L’ANALISI ApocalisseL’apocalisse che abbiamo vissuto nel secolo scorso, nelle sue varie fasi,...

1
AGORÀ IDEE AGORÀ IDEE 5 DOMENICA 9 GENNAIO 2011 DOMENICA 9 GENNAIO 2011 4 er nessun poeta del secondo Novecento l’ascolto fu così alto, la tensione così continua, lo scavo così febbrile, disperato e insieme certo che la ricerca è essa stessa il senso, il valore, la sostanza di ogni opera dell’uomo; e la ricerca sul senso della poesia non è un puro problema estetico ma morale. E forse il solo Rebora gli si affianca anche nel cinquantennio precedente. Dinnanzi a loro o a pochi altri si avverte le lievità, la distrazione, la superfluità di tante altre voci. Rileggiamo le ultime righe dell’Introduzione di Mario Luzi. Storia di una poesia di Sergio Pautasso: «Luzi dichiara il suo rifiuto di imboccare quella via che, causa l’estenuazione a cui è giunta nel Novecento la parola, pare quasi obbligata al poeta contemporaneo e che conduce al "limbo"». Il leitmotiv di tutto è la Parola. La Parola che domina, determina azioni e vicende realissime e trascendenti. La Parola che ispira il racconto e la dottrina degli autori della Sacra Scrittura. La Parola che si pone di fronte a quelle del Poeta, le suscita e le sgomenta. L’estetica e il pensiero di Luzi ruotano continuamente intorno a questo termine che racchiude e illumina ogni dato della storia e della vita. Non v’è altro. Si legge in Naturalezza del poeta (vedi Autoritratto, p. 265): «Infine crolla su / se medesimo il discorso, / si sbriciola tutto / in un miscuglio di suoni, in un brusio. Da cui / pazientemente / emerge detto / il non dicibile / tuo nome. Poi il silenzio, / quel silenzio si dice è la tua voce». È la Parola l’unica possibilità, sia essa poetica o religiosa, di conoscenza e di rappresentazione. In Poetica e romanzo, che pure sono pagine non ultime (1973), Luzi si diffondeva in un intero capitolo sul nesso tra poesia e religione, così stretto ai suoi occhi da riuscire «inestricabile». La poesia è alle sue origini manifestazione del pensiero religioso, e la religiosità è intrinseca alla poesia almeno in quella «fondamentale interrogazione» sull’uomo e sul mondo che costituisce la sua religiosità peculiare; essa condivide e presta il suo linguaggio metaforico, visionario, intuitivo all’esaltazione e alla profezia proprie dei libri sacri. È essa, la poesia, che «distrugge la lettera per ripristinare ed espandere lo spirito» (perciò questi temi torneranno nel ’90 e nel 2002 nella prefazione «Sul discorso paolino» alle Lettere di san Paolo); «il senso meraviglioso e sofferente della vita è forse il fondamento comune tra queste due esperienze spirituali. [...] L’esperienza religiosa include l’idea di progressione irreversibile, l’esperienza poetica non ignora le fatiche di Sisifo del ricominciamento da zero. In altre parole l’esperienza religiosa dà a chi la vive uno stato, l’esperienza poetica mette colui che la vive in una virtualità che s’illumina solo dalle parole trovate, le quali non servono più a chi le ha scritte e non servono per un’altra volta. [...] Eppure questa parola friabile [della poesia] può portare luce alla parola fissa della religione» (lì a p. 39). Solo la Parola, quella divina, chiarisce il mondo e il destino dell’uomo, il flusso della vita e della storia e i novissimi. E assieme (Colloquio con Mario Specchio, p. 236): «La parola trovata, trovata nel suo spessore, nella sua autenticità, è giustificazione primaria, la parola che nomina ma anche fa esistere la cosa, in fondo non so più se è religione o se è poesia». Tale poetica non poteva non portare a una lunga, profonda, suggestiva, persino pitica se si vuol usare un termine anche luziano, riflessione sul Prologo del Vangelo di Giovanni. Ancora Mario Specchio nel Colloquio osservava (p. 234) a proposito di Per il battesimo dei nostri frammenti che la raccolta si apre con l’esergo del prologo di Giovanni e che di quel libro luziano il motivo centrale è il nome, «il mistero della parola, che è anche mistero della creazione e soprattutto mistero dell’incarnazione». Ma ancora di più, dice lì lo stesso Luzi (p. 190): «Il Logos che si fa carne [...] rinnova il linguaggio, testimoniandolo con sangue, in un certo senso. Questa è la sublimità di questo Logos, insomma, che si è fatto carne, mi pare». Tutti gli scritti di Luzi e questi soprattutto escono di lì e lì intorno ruotano (le tangibili persistenti tracce ermetiche testimoniano gli spasimi delle gestazioni, le difficoltà a capire e a esprimere, o la necessità di stendere attorno l’alone sacro e misterico, l’inattingibilità del mistero). Le loro parole, la loro parola partecipa di questa pregnanza, di lì trae una tensione agonistica (il termine è suo: «L’agonismo, la lama dell’espressione e il timbro, della parola» di san Paolo), una sofferenza a chiarirsi, a esplicitarsi, a uscire dalla nostra «angustia mentale» e miseria morale, riconoscendo la nostra «insignificanza», ma proprio con ciò ricuperando la nostra «dignità» (così nella prefazione a Giobbe). Dovunque in queste pagine serpeggia ancora, trasposto nel discorso poetico, il testo paolino della creazione che «geme» nelle doglie del parto, e noi stessi che possediamo la primizia dello Spirito, anche noi gemiamo nell’attesa dell’adozione e nella speranza di ciò che non si vede, con quel che segue in quel celebre capitolo della Lettera ai Romani. P Non c’è niente di durevole sulla scena umana: il ritualismo simbolico della scena celeste è una contrapposizione. Allerta, ammonimento, memoria confermata, messa a