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La voce dell’ordine di Pistoia Rivista dell’Ordine Provinciale dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri della Provincia di Pistoia Quadrimestrale – Anno XI – n° 35 – dicembre 2016 – Tariffa R.O.C.: “Poste Italiane Spa sped. abb. post. D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art.1, comma 1, DCB/PO” dicembre 2016 – n. 35

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La voce dell’ordine di PistoiaRivista dell’Ordine Provinciale dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri della Provincia di Pistoia

Quadrimestrale – Anno XI – n° 35 – dicembre 2016 – Tariffa R.O.C.: “Poste Italiane Spa sped. abb. post. D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art.1, comma 1, DCB/PO”

dicembre 2016 – n. 35

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Pistoia Capitale italiana della cultura 2017

In occasione dei festeggiamenti di Pistoia Capitale della cultura 2017, questa edizione de La Voce dell’Ordine riserva uno spazio speciale a contributi attinenti la vita culturale pistoiese. Sono stati approfonditi due temi che, ci auguriamo, saranno di particolare interesse per i lettori. Il primo riguarda le biblioteche pistoiesi, autentici ‘giacimenti culturali’ della città. Il secondo concerne il tema della morte, oggetto di una serie di conferenze tenutesi nella nostra sede ordinistica la scorsa primavera.Considerando l’importanza della ricorrenza e dei contributi a questa attinenti, è stata sospesa la pubblicazione delle rubriche Livello minimo e MedNews.

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La voce dell’ordine di PistoiaBollettino ufficiale quadrimestrale dell’Ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri di Pistoia; anno XI n. 35 – dicembre 2016Dir. resp.: Dott. Gianluca Taliani – Comitato di redazione: Egisto Bagnoni, Pierluigi Benedetti, Gianna Mannori, Ione Niccolai Reg. Trib. Pistoia n. 8 del 9/07/04

Copertina: Biblioteca Capitolare Fabroniana – IV di copertina: Biblioteca San Giorgio

Sommario

2 editoriale la medicina del futuro oppure il futuro della medicina? Egisto Bagnoni

Prospettive vecchie e nuove della professione sullo sfondo di un quadro istitutivo sanitario dai contorni molto incerti.

3 MediCi SeNZa FroNtiere il costo dell’acqua Valentina Mazzeo

Nobel per la Pace 1999 Carlo Urbani

Due testimonianze, una sola voce di professio-nalità e dedizione: il Premio Nobel per la pace del 1999 e il reportage di un giovane medico in prima linea in una delle zone dimenticate dal mondo occidentale.

7 PiStoia CaPitale italiaNa della CUltUra 2017 la cultura attraverso le biblioteche: Forteguerriana, Fabroniana, San Giorgio Anna Agostini, Angela Bargellini, Maria Stella Rasetti

Un filo rosso collega e unisce vecchie e nuove realtà cittadine: da luogo di raccolta documenta-ria a moderno centro di lettura e aggregazione, il concetto di biblioteca muta e si evolve nell’am-bito del contesto culturale della nostra città.

13 l’ordiNe dei MediCi Per l’arte e la CUltUra e se Pistoia fosse veramente una capitale della cultura? Maria Camilla Pagnini

Un pallone aerostatico si leva in volo nei cieli della Pistoia di fine settecento: dagli archivi cit-tadini riaffiora un episodio del passato.

15 riFleSSioNi Guardare oltre. la filosofia e i filosofi oltre la morte Andrea Fusari

Reminiscenze antiche e moderne sul significato profondo della vita evidenziano le ipocrisie di una società che non sa e non vuole darsi limiti.

21 VoCeS iN aeVUM la condanna all’immortalità Pierluigi Benedetti

Il tema della morte attraverso il pensiero di Hans Jonas, filosofo da non molto scomparso e autore di riflessioni fondamentali sul valore etico della medicina.

23 aGGiorNaMeNto SCieNtiFiCo Cultura e invecchiamento Alderigo di Ienno

Genetica ed epigenetica si intrecciano nel pas-saggio del tempo sull’organismo. Stili di vita adeguati e un ambiente intellettualmente stimo-lante sono essenziali per il mantenimento delle funzioni cerebrali nell’anziano.

27 attUalitÀ Come è possibile immaginare Montecatini senza le cure termali? Egisto Bagnoni

Il termalismo, un patrimonio da non perdere nel contesto del nostro territorio.

29 PaSSato e PreSeNte lettera a Pistoia, capitale d’italia della cultura Pierluigi Benedetti

Ricordi e speranze di un pistoiese.

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EDITORIALE

La medicina del futurooppure il futuro della medicina?

In un recente convegno organizzato dalla FNOM-ceo a Rimini si è parlato della evoluzione della figura del medico prefigurandone il ruolo nel fu-turo.Anche allora eravamo in una fase critica, come oggi, per il decreto sull’appropriatezza ma per al-tro verso eravamo confortati dalle affermazioni del Ministro della Sanità che in quella sede aveva annunciato la revisione del comma 566 ‘perché scritto male fino dal suo incipit’.Anche altri personaggi di governo avevano parla-to di valorizzazione del medico e delle altre pro-fessioni sanitarie e della necessità di migliorare la managerialità delle aziende sanitarie entro le quali i medici avrebbero dovuto contare di più nelle scelte organizzative. Addirittura si era par-lato anche di una leadership medica.Oggi, alla luce dei provvedimenti sulla sani-tà introdotti dalla legge di stabilità siamo inve-ce preoccupati per il futuro del medico e della medicina. Le limitazioni della autonomia ed il condizionamento dei medici previste dal decreto sull’appropriatezza ritornano nella stessa misura con il decreto di revisione dei LEA sancito con accordo in conferenza Stato – Regioni.Le limitazioni previste in questo decreto introdu-cono il divieto per i medici pensionati ex dipen-denti pubblici di lavorare nelle strutture private accreditate ed inoltre alcune prestazioni chirurgi-che che venivano eseguite in regime di day sur-gery sono diventate prestazioni ambulatoriali con relativo ticket e non saranno più a carico del SSN se eseguite in strutture private accreditate. Que-sto provvedimento costringerà i cittadini a subire i ritardi inammissibili delle liste di attesa oppure a pagare le prestazioni per intero in regime di libero mercato.La legge sulla responsabilità professionale giace in Parlamento in preda di veti incrociati fra le for-ze politiche e, conseguentemente, il medico deve operare in stato di assoluta incertezza.Le maggiori responsabilità ricadono sui politici che preferiscono leggi non chiare e talvolta ne-bulose per mantenere il consenso in tutti i setto-ri della società. Purtroppo politica e professioni continuano a correre su binari distinti. La società e in particolare la sanità soffrono per numerose inadempienze della politica.

Sarebbe necessario sviluppare la cultura della va-lutazione del rischio clinico attraverso gli audit, che dovrebbero rimanere segretati per garantire i professionisti; a questo si oppongono i magistra-ti, in controtendenza con il resto del mondo. Il governo clinico, se adeguatamente sviluppato, li-miterebbe l’errore umano che è sempre presente non essendo la medicina scienza esatta.La liceità dell’agire medico è sostenuta dal con-senso informato del cittadino ma questo si è ri-velato difficile nell’applicazione pratica e non sufficiente a garantire il medico nel suo lavoro. Il medico è gravato, in fatto di responsabilità pe-nale, dal peso degli errori dovuti alla inadegua-tezza delle strutture e dell’organizzazione che oggi sembrano determinare il 30% degli eventi avversi in sanità.Anche la legge di riforma degli ordini professio-nali subisce ritardi per un iter parlamentare irto di ostacoli. In questo campo si dovrebbe ricono-scere agli ordini maggiore autorevolezza, non solo nel campo dell’etica ma anche come enti certificatori del mantenimento delle competenze nel tempo: dovrebbero essere, in pratica, i tutor degli iscritti.Insieme agli organismi istituzionali il medico ha perduto l’autorevolezza. Nei paesi anglosasso-ni le società scientifiche ricertificano nel tempo l’adeguamento del professionista alla evoluzione scientifica e tecnologica con il potere di sospen-sione, attraverso gli Ordini, dall’esercizio profes-sionale coloro che non si adeguano. Così non si sarebbero verificati i casi DI BELLA, VANNONI e simili. Molte volte l’autorevolezza degli Ordini viene scambiata per autoritarismo mentre le nor-me del codice deontologico sono poco più che norma amministrativa, di rango secondario non essendo il codice compreso nella legge istitutiva della professione. Gli infermieri hanno il loro co-dice deontologico compreso nella legge istituti-va della professione e pertanto le norme sono di rango primario. In un contesto così confuso rimane difficile ipo-tizzare il futuro della medicina e del medico stesso. Anche le altre professioni sanitarie, dopo le promesse di un avanzamento professionale, sono state dimenticate.

Egisto Bagnoni, Presidente dell’Ordine di Pistoia

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MEDICI SENZA FRONTIERE

Mi chiamo Valentina, sono un medico catanese e da più di 3 anni lavoro con Medici Senz Frontiere. In questo momento mi trovo in Pakistan a Karachi come referente medico per un progetto di cure primarie a Machar Colony. Machar Colony è il più grande slum nella mega-lopoli di Karachi (23 milioni di abitanti) e con-ta circa 150.000 abitanti. Sono presenti diverse comunità, le più rappresentate sono Pashtun e Bengalesi, immigrati alcuni non legalmente pre-senti. È una popolazione vulnerabile che non ha pieno accesso alle cure mediche. Medici Senza Frontiere dal 2012 ha aperto una clinica che include cure primarie (pronto soc-corso, ambulatorio, sistema di trasferimento per cure secondarie e terziarie, servizio vaccinazio-ne), dipartimento di maternità (sala parto e cure pre e post natali), dipartimento di salute mentale e attività di educazione alla salute. Dal 2015 MSF ha integrato nella clinica un’unità di screening,

diagnosi e trattamento per l’epatite C. Il Pakistan è il secondo paese al mondo con la più alta pre-valenza di epatite C. Circa il 5% della popolazio-ne è affetto da epatite cronica (B e C). Ci sono più di un milione di persone a Karachi che sono potenzialmente infette dal virus dell’epati-te C. Da meno di un anno i nuovi farmaci ad azione diretta antivirale (DAA) sono disponibili in Pakistan, ma la maggior parte della popolazio-ne non può permettersi il trattamento per i costi elevati dei farmaci e dei test diagnostici. Ogni giorno curiamo i nostri pazienti che pre-sentano malattie per la maggior parte causate dall’ambiente malsano dove non esiste servizio fognario né smaltimento dei rifiuti che vengono bruciati. L’acqua scarseggia e costa cara. Queste sono informazioni che probabilmente tut-ti hanno. È la prima volta che lavoro in un con-testo urbano, eppure conoscevo già quali fossero le condizioni in cui la gente vive in uno slum. Ma

Il costo dell’acquaValentina Mazzeo, Medici Senza Frontiere, Catania

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non avevo mai camminato per le strette e fango-se strade di Machar e non avevo ancora respirato quell’aria densa di fumo, polvere e che odora di gamberetti scordati a scongelare sotto il sole. La clinica è sempre piena di pazienti e negli anni sono stati aggiunti nuovi ambulatori e nuovi servizi per rispondere alle esigenze. Questo ha fatto diventare la clinica una specie di labirinto. Chiunque arrivi per la prima volta nella nostra clinica si perde. Nei corridoi all’aperto che se-parano le varie strutture si incontrano bambini urlanti, pazienti che si recano in laboratorio o nel dispensario per ricevere la loro cura e i sempre attivi health promoter. Passando da una parte all’altra qualche paziente mi ferma per chiedermi qualcosa e nonostante i miei gesti per fare capire che non parlo la lingua, persistono nel voler parlare con me. Sembra che io possa essere facilmente scambiata per una don-na pakistana mentre indosso Shalwar Kameez e Dupatta (vestito e stola tradizionale). Ho tanti di-partimenti da seguire, lo staff da ascoltare e aiu-tare, supervisionare le attività giornaliere e svi-luppare strategie per migliorare. Cerco sempre di indossare un camice e di passare un po’ di tempo in pronto soccorso con i medici e discutere un

caso clinico, vedere insieme un paziente, parlare delle resistenze agli antibiotici che si sviluppano sempre più rapidamente in Pakistan a causa del cattivo utilizzo. I medici in ambulatorio sono in prima linea nello screening dell’epatite C e ogni giorno vedono pa-zienti che sono potenzialmente affetti da epatite cronica. Tutti sanno bene che a Machar Colony ci sono più quack (“medici” non qualificati) che madrasa (scuole musulmane). I quack sono co-nosciuti e rispettati nella comunità e i pazienti spesso li preferiscono perché somministrano far-maci intramuscolo e colorate flebo endovena, apparentemente subito efficaci per qualsiasi ma-lattia. Siringhe, aghi e cannule endovena costano e il loro riutilizzo permette di guadagnare un po’ di più a discapito di molte vite. Tutto lo staff sanita-rio di MSF spiega ai pazienti l’efficacia dei farma-ci orali per scoraggiare l’uso di farmaci iniettabili e prevenire così la trasmissione dell’epatite. I pazienti che hanno un’epatite C cronica diagno-sticata vengono non solo inseriti nel programma per ricevere il trattamento ma anche per rice-vere supporto dal nostro team di salute menta-le. L’epatite C è uno stigma nella comunità. È considerata una malattia che lentamente uccide. Sapere come si trasmette, come si può prevenire e che si può curare aiuta a ridurre lo stigma e ridare una vita normale ai nostri pazienti. Nella comunità organizziamo incontri giorna-lieri per promuovere la prevenzione dell’epatite C. Per portare un cambiamento nelle abitudini e fermare la trasmissione dell’epatite C la strada è ancora lunga. Domani è un altro giorno nella clinica di Machar Colony e so che incontrerò una paziente che da tempo aspetta di cominciare il trattamento per l’epatite C dopo un tentativo con interferone falli-to in uno stadio di fibrosi severo. È fiduciosa che potrà guarire dall’epatite C. E noi siamo con lei.

