L'agguato di Dio di Marco Pozza - estratto

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L’agguato DIO di marco pozza

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Marco Pozza ci narra di «un Dio in agguato», che «s’intrufolò tra le viuzze assolate di una terra di confine: vi rimase per un po’ di anni. Compiuti i trenta, scelse d’andare via di casa». Un Dio che si guadagna «il pane con le reti», in grado di mandare «su tutte le furie lo sbruffone di Lucifero » e che «in mille giorni rimise mano al terrestre», dando il via a «una strana faccenda che ancor oggi aizza le folle».

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L’agguato

DIOdi

marco pozza

ha la passione dell’imprevisto.

È un Dio in agguato.

«S’intrufolò tra le viuzze assolate di una terra di confine: vi rimase per un po’ di anni. Compiuti i trenta, scelse d’andare via di casa.

Alcuni, vedutolo anni dopo guadagnar-si il pane con le reti, gli rinfacciarono quei trent’anni buttati al vento. Lui non ribatté: dette loro l’infinito di Dio. E mandò su tutte le furie lo sbruffone di Lucifero.

In mille giorni rimise mano al terrestre: alla faccia del buon senso.

Una strana faccenda che ancor oggi aiz-za le folle. Tutto come un tempo: gente che va, gente che viene. Lui, taciturno, spia e annusa: ha la passione dell’im-previsto.

È un Dio in agguato. L’Imboscato».

Dopo L’imbarazzo di Dio, l’autore torna al vissuto del Nazareno col suo stile dis-sacrante e profondo. Lo scenario è quel-lo dei cinque sensi: «Non poteva essere altrimenti con un Dio che al linguaggio romantico degli scribi e dei farisei pre-ferì il dialetto scarno e dislessico di pe-scatori poco abituati ai grandi discorsi ma esperti conoscitori delle percezioni, delle impressioni e dei presagi».

Marco Pozza (1979) è sacerdote, teo-logo e scrittore. Cappellano di un car-cere nel Nord-Est d’Italia, ha sposato una frase di san Giovanni XXIII: «Non siamo al mondo per custodire un mu-seo, ma per coltivare un giardino». Con il linguaggio della poesia e uno stile di sorpresa ha scelto di abitare le perife-rie più estreme, laddove il contrasto tra vita e morte è più ardito e appas-sionante. Il suo sito internet – www.sullastradadiemmaus.it – è un crocevia affollatissimo di ragazzi che incontra in giro per le strade, nelle scuole e dentro i teatri e con i quali spezza il pane del Vangelo. I suoi romanzi e i suoi saggi – Penultima lucertola a destra (2011), Contropiede (2012) e L’imbarazzo di Dio (2014) – viaggiano veloci sulle ali del passaparola di chi in essi s’imbatte.

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Marco Pozza

L’AGGUATO DI DIO

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© EDIZIONI SAN PAOLO s.r.l., 2015Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano)www.edizionisanpaolo.itDistribuzione : Diffusione San Paolo s.r.l.Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano)

ISBN 978-88-215-9644-5

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«Già egli è imboscato, alla volta della stradache va da Gerusalemme a Damasco,

e spia Saul, il suo diletto persecutore.D’ora innanzi, nel destino di ciascun uomo,

vi sarà questo Dio in agguato»

(F. Mauriac, Vita di Gesù)

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Preludio

«Sono un coniglio. Guardami!»

Nessuna gabbia nelle vicinanze, nemmeno a corto raggio d’azione.

Passi confusi, gemiti rinsecchiti. Ferri sulle sbarre, sbarre di ferro: passaporti di ferro e di cemento. Voci sorde di ramadan, voci secche di bestemmie, voci ag-grovigliate di avvisi: vagiti di carni fresche e scadute. Tonno, spezie e pomodoro: cielo, terra e polvere. Car-ta igienica, pannolini e deodoranti. Tutto dentro, tutto insieme, tutto uno. Di un’erba un fascio. Santi e fulmi-nati.

«Sono un coniglio: guarda la mia gabbia».Entro. Entro in gabbia. Entro nella gabbia di un coniglio.

(Confidenze mattutine di un coniglio spossato)«Sono nato in Istria e sono figlio di un pescatore che

si ubriacava. Mia madre non sapeva né leggere né scri-vere. Sono l’ultimo di sei figli: due sono nati morti, due sorelle me le ha portate via il tumore, l’ultima è divo-rata da un cancro. L’asilo è stato un incubo: siccome

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Tito odiava gli italiani, noi bambini di italiani venivamo spogliati, battuti, torturati sui tavoli.