fuoco della lezione di un passato recente? Questo dibattono i commentatori La prospettiva temporale applicata all’Apocalisse non regge, slitta, sfugge da ogni parte. Non è omogenea con il singolare tenore di quel profetare la misura coerente del tempo umano - e altro non ne conosciamo. Tuttavia se c’è un accentrarsi e precipitare delle epoche nella vita di Cristo come in un baricentro cosmico, a me pare si raggiunga un incremento di pathos se la nostra mente si sente presa come in un duro fermaglio tra la prima e la definitiva parusìa del Cristo Una riflessione del grande poeta fiorentino morto sei anni fa sull’ultimo e più misterioso libro del Vangelo. Metafore e paradossi di un testo che ha segnato in maniera indelebile non solo la teologia ma tutta la cultura occidentale: letteratura e poesia in primo luogo IL POETA-SACERDOTE CLEMENTE REBORA di Carlo Carena S’intitola «Mario Luzi su la Parola di Dio» (a cura di Paolo Andrea Mettel, con introduzione di monsignor Bruno Forte, edito da Metteliana per conto dell’Associazione Mendrisio Mario Luzi Poesia del mondo; www.marioluzimendrisio .com) il volume che qui presentiamo e che raccoglie le note saggistiche religiose che Luzi scrisse in varie occasioni. Parlare di Dio? È un interrogativo che non cessa di sussistere, con la sua sfida che indubbiamente sottende. Tanto più che Cristo è già Signore della Parola. È noto l’imbarazzo ed anche lo sgomento di Mario Luzi (1914-2005), quando seppe della commissione da parte di Giovanni Paolo II per un atto creativo sulla «Via Crucis» del 1999: «Non so se sono all’altezza», fu la sua prima reazione. Poi vinse l’obbedienza alla poesia non meno che all’alto invito e abbiamo avuto il felice risultato che sappiamo e che nel libro si ripropone. Tra l’assolutezza della “Parola di Dio” e la consapevole approssimazione di ogni altro detto, sta un po’ la chiave di questi scritti luziani: ciò è evidente nell’invenzione poetica delle fragili parole umane del «Christus patiens», ma anche nelle note saggistiche che Luzi in vario tempo ha scritto sul «Libro di Giobbe», il «Vangelo di San Giovanni», le «Lettere di San Paolo», l’«Apocalisse» (che compare nel libro qui citato e uscì in edizione limitata nel 2002 per la Stamperia Valdonega). In queste pagine pubblichiamo ampi stralci della riflessione di Luzi sull’Apocalisse e della postfazione di Carlo Carena. Luzi come Rebora: ha un fondo religioso il mistero della parola L’ANALISI di Mario Luzi di attesa imminente nell’umanità sono l’epicentro dell’aspirazione. Non c’è niente di durevole sulla scena umana: e il ritualismo simbolico della scena celeste è una contrapposizione. Allerta, ammonimento, memoria confermata, messa a fuoco della lezione di un passato recente? Il Vangelo integrato in una teologia stabilita dalla prescienza? Questo si dibatte tra i commentatori dell’Apocalisse. Ma è sempre eccezionale intimazione e imperioso richiamo a una verità che è stata e sarà. Cataclisma del tempo. Ordine dell’eterna, non umana e trionfale stabilità del divino. Resta per me il mistero della indegnità e colpevolezza pregiudiziale dell’uomo. L’uomo è oggetto di rampogna e di obbrobrio preliminare. Per lui è sempre pronta e imprevedibile la punizione. Punizione per la sua scelleratezza o punizione per essere? onflagrazioni immense sono presunte, assestamenti cosmici nei quali confliggono male e bene. L’azione di Satana è fortissima, il Tuo regno deve continuamente venire (advenire). Solo se riusciamo a tenere stretto questo nesso tra il pericolo imminente e le offerte di scampo, il testo dell’Apocalisse può avere presa su di C noi. Esso non è commemorativo, non è incitativo, ma trasfigura una situazione permanente della Chiesa, o meglio dei devoti a Cristo, dell’uomo mortale. Perché l’umanità deve subire tante prove, perché le cornucopie degli angeli versano tutti quei guai sulla specie degli uomini? Qual è il loro debito, che cosa devono espiare? Questo, torno a ripetere, è il grumo oscuro che è difficile sciogliere. Intanto sulla miseria e le pene degli uomini si snoda la ritualità trionfalistica della Chiesa celeste. Essa, Gerusalemme sovrannaturale, scenderà sulla terra; fino ad allora la giustizia non ci sarà. Siamo dunque associati al dramma del mondo? Siamo chiamati ad esserne parte? O dobbiamo per meraviglia assistere a una definitiva vittoria? Certo il superiore evento con la sua rivelazione si sviluppa per l’uomo in forme e prodigi che come tali si presentano. L’uomo è dunque un attante, sia pure non proto ma deutero-agonista. A che titolo di dignità, abiezione, a che grado di responsabilità e mistero? Ben poco di "apocalittico" rimane nella nostra corrente accezione di apocalisse, che intendiamo comunemente come catastrofe, abnormità mostruosa, rottura incommensurabile dell’ordine e dello schema. Tuttavia un senso profondo rimane a legittimare questa correlazione. I termini di una tragedia generale dell’uomo possono essere variati, ma permangono gli effetti di una incalcolabile causalità. L’apocalisse che abbiamo vissuto nel secolo scorso, nelle sue varie fasi, non ci dice gran che in quanto a svelamento ed è anche troppo banale come prefigurazione del futuro. Abbiamo visto soprattutto la distruzione dell’uomo come creatura; la sua cancellazione come entità distinta, la sua nullificazione come individuo in sé compiutbo e dunque la sua riduzione a numero, la sua svalutazione totale come essere vivente. Abbiamo visto questo prima nel processo aggregativo del capitalismo trionfante, sotto l’aspetto di