Ladoppia Topolino · la copertina Happy Birthday Creato nel 1928, risollevò il morale collettivo...

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spettacoli L’album segreto di Marilyn GABRIELE ROMAGNOLI i sapori L’altro olio, leggero e diverso CORRADO BARBERIS e LICIA GRANELLO la memoria Il design della Guerra fredda NATALIA ASPESI e LEONARDO COEN l’attualità C’era una volta l’automobile VALERIO BERRUTI e AMORY LOVINS A veva quasi sessant’anni, era dunque un topo ma- turo, Mickey Mouse quando andò in guerra. Era il 1987 e, se la sua fu una guerra immaginaria, la con- sacrazione finale del suo essere diventato non un altro simbolo dell’America ma l’America stessa fu chiara. Sulle rovine di una città frantumata dalla oscenità di una guerra che ancora oggi imprigiona la coscienza di una nazione, marciando nelle vie della antica capitale vietna- mita di Hue strappata dopo giorni di sangue ai nordvietnamiti, i marines sopravvissuti, lentamente, dolcemente, come bambi- ni spaventati che cantano da soli a letto per non precipitare nel buio della notte, intonano nel finale di Full Metal Jacket l’inno che li salverà dall’orrore di ciò che hanno vissuto. Non l’inno nazionale con la bandiera a stelle e strisce, non il canto di battaglia dei marines con le glorie di Tripoli e Monte- zuma, non America the Beautiful, un salmo religioso o un pez- zo di acid rock. Stanley Kubrick fa cantare loro il salmo dell’in- nocenza americana, l’inno del club di Topolino, M-I-C-K-E-Y M-O-U-S-E. (segue nelle pagine successive) VITTORIO ZUCCONI M eglio precisare. Il corpo di Topolino è nato in America, il suo profilo idem, ma la mente è in Ita- lia. L’orrendo topastro perbenista, il maledetto impiccione, il nemico di Pietro Gambadilegno e Macchia Nera, l’americano medio, il topo della strada l’ha creato Walt Disney, ma adesso il cer- vello della corporation americana che produce l’epopea del sorcio è qui da noi, in una viuzza di Milano con soli due numeri civici, a due passi da via Turati. Già, perché il topo avventuroso, l’eroe buono che compie im- prese epiche, che magari ripercorre il viaggio di Marco Polo, ovve- ro doverosamente Marco Topo, negli Stati Uniti non c’è più da ol- tre mezzo secolo. Basta chiedere conferma a uno dei principali ese- geti del mondo topolinesco, Luca Boschi, specialista supremo del mondo a fumetti e autore di comics in proprio: «In America a par- tire dal 1955 la gag sostituisce la storia, i giornali pubblicano le stri- sce, e sono gli italiani a riprendere il Topolino epico: il risultato nel tempo è che un format americano viene riempito da un contenu- to molto italiano». (segue nelle pagine successive) EDMONDO BERSELLI cultura La solitudine dell’uomo leopardo ALEXANDER MCCALL SMITH Compie ottant’anni l’eroe disneyano Nato in America, cresciuto in Italia DOMENICA 12 OTTOBRE 2008 D omenica La di Repubblica doppia vita Topolino La di THE WALT DISNEY COMPANY ITALIA © DISNEY Repubblica Nazionale

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spettacoli

L’album segreto di MarilynGABRIELE ROMAGNOLI

i sapori

L’altro olio, leggero e diversoCORRADO BARBERIS e LICIA GRANELLO

la memoria

Il design della Guerra freddaNATALIA ASPESI e LEONARDO COEN

l’attualità

C’era una volta l’automobileVALERIO BERRUTI e AMORY LOVINS

Avevaquasi sessant’anni, era dunque un topo ma-turo, Mickey Mouse quando andò in guerra. Era il1987 e, se la sua fu una guerra immaginaria, la con-sacrazione finale del suo essere diventato non unaltro simbolo dell’America ma l’America stessa fuchiara. Sulle rovine di una città frantumata dalla

oscenità di una guerra che ancora oggi imprigiona la coscienzadi una nazione, marciando nelle vie della antica capitale vietna-mita di Hue strappata dopo giorni di sangue ai nordvietnamiti, imarines sopravvissuti, lentamente, dolcemente, come bambi-ni spaventati che cantano da soli a letto per non precipitare nelbuio della notte, intonano nel finale di Full Metal Jacket l’innoche li salverà dall’orrore di ciò che hanno vissuto.

Non l’inno nazionale con la bandiera a stelle e strisce, non ilcanto di battaglia dei marines con le glorie di Tripoli e Monte-zuma, non America the Beautiful, un salmo religioso o un pez-zo di acid rock. Stanley Kubrick fa cantare loro il salmo dell’in-nocenza americana, l’inno del club di Topolino, M-I-C-K-E-YM-O-U-S-E.

(segue nelle pagine successive)

VITTORIO ZUCCONI

Meglio precisare. Il corpo di Topolino è nato inAmerica, il suo profilo idem, ma la mente è in Ita-lia. L’orrendo topastro perbenista, il maledettoimpiccione, il nemico di Pietro Gambadilegno eMacchia Nera, l’americano medio, il topo dellastrada l’ha creato Walt Disney, ma adesso il cer-

vello della corporation americana che produce l’epopea del sorcioè qui da noi, in una viuzza di Milano con soli due numeri civici, a duepassi da via Turati.

Già, perché il topo avventuroso, l’eroe buono che compie im-prese epiche, che magari ripercorre il viaggio di Marco Polo, ovve-ro doverosamente Marco Topo, negli Stati Uniti non c’è più da ol-tre mezzo secolo. Basta chiedere conferma a uno dei principali ese-geti del mondo topolinesco, Luca Boschi, specialista supremo delmondo a fumetti e autore di comics in proprio: «In America a par-tire dal 1955 la gag sostituisce la storia, i giornali pubblicano le stri-sce, e sono gli italiani a riprendere il Topolino epico: il risultato neltempo è che un format americano viene riempito da un contenu-to molto italiano».

(segue nelle pagine successive)

EDMONDO BERSELLI cultura

La solitudine dell’uomo leopardoALEXANDER MCCALL SMITH

Compie ottant’annil’eroe disneyanoNato in America,cresciuto in Italia

DOMENICA 12OTTOBRE 2008

DomenicaLa

di Repubblica

doppiavita

Topolino

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Repubblica Nazionale

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la copertinaHappy Birthday

Creato nel 1928, risollevò il morale collettivo negli annidella Grande depressione e quello dei marinesin “Full Metal Jacket” di Stanley Kubrick. Ma nel mondodei fumetti, da mezzo secolo Mickey Mouse pensa e parlain italiano, fa colazione con il cornetto e a poco a pocoha fatto suoi pregi e difetti tipicamente nazionali...

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 12OTTOBRE 2008

VITTORIO ZUCCONI

(segue dalla copertina)

Quei ragazzi coperti sangue e di pol-vere non avevano combattuto per lalibertà contro il comunismo, perJohnson contro Ho Chi Minh, maper salvare un topo immaginariocreato nel 1928 da un immigrato ir-

landese che non era riuscito neppure a prendereil diploma di liceo. La malinconia di quel canto in-fantile e tenero raccontava una verità che chiun-que sia cresciuto tra l’America della Grande de-pressione e l’America della Nuova depressione,che si sta abbattendo sulla case della classe mediadopo otto anni di amministrazione Bush, cono-sce. Attraverso tre generazioni, quattro grandiguerre, dozzine di microconflitti, catastrofi natu-rali e artificiali, attacchi terroristici e disastri poli-tici, le orecchie di Mickey Mouse, i suoi assurdiguantini con le cuciture sul dorso, l’ambigua rela-zione famigliare con la paziente Minnie, il duelloinfinito con l’innocuo malvagio dalla gamba di le-gno, la sua famiglia di cani stupidotti e di parentidi campagna sono stati il filo continuo che ha le-gato nonni, nipoti, famiglie disintegrate da divor-zi, alla continuità della famiglia americana allar-gata, alla fede nella propria innata bontà.

Una nazione che si riconosce in un topolinonon può essere prepotente e odiosa come a volteil mondo la descrive, canta da ottant’anni l’Ame-

rica. Presuntuosa e saccente, magari, proprio co-me quel Mickey che non sbaglia mai e che ha inDonald, il papero creato molti anni dopo, la suacontroparte farfugliona e simpatica. Ma non mal-vagia. Per questo suo rappresentare tutto ciò cheamiamo e detestiamo della cultura popolare chesta dominando il mondo dagli anni Quaranta, To-polino resiste e sopravvive agli assalti dei video-game, del web, del porno, dei supereroi sinistra-mente nietzschiani che ormai occupano schermigrandi e piccoli. Il terrorismo organizzato può di-struggere grattacieli e dilaniare i castelli della po-tenza militare come il Pentagono, ma non potràmai abbattere quelle orecchie.

Non era certamente nato per essere quello chepoi diverrà, Mickey Mouse. Nei suoi primi passidisegnati da Walt Disney e animati da Ub Iwerk,prima della presentazione ufficiale e della distri-buzione il 18 novembre del 1928 di SteamboatWillie, “Mino del vaporetto”, il sorcio era un laz-zaroncello donnaiolo e malizioso. E Minnie, chelui conobbe in locali loschi come una “Cantina ar-gentina”, dove lei ballava il tango e civettava conun tipaccio zoppo, con un piolo di legno al postodi una gamba, era una ragazzina sveglia e disin-volta, non quella eterna zitellina compita in atte-sa di una proposta che non arriverà mai. O che for-se è già arrivata e ampiamente consumata, neldubbio che lo stesso Walt coltivò fino alla sua mor-te nel 1966 senza mai risolverlo.

Se la creaturina dispettosa e cattivella che nac-que ottanta anni or sono, presentandosi con illancio di un pappagallo scocciatore fuori dal bat-tello, un gesto che oggi scandalizzerebbe la cor-rettezza animalista del pubblico, si trasformò nel-l’eroe goody two shoes, nel buono difensore delBene per definizione, fu merito, o colpa, dellaGrande depressione spalancata dal presidenterepubblicano Hoover e tamponata dal democra-tico Roosevelt dopo il 1932. Essa obbligò Disney arispondere alla Grande Depressione morale chel’economia aveva provocato, con un tonico, unprotagonista positivo che potesse sollevare il mo-rale, se non i redditi, degli americani. La meta-morfosi del topolino malizioso in un sorta di “ca-valiere bianco” chiamato a salvare la Topolinianazionale da ladri e malfattori assortiti rispose, fi-no al suo inevitabile reclutamento per raccoglie-re le obbligazioni di guerra e finanziare la lottacontro l’Asse, a una domanda di consolazione e dievasione che Disney seppe intercettare con un

fiuto degno della propria creatura. In questa ver-sione salvifica del roditore con i guantini, le gene-razioni successive di americani si sono immede-simate e identificate al punto da respingere, ini-zialmente, uno dei film più belli prodotti per lui,quel Fantasia sontuosamente animato e orche-strato dal grande musicista Stokovski, nel qualeMickey, giocando all’apprendista stregone di-subbidiente e incosciente, scatena un sabba in-fernale. Fantasia al debutto fu un flop, che nel1940 minacciò di risucchiare la casa di produzio-ne in un gorgo di debiti e seppellire il personaggio,perché Mickey non corrispondeva a quello cheormai l’America voleva che fosse. Sempre, e sol-tanto, un eroe positivo. Un salvator mundi, nonuno sbadato casinaro.

L’intuizione definitiva, quella che avrebbe persempre solidificato il ruolo di Topolino come ar-chetipo dell’Eroe Americano senza missili e sen-za ideologia dichiarata, prese corpo nel 1955,quando il Magic Kingdom, il regno dell’incanto,la prima Disneyland, aprì le porte in una landadesolata a sud di Los Angeles, ad Anaheim. Di-sneyland non fu il primo parco di divertimenti,né soltanto un luna park con gli steroidi. Fu co-struito con l’idea di permettere a coloro che datrent’anni, dal 1928, avevano guardato Topolino& soci sullo schermo dei cinema, nel bianco e ne-ro del teleschermo (quello che spiega l’abbiglia-mento e i colori concepiti per una tv ancora sen-za il colore negli anni Cinquanta) o sulle paginedei fumetti, di vivere personalmente quello che

fino ad allora avevano subito passivamente. Di-sney puntò su qualcosa di assai più grande e ra-dicato nell’anima della nazione che aveva accol-to il padre immigrato dall’Irlanda e chelui, respinto dall’esercito perché troppogiovane, era riuscito comunque a servi-re in guerra come autista di ambulanzesul fronte francese nel 1917. Scommisesulla parola happiness, felicità.

La Costituzione americana è l’unica,fra tutte quelle che reggono nazioni civilio incivili, a promettere, fra i diritti fonda-mentali, anche «la ricerca della felicità» aipropri cittadini, in uno slancio di ottimi-smo che appare temerario. Per questo ilpadre di Topolino scelse come slogan cen-trale dei propri baracconi non la promessadel divertimento, della distrazione, dellosvago, ma quella, ben più impegnativa, diessere the happiest place on Earth, il luogopiù felice della Terra. Sotto la vigile tutela diquegli orribili sorcioni antropomorfi di pelu-che che pattugliano le strade delle ormaiquattro città disneyane nel mondo, da Parigia Tokyo e presto in Cina, Mickey promette aivecchi e ai bambini, che ansiosamente misu-rano la propria statura in attesa di raggiunge-re quegli ottantanove centimetri che spalan-cheranno loro le porte di tutte le attrazioni, ilsurrogato tangibile di quella felicità, notoria-mente così inafferrabile.

