti. 126 È tempo che tu agisca, Signore; hanno violato la tua legge. 127 Perciò amo i tuoi comandamenti più dell'oro, più dell'oro fino. 128 Per questo tengo cari i tuoi precetti e odio ogni via di menzogna.

121 Ho agito secondo giudizio e giustizia, non abbandonarmi ai miei oppressori. 122 Assicura il bene al tuo servo; non mi opprimano gli orgogliosi. 123 I miei occhi si struggono verso la salvezza e verso la promessa della tua giustizia. 124 Agisci con il tuo servo secondo il tuo amore e insegnami i tuoi decreti. 125 Io sono tuo servo fammi comprendere e conoscerò i tuoi insegnamenti. 126 È tempo che tu agisca, Jahweh: hanno trasgredito la tua legge. 127 Per questo amo i tuoi comandi, più dell’oro, più dell’oro fino. 128 Per questo io considero retti tutti i tuoi precetti e odio ogni sentiero menzognero.

Tema dominante di questo ottavario è l’agire, sia di Dio sia dell’uomo e il loro intrecciarsi. Nella teoria classica della retribuzione, l’intreccio prevede che si possa invocare l’agire di Dio perché si è agito bene. Ovviamente le cose non sono così semplici Occorre però soprattutto dire che l’agire di Dio (mosso dalla sua fedeltà hesed v123), precede e suscita quello dell’uomo. Qualche versione attribuisce come soggetto del verbo agire anche nel versetto iniziale Dio: hai agito secondo giustizia (121). Verso questa azione preveniente di Dio è proteso lo sguardo del salmista (gli occhi si struggono), quasi a riconoscere in essa l’autorizzazione al proprio agire e la conferma dell’ affidabilità dei comandi prescritti. Si invoca anche che questo agire di Dio non tardi, perché il tempo è compiuto, la misura è colma, il suo intervento non può più tardare!

22

Pe 129 Meravigliosa è la tua alleanza, per questo le sono fedele. 130 La tua parola nel rivelarsi illumina, dona saggezza ai semplici. 131 Apro anelante la bocca, perché desidero i tuoi comandamenti. 132 Volgiti a me e abbi misericordia, tu che sei giusto per chi ama il tuo nome. 133 Rendi saldi i miei passi secondo la tua parola e su di me non prevalga il male. 134 Salvami dall'oppressione dell'uomo e obbedirò ai tuoi precetti. 135 Fa' risplendere il volto sul tuo servo e insegnami i tuoi comandamenti. 136 Fiumi di lacrime mi scendono dagli occhi, perché non osservano la tua legge.

129 Meravigliosi sono i tuoi insegnamenti, per questo la mia anima li custodisce. 130 La rivelazione delle tue parole illumina, dà intelligenza ai semplici. 131 Apro anelante la mia bocca perché bramo i tuoi comandi. 132 Rivolgi il tuo volto a me e abbi pietà di me secondo il giudizio riservato a chi ama il tuo nome. 133 Rendi saldi i miei passi secondo la tua promessa così che non domini su di me nessuna iniquità. 134 Riscattami dall’oppressione dell’uomo e osserverò i tuoi precetti. 135 Fa’ brillare il tuo volto sul tuo servo e insegnami i tuoi decreti. 136 Fiumi di lacrime scendono dai miei occhi perché non osservano i tuoi decreti.

Un aspetto interessante dell’intreccio tra la parola di Dio e l’uomo, oltre alla relazione tra il loro agire, che l’ottavario precedente riprendeva, è in questa strofa descritto con simbologia somatica. Dio si rivolge all’uomo come una luce che illumina, che brilla, che nel rivelarsi porta un fascio di luce; il suo volto si rivolge all’orante e in questo pretendersi – come una benedizione – porta luce, orienta i passi. A questa apertura di Dio corrisponde quella dell’orante che con tutto il suo corpo (bocca-passi-volto) si lascia riempire dalla rivelazione. La bocca si apre come in uno sbadiglio (un bisogno di un surplus d’aria), gli occhi si lasciano riempire di luce, i piedi seguono docili. Una curiosità: nel testo di Qumran il primo versetto, al posto di “meravigliosi”ha “ruscelli di miele”, che sembra offrire una inclusione con il verso finale (“fiumi di lacrime”). Gioia e dolore ruotano attorno alla parola di Dio, tutte le corde dell’anima vibrano in essa e per essa.