massificazione; l’abbiamo visto sotto l’aspetto di genocidio nazista, nell’universo concentrazionario sovietico; nell’immane scempio perpetrato dai Khmer rossi. Ogni volta la grevità assoluta e irreparabile dell’accaduto schiacciava il nostro pensiero e non lasciava margine per alcun simbolo e per la sua interpretazione. L’uomo nell’occhio del ciclone come noi siamo clamorosamente stati è forse il meno idoneo a ricevere il conforto e l’ammonimento della profezia? Della profezia che lo riguarda? i riflesso nasce tuttavia il sospetto che la profezia in realtà non lo riguardi e che la grande ostensione sia nel cielo per i celesti e sia al termine di una contesa capitale in cui il Male sia stato vinto e a Satana rimanga un forte ma angusto potere. L’umanità è vista del resto in grandi ammassamenti ed è oggetto di recriminazione in sé. A questo punto è bene concederci un’ampia e indefinita premessa sulla nostra natura prima di avanzare nel nostro tema: una di quelle premesse philosophiques di cui erano maestri i pensatori illuministi. Ognuno nel proprio campo riprendeva alla base il principio sulle origini del linguaggio, sull’ineguaglianza tra gli uomini, eccetera. In questo caso sui caratteri della religiosità umana sarebbe la materia della riflessione di fondo. L’eccezionalità dell’Apocalisse infatti è l’effetto dell’enfasi di prodigi e di aspettative impliciti nella religione come tale. Chi riceve senza particolare reattività l’Apocalisse, sia essa o no il testo giovanneo che la tradizione ha lasciato alla sua difficile identità, si investe dell’essenza del sacro come di un primordio necessario. Ci sarà certo da tener conto di una predilezione profetica della mente israelitica, di un filone della poiesis particolarmente caro alla sensibilità e alla fantasia degli Ebrei, tuttavia si entra nel religioso, forse nel religioso al quadrato, quando sprofondiamo nelle pagine dell’uomo di Patmos. Dunque la prima convinzione soggiacente a ogni altra che nel testo si esprime è la certezza di un ordine soprannaturale. La seconda è che l’ordine oltre di noi o meglio l’ordinamento celeste non si limita ad affermare ostensivamente e simbolicamente la sua perfezione ma coinvolge l’umanità. Purtroppo è un grande debito che l’umanità deve pagare per essere degna. La terza è piuttosto un sentimento: il sentimento dell’antagonismo. Per quanto l’opera sia concepita come trionfo finale dell’assoluta giustizia nel grande conflitto, la presenza del Male, la potenza avversa hanno molta forza di contrapposizione. Il regno di Dio deve avvenire, la figurazione fantastica del monstrum è un’altra richiesta dell’umano al religioso nella specie della minaccia e della consolazione, di ciò che incombe, di ciò che è con noi dalla nostra parte. A parte i riferimenti alle difficili sanguinose vicende della Chiesa nascente che molti esegeti ritrovano, l’Apocalisse è da considerarsi un exemplum ora rituale ora pitico davvero ispirato al sacro ed al santo. Il paradosso che colpisce la nostra mens (la nostra mentalità occidentale) è che lo "svelamento" inerente alla nozione stessa di apocalisse si sviluppi in una serie di visioni da decifrare. Eppure questa fusione di manifestato e di occultato entra nella alta poesia dell’Europa a partire da Dante, che non la riesuma, piuttosto ne prolunga la tradizione poco divulgata ma costante nella cultura religiosa. D PARTICOLARE DEL «GIUDIZIO UNIVERSALE» DI MICHELANGELO: AL CENTRO IL CRISTO BENEDICENTE Tra poesia e profezia Così ebbe a dire il poeta fiorentino: «La parola trovata, trovata nel suo spessore, nella sua autenticità, è giustificazione primaria, la parola che nomina ma anche fa esistere la cosa, in fondo non so più se è religione o se è poesia. Il Logos che si fa carne rinnova il linguaggio, testimoniandolo con sangue, in un certo senso. Questa è la sublimità di questo Logos, insomma, che si è fatto carne» Dal cinema alla letteratura, l’immaginazione è piena di visioni. In attesa del 2012 «Iniziato è il giudizio universale / da un lato stanno i capri, / dall’altro presunti agnelli. / I presunti a disdegnar gli opposti / (per non aver avuto a sufficienza / furbizia e buona sorte) e, promotori dell’apocalisse, / reputarsi promossi a pieni voti / su scala cosmica!» così Alda Merini (nella foto a lato). Ma il tema dell’Apocalisse (o di una apocalisse) è ben presente nella cultura letteraria moderna. Da Ungaretti a Celan, da Eliot (citato in Apocalypse Now, il film che era nelle sale di New York l’11 settembre) da Cardarelli a De Libero, da Clément a Sinisgalli, da Hrabal a Buzzati, da Paasilinna a Rondoni, senza citare i dossier di riviste e antologie o studi dedicati al tema. Scrive Giuseppe Bartolomeo: «Verranno a prenderci su stelle cadenti / in un giorno fuori calendario / scritto con lettere decifrabili / per occhi aperti alla speranza». E chi non ha sentito parlare della "profezia" dei Maya sul 2012 che ha già dato la stura a libri appunto apocalittici? Come non ricordare Il giorno del giudizio di Salvatore Satta, Petrolio di Pier Paolo Pasolini, Aracoeli di Elsa Morante, Dissipatio H.G. di Morselli, Il mondo senza nessuno di Carlo Cassola, Il pianeta irritabile di Paolo Volponi? Venendo più vicino a noi, si può ricordare il racconto L’ultimo capodanno dell’umanità di Niccolò Ammaniti. O, in America, La strada di Cormac McCarthy, le catastrofi di James G. Ballard (Condominium). Il cinema (Permanent Vacation di Jarmusch, Matrix) e la televisione, in 24, oltre che la fantascienza hanno spesso anticipato i temi della "catastrofe" e