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L’INGHILTERRA E LA RESISTENZA ITALIANA Sono stati recentemente raccolti in volume, a cura del St. Antony's College di Oxford, gli Atti ciclostilati del convegno tenutovi dal io al 16 dicembre 1962, per iniziativa del suo warden, prof. F. W. Deakm, sul tema « L ’Inghilterra e la Resistenza europea, 1939-45 »• L ’introduzione precisa che l’iniziativa, del tutto privata e perciò estranea ad ogni orga< nizzatione internazionale, era nata dall'esigenza da lungo tempo sen- tita di scendere in profondità nello studio di un argomento su cui la let' teratura e i precedenti congressi scientifici non pareva si fossero adegua' tamente soffermati. Naturalmente l’invito a parteciparvi si era limitato alle rappresentanze dei paesi le cui resistenze nazionali avevano avuto rapporti con l’Inghilterra. Inoltre, per ogni paese interessato era stata prevista una correlazione da parte di un ufficiale o funzionario britannico che, nel quadro dei servizi segreti, si fosse occupato di quella specifica relazione. La formula stessa dell’incontro imponeva dunque, a distanza di un ventennio, un dialogo chiarificatore tra le due parti alleate o cobelhge' ranti e offriva l’opportunità di liberare il campo della ricerca storica da Zone grige, affollate da troppi giudizi incompiuti 0 da pregiudizi, ancora radicati nel lontano svolgimento delle vicende, e di qualificare critica' mente il comportamento di ognuno. Tale opportunità si sono anzitutto proposti di cogliere i due relatori italiani, nel tentativo di ottenere quasi provocandole le più diffi' cili risposte alleate. E queste a loro modo sono giunte, illuminando aspetti e componenti che non vanno da noi sottovalutati, quali difficoltà ignorate, necessità tecniche e abiti tecnico'professionali, sufficienti spesso a confi' gurare interpretazioni di comportamento, senza disturbare ogni volta le più gravi categorie etico'politiche. E ciò deve valere, anche se possono apparire non del tutto per noi soddisfacenti le risposte del Col. j. Stevens, capo della missione inglese a Torino, sull’attribuito gli intralcio opposto allo svolgimento della nostra insurrezione liberatrice e l’osservazione di Seton Watson che il tanto discusso e per noi rilevante messaggio Ale' xander del novembre 1944 non fu con ogni probabilità redatto dal ma' resciallo britannico, ma da un ufficiale del suo stato maggiore, e contro' firmato in gran fretta tra centinaia di altri documenti al termine di una pesante giornata di lavoro. Tutto ciò può tornare per noi deludente, ma in ogni caso non indif' ferente alla nostra attività di valutazione, circa le intenzioni « politiche » o le componenti « tecniche » del comportamento alleato in Italia. La rea' Zione infine, e non solo da parte britannica ma jugoslava per esempio,

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L ’INGH ILTERRA E LA RESISTENZA ITALIANA

Sono stati recentemente raccolti in volume, a cura del St. Antony's College di Oxford, gli Atti ciclostilati del convegno tenutovi dal io al 16 dicembre 1962, per iniziativa del suo warden, prof. F. W. Deakm, sul tema « L ’Inghilterra e la Resistenza europea, 1939-45 »• L ’introduzione precisa che l’iniziativa, del tutto privata e perciò estranea ad ogni orga< nizzatione internazionale, era nata dall'esigenza da lungo tempo sen- tita di scendere in profondità nello studio di un argomento su cui la let' teratura e i precedenti congressi scientifici non pareva si fossero adegua' tamente soffermati. Naturalmente l’invito a parteciparvi si era limitato alle rappresentanze dei paesi le cui resistenze nazionali avevano avuto rapporti con l’Inghilterra. Inoltre, per ogni paese interessato era stata prevista una correlazione da parte di un ufficiale o funzionario britannico che, nel quadro dei servizi segreti, si fosse occupato di quella specifica relazione.

La formula stessa dell’incontro imponeva dunque, a distanza di un ventennio, un dialogo chiarificatore tra le due parti alleate o cobelhge' ranti e offriva l’opportunità di liberare il campo della ricerca storica da Zone grige, affollate da troppi giudizi incompiuti 0 da pregiudizi, ancora radicati nel lontano svolgimento delle vicende, e di qualificare critica' mente il comportamento di ognuno.

Tale opportunità si sono anzitutto proposti di cogliere i due relatori italiani, nel tentativo di ottenere — quasi provocandole — le più diffi' cili risposte alleate. E queste a loro modo sono giunte, illuminando aspetti e componenti che non vanno da noi sottovalutati, quali difficoltà ignorate, necessità tecniche e abiti tecnico'professionali, sufficienti spesso a confi' gurare interpretazioni di comportamento, senza disturbare ogni volta le più gravi categorie etico'politiche. E ciò deve valere, anche se possono apparire non del tutto per noi soddisfacenti le risposte del Col. j. Stevens, capo della missione inglese a Torino, sull’attribuito gli intralcio opposto allo svolgimento della nostra insurrezione liberatrice e l’osservazione di Seton Watson che il tanto discusso e per noi rilevante messaggio A le ' xander del novembre 1944 non fu con ogni probabilità redatto dal ma' resciallo britannico, ma da un ufficiale del suo stato maggiore, e contro' firmato in gran fretta tra centinaia di altri documenti al termine di una pesante giornata di lavoro.

Tutto ciò può tornare per noi deludente, ma in ogni caso non indif' ferente alla nostra attività di valutazione, circa le intenzioni « politiche » o le componenti « tecniche » del comportamento alleato in Italia. La rea' Zione infine, e non solo da parte britannica ma jugoslava per esempio,

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all’affermazione di Franco Venturi (per noi del tutto pacifica) che la resi- stenza sia stata soprattutto guerra civile, rivela ancora una volta quanto grandi siano le differenze psicologiche e le posizioni etico'politiche tra coloro che a noi era sembrato dovessero condurre la medesima battaglia.

G. V.

* * *

Jo h n M . S t e v e n s

Questa mia relazione tratterà della Gran Bretagna e dell’Italia, del' l’atteggiamento di questi due paesi nei confronti della Resistenza italiana, di quel che ciascuna dei due cercava di ottenere e perchè. Porterebbe tuttavia fuori strada l’ipotesi che la Gran Bretagna, dopo il 1941, abbia avuto un ruolo preminente nella politica alleata verso l’Italia. L ’Italia venne a trovarsi nella sfera delle operazioni anglo-americane: la politica ufficiale russa, come mostrerò più avanti in questa relazione, si rivelò generalmente passiva. Così, quando parlo dell’atteggiamento britannico verso la Resistenza italiana, è più giusto intendere che mi riferisco all’at- teggiamento anglo-americano, anche se necessariamente visto attraverso occhi britannici. Io ebbi infatti l’onore di servire come ufficiale di Stato Maggiore al Cairo nel 1941 e nel 1942 nel dipartimento dello Stato Mag­giore Generale del Medio Oriente (G. H. Q., M. E.), il quale si occu­pava di operazioni clandestine in Italia (e non in Italia), che rientrassero nella giurisdizione del Cairo, e fui anche ufficiale di collegamento presso i partigiani italiani nella regione piemontese delle Langhe, e infine fui ufficiale di collegamento presso il Comitato di Liberazione a Torino dal novembre 1944 al maggio 1945.

L ’Italia differiva dalla maggior parte degli altri paesi europei in cui operava l’S.O.E. (l’organizzazione britannica direttamente interessata alla Resistenza), in quanto era territorio nemico e, geograficamente parlando, in una posizione tale da rendere difficile lo stabilire dei contatti. Non potendosi usare come base Malta, che era per così dire assediata, bisognò tentare la nostra penetrazione dall’Egitto, dalla Svizzera (essa stessa iso­lata) e da altri paesi neutrali. In realtà, fino alla fine del 1941 di contatti non ne vennero stabiliti. Furono fatti nel 1942 e nei primi mesi del 1943 tentativi sporadici, soprattutto attraverso la Svizzera, di introdurre ma­teriale di propaganda e di organizzare il sabotaggio su piccola scala.

Si può dire che la svolta decisiva sia avvenuta nel luglio 1943 con gli sbarchi alleati nell’Italia del sud, che diedero risultati di grande por­tata. Per prima cosa si costituì colà un governo favorevole agli anglo- americani. Secondariamente fu applicata ad esso la teoria della resa incondizionata, sottolineando così la determinazione alleata di distruggere il fascismo. In terzo luogo, grazie ai tentativi fatti dai tedeschi di disar­mare l’esercito italiano, una certa quantità di armi e di soldati italiani addestrati divennero disponibili per la Resistenza. I primi partigiani risal­gono all’autunno del 1943 e furono la risposta italiana alla deportazione

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tedesca del personale militare italiano in Germania. Ma, nonostante que- sto drammatico cambiamento di scena, i contatti fra il Comando alleato e la Resistenza fecero dei progressi molto modesti, anche se un esodo di rifugiati nel Canton Ticino stabilì il primo contatto con il C.L.N.A.I. (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia) e il trapasso sotto il nuovo Governo del S.IJVI. (Servizio Informazioni Militari), che aveva frustrato il tentativo, da parte di ogni precedente missione alleata, di stabilire contatti in Italia, si dimostrò di considerevole valore agli effetti dei con­tatti futuri.

Questa mancanza di comunicazioni ebbe indubbiamente il suo effetto psicologico sull'atteggiamento alleato verso la Resistenza italiana. Gli avve­nimenti di Grecia e Jugoslavia (autunno 1943 - primavera 1944) segnala­vano i pericoli dei movimenti di resistenza incontrollati e gli sprechi antieconomici degli approvvigionamenti paracadutati per essere usati con­tro i tedeschi, ma in realtà impiegati nella guerra civile. Al Comando alleato l’atteggiamento verso i movimenti di resistenza era ancora pre­valentemente militare. Erano ritenuti utili quelli che uccidevano i tede­schi, dannosi gli altri. I mezzi per rifornire i movimenti di resistenza nel sud Europa erano ancora molto più limitati di quanto generalmente si creda, e Tito si fece la parte del leone. E ’ vero che in Italia, a para­gone dei paesi balcanici, la scena politica sembrava molto meno com­plicata : gli Alleati avevano in mano l’ottima carta di un trattato di pace, e il primo governo del maresciallo Badoglio sembrò fornire un regime « di favore » che avrebbe tenuto bassa la temperatura politica.