Nessun altro personaggio, neppure il suo de-lizioso concorrente su un altro fronte dell’im-maginazione, quel Bugs Bunny che incontròuna sola volta nel film Chi ha incastrato RogerRabbit dopo negoziati fra le due Case più com-plessi di una trattativa fra Usa e Urss, ha mai rag-giunto e raggiungerà mai più, nel gorgo delle ce-lebrità che si formano e si consumano con la ve-locità di un falò, lo status di primo cittadino del-l’immaginazione americana e poi globale. È statoscritto, non so con quanta autorità, che le orec-chie di Mickey Mouse sono più immediata-mente riconoscibili nel mondo an-che della croce cristiana o di ogni al-tro simbolo religioso, ma se lui lo sa-pesse, ne sarebbe offeso. Come inva-no tentò di ricordarci l’uomo che gliaveva dato la vita e la vocina in falsettonei primi cartoni: «Cerchiamo di ricor-darci che stiamo parlano di un topo».

Il topo che incarnòil sogno americano

LA PRIMA COPERTINAIl giornalino del primo aprile ’49

NUMERO CINQUECENTOEsce il 27 giugno 1965

MILLE SETTIMANEIn edicola il 26 gennaio 1975

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 12OTTOBRE 2008

È il primo cartoona conquistareuna stella sullaWalk of Fame

1978Pippo (Goofy)diventa amicoe spalla fissadi Topolino

1934Il 18 novembre

Topolino debuttanel film Steamboat

Willie

1928Su Illustrazione

del popolocompare la prima

striscia italiana

1930Il numero

dei cortometraggianimati di cui

è protagonista

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EDMONDO BERSELLI

(segue dalla copertina)

Solo che per individuare l’italianità diTopolino non conviene scrutare nellapsicologia o nel carattere. Il personag-gio Topolino non ha un’identità oun’indole italiana. Piuttosto, dicesempre Boschi, è utile guardare ai det-

tagli. Per cominciare, osserviamo il paesaggio ur-bano di Topolinia. Le strade non assomigliano maia quelle dell’America standard. Praticamente nonci sono grattacieli. Almeno a partire dagli anni Cin-quanta sono le strade di una città media italiana,con i centri storici, le case a cui siamo abituati. Ag-giunge Boschi: «Se uno va a rivedere qualche clas-sica storia italiana, come quelle inventate da PierLorenzo De Vita, si accorge di sfasature percettiveperfino struggenti». De Vita, classe 1909, era un di-segnatore già affermato negli anni Trenta, l’autoredi Saturnino Farandola e di Pecos Bill su testi diGuido Martina, che si riconvertì nel dopoguerracon Topolino, spesso con parodie di romanzi cele-bri: «E basta ritrovare qualche vecchia avventuraeroica di Topolino per rilevare un’ambientazioneinfallibilmente italiana. A volte, quando De Vita di-segnava un’avventura western, si vede sullo sfon-do un West che assomiglia moltissimo al paesag-gio del lago di Como».

Perfino la città di Topolinia è una creatura italia-na, e si deve al talento di Martina in una storia dei

primi anni Cinquanta, intitolata Topolino nellaterra dell’incanto. Per la prima volta la città del to-po appare divisa da Paperopoli: gli americani cimetteranno fino al 1990 per accogliere la novità. Esono frequenti anche le escursioni in Italia, con av-venture ambientate al Giro d’Italia o con storie col-locate a Firenze in piazza della Signoria, a Roma, aMilano, su e giù per la penisola. Ancora Boschi:«C’è perfino una storia che ha luogo a Bagno a Ri-poli, una cittadina termale immediatamente a est

di Firenze: io l’ho letta anche durante una va-canza in Grecia, con i cartelli stradali che se-

gnalavano correttamente Bagno a Ripolicon l’alfabeto greco».

Anche a ripercorrere con un rapidoexcursus i decenni del Novecento, sivede, secondo Boschi, che Topolinoha accompagnato l’evolversi dellasocietà italiana. Negli anni del do-poguerra e della ricostruzione Pip-po ha i buchi nelle suole: «Solo neglianni Sessanta, dopo il miracolo eco-

nomico, si chiede ai disegnatori diabbandonare quel tratto pauperisti-

co e di non mostrare più le scarpe bu-cate». A giudizio di Boschi l’italianità del

topo è indubitabile negli indizi parziali: facolazione con il cornetto, in certe storie si sen-

te fortissimo il sapore della commedia all’italia-na, qua e là, in certe storie di ambientazione me-dievale come Paperino il paladino si ascolta unlinguaggio che precede di qualche anno quellodel monicelliano Brancaleone: «Ci sono perfinotrame che anticipano quelle dei film. Ad esempioTopolino e il Pippotarzan è una storia pratica-mente identica a quella di Riusciranno i nostrieroi a ritrovare l’amico misteriosamente scom-parso in Africa. In questo caso è il fratello di Pip-po che, come farà Nino Manfredi nel film con Al-berto Sordi, decide di restare nel continente ne-ro, rifiutando di tornare nella civiltà».

Nel decennio Settanta arrivano le femministe,ma anche un paio di libri con i «pensieri» di Pippoe gli analoghi «pensieri» di Paperone (consigli delriccastro improntati a un comico cinismo capita-lista), che mimano in tutta evidenza i «pensieri» diMao. Nel periodo successivo i contatti sono inve-ce con la cultura dominante o emergente: Topoli-no si contamina con la fantasy e in particolare conTolkien, ma non mancheranno mai ammicca-menti alla realtà domestica: come può chiamarsi

un’anchorwoman di successo se non Lilli Strudel?D’altronde, dice Boschi, un disegnatore non

lavora nel vuoto. Romano Scarpa, che insiemecon Carl Barks e Floyd Gottfredson è considera-to uno dei più importanti autori di fumetti Di-sney (fra l’altro inventò il personaggio di Trudy,la compagna di Gambadilegno), nel realizzare lestorie aveva come riferimento James Stewart efilm come La vita è meravigliosa di Frank Capra.Semmai può risultare notevole l’attrito fra l’ita-lianità di Scarpa e l’ottimismo americano di queifilm, ma la sintesi risultava efficace, così come ri-sultava plausibile in versione italiana l’amiciziavirile fra Topolino e Pippo.

L’aspetto forse più curioso, sul piano indu-striale e editoriale, è che nella divisione interna-zionale del lavoro globale Milano è diventata ilcentro di produzione da cui si irradia la creativitàDisney nel mondo. Come spiega il direttore diTopolino, la milanese quarantenne ValentinaDe Poli, entrata giovanissima come segretaria diredazione, animata da una passione ancora daneofita per l’universo disneyano: «La “comu-nità” Disney a Milano è composta da circa due-cento fra sceneggiatori e disegnatori. In redazio-ne siamo una quindicina, più i collaboratori. Nelnostro mercato ha un peso particolare il NordEuropa».

Così succede che un magazine per ragazzi(ma letto anche, e con fedeltà, da un pubblicoadulto), con vendite stabili intorno alle 220milacopie, di cui oltre la metà in abbonamento,

proietta immagine e personalità del Topolinoitaliano nel mondo intero. E l’Italia per un lungoperiodo ha modellato la propria versione del to-pastro con pregi e difetti tipicamente nazionali:«Per un buon periodo», dice Luca Boschi, «e spe-cialmente fino al 1988, quando veniva pubblica-to su licenza da Mondadori, gli autori italianihanno accentuato l’aspetto “poliziottesco” delfumetto, come se il modello fosse La polizia rin-grazia o Milano calibro 9. Topolino quindi ap-pariva quasi sempre nelle vesti di collaboratoredella polizia, un problem solver che si impiccia-va dei fatti altrui non si sa a che titolo».

Adesso invece è stato fatto uno sforzo per ri-qualificare il topo, che torna a essere in versionepiù classica, in grado di suscitare l’identificazio-ne con il lettore: «In quanto cittadino medio, ilventaglio di opzioni, e quindi anche di avventu-re possibili, è molto più ampio». Conferma la di-rettrice De Poli: «Inutile ribadire che i lettori ita-liani hanno storicamente un grande affiatamen-to con Paperino. Ma adesso qualcosa si sta muo-vendo nelle percezioni del pubblico: l’ultimaversione di Mickey Mouse è quella che rappre-senta un giovane uomo, ottimista, capace di ri-solvere situazioni complicate».

Un topo di destra, un vincente a tutti i costi? Oaddirittura un topo giustizialista, che si battecontro i furbastri di ogni risma? «Mah, le inter-pretazioni sono libere. Volendo si potrebbe an-che vederci una reincarnazione kennediana,l’uomo qualsiasi che vede frontiere nuove, si im-pegna, lotta e ce la fa grazie al proprio talento.Non è più il detective dilettante, che si intrufolae risolve tutti i casi, con l’aria saccente. In futurolo metteremo ancora alla prova, gli faremo spe-rimentare le fatiche di una professione, vedre-mo di nuovo Topolino giornalista. Ed è in pre-parazione una storia molto particolare, dovutaalla qualità di una disegnatrice, Silvia Ziche, chepunta molto sullo humour abbinato alla detec-tive story. Si chiamerà Topolino e la rapina delmillennio, e mostrerà un intreccio molto origi-nale di racconto giallo e di umorismo. Così comein passato non abbiamo avuto esitazioni a usarequesta nuova versatilità del topo e fargli inter-pretare Novecento di Alessandro Baricco».

Un meta-fumetto, insomma. O una delle infi-nite reincarnazioni possibili di un topo ameri-cano in Italia, che diventa il Topolino per eccel-lenza, in questo nostro mondo globalizzato.

Eppure adesso abitain una via di Milano

INEDITILe nuove storie di prossimapubblicazioneA sinistra, in senso orario,Topolino e la rapina del millennio(disegni di Silvia Ziche), in uscita il29 ottobre; Topolino e i milionidi Marco Topo (disegni di CorradoMastantuono), storia in tre parti,l’ultima in uscita il 15 ottobre;Topolino in L’ultimo caso(disegni di Giorgio Cavazzano),in uscita il 12 novembreTutte le tavole sono pubblicateper gentile concessionedi The Walt Disney Company Italia© Disney

MILLECINQUECENTOIl numero del 26 agosto 1984

FINALMENTE DUEMILAÈ il 27 marzo 1994

DUEMILACINQUECENTOCon Paperino il 26 ottobre 2003

STRISCE DI IERIA sinistra,dal basso versol’alto: Topolinopoliziottoe Pipposuo aiutante,albo italianodel 1935;le prime strisceitalianedi Topolinouscite nel 1930;un gialloMondadorispecialee il primoincontroa fumettitra Topolinoe Paperino

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l’attualitàMiti in riserva

Cento anni fa nasceva la “Ford T”, la vetturaper le masse. Fu l’inizio del secolo su quattro ruoteOggi, tra crisi economica, costo del petrolioed emergenza clima, quel secolo sembra finireMa sono in molti a pensare che dalla recessionepossa nascere una svolta rimandata da troppo tempo

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 12OTTOBRE 2008

C’era una voltal’automobile

Dopol’auto ci sarà ancora l’auto. Manon sarà più la stessa che tutti co-nosciamo. «Deve cambiare oppu-re è destinata a morire». Di questoè sicuro Fujio Cho, ex numero unodella Toyota, il primo costruttore

di automobili nel mondo ma anche il più attento altema dell’ecologia. Una previsione che arriva a unsecolo esatto dal debutto della prima vera auto dimassa, la mitica Ford T, insieme al Maggiolino unodei modelli più conosciuti e diffusi nel pianeta.

Sono stati cent’anni in cui l’automobile ha vissu-to da protagonista assoluta, depositaria pressochéunica del sistema di trasporto privato. Con una cre-scita inarrestabile, una potenza economica senzaeguali. Basti pensare che lo scorso anno le auto pro-dotte nel mondo sono state oltre 53 milioni, quindi-ci in più rispetto ad appena dieci anni prima. Si cal-cola che in tutto il pianeta ne circolino 664 milioni(nel 1980 erano meno della metà). Un tasso di svi-luppo impressionante, che è ancora più alto in pae-si dove l’automobile comincia a diffondersi soltan-to adesso a livello di massa: India, Russia, Cina. Nelpaese della Grande Muraglia, il parco circolante, og-gi di poco superiore ai venti milioni di unità, do-vrebbe arrivare nel 2020 a duecentotrenta. Una po-tenza di fuoco impressionante, per numeri e forzaeconomica. Ma anche un sistema che sta entrandoin una fase di stallo, che ha raggiunto già tutti gliobiettivi e che ora è condannato a trovarne di nuo-vi. Complice una profonda trasformazione dell’og-getto “automobile”.

La necessità di ridurre i consumi e contempora-neamente l’aumento dei prezzi hanno spinto gli au-tomobilisti americani prima e quelli europei dopo a

ridurre desideri e pretese lasciando spazio a city car,low cost e modelli ibridi. Niente più auto da osten-tare, dunque, oppure super motori con potenze daF1 ma soltanto auto “a misura d’uomo”, più acces-sibili e funzionali. Il risultato è stato un vero e pro-prio tsunami per l’industria dell’automobile Usa eper i modelli che nel passato l’avevano resa invinci-bile. Come i suv di cui sono ricchissime le gammedelle big three (Gm, Ford e Chrysler). Nella primaparte dell’anno le vendite di questi veicoli sono sce-se di circa il trenta per cento e ogni mese che passa èun bollettino di guerra. Anche per costruttori fin quiritenuti fortissimi come la Toyota che negli ultimimesi sta incassando perdite dell’ordine del trentaper cento. «Siamo alle prese con un’economia mol-to fragile», spiega Emily Kolinski-Morris, capo deglieconomisti della Ford, che a settembre ha registra-to il livello più basso di vendite da un anno a questaparte. A precipitare, però, non ci sono solo gli Sportutility. Sempre in America, gli acquisti di berline eauto compatte sono andati giù del trentacinque percento, mentre la riduzione per furgoni, i famosipick-up, è stata del trentanove. Uno scenario im-pensabile che ora sta investendo con altrettanta for-za l’Europa. La crescita è finita anche nel vecchiocontinente, dove quest’anno per la prima volta levendite chiuderanno con un rosso di almeno il sei-sette per cento, per scendere al dieci nel 2009. NelRegno Unito ad agosto il mercato automobilisticoha toccato il livello più basso dal 1966 (meno 18,6)ma le vendite sono letteralmente precipitate in Spa-gna (meno 41). La crisi si fa sentire anche in paesi co-me l’Italia o la Germania, da sempre ad altissimotasso automobilistico. L’ultimo dato Istat rileva chela produzione industriale di auto ad agosto ha regi-strato un calo del 66,8 per cento in un anno.