Mio padre mi ha messo in uno zaino e mi ha portato in Italia, in un manicomio per bambini. Siccome pian-gevo, mi mettevano le cinghie sul letto come i matti dei film (sono un coniglio)».

Le unghie sono appuntite, le mani sono fiacche e annerite. Unghie e mani incapaci di sostare un attimo: è carne in perpetuo movimento, gracile tremolio di un fremito angosciato e scorticato dall’inferno. Sta seduto sul bordo della sedia, come di chi odora di provviso-rietà e di passaggi: le gambe, sotto, incrociate. Puzza come una carogna. Addosso porta l’odore rancido del-le cose elementari: la muffa, la rogna, la polvere. La noncuranza.

«A vent’anni sono entrato nel manicomio dei grandi. Per quindici anni, la sera, alzavano delle reti e il letto diventava una gabbia: avevano paura che scappassi. Mi mettevano la camicia di forza, mi davano due pappa-galli per la pipì e una padella per la cacca. Di notte dormivo come i conigli in gabbia (sono un coniglio). Due volte mi hanno fatto l’elettroshock. Un giorno sono uscito da quell’inferno».

I movimenti sono flemmatici: le parole barcollano come le mani, lo sguardo arranca come di chi sta scivo-lando pesantemente, le pupille sono cisterne di rabbia e miseria. Il fisico è un ripostiglio di malattie: asma bronchiale, TBC polmonare, enfisema polmonare, al-lucinazioni visive e uditive, gastrite, ipertrofia prostati-ca. La cura è sempre quella, sempre la stessa. Numeri

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e codici per chi, da queste parti, è poco più che un numero, carne da tenere a bada: EN 2mg, Limpidex 30mg, Cardioaspirina 100mg, Zoton 15mg, Taolfen 20g (tutte le sere), Nozinan 25 mg, Diazepam 30g.

«Si richiede vitto in bianco per gastrite con pregressa ulcera duodenale». Certe ricette sono sberleffi. Punto.

(Sono un coniglio)«Sono arrivato alla pensione a 62 anni. Prima ho

lavorato in un cimitero come affossatore assieme a tre matti: loro fregavano l’oro ai morti, puzzavano di mor-to. Una decina di volte, la sera, mi hanno preso e chiu-so in una tomba per due/tre ore. “Tanto è matto” – sentivo che dicevano ridendo. Una volta si sono dimen-ticati di me: sono arrivati la mattina dopo, tranquilli. “Tanto è matto, neanche se n’è accorto”: si diedero pace così.

Il comune mi ha cambiato lavoro: da affossatore (af-fossato) a spazzino. Ho vissuto per anni in una soffitta dove le bottiglie si ghiacciavano dal freddo: la bora apri-va le persiane e io le chiudevo coi ferri. Troppo caldo, troppo freddo: i topi mi camminavano sulla pelle, mi rosicavano le orecchie (“Guarda qua!”). Ho tentato di buttarmi dal balcone, ma neanche la morte mi ha vo-luto. Sono un coniglio».

«Guardalo, il matto!». Da fuori s’odono voci di rival-sa, risacche di maree che si stravaccano a riva. Di storie che s’accartocciano umide.

«Ha le scarpe spaiate stamattina». E giù sghignazzate.«S’è pisciato addosso»: è il pubblico ludibrio.«Guarda, guarda: la sta facendo ancora». La folla

sbava.

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Tutti a ridere dei matti in piazza: basta che non siano della loro razza. Tanto, è matto. È stato persino nella tomba una notte intera.

Un gabbiano si posa sull’inferriata della sua cella di galera, profondo Nord-Est. Il bianco della testa, l’a-rancione del becco e delle zampe, il nero della coda estrema. Variazioni di colore sulla monocromia del rosso.

Giordano s’alza per dargli la mano: «Ciao, sono un coniglio!»

La raucedine del gabbiano è un ritorno di simpatia.«Non so dove i gabbiani abbiano il nido, ove trovino

pace. Io son come loro in perpetuo volo. La vita la sfio-ro com’essi l’acqua ad acciuffare il cibo».

Torna a sedersi. Prende in mano la padella per scal-dare qualcosa a mo’ di pranzo: oggi ha un ospite in gabbia con lui. Un coniglio, un gabbiano e un prete. Ma non gli riesce nulla con quell’attrezzo da grande chef: quella padella evoca strani ricordi. Di gabbie per conigli, di cacche di matti, di tempi andati. Andati, cioè scaduti.