MEDICI SENZA FRONTIERE

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MEDICI SENZA FRONTIERE

Perché un Nobel per la Pace a MSF? Cosa trasfor-ma infermieri, medici e agguerriti logisti in stru-menti di pace?Cosa trasforma il curare malattie e bendare feri-te in atti dall’alta valenza politica? L’emozione per questo riconoscimento continua a crescere quando davanti ai microfoni possiamo urlare che il premio non è per noi ma per l’idea che salute e dignità sono indistinguibili nell’essere umano, che è l’impegno a restare vicini alle vittime, a tutelarne i loro diritti, lontani da ogni frontiera di discriminazione e divisione, che ha avuto un Nobel per la Pace.Abbiamo fatto un gran parlare di indipenden-za… neutralità… testimonianza… parti integran-ti delle nostre azioni.Ora ricordiamo quei momenti in cui essere indi-pendenti e neutrali ci costava sacrificio, ci faceva rinunciare a scorte armate o a finanziamenti in situazioni difficili, ma ci poneva in stretto con-tatto con le vittime, facendoci diventare dei testi-moni dell’orrore di fatti ed eventi che fanno della dignità umana un sanguinante misero fardello. E poi raccontare le privazioni dei diseredati, la lon-tananza degli esclusi, indicare in abusi e violenze i veri terremoti e uragani contro cui è davvero dif-

ficile, se non impossibile, costruire argini o rifu-gi. È da quella vicinanza alle vittime duramente conquistata che abbiamo raccolto informazioni, abbiamo lanciato campagne di pressione nazio-nali o sovranazionali, ottenendo, come in Etiopia e Corea del Nord, risultati che completano il senso del distribuire farmaci o suturare, che non ci fan-

no sentire vani gli sforzi e i sacrifi-ci di chi condivide paure, rabbia e delusioni con i milioni di individui che popolano villaggi dimenticati, invivibili aree metropolitane, inim-maginabili campi rifugiati.E con chi condividere questa gio-ia? Certamente con altri due es-senziali attori dell’azione di MSF: con quanti ci sostengono finan-ziariamente e con quelle migliaia di local staff, per usare il nostro gergo, che non sono altro che me-dici, infermieri, autisti, reclutati localmente, che fiduciosi accettano di essere formati e coraggiosi con-dividono le nostre azioni. E voi che

Nobel per la Pace 1999Medici Senza Frontiere riceve il Nobel per la Pace nel 1999, assegnato “in riconoscimento del lavoro umanitario pionieristico realizzato in vari continenti” e per onorare lo staff medico che ha lavorato in più di 80 paesi e curato decine di milioni di persone.Pubblichiamo il discorso di Carlo Urbani, allora Presidente della organizzazione, tenuto in occasione del conferimento del premio.

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MEDICI SENZA FRONTIERE

ci sostenete, i nostri cosiddetti donatori. Quanto vorremmo che ognuno di voi si sentisse un po’ Nobel per la Pace! Per aver reso possibile la nostra indipendenza, per averci autorizzato ad una tota-le ingerenza negli affari di paesi dove secondo noi la vita umana non viene considerata un valore, e per averci fatto sentire forti di un folto numero di persone, circa 200.000 in Italia, che condividono le nostre ansie e le nostre speranze.Ed ora, approfittando di questa inconsueta po-polarità, lasciamo che i riflettori, illuminandoci, illuminino e rendano visibili gli scenari dimenti-cati… affinché l’azione di domani (il Nobel non è il nostro traguardo finale!) sia ancora più efficace ed incisiva e che i benefici del premio vadano a loro, alle vittime.

Carlo Urbani (1958-2003), medico microbiologo, iden-tificò per primo la SARS, che fra il 2002 ed il 2003 pro-vocò la morte di quasi mille persone, morendone lui stesso. Grazie alla prontezza della sua opera migliaia di vite furono salvate ed i suoi studi epidemiologici sono stati la base di un protocollo internazionale, an-che attualmente seguito, per combattere le pandemie.Una lapide a Duno (Varese) lo ricorda fra i medici morti “Pro Humanitate”.

Dott. Carlo Urbani

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Un libro del 2009 di Jean-Claude Carrière e Um-berto Eco si intitola Non sperate di liberarvi dei libri.Da questa ‘provocazione’ vorrei partire sostenen-do che Pistoia che si appresta a divenire Capitale della Cultura non può dimenticarsi della storia della Cultura scritta e in particolar modo delle sue biblioteche che costituiscono da sempre un vanto della città.È opportuno sottolineare che a Pistoia già agli inizi del Quattrocento il canonico Zomino di Ser Bonifazio, più noto con il nome ‘greco’ di So-zomeno, con un gesto precoce e generoso pose le basi di una biblioteca pubblica da allestirsi in sede comunale, dove chiunque potesse leggere e studiare i libri. Molte furono le dispersioni dei volumi sozomeniani nei secoli, ma una trentina di testi andarono a formare il fondo antico della Biblioteca Forteguerriana erede virtuale dell’an-tica donazione. L’istituzione della Libreria di Sapienza, come biblioteca pubblica, oggi Forte-guerriana, risale alla fine del XVII secolo e solo pochi anni dopo, nel 1727, Pistoia sarà dotata di

un’altra raccolta libraria, quella donata dal Car-dinale Fabroni per “servire a commodo, ed uso pubblico della città”.A queste due importanti istituzioni che, con i loro preziosi patrimoni documentari, hanno costitui-to in passato e costituiscono tuttora un punto di riferimento per studiosi di ogni parte del mondo recentemente è stata affiancata una nuova bi-blioteca, la San Giorgio, la più grande biblioteca toscana.A differenza delle ‘vecchie sorelle’ che si trovano in edifici storici prestigiosi – come non ricordare il portico in forme proprie della tradizione co-struttiva fiorentina del Quattrocento della Sapien-za e il suggestivo salone settecentesco con intatte scansie in noce della Fabroniana – la nuova bi-blioteca sorge in un capannone di una fabbrica e si caratterizza con la grande galleria centrale per sembrare un luogo aperto, quasi una piazza cit-tadina, dove si può entrare per leggere un buon libro ma anche partecipare a eventi, presentazio-ni, mostre, dibattiti che aprono orizzonti verso le altre culture della contemporaneità.

La cultura attraverso le biblioteche

PISTOIA CAPITALE ITALIANA DELLA CULTURA 2017

Anna Agostini, Responsabile Biblioteca Capitolare Fabroniana

Biblioteca San Giorgio

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La fondazione della Biblioteca Forteguerriana è tradizionalmente datata al 1473, quando, in seguito ad una donazione del cardinale Niccolò Forteguerri, venne istituita la Pia Casa di Sapienza con l’annesso Collegio Forteguerri. Nel 1696 un motuproprio granducale impo-se agli Ufficiali della Sapienza di aprire all’uso pubblico le raccolte librarie. Negli anni succes-sivi il Palazzo della Sapienza, ampliato in se-guito agli interventi commissionati all’architetto Giuliano Gatteschi, continuò ad ospitare la scuo-la e la libreria. Quest’ultima continuò a vivere in una condizione di marginalità rispetto alle sor-ti dell’istituto scolastico da cui dipendeva, fino alla chiusura tra il 1921 e il 1923. La rinascita dell’istituto si dovette all’impegno del preside del liceo ed in seguito bibliotecario Quinto Santoli, che ne fu direttore fino al 1959. Nel 2007, con l’apertura della nuova Biblioteca San Giorgio, la Forteguerriana, che aveva svolto fino a questo

anno anche le funzioni di biblioteca di pubblica lettura, ha acquisito pienamente il ruolo di biblio-teca di conservazione e di documentazione locale. Il patrimonio della Biblioteca Forteguerriana è costituito da circa 220.000 libri ed opuscoli, da oltre 1.300 manoscritti, 126 incunaboli, circa 3.300 cinquecentine, 2.700 stampe e 900 disegni, 3.500 fogli volanti, 3.600 fra cartoline e fotogra-fie. La biblioteca incrementa le proprie raccolte in relazione alla sua vocazione di istituto di con-servazione e di documentazione della memoria storica locale. Innumerevoli tesori fanno parte del patrimonio della biblioteca, dai manoscritti dell’umanista pistoiese Sozomeno alla prima edi-zione della Commedia di Dante del 1472, dalle stampe del Dürer e di Tiepolo alla prima edizio-ne de I promessi sposi, dai molti autografi, fra i quali una preziosa lettera di Leopardi a Niccolò Puccini, ai rarissimi testi teatrali del Fondo Ferdinando Martini, ed ancora infiniti altri.

Biblioteca Forteguerriana

PISTOIA CAPITALE ITALIANA DELLA CULTURA 2017

Angela Bargellini, Responsabile Biblioteca Comunale Forteguerriana

Biblioteca Comunale Forteguerriana

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PISTOIA CAPITALE ITALIANA DELLA CULTURA 2017

La Biblioteca Fabroniana fu ufficialmente istitui-ta nel 1726 nei locali allestiti sopra la chiesa dei SS. Filippo e Prospero in seguito alla donazio-ne “inter vivos” della ricca libreria del Cardina-le Carlo Agostino Fabroni (Pistoia 1651- Roma 1727) che già nel 1722 aveva avviato i lavori di ristrutturazione dell’edificio e messo a disposi-zione beni per garantire il mantenimento e lo svi-luppo di una biblioteca che dovesse “sempre, et in perpetuo servire a commodo, ed uso publico della città”.I volumi del Cardinale, consistenti “in circa Due mila quattrocento volumi in folio, in mille otto-cento cinquanta in quarto, et in due mila quat-trocento sessanta in altri sesti, appartenenti a Te-ologia Scolastica, Morale, e Dogmatica, Istoria si ecclesiastica, come profana, Geografia, Filosofia, Mattematica, Filologia, ed ogni altra sorte di va-ria erudizione sacra e profana”, furono traspor-tati da Roma fino alla foce del Tevere e da qui

via mare fino al porto di Livorno con la scorta di due galere voluta addirittura dal Papa Benedetto XIII, per poi giungere a destinazione e passare così sotto la gestione amministrativa della Con-gregazione dei Preti dell’Oratorio di san Filippo Neri di Pistoia.L’apertura al pubblico avvenne nel 1730 e già ne-gli anni immediatamente successivi la biblioteca venne acquistando un ruolo sempre più centrale nella città e per lungo tempo fu ritenuta superio-re all’ altra grande biblioteca pistoiese, la Forte-guerriana, grazie alla bellezza architettonica del suo edificio, alla rarità e alla completezza del suo patrimonio e alla luminosità delle sue sale. Ca-ratteristiche queste che tutt’oggi si rivelano agli occhi del visitatore, oltre al fatto rilevante che l’ambiente ha mantenuto gli arredi originali ed alcune opere scultoree e pittoriche di notevole interesse artistico.Nel 1810, in seguito alla soppressione della Con-

Biblioteca Capitolare FabronianaAnna Agostini, Responsabile Biblioteca Capitolare Fabroniana