Non ci sono soldi ma non si sa nemmeno cosa

comprare. Ci sono i limiti antinquinamento da ri-spettare, normative sempre più confuse e unaquantità eccessiva di modelli che cercano di adat-tarsi al cambiamento. Oltre ai suv spariscono spi-der, coupé, station wagon a fronte di una modestainvasione di citycar di ogni genere. Diminuiscono lemonovolume e spuntano le multispazio che vannobene per la città ma anche per la campagna. Due inuna e la crisi è più leggera. E per addolcirla ancora unpo’ ecco le auto low cost, la ricetta di inizio secolo chegrazie alla globalità produttiva riesce a sfruttare lamanodopera a basso prezzo e a risparmiare parec-chio sui materiali.

Insomma, gli scenari sono tanti per l’auto all’al-ba di una nuova era. Alle prese con l’ambiente, i car-buranti e soprattutto con lo spazio. Più facile, infat-ti, esser d’accordo su un futuro a emissioni zero.Molto più difficile esserlo su forme e funzioni dellanuova auto. In altre parole chi può davvero stabilirefin da ora se in un prossimo futuro viaggeremo an-cora sulla strada oppure ci voleremo sopra? Unostudio della Ibm dal significativo titolo Automotive2020: Clarity Beyond the Chaos (La chiarezza oltre ilcaos), basato su interviste fatte a 125 responsabilidelle principali società automobilistiche del mon-do, aiuta a capire. «Il modello tradizionale non so-pravviverà a lungo», sono convinti gli esperti. Elet-tronica e tecnologia renderanno i veicoli semprepiù sicuri e in grado di dialogare tra loro. Mentre «iservizi di trasporto flessibili rimpiazzeranno l’ac-quisto di automobili o comunque trasformerannoil mercato tradizionale». In che modo? Per esempio,avendo la possibilità di acquistare non un solo vei-colo ma «un intero garage virtuale in modo da poterdisporre di un’auto adatta alle necessità contingen-ti». Resta l’ambiente. La guerra delle emissioni stacambiando anche l’idea di automobile. L’obiettivo

è quello di muoversi a emissioni zero. La metà delpetrolio del mondo, infatti, viene usata per il tra-sporto che è la causa di un quarto delle emissioni diCO2. Cambiare sarà dunque obbligatorio. E così gliesperti prevedono che nel 2020 la percentuale deiveicoli alimentati con carburanti fossili passerà dalnovantacinque al sessantacinque per cento, la me-dia di emissioni di CO2 scenderà a 97 grammi al chi-lometro dai 160 del 2008 el’ottantotto per cento deiveicoli prodotti sarà inte-ramente riciclabile.

La soluzione di tutti imali resta ancora l’auto aidrogeno. La sua realizza-zione sembrava dietrol’angolo già nel 2000. Poitutto si è fermato. Sull’ar-gomento merita risentireancora Fujio Cho:«Vent’anni fa chiesi ai no-stri ingegneri quanto ci vo-leva per produrre l’auto aidrogeno sui vasta scala.Mi risposero vent’anni.Feci la stessa domandadieci anni fa e anche allorala risposta fu la stessa:vent’anni. Adesso mi sen-to dire con poca convin-zione che potrebbero bastarne altri dieci. In questoperiodo abbiamo risolto gran parte dei problemitecnologici. Quello che resta da risolvere è il costo».Per ora non resta che accontentarci di qualche pro-totipo elettrico e di un milione di esemplari di vet-ture ibride in giro per il mondo. In attesa che l’autocambi per non morire.

VALERIO BERRUTI

MERCATOLe vendite di auto in Europa sono calatedi 2,1 milioni a fine anno. A settembre i calisono stati: Italia -5,5%, Spagna -32Gran Bretagna -21, Germania -10,4

VITTIMESecondo stime del 2004 dell’Oms,ogni anno in tutto il mondo sono 1,2 milionii morti a causa di incidenti stradalie circa 50 milioni i feriti

INCIDENTISecondo l’Istat, ogni giorno in Italiaci sono in media 652 incidenti stradaliche provocano la morte di sedici personee il ferimento di altre 912

INQUINAMENTOSecondo la Commissione europea369mila persone all’anno muoionoprematuramente per l'inquinamentoLe cure mediche costano il 3-9% del Pil

RECORDIn Italia ogni cento abitanti ci sonosessanta vetture (35.253.368). Siamosecondi solo agli Stati Uniti e davantialla Germania (57 auto)

• SILVIO, CESARE E IL NUOVO IMPEROBerlusconi blinda il suo potere economico. Marina astro nascente in Mediobanca e il ruolo centrale di Geronzi

• LA BRUSCA FRENATA DELL’AUTOIl terremoto finanziario ha colpito tutte le case: dalla Gm alla Fiat crollano i titoli in Borsa e si fermano molti stabilimenti

• IL GRANDE FREDDO DELL'EDILIZIAIl governo ha stanziato il 14% di fondi in meno per il 2009, i costruttori chiedono revisione prezzi e aiuti alle imprese

• BANCHE, BRINDANO FRANCIA E SPAGNABnp Paribas è diventata il primo istituto europeo, Santander e Bbva hanno il vento in poppa

Nel numero in edicola domani con

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 12OTTOBRE 2008

L’AUTORE

Amory Lovins è il presidentee fondatore del Rocky

Mountain Institute,organizzazione

no profit Usa specializzatanello studio di soluzioni

per lo sviluppo sostenibilee il risparmio energetico

Recentemente è stato ospitea Milano del convegnoEfficienza energetica,

la strada maestra promosso dal Kyoto Club

Il vero problema è lo spazio, la superficie di suolo occupata el’intasamento delle città. Se le automobili devono temere peril loro futuro è da questa parte che arrivano le minacce, non

dalla crisi energetica e neppure da quella ambientale. Sono con-vinto che tra venticinque anni saremo al volante di veicoli ultra-leggeri e super-aerodinamici, mossi da motori elettrici, alimen-tati probabilmente da batterie ricaricabili infilando una spinanella presa, o in alternativa da motori ibridi che alternano la pro-pulsione elettrica con quella fornita da biocarburanti sostenibi-li ricavati da scarti vegetali e piante poco nobili che non sottrag-gono risorse alla produzione alimentare. Quel giorno l’ultimafabbrica di vecchie auto in acciaio avrà chiuso, così come le ulti-me centrali nucleari e a carbone, trasformate in musei della sto-ria industriale. Automobili che percorrono ottanta chilometri conun litro, spaziose, pulite e riciclabili, possono impedire agli auto-mobilisti di esaurire il petrolio e aggravare i cambiamenti climati-ci, ma finiranno comunque per esaurire lo spazio e la pazienza dichi ne soffre disagi e costi sociali, promuovendo inevitabilmenteun più razionale ed efficiente trasporto pubblico.

L’auto di oggi, dopo un secolo di miglioramenti, è di un’ineffi-cienza sconcertante: almeno l’ottanta per cento dell’energia delcombustibile va perduta, principalmente sotto forma di calore edemissioni che escono dal motore; cosicché, nel migliore dei casi,solo il venti per cento viene effettivamente utilizzato per muove-re le ruote. Della forza espressa, il novantacinque per cento serveallo spostamento del veicolo, mentre solo il cinque serve allo spo-stamento del guidatore, in proporzione ai rispettivi pesi. Il cinqueper cento del venti per cento corrisponde all’uno per cento. Il mo-tivo è che l’auto tradizionale è pesante, fatta in gran parte d’ac-ciaio, ricca di sporgenze e spigoli che amplificano l’attrito con l’a-ria. Il suo peso grava su pneumatici che sprecano energia fletten-dosi e riscaldandosi. L’industria che la produce, sfornando auto-mobili che costano al chilo meno di un hamburger di McDonald’s,è decotta. Ridisegnare radicalmente l’automobile potrebbe far ri-

sparmiare dal settanta all’ottanta per cento del combustibile con-sumato, migliorandone sicurezza, prestazioni e comfort.

Le tre modifiche fondamentali sono: 1) rendere le vetture ul-tra-leggere; 2) rendere le vetture ultra-aerodinamiche; 3) quan-do l’applicazione della prima e seconda avranno permesso di ta-gliare i consumi energetici, introdurre il sistema di propulsioneibrido elettrico. Un approccio che il Rocky Mountain Institutenel 1991 ha trasformato nel progetto Hypercar, ovvero nell’ipe-rauto, mettendo insieme le migliori tecnologie emergenti dell’e-poca. I veicoli ultra-leggeri a trazione ibrida sono più durevoli epotenzialmente meno costosi di quelli tradizionali. Miscelandosapientemente le tecnologie più avanzate si possono creare au-to con il comfort e l’eleganza della Lexus, la solidità delle Merce-des, la sicurezza delle Volvo, lo scatto delle Bmw e il costo dellaFord Taurus, ma con un’autonomia da 900 a 1.200 chilometri ezero emissioni.

La maggior parte dei produttori è stata a lungo convinta che so-lo l’acciaio fosse abbastanza conveniente da permettere la pro-duzione di veicoli abbordabili. Non è così e, dopo aver visto i suc-cessi nel campo delle imbarcazioni e nel settore aerospaziale, sene stanno accorgendo. Il caso degli aerei è quanto mai istruttivo.Nel 1997 la Boeing visse una crisi molto simile a quella attraversa-ta dieci anni dopo da Detroit. Difficoltà culminata con il sorpassodell’Airbus nel 2003, un momento che sembrava segnare l’iniziodella fine. La risposta di Seattle fu invece il 787 Dreamliner, un mo-dello progettato con l’obiettivo di tagliare peso e quindi costi di co-struzione e consumi. Il risultato è stato un successo clamoroso. Il787 Dreamliner è “sold out” da qui al 2018, e tiene lontana la con-correnza della Airbus che ha risposto alla sfida troppo tardi.

Ora uno dei massimi artefici di quel trionfo, l’ex direttore dellaBoeing Alan Mulally, è a capo della Ford. La differenza è che i rivalinon sono rimasti con le mani in mano. La Toyota ha presentato re-centemente la 1/X, una concept car che pesa solo 420 chili. La stes-sa Toyota, così come Nissan e Honda, ha stretto una partnershipcon il colosso chimico Toray per la produzione di componenti in fi-bra di carbonio. Altre importanti innovazioni sono state introdottedalla Tesla nella sua Roadster. I più svegli hanno capito che l’autodel futuro sarà più un “computer con le ruote” che un una “mac-china con dei chip”, più una questione di software che di hardware.Alla fine i vincitori nella sfida per l’auto del futuro potrebbero esse-re degli ingegneri aerospaziali oggi sconosciuti, agguerriti e intelli-genti, che in questo momento sono al lavoro in un piccolo garage.

Testo raccolto da Valerio Gualerzi

AMORY LOVINS

Inventare il futuro

senza fantascienza

VanGogh. Disegni e dipinti. Capolavori dal Kröller-Müller Museum. Brescia, Museo di S.Giulia. Dal 18/10/08 al 25/01/09

VanGoghSponsor principale

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la memoriaLook retrò

Dopo lo slancio creativo della ricostruzione postbellica,il lavoro di architetti, designer, artisti portò il marchio dei blocchicui appartenevano, separati dalle ideologie e impegnatinella competizione per la conquista dello spazio e la corsaagli armamenti. Una mostra londinese ripercorre quei tempi,in cui anche un tostapane era un subdolo mezzo di conquista

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 12OTTOBRE 2008

MOSCA

La Guerra Fredda resterà incisa per sem-pre nello skyline di Mosca e, in fondo, leappartiene come il Colosseo a Roma ola Tour Eiffel a Parigi. Da qualsiasi parte

ci si trovi, infatti, lo sguardo non può evitare i fanta-smagorici profili dei sette ciclopici palazzi voluti daStalin, le «sette sorelle» e tutti i loro pinnacoli, le lorotorri culminanti con una grande stella dorata, co-struiti all’inizio degli anni Cinquanta per simboliz-zare la potenza e la superiorità dell’Unione Sovieti-

ca. Sette grattacieli degni rivali dell’Empire StateBuilding di New York. Non a caso, quando si cercò didefinirne lo stile ispiratore, fu il Cremlino a dettarnela valenza politio-ideologica-architettonica: queipalazzi erano stati concepiti personalmente da Sta-lin e qualcuno azzardò il paragone con il barocco,ovviamente rivisitato secondo una funzione «iden-titaria fondamentale» che nelle intenzioni di Stalinavrebbe dovuto rappresentare non solo la prospet-tiva artistica e monumentale della capitale russa, mala «grande causa» del comunismo.

Oggi uno dei sette grattacieli continua ad ospitarel’Università statale Lomonosov, il più prestigiosoateneo moscovita; un altro è ancora sede del mini-

Un passato che vive

nelle strade di Mosca

La Guerra fredda degli oggetti

LEONARDO COEN

Anchela lavatrice e il frigorife-ro e persino il tostapane di-vennero subdole e potenti ar-mi di offesa nei lunghi anni diquello scontro non solo poli-tico e ideologico, che dalla fi-

ne della Seconda guerra mondiale aveva di-viso il mondo in due blocchi contrapposti,quello sovietico e quello occidentale. Sullepagine delle Izvestia del 26 luglio 1959 una fo-tografia mostrava la bionda casalinga mo-scovita Zinaida infornare felice una torta nel-la sua moderna cucina razionale, molto“americana”, con mobili a muro e rubinettomiscelatore per acqua calda e fredda. Erauna orgogliosa ma patetica risposta allequattro sontuose cucine esposte alla gran-diosa Mostra della Nazione americana inau-gurata il giorno prima a Mosca: con la super-visione della Cia, doveva mostrare ai mosco-viti afflitti dalla coabitazione e dalla penuria

di beni materiali, le gioie del consumismocapitalista che allietavano l’opulenta vitadomestica degli Stati Uniti e dei Paesi nellasua sfera d’influenza.