In realtà la coscienza politica si andava destando rapidamente e si svilupparono due correnti, divise sul problema della monarchia e pola­rizzate al sud e al nord. L ’armistizio aveva dato origine nell’Italia occu­pata al C.L.N. che riuniva tutti i partiti politici antifascisti : Liberale,Democratico Cristiano, Socialista, Comunista, Partito d’Azione e (sola­mente nel sud) Partito Democratico del Lavoro. La sede centrale del C.L.N. fu stabilita a Roma; un C.L.N. per l’Italia del nord venne orga­nizzato a Milano. Questi comitati cominciarono ad organizzare tutte le forme di resistenza ai tedeschi ed alla Repubblica di Salò. Contrari all’an­tico regime in tutte le sue forme, essi nutrivano, in particolare, senti­menti di antipatia per il Re a causa del suo passato e per il marescialloBadoglio perchè non aveva difeso Roma. Anche se il problema della mo­narchia fu accantonato con l’abdicazione del Re e il riconoscimento russo del Governo Badoglio, mise in grado quest’ultimo di usufruire dell’ap­poggio comunista, continuò ad esserci stato di disagio e di incompren­sione fra il Governo del sud e il C.L.N.A.I., che aveva assunto il comando della Resistenza, fino al novembre del 1944, quando per la prima volta i capi del C.L.N.A.I. s’incontrarono a Roma col Governo del sud.

Una nuova fase si iniziò con la caduta di Roma (giugno 1944) e la stabilizzazione del fronte sulla linea gotica nel primo autunno del 1944. Guardando le cose retrospettivamente riesce difficile rendersi conto del perchè, fra lo sbarco di Salerno del settembre 1943 e l’estate del 1944,

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non venne stabilito praticamente nessun contatto con la Resistenza del Nord. Senza alcun dubbio, era arduo per gli Alleati accettare l’idea che un paese così sonoramente sconfitto -fosse capace di altri sforzi militari, e per di più contro l’antico alleato. Ho fatto menzione delle divergenze politiche fra nord e sud, che devono aver avuto un certo loro peso. E ’ forse giusto aggiungere che l’avanzata alleata verso il nord fu ina- spettatamente lenta e la repressione tedesca nel settentrione estremamente violenta. La fondazione della Repubblica di Salò da parte di Mussolini stabilì un’atmosfera di guerra civile nel nord, che aumentò la confusione ed indebolì la resistenza. L ’impiego alleato della Resistenza si limitò a contatti tattici, per esempio ad entrare in rapporto con i resistenti di Ancona e di Firenze subito prima della caduta di queste città, e a para- cadutare il generale Cadorna a Milano perchè diventasse il comandante del C.L.N.A.I. Questo equivaleva ad ammettere che le relazioni con il C.L.N.A.I. erano tenui ed avevano bisogno di essere incrementate.

I successi alleati in Francia impressero alla Resistenza un grande slam ciò e molto ottimismo. L ’utilità della Resistenza francese dimostrò che quella delle formazioni partigiane era un’arma da non trascurarsi in Italia, e dal luglio del 1944 cominciò un periodo in cui le missioni alleate di collegamento vennero mandate nel nord tanto rapidamente quanto lo permetteva il numero limitato di aerei. Tanto prevaleva il diffuso otti­mismo che la guerra fosse quasi finita, che a molte di queste missioni, inclusa la mia, vennero impartite istruzioni di agire come avanguardie del Governo Militare Alleato futuro, piuttosto che come missioni di col­legamento con i partigiani. Ritardi e vigorosi contrattacchi tedeschi (il maltempo in realtà arrestò le ostilità su tutti i fronti esterni) impedirono a queste missioni di raggiungere il C.L.N.A.I. e i suoi comandi regionali, il che diede luogo all’equivoco che gli Alleati mettessero i partigiani contro i politici nel C.L.N.A.I. Le relazioni fra il Comando alleato e la Resistenza divennero ancora più tese a causa di un proclama emanato al fme di « far smontare di guardia » i partigiani durante l’inverno 1944-45. I partigiani, che nell’estate del 1944 avevano liberato aree di una certa estensione, erano fortemente premuti dai tedeschi. L ’Italia settentrionale non è un paese ideale per la guerriglia, specialmente d’inverno. La rete stradale è troppo ben sviluppata e troppe valli di montagna possono ve­nire chiuse al loro imbocco. Le perdite furono forti, sia fra i partigiani che fra gli ufficiali di collegamento alleati, ed il morale si era ancora più abbassato per l’amnistia promessa da Mussolini.

I viaggi degli ufficiali superiori del C.L.N.A.I. a Roma ed il ritorno a Milano nel novembre-dicembre 1944 segnano il periodo più critico della Resistenza italiana. Da allora in poi si stabilì un rapporto di reciproca fiducia fra il Governo del sud ed il C.L.N.A.I. Il primo ufficiale di colle­gamento alleato raggiunse Milano nel febbraio 1945. Le condizioni gene­rali, e in modo particolare lo stato delle comunicazioni non permettevano al C.L.N.A.I. di assumere il comando del Movimento di Resistenza in senso militare; però attraverso i C.L.N. delle città principali venne orga­nizzata e controllata la resistenza urbana. Per esempio vennero proda­

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mati scioperi, culminanti in quello dell’aprile 1945 che portò alla solle- vazione generale. Vennero impartite direttive militari generali e si d i' stribuirono approvvigionamenti e denaro, ma le condizioni naturali resero molto difficili le attività centralizzate. Il C .L.N .A J. può tuttavia riven' dicare il grande merito' di avere mantenuto la tregua politica fra i partiti che lo costituivano e di avere risparmiato all’Italia quelle battaglie fra singoli gruppi di partigiani che oscurarono la storia della Resistenza in altri paesi.

L ’atteggiamento della Resistenza italiana verso gli alleati rappre­senta, entro certi limiti, il rovescio della medaglia di quanto ho esposto nei paragrafi precedenti, ma il tono cambia e si devono citare altri fatti.

La Resistenza italiana (vale a dire la Resistenza al fascismo) non co­minciò con l’armistizio. Ne è la prova l’ondata di scioperi del marzo 1943 nell’ Italia settentrionale. Ma l’attività della Resistenza, che cominciò con il soffocamento della vita politica da parte di Mussolini nel 1925, fu ri­stretta e si limitò quasi esclusivamente alla sinistra, e perciò ricevette ben poco incoraggiamento dalla Gran Bretagna. Finora ho parlato soprat­tutto dei partigiani. In realtà gli italiani, con la loro particolare attitudine all’iniziativa individuale, diedero prova di essere sabotatori molto com­petenti, e l’aspetto civile della Resistenza merita di essere ricordato non meno di quello para-militare. Un eccellente lavoro venne svolto, special- mente al momento della liberazione, dai G.A.P. (Gruppi Arditi Patrioti) e dai S.A.P. (Sezioni Arditi Patrioti) organizzati negli stabilimenti soprat­tutto dai comunisti. L ’attività dei comunisti non potè cominciare che nel giugno 1941, ma da allora in poi l’esperienza ed il particolare addestra­mento diede ad essi una posizione di comando in questo tipo di resi­stenza. Altrettanto non si può dire delle loro formazioni partigiane (Ga­ribaldini).

Che il Partito Comunista Italiano non abbia monopolizzato la Resi­stenza fu dovuto probabilmente non soltanto al patto Hitler-Stalin, che paralizzò le iniziative durante gli inizi della guerra, ma anche alle radici tradizionali dell’antifascismo molto più profondamente collegate con l’oc­cidente e rappresentate dai socialisti. Ma i ricordi delle intemperanze della sinistra dopo la prima guerra mondiale, che avevano indotto l’uomo della strada a dare un appoggio così grande al fascismo, fecero sì che la Resi­stenza creasse un suo proprio partito moderato, il Partito d’Azione. Esso venne fondato spontaneamente nel 1942 con una forte direzione intel­lettuale e fornì alcuni dei capi preminenti della Resistenza, come Parri. Era anti-monarchico, il che complicò le relazioni fra il C.L.N. ed il Go­verno del sud. Non era in alcun senso un partito popolare, come dimostrò il destino che poi gli toccò. L ’appoggio che il fascismo aveva ricevuto dal Re, dall’industria e dall’esercito, ebbe l’inevitabile effetto di diminuire il contributo della destra, sebbene la tradizione liberale non fosse com­pletamente spenta. Si possono citare gli esempi di Pizzoni, presidente del Credito Italiano e del generale Cadorna alla testa del C.L.N.A.I. Ma costituirono una minoranza.

L ’esercito era in una posizione chiave al momento dell’armistizio.

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Anche se non abbastanza forte ed unito per resistere all’invasione tede- sca, i suoi componenti avrebbero potuto « rifugiarsi sulle montagne » in modo molto più massiccio di quanto non fecero, se non fossero stati così demoralizzati dalla sconfitta. Certo i tedeschi li provocarono in tutti i modi. Non soltanto il disarmo e la deportazione dell’esercito italiano furono effettuati dai tedeschi con estrema crudeltà, ma il modo come essi avevano trattato i loro alleati durante le ritirate di Stalingrado e di El- Alamein divenne proverbiale. Spetta all’Alto Comando Italiano il biasimo di non evere affatto pensato alla possibilità di una occupazione tedesca. Ci furono, naturalmente, delle eccezioni. Molti ufficiali si ritirarono real' mente in montagna, e torna a loro credito di non aver considerato, come in altri paesi, loro primo dovere salvare l’Italia dal comuniSmo nono­stante l’esperienza fatta in Russia, ma anzi di aver accettato il C.L.N.A.I. come guida e organo di coordinamento della Resistenza. Vorrei aggiun­gere una nota personale frutto delle mie esperienze in Piemonte. Il valore militare dei diversi gruppi partigiani variava considerevolmente. Alcuni ufficiali effettivi erano estremamente competenti, ma il vero comando era spesso fornito dai N.C.O., e le origini regionali ebbero il loro peso. Posso parlare del Veneto, Sardegna, Piemonte e Lombardia: questo, per parte mia, sarebbe l’ordine di competenza.

Come ho tentato di indicare, la Resistenza italiana si divide in tre distinti periodi : il periodo della rinascita della democrazia, prima del­l’armistizio, il periodo delle incomprensioni, fra l’armistizio e l’autunno del 1944, ed il periodo finale della liberazione nazionale. L ’esistenza di queste nette divisioni fu dovuto non solo agli italiani ma anche agli alleati. Fino a che fu incerto il risultato finale della guerra, i resistenti potevano essere solo un piccolo gruppo di persone dotate di grande abne­gazione e coraggio. In questo periodo i comunisti probabilmente si di­stinsero nel « causare più disordini » nello sforzo bellico italiano, ma la carattteristica più incoraggiante fu la rinascita della vita politica di par­tito ed il fatto che essa si conformò alle tradizioni storiche del passato. Il Repubblicanesimo non era un concetto nuovo per l’Italia ed il Partito d’Azione prese il suo nome dal movimento creato dal Mazzini durante il Risorgimento. E ’ forse strano che l’anti-clericalesimo, che aveva diviso l’Italia nel passato, non venisse alla ribalta. Ma la Chiesa si rivelò una forza unitaria, forse anche grazie al suo ruolo unitario di fronte alla repressione tedesca e al suo appoggio al nazionalismo italiano.