Biblioteca Capitolare Fabroniana

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PISTOIA CAPITALE ITALIANA DELLA CULTURA 2017

gregazione dei Filippini, la gestione amministra-tiva passò al Comune, che dovette però cederla all’indomani della caduta del regime napoleoni-co, al Capitolo della Cattedrale, secondo quanto già previsto nel lascito testamentario dello stes-so Fabroni, Capitolo che ne mantiene tuttora la competenza.Attraverso lo scalone d’entrata, decorato da af-freschi trompe l’oeil, si accede ad un ampio atrio, l’antica sala di lettura, dominato dalla statua del Cardinale Fabroni eseguita dal pistoiese Gaetano Masoni. Ai lati della porta della biblioteca due importanti gruppi marmorei, La Nascita e La De-posizione di Agostino Cornacchini da Pescia e so-pra un cartiglio recante la scritta “Excomunicatio contra extrahentes” ossia la scomunica per chi, prelevato un volume lo avesse portato fuori da tale sala.Dal punto di vista architettonico la Fabroniana si presenta come un grande salone dove i volumi sono collocati in scansie di noce intagliate sor-montate da un ballatoio praticabile che circonda

tutto l’edificio e che contiene altri libri. Ai quat-tro angoli della sala vi sono i cosiddetti “stanzi-ni” e in mezzo ad essa due banchi di noce india-no, uno dei quali è impreziosito da un crocifisso in bronzo, che si trovavano nello studio romano del Cardinale.Per quanto concerne più direttamente il patrimo-nio librario, occorre precisare che nel corso dei secoli l’originaria donazione del Fabroni si è ar-ricchita in parte per il completamento dell’acqui-sizione della libreria del Cardinale dopo la sua morte e per l’ulteriore donazione fatta nel 1869 dall’ultima discendente femminile della famiglia Fabroni, la contessa Eugenia Caselli, in parte grazie a nuove accessioni come la biblioteca dei Padri Filippini e una sezione di quella dei Padri Francescani di Giaccherino.Appartiene alla Fabroniana, ma è collocato in un locale diverso dall’antica sala, un fondo donato nel 1917 dall’avvocato pistoiese Tommaso Gelli. Composto in massima parte da testi riguardanti la storia e i costumi della Toscana e di altre re-

gioni italiane, di opere di diritto, dizionari ed enciclopedie dell’Ottocento, il fondo è ricco di belle e rare edizioni del XVI secolo.Grazie alle moderne tecnologie informatiche è possibile oggi la consultazione a distanza del catalogo così come la ricerca bibliografica in rete. La Fabroniana, nel pieno rispetto del-le intenzioni manifestate dal cardinale Carlo Agostino Fabroni nell’atto della sua donazio-ne, offre inoltre un servizio di visite guidate per le scuole in collaborazione con il Museo civico del Comune di Pistoia.Recentemente la biblioteca ha inaugurato una nuova sezione museale nata per valorizzare il ricco patrimonio documentario inerente al Sacro Militare Ordine di Santo Stefano, l’or-dine marinaro creato da Cosimo I nel 1561. L’ordine, che vanta un legame molto stretto con la città di Pistoia, vide alcuni membri della famiglia Fabroni distinguersi non solo come abili marinai e capitani ma anche come “documentatori” delle avventure vissute in prima persona. In Fabroniana oltre a una se-rie di manoscritti e libri a stampa riferiti ai Cavalieri di S. Stefano sono esposte una serie di incisioni di J. Callot e di Stefano della Bella che documentano l’attività dell’ordine stefa-niano.Per approfondire la storia della Biblioteca Fabroniana e le vicende biografiche del suo fondatore segnaliamo: Anna Agostini, La Fa-broniana di Pistoia. Storia di una biblioteca e del suo fondatore, Firenze, Polistampa, 2011.Manoscritto conservato presso la Biblioteca Capitolare Fabroniana

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Biblioteca di respiro e foggia europei, la San Giorgio a prima vista può apparire “fuori mi-sura” rispetto alle esigenze di una piccola città come Pistoia: ma basta varcarne la soglia per capire che la scommessa dell’Amministrazione è stata vinta fino in fondo: centinaia e centina-ia di frequentatori giornalieri, che leggono, stu-diano, si incontrano, ammirano le opere d’arte disseminate all’interno degli spazi, trascorrono il tempo libero chiacchierando tra loro, pranzando alla caffetteria o partecipando ad una delle ini-ziative culturali in programma. La San Giorgio sembra una città nella città, con la sua galleria centrale che ha la forma di una piazza coperta, con il suo calendario di eventi culturali in gra-do di rispondere alle esigenze e alle curiosità più disparate (dall’uncinetto alla filosofia teoretica!); per non parlare dello spazio YouLab, finanzia-to dall’Ambasciata degli Stati Uniti d’America in Roma, dove si trovano stampanti 3D, computer di ultima generazione e altre “diavolerie elettro-niche” che per fortuna sono a disposizione di tutti, anche grazie ad una ricca serie di corsi for-mativi rivolti alle diverse fasce d’età. Persone di colori diversi, storie personali differenti: itinerari che si incrociano negli spazi silenziosi e in quelli rumorosi che la biblioteca offre gratuitamente a tutti coloro che abbiano necessità di approfondi-re le proprie conoscenze o semplicemente dare

sfogo ad una curiosità o ad una passione. E’ la biblioteca di tutti e per tutti, uno spazio aper-to all’integrazione sociale e alla costruzione di una cittadinanza più attiva e consapevole. Oltre trecento sono i volontari che aderiscono all’As-sociazione Amici della San Giorgio: una associa-zione molto attiva, che sostiene la biblioteca in tanti modi diversi, come ad esempio curando il prestito a domicilio per le persone anziane e non autosufficienti, il prestito presso il supermercato COOP di viale Adua, la lettura ad alta voce negli ambulatori pediatrici, i mercatini per la raccolta fondi e tante altre iniziative e attività aperte a tutti. Attorno alla San Giorgio ruotano decine di esperti (professionisti, docenti universitari etc.) che offrono gratuitamente i propri saperi disci-plinari (dalla medicina alla finanza, dall’arte alla psicologia) in occasione di corsi tematici aperti a tutti, in occasione dei quali i cittadini possono approfondire la conoscenza di alcune problema-tiche specifiche o trovare risposte alle proprie ne-cessità di relazione in famiglia e sul lavoro. Una vera e propria “fabbrica della conoscenza”, nello spazio in cui, un tempo, si producevano com-ponenti meccaniche per i treni. Nel 2017 la San Giorgio sarà una delle protagoniste principali del programma di “Pistoia capitale italiana della cul-tura”, con una ricchissima serie di eventi cultu-rali e con l’offerta di servizi innovativi per tutti.

Biblioteca San Giorgio

PISTOIA CAPITALE ITALIANA DELLA CULTURA 2017

Maria Stella Rasetti, Direttrice Biblioteche e Archivi Comunali

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PISTOIA CAPITALE ITALIANA DELLA CULTURA 2017

Omero raffigurato in un manoscritto conservato presso la Biblioteca Comunale Forteguerriana

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In quest’ultimo periodo mi sono trovata più volte a sostenere la causa di Pistoia, come involontario av-vocato difensore, nei confronti del riconoscimento ottenuto dalla città come Capitale della cultura 2017. Diverse sono state le occasioni ma in particolare ne ricordo due, ambedue verificatesi in quel di Pisa, e lo scenario la dice lunga poiché anche la città marinara era tra i competitor inseme ad Aquileia, Como, Ercola-no, Parma, Spoleto, Taranto e Terni per la candidatura, allora, di “Capitale della Cultura”. Scenario della mia difesa è stato la prima volta l’Università di Pisa mentre tenevo una lezione seminariale di storia del cantiere e poco dopo durante una conferenza organizzata da un membro dell’Associazione Italiana Dimore Stori-che; quasi inspiegabilmente, e non ricordo il passaggio logico, mi sono trovata a sostenere la correttezza dell’assegnamento del titolo a Pisto-ia che invece lasciava assai dubbiosi per non dire critici i miei interlocu-tori pisani. Grazie al cielo conosce-vo bene il Dossier di Candidatura, per aver fatto parte del gruppo di coloro cui era stato affidato per la revisione della fase II. In teoria ero pronta per sostenere una “interroga-zione” sui contenuti, e gli studenti pisani erano ben agguerriti, ma ero meno pronta per fornire loro moti-vazioni convincenti. È stato questo il movente che mi ha costretto a im-pegnarmi per riflettere se e come la nostra città avesse ricevuto a buon diritto il titolo di “capitale della cul-tura”. Lì per lì ho fatto appello a temi di carattere ge-nerale quali la concretezza dei programmi proposti nel Dossier, e alcuni interlocutori me ne hanno dato atto, altri rimanevano assolutamente insoddisfatti dicendo che “Pisa è e resta una città sede di Università”. E qui la gara è dura, è una realtà di fatto che ha da sola un peso rilevantissimo, e allora? Mi sono ricordata di aver letto, alcuni anni fa, un bel saggio di Lucia Gai (1) “Le élites nella società pistoiese del secolo XVIII”, nel quale le argomentazioni che analizzano la cultura cittadina del secolo dei Lumi sono accompagnate da interessanti stralci del Taccuino di Tommaso de’Rossi. La studiosa segnala anche un episodio avvenuto il 16 febbraio 1784: “alle 4 e un quarto Giovanni Gamberai diede l’andare in Piazza ad un pallone aerostatico o sia volante fatto di carta, di figura cunea, che s’innalzò braccia 8 (… e) oggi 18 febbraio (fu) rimandato in aria (…e) andò al pari del Campanile del Duomo”. L’espe-

rimento di volo pistoiese si colloca in significativa con-sonanza con il più noto avvenimento parigino quando solo tre mesi prima, era il dicembre 1783, una folla era accorsa alle Tuileries per vedere Jacques Charles e Ni-colas Robert che si levavano in volo con il loro pallone aerostatico. Il volo pistoiese seppur non accompagna-to dalla presenza umana si colloca pressoché in con-temporanea con l’ascensione del marchese Andreani e dei fratelli Gerli (25 febbraio) e prima dell’ascensione del lucchese Vincenzo Leonardi che nel settembre del medesimo anno fece volare in Inghilterra il suo pal-lone a idrogeno: l’impresa gli valse una fama straor-dinaria. Al di là della curiosità dell’evento che presso i contemporanei fu notevole e che oggi può farci for-

se sorridere, perché i tratti percorsi dal pallone furono abbastanza brevi come rileva Gai nel suo saggio, da piazza Duomo a via XXVII aprile il primo giorno e da lì fino a via Buozzi durante il secondo esperimento, mi ha fatto riflettere la contemporaneità con gli esperimenti europei. Parigi e Londra sono teatro d’imprese certo più spettacolari, ma l’idea che in una piccola, piccolissima città che a torto potrebbe essere ritenuta ai margini dell’universo scientifico e quindi anche dell’aggiornamento di esso e delle possibilità culturali, esprimes-se allora figure in grado di seguire le conquiste scientifiche e tentare di replicarle dimostrando di avere le capacità per interpretarle, mi ha fatto pensare che la città ha comin-

ciato a diventare “una” capitale molto, molto tempo fa, e che il Dossier per la sua candidatura, e che ciò che in esso era confluito, era il frutto di moltissimi anni di lavoro, di studi, ricerche, esperimenti, affreschi, di-pinti, spartiti musicali, viaggi, composizioni teatrali e progetti affrontati da professionalità e figure diverse, come del resto si può dire per molte altre città italiane. Allora ho cominciato così: “non ho una risposta netta per la vostra domanda, cioè se Pistoia sia divenuta a buon diritto la capitale della cultura italiana del 2017, ma vorrei comunque raccontarvi una storia che forse può indicare una parte della risposta. Un giorno di feb-braio del 1784, probabilmente faceva veramente molto freddo, dalla piazza del Duomo fu dato l’andare” a un pallone aerostatico. E quel pallone volò...”.

1 In L.Gai, Settecento Illustre, architettura e cultura arti-stica a Pistoia nel secolo XVIII, 2009, pp. 11-19.

E se Pistoia fosse veramente una capitale della cultura?Maria Camilla Pagnini

L’ORDINE DEI MEDICI PER L’ARTE E LA CULTURA

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RIFLESSIONI

Per cogliere l’irrompere del senso della morte nella cultura occidentale conviene, forse, partire da molto lontano e fare ingresso in una tenda da campo sotto le mura di Troia, la tenda di Achille dove il re Priamo si reca a chiedere al guerriero greco le spoglie di Ettore. L’iniziale diffidenza, pian piano, si scioglie in empatia; la compassio-ne – etimologicamente, il patire cum, il soffrire insieme – ha la meglio e i due, insieme, piango-no. L’uno il figlio, l’altro l’amico Patroclo. En-trambi, forse, l’incompiutezza, il senso di man-canza, il senso del limite invalicabile propri della condizione mortale.Non è forse questa la lettura ortodossa del cele-bre passo dell’Iliade, ma d’altronde noi possiamo seguire le suggestioni, per quanto irregolari, di un grande come Alberto Manguel che ad Omero ha dedicato una stimolantissima biografia ed an-che consapevoli del fatto che, per quanto etero-dossa possa essere questa interpretazione, come già sapeva Duchamp, la bellezza è nell’errore.Accingiamoci, quindi, a seguire questo percorso, che trovo particolarmente interessante anche per l’oggi, questo tema della mancanza, questa idea del limite.D’altronde, il pensiero classico, proprio muoven-do da queste premesse, seppe declinare positi-vamente questa condizione dei mortali. Provo a portare due esempi di orientamenti filosofici ra-dicalmente diversi che, in qualche modo, si affa-ticano su questo stesso tema.La prima immagine, che forse viene a tutti alla mente, è l’immagine di Socrate, il Socrate di Pla-tone, nel Fedone, che negli ultimi attimi della sua vita, dopo aver bevuto la cicuta, accarezzando i riccioli sciolti di Fedone, proferisce le ultime parole ricordando e raccomandando a Critone: “Siamo debitori di un gallo ad Asclepio”. Sacrificare un gallo ad Asclepio era abitudine per coloro che guarivano da una grave malattia e, al momento di fare il suo ingresso nella morte,