È impacciato l’uomo: quello sguardo è il vero pasto. Due enormi borse sotto gli occhi: come di chi, viaggia-tore, non dorme da decenni. Gonfie, grosse, slabbrate. Povere, nobili, saporite. Occhiaie smunte, patite, inca-vate: «E come forse anch’essi amo la quiete, la gran quiete marina, ma il mio destino è vivere balenando in burrasca» (V. Cardarelli).

«Dormi la notte, Giordano?»«Sono un coniglio».

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«Ma ogni tanto la notte chiudi gli occhi?»«...?!» (stralunato)

La vista, eccitata, è offuscamento.L’udito, eccitato, è frastuono.Il tatto, eccitato, è scottatura.Il gusto, eccitato, è aceto.L’odorato, eccitato, è pazzia.

Così conciati, prender sonno sarà la più solenne tra le profezie.

La più efferata tra le maledizioni.

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UNO SGUARDO È UNA SCINTILLA

È petrosa quella terra: nuda, pelata, secca. Arenosa. A vincere la calvizie qualche ciuffo d’erba e una pietra-ia di detriti. Somiglia più alla pula che il vento disperde sull’aia che a una carezza d’amante che consola. Da queste parti Giuda è un nome di geografia e di deserto, prima ancora d’esserlo d’uomo. Del traditore rimasto fedele alla sua cocente delusione d’amante: “Mi hai de-luso. Prima io, poi te”. Siamo nel deserto di Giuda: il cuore e il bordo. L’asfissia e l’incontro, la rabbia e la pazienza. L’attesa e lo spasimo: quel nome, un giorno, potrà dire d’aver respirato i pollini di tutti i fiori di Palestina.

D’aver adocchiato gli sguardi di tutti gli uomini.L’uomo campeggia proprio là, nel mezzo di quella

misera turba sozza di peccati che acclama la misericor-dia di un lavacro. Indovinarne il nome è già una mezza salvezza: è stanare l’agguato finale della Grazia, la ma-novra risolutiva. Il nome che porta è versatile: al ma-schile va d’accordo con terremoto, fulmine, sconcerto, scompiglio. Al femminile, invece, spartisce i tratti fisio-nomici con valanga, slavina, frana. Al maschile o al fem-minile ciò che muta è il genere, non la sostanza, che rimane la medesima: irrefrenabile, veemente, sfrenato. Dissacrante e profondo, come un pittore sporco di ver-

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nice in fronte alla sua tela: «Una civiltà non è là dove carovane di persone sfilano ogni giorno davanti a dei capolavori nei musei. La civiltà è dove si dipinge» (A. de Saint-Exupéry). Un cane sciolto.

Giovanni, figlio di Elisabetta e Zaccaria. Un albero genealogico smunto e rinsecchito il suo, anticipo e specchio dell’arsura nella quale predicherà: una storia di ormoni secchi, di uteri riarsi e di profezie aguzze. Al vecchio padre Zaccaria un giorno gli venne sequestrata la voce: «Sarai muto e non potrai parlare fino al giorno in cui queste cose avverranno, perché non hai creduto alle mie parole» (Lc 1,20). Pagò salata quell’increduli-tà mal digerita dal Cielo. Ciò che il Cielo confiscò al padre, anni dopo lo accrediterà al figlio appena dopo: sarà doppiamente voce. Così tanta voce addosso da om-brarne persino il nome. Non più Giovanni bensì Voce: «Io sono voce di uno che grida nel deserto: preparate la via del Signore» (Gv 1,23). Così voce da diventare la voce per eccellenza. Il Battista di Zaccaria: la corda vo-cale prestata al figlio nazareno di Giuseppe carpentiere. Al figlio dell’Altissimo.

Due amici e una capanna: «Allarga lo spazio della tua tenda» (Is 54,2). Estasi e incanto, rapimento e fuga, chiaroscuro e luce. Ognuno in disparte, nel chiuso del suo atelier: lui nel deserto, l’amico nella bottega di Na-zaret. Ognuno per i fatti suoi, ognuno a lavorare sui fatti dell’altro. Tutto iniziò con un incrocio di sfuggita: «Appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo» (Lc 1,44). Quel giorno furono due donne gravide e sorpre-se a spartirsi il gaudio: nessuno s’accorse che dentro di loro due nascituri s’erano stretti lo sguardo. S’erano

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dati la mano: alla svelta, come di chi ha le idee chiare. Si erano programmati il viaggio, precedenze comprese: “Prima tu, poi io”. Sotto gli occhi di tutti, alla luce del sole e all’ombra della maternità. Dopo d’allora, ognuno per la sua strada. Non, però, ognuno per i fatti propri: l’abilità dei proverbi con loro si tramuta in calcoli rovi-nosi. Arrischiati.