del "deserto" reali. Per De Lillo, Wallace, Gosh, Franzen, le Torri che crollavano erano in qualche modo "rovine del futuro" a cui erano stati preparati "esteticamente" da Hollywood. UN ITINERARIO IL LIBRO E L’AUTORE Il paradosso che colpisce la nostra mens (la nostra mentalità occidentale) è che lo "svelamento" inerente alla nozione stessa di apocalisse si sviluppi in una serie di visioni da decifrare. Eppure questa fusione di manifestato e di occultato entra nell’alta poesia dell’Europa a partire da Dante, che non la riesuma, piuttosto ne prolunga la tradizione poco divulgata ma costante nella cultura religiosa Perché l’umanità deve subire tante prove, perché le cornucopie degli angeli versano tutti quei guai sulla specie degli uomini? Qual è il loro debito, che cosa devono espiare? Questo, torno a ripetere, è il grumo oscuro che è difficile sciogliere. Intanto sulla miseria e le pene degli uomini si snoda la ritualità trionfalistica della Chiesa celeste MARIO LUZI RITRATTO A PALAZZO MADAMA NEL 2004 IN OCCASIONE DELLA SUA PRIMA SEDUTA IN AULA, DA SENATORE A VITA ell’Apocalisse siamo continuamente posti di fronte a figurazioni. Tutto accade figurativamente al ritmo delle dinamiche maestose sequenze figurali. Lo spettatore assiste muto alle mutazioni mirifiche, intento primamente a coglierne il senso, giacché è stabilito a priori che siano munite di un potere di ammonimento e di svelamento. Alla nostra cultura è innegabile però che quel linguaggio filmato parli anche esteticamente, e questa parola va intesa in senso molto comprensivo. A questo aspetto sensibile del testo contribuiscono sia i numeri che le forme e i colori delle figurazioni. Mi rendo conto che è impossibile per noi riportarci al livello della suscettibilità originaria, voglio dire del tempo e della cultura da cui il testo proviene. I numeri o i colori? Chi prevale nella nostra emozione? La numerologia non è così intrinseca al nostro pensiero come lo era nel mondo veterotestamentario. Le forme e i colori hanno nella cultura a cui apparteniamo preso il sopravvento e agiscono anche sui più distratti di noi. Non ha tempo perché li comprende tutti, non distingue fra passato e presente e vale per il futuro imminente e lontano: questo si dice nella letteratura di chiosa e di commento. Anche questa mens con le sue conseguenti misure è da ricuperare o conquistare da noi dell’Occidente, figli di una civiltà sostanziata di tempo e di storia. Credo che sia il primo passo, anzi un vero balzo, il più difficile da compiere per portarsi al livello. Chi scrive deve cercare di farlo e di farlo fare. Ecco un primo effetto apocalittico generato dall’Apocalisse. La prospettiva temporale applicata all’Apocalisse non regge, slitta, sfugge da ogni parte. Non è omogenea con il singolare tenore di quel profetare la misura coerente del tempo umano - e altro non ne conosciamo. Tuttavia se c’è un accentrarsi e precipitare delle epoche nella vita di Cristo come in un baricentro cosmico, a me pare si raggiunga un incremento di pathos se la nostra mente si sente presa come in un duro fermaglio tra la prima e la definitiva parusìa del Cristo. Tutto è detto e fatto in attesa di questa, in questo intervallo. Tutto quell’accumulo di simboli che si organizza in allegorie più o meno trasparenti rischia di sedurre in un gioco superiore la mente se essa perde di vista il rapporto con la situazione reale storica e metastorica a cui il testo si riferisce. È proprio quello che accade a noi. Tuttavia c’è un clima di grande inquietudine, di timore, di attesa spaventata del giudizio che si comunica al lettore moderno: nonché una minaccia catastrofica che incombe, un ordine punitivo negli avvenimenti. Più difficile è ritenere questo una necessaria affermazione del Dio vittorioso, del pantocrator bizantino. Un Cristo vindice che ritroviamo nella tradizione pre-giottesca e pre-cavalliniana. Cristo è offeso, è al di là della misericordia. È una giustizia assoluta che deve prevalere. Cristo, generosa elargizione del Padre all’umanità, ha avuto tra gli uomini un’accoglienza che esige castigo, punizione. Questo è comprensibile alla logica di fondo del giudaismo divenuto cristiano, ma il Cristianesimo rompe quella logica. Che cosa si vuole disvelato e nello stesso tempo occultato all’uomo mediante questa profezia? L’uomo, abbiamo detto, è chiamato in causa come spettatore di un trionfo e di un potere sovrumano. Eppure questa primaria ostensione di gloria e di forza lo concerne direttamente come oggetto della sua autorità e del suo giudizio. L’umanità è l’elemento vile su cui si rovesciano le calamità e i castighi e le catastrofi volute dall’ordine e dalla sua parata. Si può presumere che il fine dell’Apocalisse sia l’affermazione di una grande disparità tra il divino e l’umano. E, sì, può essere vero che il simbolismo enfatico nelle sue alternanze e nelle sue sorprese continue porti a concludere ciò che asserisce in conclusione la Bibbia della scuola di Gerusalemme, cioè che l’Apocalisse è la grande epopea «de l’espérance chrétienne, le chant de triomphe de l’Église persécutée». Si può anche arguire che sia in corso un grandioso paragone di cui viene detto e celebrato l’esito finale di trionfo. Satana è presente ma solo come antagonista corruttore di anime. Confesso che il minore e più convenzionale aspetto dell’opera mi pare il preannuncio degli eventi futuri, un aspetto che tuttavia, data la tradizione, non poteva mancare. Probabilmente lo stato perenne di instabilità e di inquietudine, di precarietà e N Apocalisse

