L’elegia nel periodo augusteo · 2020. 6. 9. · L’elegia nel periodo augusteo 1. Minermo Qual...

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L’elegia nel periodo augusteo 1. Minermo Qual di mia vita, qual piacere senza l’aurea Afrodite? Che io muoia, quando di queste cose più non mi importi, il furtivo amore e i dolci doni del letto che di giovinezza sono fiori fugaci per gli uomini e per le donne. Quando poi dolorosa sopraggiunga vecchiaia, che turpe del pari e brutto rende l’uomo, sempre nell’animo tristi affanni lo struggono né si rallegra a vedere i raggi del sole, ma è odioso ai fanciulli e spregevole alle donne: così orribile il dio fece la vecchiaia 2. Callimaco, Aitia, La chioma di Berenice, Fr. 110 Avendo in disegni l’orizzonte tutto veduto, come si muovan [gli astri sorgendo e calando] (…) 7 (…) mi osservò Cononenel cielo, di Berenice ricciolo, che ella votò a tutti gli dèi (…) [promettendolo in dedica quando il re partì per la guerra immediatamente dopo il matrimonio, ancora mostrando] [13-14 (?)] traccia della notturna lotta (…) [Tu, regina, soffristi moltissimo; eppure, io ricordo come, da fanciulla, ti eri mostrata] [26 (?)] di animo forte (…) [Mi promettesti in voto con sacrifici. Il re, frattanto, aveva sottomesso l’Asia all’Egitto e per questo, io, portata in cielo, assolvo al tuo voto. Contro la mia volontà ho lasciato il tuo capo] [40] sulla tua testa lo giuro, sulla tua vita (…) [Ma non ho potuto resistere al ferro, che è stato in grado di spianare il monte più alto che] [Infatti, sopra la Vergine e il Leone, accanto all’Orsa] [67] andando in Oceano in autunno (?) dinanzi [al lento Boote [69] Ma anche se [per tutta la notte sono nel firmamento e solo la luce del giorno mi restituisce al mare, [71-72] – [non] adirarti [Vergine di Ramnunte]: nessun bue bloccherà la mia parola (…) [73] [neanche se mi faranno a pezzi per la mia] audacia le altre stelle (…) – 75 non mi dà questo gioia pari al dolore per non più toccare quel capo da cui, ancor verginale, molti ho bevuto poveri ungenti, ma non ho goduto dei profumi di sposa. [89] (…) [93] vi[cini (?)] (…) [94] l’Aquario e (…) Orione. [94a] S[alve], cara ai figli[19] (…) [94b] (…)

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L’elegia nel periodo augusteo

1. Minermo

Qual di mia vita, qual piacere senza l’aurea Afrodite?

Che io muoia, quando di queste cose più non mi importi,

il furtivo amore e i dolci doni del letto

che di giovinezza sono fiori fugaci

per gli uomini e per le donne. Quando poi dolorosa sopraggiunga

vecchiaia, che turpe del pari e brutto rende l’uomo,

sempre nell’animo tristi affanni lo struggono

né si rallegra a vedere i raggi del sole,

ma è odioso ai fanciulli e spregevole alle donne:

così orribile il dio fece la vecchiaia

2. Callimaco, Aitia, La chioma di Berenice, Fr. 110

Avendo in disegni l’orizzonte tutto veduto, come si muovan [gli astri sorgendo e calando] (…) 7 (…) mi osservò Cononenel cielo, di Berenice ricciolo, che ella votò a tutti gli dèi (…)

[promettendolo in dedica quando il re partì per la guerra immediatamente dopo il matrimonio, ancora mostrando] [13-14 (?)] traccia della notturna lotta (…) [Tu, regina, soffristi moltissimo; eppure, io ricordo come, da fanciulla, ti eri mostrata] [26 (?)] di animo forte (…) [Mi promettesti in voto con sacrifici. Il re, frattanto, aveva sottomesso l’Asia all’Egitto e per questo, io, portata in cielo, assolvo al tuo voto. Contro la mia volontà ho lasciato il tuo capo] [40] sulla tua testa lo giuro, sulla tua vita (…) [Ma non ho potuto resistere al ferro, che è stato in grado di spianare il monte più alto che] [Infatti, sopra la Vergine e il Leone, accanto all’Orsa] [67] andando in Oceano in autunno (?) dinanzi [al lento Boote [69] Ma anche se [per tutta la notte sono nel firmamento e solo la luce del giorno mi restituisce al mare, [71-72] – [non] adirarti [Vergine di Ramnunte]: nessun bue bloccherà la mia parola (…) [73] [neanche se mi faranno a pezzi per la mia] audacia le altre stelle (…) – 75 non mi dà questo gioia pari al dolore