Austero come pochi, Giovanni trascorse i suoi giorni ai bordi dell’insopportabile. Si cibò per anni di locuste e miele selvatico: vinse la nudità con una cintura di pelle ai fianchi, con pelle di cammello legata addosso e un paio di sandali in basso. Calciò a destra e a manca, sferragliò di sopra e di sotto, tirò in ballo le razze dei serpenti e i covi delle vipere: in un incontro di scherma è importante sentire la lama. È ciò che fa di un cavallo un purosangue e Giovanni è un purosangue: stirpe pu-ra, quella di Dio. Casata che trasborda: Erode, e chi per lui, si scotterà ad arginarla. Lui e tanti altri dopo di lui: il pelo si perde, il vizio no. Si accresce.

Sulla riva. Lui avanza: franco e silente. Sprovveduto, verrebbe da dire: se non fosse che lui è l’altro, il grande annunciato in quell’annunciazione che da Nazaret si propagò per il cosmo intero. Una moltiplicazione di annunciazioni: «In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, uno che viene dopo di me, al quale io non son degno di sciogliere il legaccio del sandalo» (Gv 1,26-27). Gente che va, gente che viene: un trambusto di peccati e di remissioni, di sciacquio e di risciacqui, di battesimi e di rinascite. Volti frastornati e frastagliati: il furfante e l’aizzatore, il funambolo e il crumiro, lo strozzino e la spavalda. L’omicida, il lussurioso e l’avido di denaro sporco. Questo e quell’altro, il vicino e il

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lontano, l’ossequioso e il dissacratorio, il reputato dal volgo e il contabile. Tutti a farsi rilavare dal predicatore, a sentirsi rinfacciare d’essere dei “disgraziati” da quell’uomo bruciato dal sole, speranza ultima di un po-polo disperato.

Tutti dal Battista, nessuno escluso. Pure Dio: a spar-tire la miseria, ad attaccarsi l’odore delle pecore e dei suoi pastori, ad arrostirsi al brio delle parole aguzze del parente Battista. Che, giusto il tempo d’affinare la vista e di scoprirne la fisionomia, si sposta, s’abbassa, si cala nell’acqua: «Il mondo intero si sposta quando incontra un uomo che sa dove andare» (A. de Saint-Exupéry). C’è un cambio di guardia ormai imminente, quel bat-tesimo va impedito per ragioni di cuore e di mente: «Io ho bisogno di essere battezzato da te e tu vieni da me?». Reggere simile domanda per più di due secondi è esporsi al rischio folle della fede. È bruciacchiarsi alle illogiche segretezze del Mistero.

La dolcezza e la severità, l’azzurro e il lampo, l’irsuto e il maestoso. Il selvaggio e l’angelo faccia a faccia: «La-scia fare per ora, poiché conviene che così adempiamo ogni giustizia» (Mt 3,14-16). Un Dio capovolto: una mezza incomprensione tra cugini di parentela. Come può il puro sfilare nel mezzo degli impuri, la bellezza spartire l’acqua con l’immondo, il gusto lambire il di-sgusto? A posteriori, più che incomprensione restò la più bella tra le manifestazioni d’intenti: il predicatore del Mar Morto fu ambasciatore della salvezza che esor-dirà sul Mar di Tiberiade. Quell’inginocchiarsi di Cristo in fronte a lui rimarrà il più animoso tra i gesti amicali. Tra le concessioni accordate dal divino: sulle sponde di mari, scenario d’amori impossibili.

L’intento fu pari al risultato, se è vero ciò che tra-

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manda la parola sacra. Che molti, di lì a poco, lo con-fonderanno col Messia delle genti, scomodandosi sin dalla città santa per chiedere lumi e tornarsene con più nuvole: «Io non sono il Cristo [...]. Sono voce di uno» (Gv 1,20.23). Voce stramba la sua, di quelle che nulla hanno da spartire con le corde vocali. Voce che sgorga dagli occhi, un miscuglio di beatitudine e di raucedine: «Io ho visto e ho reso testimonianza che questi è il Fi-glio di Dio» (Gv 1,34). Impossibile zittire quell’appari-zione.