Durante questo primo periodo gli Alleati si limitarono per lo più a cercare di aumentare il numero delle sconfitte italiane e a intensificare gli attacchi aerei sulle città settentrionali a mano a mano che il fronte si avvicinava al territorio italiano. Ma la dichiarazione della politica della resa incondizionata, che può aver dato nuova forza alla difesa disperata dei capi fascisti, sembra aver avuto anche una parte costruttiva nel con­vincere le nuove forze della democrazia che gli Alleati non avrebbero mai acconsentito, in nessun caso, a trattare con Mussolini.

Il secondo periodo, quello delle incomprensioni, trae origine diret­tamente dalla composizione del Governo del sud e dalla lenta avanzata

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militare degli Alleati in Italia. Le incomprensioni furono di molto aggra­vate dalla mancanza di comunicazioni fra il nord e il sud. Tuttavia è forse giusto dire che gli Alleati non si aspettavano una resistenza mas­siccia nel nord e ancora meno pensavano di averne diritto. « Gli italiani devono guadagnarsi col lavoro la via alla libertà », questo era l’atteg­giamento generale. Ci si aspettava che per l ’italiano del nord fosse un dovere di essere anti-tedesco (il che, a onor del vero, era uno stato d’a­nimo tradizionale risalente ai tempi della dominazione austriaca), tuttavia non ci si aspettava che prendesse piede una rigenerazione politica tale da dirigere le attività della Resistenza in conformità con gli scopi bellici anglo-americani. Le divergenze politiche fra inglesi e americani da un lato e russi dall’altro stavano diventando evidenti in Jugoslavia, e fino a che i russi non rinunciarono all’Italia nel marzo 1944 (e più chiara­mente dopo la caduta di Roma), gli scopi politici degli Alleati in Italia potevano essere enunciati solo nei termini più generici. Bisognava im­porre al paese un governo militare alleato a mano a mano che questo veniva liberato, ed il mantenimento della legge e dell’ordine ebbe la pre­cedenza sugli sviluppi politici.

La lenta avanzata militare causò molte disillusioni e sofferenze e per­dite alla Resistenza. La topografia dell’Italia settentrionale rese difficile ai partigiani la sopravvivenza durante l’inverno. La repressione tedesca e fascista fu violenta. Si ebbero in numero considerevole deportazioni, ese­cuzioni e incendi di interi villaggi. Se quindi, durante questo periodo, gli Alleati non resero più facile il compito della Resistenza, si può però notare con soddisfazione che l'autorità del C.L.N.A.I. aumentò e riuscì a creare dalla Resistenza uno sforzo nazionale basato sulla prospettiva di una futura Italia democratica più che, semplicemente, sull’avversione per l’occupazione germanica.

L ’ultimo periodo — il periodo della liberazione — richiede pochi commenti. Erano stati stabiliti contatti fra il Comando Alleato ed il C.L.N.A.I. Gli ordini dati alla Resistenza erano di ripulire il nord dal nemico e di impedire ai tedeschi di distruggere obbiettivi industriiali e militari, e ciò contemporaneamente all’avanzata alleata nella valle del Po. La risposta fu generale e i risultati assai soddisfacenti, sia in termini di azione contro i tedeschi che nella protezione degli obbiettivi industriali. In molte grandi città del nord fu la Resistenza a dare il benvenuto alle truppe alleate che avanzavano.

Un esame della Resistenza italiana non sarebbe completo senza un riferimento al ruolo avuto da singoli patrioti. Molti comandanti partigiani, dopo il settembre 1943, si ritirarono in montagna come comandanti di gruppi « autonomi » e sebbene accettassero in seguito senza resistenze l ’autorità del C.L.N.A.I., furono essi con la loro personale iniziativa e il loro coraggio a permettere di superare l’inverno del 1943-44, in un momento in cui non erano disponibili nè rifornimenti alleati nè appog­gio politico. Ancora più intraprendenti furono le iniziative di sabotaggio di piccoli gruppi che operarono con grande slancio e decisione. Vorrei ricordare in modo particolare i gruppi di Otto in Liguria e di Franchi

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a Milano. Questi gruppi autonomi mostrarono chiaramente che nelle ope­razioni clandestine gli italiani, se li paragoniamo con altri resistenti, si dimostrarono abilissimi come sabotatori, anche se non furono tutti egual­mente efficienti come partigiani.

Chiedo scusa se la mia relazione offre una serie di impressioni di­scorsive piuttosto che un esame storico approfondito del movimento ita­liano della Resistenza. Cercherò comunque di riunire tutte queste im­pressioni tirando modestamente le seguenti conclusioni.

Le origini della Resistenza italiana risalgono alla resistenza al fasci­smo, nella quale fino al 1943 i partiti di sinistra ebbero il ruolo più im­portante. L ’armistizio del settembre 1943 trasformò queste attività clan­destine in un movimento nazionale basato sui risorti partiti politici, che con la loro maturità dimostrarono che la democrazia di tipo occidentale aveva profonde e solide radici nel popolo italiano. Nei giorni assai difficili dell’occupazione tedesca e della Repubblica di Salò questi partiti politici non solo cooperarono fra loro senza contrasti, ma riuscirono a prendere il controllo dell’intero movimento di Resistenza.

Gli Alleati si dimostrarono ingiustamente cauti e scettici sulla vali­dità potenziale di questo movimento. Senza motivo si rimandò la stretta collaborazione fra il nord e il sud; quando infine essa venne stabilita i risultati furono assolutamente vantaggiosi.

L ’Italia fu fortunata, perchè le vennero risparmiati i dissensi fra i vari gruppi della Resistenza, dissensi che furono invece il tratto caratte­ristico di altri paesi. Ciò fu in parte dovuto all’ammirevole collaborazione fra i partiti politici, ma certo anche alla convinzione generale che gli Alleati avrebbero avuto l’ultima parola sul futuro politico dell’Italia nel Trattato di Pace, ed alla relativa mancanza di interesse da parte della Russia.

E ’ difficile valutare quale sia stato l’esatto contributo militare della Resistenza. In Italia l’attività partigiana cominciò più tardi che in altri paesi ed a essa fu richiesto il massimo sforzo quando la guerra stava in effetti avviandosi alla fine. Per mia esperienza personale posso dire che non ho mai constatato mancanza di coraggio personale o di devozione alla causa della liberazione fra individui appartenenti a tutte le classi sociali, dai contadini alla nobiltà, dagli operai ai direttori della Fiat, da cui dipendeva la mia personale salvezza ed il successo della mia missione.

Ho descritto che cosa gli Alleati si aspettassero dalla Resistenza ita­liana e fino a che punto tali aspettative si siano realizzate. Può essere interessante parlare brevemente dei metodi operativi usati dagli inglesi (non posso parlare degli altri alleati) per ottenere i risultati che in effetti essi ottennero, risultati che, in termini di missione sul campo e di assi­stenza materiale, non furono trascurabili.

La prima missione venne paracadutata in Italia nel dicembre 1942. E fu regolarmente catturata. Fra l’ottobre del 1943 e l’aprile del 1945 vennero mandate sul campo 48 missioni britanniche. Erano in generale squadre di ufficiali inglesi e di radiotelegrafisti spesso accompagnati da

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specialisti italiani.. Il loro compito era principalmente quello di agire come organo di comunicazione fra il Comando Generale Alleato e la Resistenza. Gli Alleati sono stati criticati perchè mandarono queste missioni a ca- saccio presso le unità partigiane anziché conformarsi all’organizzazione territoriale del C.L.N.A.I. Questo è certamente vero per quel che riguarda le prime operazioni, quando il problema era di far entrare in qualche modo in Italia quante più persone si potevano; questo stato di cose mi­gliorò progressivamente a mano a mano che la Resistenza si sviluppava, ma rimase sempre disordinato, anche perchè la situazione nelle aree par­tigiane, era spesso molto fluida.

Queste missioni perciò tesero inevitabilmente a concentrare i loro sforzi su compiti di collegamento militari, di organizzazione di lanci di rifornimenti e di aiuto, in generale, alla lotta contro tedeschi e fascisti. Il loro contributo può essere dimostrato dall’alto numero di perdite.

Sporadicamente si stabilivano contatti per corriere con i C.L.N. re­gionali ed in certi casi fu possibile organizzare lanci di missioni in nuove aree indicate dai C.L.N.; ma il sistema era scomodo e comportava ritardi che sarebbero potuti essere pericolosi. Spesso era più pratico mandare una nuova missione in un’area preesistente per un’ulteriore infiltrazione. Ciò portò di nuovo alla recriminazione che un tipo di formazioni parti­giane tentasse di monopolizzare l’appoggio britannico, ma queste recri­minazioni cessarono a mano a mano che i C.L.N. affermarono gradual­mente la loro autorità.

Nel settembre del 1944 Comando Generale Alleato ci si aspettava che la fine della guerra fosse imminente e venne perciò organizzato un nuovo tipo di missioni, in realtà pattuglie avanzate del Governo Mili­tare Alleato che - dovevano essere inviate in ogni capoluogo di regione. In realtà durante quell’inverno queste missioni non arrivarono più in là delle montagna e si trovarono impegnate negli stessi compiti delle mis­sioni militari. Quando la prima missione raggiunse Milano nel febbraio 1945, divenne possibile coordinare le attività militari e politiche su scala più larga e prepararsi ai problemi amministrativi per dopo la liberazione : ma fino all’aprile 1945 le comunicazioni fra i C.L.N. e i partigiani avve­nivano soprattutto per corriere, e questo fatto limitò in modo notevole l’utilità pratica della missione milanese, a parte il compito di « tener alta la bandiera ». Se mi è permesso, vorrei citare un esempio personale di difficoltà di comunicazione: nel dicembre 1944 ricevetti per paracadute un ampio rifornimento di denaro per il C.L.N. del Piemonte, che ne aveva assoluto bisogno. Fu impossibile trasportarlo ed esso dovette rimanere sotterrato fino alla liberazione, fatta eccezione per alcune piccole somme che vennero depositate presso le Casse di Risparmio e trasferite a Torino. Al momento della liberazione le missioni britanniche presso i C.L.N. re­gionali avevano per la maggior parte occupato le posizioni prestabilite, e fu possibile coordinare la fase di liberazione in tal modo che le truppe alleate avanzanti trovarono le città principali intatte e l’ordine pubblico mantenuto con perfetta efficienza.