per non più toccare quel capo da cui, ancor verginale, molti ho bevuto poveri ungenti, ma non ho goduto dei profumi di sposa. [89] (…) [93] vi[cini (?)] (…) [94] l’Aquario e (…) Orione. [94a] S[alve], cara ai figli[19] (…) [94b] (…)

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3. 4. La Coma Berenices e le costellazioni vicine rappresentate da Joh

3. Callimaco, fr. 31

Sui monti Epicide il cacciatore insegue ogni

lepre e ogni orma di cerbiatta

sopportando freddo e neve, ma se uno gli dice:

“to’ eccoti una preda già pronta” non la prende.

Anche il mio amore è così: ama inseguire

chi fugge e trascura chi è lì, pronto.

4.Properzio, II, 25, 5-9

Deposte le armi posa il guerriero carico d’anni,

e i buoi, quando son vecchi, rifiutano di volgere l’aratro

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la nave infracidita giace in disarmo sulla riva deserta

e inoperoso pende nel tempio il vecchio scudo carico di battaglie

ma per me non ci sarà vecchiezza che mi allontani dal mio amore.

5. Catullo, La chioma di Berenice – traduzione di Foscolo

Tu volgendo, regina, al cielo i lumi Allor che placherai ne' dì solenni

Venere diva, d'odorati unguenti

115Lei non lasciar digiuna, e tua mi torna Con liberali doni. A che le stelle

Me riterranno? O! regia Chioma io sia E ad Idrocoo vicin arda Orione.

6. Le fasi del viaggio amoroso: innamoramento, incontro, tradimento,

abbandono, riconciliazione, partenza, ritorno

7. Le parole dell’elegia: nequitia, domina mea, furor, servitum amoris,

obsequium, duritia

8. Cornelio Gallo

Tristia nequitia a Licori tua

Tandem fecerunt carmina Musae

Quae possem domina deiecere digna mea

9. Properzio, II,34, 87- 94

Di questo cantavano i carmi dell’amoroso Catullo,

per i quali Lesbia è più famosa di Elena.

Di questo parlò la pagina del dotto Calvo,

quando cantava la morte della misera Quintilia.

E per la bella Licoride, Gallo, morto da poco,

quante ferite lavò nelle acque infernali!

Ma anche Cinzia sarà celebrata dal verso di Properzio,

se la fama vorrà porre me tra costoro

10. Ovidio, Amores, III,2, 49 -50

Esalta il tuo Marte, Soldato: noi odiamo le armi

La pace a noi giova e in mezzo alla pace ritrovare l’amore

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11. Ovidio, I, 1

Mi preparavo a narrare in un metro solenne

le armi e le guerre violente, argomento adatto al ritmo;

il verso di sotto era uguale al primo,

ma si dice che Amore rise e gli tolse un piede.

5 “Chi ti ha dato diritti sui versi, ragazzo insolente?

I poeti appartengono alle Muse, non sono il tuo codazzo.

E se Venere allora strappasse le armi alla bionda Minerva,

e la bionda Minerva a sua volta agitasse le fiaccole?

Chi approverebbe che Cerere regni sui boschi selvosi,

10 e i campi si coltivino con la legge della vergine arciera?

Chi armerebbe di punte aguzze Febo dai bei capelli,

mentre Marte suona la lira beotica?

Tu hai molto, ragazzo, un regno anche troppo potente:

perché aspiri ambiziosamente a una nuova impresa?

15 Forse il tuo è ovunque? È tua la valle dell’Elicona?

E a stento ormai Febo mantiene la sua cetra?