Pensare che quando nacque a molti parve che avesse sbagliato i tempi d’uscita: troppo tardi per gareggiare con i profeti. Troppo presto per farlo con i discepoli. Fra il troppo – presto o tardi – vinse il tempo di Dio: l’uomo giusto, né profeta né discepolo. Fu precursore, un ruolo ideato apposta per l’occasione. Cursore è co-lui che indica una posizione: nel suo etimo (cursor) gia-ce l’idea di velocità e destrezza, d’agguati. Precorrere il cursore è allenare alla corsa, addestrare i piedi agli agguati, svegliare la muscolatura per non perdere l’ap-puntamento. Precorrere è insegnare a correre: «Rag-giungerai il Paradiso quando avrai raggiunto la velocità perfetta. Il che non significa mille miglia all’ora. Perché qualsiasi numero è un limite, mentre la perfezione non ha limiti. Velocità perfetta vuole dire solo esserci, esser là» (R. Bach).

Insegnare ad esserci: mica bazzecola.Allenato al deserto. Nel deserto. Allenarsi ad amare

al tempo del deserto: «La spoglierò tutta nuda e la ren-derò simile a quando nacque, e la ridurrò a un deserto, come una terra arida, e la farò morire di sete» (Os 2,5). La promessa è un attrezzo per giardinieri, perciò «io la sedurrò, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuo-

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re» (Os 3,4). Il deserto come spazio e tempo: del per-dersi per ritrovarsi, del denudarsi per rivestirsi, dell’as-senza come forma di presenza ancor più decisa. Dell’u-mano torchiato.

(Tra parentesi)

Di giardino in giardino. Attraverso il deserto. In prin-cipio ci fu quello del Paradiso terrestre: il giardino nel quale Adamo ed Eva, seppur nudi, «non ne provavano vergogna» (Gen 2,25). Nel giorno finale apparirà l’altro giardino, quello della Gerusalemme celeste (Ap 22). Tra i due, staziona la domanda che accese ogni altra domanda: «Dove sei?» (Gen 3,9). È l’inizio di una ri-cerca che non avrà più fine tra le strade di quaggiù. Il primo giardino racconta di un sospetto, diabolico per l’appunto: che il Dio della creazione e delle sorprese sia un Dio inaffidabile. L’altro giardino pennellerà l’e-satto suo opposto: la confidenza con il Dio affidabile. Due modi di stare con Lui: dal nascondersi «dalla pre-senza del Signore Dio» (Gen 3,8) al gridare «Vieni!», cogliendo la sua risposta: «Sì, vengo presto» (Ap 22,16-21). Un Dio rimasto fedele al soprannome che si era scelto: Emmanuele, il Dio con noi.

Tra i due giardini spaziano i deserti: sembra quasi che nella Scrittura ogni giardino necessiti di un deser-to che ne faccia da precursore. Anche all’inizio fu così: dal deserto del nulla, Dio estrasse l’inaudito della bel-lezza. Del tutto che «appaga il desiderio di quelli che lo temono, ascolta il loro grido e li salva» (Sal 145,19). Seduto attorno alle pentole piene di cipolle dell’Egitto, Israele era poco più che un’orda di straccioni e di be-duini: posti e disposti a mercanteggiare la sicurezza

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della schiavitù col rischio della libertà. Ci vollero qua-rant’anni di deserto, con i suoi tradimenti, fraintendi-menti e intendimenti, per fare di quegli uomini un popolo vestito a festa, l’immagine stessa dell’alleanza. Del giardino che sboccia nella terra dove prima c’era il deserto.

Il deserto e l’acqua mal s’abbinano: «A te anela la mia carne, come terra deserta, arida, senz’acqua» (Sal 63,2). Eppure nel deserto il desiderio dell’acqua è stor-dente. Nella Scrittura il deserto ha un’età: quaranta. Che poi siano anni, stagioni, mesi o giorni nulla impor-ta: rimane una possibilità e la sua durata è il tempo e lo spazio di una possibile esperienza. Sempre fallibile, sempre a portata di mano. Un’occasione da vivere as-sieme a un popolo come il condottiero Mosè, oppure in rappresentanza di altri come Elia il profeta; magari anche come anticipo di tutti gli altri come accaduto a Gesù di Nazaret. Qualunque sia la funzione, il deserto non cambia: rimane spazio d’attraversare e non da ag-girare. Come lo sarà del Golgota: una cima per la geo-grafia, un deserto per l’anima, un mistero per la fede. Quella che lascia molto di aperto: la fede convinta non chiude, ma apre. Interroga, s’interroga.