Socrate si raccomanda di non dimenticare que-sto debito nei confronti di Asclepio perché anche lui, morendo, è convinto, anzi, è sicuro di gua-rire da una grave malattia. E la grave malattia è, appunto, l’incarceramento nel corpo. L’anima potrà finalmente andare libera in questa visione, che Platone mediava ed ereditava dalla grande tradizione del pitagorismo, lui che credeva nella metempsicosi e per questa via prospetta un pri-mo momento di superamento della morte. Si può superare la morte perché la morte riguarda sol-tanto il corpo; l’anima, proprio in quel momento, davvero vive appieno la sua vita. Il platonismo, con questa visione, in qualche modo può essere letto anche come il primo passo di una visione trascendente, che poi si affermerà nel corso dei secoli anche nutrendosi di culture e convinzioni religiose diverse.Agli antipodi, possiamo pensare al materialista Epicuro, che nella lettera a Meneceo – che vuo-le essere appunto un quadrifarmaco, indicare i quattro rimedi contro i grandi mali dell’uomo – si occupa anche della morte, che dei quattro è forse quello che incute più timore agli uomini, e lo fa con grande serenità. Dice, infatti, al suo discepolo: “Abituati a pensare che nulla è per noi la morte, perché ogni bene e ogni male è nella sensazio-ne e la morte è privazione di questa. Per cui la retta conoscenza che niente è per noi la morte rende gioiosa la condizione mortale della vita, non aggiungendo infinito tempo, ma togliendo il desiderio dell’immortalità. Niente c’è infatti di temibile nella vita per chi è veramente convin-to che niente di temibile c’è nel non vivere più. Perciò stolto è chi dice di temere la morte non perché, quando c’è, sia dolorosa, ma perché ad-dolora l’attenderla: ciò che, infatti, presente non ci turba, stoltamente ci addolora quando è atte-so. Il più terribile dunque dei mali, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non

Guardare oltreLa filosofia e i filosofi di fronte alla morteAndrea Fusari*

*Per molti anni docente di filosofia al Liceo Classico Forteguerri di Pistoia, attualmente membro del Comitato Scientifico dell’Università del Tempo Libero dove tiene corsi di filosofia.Il contenuto di questo articolo è stato oggetto di un intervento di Andrea Fusari nell’ambito del convegno “Il medico di fronte all’evento morte” svoltosi nella primavera del 2016 presso la sede dell’Ordine dei Medici di Pistoia.

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RIFLESSIONI

c’è la morte; quando c’è la morte noi non siamo più. Non è nulla dunque, né per i vivi, né per i morti, perché per quelli non c’è, questi non sono più. Ma i più, nei confronti della morte, ora la fuggono come il più grande dei mali, ora come cessazione dei mali della vita la cercano. Il sag-gio, invece, né rifiuta la vita, né teme la morte; perché né è contrario alla vita, né reputa un male il non vivere. E come dei cibi non cerca certo i più abbondanti ma i migliori, così del tempo non il più durevole, ma il più dolce si gode. Chi esorta il giovane a vivere bene e il vecchio a ben morire è stolto, non solo perché nel vivere di per sé vi è piacere, ma perché l’arte di ben vivere e di ben morire è la stessa”.Ho voluto proporre integralmente il brano, per-ché mi sembra di una straordinaria modernità questa riflessione sul non lasciarsi ingannare dall’abbondanza, dalla durevolezza, questo met-tere al primo posto la qualità.Queste sono le grandi lezioni che la classicità ci regala. Poi, con il passare dei secoli, il cristianesimo proporrà una concezione diversa della morte; la morte si propone essenzialmente come transi-tus, inteso come cominciamento dell’eternità e, in questa prospettiva, si sviluppa quello che gli storici hanno definito un addomesticamento della morte, una visione addomesticata della morte che per secoli è stata caratterizzata da una sostanziale accettazione dell’ordine naturale delle cose e del comune destino mortale degli esseri umani. Una concezione – potremmo definirla – tradi-zionale, in cui, al di là della paura, vi era nei confronti della morte l’idea di una sua costante compresenza, della naturalità della morte, della sua ovvia presenza, del suo essere in certo senso parte della vita nel continuum delle generazioni. A partire dal basso Medioevo, si è progressiva-mente sviluppata attraverso i secoli la consa-pevolezza e la percezione della morte non solo come evento naturale, ma anche come destino individuale e cioè come consapevolezza della morte di sé. Una concezione che nell’Ottocento – i secoli pas-sano, io devo farla breve – ha prodotto una visio-ne della morte come esperienza drammatica di cesura traumatica, ma al tempo stesso feconda.Se ne fa interprete, sul piano filosofico, Hegel che interpreta la morte come cessazione dall’autoco-scienza empirica e, quindi, superamento dell’ina-deguatezza dell’individuo nell’universalità dello Spirito che è immortale ed eterno. Come si vede, e come in fondo volevano subito dopo di lui i vecchi hegeliani, una rilettura filoso-

fica, in ultima analisi consolatoria e rassicurante, dell’apertura alla trascendenza propria del mes-saggio cristiano.Nel Novecento, parafrasando Borges, la riflessio-ne sulla morte ci appare terreno di sentieri che si biforcano. Una strada è quella dell’esistenzialismo, egemo-ne nel periodo fra le due guerre. La morte è stret-tamente connessa all’esistenza e al problema del suo significato. Se l’uomo è ciò che ha scelto di essere, se l’esistenza è iscritta nell’ordine della possibilità, la morte è situazione limite, come ebbe a definirla Sartre. In primo luogo, limite del-la portata stessa delle possibilità umane.Un esistenzialista italiano, Abbagnano, parlò di “fedeltà alla morte” come espressione dell’auten-ticità propria dell’esistenza umana. Per seguire, seppur sommariamente, questo ra-gionamento, possiamo prendere paradossalmen-te ad esempio Heidegger. Dico paradossalmente perché è noto che subito dopo la guerra, nella Let-tera sull’umanismo, Heidegger prese le distanze dall’esistenzialismo polemizzando esplicitamen-te con Sartre. Ma noi lo leggiamo – soprattutto il primo Heidegger – come uno dei massimi espo-nenti di queste così dette filosofie dell’esistenza.L’uomo – l’Esserci, Dasein, nella terminologia di Heidegger – è ciò che “ha da essere” ciò che è, in quanto, come possibilità, è ciò che lui stes-so sceglie o progetta di essere. Ma nell’Esserci manca sempre qualcosa. A distanza di millenni questa idea della mancanza, che prima forse un po’ arbitrariamente ritrovavo nei versi di Omero, ritorna nel pensiero di questo grande maestro del Novecento. Manca sempre qualcosa, che esso può essere e sarà. Ora, di questo qualcosa che manca fa parte la stessa fine: la fine dell’Esserci è la morte. Essa è “la possibilità dell’Esserci più propria, in-condizionata, certa e, come tale, indeterminata e insuperabile”. È la possibilità assolutamente pro-pria perché concerne l’essere stesso dell’uomo.Soltanto nel riconoscere la possibilità della mor-te, nell’assumerla su di sé con una scelta antici-patrice, l’uomo ritrova il suo essere autentico e comprende veramente se stesso. È questo che Heidegger intende con la celebre espressione “essere-per-la-morte”. Essere per la morte significa, tramite un atto di libertà, accet-tare la possibilità più propria del nostro destino e Heidegger gioca qui sul fatto che “proprio” e “autentico”, in tedesco, hanno la medesima ra-dice: eigen.Questo, allo stesso tempo, vuol dire tenere aperta “la costante e radicale minaccia” che proviene

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dalla morte e cioè il venire a trovarsi “di fronte al nulla della possibile impossibilità della propria esistenza”. Siamo qui giunti alla radicale nullità dell’esistenza (di “nullificazione” parlerà anche Sartre). Dice Heidegger: “il niente e l’essere sono la stessa cosa”. Nel VI secolo avanti Cristo, 2500 anni prima, Eraclito ci aveva lasciato scritto: “La stessa cosa sono il vivente e il morto, lo sveglio e il dormien-te, il giovane e il vecchio: questi, infatti, mutan-do sono quelli e quelli, di nuovo mutando, sono questi”. Ma l’armonia meravigliosa, inarrivabile degli antichi è ormai irreversibilmente perduta e per l’uomo del Novecento la comprensione di noi stessi alla luce della morte è accompagnata da quella specifica tonalità emotiva che è l’angoscia, che Heidegger distingue kierkegaardianamente dalla paura, la quale ha sempre un oggetto de-terminato, mentre l’angoscia, per l’assoluta inde-terminatezza del suo incombere, diviene, come avrebbe appunto detto Kierkegaard, la malattia mortale del nostro tempo. Ma abbiamo parlato di sentieri che si biforcano e allora, per seguire anche l’altro ramo di questa biforcazione novecentesca, possiamo registrare che partendo da premesse antitetiche anch’esso giunge a esiti non diversi. Parliamo, per inten-dersi, del neopositivismo e, più in generale, del movimento analitico del secolo scorso.Si direbbe un movimento prevalentemente an-glosassone, secondo la distinzione tradizionale fra analitici e continentali, ma dimenticando che il grande punto di riferimento, il padre fondato-re, è il Tractatus di Wittgenstein e che, alla fine, all’origine di queste riflessioni ci sono i lavori del Circolo di Vienna degli anni ‘20 del secolo scor-so. Ne saranno protagonisti proprio gli esponenti di questa temperie culturale: Schlick, Neurath, Carnap, Kelsen, Godel, impegnati un po’ in tutti gli ambiti del sapere e dello scibile umano, fra l’altro anche con la forza dell’assunzione delle proprie responsabilità civili. Schlick morì ucciso da uno studente nazionalsocialista, tanto le loro idee non erano gradite alla marea montante in quegli anni. Ma poi, effettivamente, proprio a causa dell’av-vento del nazismo molti di loro si trasferirono in Inghilterra e negli Stati Uniti, dove, ad esempio, Neurath e Carnap collaborarono con Dewey e con Russell e il loro lavoro venne poi continuato in maniera anche critica da pensatori come Popper e Quine. Per stare al nostro argomento e affidandosi al bi-gnami del bignami, potremmo tentare una som-maria sintesi dei caratteri di questo movimento

di pensiero: la fiducia nella scienza, sempre a rischio superando i propri limiti di incorrere in una deriva scientista; la fiducia nei successi della ricerca medica e delle nuove tecnologie. Tutto insieme, questo bagaglio di certezze è alla base dell’attuale visione tragica della morte, che ormai è per noi un tabù in quanto inaccettabile anche e soprattutto perché non coerente con gli ideali di progresso, felicità e benessere propri dei miti prometeici che dall’epoca illuminista sono ancora operanti nella nostra contemporaneità.Si è parlato, a questo proposito, di occultamento della morte. Ne deriva, infatti, una nuova conce-zione in cui la morte è, per l’appunto, occultata, medicalizzata; diviene un evento eccezionale, qualcosa di cui è bene quasi non parlare. Divie-ne solo “orribile morte”, da scamparsi ad ogni costo, resa tale talvolta per l’accanirsi delle cure anche al costo di un’agonia senza fine.È significativo che su una riflessione di questo tenore convergano figure e punti di vista radi-calmente diversi. Da una parte, un luminare del-la medicina italiana come Giuseppe Remuzzi, dall’altra, una comunità cristiana di base torine-se sul suo mensile “Il Foglio”. Segno della grande attualità del tema, di cui sarà forse possibile di-scutere più ampiamente nell’ultima serata. Tornando, invece, al tema dell’occultamento del-la morte, il grande sociologo Zygmunt Bauman ha parlato di una grandiosa operazione di rimo-zione della morte. A suo avviso, il mondo oc-cidentale sembra considerare la morte come un accidente nel continuum della vita, interpretan-dola così come un evento causato da qualcosa o da qualcuno, nel senso che si muore sempre di qualcosa e non più di morte. Nessuno al giorno d’oggi, come un tempo, muore più di vecchiaia. La richiesta alla medicina di fare sempre di più per guarire, per prolungare la vita e in ultima analisi per assicurare l’immortalità proviene sempre più spesso dagli uomini e dalle donne del nostro tempo. Noi non accettiamo più di mori-re, abbiamo rimosso la cultura della morte intesa come un momento della nostra vita, caricando la medicina delle nostre attese di immortalità. Chie-diamo oggi alla medicina quello che una volta si chiedeva alla religione, quasi che la medicina sia diventata la nostra religione laica, e i medici e la scienza il sacerdozio di questa religione.Questa più o meno inconfessata voglia di immor-talità ha accompagnato tutte le tappe più signi-ficative della ricerca degli ultimi anni. Quando a cavallo fra il ‘900 e il 2000 si conclusero i la-vori del così detto “Progetto Genoma”, l’esito, il successo di questo processo di ricerche e di stu-