Quando la pagina nuova si è ben elevata sul primo verso,

il successivo allenta la mia ispirazione,

e non ho materia adatta ai ritmi più blandi,

20 né ragazzo, né ragazza coi capelli lunghi e ben pettinati”.

Dopo il mio lamento, subito quello aprì la faretra,

scelse frecce adatte per la mia rovina, piegò con forza

su un suo ginocchio l’arco ricurvo, e disse:

“Prendi, poeta, quello che devi cantare!”.

25 Povero me; il ragazzo aveva frecce infallibili:

brucio, e Amore regna nel mio petto vuoto.

Il mio canto s’innalzi su sei piedi, e si riabbassi poi su cinque;

addio, ferree guerre, coi vostri ritmi!

Cingi le tempie bionde col mirto del lido,

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30 Musa, che devo esprimere in undici piedi

12. Properzio, III, 5, 1-2

E’ il dio di pace, Amore, la pace noi amanti veneriamo:

le mie dure battaglie sono con la mia donna

13. Tibullo, I, 1, 53 -58

A te combattere si addice, Messalla, per terra e per mare

Perché la tua dimora esponga le prede nemiche.

Me tengono incatenato le catene di una bella fanciulla

E siedo come un guardiano davanti alle dure soglie.

Non mi curo di essere celebrato o mia Delia: pur che io sia con te,

son contento di essere chiamato pigro e inerte

14. Properzio, III,11, vv 1-4 Quid mirare meam si versat femina vitam Et trahit adductum sub sua iura virum Criminaque ignavi capitis mihhi turpia fingis Quid nequebat fracto rumpere vincla iugo

Perché ti meravigli se una donna travolge la mia vita E mi trascina come uno schiavo sotto il suo dominio? E perché inventi sul mio conto infamanti accuse id debolezza, perché non posso rompere il giogo e spezzare la catena?

15. Properzio, I, 1 Cynthia prima suis miserum me cepit ocellis, contactum nullis ante cupidinibus. tum mihi constantis deiecit lumina fastus et caput impositis pressit Amor pedibus, donec me docuit castas odisse puellas improbus, et nullo vivere consilio. ei mihi, iam toto furor hic non deficit anno, cum tamen adversos cogor habere deos. Milanion nullos fugiendo, Tulle, labores saevitiam durae contudit Iasidos. nam modo Partheniis amens errabat in antris, rursus in hirsutas ibat et ille feras; ille etiam Hylaei percussus vulnere rami saucius Arcadiis rupibus ingemuit. ergo velocem potuit domuisse puellam: tantum in amore fides et benefacta valent. in me tardus Amor non ullas cogitat artes, nec meminit notas, ut prius, ire vias. at vos, deductae quibus est pellacia lunae

Cinzia per prima mi prese, perdutamente innamorato, coi suoi occhi, mai toccato prima dalla passione. Allora Amore abbassò gli occhi di ferma superbia e piegò il capo sotto il dominio dei suoi passi finché crudele mi insegnò ad odiare le castae puellae e a vivere senza criterio. E ormai da un anno questo furore non m'abbandona, mentre sono costretto a vivere con gli dei avversi. Milanione senza sottrarsi a nessuna fatica, Tullio, vinse la crudeltà dell'insensibile figlia di Iaso. Infatti errava talora folle negli anfratti del Partenio e andava ad affrontare le irsute fiere. Lui anche ferito da un colpo di clava del gigante Ileo giacque gemente tra le ru dell'Arcadia. Dunque

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et labor in magicis sacra piare focis, en agedum dominae mentem convertite nostrae, et facite illa meo palleat ore magis! tunc ego crediderim Manes et sidera vobis posse Cytinaeis ducere carminibus. aut vos, qui sero lapsum revocatis, amici, quaerite non sani pectoris auxilia. fortiter et ferrum saevos patiemur et ignes, sit modo libertas quae velit ira loqui. ferte per extremas gentes et ferte per undas, qua non ulla meum femina norit iter. vos remanete, quibus facili deus annuit aure, sitis et in tuto semper amore pares. nam me nostra Venus noctes exercet amaras, et nullo vacuus tempore defit Amor. hoc, moneo, vitate malum: sua quemque moretur cura, neque assueto mutet amore torum. quod si quis monitis tardas adverterit aures, heu referet quanto verba dolore mea!