23

Sade 137 Tu sei giusto, Signore, e retto nei tuoi giudizi. 138 Con giustizia hai ordinato le tue leggi e con fedeltà grande. 139 Mi divora lo zelo della tua casa, perché i miei nemici dimenticano le tue parole. 140 Purissima è la tua parola, il tuo servo la predilige. 141 Io sono piccolo e disprezzato, ma non trascuro i tuoi precetti. 142 La tua giustizia è giustizia eterna e verità è la tua legge. 143 Angoscia e affanno mi hanno colto, ma i tuoi comandi sono la mia gioia. 144 Giusti sono i tuoi insegnamenti per sempre, fammi comprendere e avrò la vita.

137 Tu sei giusto, Jahweh e retto nei tuoi giudizi. 138 Con giustizia hai ordinato i tuoi insegnamenti e con grande fedeltà. 139 Mi divora il mio zelo perché gli avversari dimenticano le tue parole. 140 Purissima è la tua parola, e il tuo servo la ama. 141 Io sono piccolo e disprezzato, ma non dimentico i tuoi precetti. 142 La tua giustizia è giustizia eterna e la tua legge è verità. 143 Angustia e affanno mi hanno colto, ma i tuoi comandamenti sono la mia felicità. 144 Giustizia eterna sono i tuoi insegnamenti, fammi comprendere e avrò la vita.

Il tema dominante la strofa è quello della giustizia (anche perché la lettera dell’alfabeto “sade” rimanda immediatamente alla parola sedq giustizia). È uno degli attributi fondamentali di Dio, forse quello più decisivo nell’Antico Testamento. Qui viene descritta con il corteo delle virtù parallele: rettitudine, fedeltà, purezza, eternità. La giustizia di Dio è retta, non si piega a interessi, va dritta al punto, non segue vie tortuose. È fedele e qui troviamo come non si possano contrapporre giustizia e misericordia, perché non sarebbe giustizia quella priva di hesed, amore fedele, affidabile. È una giustizia raffinata, provata al fuoco, che non ha scorie quindi, senza altri fini). E infine è inalterabile, non è volubile, non cambia, rimane in eterno, è vera perché affidabile (la verità per la bibbia risiede soprattutto nell’ affidabilità, nella stabilità nel tempo). Il credente si affida a questa giustizia. Essa è come un fuoco e per questo “divora”, consuma con uno zelo infuocato anche il salmista (139). La pratica della giustizia (aspetto antropologico) è però secondaria rispetto alla giustizia di Dio (che precede e sovrasta quella del salmista). L’orante in realtà si sente piccolo e disprezzato. Questa condizione del credente, di isolamento e di solitudine, lo rende ancora più legato alla parola, unica sua speranza di giustizia.

24

Kof 145 T'invoco con tutto il cuore, Signore, rispondimi; custodirò i tuoi precetti. 146 Io ti chiamo, salvami, e seguirò i tuoi insegnamenti. 147 Precedo l'aurora e grido aiuto, spero sulla tua parola. 148 I miei occhi prevengono le veglie per meditare sulle tue promesse. 149 Ascolta la mia voce, secondo la tua grazia; Signore, fammi vivere secondo il tuo giudizio. 150 A tradimento mi assediano i miei persecutori, sono lontani dalla tua legge. 151 Ma tu, Signore, sei vicino, tutti i tuoi precetti sono veri. 152 Da tempo conosco le tue testimonianze che hai stabilite per sempre.

145 T’invoco con tutto il cuore, rispondimi, Jahweh; custodirò i tuoi decreti. 146 T’invoco, salvami e osserverò i tuoi insegnamenti. 147 Precedo l’aurora e grido aiuto. Spero nelle tue parole. 148 I miei occhi precedono le veglie meditando sulla tua promessa. 149 Ascolta la mia voce secondo il tuo amore, Jahweh, fammi vivere secondo il tuo giudizio. 150 Mi assediano coloro che seguono gli idoli e si allontanano dalla tua legge. 151 Ma tu, Jahweh, sei vicino e tutti i tuoi comandi sono verità. 152 Da tempo conosco i tuoi insegnamenti che hai stabilito in terno.