Il numero delle missioni britanniche, da me citato (48), può sem­

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brare piuttosto modesto. Ho fatto menzione delle principali difficoltà, in particolare la geografìa dei luoghi e la mancanza di comunicazioni. Dovrei forse aggiungere qualche altro fattore. Nei primi anni i servizi di sicu­rezza fascisti erano molto efficienti. Questo impose all’S.O.E. la necessità di arruolare personale italiano, specialmente radiotelegrafisti, che non si trovavano facilmente. Ancora, l’S.O.E., in generale per ragioni fortuite, connesse con il modo in cui la guerra procedeva, divise il proprio co­mando e i propri sforzi fra Londra, Berna, il Cairo ed Algeri (e più tardi l’Italia del sud e la Francia), e ci volle molto tempo, molta carta e un certo ensusiasmo prima che la faccenda venisse regolata ed il comando messo nelle mani del Quartier Generale Alleato in Italia, permettendo così non solo una migliore direzione degli sforzi britannici, ma anche un miglior coordinamento con gli americani. Un altro notevole fattore di limitazione fu la scarsità di aerei. Da altri paesi, soprattutto dalla Jugo­slavia, si faceva a gara a richiedere apparecchi, e fino a che l’Italia non fu invasa, il lungo balzo dal Nord Africa limitò ancor di più i voli. Per far sì che i terreni di lancio venissero individuati con accuratezza, i voli venivano generalmente limitati ai periodi di luna piena. Verso la fine della guerra divenne possibile volare anche di giorno. Io stesso venni fatto due volte atterrare e una volta fui raccolto di giorno in un campo di atterraggio in montagna, in condizioni probabilmente più allarmanti per il passeggero che per il pilota. Anche i rifornimenti vennero lanciati di giorno, ma, nella mia area almeno, il lancio diurno provocava imme­diatamente una visita da parte dei tedeschi.

Un altro metodo di infiltrazione che fu usato e che ovviamente aveva i suoi limiti era quello di passare le linee nemiche. Durante tutta la guerra il fronte era tenuto in modo sufficientemente discontinuo da ambedue le parti perchè ciò fosse possibile. Inoltre il passaggio non era difficile dalla Svizzera e dalla Francia del sud est (quest’ultimo non in inverno). In realtà queste rotte, specialmente dal Canton Ticino, erano usate regolarmente dai corrieri che andavano e venivano dal C.L.N.A.I. e fu attraverso il Canton Ticino che i capi del C.L.N.A.I. si recarono a Roma nel novembre 1944.

Infine devo far menzione delle missioni italiane, anch’esse 48 di numero, dall’ottobre 1948 all’aprile 1945, mandate dall’S.O.E. All’inizio furono fatti tentativi di mettersi in contatto con singoli resistenti italiani che disponevano di un certo seguito politico, ma le missioni inviate loro fallirono. Più tardi vennero reclutate e infiltrate squadre italiane con compiti di sabotaggio e scorrerie, e molte di esse ebbero successo. Gli italiani ebbero la loro parte di perdite e mostrarono brillantemente le loro caratteristiche nazionali di slancio ed iniziativa.

G iorgio V a cca r in o

Dobbiamo riconoscere che nella letteratura italiana sulla resistenza, a quasi venti anni dalle vicende, continuano a ricorrere con monotonia gli stessi giudizi espressi sin d’allora sugli alleati.

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Per gli osservatori della destra politica gli alleati inglesi e americani avrebbero svolto a ragione — ma in realtà con troppa cautela e non con pieno successo — una opportuna opera moderatrice delle velleità rivolu­zionarie; per gli osservatori della sinistra, con varia gradazione, gli alleati appaiono aver perseguito lo scopo di reprimere ogni sforzo autonomo della resistenza, e ciò mediante intenzionali interferenze e una insufficiente e non equa distribuzione di armi e di aiuti.

La ragione per cui questi giudizi permangono immutati sulle posi­zioni che già trovarono allora divisi i combattenti della liberazione, deve attribuirsi sostanzialmente alla mancanza di nuovi elementi di conoscenza, che consentano di mandare avanti i risultati della ricerca storica.

Del comportamento alleato, o meglio di quella parte dello schieramento alleato che si occupava della nostra resistenza, ci occorre conoscere meglio le condizioni reali in cui quei servizi operarono, ci occorre distinguere quante di quelle insufficienze siano da attribuire a insuperabili difficoltà tecniche e quante alle direttive della grande politica e strategia alleata.

La nostra esperienza non ci riporta che il ricordo di uomini, che hanno sofferto e sperato con noi, e che noi abbiamo anche apprezzato ed amato: uomini che ci hanno capito e si sono sforzati di capire le ra­gioni della nostra lotta, che era lotta non solo militare, come essi la inten­devano, ma di riabilitazione e di rieducazione democratica; e uomini che hanno preferito chiudersi nel contegnoso riserbo dei vincitori o dei vecchi civilizzatori.

E ’ vero che il nostro recente passato poteva giustificare in partequesto sospettoso distacco, ma è anche vero che la progressiva cono­scenza del popolo italiano e dei sacrifici da esso sostenuti sia per ilsalvataggio dei prigionieri alleati, sia per associarsi sanza risparmio di vite e di mezzi alla lotta comune, indussero via via questi alleati a distin­guere tra nazifascismo e popolo italiano e a capire che questo secondo aveva da tempo fatto la sua scelta, attraverso la lunga maturazione nella guerra assurda, condotta nelle peggiori condizioni e al servizio di un al­leato non congeniale e tradizionalmente detestato per la sua barbara e militaresca prepotenza.

Ma questi alleati con cui venimmo allora in contatto erano uomini fra loro diversi per cultura e sensibilità; soltanto per alcuni quelle iniziali riserve anziché dissolversi divennero alla lunga radicati pregiudizi.

A parte queste reazioni morali e psicologiche diverse con uominitra loro diversi, sulle quali si sono soffermati i memorialisti, ciò che qui interessa è conoscere oltre gli uomini che incontrammo, quale fu in realtà il pensiero e la condotta delle alte sfere responsabili della strategia e della politica alleata nei riguardi della resistenza italiana. La letteratura ad alto livello che conosciamo, almeno quella inglese, è abbastanza deludente per lo scarso o nessun interesse portato all’argomento. Nelle memorie di Churchill e del resto in tutto il suo carteggio la trattazione di questo

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tema — tranne che per un passo, al termine della campagna in Italia — non esiste: dell’Italia lo tocca solo la complessa questione diplomatico- istituzionale che si dibatte nel sud e che si riflette sul comportamento degli altri alleati e il suolo fisico entro cui si svolge la guerra degli alleati. L ’interessante diario del Capo di Stato maggiore imperiale, Maresciallo Alan Brooke, che pure tratta a lungo della guerra in Italia, non accenna una sola volta alla resistenza; e, ciò che più sorprende, non ne fanno parola le recenti memoria del Maresciallo Alexander, già comandante su­premo del Mediterraneo, il quale pure dedica quasi metà del suo libro alla guerra in Italia. Ci è quindi lecito dubitare che i riconoscimenti tri­butati in altra epoca e in altra sede alla resistenza italiana dal Maresciallo Alexander possano ritenersi determinati da opportunità contingenti.

Bisogna scendere alle memorie dei singoli militari che operarono nelle missioni o le diressero, per trovarvi talora anche calorosi apprezzamenti : valgano per tutte le lusinghiere conclusioni del Colonnello Hewett, co­mandante della Special Force N. 1 che, per essere incluse nelle sue rela­zioni segrete al Quartier Generale Alleato, al termine delle operazioni, fanno bene sperare della loro veridicità.

Del resto, se ci rifacciamo proprio alle origini della guerra in Italia, prima ancora che vi si profilasse la possibilità di una resistenza organiz­zata, l’interesse degli alleati per cattivarsi l’opinione pubblica e precosti' tuirsi una base per il reclutamento di futuri volontari, dall’esame dei fatti pare fosse assai limitato. Perchè dunque dopo che già, il 25 luglio 1943, Mussolini ed il Gran Consiglio del fascismo erano stati liquidati e sosti­tuiti dal Governo Badoglio, e proprio nei giorni in cui il popolo dimo­strava nelle piazze per la cessazione della guerra fascista e a favore della pace immediata con gli alleati, questi scatenavano un’offensiva aerea indi­scriminata sulle città italiane? Tali incursioni aeree, dell’agosto 1943, così come erano condotte, si proponevano evidentemente non già la neutra­lizzazione di obbiettivi militari individuati ma il perseguimento, mediante il terrore, di una vigorosa sollecitazione sul governo per indurlo alla con­clusione dell’armistizio.

Gli alleati mostravano con ciò di anteporre la soluzione diplomatica del conflitto alle possibilità concrete di una futura resistenza nel paese che stavano per occupare. Ma gli italiani, che si facevano mitragliare dalle polizie di Badoglio a favore della pace con gli alleati, e per giunta veni­vano maciullati dalle bombe di questi ultimi, avevano già fatto la loro scelta e non sarebbero tornati indietro: e forse i futuri alleati lo sapevano.

E ’ comunque fondamentale conoscere (e ci pare sia giunto final­mente il momento di chiederlo, dopo che tanti sacrifici sofferti in comune e tanti anni passati hanno cancellato i vecchi dissapori e ristabilito il dialogo degli uomini liberi) è fondamentale conoscere — ripeto — se gli alleati erano realmente a conoscenza di quanto stava avvenendo in quei giorni nelle stesse città che essi si apprestavano a bombardare e inoltre se le direttive che applicavano promanavano dalla suprema direzione politico-militare o se costituivano decisioni di comandi periferici o iniziative sportive di equipaggi.

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Anzitutto spazziamo il terreno — se ancora ve ne fosse bisogno — dall’ipotesi che la campagna in Italia avesse un significato per se stessa. Lo dice Alan Brooke nel suo diario: non lo aveva nè dal punto di vista militare nè dal punto di visto politico. Non interessava particolarmente la liberazione di un popolo che già aveva combattuto con i tedeschi, nè l’eventuale reclutamento delle sue energie per la prosecuzione della guarra comune. La politica britannica intendeva raggiungere altri obiettivi, non direttamente riscuotibili in Italia, e cioè l’indebolimento delle forze tede- sche su altri fronti : Francia settentrionale e Russia. In secondo luogo, o meglio in un secondo tempo, la campagna d’Italia — lo dice Alexander — mirava a condurre un’armata britannica a Trieste e a Vienna, per giun­gervi prima dei russi.

Ed è da notare che proprio la politica britannica, che aveva caldeg­giato la campagna d’Italia, al contrario degli americani che, sospettosi della penetrazione centro-europea degli inglesi, l’avevano osteggiata e prefe­rivano l’impiego delle forze in estremo Oriente o in Francia — proprio la politica britannica puntò sulla carta della monarchia, giacché nessuno — lo dice Churchill — avrebbe fatto di più a pro degli alleati del re e di Badoglio, non certo lo avrebbero fatto — egli aggiunge — gli esuli e gli antifascisti.

Con il che, pur salvando l’impegno internazionalmente assunto con Russi e Americani di rispettare le decisioni del popolo italiano a guerra finita, essi mostravano per intanto di preferire senza esitazioni il con­tributo che poteva venire dai residui del vecchio stato, a confronto di quello promesso dalle forze popolari e irregolari dell’antifascismo.

Dovremmo quindi concludere che la resistenza non era nè attesa nè desiderata.

Di più, un’Italia post-bellica ancora strutturalmente corporativa e fa­scista, ma senza più Mussolini, era nei voti dell’alta politica britannica e di una parte della sua opinione pubblica. Churchill nelle sue memorie tesse l ’elogio di Mussolini come uomo di stato, e riconosce che « errore fatale (di lui), fu la dichiarazione di guerra alla Francia... Anche quando lo scoppio della guerra era ormai certo — egli aggiunge —- Mussolini sa­rebbe stato ben accolto dagli alleati... ». Ed è Roosevelt a consigliare Churchill in una lettera del 2 ottobre 1943 a non includere l’ex ministro fascista, Dino Grandi, nel nuovo Governo Badoglio, giacché quella no­mina avrebbe potuto suscitare, egli aggiunge, « moltissime critiche e false interpretazioni ».