così poté domare la veloce fanciulla, tanto valgono in amore le preghiere e le imprese coraggiose. In me il pigro amore non escogita alcun espediente, e non si ricorda di percorrere come un tempo le strade note Ma voi, cui è l'arte ingannevole di tirar giù la luna e la fatica di compiere riti sui magici altari, orsù, mutate l'animo della donna che mi domina e fate che lei impallidisca più del mio volto. Allora io vi crederò e crederò che possiate dirigere il corso delle stelle e dei fiumi con i sortilegi della donna di Citania. E voi, amici che richiamate indietro troppo tardi chi è caduto, cercate aiuti per un animo ormai infermo. Sopporterò coraggiosamente le torture del ferro e del fuoco, purché abbia la libertà di dire ciò che l'ira mi ispira. Portatemi in mezzo a popoli e mari lontani, dove nessuna donna conosca il mio cammino. Voi rimanete, voi cui il dio dell'amore accondiscende onorevole ascolto, e siate contraccambiati da un amore sempre sicuro. Quanto a me, la nostra Venere travaglia con notti amare e amore mai rimanendo inoperoso mi abbandona. Vi ammonisco, evitate questo amore: la propria passione intrattenga ciascuno, né si stacchi da un sentimento consueto, perché se qualcuno volgerà tardo ascolto ai miei moniti, ahi! Con quanto dolore ricorderà le mie parole.

16. Tibullo, !, 5 Asper eram et bene discidium me ferre loquebar, At mihi nunc longe gloria fortis abest. Namque agor ut per plana citus sola verbere turben, Quem celer adsueta versat ab arte puer. Ure ferum et torque, libeat ne dicere quicquam Magnificum post haec: horrida verba doma. Parce tamen, per te furtivi foedera lecti, Per venerem quaeso conpositumque caput. Ille ego, cum tristi morbo defessa iaceres, Te dicor votis eripuisse meis, Ipseque te circum lustravi sulphure puro, Carmine cum magico praecinuisset anus; Ipse procuravi, ne possent saeva nocere Somnia, ter sancta deveneranda mola; Ipse ego velatus filo tunicisque solutis Vota novem Triviae nocte silente dedi.

Furioso, questo ero: mi dicevo che bene avrei sopportato il distacco, ma ora lontano è da me il vanto d’avere coraggio: sto girando come una trottola, mossa sul selciato a colpi di frusta, che un fanciullo nel vortice sospinge con la destrezza che gli è nota. Brucialo questo ribelle, torturalo, che in futuro non possa più vantarsi; doma questo suo squallido linguaggio. Ma tu non infierire, te ne prego, per il patto segreto che ci unì a letto,

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Omnia persolvi: fruitur nunc alter amore, Et precibus felix utitur ille meis. At mihi felicem vitam, si salva fuisses, Fingebam demens, sed renuente deo. Rura colam, frugumque aderit mea Delia custos, Area dum messes sole calente teret, Aut mihi servabit plenis in lintribus uvas Pressaque veloci candida musta pede; Consuescet numerare pecus, consuescet amantis Garrulus in dominae ludere verna sinu. Illa deo sciet agricolae pro vitibus uvam, Pro segete spicas, pro grege ferre dapem. Illa regat cunctos, illi sint omnia curae, At iuvet in tota me nihil esse domo. Huc veniet Messalla meus, cui dulcia poma Delia selectis detrahat arboribus; Et tantum venerata virum hunc sedula curet, Huic paret atque epulas ipsa ministra gerat. Haec mihi fingebam, quae nunc Eurusque Notusque Iactat odoratos vota per Armenios.