Transcript of L’ANALISI ApocalisseL’apocalisse che abbiamo vissuto nel secolo scorso, nelle sue varie fasi,...

Page 1: L’ANALISI ApocalisseL’apocalisse che abbiamo vissuto nel secolo scorso, nelle sue varie fasi, non ci dice gran che in quanto a svelamento ed è anche troppo banale come prefigurazione

AGORÀIDEE AGORÀIDEE 5 DOMENICA9 GENNAIO 2011

DOMENICA9 GENNAIO 20114

er nessun poeta del secondo Novecento l’ascolto fucosì alto, la tensione così continua, lo scavo cosìfebbrile, disperato e insieme certo che la ricerca èessa stessa il senso, il valore, la sostanza di ogni

opera dell’uomo; e la ricerca sul senso della poesia non è unpuro problema estetico ma morale. E forse il solo Rebora glisi affianca anche nel cinquantennio precedente. Dinnanzi aloro o a pochi altri si avverte le lievità, la distrazione, lasuperfluità di tante altre voci. Rileggiamo le ultime righedell’Introduzione di Mario Luzi. Storia di una poesia diSergio Pautasso: «Luzi dichiara il suo rifiuto di imboccarequella via che, causa l’estenuazione a cui è giunta nelNovecento la parola, pare quasi obbligata al poetacontemporaneo e che conduce al "limbo"». Il leitmotiv ditutto è la Parola. La Parola che domina, determina azioni evicende realissime e trascendenti. La Parola che ispira ilracconto e la dottrina degli autori della Sacra Scrittura. LaParola che si pone di fronte a quelle del Poeta, le suscita ele sgomenta. L’estetica e il pensiero di Luzi ruotanocontinuamente intorno a questo termine che racchiude eillumina ogni dato della storia e della vita. Non v’è altro. Silegge in Naturalezza del poeta (vedi Autoritratto, p. 265):«Infine crolla su / se medesimo il discorso, / si sbriciolatutto / in un miscuglio di suoni, in un brusio. Da cui /pazientemente / emerge detto / il non dicibile / tuo nome.Poi il silenzio, / quel silenzio si dice è la tua voce». È laParola l’unica possibilità, sia essa poetica o religiosa, diconoscenza e di rappresentazione. In Poetica e romanzo, che pure sono pagine non ultime(1973), Luzi si diffondeva in un intero capitolo sul nessotra poesia e religione, così stretto ai suoi occhi da riuscire

«inestricabile». La poesia è alle sue origini manifestazionedel pensiero religioso, e la religiosità è intrinseca allapoesia almeno in quella «fondamentale interrogazione»sull’uomo e sul mondo che costituisce la sua religiositàpeculiare; essa condivide e presta il suo linguaggiometaforico, visionario, intuitivo all’esaltazione e allaprofezia proprie dei libri sacri. È essa, la poesia, che«distrugge la lettera per ripristinare ed espandere lospirito» (perciò questi temi torneranno nel ’90 e nel 2002nella prefazione «Sul discorso paolino» alle Lettere di sanPaolo); «il senso meraviglioso e sofferente della vita è forseil fondamento comune tra queste due esperienze spirituali.[...] L’esperienza religiosa include l’idea di progressioneirreversibile, l’esperienza poetica non ignora le fatiche diSisifo del ricominciamento da zero. In altre parolel’esperienza religiosa dà a chi la vive uno stato, l’esperienzapoetica mette colui che la vive in una virtualità ches’illumina solo dalle parole trovate, le quali non servono piùa chi le ha scritte e non servono per un’altra volta. [...]Eppure questa parola friabile [della poesia] può portare lucealla parola fissa della religione» (lì a p. 39). Solo la Parola,quella divina, chiarisce il mondo e il destino dell’uomo, ilflusso della vita e della storia e i novissimi. E assieme (Colloquio con Mario Specchio, p. 236): «Laparola trovata, trovata nel suo spessore, nella suaautenticità, è giustificazione primaria, la parola che nominama anche fa esistere la cosa, in fondo non so più se èreligione o se è poesia». Tale poetica non poteva nonportare a una lunga, profonda, suggestiva, persino pitica sesi vuol usare un termine anche luziano, riflessione sulPrologo del Vangelo di Giovanni. Ancora Mario Specchio nel

Colloquioosservava (p. 234)a proposito di Peril battesimo deinostri frammentiche la raccolta siapre con l’esergodel prologo diGiovanni e che diquel libro luzianoil motivo centraleè il nome, «ilmistero dellaparola, che èanche misterodella creazione esoprattuttomisterodell’incarnazione».Ma ancora di più,dice lì lo stessoLuzi (p. 190): «IlLogos che si facarne [...] rinnovail linguaggio,testimoniandolo

con sangue, in un certo senso. Questa è la sublimità diquesto Logos, insomma, che si è fatto carne, mi pare». Tutti gli scritti di Luzi e questi soprattutto escono di lì e lìintorno ruotano (le tangibili persistenti tracce ermetichetestimoniano gli spasimi delle gestazioni, le difficoltà acapire e a esprimere, o la necessità di stendere attornol’alone sacro e misterico, l’inattingibilità del mistero). Leloro parole, la loro parola partecipa di questa pregnanza, dilì trae una tensione agonistica (il termine è suo:«L’agonismo, la lama dell’espressione e il timbro, dellaparola» di san Paolo), una sofferenza a chiarirsi, aesplicitarsi, a uscire dalla nostra «angustia mentale» emiseria morale, riconoscendo la nostra «insignificanza», maproprio con ciò ricuperando la nostra «dignità» (così nellaprefazione a Giobbe). Dovunque in queste pagine serpeggiaancora, trasposto nel discorso poetico, il testo paolino dellacreazione che «geme» nelle doglie del parto, e noi stessiche possediamo la primizia dello Spirito, anche noigemiamo nell’attesa dell’adozione e nella speranza di ciòche non si vede, con quel che segue in quel celebrecapitolo della Lettera ai Romani.