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di rimbalzò sulle prime pagine di tutti i giornali quasi rinnovando l’eterna promessa dell’elisir di lunga vita. Una vita che potrà durare sempre di più, se non proprio l’immortalità e la promessa dietro l’angolo, quindi, era ed è la possibilità per l’uomo di divenire, ancora di più, signore del tempo con il differire illimitatamente la morte.ll grande scienziato Luc Montagnier, lo scopri-tore del virus HIV, attraverso i titoli dei giornali disse che l’immortalità è possibile e che i suoi studi avrebbero potuto portare, in tempi ragio-nevolmente brevi, se non all’immortalità, ad un significativo prolungamento della vita. Di lì a pochi anni, quando nel 2009 il Nobel per la Medicina venne assegnato a Blackburn, Szo-stak e Greider, tre scienziati che lavoravano negli Stati Uniti, anche se non tutti statunitensi di na-scita, il premio venne dato per gli studi sui telo-meri (mi sono annotato i nomi perché in materia sono un profano, gioco fuori casa), una specie di “cappucci” che tendono ad accorciarsi, portando in questo modo la cellula ad invecchiare.La terza dei premiati – che era un’alunna della prima, a sottolineare, quindi, anche il riconosci-mento ad una scuola – era stata protagonista, in particolare, della scoperta di un enzima a cui aveva dato nome telomerasi, che serve a ripa-rarli, combattendo appunto l’invecchiamento. I titoli dei giornali – ho con me i ritagli del Corrie-re della Sera – dicevano: la scoperta americana sui frammenti di DNA che proteggono dall’invec-chiamento.Contemporaneamente, però, si diceva anche che le cellule tumorali sono immortali proprio per un’ eccessiva presenza di telomerasi e si sarebbe dovuto indirizzare la ricerca per bloccare l’enzi-ma. Forse, anche da questo si potrebbe capire, intuire che, in natura, l’immortalità è una patolo-gia e cogliere, al di là dei facili entusiasmi, quella che a me pare la cattiva notizia. Urterò sicuramente le convinzioni di molti, ma sono chiamato a dire come la penso. Bisogna es-sere veramente egoisti per pretendere un ulteriore prolungamento della vita, visto che dalle nostre parti la durata media è già considerevolmente aumentata, mentre nella stragrande maggioranza del mondo la speranza di vita è ancora di trenta o quaranta anni come era generazioni e secoli fa. Forse bisognerebbe liberarsi un pochino di que-sto atteggiamento, mettersi in discussione e dirsi piuttosto disponibili a rinunciare a qualcosa, ma-gari a vantaggio dei propri figli. Prolungare la du-rata della vita, infatti, è prima di tutto una grande manifestazione di egoismo verso le generazioni future. Paradossalmente, l’immortalità (teorica)

di noi che ci siamo vorrebbe dire la fine della natalità, chiudere le porte in faccia a chiunque altro, perché la Terra ha comunque una portata di carico e non si potrà continuare a moltiplicare un’umanità di immortali, che poi restano peren-nemente lì e non accettano di togliere il disturbo. Ma anche le vie di mezzo, d’altra parte, hanno conseguenze proporzionali, per cui un prolunga-mento della vita porta a un decremento propor-zionale della natalità e delle nascite, a meno di non moltiplicare le situazioni di tensione sempre più insostenibili di fronte alle quali già ci trovia-mo ed a cui andrebbero probabilmente ricondotti gli orrori, che sinistramente offuscano il nostro presente. D’altronde già oggi – anche qui è un medico che parla – le malattie croniche e degenerative, del-le quali riusciamo ad ammalarci grazie alla lun-ghezza della vita di cui oggi godiamo, trasforma-no il morire in un calvario in cui la medicina reci-ta sempre meno la parte di samaritano e sempre più quella di aguzzino. Prolungare la vita e non nuocere spesso sono obiettivi inconciliabili fino ad arrivare, in certi casi, ad auspicare la libera-zione dalla vita. La cultura dell’onnipotenza della medicina e del-le tecniche ad essa connessa, alimentata dai con-tinui progressi scientifici, ha soffocato quell’al-tra cultura che concepisce la malattia non come un inconveniente assurdo della vita, ma come il simbolo della sua costante e costitutiva vulne-rabilità. Non si muore perché ci si ammala, ma ci si ammala perché, fondamentalmente, bisogna morire. Siamo mortali e dovremmo poterlo accet-tare, di qualcosa – è ancora Giuseppe Remuzzi a dirlo – si deve pur morire. Lo ha detto in modo magistrale, al tramonto del Novecento, un grandissimo filosofo ebreo, Hans Jonas, parlando del peso, ma anche della bene-dizione della mortalità e spingendosi a rivendica-re per gli esseri umani, fra gli altri diritti, anche quello di morire. C’è bisogno di recuperare un’etica del finito, quello forse su cui piangevano insieme Achille e Priamo all’inizio della nostra riflessione. Un’etica che si faccia carico anche di chi verrà dopo, delle generazioni che seguiranno. Il vero problema non è, per chi come noi ha la fortuna di vivere nella parte affluente del mondo, quello di vivere di più, magari semplicemente per sopravvivere più a lungo. Il vero problema è, oggi come ai tempi di Seneca, vivere davvero il tempo che ci è dato. La nostra vita non è breve, siamo noi che la ren-diamo tale. È la morte che dà senso e valore alla

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vita. Riconoscere la naturalità del morire signifi-ca per ogni essere umano esigere per sé la pie-nezza del vivere. È il sapere che la morte è dietro l’angolo che consente di apprezzare la vita, è la percezione della morte incombente, è il sapere che abbiamo i giorni contati a far sì che noi con-tiamo i giorni e che i giorni contino per noi, che ciascun singolo giorno conti e abbia per noi un valore inestimabile. In fondo, è un bel regalo la vita. Lo ha detto un filosofo particolarmente solare, Remo Bodei, alie-no da pessimismi e, come abbiamo detto prima, angosce esistenziali. È un bel regalo la vita, noi sottoviviamo per mancanza di generosità verso noi stessi. Abbiamo cinquantadue week-end l’anno, trenta giorni di ferie, venti festività infrasettimanali, il 40% del nostro tempo è libero e noi lo ammaz-ziamo, sprechiamo la vita, magari andando a passare il sabato pomeriggio in un centro com-merciale. Confondiamo il vivere con il passare il tempo (come ancora diceva Seneca) e questo è l’aspetto su cui meriterebbe riflettere, per vivere meglio e con più intensità quello che ci è dato e non per diluire indifferenziatamente nel tempo le nostre insoddisfazioni del presente.La metafora più eclatante di questa pretesa di differire indefinitamente lo scorrere del tempo, l’invecchiamento e, in ultima analisi, la morte mi sembra di poterla ravvisare nell’odierno boom della chirurgia estetica che ormai è vera e propria sineddoche dell’essere. Mi affido a questa figura retorica, che indica la so-stituzione della parte con il tutto, perché in questo

caso davvero la totalità dell’essere, l’espressione di senso dell’intero essere umano è tutta affida-ta e circoscritta a qualche centimetro quadrato di glutei, di labbra o di seno, che sembra regalare un maldestro surrogato di immortalità. Per stare al passo, per non perdere il ritmo della vita sembra che l’uomo voglia fermare il tempo, cancellare gli effetti del suo scorrere sul proprio corpo negando così la propria stessa condizione esistenziale. Rimuovendo la sofferenza, differendo l’invec-chiamento e la morte, l’uomo ha voluto farsi Dio. Eppure, ammoniva Freud, l’uomo nella sua so-miglianza con Dio non si sente felice. Meglio della filosofia lo dice forse la poesia, una poesia di Rilke: “Non son riconosciuti i dolori, / l’amore non è appreso / e ciò che nella morte ci allontana / non è rivelato. / Solo il canto sopra la terra / consacra e celebra”.Ma che ne sappiamo ormai del canto che con-sacra, dopo esserci consegnati completamente alla tecnica? Non sappiamo morire perché non intendiamo più la nostra condizione di mortali, non sappiamo parlare che in modo sempre più tecnico e utilitaristico. Dimentichiamo che gli or-gani si ammalano anche perché le biografie, gli stili di vita, gli amori, le gioie non godono ottima salute; in una parola, la relazione con gli altri e con il mondo non funziona. Dicendo di no all’in-vecchiamento, al passare del tempo che deposita sui nostri corpi affaticati esperienze e sofferenze, diciamo di no alla vita, il che significa, in altre parole, dire di no a noi stessi.

RIFLESSIONI

Veduta di Pistoia

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PISTOIA CAPITALE ITALIANA DELLA CULTURA 2017

Biblioteca San Giorgio

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La condanna all’immortalitàPierluigi Benedetti

VOCES IN AEVUM

Nell’isola di Luggnagg, Gulliver trova un popo-lo di uomini saggi, cortesi e generosi, fra i quali ogni tanto nasce un bambino che non poteva mai morire, cioè un immortale; e di questi immorta-li ce n’erano diversi in quella società. Gulliver, in un primo momento, giudica fortunato aldilà di ogni paragone il loro stato perché essi sono “esenti dall’universale calamità insita nella na-tura umana, . . . con lo spirito libero e scevro del peso e della depressione continua derivante dalla continua paura della morte”. Ma conoscen-doli poi da vicino, si accorge che essi conducono la più terribile di tutte le esistenze: dopo l’ottan-tesimo anno diventano malinconici e depressi e oltre alle ubbie e alle debolezze proprie di tutti i vecchi, testardi, fastidiosi, cupidi, brontoloni, vani, loquaci, inetti a sentire amicizia e chiusi ad ogni naturale affetto, invidiosi dei vizi dei giovani e, fra di loro quelli che mantengono il cervello, invidiosi delle morti degli esseri che pos-sono morire: quando passa davanti a loro un corteo funebre rimpiangono e si crucciano che al-tri abbia raggiunto un porto di riposo nel quale essi non possono mai sperar di riparare. Meno sciagurati appunto sembrano quelli che rimbe-cilliscono e perdono completamente la memoria. Le pietose leggi del paese in cui vivono impongo-no che qualora siano sposati fra di loro, cioè ci sia una coppia di immortali, il matrimonio sia sciolto quando il più giovane di coniugi tocca gli ottant’anni, perché non sarebbe giusto che chi è condannato senza ombra di colpa, a vivere per-petuamente in questo mondo, dovesse per giunta sentire raddoppiata la propria sciagura dal peso d’una moglie [o d’un marito]. (I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift (parte ter-za, cap. X) – Parafrasi Nella primavera passata, presso la sede dell’Ordi-ne dei Medici e Odontoiatri di Pistoia, furono te-nute tre conferenze sulla morte, argomento di in-teresse universale e non solo strettamente medico.Fra i relatori sul tema, il Prof. Andrea Fusari, di cui viene pubblicato un articolo sull’argomento in questo Bollettino, trattando dell’etica della morte, fece riferimento agli scritti del filosofo te-desco, Hans Jonas, (1903-1993), che affrontò e

sviluppò argomenti di eccezionale interesse e di fondamentale im-portanza sui rapporti fra filosofia e medici-na, non tanto da pun-to di vista puramente teorico, quanto facen-do riferimento alla re-altà pratica degli atti medici e della scienza medica in generale. In un suo testo molto conosciuto, Tecnica, Medicina ed Etica (Einaudi, 1997) tratta in maniera accessibile a tutti, dei più importanti argomenti della moderna medicina, chiarendo il loro significato etico uni-versale ed inquadrandoli nel respiro più ampio della difesa totale dell’ecosistema terrestre. Parla infatti della bioetica, dell’eugenetica, dell’euta-nasia, della responsabilità della ricerca medica in generale ed in particolare della sperimentazione sugli esseri viventi; e nella parte finale di quel testo trattando del significato della vita, affronta di necessità l’argomento della morte, come im-prescindibile conclusione della vita stessa, giudi-cando inoltre la limitazione delle nascite e l’uso oculato delle risorse ambientali gli indispensabili strumenti per il mantenimento dell’ecosistema in cui l’uomo agisce ormai da alcuni decenni come agente attivissimo di destabilizzazione globale. Dal capitolo “Peso e benedizione della mortalità” del testo di Jonas, viene il riferimento al passo iniziale tratto da Viaggi Gulliver, come anche il ricordo della citazione biblica, che segue.

Salmo 90 (Libro quarto dei Salmi – Bibbia)“Finiamo i nostri anni come un soffio I giorni dei nostri anni arrivano ai settant’anni; o per i più forti a ottant’anni; e quel che fa l’orgoglio non è che travaglio e va-nità. . . Insegnaci dunque (o Signore) a contar bene i no-stri giorni per acquistare un cuore saggio.

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Riferendosi naturalmente a chi ha vissuto pie-namente la sua vita e non certo a chi ha avuto l’esistenza interrotta per incidente o precoce ma-lattia, non c’è bisogno di commenti particolari, tanto è chiaro l’ammonimento che nel tempo ci viene tramandato. Oggi in un mondo di muta-menti sostanziali e rapidissimi come è quello in cui viviamo, l’anziano, che rimane pienamente cosciente di sé, si accorge che se non morisse mai somiglierebbe sempre di più agli sfortunatis-simi immortali di Swift, prendendo coscienza di come sempre più rapidamente l’ambiente in cui vive cambi aspetto e sempre meno in esso, siano per lui riconoscibili i parametri di riferimento su cui la sua vita si è sviluppata. Questo cambiamento fatalmente genera nell’an-ziano ancora capace di intendere un sottile senso di disagio e di insuperabile inadeguatezza alla moderna realtà, come gli testimoniano anche i propri sensi, che, anche se rimasti validi, non son più gli stessi della gioventù. Il mondo divie-ne per lui ogni giorno più diverso, meno ricono-scibile e la prospettiva di “divenire uno straniero all’infinito” (Jonas) fra gente che non è più la sua gente, si configura come il più crudele degli esilii, mentre tranquillizza, consola e dà serenità alla sua mente, rimasta pienamente vigile e attenta, la certezza assoluta della morte, che esclude tale orrenda prospettiva.