Queste larvate simpatie per un regime già defunto, ma opportuna- mende riadattato e riammodernato erano costituzionalmente incompatibili con una resistenza antifascista. Per incoraggiare quest’ultima, che già si era preannunciata negli scioperi operai di protesta politica del marzo e dell’agosto' 1943, non si poteva escogitare metodo peggiore che quello di favorire gli uomini e i simboli di un potere che, alla valorizzazione di quelle forze, si opponeva per principio.

E qualora anche si volesse affermare il contrario, e cioè che gli alleati

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contavano seriamente su una partecipazione popolare italiana alla lotta comune, il loro errore sarebbe stato in ogni caso quello di pensare che la molla che muoveva gli italiani a detestare e combattere i tedeschi fosse diversa da quella che li portava a detestare e combattere il vecchio fa- seismo e in gran parte a rifiutare l'autorità del re che aveva accolto il fascismo sotto la sua protezione costituzionale e gli aveva consentito di crescere e svilupparsi, sino a dichiararne la guerra contro le democrazie.

Certo, anche in Italia vi erano coloro che intendevano la guerra al tedesco in termini ancora risorgimentali, di lotta contro lo straniero : ma la maggior parte dei resistenti fu in Italia, per le ragioni che si sono dette, irrimediabilmente repubblicana oltre che antifascista.

In ogni caso la resistenza, desiderata o meno che fosse, nacque spon­tanea e fra infinite difficoltà crebbe di misura e così rapidamente da pre­sentare assai presto seri problemi di armamento e di sussistenza, che i partigiani non potevano più risolvere da soli. Ed inoltre essi avevano coscienza di costituire un efficiente strumento di lotta militare, da armo­nizzare nel quadro delle operazioni generali degli alleati.

Queste ragioni furono esposte il 3 novembre 1943 da Ferruccio Parri, comandante militare della Resistenza, ai rappresentanti alleati in Isvizzera: l’inglese Mac Caffery e l’americano Allan Dulles.

Risulta che questi influenti personaggi provassero simpatia per l’ in­terlocutore italiano, che rappresentava un movimento che tanto aiuto aveva già dato ai prigionieri alleati in Italia; e che anche fossero per­suasi della sincerità con cui le ragioni di una lotta, del tutto nuova per essi, venivano loro esposte. Ma una perplessità di fondo rimaneva: una guerra di grosse bande, sino a raggiungere le proporzioni di un vero esercito di popolo, sotto una guida politica propria, oltrepassava le loro richieste e le loro aspettative. Temevano essi che tale strumento finisse con lo sfuggire loro di mano e che dal disordine e dall’autonomia militare potesse nascere il moto rivoluzionario?

Certo, in tutta la storia dei nostri rapporti con gli alleati è ricorrente questo motivo della limitazione dello sviluppo partigiano che essi ten­devano ad imporci. Dieci mesi dopo l’incontro con Parri, il 16 agosto 1944 Mac Caffery ancora gli scriveva : « Le bande hanno lavorato bene. Lo sappiamo. Ma avete voluto farne degli eserciti. Chi vi ha chiesto di fare questo? Non noi ».

Su questo punto la documentazione non ci manca. In Piemonte il comandante militare, generale Trabucchi, ancora dopo la liberazione vit­toriosa, sarà accusato dal capo della missione alleata in Piemonte, il co­lonnello inglese John M. Stevens, di aver favorito contro i suoi sugge­rimenti il potenziamento dell’organizzazione armata. Del resto, già nel dicembre 1944 lo stesso comandante era stato invitato dal capitano O’ Re­gan, di altra minore missione inglese, a rinunciare al rafforzamento delle formazioni « inutili e forse pericolose — questi diceva — per la situazione futura » ; mentre un posteriore dispaccio della missione alleata in Pie­monte, firmato dal capitano inglese Ballard, comunicava ancora il 25 mar­

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zo 1945 al Comitato di Liberazione piemontese che « il comando alleato non approvava l’incremento delle formazioni patriottiche oltre il numero raggiunto a tutto il 1° marzo ». Non diversamente lo stesso generale americano Mark W. Clarek, comandante del fronte italiano, nel suo mes­saggio ai partigiani esortava a « non reclutare uomini oltre la forza che già avevano raggiunto ».

Era quindi evidente che da mesi precise direttive dall’alto erano di­ramate a tutte le organizzazioni alleate che avevano rapporti con i parti­giani. Ma qual’era il significato di questo comportamento, che fu simile a quello tenuto per un certo tempo in Francia e così dissimile da quello tenuto in Jugoslavia, di fronte all’esercito di Tito? Rilevava esso da una valutazione tecnica negativa circa l’efficienza militare di un vero e proprio esercito di popolo, o non piuttosto da una valutazione politica, che il luttuoso ma tardo esperimento greco può avere condizionato ma solo in parte, e non certo per il periodo che lo precede?

Altro argomento connesso con il precedente è il criterio con cui vennero distribuiti gli armamenti alle formazioni. Ha detto il prof. Deakin nel suo rapporto alla Conferenza di Milano che l’atteggiamento inglese era di appoggiare qualsiasi gruppo che, per quanto politico, fosse in grado di combattere militarmente contro i tedeschi. Ed in effetti la Special Force tra le istruzioni date, nell’agosto 1944, al comandante di tutte le formazioni, generale Raffaele Cadorna, precisava che nella politica degli aiuti non interessava agli alleati conoscere il colore politico dell’organiz­zazione assistita, purché questa dimostrasse sicura efficienza nella lotta.

Eppure, proprio il generale Cadorna, che non può certo essere so­spettato di simpatie verso l’estrema sinistra, in un promemoria al Mi­nistro della Guerra nel governo Badoglio, Alessandro Casati, sul finire del 1944, denunciava che alcune formazioni autonome, riconosciute come « badogliane e antirivoluzionarie » avevano goduto di particolari favori dagli alleati, in fatto di sovvenzioni in armi ed equipaggiamento. E que­sta disparità di trattamento raggiungeva talora tale evidenza da costrin­gere il Comitato di Liberazione a far redistribuire, se vi riusciva, alle formazioni neglette gli aiuti pervenuti alle formazioni privilegiate.

Del resto lo stesso prof. Deakin nel suo rapporto di Milano ha osser­vato come gli alleati fossero consapevoli di quanto gli aiuti in armamento tendessero a modificare l’equilibrio delle forze politiche in seno a qua­lunque movimento di resistenza, per cui è da pensare che soltanto rara­mente e mal volentieri questo squilibrio fosse da essi tollerato.

Sull’argomento della distribuzione delle armi un’altra fondamentale osservazione si impone. A noi è parso in verità che gli alleati attraverso questo importante servizio perseguissero una politica di disarticolamento delle strutture della resistenza; ma siamo pronti a riconoscere il contrario ove sia possibile provarlo. Distribuendo le armi direttamente alle forma­zioni periferiche e predisponendo all’uopo una rete distributiva, con l’invio di missioni alle singole formazioni, gli alleati esautoravano i comandi mi­litari della resistenza.

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Tale intenzione di passar sopra ai rapporti gerarchici che costituivano la struttura stessa della nostra organizzazione emerge da una precisa do­cumentazione in nostro possesso. Posso citare fra gli altri il dispaccio del Quartier Generale alleato in data i° luglio 1944 al Comitato di Libera­zione Alta Italia, in cui era comunicata l’intenzione di emanare istruzioni dirette alle formazioni; e, fra le altre testimonianze, quella del Comandante generale Cadorna, che pure era l’uomo gradito e voluto a quel posto dagli alleati. Scrive Cadorna che gli alleati stessi concorrevano ad esau­torarla « comandando direttamente attraverso le missioni disseminate lungo il territorio alpestre le quali, regolando gli aviolanci di materiale, avevano modo di rafforzare il loro prestigio... ».

Non siamo d’accordo con il relatore a questo Convegno, colonnello Stevens, che le contromisure tedesche all’attività partigiana fossero tali da impedire alle missioni alleate di avere contatto con i comandi della resistenza, regionali o centrale; come non siamo d’accordo ove egli dice che le difficoltà di comunicazione con le formazioni avessero praticamente impedito al Comando generale dei volontari di tenere la direzione in senso militare della resistenza, per cui gli alleati dovevano ovviamente sopperire.

Non vogliamo sottovalutare le difficoltà della direzione di una guerra partigiana in un territorio occupato dal nemico, specialmente nei momenti critici dei rastrellamenti e delle battaglie, ma dobbiamo dichiarare che, con tutti i sacrifici che le circostanze comportavano, tali contatti attra­verso una fitta rete di corrieri e di ispettori militari furono sempre assi­curati, e spesso anche quotidianamente, come dimostrano i massicci car­teggi fra comandi e formazioni periferiche, giacenti nei nostri archivi. Se mai le radiotrasmittenti alleate avrebbero in ogni caso potuto rendere più facile questo compito.

Alla soluzione di tale problema, che sta dietro alla questione dell’as­sistenza alleata, sarebbe di fondamentale interesse avere un quadro preciso della effettiva entità degli aiuti in armi ed equipaggiamento concessi dagli alleati. Se fosse possibile vorremmo formulare la richiesta in questi ter­mini : quanti e quali materiali, quando e a quali formazioni tali aiuti furono distribuiti? e sapere se furono emanate direttive e quali su questa materia dal Quartier generale alleato. Ugualmente necessario sarebbe co­noscere la rete distributiva e i movimenti successivi delle missioni. Anche in questo campo sappiamo poco. Non ultima ragione di questa nostra ignoranza sta il fatto che i comandi stessi assai spesso non erano infor­mati di detti rapporti con gli alleati e le formazioni, che ospitavano le missioni, spesso e volentieri tacevano, per non fare parte ad altri dei privilegi e dei favori che erano loro piovuti dal cielo.

E sempre in merito alle presunte interferenze alleate nell’organiz­zazione stessa della resistenza, vorremmo conoscere meglio le ragioni tecniche o politiche di alcuni tentativi fatti per sovvertire questa stessa organizzazione proprio nella sua ultima fase di sviluppo. Uno di questi progetti fu quello presentato in Piemonte dal colonnello Stevens nel di­cembre 1944, inteso a costituire un « esercito nazionale di liberazione »

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che sottoponeva direttamente l'organismo partigiano alla direzione della missione alleata. Ma sia questo progetto quanto la richiesta di subordinare alla missione alleata anche l’ufficio informazioni del comando regionale partigiano, non ebbero pratica attuazione per l’opposizione del coman­dante generale Trabucchi. Questi osservò, non senza fierezza, come così procedendo si sarebbe « svuotato di ogni essenza il movimento partigiano, sorto e sviluppatosi -— egli sottolineava — per l’indipendenza del popolo italiano ».