Un’immagine storica celebra lo scontrotra cucine comuniste, virtuali, e cucine de-mocratiche, ancora scarse anche nei Paesicapitalisti: e per esempio in Italia, pur privi-legiata dagli aiuti del Piano Marshall (dal1947 al 1952), alla vigilia del miracolo econo-mico la diffusione delle agognate lavatricisfiorava appena il quattro per cento delle fa-miglie. Nell’immagine scattata all’inaugura-zione dell’evento mostra, rapita dalla poten-za seduttiva di una lavatrice, una folla tuttamaschile di potenti, con in testa i più poten-ti di tutti, il segretario generale del Pcus e pri-mo ministro dell’Urss Kruscev e l’allora vice-presidente degli Stati Uniti Nixon.

Questa fantastica fotografia con tutti queibruttoni in atteggiamento da massaia, peròpadroni non solo del destino domesticodelle donne (nessuna delle due superpo-tenze ne ipotizzava una condivisione ma-schile), ma del futuro del mondo, apre la se-zione Il disgelo di una delle più interessantimostre mai allestite al Victoria & Albert Mu-seum, Cold War Modern: Design 1945-1970,

(sino all’11 gennaio, catalogo a cura di Da-vid Crowley e Jane Pavitt, edito da V&A,pp.319, euro 60,75) in cui forse per la primavolta case di abitazione, costumi da bagno,caffettiere, progetti urbanistici, poltrone,tessuti, motorette, frigoriferi, opere d’artedi Robert Rauschenberg o di Mario Merz ofilm come Odissea nello spazio o Il dottor

Stranamore, già noti, vengono presentaticome prodotti della Guerra fredda, assu-mendo un senso e persino un’estetica nuo-vi, molto più inquietanti; rivelandone lanon sempre inconscia funzione di mezzi dipropaganda di opposti e inconciliabili si-stemi politici, assetti economici, stili di vita,visioni di un futuro di prosperità e efficien-za in feroce competizione. Gli architetti, idesigner, gli artisti, dapprima impegnatinella slancio creativo della ricostruzionedel mondo distrutto dalla guerra, si trova-rono poi a lavorare dentro i blocchi separa-ti dalle ideologie, di qua e di là impegnati

nella competizione, tra ottimismo e para-noia, per la conquista dello spazio, la corsaagli armamenti, la minaccia dell’annienta-mento nucleare.

Però dietro quella che Winston Churchillaveva chiamato nel 1947 «cortina di ferro»,non imperava solo il realismo socialista im-posto dai vari regimi comunisti, ma anchetentativi di riabilitare il modernismo ante-guerra, soprattutto nella Germania divisa,anche al di là del Muro di Berlino. Si resta in-cantati, pur nel suo significato di totale ac-quiescenza alla politica culturale stalinia-na, davanti a un dipinto del polacco Woj-ciech Fangor (1950) che mostra la coppiabuona, quindi socialista, di lavoratori, luiscravattato, lei robusta in tuta, entrambicon in mano forse un piccone simbolo diproduttività, accanto alla signora strava-gante e cattiva, tipo duchessa di Windsor,occhialoni neri, collana girocollo, abitosexy stampato a scritte Coca-cola e Wall

NATALIA ASPESI

ROSSO POLONIALa poltronain vetroresinadisegnata da RomanModzelewski(1959-1960)e provenientedal Museo nazionaledi Varsavia

IL SIMBOLO DEL BOOMLa Vespa 125

della Piaggio disegnatada Corrado D’Ascanio

e prodotta nel 1951

COMODITÀ DI PLASTICALa poltrona modellatain plastica grigia con gambein legno, disegnatada Charles e Ray Eames nel 1950

MICRO-CARLa MesserschmittKabinenrolleKR 200, l’utilitariadisegnatada Fritz Fendnel 1955e prodottaa partire dal 1959

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Dai sette grattacieli volutida Stalin ai mercatinidi periferia, nella capitaleex sovietica quell’epocaha lasciato il suo segno

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 12OTTOBRE 2008

stero degli Esteri; altri due sono alberghi e il più bel-lo dei due, l’Ucraina, all’inizio del Kutuzovskij pro-spekt, è in piena ristrutturazione: sta per diventareun nuovo cinque stelle. Peccato, l’atmosfera retròsovietica era la sua vera attrazione. I tre rimanentierano destinati agli apparatcnik, i burocrati più im-portanti del regime. Il più impressionante era statoribattezzato dalla gente «la casa alta» ed è rimasto unpalazzo residenziale: 35 piani, 800 appartamenti,3500 abitanti. E un labirinto di corridoi, nicchie, sa-le, saloni, locali misteriosi: vi si possono incontrarepolverosi sopravvissuti del regime comunista e nuo-vi ricchi, o incrociare nell’atrio l’ingegner Sergej Ne-pobedimi, inventore dei missili intercontinentaliSS-20, l’arma emblematica dell’arsenale atomicorusso, gli spaventosi razzi d’Oltrecortina (come si di-ceva un tempo, e un brivido percorreva la schienadegli occidentali perché si immaginavano quei mis-sili puntati sulle grandi città europee ed americane,pronti a polverizzarle).

Pochi giorni fa, il 9 ottobre, è andata in scena l’en-nesima asta «Nostalgia Urss» (proprio questo il tito-lo dell’evento), che ha messo in vendita quadri, po-ster e altri oggetti artistici del tempo della Guerrafredda, ed è facile immaginare che tra qualche me-se anche Mosca ospiterà una mostra clone di quel-la londinese. Con la sostanziale differenza che il de-sign caratteristico di quel periodo 1945-1970 in Rus-sia non ha una precisa configurazione, perché nonè mai stato il frutto di vera competizione industria-le, tantomeno con l’Occidente, ma il risultato diun’industria povera e arretrata: utensili, mobili eoggetti scaturiti da un’economia della necessità,senza velleità estetiche, roba che doveva servire. Irussi non credevano alle fandonie di Kruscev chenel 1958 prometteva: «Supereremo l’America nel1970». Fece demolire un intero storico quartiere delcentro per trasformarlo in una sorta di Broadwayrussa: «L’Urss rincorreva il mondo occidentale, nel-la Guerra fredda ideologica era importante anchefar vedere la potenza dei propri mass media e cosìvenne costruita la torre tv di Ostankino, che fu la piùalta del mondo», ricorda il critico d’arte Anton Gor-lenko. L’esperimento krusceviano non piacque aimoscoviti. I palazzi che dovevano imitare l’archi-tettura americana sembravano estranei, «una den-tiera». E quello fu il soprannome che rimase appic-

cicato al quartiere sino ai nostri giorni.La Guerra fredda veniva vissuta piuttosto ideolo-

gicamente, con le scorte di generi di prima necessitàsempre riposte nei nascondigli di casa: i fiammife-ri, il sale, il sapone, gli alimentari inscatolati di lun-ga durata. Nei cortili di alcuni caseggiati comparve-ro delle baracchette che celavano l’ingresso al rifu-gio antiatomico: ma c’erano solo nei quartieri deifunzionari di partito. Gli altri, al massimo, si dove-vano accontentare di correre il più in fretta possibi-le verso le stazioni della metropolitana, in caso di at-tacco. A scuola, sulle pareti, c’erano i manifesti cheistruivano gli studenti all’uso della maschera anti-gas, alle regole per evitare contaminazioni radioat-tive, e alla disciplina dell’emergenza. I manifesti,molto naif, oggi sono ricercati oggetti di moderna-riato. Qualche volta li si trova nei mercatini all’a-perto — il più famoso e vasto è quello di Izmajlovo,ogni mercoledì e sabato mattina — insieme alle

cianfrusaglie di quegli anni. Vecchi utensili che og-gi destano compassione, ricordi — per le genera-zioni più anziane — di eterni guasti e di ingegnoseriparazioni. Prevalevano due colori: il nero e il gri-gio. Quando si confrontavano coi rari oggetti stra-nieri che filtravano dall’Occidente, stupivano le for-me e i colori. Ma l’Urss aveva vinto la corsa allo spa-zio, con il volo di Gagarin del 1961. Due anni dopo loscultore Evgenij Khaldej gli dedicò un’enorme bu-sto, sul viale dei Cosmonauti. C’è ancora. Come l’o-belisco dedicato ai «conquistatori dello spazio» vi-cino alla Mostra delle realizzazioni economiche, al-tro vanto sovietico, che i moscoviti chiamarono su-bito «il sogno dell’impotente».

LA MOSTRA

Cold War Modern: Design 1945-1970è la mostra aperta al Victoria and AlbertMuseum di Londra fino all’11 gennaio2009. L’esposizione analizza gli effettidella Guerra fredda sul design,l’architettura, l’arte, il cinema e la modaSono esposti le tute degli astronautidell’Apollo e dello Sputnik, i filmdi Stanley Kubrick, i dipinti e i veicolid’epoca, l’hi-tech. Ma anche oggettiche dimostrano come la competizionetra i due blocchi per il primatodi modernità si rifletté sulla produzionedegli accessori per la casa

Street, aggrappata alla sua borsa, segno dipericoloso ed egoista consumismo. Peròun’altra storia artistica e sociale racconta ilmanifesto di un altro polacco, Roman Cle-slevicz, che nel 1959, per propagandare unacatena di negozi di abbigliamento, disegnaun profilo inquietante di donna con in testauna grande rosa rossa, su fondo nero, mol-to surrealista, molto poco socialista.

Sconfitta in guerra, dipendente dagli aiu-ti americani, entrata nella Nato, con un for-te partito comunista, l’Italia si rivelò come ilPaese dal design più avanzato e meno sensi-bile alla Guerra fredda, una specie di pontetra i due mondi nemici, sino dalla Triennaledi Milano del 1947 da cui iniziò il dibattito suquale modello di società doveva essere pri-vilegiato dagli artisti internazionali. In mo-

stra sono esposti molti pezzi italiani, dal-la poltrona gonfiabile prodotta da

Zanotta nel 1967 ai manifesti diMax Huber per il Congresso in-

ternazionale di architetturamoderna di Bergamo dellostesso anno, dal computerElea 9003 Olivetti di Sottsasse Tchou del 1959 alla Vespadel 1951, sino alla fantastica

installazione di Giancarlo De Carlo, MarcoBellocchio e Bruno Caruso intitolata La pro-testa dei giovani, monumento al caos segui-to all’occupazione e chiusura della Quattor-dicesima Triennale di Milano il giorno stes-so dell’inaugurazione, come era di moda nel’68, soprattutto quando gli eventi, comequello, si presentavano anti-istituzionali,innovativi e quasi sovversivi, e che perciò igiovani anti-istituzionali, innovativi e quasisovversivi, per non star su a pensarci, senti-vano il dovere di distruggere.

Con il disincanto e le rivolte nei due bloc-chi, finiva la Guerra fredda, anche quella deldesign. in attesa della caduta del Muro. Ilmeraviglioso futuro comunista non si eraavverato, le promesse di una opulenta so-cietà capitalista non erano state mantenu-te, di quegli anni di scontro, paura, rifugiatomici e minacce di guerre totali, cosa re-sta oggi? Per esempio, nelle case di classicaeleganza, quelle poltrone di legno curvato epelle disegnate da Charles e Ray Eames ri-cavate dalla tecnologia bellica applicatadalla Marina americana; e poi nuovi scon-tri, nuove paure, nuovi disastri, nuovi peri-coli, nuovi nemici, nuove guerre, un nuovoFreddo…

LA GRANDE TORRE DELL’ESTLa torre delle telecomunicazioni,

eretta tra il 1968 e il 1973 sulla cimadel monte Jested in Cecoslovacchia

CAPPELLO SPAZIALELo Space Hat

disegnatoda Edward Mann(1965) nel pienodell’era spazialein una fotografiadi modadi John French

L’UOVOLa poltrona da giardinoa forma di uovo in plasticadel 1968 disegnatada Peter Ghyczy e prodottanella Germania dell’Est

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Una guida di un campo in Botswana lontanoda tutto. La stessa libertà degli animali, il silenziointerrotto dai turisti che arrivano e ripartono

senza fermarsi abbastanza per iniziare amori o amicizieFino al giorno in cui arriva una donna sola.È il racconto scrittoper “Repubblica” da Alexander McCall Smith, che lascia le sue ladydetective per tornare a narrare il suo Paese d’origine

CULTURA*

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 12OTTOBRE 2008

Questo racconto è ambienta-to in un campo safari all’e-stremità settentrionale delBotswana, e ha come prota-gonisti due uomini e unadonna. Gli uomini, Dirk e

Mark, dirigevano il campo safari — cheapparteneva a Dirk, un sudafricano sullaquarantina inoltrata; un uomo dalla pel-le ispessita di chi ha trascorso la propriavita sotto l’intenso sole africano, lontanodalle città. Dirk si trovava in Botswana dadiciotto anni, e aveva avviato una picco-la attività di safari. Mark, un australianopiù giovane di lui di quindici anni, era ar-rivato in Botswana cinque anni prima,per caso. Aveva iniziato a lavorare pressoDirk, ed era rimasto.

I due uomini erano entrambi solitari esi prestavano per indole al lavoro del sa-fari, che attrae individui che come loroamano la natura. Vivere in quel luogo glidava un senso di libertà. L’unico modo diraggiungere il campo era per via aerea; iclienti arrivavano da Maun, l’unica cittàdel delta dell’Okavango, a bordo di unpiccolo aeroplano. Dopo tre o quattrogiorni il velivolo tornava con un nuovogruppo di clienti e riportava indietroquelli che avevano terminato il propriosoggiorno. L’arrivo dell’aereo era im-mancabilmente molto atteso, e rappre-sentava l’unico contatto con il mondoesterno. Quando appariva, da lontano,non era più grande di un uccello: un pic-colo puntino nell’ampia volta del cielo;poi scendeva in picchiata e atterrava sul-la pista tra mulinelli di sabbia. Il terrenoera fine e sabbioso, e il vento lo sollevavaformando nuvole bianche.