per Venere e le nostre teste posate vicine. Sono io che, quando giacevi colpita da un male crudele, con i miei voti, è risaputo, ti ho strappata alla morte; sono io che, bruciando intorno a te zolfo vergine, ti ho purificata, dopo che la vecchia aveva intonato le sue formule magiche; sono io che da te le visioni funeste ho rimosso, perché non ti nuocessero, scongiurandole tre volte col farro consacrato; sono io che con la tunica sciolta e vestito di lino ho nel silenzio della notte offerto a Trivia nove voti. E tutti li ho sciolti, ma un altro ora si gode il tuo amore, giovandosi felice delle mie preghiere. Come un pazzo sognavo per me una vita felice, se tu fossi guarita, ma un dio si opponeva. ‘Lavorerò in campagna e accanto a me sarà la mia Delia a custodire le biade, mentre sull’aia al calore del sole si trebbieranno le messi, o sorveglierà nei tini ricolmi la mia vendemmia e lo spumeggiare del mosto spremuto dal ritmo dei piedi; si abituerà a contare le mie greggi; e lo stesso schiavetto impertinente si abituerà a giocare in grembo ad una padrona che l’ama. E lei imparerà ad offrire agli dèi dei contadini i grappoli per la vite, le spighe per la messe, il cibo per il gregge; e comanderà su tutti, si curerà di tutto, mentre in tutta la casa felice sarò io di non contar più nulla. Qui verrà il mio Messalla e per lui Delia dalle piante migliori raccoglierà la frutta matura; e piena di rispetto per un uomo così illustre, se ne occuperà con premura, gli preparerà un banchetto e lo servirà lei stessa.’ Questi i miei sogni; ma ora Euro e Noto li disperdono tra i profumi dell’Armenia.

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Spesso ho tentato di cacciare gli affanni col vino, ma il dolore m’ha mutato ogni vino in pianto.

17.

18. Sulpicia

19. Tibullo, III, 13

Venuto è infine amore

Venuto è infine amore, e vergogna maggiore

mi sarebbe averlo tenuto nascosto

di quanto sia infamante averlo rivelato a tutti.

Commossa dai miei versi, Citerea l’ha portato a me,

deponendolo sul mio seno.

Ha sciolto le promesse Venere: racconti le mie gioie

chi gode fama di non averle mai avute.

Io non vorrei affidare parola a tavolette sigillate,

per il timore che qualcuno le legga prima del mio amore.

Ma questo peccato m’è dolce;

m’infastidisce atteggiarmi a virtú:

tutt’al piú si dirà ch’eravamo degni l’una dell’altro

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20. Ovidio, Tristia, I,3, vv.1- 28 – Addio a Roma Quando mi torna in mente l’immagine tristissima di quella notte in cui per me (mihi) fu l’ ultimo tempo

(supremum tempus – il momento supremo indica il trapasso dalla vita alla morte e significativamente

in questo contesto Ovidio la usa a significare che con la partenza da Roma la sua vita finisce) in Roma,

quando ripenso alla notte in cui lasciai tante cose a me care, anche oradai miei occhi una lacrima scende

Ormai il giorno era imminente, in cui Cesare mi aveva ordinato di partire dagli estremi confini dell'Italia

Non c’era stato nè tempo nè volontà di disporre sufficienti preparativi :i lunghi indugi avevano intorpidito

il mio cuore .Non mi curai dei servi, né di scegliere i compagni, né vesti o) cose adatte ad un profugo.

Ero stordito non diversamente da colui che colpito dal fulmine di Giove ,rimane in vita ed egli stesso è

ignaro della sua vita. Quando tuttavia il dolore stesso dissipò questa nube dell'anima, e finalmente i miei

sensi ripresero vigore, prossimo a partire,mi rivolgo per l'ultima volta (extremum) agli amici afflitti

(maestos), i quali di molti erano [rimasti] solo uno o due.

La sposa (uxor = Fabia la 3° moglie) amorosa ,mi teneva mentre io piangevo , lei stessa piangendo più

forte ,una pioggia [di lacrime] cadeva continuamente per le gote innocenti .La figlia era assente, lontano

in altro luogo sotto le spiagge libiche, nè e poteva essere informata della mia sorte.

Dovunque [tu] guardassi ,risuonavano pianti e lamenti e dentro vi era l’aspetto di un funerale rumoroso.

Uomini e donne ,anche bambini si struggono per la mia rovina (meo funere) e nella casa ogni angolo

ha lacrime.

Se è permesso servirsi di grandi esempi nei piccoli casi,questo era l'aspetto di Troia mentre veniva presa

.