Un altro progetto, ancora più radicale, di cui sarebbe utile conoscere la provenienza, fu quello pervenuto proprio in quelle settimane a Milano, al Comandante generale Cadorna. Esso prevedeva di reclutare tutte le for­mazioni autonome, e cioè non politiche, in un unico organismo deno­minato « F.I.R.I. », da cui si sarebbero da se stesse escluse le formazioni che facevano capo ai partiti di sinistra. Questo progetto collima con i consigli che il capo dell’organizzazione Franchi, Edgardo Sogno, uomo di fiducia degli alleati inglesi, scrive di aver dato in quel periodo al generale Cadorna, e cioè di togliere ai comunisti i collegamenti che erano in loro mano, in modo da escluderli da ogni posizione attiva e praticamente dal­l’organizzazione. Questi progetti e questi consigli furono respinti dal ge­nerale Cadorna, per lealtà verso il Comitato Nazionale di Liberazione, alla cui autorità riconosciuta egli intendeva, nonostante tutte le diver­genze, rimanere fedele.

Nella letteratura sulla1 resistenza molto si è discusso sul significato del proclama con cui il 13 novembre 1944, alle soglie del secondo inverno della lotta partigiana, il maresciallo Alexander dava atto dell’arresto della campagna estiva alleata in Italia e invitava i patrioti a ridurre l’entità e il ritmo della loro attività, adeguandosi alle circostanze per sopravvi­vere all’inverno. Le reazioni suscitate nei resistenti di allora, e poi ancora nelle memorie e nelle cronache successive, furono in buona parte negative. Si giunse persino a ravvisare nel Comandante supremo del Mediterraneo l’intenzione di fiaccare senza rimedio la resistenza. Certo in quel proclama è stato commesso più di un errore psicologico, nel rivolgersi a uomini da tempo tesi in uno sforzo estenuante, in attesa di partecipare ad una bat­taglia conclusiva che, tante volte promessa, non giungeva ancora; e in secondo luogo nel presupporre che un esercito partigiano enormemente accresciuto e integralmente spiegato, potesse, al cadere della neve, quie­tamente ripiegarsi e riporsi negli acquartieramenti invernali. D’altra parte è certo che la condotta suprema della guerra aveva le sue valide ragioni e non poteva essere condizionata dalle altrettanto valide e vitali ragioni della resistenza del Nord.

Non ci sentiamo invece di condividere la giustificazione che di quel messaggio dà il colonnello Stevens, che cioè fossero quei provvedimenti la giusta via per rendere possibile la sopravvivenza dei partigiani, stretti tra la pressione offensiva dei tedeschi, il blocco delle valli alpine, la lu­singa delle amnistie di Mussolini a coloro che deponevano le armi. La prova di quanto affermiamo è data dagli stessi fatti come poi si sono

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svolti. Il proclama Alexander non ridusse nè il numero nè l’attività dei partigiani. Esso non trovò pratica obbedienza perchè non poteva averla, senza mortale pericolo per l’organismo. Non pertanto i partigiani e l’orga­nizzazione sopravvissero.

Ultimo punto controverso è il comportamento delle missioni all'ap- pressarsi della battaglia finale. Da molti documenti e testimonianze pare avvalorata l’intenzione degli alleati di rimandare il più possibile l’insur­rezione generale e quasi di ridurne le proporzioni, limitando la confluenza delle formazioni esterne sulle grandi città. Un autorevole chiarimento può esserci dato dal colonnello Stevens quale capo della missione alleata in Piemonte. A lui le cronache attribuiscono di essere stato assai riluttante nel dare la sua approvazione il giorno 24 aprile 1945 all’ordine di insur­rezione, deciso unanimemente dai quattro membri del Comando regionale piemontese.

Le stesse cronache continuano ad attribuirgli la diramazione succes­siva di contromisure non concordate, intese ad arrestare la marcia già in atto di talune formazioni partigiane sulla città. A questi contrordini, da chiunque provenissero, il Comando regionale partigiano ordinò che non doveva esser dato seguito e la battaglia di Torino con perfetta regolarità si svolse così come era stato prevista.

Sarebbe a questo punto di fondamentale interesse conoscere quale giudizio gli alleati davano dell’ insurrezione di popolo che la resistenza intendeva ed era in grado di suscitare; e se le riluttanze che essi mani­festarono al suo pieno dispiegarsi, preferendo l’impiego delle formazioni partigiane lungo le strade e lontano dai grossi agglomerati urbani, corri­spondeva a precise direttive e se in tal caso fossero ancora una volta ragioni tecniche militari o preoccupazioni politiche a dettarle.

Teniamo a sottolineare che, con le nostre parole, non abbiamo affatto inteso muovere critiche agli alleati, nè potevamo farlo, ma soltanto pro­porre all’attenzione degli storici inglesi problemi storiografici sino ad ora irrisolti, alla cui soluzione troppi elementi materiali di conoscenza ancora ci mancano. Alla loro risposta è quindi affidata la possibilità di sbloccare una situazione storiografica ristagnante, che con il coraggio e la serenità del nostro mestiere potremmo invece insieme rimuovere e contribuire a far progredire.

Noi sappiamo che la resistenza di tutti i patrioti e di tutti i parti­giani italiani contro gli eserciti nazifascisti non poteva da sola liberare il nostro paese; e che questa liberazione è il frutto del fondamentale sforzo degli alleati: per questo la nostra gratitudine non ha limiti.

La chiarificazione dei problemi oggi proposti non mira per nulla a spostare l’ordine e la grandezza di questi valori; ma solo a valutare me­glio l’entità del nostro contributo e collocarlo storicamente nel reciproco rapporto con voi, per dissolvere, grazie ai risultati della ricerca storica, quelle nebbie che talora hanno velato, sino allo sconforto nei momenti gravi, la chiara comprensione delle cose.

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F ran co V e n t u r i

Naturalmente non posso parlare delle stesse cose di cui ha parlato il mio amico Vaccarino, anche se anch’io, come lui, ho interesse a fissare e sviluppare i dati di fatto che avete teste uditi. Cercherò di sottolineare alcuni problemi generali che ritengo affiorino dalla discussione di poco fa. Anzitutto, ricordando ciò che disse ieri il professor Deakin, pensavo e continuo a pensare a questo problema della restaurazione e della rivo- luzione nel contesto dei rapporti fra la Resistenza europea e gli Alleati. E ’ vitale per noi, perfino ora, in Italia, capire che cosa fu veramente la Resistenza. Fu una guerra civile? Sì, lo fu. Chiunque vi abbia parteci­pato sa che i partigiani italiani erano molto più ostili ai fascisti che ai tedeschi. Noi volevamo combattere la nostra propria guerra contro i no­stri propri oppressori. Naturalmente, i tedeschi erano i grandi nemici, i nazisti erano i grandi nemici dell’Europa e dell’Italia come di qualsiasi altro paese libero d’Europa; ma la vera lotta penetrava nel tessuto ita­liano, ed era una guerra civile. Non sono certo se così sia stato in Jugo­slavia — ieri abbiamo udito il professor Marjanovic affermare che la guerra di liberazione in Jugoslavia non fu una guerra civile.

In base alla mia esperienza personale debbo dire che la Resistenza italiana fu una guerra civile. Fu un secondo Risorgimento? Be’, io non lo credo. Non amo molto vedere la storia del mio paese concepita come un seguito eterno di Risorgimenti. La Resistenza fu una guerra civile per liberarci dai fascisti, e naturalmente dai nazisti, in contatto e a fianco degli Alleati. Ma per capire che cosa sia stata realmente la Resistenza, è per noi essenziale capire che cosa essa fu per il popolo inglese, per gli ufficiali inglesi, per le Missioni inglesi, per il Governo inglese durante la guerra. E ’ molto importante per noi vedere la nostra Resistenza attra­verso gli occhi degli altri e soprattutto dei nostri Alleati diretti durante la guerra : le Missioni britanniche.

Temo che per molti membri delle Missioni inglesi riuscì difficile comprendere una guerra civile, perchè è vero sì, che l’Inghilterra ebbe delle guerre civili, ma molti secoli fa. Mentre noi ne avemmo un’espe­rienza molto recente. Gli Europei del continente hanno, da questo punto di vista, una esperienza molto fresca che gli inglesi non ebbero. Io non dico che ciò sia bene o male, perchè così è la storia. Non mi erigo a giudice. Sto solo cercando di capire. E temo che sia stato molto arduo comprendere una guerra civile anche per coloro che, come patrioti, com­batterono allora una guerra nazionale. Prendiamo come esempio Badoglio. Bene, noi del Partito di Azione, come la maggior parte degli uomini della Resistenza, eravamo contro Badoglio, non solo perchè era un monarchico, perchè era generale etc., ma anche perchè era l’uomo che non aveva fatto nulla, nel 1922, per difendere le libertà italiane. Non era fascista, a quel tempo, però non aveva fatto ciò che era necessario; e noi eravamo contro il re per lo stesso motivo. Le radici della Resistenza e della guerra civile erano molto profonde in Italia; risalivano almeno alle origini del fascismo.

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Il secondo punto è l’aspetto nazionale della faccenda. A mio parere noi non riteniamo che il nazionalismo, l’orgoglio nazionale, gli ideali na­zionali, i problemi nazionali fossero elementi fondamentali della Resi­stenza. Ritengo anzi che non lo fossero. Credo che nella media dei parti­giani l’idea di liberare il paese dai tedeschi fosse naturalmente molto importante, ma coloro i quali pensavano che quello fosse il solo problema reale avrebbero potuto benissimo aspettare che gli Alleati liberassero l’I­talia. Nel 1944 non c’era uomo intelligente che non avesse capito benis­simo che gli Alleati avrebbero vinto la guerra. Chi aveva solamente ideali nazionali poteva starsene ad attendere senza far nulla. Invece la Resi­stenza fece esattamente il contrario, e non per ragioni nazionali, ma perchè ci liberassimo dai nazionalisti e dagli imperialisti. Naturalmente l’orgoglio nazionale fu, della Resistenza, un elemento importante, ma più importante era il fatto che dopo trent’anni di nazionalismo fascista noi eravamo contro nazionalismo e imperialismo. Tentavamo di reinserirci nell’Europa. Dall’Europa eravamo stati separati; eravamo esclusi, per colpa dei fascisti, dalla evoluzione generale della civiltà europea, e la nostra fu una lotta contro il nazionalismo per rientrare nella vita complessiva dell’Europa.