Al campo lavoravano alcune guide lo-cali, che accompagnavano gli ospiti neldelta a bordo di piccole imbarcazioni, fa-cendosi largo tra i giunchi che cresceva-no alti lungo il bordo dell’acqua; spessocapitava che sorprendessero dei cocco-drilli stesi al sole sulle sponde sabbiose, obranchi di ippopotami a mollo nell’ac-qua. Incontravano anche gli elefanti, chea volte si vedevano intenti ad attraversa-re il fiume. Lenti, ponderosi, come semessi in difficoltà dalla loro stessa mole.

La sera gli ospiti mangiavano tutti in-sieme attorno al fuoco, al centro del cam-po. La cucina si faceva vanto di servire pa-sti all’altezza dei grandi, lontani alberghidella capitale. «I nostri clienti li trattiamobene», affermava Dirk con orgoglio.«Molti ritornano. L’Africa gli entra nelsangue, e ritornano».

Alla fine di ogni serata, quando il fuo-co era ormai ridotto a brace, i membridello staff, muniti di torcia, accompa-gnavano gli ospiti alle loro tende. Cam-minare per il campo al buio e senzascorta non era permesso, tra la vegeta-zione potevano trovarsi degli ippopo-tami o persino elefanti.

Qualche anno prima un ospite avevadisubbidito a queste istruzioni, e dopoaver girato un angolo si era trovato difronte ad un elefante. Ammutolito dal-la paura, non era riuscito a raccontarecosa gli fosse accaduto, e per ricostrui-re la sequenza dei fatti bisognò aspet-tare il mattino successivo.

«Non allontanatevi dalla tenda dinotte», insisteva Dirk. «Non fatelo. Se dinotte sentite qualche rumore, rimane-te dove siete. Gli animali non possonoentrare. Siete perfettamente al sicuro».

E infatti era così. Le tende erano spa-ziose e ventilate, chiuse sul davanti dacerniere forti e montate su pedane di le-gno che le tenevano sollevate diversespanne da terra. All’interno c’erano deiletti veri e propri — e delle sedie, su cuierano poggiate alcune coperte dai colo-ri vivaci; c’erano una doccia, dei lavan-dini e delle finestre dai risvolti in rete. Iletti erano avvolti in grandi zanzariere,e anche se qualcosa fosse entrato nellatenda — magari una scimmia, o un bab-buino — gli ospiti sarebbero stati pro-tetti da questo ulteriore strato di rete.

«Attenetevi alle regole», ripetevaDirk. «Rispettate gli animali, e loro ri-spetteranno voi».

Molti degli ospiti erano incuriositidai due uomini. Come era possibile fi-

nire in quel luogo, si domandavano, nelmezzo della boscaglia, lontani da tutto?Come facevano? E cosa poteva spinge-re degli uomini — si domandavano al-cune ospiti — a vivere in un luogo dovenon avrebbero mai incontrato unadonna, ad eccezione delle turiste natu-ralmente, che arrivavano e rimaneva-no per pochi giorni, e che comunque ilpiù delle volte erano accompagnate damariti e compagni.

«Strano», aveva detto un’ospite almarito. «Quei due. Credi che le donnenon gli... piacciano?».

«Dovresti capirlo da sola», rispose luilaconico. «Tu che ne dici?»

Lei esitò un attimo. «Credo che glipiacciano. Quando un uomo non è in-teressato si capisce. Sai cosa? Credo cheDirk, il più vecchio, il capo, debba averavuto qualche brutta esperienza. Se-condo me sta scappando dalle donne».

«Ha fatto molta strada, se era solo unpo’ di pace che cercava», rispose il ma-rito.

«Forse. Il più giovane invece, Mark,quello piuttosto attraente. Credo sia ti-mido. Molto timido. Credo sia uno diquegli uomini che non sanno come av-vicinare una donna. Si capisce».

Il marito scrollò le spalle. «Bè, se rima-ne qui di certo non farà progressi. Am-messo che si presentino delle donne li-bere, resterebbero solo qualche giorno».

Lei rifletté per un momento su que-ste parole. «È triste. Davvero triste. C’èqualcosa di delicato in lui. Hai notatogli occhi? D’accordo, non li hai notati,naturalmente, ma sono grigi. Comepozzanghere. Che spreco. Mi piace-rebbe poterlo aiutare».

Si interruppe. Le era venuta un’ideaimprovvisa. Era inaudita, e il solo pen-siero la fece sorridere.

Il marito la guardava. «Cosa c’è dibuffo?»

«Niente. Stavo solo pensando».«A cosa?»«A quel giovane. Credo che gli darò

qualche consiglio».Pochi mesi più tardi al campo arrivò

una comitiva di persone di cui facevaparte una donna che aveva all’incircal’età di Mark, o forse uno o due anni dipiù. Lui la notò quando la vide scende-re dal piccolo aereo e allungarsi verso lasua valigia. Quando le si avvicinò perprenderle il bagaglio lei lo guardò, scac-ciando i capelli che le erano andati a co-prire gli occhi.

Lui arrossì. «Gliela porto io, permetta».«Non pesa».«Non importa».Mentre salivano a bordo del veicolo

che li avrebbe portati al campo le lanciòun altro sguardo, e notò che benché trai nuovi ospiti — una decina in tutto — cifossero alcune coppie, lei non sembra-va avere un compagno. Sentì la boccache gli si seccava. Capitava sempre:quando era ansioso la bocca gli diven-tava asciutta.

Radunarono gli ospiti sotto il grandefico selvatico che segnava il centro delcampo. Era qui che Dirk spiegava loro ilprogramma delle giornate — l’ora deipasti e le disposizioni per i safari a pie-di. Mentre Dirk parlava, lui rimase in-dietro, al lato dell’albero. Ogni settima-na una o due battute erano sempre lestesse; i nuovi arrivati sorridevano, equando Dirk raccontava la barzellettadel coccodrillo si scambiavano sguardinervosi. Non gli piaceva spaventare gliospiti, ma dovevano assicurarsi che ca-pissero l’importanza di un comporta-mento cauto. A volte una storiella o unabarzelletta aiutavano. Il racconto delcoccodrillo era vero, anche se gli ospitinon lo sapevano. Cose del genere acca-dono sul serio.

Dirk finì di parlare, e gli ospiti si alza-rono per raggiungere le tende. Dopoaver aspettato pazientemente, i porta-tori accompagnavano gli ospiti che era-no stati loro affidati in tenda. Ad un trat-to decise di agire. Si avvicinò all’uomoche avrebbe dovuto portarla alla tenda.

«Ci penso io, Simon», mormorò. «Alei ci penso io».

Simon, il cui compito era quello di as-sicurarsi che il fuoco in cucina non sispegnesse, fece di sì con il capo e se netornò al suo lavoro.

«L’accompagno alla sua tenda», dis-se avvicinandosi a lei. Aveva la boccacompletamente secca, e pensò che ma-gari la sua voce avrebbe avuto un suo-no strano. Invece no.

Lei lo guardò, e sorrise. «Come tichiami?», chiese. «Prima, all’aereo, nonci siamo presentati come si deve».

Glielo disse, e lei gli prese la mano e lastrinse, con un gesto che in quel luogolontano da tutto sembrava molto for-male. Gli disse il suo nome. Anne.

«Con o senza? », chiese lui. «Si scrivecon la e?»

Che domanda stupida, pensò, e sivoltò dall’altra parte imbarazzato.

«Con o senza», rispose lei. «Sono abi-tuata a vederlo scritto in tutti e due imodi, non fa differenza».

Si incamminarono lungo il sentieroche portava alla tenda di lei, che era l’ul-tima e sorgeva proprio al limitare delcampo.

«Dunque, non bisognerebbe giraredopo il tramonto?», gli chiese.

«No. Assolutamente no. C’è un ele-fante che arriva senza essere stato invi-tato. Lo chiamiamo George. Sa che quinon dovrebbe venire, ma viene quasiogni notte». Si fermò, guardandosi in-torno. «Ecco, infatti, guarda qui: questaè una delle sue impronte».

«E i leoni?»Si stavano avvicinando alla tenda, e

lui allentò la presa sulla valigia, spo-standola all’altra mano. «Ogni tantoabbiamo dei leoni. Ma in tenda sarai alsicuro. Non c’è da preoccuparsi».

Lei non sembrava convinta. «Ho let-to di qualcuno che è stato trascinatofuori da una tenda», disse. «L’annoscorso. Era su tutti i giornali».

L’AUTORE

Alexander McCall Smith nato e cresciuto in Africa, è autore di oltresessanta libri tra romanzi e testi di altro genere, tra cui libri per bambini.

È stato docente di diritto all’Università di Edimburgo per molti annied è stato vicepresidente della commissione per la genetica

della Gran Bretagna. I suoi libri sono stati tradotti in trentasei linguee hanno venduto più di cinque milioni di copie in tutto il mondo

Vive a Edimburgo con sua moglie Elizabeth. È famoso soprattuttoper i romanzi della serie della signora Precious Ramotswe

e della sua Ladies’ Detective Agency N.1, ambientata in Botswana,e quelli della serie ambientata a Edimburgo, che ha come protagonistasempre una donna, l’affascinante filosofa detective Isabel Dalhousie

Tra i titoli della prima serie, Le lacrime della giraffa, Morale e belleragazze e Scarpe azzurre e felicità. Tra quelli della seconda, Il club

dei filosofi dilettanti, Amici, amanti e cioccolata e l’ultimo uscito in questigiorni (come gli altri per Guanda), L’uso sapiente delle buone maniere

ALEXANDER MCCALL SMITH

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 12OTTOBRE 2008

Ne aveva sentito parlare anche lui.«Non è successo in campo come que-sto», rispose. «Noi ci prendiamo curadei nostri ospiti. Sei completamente alsicuro. Quelli di cui parli si erano ac-campati per conto proprio vicino a Mo-remi. Avevano una tenda inadatta. Peri leoni è stato come un invito».

Si voltò, e il suo sguardo incontròquello di lei. Lo stava fissando dritto ne-gli occhi. Si sentì a disagio. Perché? Sidomandò. Perché si sentiva in questomodo?

Quella sera mangiò insieme agli ospiti— cosa che non sempre faceva. Sotto l’al-bero c’erano sei tavoli, e lui non era aquello di lei. Durante il pasto però la cercòcon lo sguardo, e lei fece altrettanto, esat-tamente nello stesso momento. Si scam-biarono sorrisi. La guardava. Sembravapiacesse anche agli altri ospiti, e la cosanon lo stupiva. È bellissima, pensò, e traun paio di giorni se ne andrà, io resteròqui e tutto andrà avanti nello stesso mo-do, per settimane, mesi, anni.

Aveva sperato di riuscire a parlarleattorno al fuoco, ma il modo in cui gliospiti si erano disposti lo aveva resoimpossibile. Poi arrivò il momento diandare a dormire; il mattino successi-vo al sorgere del sole, verso le sei e mez-zo, sarebbero partiti per un safari a pie-di. Non potevano fare tardi.

Si diresse verso il suo alloggio. Sisdraiò, senza riuscire a dormire. Quelladonna che era stata lì qualche mese pri-ma, che gli aveva fatto quella propostastraordinaria... la sua voce gli riempivala mente. Diceva sul serio? Davvero pen-sava che avrebbe dovuto fare una cosadel genere? Aveva creduto che stessescherzando, o che fosse mezza matta.Ora invece si domandava: perché no? Senon lo faccio ora non lo farò mai.

Si alzò dal letto, si infilò gli abiti e pre-se la torcia. Poi si incamminò in silen-zio lungo il sentiero che portava all’e-stremità opposta del campo, dove sor-geva la tenda di lei, avvolta nell’oscu-rità. In alto, nel cielo, costellazioni distelle bianche si affacciavano sul deltae sul Kalahari. Siamo così piccoli sottotutte queste stelle, pensò.

Rimase fuori dalla tenda di lei tratte-nendo il respiro. Sapeva farlo molto be-ne. Aveva sentito spesso i leopardi, e neconosceva il rumore. Sapeva imitarlosenza problemi.

Si interruppe. Dall’intero della tendaarrivò un cigolio del lettino da campo. Erasveglia. Ripeté il rumore di prima, strofi-nando i piedi sul terreno. Si mosse tra l’er-ba e tossì di nuovo, come fanno i leopar-di. Poi, dopo un po’, si incamminò in si-lenzio lungo il sentiero, per poi ritornaredi corsa, questa volta rumorosamente.

«Anne?».La voce di lei era flebile. «Sì, c’è qual-

cosa...».«Lo so. Era un leopardo. Tutto bene?».Lei accese una torcia e l’interno della

tenda si illuminò. «Ho... ho paura».«Posso entrare?».«Certo. Sì. Naturalmente».Si infilò nella tenda e sedette accanto

al letto. «Sono contenta che tu sia ve-nuto», disse.

«Resterò qui, seduto», disse. «Nonpreoccuparti. Resterò seduto qui. Sefuori gira un leopardo, con qualcunosarai più sicura».

Si sedette vicino al letto. Parlarono,liberamente, a voce bassa. Lui le rac-contò della sua vita, e lei della propria.Si era regalata questo viaggio dopo es-sersi lasciata con un fidanzato, per di-menticare. Lui disse «magari incontre-rai un altro». Lei non rispose, ma lui im-maginò di indovinare i suoi pensieri.Non importava. Aveva rotto il ghiaccio.Le stava parlando. Domani sarebberiuscito a dirle cosa provava per lei.Avrebbero avuto molto tempo.

Nelle prime ore del giorno, appenaprima dell’alba, sentirono nuovamen-te un leopardo. Questa volta era vero.

«Non farci caso», le disse. «Sei perfet-tamente al sicuro».