Il materiale di questa strofa riprende temi già incontrati. Possiamo sottolineare due scene che invece hanno una certa propria originalità. La prima è un notturno nel quale s’innalza la preghiera di veglie che, mentre si rivolge ad oriente da dove attende il sorgere del sole, intende precedere l’aurora. Come dice forse più intensamente il salmo 56,9: «svègliati, mio cuore, svègliati arpa, cetra, voglio svegliare l'aurora». Ora è un paradosso svegliare l’aurora che è la luce che sveglia l’uomo alla sua giornata. L’aurora è proprio la luce che ci sveglia e qui invece è l’orante che intende svegliare l’aurora. Eppure questo in ultima analisi è la forza del desiderio che anticipa, precede, nell’attesa, quella luce che non può che venire dall’alto e da altro da sé. Perché l’aurora – la luce che serve per vivere e camminare lungo il giorno – sembra tardare a venire. A partire da questo paradosso nasce la tradizione della preghiera mattutina, nella quale la luce che sorge è, nella simbologia cristiana, Cristo stesso (stella del mattino), che viene invocato e svegliato dalla preghiera di coloro che vegliano nel confine tra la notte e il giorno. L’altra scena originale è quella dei versetti 150-151, tutta giocata su di un verbo che parla di vicinanza. In questo caso abbiamo una doppia vicinanza. Una è ostile (viene tradotto con assediano, mi stanno addosso!) ed è di coloro che – per contrasto – si allontanano dalla tua legge. Di contro c’è una vicinanza protettiva: Dio mi è vicino! Potremmo dire che nel momento in cui si avvicina la prova, proprio là Dio si fa più vicino, prossimo, intimo; Egli che è l’Emmanuele, il Dio con noi, a noi vicino.

25

Res 153 Vedi la mia miseria, salvami, perché non ho dimenticato la tua legge. 154 Difendi la mia causa, riscattami, secondo la tua parola fammi vivere. 155 Lontano dagli empi è la salvezza, perché non cercano il tuo volere. 156 Le tue misericordie sono grandi, Signore, secondo i tuoi giudizi fammi vivere. 157 Sono molti i persecutori che mi assalgono, ma io non abbandono le tue leggi. 158 Ho visto i ribelli e ne ho provato ribrezzo, perché non custodiscono la tua parola. 159 Vedi che io amo i tuoi precetti, Signore, secondo la tua grazia dammi vita. 160 La verità è principio della tua parola, resta per sempre ogni sentenza della tua giustizia.

153 Vedi la mia miseria e liberami perché non ho dimenticato la tua legge. 154 Difendi la mia causa e riscattami, secondo la tua promessa fammi vivere. 155 Lontano dagli empi è la salvezza perché essi non cercano i tuoi decreti. 156 Grande è la tua tenerezza, Jahweh, secondo i tuoi giudizi fammi vivere. 157 Molti sono i miei persecutori e i miei avversari ma io non devio dai tuoi insegnamenti. 158 Ho visto i traditori e ne ho provato ribrezzo perché non osservano la tua promessa. 159 Vedi che amo i tuoi precetti, Jahweh, secondo il tuo amore fammi vivere. 160 L’essenza della tua parola è verità, in eterno dura ogni giudizio della tua giustizia.

Due parole chiave permettono di trovare gli aspetti originali di questa strofa. Fammi vivere, secondo la tua promessa (v 154), secondo i tuoi giudizi (v 156), secondo il tuo amore (hesed) (v 159). La preghiera è un anelito alla vita, non però a qualsiasi forma di vita, bensì alla vita in relazione (l’alleanza e la promessa dicono questo: vivi per qualcuno), una vita giusta, una vita che poggia sulla fedeltà di Dio. La seconda parola chiave è “vedere”. Dio viene invitato a vedere la miseria dell’orante e il suo amore per la legge. La vista dell’uomo – se non fosse concentrata sulla parola – non vedrebbe che il tradimento di coloro che non vedono (osservano) la promessa. Stare sotto lo sguardo di Dio è proprio della preghiera. Questo sguardo, come quello di Gesù, è la nostra pace, perché da esso promana una compassione (cf Mc 6) che rigenera. Dio in questa strofa infatti è identificato come il liberatore, colui che riscatta (goel), qualificato per la sua tenerezza (rahamin indica l’amore materno e viscerale) e la sua fedeltà (hesed: amore fedele).