La Quaresima è un deserto di giorni: quaranta, per l’esattezza. Un deserto d’acqua – quindi strano, imba-razzante, curioso – che invece d’aprirsi su orizzonti di sabbia si spalanca su orizzonti di carne: il suo spazio è il corpo umano. S’inizia di mercoledì, in piena zona feriale: c’è un pugno di cenere a lambire i pensieri. Ci s’arresterà, dopo quaranta giorni, di giovedì: quella se-ra apparirà un catino d’acqua in prossimità dei piedi. Giovedì è ancora ferialità, ma a un passo dalla festa. Che stavolta sarà di tre giorni: tre giorni (il giovedì, il

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venerdì e il sabato santo) che in realtà sono un tutt’u-no. Come la Trinità: Tre però Uno. Nel deserto fare i conti – e, poi, farli quadrare – è sempre il mistero per eccellenza: inafferrabile, indicibile, ardito.

(Chiusa la parentesi)

Il Battista s’è cotto la pelle al chiarore del deserto. Ha l’anima così ustionata da esser divenuto l’anima ar-dente dal desiderio del Regno. Dal deserto la sua vita riemerse come un fragore di voce: tuoni, frastuoni, rim-bombi e guizzi. Intemperie e grandinate. Alcuni le di-gerirono malvolentieri: farisei, sadducei e uomini dotti. Altri, come Erode, le ressero a malapena e con non indifferente fastidio. Altri ancora s’aggrapparono a quelle parole irte di punte e d’incalzi: dettero loro cre-dito e si trovarono gettati nell’altrove della promessa mantenuta. Il precursore non fu Dio: per qualche atti-mo temettero tutti d’avere in fronte Dio. Tutti, eccetto lui: l’impaziente che mai si gloriò d’averli attirati tutti fin da lui. Seppe arrestarsi lì, a un passo: nel punto esatto per il quale era nato. Fedele alla più maestosa delle intuizioni: «Non è la voce che comanda la storia: sono le orecchie» (I. Calvino). Tutta la vita così: un miscuglio di suoni e di occhi.

S’arrestò e li arrestò nella loro velocità: «Io non sono il Cristo» (Gv 1,20). Rimasero col dubbio cucito addos-so. Tutto rimase sospeso sulla gracilità di quella voce, come a Nazaret: «Come è possibile? Non conosco uo-mo» (Lc 1,34). Sospeso, appeso, come un peso: in ag-guato. Non era lui: punto. Confidenza di poeta: «A Nazaret, intanto, uno sconosciuto operaio stava per allacciarsi i calzari colle sue mani per andare al deserto

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dove rintronava la voce che per tre volte aveva risposto di no» (G. Papini). Il precursore e il cursore, il già e il non ancora: la cerniera e l’aggancio.

Sempre sull’attenti stava. Statuario anche il giorno dopo, come il giorno prima: d’altronde lui è il giorno prima che avvisa del giorno dopo. Sempre col fiuto del cacciatore. Dell’arrivo dell’amico la sua percezione è un quasi presagio: il tempo è maturo, il fico sta per staccarsi, la mammella della vacca è gonfia. La bolla è piena, anche l’ampolla. Ancora un attimo e tutto potrà ancora accadere.

Accadrà.

L’amico nazareno è un Dio-chioccia e un Dio-aquila. Sarà dagli animali del bosco, però, che andrà a scuola d’intrigo: come loro, s’avvierà a muoversi dopo un’ora che si sta fermi ad aspettarlo. Più che di bestemmia tutto ciò sa di buono. Chi non saprà reggere quegli attimi, consumerà le unghie a forza d’arrabattarsi. Il Battista regge, è un reggimento di giorni schierati in battaglia.

Eccolo: «Il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli» (Gv 1,39). Là: la localizzazione esatta, all’incrocio, nel punto fissato. Ancora una volta lui con loro, i suoi discepoli. Tra lui e loro, l’altro: sem-pre più vicino, sempre più silente, sempre più in stato d’assedio. Tocca al Battista l’arduo compito, quello che dai tempi di Mosè stordisce le menti e ingobbisce per troppa attesa: agganciare lui a loro. Sarà questione di attimi e di vista: un attimo prima o un attimo dopo non sarà il medesimo. L’agguato divino è anche quello di Lucifero: è solo uno l’umano in gioco. Da adocchiare e accerchiare per portarselo poi a casa.

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