«Sai», sussurrò lei, «credo che tu ab-bia più o meno perfettamente ragio-ne». E gli strinse la mano.

Traduzione di Marzia Porta

La solitudinedell’uomo leopardo

SafariMCCall Smith

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Repubblica Nazionale

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Brevela vita felice di Norma Jean Mortenson. Sbagliata fin dall’ini-zio, giacché comincia con un errore di ortografia nel cognome,che avrebbe dovuto essere Mortensen, secondo marito della ma-dre. Corretto, con un altro errore, in Baker, primo marito. Giac-ché nessuno dei due era il padre, probabilmente un tizio di pas-saggio, terzo tra i tanti errori della donna che, incapace di imma-

ginarlo, diede alla luce quella che sarebbe diventata Marilyn Monroe.Luce, si fa per dire. Ce n’è veramente poca nel periodo in cui Marilyn fu Nor-

ma. Perfino nelle fotografie dei primi anni: sfondi scuri, ombre sul viso, retico-lati alle spalle («a cui tende la pargoletta mano»), donne che la reggono in brac-cio con qualche imbarazzo, amichette che mantengono le distanze, un sorri-so che, scatto dopo scatto, invece di schiudersi si spegne.

L’album di Norma è il diario di un viaggio triste, al di là delle esagerazioni chepoi Hollywood le impose (e lei serena-mente accettò) per renderla ancor piùCenerentola, fiaba d’America destinataa un circolare, buio finale.

Nella prima immagine che di sé con-segna alla storia, Norma è in braccio al-la madre Gladys, che le lascerà un nomeda buttare, il sospetto di una tara eredi-taria e uno spavento quando, già affida-ta ad altri, le verrà rivelato che è da lei chediscende. La mamma strizza gli occhidavanti all’obiettivo, la tiene in bracciocon scarsa convinzione, sembra nonvedere l’ora di depositarla. Alle lorospalle ci sono una casetta a un piano nelmezzo del mezzo dell’America, una pa-lizzata e una strada costeggiata da palidella luce. Tutto prelude a una fuga.

Nella seconda posa, a sei mesi, («ri-tratto professionale», addirittura, comese fosse già destinato alle riviste), Nor-ma è infatti già sola. È stata consegnataa una famiglia adottiva, i Bolender, chehanno già altri quattro figli e raccolgono(meglio, tengono a pensione) i bambini abbandonati della zona.

Scrisse Time: «Da piccola visse in una zona depressa, la sua famiglia si com-poneva di sette persone, tutti facevano il bagno una volta alla settimana inun’unica vasca riempita d’acqua e l’orfanella era sempre l’ultima a entrarvi».Uscita da quella palude eccola che, con il vestitino della festa, posa accanto alfratellastro Lester. Lui ha la cravatta, i pantaloni con la piega, lo sguardo di chiè costretto a fare qualcosa che non vorrebbe, le tiene la mano per dovere e re-sta ingrugnito. Lei ha gli occhi chiusi e sorride per qualcosa che sta pensando.È già in un mondo di fantasie, l’altrove dove si rifugerà di lì a un’altra vita di-

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 12OTTOBRE 2008

Non conobbe mai il padre; la madre l’abbandonò;la famiglia adottiva non l’amò; la tutrice la consegnòall’orfanotrofio; a sedici anni si sposò per disperazione

L’infanzia e l’adolescenza della futura star furono una scuola di vitamolto dura. Un libro raccoglie adesso documenti e memorabiliadi quel destino ancora inconsapevole

SPETTACOLI

COMPLEANNOOggetti e lettere dalla vita

di Norma Jean Mortenson

Qui sotto, disegnato da lei,

l’acquerello per il compleanno

del presidente Kennedy (1962)

MarilynprimaMarilyndi

ventando, anche lei, un’altra. L’affligge la sensazione di non essere voluta. Ilpresunto padre non l’ha riconosciuta. La madre biologica l’ha abbandonata.Quella adottiva la sgrida se la chiama «mamma».

Nell’ultima foto come Norma Bolender ha sette anni e gioca con un cane. Leregalarono questo Tippy, che l’accompagnava a scuola e l’aspettava all’uscitasenza muoversi, come il protagonista diCaos calmo. Finalmente una creaturache la voleva. Gliel’ammazzò a fucilate un vicino, perché aveva sconfinato. Nonci sono foto di quel periodo. La storia è troppo patetica perché l’abbiano in-ventata gli addetti stampa a venire. Quel che successe dopo, ancora peggio.

Tornò dalla madre, ma lei fu ricoverata in una clinica psichiatrica. Se la pre-se una sua amica, Grace, che la portava al cinema e le prediceva un avvenire dastar. Norma era tentata di crederle, quando si vide consegnare proprio da lei al-l’orfanotrofio di Los Angeles. Grace aveva trovato marito e non aveva più spa-zio per una bambina, neppure una futura diva.

Eccola lì, a dieci anni, con la torta di compleanno e due amichette che resta-no distanti, le arrivano al petto non ancora sviluppato, probabilmente amichevere non sono. A scuola la guardano con curiosità, non hanno mai visto un’or-fana, le chiedono se conosce Oliver Twist, la chiamano «fagiolina», ridono deisuoi vestiti che non cambiano mai.

Quando esce dall’orfanotrofio cambia diverse famiglie con una unica co-stante: gli uomini di casa la molestano, le donne danno la colpa a lei e la allon-tanano. Nessuna di queste coppie senza volto e senza affetto compare nell’al-bum. Ecco invece un trio di donne anziane e lei sotto, riccioluta, improvvisa-mente contenta. La più alta del terzetto è Ana, la madre di Grace, la nonna chenon ha mai avuto e che la mette nella sua serra coltivandola, guardandola sboc-ciare. A quindici anni è un fiore. Non le occorre un «ritratto professionale», lebasta mettersi davanti all’obiettivo di una scalcinata cabina fotografica per il-luminare l’immagine. I ragazzi sono abbagliati, lei che da bambina non si eramai sentita definire «bella», ora recupera, con gli interessi. Sarebbe il momen-to migliore della vita di Norma, se non accadesse che Ana muore e la lascia a unbivio: tornare in orfanotrofio o sposarsi.

Ed ecco Norma il giorno delle nozze con il marinaio James Dou-gherty. Ha sedici anni, i boccoli, il rossetto, è una bambina che staper scoprire quel giocattolo che è il proprio corpo. In posa allo zoocon James, ha alle spalle l’ennesimo reticolato. Palizzate, reti, re-cinti, è come se Norma fosse sempre prigioniera. Quando entranella gabbia dei pinguini e sorride, è lei l’animale in cattività. Lei checerca di scappare da se stessa (qualunque cosa sia) e dalla strada che haimboccato per disperazione, non per convinzione. Il matrimonio non èquel che sognava, la vita da casalinga mentre James va per mare l’annoia. Scop-pia la guerra, lui parte soldato, lei dà il proprio contributo dipingendo fusolie-re d’aereo con lo spray. Un fotografo a caccia di ausiliarie da copertina la nota.Nel suo scatto resta una luce che arriva fino a Hollywood. Flash! Norma divor-zia da James e dalla vita a cui pareva destinata e diventa Marilyn.

Dirà l’ex marito: «Era dolcissima, tutti s’innamoravano di Norma. Ma noncredo che Marilyn piacesse a molti».

COPERTINADa qui sopra, in senso

orario: Marilyn in barca

con alcune amiche

all’epoca del secondo

film, nel 1948; la lista

delle spese sostenute

dalla tutrice nel 1941

e una lettera

dell’orfanotrofio (1935);

Norma Jean quindicenne

nel 1941; sulla copertina

di Foto Parade nel 1949;

biglietti aerei per Marilyn

e Joe Di Maggio

In alto a centro pagina,

sempre in senso orario:

lettera alla sorellastra

Berniece del 1944;

lettera del Museo

del cinema e della tv

di Hollywood

in cui si propone all’attrice

di diventare membro

fondatore (1962);

permesso di parcheggio

della Twentieth Century

Fox (1946); tessera

del sindacato attori

(1959-60); lettera

del 1961 a Lee Strasberg,

direttore dell’Actor’s

Studio e suo maestro

di recitazione,

in cui Marilyn chiede

aiuto per uscire

dall’ospedale

psichiatrico

GABRIELE ROMAGNOLI

NormaJeanl’albumsegreto

Repubblica Nazionale

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SOLDATIQui sotto e a destra,tra i soldati in Corea(1954). A centro pagina,tra i compagni di scuola,sull’annuario del liceofrequentato nel 1942

RITRATTOQui a destra,il certificatodi matrimoniocon Joe Di Maggionel 1954Sopra a destra,ritratto a matitadisegnatoda Jane Russell

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 12OTTOBRE 2008

IL LIBRO

Tutti i documenti e le fotodi queste pagine sono tratte

dal libro Marilyn

Monroe. Tesori

e ricordi della

diva che incantò

il mondo, a curadi Jenna Glatzer(Edizioni WhiteStar, 176 pagine,45 euro)Nel librosono contenuti

in cartelline estraibilimemorabilia, riproduzionidi materiale originalee immagini inediteIn libreria il 15 ottobre

Tema in classe: “Il freddo”Con vitamine e minerali le difese di tuo figlio rispondono correttamente

Repubblica Nazionale

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42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 12OTTOBRE 2008

i saporiCondimenti alternativi

L’extravergine d’oliva rimane il principe della tavola. Eppurenon mancano suoi possibili rivali, ancora estranei al nostro lessicoalimentare.Da quello di argan, prodotto della cucina berberaoggi apprezzato dai grandi chef, a quello ricavato dalle noci,usato per impreziosire sughi e insalate, ma costoso come il caviale

OlioL’altro

Si fapresto a dire olio. L’elenco di bacche, semi e frutti da cui spre-mere un liquido più o meno denso, dorato, comunque ricco digrassi e altamente calorico — pencoliamo intorno alle 900 calo-rie per etto — è lungo, variegato, sorprendente. Alcuni, sono olidi basso profilo qualitativo, seconde o terze scelte per gusto e pro-prietà, ma assai appetiti dalle industrie alimentari per i costi risi-

bili e l’alta adattabilità. Altri sono figli diuna società contadina-montana, stori-camente votata a plasmare le poche ri-sorse a disposizione, anche se a poste-riori certi cibi di risulta sono stati recu-perati come vere leccornie. Altri anco-ra, deliziosi e salubri come nemmenoimmaginiamo, ci sono estranei, sem-plicemente perché non fanno parte delnostro comprovato lessico alimentare.

Così, quando nel 2001 la fondazioneSlow Food assegnò il premio interna-zionale per la biodiversità alla coopera-tiva di donne marocchine produttricidell’olio di argan, gli addetti ai lavori tra-

secolarono. Il condimento principe della cucina berbera era del tutto scono-sciuto. Sette anni dopo — complice la diffusione come suadente olio da mas-saggio — l’olio di argan è presente sugli scaffali dei negozi di gourmandise enelle cucine dei ristoranti d’autore. Merito del profumo inebriante e del finearoma tostato.

I nutrizionisti, invece, fanno il tifo per i semi di lino decorticati (l’intestino as-sorbe meglio i principi attivi) e per l’olio che se ne ricava: due cucchiaini, infatti,

sono sufficienti a completare il fabbisogno giornaliero di omega-3. I gourmetstorcono il naso, dato che il sapore varia da pressoché neutro a sgradevolmenteforte. In realtà, l’errore sta nella lavorazione non curata e nella conservazionemaldestra, perché essendo termosensibile, si ossida poco sopra i 20 gradi (la ca-tena del freddo è assicurata nelle produzioni biologiche).

Molto più appetitoso l’olio ricavato dalle noci, altra fonte generosa di acidigrassi sani. Se dal punto di vista farmacologico mangiare un paio di gherigli algiorno riesce ben più economico delle tanto pubblicizzate capsule di olio di pe-sce, l’olio che ne viene estratto a freddo è prezioso quanto il caviale. Per scoprir-ne la ragione, basta immaginare una montagna di noci (tre quintali!): tante ce nevogliono per produrre un litro d’olio. Il risultato, in compenso, è straordinario:ben lo sanno i grandi cuochi italiani, che hanno imparato a usarlo per imprezio-sire sughi e insalate, ma anche gli appassionati di bagna caoda — la salsa caldapiemontese a base di aglio, olio e acciughe, in cui intingere tocchetti di verdure— che ne utilizzano qualche cucchiaiata per aggiungere un fascinoso tocco disottobosco. Gli chef tedeschi e altoatesini, invece, privilegiano l’olio di semi dizucca. Anche in questo caso, gola e salute vanno a braccetto: da una parte l’altocontenuto di fitosterolo (curativo delle patologie prostatiche), dall’altra il pro-fumo tostato, il gusto aromatico e intenso, il colore verde-nero lucente ne fannoun alimento di alto valore qualitativo. L’esatto contrario di quanto succede conquasi tutti gli oli tropicali, ad alta percentuale di grassi saturi: economici, perfet-ti per friggere a lungo e ad altissima temperatura, ma dannosi per cuore e arteriee nascosti dietro la dicitura “oli vegetali” (che dà l’illusione di salubrità).

La conoscenza degli oli diversi nulla toglie all’extravergine di oliva, che in que-sti giorni comincia il suo percorso annuale: nella prima settimana di novembre,“Frantoi Aperti” — informazioni sul sito delle Città dell’olio — ed “Extra”, il nuo-vo evento in programma alla Fiera di Bari, vi sveleranno curiosità e segreti. Ob-bligatorio portarsi appresso un pane fragrante per fare scarpetta.