26

Sin 161 I potenti mi perseguitano senza motivo, ma il mio cuore teme le tue parole. 162 Io gioisco per la tua promessa, come uno che trova grande tesoro. 163 Odio il falso e lo detesto, amo la tua legge. 164 Sette volte al giorno io ti lodo per le sentenze della tua giustizia. 165 Grande pace per chi ama la tua legge, nel suo cammino non trova inciampo. 166 Aspetto da te la salvezza, Signore, e obbedisco ai tuoi comandi. 167 Io custodisco i tuoi insegnamenti e li amo sopra ogni cosa. 168 Osservo i tuoi decreti e i tuoi insegnamenti: davanti a te sono tutte le mie vie.

161 I potenti mi perseguitano senza ragione ma il mio cuore teme le tue parole. 162 Io gioisco per la tua promessa come chi trova un grande tesoro. 163 Odio la menzogna e la detesto, amo la tua legge. 164 Sette volte al giorno io ti lodo per i giudizi della tua giustizia. 165 Grande pace per quelli che amano la tua legge non c’è per essi nessun inciampo. 166 Aspetto la tua salvezza, Jahweh e pratico i tuoi comandi. 167 La mia anima osserva i tuoi insegnamenti e li ama intensamente. 168 Osservo i tuoi precetti (e i tuoi insegnamenti); si, tutte le mie vie sono davanti a te.

Nel poema si parla di un tesoro. L’immagine è militare, indica il bottino che allieta coloro che vincono una battaglia. Per questo è associata a questa l’immagine della gioia e della pace. Il salmista è preso sempre tra la paura per i nemici e il timore – nel senso biblico di fiducia – nella parola. Il suo tesoro più grande è la parola di Dio, che lo difende e lo rende vittorioso, che gli dona la pace. Così l’animo del salmista oscilla tra paura e fiducia: il timore del Signore, un senso di riverenza nei confronti della parola, coniuga la fiducia con il senso di grandezza e di mistero. La parola di Dio rimane un principio trascendente, incommensurabile, mai esaurito. Non suscita però la paura, bensì il timore di Dio, ovvero la percezione che questa presenza incommensurabile è affidabile, è a mio favore ed è fonte per me di pace. È diventata importante, nella tradizione monastica (sia quella ebraica – ad esempio i monaci di Qumran – sia quella cristiana), la menzione della scansione settenaria della preghiera: sette volte al giorno ti lodo. Sette è il numero della perfezione e di totalità: ti prego tutto il giorno. Così nascono le ore dell’ufficio di preghiera: lodi, l’ora prima (le nove), la terza (il mezzogiorno), sesta e nona (le tre), il vespero e la compieta. Di per sé c’è anche il notturno, ma Benedetto nella sua regola la considera un’ora a parte: «Sette volte al giorno ho dato lode a te. Questo sacro numero sette sarà da noi compiuto, se soddisferemo al debito del nostro servizio all’aurora, a prima, a terza, a sesta, a nona, al vespero e al tempo di compieta, poiché di queste ore diurne appunto si disse: sette volte al giorno ho dato lode a te. Infatti lo stesso profeta nelle vigilie notturne dice: a metà della notte io mi alzavo a confessare il nome tuo (Sal 119,62). Quindi diamo lode al nostro creatore per i giusti giudizi della sua giustizia in questi tempi, cioè all’ufficio del mattino, a prima, a terza, a sesta, a nona, a vespro e a compieta; e leviamoci nella notte per celebrarlo». Quello di ritmare lo scorrere del tempo di una giornata con scadenze precise della preghiera è una delle genialità della tradizione monastica. Resta da vedere come per noi oggi sia possibile scandire il tempo con una preghiera costante, ritmata, non casuale, che segni il passo del cammino.

27

Tau 169 Giunga il mio grido fino a te, Signore, fammi comprendere secondo la tua parola. 170 Venga al tuo volto la mia supplica, salvami secondo la tua promessa. 171 Scaturisca dalle mie labbra la tua lode, poiché mi insegni i tuoi voleri. 172 La mia lingua canti le tue parole, perché sono giusti tutti i tuoi comandamenti. 173 Mi venga in aiuto la tua mano, poiché ho scelto i tuoi precetti. 174 Desidero la tua salvezza, Signore, e la tua legge è tutta la mia gioia. 175 Possa io vivere e darti lode, mi aiutino i tuoi giudizi. 176 Come pecora smarrita vado errando; cerca il tuo servo, perché non ho dimenticato i tuoi comandamenti.