P

Non c’è niente di durevole sulla scena umana: il ritualismo simbolico della scena celeste è una contrapposizione. Allerta,

ammonimento, memoria confermata, messa a fuoco dellalezione di un passato recente? Questo dibattono i commentatori

La prospettiva temporaleapplicata all’Apocalisse non regge, slitta, sfugge da ogniparte. Non è omogenea

con il singolare tenore di quelprofetare la misura coerente del tempo umano - e altro nonne conosciamo. Tuttavia se c’è

un accentrarsi e precipitare delleepoche nella vita di Cristo comein un baricentro cosmico, a mepare si raggiunga un incremento

di pathos se la nostra mente si sente presa come in un durofermaglio tra la prima e la definitiva parusìa del Cristo

Una riflessione del grandepoeta fiorentino morto sei anni fa sull’ultimo e più misterioso libro del Vangelo. Metafore e paradossi di un testo che ha segnato in manieraindelebile non solo la teologia ma tutta la cultura occidentale:letteratura e poesia in primo luogo

IL POETA-SACERDOTE CLEMENTE REBORA

di Carlo Carena

S’intitola «Mario Luzi sula Parola di Dio» (a curadi Paolo Andrea Mettel,con introduzione dimonsignor Bruno Forte,edito da Metteliana perconto dell’AssociazioneMendrisio Mario LuziPoesia del mondo;www.marioluzimendrisio.com) il volume che quipresentiamo e cheraccoglie le notesaggistiche religiose cheLuzi scrisse in varieoccasioni. Parlare diDio? È un interrogativoche non cessa disussistere, con la suasfida che indubbiamentesottende. Tanto più cheCristo è già Signoredella Parola. È notol’imbarazzo ed anche losgomento di Mario Luzi(1914-2005), quandoseppe dellacommissione da parte diGiovanni Paolo II per unatto creativo sulla «ViaCrucis» del 1999: «Nonso se sono all’altezza»,fu la sua prima reazione.Poi vinse l’obbedienza

alla poesia non menoche all’alto invito eabbiamo avuto il felicerisultato che sappiamo eche nel libro siripropone. Tral’assolutezza della“Parola di Dio” e laconsapevoleapprossimazione di ognialtro detto, sta un po’ lachiave di questi scrittiluziani: ciò è evidentenell’invenzione poeticadelle fragili paroleumane del «Christuspatiens», ma anchenelle note saggisticheche Luzi in vario tempoha scritto sul «Libro diGiobbe», il «Vangelo diSan Giovanni», le«Lettere di San Paolo»,l’«Apocalisse» (checompare nel libro quicitato e uscì in edizionelimitata nel 2002 per laStamperia Valdonega).In queste paginepubblichiamo ampistralci della riflessionedi Luzi sull’Apocalisse edella postfazione di Carlo Carena.

Luzi come Rebora:ha un fondo religioso il mistero della parola

L’ANALISI

di Mario Luzi

di attesa imminente nell’umanità sonol’epicentro dell’aspirazione. Non c’è niente didurevole sulla scena umana: e il ritualismosimbolico della scena celeste è unacontrapposizione. Allerta, ammonimento,memoria confermata, messa a fuoco dellalezione di un passato recente? Il Vangelointegrato in una teologia stabilita dallaprescienza? Questo si dibatte tra icommentatori dell’Apocalisse. Ma è sempreeccezionale intimazione e imperioso richiamoa una verità che è stata e sarà. Cataclismadel tempo. Ordine dell’eterna, non umana etrionfale stabilità del divino. Resta per me ilmistero della indegnità e colpevolezzapregiudiziale dell’uomo. L’uomo è oggetto dirampogna e di obbrobrio preliminare. Per luiè sempre pronta e imprevedibile lapunizione. Punizione per la sua scelleratezzao punizione per essere?

onflagrazioni immense sono presunte,assestamenti cosmici nei qualiconfliggono male e bene. L’azione diSatana è fortissima, il Tuo regno devecontinuamente venire (advenire). Solose riusciamo a tenere stretto questonesso tra il pericolo imminente e leofferte di scampo, il testodell’Apocalisse può avere presa su di

Cnoi. Esso non è commemorativo, non èincitativo, ma trasfigura una situazionepermanente della Chiesa, o meglio dei devotia Cristo, dell’uomo mortale. Perché l’umanità deve subire tante prove,perché le cornucopie degli angeli versanotutti quei guai sulla specie degli uomini?Qual è il loro debito, che cosa devonoespiare? Questo, torno a ripetere, è il grumooscuro che è difficile sciogliere. Intanto sullamiseria e le pene degli uomini si snoda la

ritualità trionfalistica della Chiesa celeste.Essa, Gerusalemme sovrannaturale, scenderàsulla terra; fino ad allora la giustizia non cisarà. Siamo dunque associati al dramma delmondo? Siamo chiamati ad esserne parte? Odobbiamo per meraviglia assistere a unadefinitiva vittoria? Certo il superiore eventocon la sua rivelazione si sviluppa per l’uomoin forme e prodigi che come tali sipresentano. L’uomo è dunque un attante, siapure non proto ma deutero-agonista. A chetitolo di dignità, abiezione, a che grado diresponsabilità e mistero? Ben poco di"apocalittico" rimane nella nostra correnteaccezione di apocalisse, che intendiamocomunemente come catastrofe, abnormitàmostruosa, rottura incommensurabiledell’ordine e dello schema. Tuttavia un sensoprofondo rimane a legittimare questacorrelazione. I termini di una tragediagenerale dell’uomo possono essere variati,ma permangono gli effetti di unaincalcolabile causalità. L’apocalisse cheabbiamo vissuto nel secolo scorso, nelle suevarie fasi, non ci dice gran che in quanto asvelamento ed è anche troppo banale comeprefigurazione del futuro. Abbiamo vistosoprattutto la distruzione dell’uomo comecreatura; la sua cancellazione come entitàdistinta, la sua nullificazione come individuoin sé compiutbo e dunque la sua riduzione a

numero, la sua svalutazione totale comeessere vivente. Abbiamo visto questo primanel processo aggregativo del capitalismotrionfante, sotto l’aspetto di massificazione;l’abbiamo visto sotto l’aspetto di genocidionazista, nell’universo concentrazionariosovietico; nell’immane scempio perpetratodai Khmer rossi. Ogni volta la grevitàassoluta e irreparabile dell’accadutoschiacciava il nostro pensiero e non lasciavamargine per alcun simbolo e per la suainterpretazione. L’uomo nell’occhio delciclone come noi siamo clamorosamente statiè forse il meno idoneo a ricevere il confortoe l’ammonimento della profezia? Dellaprofezia che lo riguarda?