Leggero e aromaticoarriva il diversoLICIA GRANELLO

L’appuntamentoIl “Marché au Fort”,oggi al forte di Bard,è una piccola, coltarassegna delle miglioritradizioni gastronomichedella Valle d’Aosta,riproposte dalle nuovegenerazioni artigianeTra i prodotti in passerella,lo storico olio di noce,un tempo usatoper le lampade, orariscoperto dagli chef comecondimento aromatico

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOME NICA 12OTTOBRE 2008

itinerariChef e sommelier,Agostino Buillasgestiscecon la moglieElena il “CaféQuinson”,

ospitato in un’affascinantecasa del Seicentoa Morgex, AostaL’olio di noci sposagolosamente sia il lardod’Arnad con patateall’aceto di mele,sia il crudo d’astice

Il piccolo borgo,che ha nel nomei chilometriche lo separavanodal Castrum di Aosta,nove, è annidatoa mezza costanella valle della DoraBaltea. Qui vengono

incoraggiate le produzioni biologiche dell’olioottenuto dai gherigli

DOVE DORMIREMAISON ROSSETVia Risorgimento 39 Tel. 0165-767176Camera doppia da 70 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARELE GRENIERPiazza Zerbion 1, Saint-VincentTel. 0166-510138Chiuso mercoledì, menù da 50 euro

DOVE COMPRAREAZIENDA AGRICOLA BIOLOGICA GENUINUSFrazione Petit-Fénis 22Tel. 347-9792697

Nus (Aosta)Nel borgo contadinocostruitotra la confinante,antica Essaouirae la modernaAgadir, Slow Foodha avviatouna cooperativagestita da sole donne

per la produzione dell’olio d’argan, lo stessoche viene usato anche per i massaggi

DOVE DORMIREVILLA MAROC10 rue Ben YassineTel. (+212) 24473147Camera doppia da 95 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARER&C L’HEURE BLEUE (con camere)2 Rue Ibn Batouta, EssaouiraTel. (+212) 24783434Sempre aperto, menù da 40 euro

DOVE COMPRARECOOPERATIVA AMALVillage de l’ArganierTel. (+212) 44788141

Tamanar (Marocco)La seconda cittàaustriaca —con centro storicoiscritto tra i patrimonidell’Unesco —è il capoluogodella Stiria, regioneche ospita anchegente di lingua

slovena. In entrambe le tradizioni gastronomichel’olio di zucca è amatissimo

DOVE DORMIRETHE WEITZERGrieskal 12Tel. (+43) 316-703080Camera doppia da 110 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREIOHANLandhausgrasse 1Tel. (+43) 316-821312Chiuso domenica e lunedì, menù da 35 euro

DOVE COMPRAREFRANTOIO BERGHOFER & FEHRINGSteirisches Thermenland Radersdorf 75Tel. (+43) 338-566040

Graz (Austria)

Spremuta di gheriglil’eterna seconda

CORRADO BARBERIS

Per tradurre il nostro “patria” i tedeschi fanno ricorso adue vocaboli. Il primo è Vaterland, la terra padre, die-tro il quale si può intravedere uno sventolio di ban-

diere, l’incalzare di battaglioni ritmati, il canto dell’innonazionale. Il secondo è Heimat, il cui etimo è affine per ca-salinghitudine all’inglese home: un luogo protetto che dà ilmeglio di sé ad uscio chiuso, con il caminetto scoppiettan-te, la preghiera di benedizione sul cibo e, se proprio musi-ca ha da esserci, quella di una fisarmonica. Alla prima leesposizioni universali, alla seconda le sagre di paese. Da unlato politica e Stato. Dall’altro, amministrazione e famiglie.

Orbene, quando si pensa all’olio, quello di oliva è Vater-

land, quello di noci è Heimat. Allorché versiamo un filo diolio extravergine su una patata ben cotta, gli spiriti magnidei cuochi storici — da Scappi a Carême, da Escoffier a Car-nacina — ci esortano a concepire quel filo come il primo at-to di una sontuosa insalata russa, di una intrigante, com-promettente maionese. È, mai soddisfatta di sé, la gastro-nomia proseguita con i suoi mezzi. Ma se il filo che va sullastessa patata è di noci, nessuno ci chiederà di partire allaconquista del mondo, tutto rimarrà sigillato tra papille epalato in un segreto rimando di effluvii. L’intimità prevarràsulla gloria. Insieme al buon gusto, che non ama i troppi te-stimoni. A cominciare dal sale, indispensabile sulla patataall’oliva, superfluo su quella alla noce di cui non deve esse-re disturbato l’arcano retrogusto dolcioso.

Condannato al ruolo di eterno secondo, dopo quello di

oliva, l’olio di noce si prese qualche rivincita nel Medioe-vo. A compiere un sincretismo di religiosità gastronomi-ca fu il re Renato D’Angiò, quello che Yves Montand vedetornare al suo castello tenendosi le trippe nelle mani: at-torno ad Aix, in Provenza, dove prospera anche l’ulivo, fe-ce piantare noceti. Gli statuti medievali del Piemonte,amorosamente postillati da Anna Maria Nada Patrone,attestano la pignoleria, almeno ufficiale, con cui la pub-blica autorità cercava di proteggere i consumatori. Gli“olieri” — noi diremmo i frantoiani — erano tenuti a con-segnare ai committenti un prodotto puro e nitido, senzaaltre commistioni, a preferire nelle consegne i residentirispetto agli estranei, a restituire loro i pannelli rimasti do-po la spremitura dei gherigli. A Vercelli l’olio si vendeva amisura liquida. Solo d’inverno, quando ghiacciava, su-bentrava la vendita a peso.

Capitale dell’olio di noci fu per lungo tempo l’Alvernia,in un clima di stretto autoconsumo. Un po’ prima del 1850Balzac segnalava però un’iniziativa commerciale in Tu-renna — vallata della dolce Loira — dove duecento alberipotevano procurare una rendita di quaranta soldi ciascu-no, ossia di quattrocento franchi. Era il periodo in cui l’or-dine dei medici parigino tuonava contro l’olio di noci, rite-nuto indigesto, specie nel fritto.

Per fare un litro d’olio ne occorrono due o tre quintali digherigli. E, sostiene Maurizio Grange, devono essere nocisubalpine perché i giganti di Sorrento non collaborano. Pa-tate e funghi dei diversi tipi sono — secondo Walter Eynard— i destinatari più adatti. Se ne eccettua forse il salmerinoche, per la sua carne lievemente zuccherosa, ben si sposaalla spremuta di noci.

Si è detto che l’olio di noci è Heimatper eccellenza. In al-meno due casi seppe però farsi anche Vaterland. I valdesiconobbero il glorioso ritorno militare nelle loro valli Pelli-ce, Germanasca e Chisone (1689). Il secondo nel 1830. Frale cause — diciamo concause — dell’indipendenza belgaci fu il tedio di sentirsi chiamare “mangiatori d’olio nocino”dagli olandesi, cui il clima impediva quell’albero. Paese chevai, polentoni che trovi.

le calorieper 100 grammid’olio

900

le lavoratricidi olio d’arganin Marocco

2.000

i grammidi Omega 6 per 100di olio di lino

60

i quintali di nocinecessari per fareun litro d’olio

3

‘‘Haruki MurakamiNon era un gran menù. In una padella

cinese si facevano andare a fuoco bassobue affettato sottile, cipolle,peperoni e germogli di soia,si cospargeva di sale e pepe,

si aggiungeva un po’ di olio di sesamo

Da L’uccello che girava le viti del mondo

ZuccaColore verde scuro e gustointenso, particolare, per l’olioelaborato con i semi tostati,caratteristico della tradizionegastronomica tirolesee tedesca. Grazie alle spiccate proprietàantiossidanti e protettive è utilizzato anche comesupplemento fitoterapico

NociAlbero di sussistenza della cultura contadinamontana, per il legname —con cui costruire mobilirobusti — e per i gherigli da cui ricavare un oliodall’aroma finee caratteristico, riccodi vitamina E. Tre quintalidi frutti per fare un litro d’olio

NoccioleHa un bel colore giallo caricol’olio estratto dalle nocciole, condimentoabituale sulle tavole di Langa a inizio Novecento e oggi in via di recupero Di gusto saporito e accattivante, esalta le preparazioni a crudoRicco di selenio e flavonoidi

SesamoUno degli oli più usati nella cucina orientale —profumato, gusto intenso,ideale per aromatizzarein cottura pesci e verdure— è estratto dai semidel Sesamum indicum

Vanta un’alta percentuale di acido oleicoe acido linoleico

LinoSalubre e delicatissimol’olio prodotto con i semi,ricchissimi di acido linolenico(58 per cento), il principedei grassi Omega 3Ha sapore nocciolato,con un lieve retrogustoamaricante. Occorre trattarlocon attenzione perchéè sensibile a luce e calore

RisoColore chiaro, saporedelicato e lievementedolce per l’olio ricavato dal germe di riso In Oriente, dove gode di una tradizione millenaria,viene definito oliodella salute, perché inibiscela sintesi di colesteroloe trigliceridi nell’organismo

ArganDalle bacche di una piantasimile all’olivo, coltivata sulla costa sud del Marocco,si ricava un olio doratodall’aroma tostato,ingrediente importante della cucina berbera. Resebasse (un quintale per litro)e lavorazione artigianale,curata dalle donne

CoccoRicavato dalla polpa della noce di coccoha un’alta percentualedi acidi grassi saturia catena corta e media(quindi “buoni”, al contrariodi quello di palma, riccodi saturi “cattivi”). Usato nella cucina maldiviana,speziata e piccante

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 12OTTOBRE 2008

le tendenzeAgo e compasso

Torna di moda con le collezioni autunno-inverno quella che,negli anni Sessanta, fu la rivoluzione di Courrèges: e dunque

spalle quadrate, colli circolari, revers rettangolari, gonne tondeE gli accessori – cappelli, scarpe, bracciali – si adeguano

Il primo fu André Courrèges. Ex in-gegnere civile con la passione pergli abiti, negli anni Sessanta entrònella scuderia dello spagnolo Cri-stobal Balenciaga rivoluzionandole proporzioni e disegnando la

moda del futuro. Adorava lo stile geome-trico, annullava guarnizioni e fronzoli estravolgeva le regole con grande scanda-lo di quell’impenetrabile corte di re e re-gine che, allora, era il mondo dell’hautecouture. «Toglie sensualità alle donne»,dichiarò lapidaria Coco Chanel.

Adesso lo stile alla Courrèges tornaprotagonista. Una nuova estetica, preci-sa al millimetro e ideata con rigore, tra-sporta la moda in un universo parallelo:quello dell’architettura. Potrebberotranquillamente essere progettati da ar-chitetti come Zaha Hadid e Herzog & deMeuron i capi che hanno sfilato per l’au-tunno-inverno. A cavallo tra l’arte e il fa-shion, i nuovi volumi hanno da principiolasciato senza parole il pubblico femmi-nile. Ma con l’arrivo dei primi freddi i mi-lioni di ragazze dai venti agli ottant’anni,che puntualmente ogni stagione vorreb-bero rivoluzionare il proprio guardaro-ba, si sono innamorate dei nuovi virtuo-sismi sartoriali. Il sogno del 2008 è fatto dispalle quadrate, colli circolari, revers ret-tangolari, giacche e gonne tonde. Lasemplice manica, un tempo considerataappendice insignificante del più impor-tante abito, diventa protagonista grazie a

un raffinato lavoro di sovrapposizioni edrappeggi.

Un discorso a parte è quello riservato aicolli. Pensati per creature filiformi, mina-no ogni regola della seduzione: se le scol-lature un tempo dovevano scoprire, oggirivestono; se la carta vincente era mo-strare, per risvegliare l’attenzione deisempre più distratti uomini, adesso l’im-perativo è avvolgere. Non solo il décol-

leté, ma anche il collo e buona parte delmento sono avvolti da un pudico velo ditessuto. Per le spalle è rivoluzione auten-tica: ridefiniscono la figura, si allargano,proteggono, la linea curva s’irrigidisce esi eleva oltre l’ordinario. Quel che più in-canta è l’abilità dei couturier. Nulla, nel-le nuove costruzioni, può infatti esserelasciato al caso. La moda scultura è il ri-sultato di un lavoro di precisione mania-

cale, eseguito prendendo le misure concompasso e centimetro.

Complice del risultato finale è natural-mente il tessuto, scelto in base alla rigi-dità delle nuove armature: quello che pri-ma si otteneva con stecche di balena esottogonne ora si realizza con il panno oil tweed. Un semplice filo di lana, intrec-ciato mille volte su se stesso, può genera-re scenografie ambulanti.

Un discorso a parte meritano gli ac-cessori. Influenzati da tante geometrieall’avanguardia, abbandonano le formetradizionali e rientrano nella sfera del fu-turibile che tanto piaceva a Courrèges. Icappelli disegnati da Borsalino ricorda-no deliziose miniature anni Trenta, leborse di Victor & Rolf simulano creaturemarine stilizzate. Quel che più stupiscesono le scarpe. Strutture a più piani, lecalzature, proposte indifferentementeda Miu Miu, Paciotti, Casadei e Dior, re-galano, se si riesce a evitare il rischio ca-duta, centimetri in abbondanza e unlook spaziale. Anche gli stivali, firmati Y-3, Diego Dolcini, Roger Vivier e RenèCaovilla, mutano la loro tradizionale es-senza in favore di tessuti innovativi espessi elastici intrecciati con il cuoio. Ibracciali ideati da Marni e Giorgio Arma-ni sono delle composizioni artistichedove le figure geometriche contribui-scono a un effetto simile a quello dellesculture concettuali. I guanti di LouisVuitton si trasformano grazie ad ali aero-dinamiche.

Neanche la sposa è più la stessa. Quel-la ideata dal trasgressivo Jean Paul Gaul-tier, seppure sempre in bianco candido,si avvia all’altare avvolta in una spirale dicerchi concentrici al posto del velo. Ave-vano dunque ragione gli stilisti olandesiVictor & Rolf quando, ai loro esordi, di-chiaravano: «La moda deve poter esseretutto ma non utile».