169 Giunga fino al tuo volto la mia implorazione, Jahweh, fammi comprendere secondo la tua parola. 170 Venga al tuo volto la mia supplica, liberami secondo la tua promessa. 171 Scaturisca dalle mie labbra la tua lode perché mi insegni i tuoi decreti. 172 La mia lingua ripeta la tua promessa perché sono giusti i tuoi comandi. 173 Mi venga in aiuto la tua mano perché ho scelto i tuoi precetti. 174 Bramo la tua salvezza, Jahweh, e la tua legge è la mia felicità. 175 Viva l’anima mia e ti lodi, mi aiutino i tuoi giudizi. 176 Come pecora smarrita vado errando: cerca il tuo servo perché non dimentico i tuoi comandi.

Siamo finalmente giunti alla fine del salmo! L’ultima strofa sembra un compendio della preghiera con tutte le sue tonalità: il grido, la supplica e la lode. Come se l’intero salmo fosse una riserva di preghiere per quel passaggio dalla polvere alla gloria che è l’anima del salterio. Eppure il finale ci sorprende. L’ultimo verso è in qualche modo inatteso. Riprende certo il tema noto della via, evoca l’immagine pastorale ben conosciuta dalla Scrittura. Però, dopo tante assicurazioni di osservanza, di amore, di zelo e di adempimento, come mai l’orante si sente una “pecora smarrita” che il Signore deve “cercare” e avviare? O forse c’è una verità profonda in questa richiesta finale. Mai sono al sicuro, mai ho trovato la via, sempre il sentiero può diventare incerto, se tu Signore non mi cerchi, se non mi precede la tua grazia! La fiducia del salmista non si trasforma tanto in una arrogante sicurezza su di sé, sulla propria via, quanto in una speranza certa di essere accompagnato. Se da una parte io mi propongo di osservare la parola, di tenere fissi i miei occhi su di lei, ancor più so di essere “tenuto d’occhio” dalla parola. È lei che mi cerca più di quanto io non possa esserle fedele, è lei che mi custodisce più di quanto io la comprenda.

28

Pregare questo salmo in Cristo C’è una maniera semplicissima di ascoltare in modo cristologico il salmo 119. Là dove leggiamo legge o comando, o parola, possiamo pensare a Gesù. Ancor più quando il salmo usa la simbologia della via o della luce. Gesù si appropria del titolo di via, come norma di comportamento e via di accesso al Padre; a questo titolo aggiunge – in piena sintonia con questo salmo – quelli di Verità e Vita. La via che è Gesù ci apre alla verità tutta intera. Non si conosce la verità che in cammino, in modo dinamico e mai esaustivo. Il senso poi della verità è quello di un amore fedele – come la parola significa nell’Antico Testamento. Questo non esclude una dimensione conoscitiva, ma impedisce di pensare la verità come qualcosa di astratto, meramente intellettuale. È vero ciò che nel tempo rimane e che ha un passato, un fondamento e un futuro. Per questo la si conosce in itinere ed è importante la direzione: è per la vita. Una via e una verità che non portano vita non sono del tutto autentiche. L’autenticità e il compimento della via e della verità stanno nel portare una vita piena. Anche altri titoli della parola trovano in Cristo il loro compimento: lui è la nostra “eredità”, il nostro “tesoro”, il “rifugio”, l’ “appoggio”, il “garante”. Un altro percorso possibile ruota attorno al tema della legge e del comandamento. Cristo dona una nuova legge che compie l’antica e la compendia nel comandamento antico e nuovo dell’amore fraterno (Mt 22,34-40). Tutto il salmo può diventare una via per pregare e meditare sull’amore fraterno, oltre che sull’amore per Dio stesso, sapendo che i due comandamenti sono uno solo! Infine il tema dominante della Parola. Essa è luce ai passi, oggetto di comprensione amorosa, di attenzione scrupolosa, di pratica vitale, come tutto il salmo canta. Tutto ciò, come invitava Gregorio Magno, «per imparare il cuore di Dio nelle parole di Dio» (disce cor Dei in verbis Dei). E proprio in questo modo – tra la lettera e il cuore – si possono evitare tre banalizzazioni dell’approccio alle Scritture: la banalizzazione della Parola (una lettura puramente letterale o fondamentalista), la pretesa di esaurirla (di conoscerla già per intero, svuotandone il mistero), o l’alibi di considerarla inaccessibile e quindi di non praticarla, non «abitarla con semplicità» (Claudel), con commozione e stupore, con adesione amorosa.