i riflesso nasce tuttavia il sospettoche la profezia in realtà non loriguardi e che la grande ostensionesia nel cielo per i celesti e sia altermine di una contesa capitale incui il Male sia stato vinto e a Satanarimanga un forte ma angusto potere.L’umanità è vista del resto in grandiammassamenti ed è oggetto di

recriminazione in sé. A questo punto è beneconcederci un’ampia e indefinita premessasulla nostra natura prima di avanzare nelnostro tema: una di quelle premessephilosophiques di cui erano maestri ipensatori illuministi. Ognuno nel propriocampo riprendeva alla base il principio sulleorigini del linguaggio, sull’ineguaglianza tragli uomini, eccetera. In questo caso suicaratteri della religiosità umana sarebbe lamateria della riflessione di fondo.L’eccezionalità dell’Apocalisse infatti èl’effetto dell’enfasi di prodigi e diaspettative impliciti nella religione cometale. Chi riceve senza particolare reattivitàl’Apocalisse, sia essa o no il testo giovanneoche la tradizione ha lasciato alla sua difficileidentità, si investe dell’essenza del sacrocome di un primordio necessario. Ci saràcerto da tener conto di una predilezioneprofetica della mente israelitica, di un filonedella poiesis particolarmente caro allasensibilità e alla fantasia degli Ebrei,tuttavia si entra nel religioso, forse nelreligioso al quadrato, quando sprofondiamonelle pagine dell’uomo di Patmos. Dunque laprima convinzione soggiacente a ogni altrache nel testo si esprime è la certezza di unordine soprannaturale. La seconda è chel’ordine oltre di noi o meglio l’ordinamentoceleste non si limita ad affermareostensivamente e simbolicamente la suaperfezione ma coinvolge l’umanità.Purtroppo è un grande debito che l’umanitàdeve pagare per essere degna. La terza èpiuttosto un sentimento: il sentimentodell’antagonismo. Per quanto l’opera siaconcepita come trionfo finale dell’assolutagiustizia nel grande conflitto, la presenza delMale, la potenza avversa hanno molta forzadi contrapposizione. Il regno di Dio deveavvenire, la figurazione fantastica delmonstrum è un’altra richiesta dell’umano alreligioso nella specie della minaccia e dellaconsolazione, di ciò che incombe, di ciò cheè con noi dalla nostra parte. A parte iriferimenti alle difficili sanguinose vicendedella Chiesa nascente che molti esegetiritrovano, l’Apocalisse è da considerarsi unexemplum ora rituale ora pitico davveroispirato al sacro ed al santo. Il paradossoche colpisce la nostra mens (la nostramentalità occidentale) è che lo "svelamento"inerente alla nozione stessa di apocalisse sisviluppi in una serie di visioni da decifrare.Eppure questa fusione di manifestato e dioccultato entra nella alta poesia dell’Europaa partire da Dante, che non la riesuma,piuttosto ne prolunga la tradizione pocodivulgata ma costante nella cultura religiosa.

D

PARTICOLARE DEL «GIUDIZIO UNIVERSALE» DI MICHELANGELO: AL CENTRO IL CRISTO BENEDICENTE

Tra poesia e profezia

Così ebbe a dire il poetafiorentino: «La parola trovata,trovata nel suo spessore, nella sua autenticità, è giustificazione primaria, la parola che nomina ma anche fa esistere la cosa,in fondo non so più se èreligione o se è poesia. Il Logos che si fa carnerinnova il linguaggio,testimoniandolo con sangue,in un certo senso. Questa è la sublimità di questo Logos,insomma, che si è fatto carne»

Dal cinema alla letteratura, l’immaginazione è piena di visioni. In attesa del 2012

«Iniziato è il giudizio universale / da un lato stannoi capri, / dall’altro presunti agnelli. / I presunti adisdegnar gli opposti / (per non aver avuto asufficienza / furbizia e buona sorte) e, promotoridell’apocalisse, / reputarsi promossi a pieni voti / suscala cosmica!» così Alda Merini (nella foto a lato).

Ma il temadell’Apocalisse (o di unaapocalisse) è benpresente nella culturaletteraria moderna. DaUngaretti a Celan, daEliot (citato inApocalypse Now, il filmche era nelle sale diNew York l’11settembre) da Cardarellia De Libero, da Clémenta Sinisgalli, da Hrabal aBuzzati, da Paasilinna a

Rondoni, senza citare i dossier di riviste e antologieo studi dedicati al tema. Scrive Giuseppe Bartolomeo:«Verranno a prenderci su stelle cadenti / in un giornofuori calendario / scritto con lettere decifrabili / perocchi aperti alla speranza». E chi non ha sentitoparlare della "profezia" dei Maya sul 2012 che ha giàdato la stura a libri appunto apocalittici? Come nonricordare Il giorno del giudizio di Salvatore Satta,Petrolio di Pier Paolo Pasolini, Aracoeli di ElsaMorante, Dissipatio H.G. di Morselli, Il mondo senzanessuno di Carlo Cassola, Il pianeta irritabile di PaoloVolponi? Venendo più vicino a noi, si può ricordare ilracconto L’ultimo capodanno dell’umanità di NiccolòAmmaniti. O, in America, La strada di CormacMcCarthy, le catastrofi di James G. Ballard(Condominium). Il cinema (Permanent Vacation diJarmusch, Matrix) e la televisione, in 24, oltre che lafantascienza hanno spesso anticipato i temi della"catastrofe" e del "deserto" reali. Per De Lillo,Wallace, Gosh, Franzen, le Torri che crollavano eranoin qualche modo "rovine del futuro" a cui erano statipreparati "esteticamente" da Hollywood.