Un Poeta moderno, molto caro a chi scrive que-ste righe, Mario Socrate (1920-2012), in un suo piccolo libro di poesie “fantascientifiche” (Favole Paraboliche –Ed. Feltrinelli 1961) in una delle sue liriche parla di un essere immortale, che esplora-tori spaziali in un remotissimo futuro trovarono nel più nascosto dei mondi in una galassia remo-ta, sfuggito fino ad allora, per la luce ambigua del suo astro, ad ogni calcolo e ad ogni ricerca. Era l’uomo senza morte in una terra senza tom-be. Gli fecero domande, ma non ebbero risposte,

VOCES IN AEVUM

L’immortaleE lo trovarono là:in un mondo fra i più nascosti mondi, un mondo opaco,sfuggito con la sua luce ambigua ad ogni calcolo di ricerca.Lo trovarono là dopo tantoche se n’era parlato e tramandato dovunque, l’uomo senza mortein una terra di pietra senza tombe,in atone città.E sentirono l’incuboD’antiche fedi e credenzeraggiungerli dall’infanzia terrestre,sgomenti mortali davanti alla divinità.Domandarono chi fosse fra tutti,se di quelli i cui padri nutriva il grano,generazione dopo generazione come foglie,o d’altra specie mai, e l’immortale risposecon la memoria che andò trasecolandod’oblio in oblio per il nienteda ricordare che aveva,per il nienteche valesse la pena di conservare per sempre,chiuso, nel suo presente ininterrotto,ad ogni saggezza ed esperienza,che maturano al rischio della mortecosteggiando il corso della vita;non un dio ma solo un idolod’inconsunta materiae non un uomo, non mortale, non di quellii soli a cui è dato dire “per sempre”,per sempre quanto una lorovita, un’eternità.

Mario Socrate

perché quell’essere non ricordava niente. Niente infatti era degno di essere ricordato per sempre. Negato ad ogni conoscenza e ad ogni sentimen-to, era solo un “idolo di inconsunta materia”, non un uomo quindi, non uno di quelli, a cui è dato dire “per sempre, per sempre, quanto dura una loro vita, un’eternità”. Molti sono i poeti che hanno affrontato il rapporto fra amore e morte, e fra questi Rainer Maria Rilke (1875-1926) ne ha fatto un tema centrale della sua poetica scoprendo come l’amore e la morte siano tra loro indissolubilmente legati e che solo nell’apprezzamento della morte, l’amore trova il suo pieno significato e la sua giustificazione. Sono convinto che i poeti, meglio di tutti, pos-sano parlare di amore e morte; infatti sono stati loro a parlarne per primi e di certo le loro poesie si leggono più volentieri dei trattati di filosofia; e mi piace concludere, con le parole del Cantico delle Creature di San Francesco che valgono ugualmente per chi crede in un’altra vita dopo la morte e per “coloro che l’anima col corpo morta fanno”:

Laudato si, mi Signore, per sora nostra morte corporale, da la quale nullo homo vivente po skappare.

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L’invecchiamento della popolazione aumente-rà progressivamente nei paesi sviluppati e con questo aumenteranno anche le malattie correlate all’età.Si calcola che nel 2020 nella sola Europa verran-no superati 15 milioni di persone affette da de-menza.L’evoluzione di questo particolare periodo della vita, caratterizzato dalla comparsa di un progres-sivo decadimento fisico e, spesso, dalla insor-genza di disturbi di tipo cognitivo, dipende dalla combinazione del nostro patrimonio genetico e delle influenze che derivano dall’ambiente in cui si vive e dagli stili di vita che si adottanoLa tendenza attuale dei genetisti, infatti, è quella di considerare che con un corretto stile di vita, in particolare con l’adozione di una alimentazio-ne ricca di antiossidanti e con la pratica di una buona attività fisica, si possa contribuire a spe-gnere o, comunque, a ritardare l’attivazione di geni che provocano insorgenza di tumori (modu-lazione genica). Così come mantenere un buon allenamento delle capacità cognitive e della me-moria contribuirebbe a potenziare la generazione di nuove sinapsi, contrastando l’insorgenza della demenza senile. La modulazione dell’attività dei geni da parte di agenti esterni va sotto il nome di mutazioni epi-genetiche, termine coniato nel 1942 da Conrad Waddington Ambiente, alimentazione, abitudini possono mo-dificare la funzione dei geni attraverso meccani-smi biochimici come la metilazione del DNA o i microRNA o l’assetto istonico.La metilazione del DNA è probabilmente la mo-dificazione epigenetica più caratterizzata e con-siste nell’aggiunta di un gruppo chimico denomi-nato metile (-CH3) in una posizione precisa della base citosina (vedi figura accanto).Così un gene ipermetilato nel suo promotore tende ad essere trascrizionalmente inattivo e, al contrario, un promotore ipometilato è general-mente associato a trascrizione genica.Attraverso questi meccanismi di attivazione o inattivazione genica si modifica la trascrizione del DNA e, di conseguenza, l’attività delle cel-lule.

Le mutazioni epigenetiche spiegano molte situa-zioni: l’origine di molte malattie e del deteriora-mento cerebrale, il diverso comportamento feno-tipico di gemelli monocoriali che vivono situazio-ni emozionali ed alimentari differenti, l’adatta-mento delle popolazioni alle carestie verificatesi nel secolo scorso nel nord Europa. Alcuni studi epidemiologici effettuati su popola-zioni omogenee come gli olandesi durante l’ulti-ma guerra mondiale o gli abitanti della città sve-dese di Overkalix, entrambe sottoposte a stretta restrizione alimentare per il blocco delle derrate alimentari gli uni o per le frequenti carestie gli al-tri, dimostrerebbero non solo la comparsa di un “gene del risparmio” ma anche che le mutazioni epigenetiche sono ereditabili dalla progenie. Durante quei periodi, gli abitanti di Overkalix do-vettero abituarsi alla cronica carenza di cibo ed il loro organismo fu costretto ad adattarsi per sfrut-tare al massimo i pochi nutrienti a disposizione.Si era attivata una funzione finalizzata ad un maggiore assunzione e minor consumo di risorse nutrizionali.Marcus Pembrey, docente di Genetica Clinica dell’Institute of Child di Londra, seguendo nel tempo quella popolazione aveva osservato che gli effetti di un ambiente negativo si riflettevano sulle generazioni future. Infatti i nipoti di quegli abitanti, nati alcuni de-cenni dopo in un ambiente ricco di nutrienti, avevano manifestato la comparsa delle malattie tipiche del benessere come l’obesità, il diabete, le malattie cardiovascolari, l’ictus, etc.L’ipotesi è che avessero ereditato dai nonni quel-la funzione finalizzata alla loro sopravvivenza ma che nel caso di abbondanza il cibo provocas-se l’effetto opposto.

Cultura e invecchiamentoDott. Alderico Di Ienno, Centro Oncologico Fiorentino, Sesto Fiorentino, Firenze

AGGIORNAMENTO SCIENTIFICO

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AGGIORNAMENTO SCIENTIFICO

Analogamente, numerosi studi epidemiologici di coorte sulla popolazione olandese, confrontan-do soggetti esposti alla carestia in epoca fetale e soggetti nati nei periodi precedenti o seguenti, notarono che gli adulti del primo gruppo manife-stavano un rischio aumentato di obesità, diabete, ipertensione e disturbi psicopatologici (schizo-frenia e depressione) rispetto agli altri. Anche in questo caso si ipotizza una mutazione epigeneti-ca verificatasi durante il periodo gestazione e che avrebbe attivato un “gene del risparmio”. Dell’inverno della fame, “De Hongerwinter”, sembra sia stata vittima anche Audrey Hepburn che ha sofferto nella vita di depressione. Prende sempre più corpo, quindi, l’ipotesi che le mutazioni epigenetiche siano responsabili non solo dell’adattabilità degli organismi alle modifi-cazioni ambientali ma che possano essere anche l’origine di molte patologie come l’obesità, l’iper-tensione e il cancro fino ai determinanti della longevità. LA NEUROBIOLOGIA DELL’INVECCHIAMENTO CEREBRALEGià in giovane età i neuroni cerebrali, per un pro-cesso di apoptosi, vanno incontro ad una morte cellulare programmata cui consegue una riduzio-ne delle sinapsi e la comparsa di alcune altera-zioni della struttura cerebrale come le placche senili e i grovigli neurofibrillari.

Dai 35 ai 75 anni il cervello perde il 10% del suo peso e miliardi di neuroni il che comporta una perdita di molte funzioni.Vi sono, però, dei meccanismi e delle strategie che il cervello possiede e mette in atto per ar-ginare questa perdita cellulare e difendersi dai processi che caratterizzano l’invecchiamento.La ridondanza: il numero delle cellule nel cer-vello è di gran lunga superiore a quello neces-sario allo svolgimento delle sue diverse funzioni e vi sono molte cellule di riserva che possono sostituire quelle che muoiono. Maggiori sono le cellule di scorta, maggiore è il danno che il cervello riesce a sopportare senza che compaiano manifestazioni cliniche. La neurogenesi: è il 1999 quando due scienzia-ti dell’Università di Princeton (USA) pubblicano sulla rivista «Science» la scoperta che il cervello continua a rigenerarsi anche nella vita adulta.Alcune cellule “neonate” vengono generate in zone profonde del cervello e migrano verso la corteccia superficiale, sede delle funzioni intel-lettive, creando nuovi circuiti e connessioni.La scoperta smentisce la convinzione che il cer-vello si sviluppi solo nell’infanzia e fornisce un ulteriore supporto ai concetti di riserva cognitiva e cerebrale.La plasticita: oggi sappiamo che il cervello, alla fine dell’età dello sviluppo non diventa una strut-tura rigida e immodificabile, ma che gli stimoli

ambientali sono determinanti nel continuare a modellare il cervel-lo, che conserva la capacità di modificarsi. Pertanto, a qualsiasi età, l’eserci-zio e gli stimoli cognitivi attivano nuovi circuiti cerebrali grazie alla possibilità di stabilire nuove con-nessioni tra loro (sinaptogenesi) che consentono di ottimizzare le prestazioni del cervello con un processo attivo che prende il nome di riserva cognitiva.A sostegno di ciò recenti dati ISTAT segnalano che le persone che hanno beneficiato di una più elevata scolarità sono più longeve e manifestano maggiore lucidità.La lettura e gli interessi culturali possono essere lo spunto per pro-muovere il processo di sinapto-genesi che ostacola il processo di deterioramento cerebrale.Ma questo è indipendente dal curriculum scolastico e dal titolo

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AGGIORNAMENTO SCIENTIFICO

di studio raggiunto perché è la curiosità, la viva-cità intellettuale e gli stimoli cognitivi che man-tengono la lucidità mentale e ostacolano il dete-rioramento cerebrale.L’impegno in attività cognitivamente stimolanti, le relazioni sociali soddisfacenti, le buone abi-tudini alimentari, l’esercizio fisico regolare pro-muovono il “successful aging”; lo stress, uno dei più fattori ambientali più studiati, invece incide negativamente sui processi di invecchiamento cerebrale.Stress. La riduzione dei rapporti sociali, dopo l’abbandono del lavoro, il conseguente distac-co dalla vita attiva, gli sviluppi della tecnologia, dell’informatica e l’uso sempre più frequente, nel lessico normale, di parole straniere spesso sco-nosciute, emarginano gli anziani dalla vita reale al punto da farli sentire stranieri, inadeguati ed incapaci di vivere una vita autonoma.A ciò si aggiunga il fatto che la perdita di valo-re delle proprietà e dei risparmi, in cui era stata riposta la sicurezza per il futuro, riduce la loro serenità e autonomia economica per cui, emargi-nati da una società che corre troppo veloce e che non ha tempo per loro, soffrono una profonda solitudine, perdono stima di sè, vanno incontro ad uno stato depressivo e, infine, sono costret-ti ad una vita di rassegnata attesa. Si aggravano malattie pregresse o ne compaiono di nuove, la solitudine e la depressione conseguenti possono facilitare un processo di isolamento fino all’ in-sorgenza del deterioramento mentale e della de-menza, conseguenze ineluttabili di questa fase avanzata dell’esistenza. Stress e sistema limbico. Il sistema limbico, de-putato al controllo delle informazioni emoziona-li, quando stimolato da situazioni emergenti e stressanti attiva funzioni neuro-endocrine, vege-tative e immunitarie cui consegue una cascata di sostanze: ormoni, mediatori dell’infiammazione, fattori immunitari, neurotrasmettitori per rispon-dere efficacemente alle sfide ambientali e psico-sociali.È la risposta allostatica: lo stress rappresenta una risposta adattativa vitale per l’organismo. Tuttavia, se la risposta allostatica si continua nel tempo, le strutture limbiche rispondono con una prolungata attivazione delle funzioni neuro-en-docrine con la conseguente produzione di una cascata di sostanze ormonali e neurotrasmettito-ri che possono essere responsabili di disfunzio-ni metaboliche e cardiovascolari, degenerazione neuronale, immunodepressione e rappresentare un fattore di rischio per la salute dell’organismo.È possibile misurare gli effetti dello stress me-