Quadrati, cerchi, triangolila nuova donna è geometrica

IRENE MARIA SCALISE

GEISHARichiama lo stiledelle geishegiapponesil’abito Kenzodisegnatoda Antonio MarrasIl collo rigidosi allungae la cintura obisegna con graziail punto vita

BAUHAUSL’illustrazione è trattadal libro di Oskar SchlemmerScritti sul teatro (Feltrinelli)

MINIATURESembrano miniature anni Trenta i cappellini in rasodi Borsalino: un raffinato gioco di plissé e sovrapposizioni

GIOCHI DI POLSOGiocano su colori e forme geometriche, i bracciali di Marni in legno

e smalto lucido: perfetti con i jeans ma anche col tubino di setaIncastri e geometrie per il bracciale rosa vivace di Emporio Armani

TACCO PITONETaccoeffetto pitoneper i sandalidi Casadeiin pelle violascamosciataPensatiper un abito,e una serata,decisamenteimportanti

VERTIGONon deve soffriredi vertigini chi scegliele scarpe di Miu Miu,con tacco-sculturae doppia para

MULTICOLORPotrebbe essereopera di un architettola borsa multicolordi Victor&RolfColoratissima,ha una chiusurain metallo dorato

PIZZO E BRILLANTIAbito con pizzo

intagliato e brillantiricamati sul fondo,

disegnatoda Alison Miller

per AlidiomichelliIn contrasto,

nella parte superiore,un décolleté

in doppiaseta candida

MINIMALÈ minimal e insieme

geometricamenteperfetto il cappotto

color ghiacciodi Jil Sander

Non si vedonobottoni ma solo

un gioco di intarsiper una chiusura

dalla raffinatalavorazione

PROVOCAZIONERasenta

la provocazionel’abito-scultura

di Jean Paul Gaultier:la mantella

è un sapienteintreccio di tubi

in velluto,la pettinatura spaziale

completa l’insiemechic & shock

TANGRAMAbito e mantellain minuscolepieghe di setacangiantedi Yssey MiyakeLo stilistaè da sempre alfieredi uno stile fattodi sovrapposizionie lineegeometriche

CURVE RIGIDETessuti sovrappostie lavorazioni prezioseper l’abito di Malloniabbinato al cappottoin tinta. Le curve rigidedel soprabitocontrastanopiacevolmentecon la morbidezzadel top decoratodi pietre dure

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46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 12OTTOBRE 2008

l’incontro

MANTOVA

Èarrivato sorridendo, si è se-duto in poltrona senza maismettere di guardare negliocchi il suo interlocutore, ha

fatto quello che sa fare meglio. Ha rac-contato una storia. Ha usato una storiaper rispondere alla domanda: a che co-sa crede Eric-Emmanuel Schmitt,scrittore di bestseller, drammaturgo,regista, genio e guru spirituale per al-cuni, scaltro mestierante per altri, au-tore che resterà famoso soprattutto peril suo Monsieur Ibrahim e i fiori del Co-

rano interpretato al cinema da OmarSharif. Dunque, in cosa crede un uomoche è tutte queste cose? «Un uomo euna donna si incontrano e si innamo-rano e dicono stasera faremo l’amore.E al mattino dopo faremo l’amore e poila notte faremo di nuovo l’amore e almattino dopo ancora e ancora la notte.E poi, un mattino, parleremo. Questocredo. Credo nella parola». Un altrosorriso.

Schmitt dà le spalle alla confusionedella hall dell’albergo. Anche se è unodegli autori più famosi del mondo — isuoi romanzi sono tradotti e venduti inquasi cinquanta Paesi per un totale dioltre dieci milioni di copie, le sue opereteatrali sono tra le più rappresentate inFrancia — il suo viso non è famoso co-me lui. Nessuno lo disturba, forse nonlo riconoscono o forse è così concen-trato su quello che sta facendo che tut-to resta, quasi lo sapesse, sullo sfondo.Gli uomini lo sanno per natura che nonsi interrompe una storia. Ha ripreso aparlare. Solo che stavolta il personag-gio è lui e sua la storia che racconta. Ini-zia con il deserto.

«Avevamo marciato per dieci giornicon un gruppo di persone. Era un viag-gio organizzato, un trekking. Mi sonoperso alle pendici del monte Ararat. Mi

sono perso a trecento chilometri dalprimo villaggio. Non avevo né da berené da mangiare. Avevo paura di morire.Mi sono preparato per la notte. Mi sonoinsabbiato dietro una roccia per ripa-rarmi. Durante la notte invece di averpaura sono stato penetrato da una for-za più grande di me. Sono stato toccatodalla fiducia. Io non avevo fede. Eroagnostico. Sono diventato credente.Meglio, agnostico credente: io non so,ma credo». Continua. «Al mattino, pen-savo, se ritroverai la strada vivrai comeun credente, se non la ritroverai, mori-rai come un credente. Prima della se-conda notte, la guida mi ha visto e mihanno ritrovato. Ho conservato quel-l’esperienza, che ha lavorato dentro dime come un processo alchemico. Que-sta piccola sorgente che avevo nel cuo-re è diventata un fiume. Mi ha cambia-to totalmente».

Prima, dice, «ero un filosofo, pocoportato per la narrativa. E avevo il cuo-re completamente separato dall’intel-letto. Il deserto mi ha unificato. Ho pre-so la penna e ho potuto scrivere conl’intelletto e con il cuore». Ed è diventa-to l’uomo che è, come se qualcosa gliavesse dato «il diritto di parola», ora «misento legittimato. D’un tratto avevoqualcosa da dire e un luogo da cui par-lare. Le parole per me sono sempre sta-te un mistero incomprensibile e lo so-no tuttora. Ma le uso con fiducia. Credonelle parole». E poi, per sdrammatizza-re, per una specie di difficoltà a pren-dere tutto troppo sul serio o per una vo-cazione innata alla leggerezza, aggiun-ge ridendo: «Non ho mai più incontra-to Dio. Ma una volta nella vita è abba-stanza». Era il 1989. Dall’anno dopo in-comincia il successo teatrale di Schmitte la sua carriera di scrittore.

Un passo indietro. Eric-EmmanuelSchmitt, classe 1960, nato vicino a Lio-ne da genitori franco-irlandesi, cittadi-no belga. Filosofo innamorato di altreepoche e altri pensieri. «Non moder-no», dice. Nel suo cielo ci sono Pascal eKierkegaard, Mozart e Bach. Scrittoredi romanzi, racconti e pièce teatrali (inItalia è pubblicato da e/o) in cui si tro-vano maestri sufi e orfani che si incam-minano per il mondo alla ricerca chidel passato chi del futuro. Freud cheparla con Dio. Gesù visto da Pilato. Hi-tler che anziché diventare il male asso-luto viene accettato all’Accademiad’arte e cambia la storia. Le reincarna-zioni di Milarepa, demone delle mon-tagne e illuminato. Bambini chemuoiono mentre Dio tace. Donne chehanno avuto un solo amore e che vivo-no solo per ricordarlo. Cambiano i per-sonaggi, cambia il punto di vista, ma isuoi eroi vivono sempre la stessa storia.«Tutti i miei personaggi hanno un pri-ma e un dopo. Prima credono di avereo di sapere qualcosa di definitivo sulmondo, poi accade qualcosa che facrollare tutto. E devono ricominciare.E devono accettare questa condizio-ne». Come se ognuno di loro fosse de-

sieur Ibrahim è costruito come un per-sonaggio universale, ma ho tenuto a di-re che è musulmano e ho cercato di far-lo amare. Di fronte al bisogno dellacontrapposizione agli altri dobbiamoessere più nomadi. Il mio nuovo libro(appena uscito in Francia, ndr) ha co-me protagonista la figura di un Ulisse diBagdad».

Per molti Schmitt è soltanto unoscrittore che si affida a formule sempli-ci e questo spiega il suo successo. Inrealtà è una semplicità raggiunta a fati-ca. Deve aver lavorato molto per im-porsela. Basta sentirlo parlare di filoso-fia. Anzi, la domanda precisa è: posso-no le radici europee di cui si parla e chequalcuno vorrebbe fossero giudaico-cristiane essere invece quelle laiche, il-luministe? Quelle del pensiero di Mon-taigne, Bacone, Cartesio, Kant? «Sfor-tunatamente la filosofia è un’attivitàmarginale. È la facoltà di pensare con-tro e in un altro modo. Non è mai com-piuta, è sempre da costruire. La societàè formata da ideologie, mai da filosofie.La filosofia è nata per guarire dalleideologie. Attraverso il pensiero, il ra-gionamento, il dialogo. È condannata aessere un contropotere, altrimenti sitrasforma in ideologia. Deve essere re-sistenza, deve essere ambiziosa, manon deve essere imperialista altrimen-ti diventa ideologia. È una lotta controquesta tendenza molto umana a volerdire qualche cosa di definitivo. La filo-sofia è marginale, ma non deve essereelitaria e può essere solo personale, unincontro con l’altro».

Si è mai dato una spiegazione del suosuccesso? «Ho successo semplicemen-te perché scrivo. Non faccio marketinge quando parlo con i media parlo solodi quello che scrivo. Il mio successo miha riconciliato con la mia epoca. Per-ché le mie radici non sono nella miaepoca. La mia formazione è sui classicigreci, la mia cultura è premoderna, an-zi non moderna. I grandi incontri dellamia vita avvengono in altre nazioni, inaltre epoche. La mia più grande ammi-razione letteraria è per Sofocle».

E, dopo una pausa: «Non sono im-portanti le risposte, ma le domande.Credo che il mio successo dipenda dal-le domande che pongo. Importante èporsi le domande. Le risposte ci diffe-renziano, le domande no. Nelle do-mande il dolore, l’amore, la morte, gliuomini sono fratelli».

Ci abbiamo girato intorno, ma vistolo spazio che occupa nella sua opera,alla fine la domanda arriva: e la morte?In uno dei suoi libri più dolorosi, Oscar

e la dama in rosa, un bambino muore,facendo rivivere l’eterno dramma chel’uomo non riesce a tollerare. Il doloredi cui parlava Dostoevskij nei Fratelli

Karamazov quando urlava che no, difronte alla morte degli innocenti, nes-sun Dio può avere una giustificazione.Schmitt cita le ultime parole di Oscar:«Solo Dio ha il diritto di svegliarmi». So-lo Dio può rispondere, ma non rispon-

stinato a trovarsi di fronte il deserto ead attraversarlo.

Anche se è conosciuto per le suescorribande attraverso epoche e cultu-re lontane, dalla mistica islamica aquella buddista, Schmitt è un uomodell’Occidente, è un europeo figlio del-la più solida tradizione filosofica fran-cese (laureato all’Ecole normale supé-rieure) e dell’Europa conosce luce e te-nebre. «Nonostante il mio ottimismodella volontà e la mia fiducia metafisi-ca, penso che l’Europa oggi attraversiuna regressione identitaria. La genteha paura della globalizzazione. Non diquella economica che nessuno capi-sce, ma di quella culturale, quella cheporta con sé il flusso inarrestabile degliimmigrati. La gente prova a difendersicercando una certezza identitaria chesia ideologica o religiosa. Ed è un erro-re, una mistificazione. Si nasce per ca-so in un posto piuttosto che in un altro.Quelle che chiamiamo identità sonostoriche, accidentali. È tutta una fin-zione: il mio nome, il mio cognome, lamia nazionalità, la mia religione. Tuttoè una finzione accidentale. Il mio Mon-

de. E l’uomo, quando prova a rispon-dere, cade in valutazioni morali che loportano fuori strada. «La morte non èuna punizione, la vita non è una ricom-pensa, la malattia non è una punizione,la salute non è un premio. Queste sonovalutazioni morali, ma la vita e la mor-te sono fatti. L’illusione di sapere è lacosa peggiore quando si parla dellamorte. Bisogna avere l’umiltà di nonsapere, accettare di non sapere. Sonodevastato dal dolore per gli amici cheho perduto. La morte è la cosa peggioreche può capitare. Soprattutto la mortedegli altri. La nostra invece non è tragi-ca, è un fatto».

Scrittore di successo, ricco, famoso,forse illuminato. Dov’è la falla? «Nonsono illuminato. Qualcuno pensa cheio sia un guru, ma sono sempre moltochiaro su questo: io non so niente e ac-cetto di non sapere niente. La falla? Cene sono tante». Pausa lunghissima.«Non posso impedirmi di fare del male,di essere indifferente. Ogni giorno ac-cumulo il male perché è inevitabile, èradicale. E quindi faccio del male, con-sapevolmente o no, ai miei fratelli». Epoi, aggiunge, è una falla cercare diconvincersi ad accettare i propri limiti,come fa la protagonista di uno dei suoiracconti divenuto un altro film, Odette

Toulemonde, commessa, vedova, ma-dre senza soldi ma innamorata dellaletteratura. «Lei è più felice di me, ac-cetta la sua condizione e alla fine trovala felicità. Ma io non posso accettare dilimitarmi come artista. L’uomo vor-rebbe, l’artista non può e questo micrea frustrazione».

E la solitudine? E tutti i sentieri inter-rotti che lei percorre attraverso i suoipersonaggi? Quegli orfani alla ricercadi un rifugio? Stavolta la pausa è piùlunga. La solitude, la solitudine, ripetepiù volte. E, prima di sorridere e conge-darsi: «Siamo tutti fratelli nel nascere enel morire. Al di là di questo siamo fattiper amare e per parlare». E credere chele parole possano qualcosa.

Si nasce per casoin un posto piuttostoche in un altroQuelle che chiamiamoidentità sonoaccidenti della storia:nome, cognome,nazionalità, religionesono tutte finzioni

Edizioni in cinquanta Paesi,milioni di copie vendute, successointernazionale per il film trattodal suo “Monsieur Ibrahim e i fioridel Corano”. Perché, dice, “scrivo

con l’intellettoe con il cuore”. Eppureil suo viso non è famosoe può filosofareindisturbato,seduto nella halldi un albergo,sostenendo che “la cosa

importante sono le domande,perchénelle domande il dolore, l’amore,la morte, gli uomini sono fratelli”

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Eric-Emmanuel Schmitt

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DARIO OLIVERO

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