UN ITINERARIO

IL LIBRO E L’AUTORE

Il paradosso che colpisce la nostra mens (la nostramentalità occidentale) è che lo "svelamento" inerentealla nozione stessa di apocalisse si sviluppi in una serie di visionida decifrare. Eppure questafusione di manifestato e di occultato entra nell’altapoesia dell’Europa a partire da Dante, che non la riesuma, piuttosto ne prolunga la tradizione poco divulgata ma costante nella cultura religiosa

Perché l’umanità deve subiretante prove, perché le cornucopiedegli angeli versano tutti quei guai sulla specie degli uomini? Qual è il lorodebito, che cosa devono espiare?Questo, torno a ripetere,è il grumo oscuro che è difficile sciogliere. Intanto sulla miseria e le penedegli uomini si snoda la ritualità trionfalistica della Chiesa celeste

MARIO LUZI RITRATTO A PALAZZO MADAMA NEL 2004 IN OCCASIONE DELLA SUA PRIMA SEDUTA IN AULA, DA SENATORE A VITA

ell’Apocalisse siamo continuamenteposti di fronte a figurazioni. Tuttoaccade figurativamente al ritmodelle dinamiche maestose sequenzefigurali. Lo spettatore assiste mutoalle mutazioni mirifiche, intentoprimamente a coglierne il senso,giacché è stabilito a priori chesiano munite di un potere di

ammonimento e di svelamento. Alla nostracultura è innegabile però che quel linguaggiofilmato parli anche esteticamente, e questaparola va intesa in senso molto comprensivo.A questo aspetto sensibile del testocontribuiscono sia i numeri che le forme e icolori delle figurazioni. Mi rendo conto che èimpossibile per noi riportarci al livello dellasuscettibilità originaria, voglio dire deltempo e della cultura da cui il testoproviene. I numeri o i colori? Chi prevalenella nostra emozione? La numerologia non ècosì intrinseca al nostro pensiero come lo eranel mondo veterotestamentario. Le forme e icolori hanno nella cultura a cuiapparteniamo preso il sopravvento eagiscono anche sui più distratti di noi. Nonha tempo perché li comprende tutti, nondistingue fra passato e presente e vale per ilfuturo imminente e lontano: questo si dicenella letteratura di chiosa e di commento.Anche questa mens con le sue conseguentimisure è da ricuperare o conquistare da noidell’Occidente, figli di una civiltà sostanziatadi tempo e di storia. Credo che sia il primopasso, anzi un vero balzo, il più difficile dacompiere per portarsi al livello. Chi scrivedeve cercare di farlo e di farlo fare. Ecco unprimo effetto apocalittico generatodall’Apocalisse. La prospettiva temporale applicataall’Apocalisse non regge, slitta, sfugge daogni parte. Non è omogenea con il singolaretenore di quel profetare la misura coerentedel tempo umano - e altro non neconosciamo. Tuttavia se c’è un accentrarsi eprecipitare delle epoche nella vita di Cristocome in un baricentro cosmico, a me pare siraggiunga un incremento di pathos se lanostra mente si sente presa come in un durofermaglio tra la prima e la definitiva parusìadel Cristo. Tutto è detto e fatto in attesa di questa, inquesto intervallo. Tutto quell’accumulo disimboli che si organizza in allegorie più omeno trasparenti rischia di sedurre in ungioco superiore la mente se essa perde divista il rapporto con la situazione realestorica e metastorica a cui il testo siriferisce. È proprio quello che accade a noi.Tuttavia c’è un clima di grande inquietudine,di timore, di attesa spaventata del giudizioche si comunica al lettore moderno: nonchéuna minaccia catastrofica che incombe, unordine punitivo negli avvenimenti. Piùdifficile è ritenere questo una necessariaaffermazione del Dio vittorioso, delpantocrator bizantino. Un Cristo vindice cheritroviamo nella tradizione pre-giottesca epre-cavalliniana. Cristo è offeso, è al di làdella misericordia. È una giustizia assolutache deve prevalere. Cristo, generosaelargizione del Padre all’umanità, ha avutotra gli uomini un’accoglienza che esigecastigo, punizione. Questo è comprensibilealla logica di fondo del giudaismo divenutocristiano, ma il Cristianesimo rompe quellalogica. Che cosa si vuole disvelato e nellostesso tempo occultato all’uomo mediantequesta profezia? L’uomo, abbiamo detto, èchiamato in causa come spettatore di untrionfo e di un potere sovrumano. Eppurequesta primaria ostensione di gloria e diforza lo concerne direttamente come oggettodella sua autorità e del suo giudizio.L’umanità è l’elemento vile su cui sirovesciano le calamità e i castighi e lecatastrofi volute dall’ordine e dalla suaparata. Si può presumere che il finedell’Apocalisse sia l’affermazione di unagrande disparità tra il divino e l’umano. E, sì,può essere vero che il simbolismo enfaticonelle sue alternanze e nelle sue sorpresecontinue porti a concludere ciò che asseriscein conclusione la Bibbia della scuola diGerusalemme, cioè che l’Apocalisse è lagrande epopea «de l’espérance chrétienne, lechant de triomphe de l’Église persécutée». Sipuò anche arguire che sia in corso ungrandioso paragone di cui viene detto ecelebrato l’esito finale di trionfo. Satana èpresente ma solo come antagonistacorruttore di anime. Confesso che il minore epiù convenzionale aspetto dell’opera mi pareil preannuncio degli eventi futuri, un aspettoche tuttavia, data la tradizione, non potevamancare. Probabilmente lo stato perenne diinstabilità e di inquietudine, di precarietà e

NApocalisse