diante modelli di valutazione integrata di cari-co allostatico e le numerose evidenze ottenute hanno confermato che lo stress cronico si associa ad un aggravamento dei deficit cognitivi nonché all’aggravamento dei tratti depressivi nell’anzia-no. Quindi il carico allostatico può essere considera-to il fondamento fisiopatologico che spiega come lo stress cronico, legato alla solitudine, alla per-dita di autostima, alla perdita di capacità contrat-tuale, possa rappresentare un importante fattore di rischio alla base del deterioramento cerebrale che si verifica con l’invecchiamento. Studi prospettici condotti su coorti diverse di sog-getti anziani, come il McArthur Successful Aging Study negli Stati Uniti e il Social Environment and Biomarkers of Aging Study a Taiwan, pur prendendo in esame parametri fisiologici diversi e utilizzando metodi statistici e sistemi di scoring differenti, hanno dimostrato che l’indice integra-to di carico allostatico è positivamente correlato al declino delle performance cognitive e mnesti-che dell’anziano, nonché all’aggravarsi dei tratti depressivi (Karlamangla et al, 2002; Seplaki et al, 2006). Lo stress cronico aumenta la vulnerabilità del cervello che invecchia ma fattori psico-sociali e comportamentali possono contrastare questa tendenza ed esercitare un’influenza positiva ren-dendo più resistente il cervello agli inevitabili danni collegati all’età. Quindi la mitica “fonte della giovinezza” di cui da millenni sono piene le leggende e che non è stata mai trovata forse è più vicina a noi di quan-to si pensi.Dal momento che è dimostrato che l’impegno in attività cognitivamente stimolanti, le relazioni sociali soddisfacenti, le buone abitudini alimen-tari, l’esercizio fisico regolare promuovono il “successful aging”, non si può più considerare la vecchiaia come una malattia (senectus ipsa morbus est) che necessiti solo di “cure medi-che”.Occorre infatti “prendersi cura” degli anziani in-formandoli sull’importanza dell’alimentazione e dell’esercizio fisico e, soprattutto, indirizzarli verso nuovi interessi ed a valutare positivamente la propria esistenza per rinforzarne l’autostima: affinchè possano vivere la propria età non come un “periodo in cui si ha ciò che si ha dato”, ma come una fase della vita ancora ricca di prospet-tive future e che può comportare cambiamenti positivi anche in età molto avanzata, tanto da dire serenamente “peccato morire proprio ora che potevo dare il meglio di me“.

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Biblioteca Comunale Forteguerriana

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ATTUALITÀ

Eppure da circa quattro o cinque mesi circolano voci che preoccupano i cittadini residenti e tutti coloro che a vario titolo frequentano o hanno fre-quentato Montecatini.A settembre sono stati licenziati molti dirigenti che non avevano aderito ad un nuovo contratto di la-voro che prevedeva una decurtazione sostanziosa dello stipendio.Tutto questo era stato studiato per ridurre il deficit di bilancio accumulato negli anni. L’attuale amministratore unico della società delle terme di Montecatini ha dichiarato che ormai la pri-vatizzazione delle Terme italiane è stata sancita dal decreto legge Madia e pertanto si rende necessario prenderne atto e individuare compratori privati che abbiano la possibilità di investire per il salvataggio ed il rinnovamento.Attualmente le Terme di Montecatini sono di pro-prietà di una società partecipata fra Regione To-scana (63%) e Comune di Montecatini (37%). Il piano triennale per le malattie croniche prevede la somministrazione di cure termali (piano nazionale della cronicità che porta la data del 15/2/2016) per molte patologie.Per la sua sopravvivenza il termalismo dovrebbe passare attraverso l’integrazione con la riabilitazio-ne che deve essere intesa in senso estensivo dalle malattie reumatiche, degenerative e traumatiche alla riabilitazione post chirurgica.Presso il Ministero della Salute è aperto un tavolo dove siedono rappresentanti delle regioni e diret-tori delle stazioni termali. Questa commissione sta studiando modelli di integrazione per le 50 struttu-re termali e 378 siti termali esistenti in Italia al fine di conseguire risparmi nei costi di gestione.La sanità pubblica dovrebbe sfruttare le strutture termali per la riabilitazione post operatoria in or-topedia protesica senza occupare gli ospedali, ed anche INAIL ed INPS sono interessate a fornire le cure termali e riabilitative presso le terme evitando costosi ricoveri nelle strutture ospedaliere. Tutte queste notizie e considerazioni sono emerse nel corso di un convegno svoltosi alle terme Ex-celsior di Montecatini il giorno otto ottobre scorso con la partecipazione di esperti in termalismo. A questo riguardo esiste anche uno studio dell’uni-versità Lewis che ha dimostrato che si potrebbero risparmiare 50 milioni di euro su un totale di 700

milioni se venissero trasferiti alle terme i codici 56 (riabilitazione intensiva per patologie importanti o post-chirurgiche con durata di tre mesi e tre ore giornaliere di riabilitazione). Nelle strutture termali potrebbero convivere benis-simo riabilitazione, cure termali per le patologie croniche e termalismo del benessere. Esperienze consolidate si hanno dal passato: anche nell’antica Roma le terme erano intese come luoghi dove le persone venivano a ritemprare il fisico e lo spirito.Ai tempi nostri le cure termali potrebbero essere in convenzione con il sistema sanitario per le pa-tologie croniche invalidanti mentre il termalismo del benessere sarebbe a carico diretto del cittadino. Per le cure termali è mancata un banca dati delle varie stazioni termali che non hanno mai fatto si-stema mancando una rendicontazione territoriale. Mancano studi di ricerca a sostegno delle cure ter-mali, avendo fatto finanziamenti a pioggia senza premiare il merito. La nostra cultura medica è stata influenzata da quella anglosassone che ha ghettiz-zato il termalismo quando in Inghilterra l’omeopa-tia è considerata medicina ufficiale. Da tempo, nei piani di studio universitari mancano le cure termali ed inoltre sono stati aboliti i corsi di specializza-zione in medicina termale in 14 atenei. È rimasto, unico in Italia, il corso di specializzazione presso l’università La Sapienza di Roma. Manca la cultura del termalismo sia a livello della medicina generale che a livello specialistico.Oggi un dato è certo: le terme saranno privatizzate e pertanto dovremmo unire le forze per collaborare con Stato e regioni alla promozione del termalismo. Il sottosegretario al Ministero dello Sviluppo nella sua relazione al convegno dell’otto ottobre ha ga-rantito che sarà preparato un atlante delle stazioni termali. Le cure termali sono state inserite nei LEA e per-tanto fanno parte a pieno diritto della medicina uf-ficiale scientifica.Dal punto di vista pratico e organizzativo è neces-sario calendarizzare le privatizzazioni al fine di at-trarre investimenti al più presto. Non è mai stata pubblicizzata la direttiva Europea che ha sancito la libera circolazione dei cittadini europei per curarsi nelle stazioni termali dei paesi membri con spesa a carico dello stato di appartenenza.

Come è possibile immaginare Montecatini senza le cure termali?Egisto Bagnoni

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PISTOIA CAPITALE ITALIANA DELLA CULTURA 2017

Biblioteca Capitolare Fabroniana

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Autunno 2016

Cara Pistoia, piccola mia città d’acqua e di strade, sono convinto che non ci credi ancora fino in fondo, ma ti hanno scelta davvero, come capitale d’Italia della cultura per l’anno prossimo. Io ti conosco bene, e so che, per tante dolorose esperienze del passato, diffidi dei doni inconsueti e inaspettati, come il contadino di un tempo dif-fidava dei regali del padrone, specie se a portarli era il fattore. Ma questa volta non ci saranno sgradevoli sor-prese, perché quel che accade è un piccolo risar-cimento tardivo per i tanti torti da te subiti negli anni da parte dei tuoi potenti vicini. Sono certo che porterai un buon ricordo in fu-turo di questa vicenda e che, in ogni caso, non ti monterai la testa, mantenendo, pur vestita in modesti, ma dignitosi panni adeguati alla tua pic-colezza, educazione, dignità e misura, come da tanto tempo, più per necessità che per scelta con-vinta, hai imparato a fare.

In questa terra di mezzo dell’Italia, sei sempre stata diversa dalle città vicine e specie da Firenze, alla cui ombra vivi rassegnata da molti secoli, mai però adeguata in tutto ai costumi della città ege-mone, come di solito usa fare chi vive vicino a potenti Signori; gelosa invece, in ogni tempo, del-la tua identità e della tua lingua, che ricorda l’ele-ganza antica del toscano idioma gentil, sonante e puro dei secoli passati, con la sua cadenza netta e le “ci” aspirate “il giusto”, non come quelle dei fiorentini, spesso così becere e sguaiate.

L’acqua e le strade hanno segnato il tuo desti-no e ti hanno portato fortuna e disgrazia fin da quando nascesti su un piccolo poggio sulla riva di un lago da gran tempo sparito; e l’acqua, mi-steriosa e silente, continua a scorrere sotto le tue vie e le tue case e ha da sempre condizionato le tue vicende. E come l’acqua ti sono state fatali le strade, su cui sei cresciuta e per le quali si doveva per forza passare, costeggiando il lago, per andare o venire dal mare o per attraversare i monti che, a settentrione, dividono la Toscana dalla Valle del Po.

Per quelle tue strade e per le tue piazze sono pas-sati in tanti; e genti di ogni risma e condizione hanno pregato nelle tue chiese o si son fermate nelle tue osterie: santi ed eretici, demoni ed an-geli: mercanti, soldati, pellegrini, predoni, men-dicanti, condottieri ed anche papi, re e imperato-ri. E tu sempre facesti di quei passaggi gran mer-cato e tratto gran guadagno, ma pagasti anche un altissimo prezzo per quella ricchezza, soffrendo danni e distruzioni tremende.

Un tempo, dopo esperienze tristissime di lotte fe-roci, ti illudesti di poter vivere in una tranquilla dimensione quotidiana, gelosa dei tuoi confini, accumulando ricchezze dal commercio e dai pel-legrini che ti visitavano per pregare sulla reliquia del tuo Santo. Ma eri troppo piccola e troppo ricca per essere lasciata in pace dai tuoi vicini potenti e ribaldi, invidiosi della tua agiatezza, e spesso stupidamente vanagloriosi: gente avara, invidiosa e superba, che pur di condurti all’estrema rovi-na, non esitarono, in certe circostanze, a rischiare essi stessi la loro perdizione. Bisogna dire, in ve-rità, che più di una volta ci mettesti anche del tuo per attirarti le disgrazie, come quando per esserti incapricciata di far ombra a Firenze, rischiasti ve-ramente grosso e poco mancò che i tuoi nemici ti facessero fare la fine di Semifonte, sparita per sempre dalla carta geografica della Toscana, per-ché in odio a Firenze e a Siena, che, per una volta si trovarono d’accordo per ridurre letteralmente in polvere l’infelice città e piantar vigne dov’era-no state le sue strade e i suoi palazzi.

A te andò meglio perché i Fiorentini, dopo averti “spianata”, d’accordo con i Lucchesi nel 1306, si accorsero presto, che senza il castello di Montecatini, preso da Uguccione nel 1315, e con Pistoia distrutta e senza mura, si ritrovaro-no l’esercito di Castruccio Castracani a Peretola, “dove stette molti giorni a dividere la preda e a fare festa della vittoria avuta, faccendo in dispre-gio de’ Fiorentini battere monete, correre palii a cavagli, a uomini e a meretrici.” (Machiavelli: Vita di Castruccio Castracani).

Lettera a Pistoia, capitale d’Italiadella culturaPierluigi Benedetti

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I Fiorentini, in quella circostanza, capirono a loro spese quanto valevi per loro come antemurale verso i nemici che venivano dalla parte del mare e ti rimisero in piedi in poco tempo, consideran-doti da allora “cosa sua”, da usare e sfruttare all’occorrenza, come un bene di cui si ha piena e assoluta disponibilità. Quindi ti “richiusero” alla svelta, ricostruendo le tue mura, e che mura! bi-sogna ammetterlo.

Ma ancora non avevi capito bene la lezione e più d’una volta ti ribellasti contro i tiranni fiorentini, tanto che, al fine di tenerti sotto ancora meglio, costruirono una gran fortezza all’angolo delle mura verso Firenze, per poter controllare a vista i tuoi cittadini.