E già tacevano le voci degli uomini e dei cani e la luna alta [nel cielo] guidava i cavalli notturni. 21. Chretien de troyes

4585 4590 4595 4600 4605 4610 4615

Quand’egli vede la regina che dalla finestra s’inclina, che di grossi ferri è ferrata, dolcemente l’ha salutata. Ella il saluto ha presto reso, ché grande desiderio preso lei di lui e lui di lei ha. Di villania né di viltà discorso alcuno o accordo fanno. L’uno vicino all’altra vanno, e le loro mani congiungono. Che ad essere insieme non giungono dispiace loro a dismisura, e ne incolpan la ferratura. Ma Lancillotto si fa vanto, se piace alla regina tanto, che andrà dentro e insieme staranno: i ferri non lo tratterranno. Ma non vedete», ella a lui fa, «come son questi ferri qua forti a infrangerli, duri a fletterli? Non potrete tanto sconnetterli né tirarli a voi né strapparli abbastanza da sradicarli». «Dama», fa lui, «non ve ne importi! Non conta se i ferri son forti; niente oltre voi mi può impedire che io possa da voi venire. Se concesso da voi mi sia, tutta libera m’è la via; ma se la cosa non v’è grata, allora m’è così sbarrata che per niente vi passerei». [1] «Certo che lo voglio», fa lei, «dalla mia volontà non siete trattenuto, però attendete che a coricarmi me ne vada,

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4620 4625 4630 4635 4640 4645 4650 4655 4660 4665 4670 4675 4680

che far rumore non v’accada; non sarebbe un gioco o un diletto se il siniscalco ch’è qui a letto [2] si svegliasse per il trambusto. Che me ne vada è perciò giusto; nessuno potrebbe pensare bene, vedendomi qui stare». «Dama», egli fa, «dunque ora andate, ma per nulla vi preoccupate ch’io debba fare del baccano. Leverò i ferri piano piano, credo, e impaccio non troverò, e nessuno risveglierò». La regina se ne va allora, e lui si prepara e lavora a sconficcare l’inferriata. Prende i ferri, dà una scrollata, tira e tutti li piega, e fuori li estrae dal muro via dai fori. Ma poiché il ferro era affilato, s’è al dito mignolo tagliato fino al nervo la prima giunta, e all’altro dito dalla punta tutta la prima giunta; ma del sangue che gocciando va né di quelle ferite sente, poiché a tutt’altro intende, niente. La finestra non era bassa; pure, Lancillotto ci passa presto, senza essere impedito. Vede nel letto Keu [3] assopito, e va al letto della regina, e l’adora, ed a lei s’inchina, perché non c’è reliquia [4] a cui creda più. E la regina a lui le braccia distende, e l’abbraccia, e stretto al petto se l’allaccia; se l’è a fianco nel letto tratto, ed il più bel viso gli ha fatto che possa fargli, che da Amore le viene ispirato e dal cuore. Questa gioia da Amore viene che gli mostra [5], e se l’ama bene lei, centomila volte più lui, perché nei cuori altrui fu Amore niente, al suo rispetto; ma rifiorì tutto nel petto di lui, e fu tanto intero Amore, che fu vile in ogni altro cuore. [6] Lancillotto ora ha ciò che brama: la regina lo accoglie, ed ama che stia con lei e che le faccia piacere: tiene fra le braccia lui lei, e lei lui tra le sue. È così dolce il gioco ai due e del baciare e del sentire, che n’ebbero, senza mentire, una gioia meravigliosa tanto che mai una tale cosa non fu udita né conosciuta; ma da me resterà taciuta: nel racconto non può esser detta.

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4685 4690 4695 4700

Delle gioie fu la più eletta quella, la gioia che più piace, che il racconto ci cela e tace. Gran piacere ebbe, e gioia vera Lancillotto la notte intera. Ma viene il giorno, e gran dolore ha, perché s’alza dal suo amore. Vero martire fu ad alzarsene, tanto penoso fu di andarsene; martirio è il dolore che ha. Il cuore tira sempre là dove la regina si trova. A richiamarlo invano prova [7], tanto la regina gli piace, che di lasciarla non ha pace: va il corpo, il cuore lì soggiorna. Dritto alla finestra ritorna; ma tanto sangue resta lì, che dai tagli alle dita uscì, che il lenzuolo è tinto e macchiato.