Il terzo punto, che è internazionale ed europeo (che poi significa la stessa cosa da questo punto di vista), è l’importanza della Resistenza italiana. Essa fu il primo banco di prova di ciò che sarebbe accaduto a un paese dopo il fascismo. In questo stava la reale importanza interna­zionale e storica della Resistenza italiana; infatti, naturalmente, in altri paesi —- in Olanda o nel Belgio o in Francia o perfino in Jugoslavia — il problema era di mutare regime, ideali; però là non c’era mai stato vero fascismo. Il fascismo in Europa era tedesco e italiano. Io credo che molti dei grandi problemi cui si trovarono di fronte le Missioni e il Governo inglesi dipesero dalla loro incertezza sul modo come rispondere a questa grande domanda ; che cosa accadrà del paese dopo il fascismo? Bene, io credo che la vera importanza della Resistenza italiana fu di rispondere, e per la prima volta, a questa domanda. Ecco la ragione della grande sorpresa che si diffuse fra le Missioni inglesi e fra gli ufficiali inglesi che si trovavano in Italia. Essi furono sorpresi, ma devo dire, in base alla mia esperienza diretta, che essi capirono molto bene, e le loro memorie ne fanno fede. E questo è un fatto importante. Dopo vent’anni di fascismo il popolo non voleva ritornare al nazionalismo e alla conser­vazione semplicemente per mantenere le cose come erano. Esso tentava sul serio di restaurare la democrazia, e una nuova democrazia. Ora sem­bra assolutamente naturale che, caduto il fascismo, noi abbiamo in Europa delle democrazie, ma nel 1943 questa non era una prospettiva affatto sicura, ed io credo che l’importante per i partigiani italiani fu di tentare di rispondere per la prima volta, sotto il fascismo, a questa domanda essenziale.

Per quanto concerne il lato tecnico, ci sono alcuni piccoli problemi ai quali io porto un interesse particolare e per i quali riveste grande im­portanza il libro di Secchia, La Resistenza Italiana e gli Alleati (pubbli­

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cato da Feltrinelli), perchè esso contiene documenti di un certo rilievo. Mi unisco all’amico Vaccarino nel chiedermi: gli esperti e gli storici militari inglesi sono veramente persuasi, ora, o no, che l’idea di formare piccoli gruppi di sabotatori non era attuabile nella situazione italiana del 1943-44 e degli inizi del 1945? Infatti noi, che eravamo là, abbiamo sempre combattuto questa concezione. Quando pensavamo di poter dar vita ad una guerra partigiana, molto spesso ci sentivamo rispondere : « No, questo per noi non conta. Ciò che importa è di avere dei gruppi da impiegare nel sabotaggio, nella raccolta di informazioni, e per osta­colare l’opera di razzia e distruzione da parte delle truppe germaniche ». Bene, la risposta italiana, già in quell’epoca, fu la seguente: « Sapete che non è possibile formare piccoli gruppi di italiani; dovete creare un mo­vimento di massa, se volete ottenere questi risultati ». Ora, mi chiedo, e chiedo a voi, se oggi, a distanza di vent’anni, avevate ragione voi o avevamo ragione noi. Non sono sicuro della risposta. Non sono uno sto­rico specializzato in problemi militari. Non posso pronunciarmi, però mi interessa moltissimo di sapere se è vero o no che solo un vasto movi­mento di massa può dare inizio ad una vera lotta; che, quando si dispone di piccoli gruppi di ufficiali, anche se molto capaci, c’è il pericolo del­l’attendismo; che solo un grosso movimento smuove la valanga che dà origine ad un’attività partigiana di importanza storica. Naturalmente io sono persuaso della seconda tesi, ma forse mi sbaglio, perchè questo, che tanto mi sta a cuore, è un problema di tecnica militare. Infatti ritengo che la storia di questi ultimi venticinque anni in Europa e nel mondo sta a provare che il punto di vista partigiano era quello giusto. Se mi sbaglio, è ovvio che sono pronto a mutare opinione.

Il secondo punto, naturalmente, riguarda l’importanza (e qui sono d’accordo con l’amico Vaccarino), la vitale importanza per noi delle Mis­sioni alleate. Quale fu il peso della presenza fisica delle Missioni inglesi in Jugoslavia? Devo dire, in base ad una mia testimonianza personale, che esso fu esattamente identico in Italia. Avere presso di sè una Mis­sione inglese era per i partigiani motivo di orgoglio e contava ancor di più delle armi di piccolo e grande calibro. Questo fu senza dubbio vero; però, così stando le cose, quale fu la reale distribuzione delle Missioni inglesi nei riguardi del colore politico delle brigate partigiane? Nei con­fronti del Piemonte, in generale — non dico sempre — le Missioni inglesi furono di stanza presso le brigate autonome. Ciò accadde per ragioni politiche oppure perchè il giudizio sulla efficienza militare delle diverse brigate piegò a favore di quelle autonome? Io ritengo che la risposta a questo quesito storico non sia meno- interessante che sapere quante armi, di ogni genere, quanti fucili etc. etc. furono forniti a questa o a quella brigata, perchè, ripeto, la presenza fisica delle Missioni inglesi fu della massima importanza.

Ricorderò sempre come i problemi generali non interferirono mai con la vasta e profonda simpatia che ben presto si stabilì dappertutto fra i partigiani italiani e le Missioni inglesi. E voglio finire questa mia rela­zione rivolgendo il mio ricordo a quanti ufficiali delle Missioni inglesi non ritornarono più: a Tempie, ad esempio, che io conobbi a Torino.

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Jo h n M. S t e v e n s

L ’ultima cosa che desidero fare è trasportare questa interessante discussione alla periferia di Torino, anche se disgraziatamente sembra che noi tre si sia venuti tutti dal Piemonte. Inoltre non vorrei dare l’im- pressione che, in risposta ad uno o due punti degli interessantissimi con' tributi italiani, io vi contrapponga dei fatti incontrovertibili. Va sotto- lineato il valore di questi incontri, che se non altro serviranno ad avvicinarci a un terreno comune, anche se questa volta probabilmente non riusciremo a trovare la risposta giusta.

Ma vorrei ritornare sulla questione dei contatti fra alleati e partigiani, respingendo l’idea che l’esperienza fatta in Piemonte debba essere neces­sariamente anche quella di altre regioni, particolarmente di quelle del nord-est italiano, dove il paese si prestava molto di più a venir control­lato da un punto di vista partigiano. La difficoltà per il Piemonte era costituita da un intricato sistema di comunicazioni e da quelle sue valli alpine che potevano venir bloccate, il che mise la Resistenza, lo sostengo tuttora, in una condizione più fluida. E così, se lo potessi, mi dilungherei un po’ in proposito, partendo dal fatto che è vero che lasciai Roma come soldato, ma non certo con l’ordine di organizzare i partigiani di Machia­velli come gruppo rivale. Quando entrai in azione venni assegnato a un’area autonoma, perchè quello che era stato il mio predecessore — il maggiore Tempie — vi era rimasto incidentalmente ucciso: a quel tempo si asseriva che in quella zona agivano 4000 partigiani sicuramente ben organizzati. Gli effettivi erano stati probabilmente esagerati allo scopo di ottenere dagli alleati un maggiore aiuto, ma è certo che erano conside­revoli.

Giunsi — letteralmente — nel bel mezzo della battaglia (la pista su cui atterrai era sotto il tiro nemico) e dopo una decina di giorni passati vagando sulle montagne, di questi supposti 4000 partigiani ne rimane­vano quattordici. Quando ebbi il primo contatto con il Comitato di libe­razione di Torino, tre settimane dopo il mio arrivo — ciò che per caso ho visto riferito nel libro del sen. Secchia — non avevo scorta armata, nessuna protezione fisica; avvolto in un mantello me ne correvo qua e là assieme a questi 10-14 uomini rimasti, e ci muovevamo alla bell’e meglio di notte. Si stabilì che entro due o tre settimane ci sarebbe stato un altro colloquio in rapporto a quello che allora io pensavo fosse il ruolo asse­gnatomi dall’A.M.G. per organizzare la liberazione della regione piemon­tese. Quando dopo tre settimane ritornarono i corrieri io non fui infor­mato della loro presenza nella zona. In seguito mi fu detto, ma questa è una pura e semplice diceria, che il comandante delle brigate autonome della mia zona aveva fatto in modo che io non li incontrassi. E ’ vero che a quel tempo egli mi ammoniva perchè non distribuissi il materiale sul posto, ma lo concentrassi nelle mani dei soldati che sapevano come usarlo. Ma poiché in seguito egli stabilì accordi operativi abbastanza sod­disfacenti con le bande vicine, in condizioni assai diffìcili, questa storia che mi è stata raccontata può essere una maldicenza. Ad ogni modo resta

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il fatto che io non li vidi mai, nè penso di aver avuto altri rapporti — se non attraverso corrieri o messaggi — per quasi due mesi, durante i quali cercai di mettermi in contatto con essi. C’era un ufficiale che avevo la- sciato indietro per il rifornimento di armi; feci in modo di andare a tro­vare alcuni garibaldini; non riuscii mai a mettermi in contatto con persone del partito d’azione che si trovavano più lontane, ed ero interamente preso dal problema della mia sicurezza personale e dalla radiotrasmittente perchè, lo ripeto, le comunicazioni erano di importanza vitale per me, sia per comunicare con Siena, sia anche, naturalmente, per mettermi in contatto con il Comitato di liberazione.

Questa può essere considerata un’esperienza pressoché unica, che nessun altro ufficiale di collegamento ha fatto, ma, ripeto, le comunica­zioni rappresentavano la principale difficoltà. Comunicazioni per giungere ad un qualsiasi accordo, per ottener l’aiuto suddiviso e organizzato e non puramente casuale là dove si presentava una zona che offriva sicurezza ai lanci. E questo continuò sino alla fine di marzo, quando, scomparsa la neve, l ’esercito tedesco era molto più occupato altrove e perciò si poteva agire più liberamente. Avendo preso questa decisione, il che potrà anche sembrare inverosimile, ma vi garantisco che fu proprio così, era­vamo sul punto di andare ad organizzare la liberazione di Torino, quando ci rendemmo conto che le cose stavano ben diversamente e che difficil­mente le nostre istruzioni potevano venir applicate.

Vorrei confermare pienamente quanto ha detto il professor Venturi circa il mio stupore di trovare che i partigiani erano molto anti-fascisti, ma poco anti-tedeschi. Io avevo smesso di incitare ad essere anti-tedeschi, e per quel che riguardava la politica due cose erano presenti alla mia mente. La prima, di cui avevo avuto1 diretta esperienza, era il chiasso sol­levato a proposito della Grecia dai quartieri generali, un chiasso india­volato che coinvolgeva l’intera questione di come in Europa si organiz­zavano i movimenti di resistenza. E l’altra, che per quanto riguardava l'Italia stava per esserci un trattato di pace, e l’occupazione alleata — in realtà poi vi avrei preso parte — . Ricordo ancora, per quanto posso, un episodio commovente verso la fine della guerra a Torino, quando per la prima volta vi convocammo il Comitato di liberazione e si tenne la prima riunione e io mi rifiutai di assumerne la presidenza perchè feci notare che solo esso rappresentava il Governo, almeno finché non arrivavano gli alleati.