Nemmeno allora ti fu facile abbassare il capo e per le tue strade continuò a correre sangue, per faide di fratelli, sottilmente fomentate da chi ave-va tutto l’interesse a mantenerti debole e divisa. Anche se mai del tutto rassegnata, divenisti così serva di Firenze, che faceva man bassa attraver-so i suoi occhiuti emissari delle pingui rendite dei tuoi Ospizi e dei tuoi Ospedali frequentati da tan-ti pellegrini, che per la via di Roma, si fermavano ad adorare la reliquia del tuo Santo Patrono. Così come in città, tante volte corse il sangue anche per le strade della tua pianura e dei tuoi monti; e sempre perché per quelle vie si doveva passare di forza, per andare o venire dal mare o dalla valle del Po.

Sulla strada di Roma i Goti ti ridussero in cenere e caverne ai primi del ’400 e tante, troppe volte, stragi feroci fecero colorati in rosso i tuoi torren-ti e i fossi delle tue forre. Per esempio dopo la battaglia di Montecatini, quando, dicono le an-tiche cronache, la Nievole portò non acqua, ma sangue al Padule, e come ricordano i nomi di via Sanguinaria, nel luogo leggendario dove circa 2000 anni fa avvenne una battaglia vera, quando gli Italici ribelli di Catilina, anteponendo l’amore per la libertà alla vita, caddero tutti trafitti al pet-to sul campo dell’onore, e il Fosso di Seccheta a Gavinana, che secondo la leggenda fu tanto pie-no del sangue dei caduti nella battaglia del 1530 fra l’esercito imperiale e quello della Repubblica Fiorentina, che da allora in poi non volle portar più nemmeno acqua, meritando tal nome. Non dimenticata, ma sfruttata sempre dai Fiorentini, che ti consideravano un contado, dove i loro “fattori” andavano a raccogliere i frut-ti, senza spender più di tanto per la tua difesa e i tuoi bisogni, nel XVI secolo fosti “normaliz-zata” dai nuovi Granduchi di Toscana e subisti l’affronto crudele di veder affidato, naturalmente a tue spese, il completamento della Basilica del-la Madonna all’architetto di corte del Granduca Cosimo I, al Vasari, che, in spregio delle leggi della fisica e della memoria e dei disegni perfetti, “brunelleschiani”, del Vitoni, considerato da lui, poco più che un capomastro di provincia, volle fare una cupola di più grandezza ed ornamento – come scrisse – e, alterando le strutture portanti

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Veduta di Pistoia

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dell’edificio, ne “sconcertò” tanto le proporzioni, che la cupola cominciò a spanciare e a creparsi prima ancora che fosse finita. Gli architetti pistoiesi che a ciò posero rimedio, dovettero incatenarla con quattro giri di cate-ne, perché non crollasse, scrivendo uno di essi, l’Ammannati, che quelle “cose mal fatte e i pesi mal posati in aria”, stavano su”per gratia di Dio, più che per sapere degli Uomini”. E quelle catene, che ancor oggi segnano il pro-filo dei tuoi tetti e somigliano, viste da lontano, ad una corona di spine, testimoniarono da allo-ra, anche visivamente, la tua condizione di città soggetta. Derelitta e trascurata negli anni in cui eserciti di mercenari italiani e stranieri correvano le con-trade dell’Italia, dovesti farcela da sola a soste-nere un assedio, e con stupore dei tuoi superbi e sprezzanti Signori, mettesti in fuga nel 1643 l’esercito dei Papalini, che volevano “darti sac-co”, dato che rimanevi loro di strada tornando a Roma, e, quasi res nullius, eri da loro considerata preda facile ed imbelle. In quegli anni, anche se esclusa dal gioco della politica dei Grandi e relegata fra gli umili, mai mancasti di ingegni e di studiosi in tutti campi e fosti sede di una Scuola Medica, di cui le tracce rimaste stupiscono e sorprendono ancor oggi il quasi sempre disattento e superficiale pellegrino moderno, che ti fa visita. Quella Scuola fu chiusa nella prima metà dell’800, dissero per “per scarsa affluenza”, ma tu ed io sappiamo benissimo che l’invidia dei potenti non dà mai requie a chi pen-sano possa far loro ombra. Eppure un tuo figlio, Filippo Pacini, formatosi in quella Scuola, aveva dato alla scienza scoperte formidabili, trascurate dall’altezzoso mondo accademico ufficiale di Pisa e Firenze e rivendicate poi falsamente da altri. Modesta, silenziosa e prudente vivesti quindi di lavoro e di studio coltivando le arti e sempre nu-trendo nell’animo l’amore per la libertà; e i tuoi giovani e meno giovani non si tirarono indietro quando a Curtatone e Montanara “si faceva l’Ita-lia”; e per quel tuo coraggio fosti punita ancora una volta, smembrata in cinque giurisdizioni co-munali, mentre altre città, non meno colpevoli di te, ebbero sorte men dura.

Benefici e disgrazie ti portarono quindi le strade e così come dalle strade, tornando a quel che si di-ceva all’inizio, male e bene hai avuto anche dalle acque dei torrenti che ti scorrono vicino e sotto le tue pietre. Le alluvioni che hai subito nel passato non si contano, tanto che ti scegliesti, già dai tem-pi in cui Berta filava, come Santo titolare della tua Cattedrale, San Zeno, che fermò a Padova il muro d’acqua che stava per entrare nella sua chiesa.

Di bene l’acqua, unita all’operosità e all’ingegno dei tuoi abitanti, ti ha dato nel passato prodotti agricoli di alta qualità: grani, olio, vino, frutta e verdure apprezzate in buona parte della Toscana e anche aldilà dell’Appennino, come per esempio i tuoi cocomeri, enormi e dolcissimi famosi in pa-recchie città “lontane”, come ricordano cronache ottocentesche. Fino all’avvento dell’elettricità l’acqua in abbon-danza fornì energia motrice per le tue multifor-mi, piccole, ma non di poco conto, industrie; ed oggi, grazie alla ricchezza delle tue falde acqui-fere, i moderni vivai, che ti circondano, fanno la tua vera ricchezza e ti consentono un agio econo-mico, di cui tu gelosamente vorresti continuare a godere, senza dare troppo nell’occhio.

L’acqua ti ha dato ricchezza, ma come succede, quando non è adeguatamente regimentata, ti ha portato in passato anche distruzione e rovina. Ci vollero degli stranieri, i Lorena, di stirpe ger-manica, divenuti Granduchi di Toscana, per si-stemare il bacino idrico dei fiumi e dei torrenti che ti circondano. Infatti i loro ingegneri oltre ad aprire nuovi collegamenti con la via della Collina per Bologna e la via per Modena e a costruire la linea ferroviaria Firenze-Lucca e la ferrovia Porrettana, provvidero alla regolamentazione dell’acqua dei tuoi fiumi, generando incredulo stupore, ammirazione e compiacimento nell’ani-mo dei Pistoiesi. Nessuno dei tuoi corsi d’acqua fu trascurato: dai più piccoli al fiume reale, l’Om-brone, con la costruzione di alti argini in pietra, e vere casse di espansione, meglio dette zone di rispetto dei fiumi, come la larghezza enorme e apparentemente sproporzionata del letto dell’ Ombrone fra Gello e Pontelungo e soprattutto con la mirabile opera del sistema idrico di com-pensazione in caso allagamenti, che si concretiz-zava nella piana del Campo di Volo, preparata per mutarsi in lago senza recar danno a nessuno e con lo scavo del Brusigliano, canale artificiale interno al corso del fiume maggiore, che portava le eventuali acque esondate dalla cassa di espan-sione (Campo di Volo) lontano, a sud della città in zone allora pochissimo popolate. Alluvioni tu n’hai viste tante e più di una lapide trascurata lo testimonia (… in data tale “l’acqua arrivò a questo segno”). I pochi che si degnano di leggere sono quasi increduli che, sia stato pos-sibile, ma tu che le hai subite sai bene che non si tratta di pura fantasia.

Di alluvioni vere ne ricordo una: quella “bella”, mi pare del ’51, quando l’Ombrone ruppe a San Biagio e oltre la città alla Ferruccia, allagando la parte orientale della città fuori delle mura e cen-

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tinaia di case fra l’Ombrone e la Stella. Avevo sei anni e ricordo, come fosse ora la via Nazario Sauro, dopo i Cancelli, dove abitavo, con più di mezzo metro d’acqua nel mezzo della stra-da (certe cose non si dimenticano anche dopo sessantacinque anni). E mi par d’esser lì quella sera, al buio, e rivedere mio padre e mio nonno con altri, con l’acqua al ginocchio alla luce fioca di una pila, che cercavano di spezzare a colpi di mazza la lapide di pietra di un tombino per far defluire l’acqua. Fra la gente che era lì si dice-va che al Campo di Volo, vicino all’Autostrada, “c’eran più di cinque metri d’acqua”...

Pistoia mia, tu ed io ci capiamo anche senza par-lare. I miei ricordi infantili presto svaniranno con me, ma tu ne serberai traccia come dei ricordi di tut-ti coloro che nei secoli ti hanno abitata e saprai farli vivere fra i pistoiesi di domani, Così è suc-cesso pochi decenni fa quando a un tuo figlio, esperto di ferro e cemento fu chiesto di por mano al recupero di antichi edifici ed egli, con mente umile e rispettosa, prima di operare su di essi, interrogò le pietre sepolte e queste gli risposero con la sommessa voce del tempo. Imparò, aiu-tato da amici venuti anche da molto lontano, il loro silenzioso linguaggio e, quasi novello Omero foscoliano, penetrò gli antri segreti dei tuoi pa-lazzi e sotto le tue vie e interrogò i sassi sepolti e le tombe, che gli narrarono la tua antica sto-ria. Soltanto dopo, attento e rispettoso della loro voce e di antiche carte, che per intendere la voce delle pietre, con fatica e pazienza sovrumana aveva ricercato e letto, con gentili mani amoro-se e perizia estrema, ricostruì gli edifici, dando alla tua Piazza e a tutta te stessa, una prospettiva storica inimmaginabile fino al suo recupero del Palazzo dei Vescovi, dove la trama di duemila-

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cinquecento anni della tua esistenza come città, appare dipanata e chiara. Tu ed io abbiamo la certezza assoluta che senza la sua arte esperta di Ingegnere per professione, divenuto emerito Filologo e Storico per amor tuo, difficilmente il 2017 sarebbe stato l’anno della tua celebrazione.

Verranno in tanti, e molti da lontano: pellegrini moderni, ansiosi di fare la tua conoscenza e di sottoporti a esame, se davvero hai meritato tanto onore, i più di loro inconsapevoli fino ad ora per-sino del tuo nome. Si udranno per le tue strade molte lingue, ma questo non ti farà meraviglia, né ti metterà in soggezione, abituata come sei da sempre a sentir recitare preghiere nelle tue chie-se con accenti strani e a veder comprare e vende-re nel tuo più che millenario mercato davanti al Duomo, genti di stirpi diverse, mescolate fra loro in pacifici negozi. Poi dopo il pellegrinaggio, i visitatori torneranno nei loro paesi, convinti e ricreati per quel che avranno visto e udito, e di te porteranno un buo-no e imperituro ricordo, non tanto per i monu-menti e per tutto quello che “di culturale” avrai saputo ufficialmente offrir loro, quanto per aver mostrato, aldilà della festa, il vero tuo segreto: la misura, la dimensione umana del vivere, l’equili-brio, difficile, dell’esistenza modesta e dignitosa, ma non gretta, dei tuoi cittadini, da gran tempo abituati ad affrontare con garbata ironia i casi del destino, e che, avendo per fine più la serenità dell’animo che una felicità impossibile ai mortali, cercano di vivere il loro tempo senza passare i limiti imposti all’umana natura. Da esaminanda divenuta maestra, la tua lezio-ne sarà preziosa dappertutto, fin negli angoli più riposti di un mondo, che tanto rapidamente sta mutando genti e modi e sarai ricordata e raccon-tata negli anni anche in terre lontanissime, non solo per la tua “cultura”, parola alle mie orecchie ormai divenuta obliqua e infida perché abusata da troppi, quanto per l’humanitas dei tuoi abi-tanti. “... e ciò non fa d’onor poco argomento”. (Divina Commedia – Paradiso Canto XVII verso 135).

Tuo affezionato figliolo Pierluigi Benedetti, civis pistoriensis, nato in via Nazario Sauro, fra i Cancelli e la Fonte, nel luogo del Lazzeretto degli appestati del 1630, come ricorda ancora una lapide sotto una derelitta Madonnina, dove si chiede una pre-ghiera per quei morti.

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C O M U N I C A Z I O N I

OBBLIGO DI VACCINAZIONE

Si ricorda agli iscritti il rispetto delle indicazioni emanate dalla FNOMCEO in merito all’ap-plicazione dei protocolli di vaccinazione obbligatoria e facoltativa (vedi ‘Documento FNOM-CEO’ pubblicato in data 28 luglio 2016 e disponibile sul nostro sito www.omceopistoia.it ). Si ribadisce che, secondo questo Ordine, attenersi a un profilo di copertura vaccinale ottimale costituisce un obbligo deontologico per tutti gli iscritti.

Albert Edelfelt, Louis Pasteur, 1885, Parigi, Museo D’Orsay

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