22. Arnaut Daniel

Su quest'arietta leggiadra compongo versi e li digrosso e piallo, e saran giusti ed esatti quando ci avrò passata su la lima ; ché Amore istesso leviga ed indora il mio canto, ispirato da colei che pregio mantiene e governa. Io bene avanzo ogni giorno e m'affino perché servo ed onoro la più bella del mondo, ve lo dico apertamente. Tutto appartengo a lei , dal capo al piede, e per quanto una gelida aura spiri, l'amore ch'entro nel cuore mi raggia mi tien caldo nel colmo dell'inverno. Tanto l'amo di cuore e la desidero, che per troppo desío temo di perderla, se perdere si può per molto amare. Il suo cuore sommerge interamente tutto il mio, né s'evapora. Tanto ha oprato d'usura che ora possiede officina e bottega. ] Di Roma non vorrei tener l'impero, né bramerei esserne fatto papa, se non potessi tornare a colei per cui il cuore m'arde e mi si spezza. E se non mi ristora dell'affanno pur con un bacio, pria dell'anno nuovo, me fa morire e a sé l'anima danna. [6] Ma per l'affanno ch'io soffro dall'amarla non mi distolgo, bench'ella mi costringa a solitudine,

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sì che ne faccio parole per rima. Più peno, amando, di chi zappa i campi, ché punto più di me non amò quel di Monclin donna Odierna. [7] Io sono Arnaldo che raccolgo il vento e col bue vado a caccia della lepre e nuoto contro la marea montante.

(Beranrt de Ventadorn, LA CORTESIA

Ho il cuore così pieno di gioia

che tutto mi disnatura;

fiore bianco, vermiglio e giallo

mi pare la gelata,

e col vento e con la pioggia

cresce la mia felicità:

così il mio pregio sale e cresce

e il mio canto è migliore;

tanto amore ho nel cuore

tanta gioia e dolcezza,

che il gelo mi sembra fiore

e la neve verzura.

in Poesia dell'età cortese,

23. Petrarca

Pace non trovo, et non ò da far guerra;

e temo, et spero; et ardo, et son un ghiaccio;

et volo sopra ’l cielo, et giaccio in terra;

et nulla stringo, et tutto ’l mondo abbraccio.

Tal m’à in pregion, che non m’apre né serra,

né per suo mi riten né scioglie il laccio;

et non m’ancide Amore, et non mi sferra,

né mi vuol vivo, né mi trae d’impaccio.

Veggio senza occhi, et non ò lingua et grido;

et bramo di perir, et cheggio aita;

et ò in odio me stesso, et amo altrui.

Pascomi di dolor, piangendo rido;

egualmente mi spiace morte et vita:

in questo stato son, donna, per voi.

24. nel Medioevo il termine elegia assunse un significato più estensivo, legato al tono dell'ispirazione più

che al metro: per Dante l'elegia è la terza forma di stili, quella più dimessa, insieme alla tragedia e

alla commedia. Anche Boccaccio chiamò Elegia di Madonna Fiammetta il suo romanzo, per il tono

patetico e doloroso. L'elegia latina in distici fu ripresa nell'età umanistica (A. Beccadelli, Poliziano, T.

Page 13: L’elegia nel periodo augusteo · 2020. 6. 9. · L’elegia nel periodo augusteo 1. Minermo Qual di mia vita, qual piaere senza l’aurea Afrodite? Che io muoia, quando di queste

V. Strozzi, G. Pontano), mentre in volgare si ricorse allo strambotto su due sole rime, al capitolo in

terza rima e via via a varie strutture strofiche e così si continuò per tutto il Settecento. Solo

il Carducci, seguito dal Pascoli e dal D'Annunzio, tentò la restituzione del distico elegiaco

ricuperandolo in metrica barbara, ma l'esempio non valse a fissare una misura tipica per l'elegia.

Anche nelle altre grandi letterature moderne si ebbero imitazioni formali ma non di contenuto

dell'elegia classica (Klopstock, Goethe, Gray, Coleridge, Lamartine). Più spesso però si sono

mantenuti solo il tono e i valori espressivi liberi da vincoli metrici.