C’era ancora un intermezzo di sette giorni e da parte mia ci vollero molte insistenze per costringere il C.L.N. ad emanare qualche ordine. Spero che qualcuno confermerà questi fatti — ma non credo che i due oratori italiani fossero presenti a quella particolare riunione — questi fatti che dimostrano come alla fine del mio soggiorno avessi imparato la lezione, cioè l’ importanza della politica ed avessi cercato di metterla in pratica.

Ma quando ero arrivato in Italia, quella lezione era davvero troppo sepolta nella mia mente.

Ed ecco un altro punto che merita di essere ricordato : la questione se io abbia sabotato o meno la liberazione di Torino. In proposito devo

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ammettere che parecchie fonti sono severe nei miei confronti, ma riguar­dando indietro penso che molti fatti siano stati sottovalutati. Tuttavia lascio la questione a quelli di voi che, trovandosi nella mia stessa condi­zione, nè soldati, nè politici professionisti si mettano di fronte ad una situazione analoga e al fatto essenziale che, sebbene il Comitato di libera­zione fosse il centro politico, non aveva alcun comando (come ho potuto notare nella zona in cui operavo), e non poteva muovere le truppe con un preavviso di cinque minuti da A a B; nè aveva, d’altronde, la pretesa di poterlo fare. Anche se vorrei dire la stessa cosa a proposito del gene­rale Trabucchi, penso tuttavia che talvolta egli sentisse di poter muovere alcuni di questi pezzetti di carta. Ricordo bene che quando si pose il problema di liberare Torino, ci trovammo, il Comitato di liberazione ed10 stesso, a discuterne in una zona della città in cui c’erano disordini e i partigiani erano dispersi qua e là, confidando, bisogna riconoscerlo, nella propria iniziativa, spinti, com’erano dalla sensazione che ormai fosse giunto11 momento di fare qualcosa. Ma sia io, sia il Comitato eravamo ben con­sapevoli che dietro a tutto questo c’era una grande forza tedesca che puntava su di noi. Se stava per andarsene in Svizzera o altrove, che se ne andasse pure, ma intanto stava per arrivarci addosso ed ognuno di noi si trovava nell’imbarazzante alternativa di ingaggiare una battaglia con i tedeschi sulla soglia di casa o intraprendere qualche altra opportuna azione nei loro confronti. E questa è il reale fondamento dell’afferma­zione che, come ho detto, ricorre ogni tanto sulla stampa, secondo la quale io avrei ostacolato, sabotato o compromesso la liberazione della città.

Ma vorrei ripetere ancora una volta che le comunicazioni non erano tali che si potesse basare su di esse una qualsiasi azione militare e che le cose si sono svolte, per il meglio, in un modo del tutto naturale.

Se anche il gen. Trabucchi o io, avessimo voluto diversamente, dubito che avremmo avuto la possibilità di cambiare il corso degli avve­nimenti.

E con questa tranquillizzante impressione concludo i miei ricordi.

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Risponderò, per quanto posso, anche a nome dell’amico Vaccarino. Non ho mai pensato che il colonnello Stevens abbia sabotato la libe­razione di Torino; non lo pensavo nemmeno vent’anni fa quando la di­scussione su questi argomenti era molto accesa fra i partigiani. Noi non pensammo mai, nemmeno per un attimo, che ci sia stato sabotaggio. Naturalmente diversi furono i modi di considerare l’aspetto politico e militare del movimento di liberazione, ma su questo punto noi deside­riamo soffermarci di nuovo. Siamo molto grati al colonnello Stevens di tutto ciò che ha detto a proposito di questi problemi.

Circa i bombardamenti del 1943, sono assolutamente certo che lo scopo unico del Governo inglese fu di costringere con quel mezzo il

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regio Governo italiano a firmare un armistizio, e personalmente sono del parere che la ipolitica della resa incondizionata sia stata giusta. Ma non capisco davvero che ragione ci fosse di bombardare proprio le città del Nord, nelle quali tutti i lavoratori erano in sciopero e non invece Roma dove risiedeva il Governo. Questo è un problema politico e non militare. Forse non si era al corrente degli scioperi di Torino. Ricordo — allora mi trovavo proprio a Torino — che gli operai per poco non scesero a combattere per le vie perchè i soldati di Badoglio erano contro gli scio- peranti, e intanto sopraggiunse il bombardamento. Bene, sono certo che così non fu certo a Roma, eppure non vi è dubbio che il Governo era a Roma e non a Torino.

Secondo punto: le osservazioni interessantissime riguardanti Firenze e il peso avuto da questa città nello svilupparsi di una nuova intesa fra l’esercito inglese e i partigiani. Firenze ebbe una grandissima importanza. Si rifletta sul fatto che, dopo vent’anni (sotto questo aspetto Firenze co- stituisce un ottimo esempio) la città è amministrata dalle stesse persone che facevano parte allora del Comitato di Liberazione e che Ricco Spa- gnoletti è ora il vice-sindaco della città, e che allora, durante la guerra, era il rappresentante di quel terribile Partito d’Azione. Questo significa che la scelta degli uomini non fu poi tanto infelice. Probabilmente lo fu molto di più quella del prefetto mandato da Roma. Lo abbiamo imparato da vent’anni di storia italiana. In ogni modo, il popolo italiano, attraverso il sistema democratico delle libere elezioni, ha confermato le persone che noi scegliemmo allora, a Firenze, a formare il movimento di liberazione. E questo, dopo tutto, è significativo.

A proposito, ora, del processo di restaurazione e rivoluzione — chè cosa significava in Italia « restaurazione »? Infatti il processo fu diverso in ciascun paese. La restaurazione risaliva al 1922. In quell’anno c’era stata una guerra civile, perchè, attraverso una guerra civile, il fascismo si in- sediò in Italia. E dunque avere una restaurazione significava prendere le parti degli antifascisti, i quali erano stati i soccombenti della guerra civile del 1922 e invece furono i vincitori in quella del 1945. Ecco perchè il problema della monarchia era tanto importante in Italia. Di ragioni ce n’erano in gioco anche altre, ma il fatto più saliente era pur sempre questo: nel 1922 il re non aveva fatto nulla per resistere al fascismo. Il movimento della Resistenza fu non solo la continuazione del movi- mento antifascista clandestino durante il fascismo, ma anche la conti- nuazione della lotta che si protrasse dalla fine della Ia Guerra Mondiale sino alla Marcia su Roma, e ciò deve essere compreso. Il problema di una restaurazione era quasi impossibile, come i fatti dimostrarono. In altri paesi, naturalmente, la restaurazione era naturale: per esempio in Olanda. In Italia, e i fatti lo provarono, la restaurazione era impossibile.

Quanto all’intervento del professor Seton Watson, naturalmente ciò che ho ascoltato da lui ha costituito la prova più lampante dell’aspetto positivo di quello che noi cercammo di fare, cioè di dimostrare all’eser­cito inglese, e in generale agli Alleati, quel che significasse veramente la guerra civile in Italia. (Chiamiamola pure « Resistenza » ; come è ovvio,

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perfino il nome è diverso, noi lo derivammo dal francese; ma così noi non chiamammo la « Resistenza » agli inizi; la parola francese si adatta meglio alla situazione francese che a quella italiana).

Noi imparammo, dalla nostra stessa terribile esperienza, oserei dire, che quella era la via per mostrare agli Alleati che cosa significasse in realtà, in Italia, quella guerra civile, e ciò che ho sentito dire dal prò- fessor Seton Watson è una delle conferme più importanti di questo punto.

Era un paese nemico : eh, sì, l’Italia era un paese nemico degli Alleati, ma la cosa essenziale che noi continuavamo a ripeterci, era : « Be’, certamente il Governo inglese e gli Alleati in generale si staranno chiedendo che cosa fare in Europa dopo la guerra ». Limitarsi a uccidere i tedeschi e ad andare avanti finché vinceranno? Be’, naturalmente, sa­rebbe stato bene così, se l’Europa fosse stata uno splendido deserto; probabilmente questa era la soluzione migliore. Ma temo proprio che non lo fosse, e non mi voglio riferire al problema dell’ Italia alla Confe­renza della Pace. Non sono del tutto d’accordo con le conclusioni del libro di Secchia, che si chiude osservando che : « dopo tutto l’Italia non ottenne alla Conferenza della Pace e nella situazione seguita alla guerra abbastanza per gli uomini della Resistenza italiana ». Io non sono d’ac­cordo, e non sono nemmeno — nonostante l’amico Didijer — un pessi­mista. Avere la libertà è l’unica cosa che conti; tutto il resto discende da questa premessa, che costituisce la vera conquista, e questa conquista fu raggiunta, insieme, dagli Alleati e dalla Resistenza. La nostra sorpresa fu che gli Alleati non pensassero abbastanza a quello che sarebbe stato l’av­venire dei paesi nemici. Ma se il risultato è che la situazione italiana nel 1945 fu tanto diversa da quella tedesca nello stesso anno, questo' almeno fu l’effetto della nostra Resistenza, e questo è stato il contributo mas­simo da parte nostra.

Quanto poi fu detto a proposito del Risorgimento, sì, è certamente vero, e costituisce un’osservazione di grande rilievo. Io non sono certo che la Resistenza italiana sia stata un secondo Risorgimento, mentre è possibile che la Resistenza jugoslava sia stata un primo Risorgimento. Può darsi che ciò in un certo senso sia vero. Non conosco abbastanza la situazione jugoslava per sapere se sia realmente così, ma, comunque, è pur sempre importante, dal nostro punto di vista. Noi non immagi­nammo mai che, fra le soluzioni numerose considerate dagli Alleati per l’Italia postbellica ci fosse quella di un nuovo smembramento del nostro paese. Certo no. Questo era escluso in ogni caso, e probabilmente non era vero per la Jugoslavia, e qui sta la grande differenza. Il Risorgimento, mirante a costituire uno Stato nazionale, risale per l’Italia a cento anni fa, mentre probabilmente questa non era la situazione in Jugoslavia. Devo però rispondere alla domanda posta a proposito della guerra civile. Il Ri­sorgimento di cento anni fa fu, dopo tutto, una guerra civile. Quando Garibaldi scese a liberare la Sicilia, i Mille non combatterono contro austriaci o contro un qualsiasi altro popolo. I siciliani sono italiani come lo sono i piemontesi o i napoletani. Quando Cadorna (il nonno del Ca-

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doma di cui abbiamo parlato qui) entrò in Roma e la liberò dal Papa, combattè contro pochi svizzeri dell’esercito pontificio; ma, in linea di massima, quello fu un problema italiano. Il Papa era italiano. Questo non significa che un Risorgimento, un movimento nazionale di liberazione, non sia una guerra civile. Lo fu; lo fu in Italia e anche in altri paesi.

Un breve cenno infine alla Val d’Aosta. Di una cosa dobbiamo essere soprattutto grati agli inglesi alleati della Resistenza, e in particolare, alle Missioni di stanza in Piemonte, e cioè delle centrali elettriche. Il libro dello Harris sul Governo Militare Alleato in Italia ha fornito tutta la documentazione. Questa è una delle cose per le quali dobbiamo essere riconoscenti in modo speciale agli Alleati e alle Missioni di stanza in Piemonte.