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LA VITA DOPO LA MORTE

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archimedix
Timbro
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Archiati Edizioni, Cumiana (To), 2009

ISBN 978 - 88 - 96193 - 27 - 3

Arch ia t i Ed iz ion i

Strada Oreglia, 43/12 10040 Cumiana (To) Tel: 011 9058608 Fax: 011 9058977

[email protected] – www.archiati-edizioni.it

Atti del Convegno, Roma 2 - 4 maggio 2003Trascrizione integrale del parlato a cura di Laura GiusianoRedazione a cura di Fabio DeliziaTesto NON rivisto dal relatore

Gli autori difendono la gratuità del prestito bibliotecario e sono contrari a norme o direttive che, monetizzando tale servizio, limitino l’accesso alla cultura. Gli autori e l’editore rinunciano a riscuotere eventuali royalties derivanti dal prestito bibliotecario di quest’opera. Quest’opera è pubblicata sotto una Licenza Creative Commons: si consente la riproduzione parziale o totale dell’opera e la sua diffusione per via telematica, pubblicazione su diversi formati, esecuzione o modifi ca, purché non a scopi commerciali o di lucro e a condizione che vengano indicati gli autori e che questa dicitura sia riprodotta.

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Pietro Archiati

L A V I TADOPO

LA MORTE

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Indice

1. La morte scuote tutti, 11anche i più duri

• Il materialismo, la premessa per potersi conqui-stare il mondo invisibile.

• Il senso di ogni morte è la risurrezione. • La fi ne di un ciclo porta in sé un seme. Le ripe-

tute vite terrene.• Due esseri che mi amano: l’Io superiore e l’Io

dell’umanità.• Cos’è la morte? La morte è nulla! • La morte diventa realtà per la coscienza umana.

L’Epopea di Gilgamesh - L’ Apocalisse.• I quattro atteggiamenti della libertà umana di

fronte alla morte: ignorarla, rifi utarla, rassegnar-si, essere grati.

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Dibattito 38

2. Come vivono i morti?, 47Il dopo morte passo dopo passo

• Voglia di vivere, voglia di morire. Riconquistarsi l’amore per la vita.

• La morte come spada a doppio taglio dell’evo-luzione. L’esperienza cristica della solitudine e della glorifi cazione.

• La prima esperienza del morto: vedere tutta la sua vita simultaneamente.

• Nascere per godersi la cosa più bella che c’è: il morire.• I tre gradini del dopo-morte: il livello della men-

te, il livello del cuore, il livello dello spirito.

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Prefazione 9

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• Liberarsi dalle brame. Se non diventerete come bambini non entrerete nel regno dei cieli.

• Lo spirito umano entra nella sfera dei valori oggettivi.

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Dibattito 77

3. I morti ci parlano, 89come si fa ad ascoltarli?

• L’importanza di farsi un’idea di come sono fatti i defunti.

• I morti operano negli elementi di natura.• L’evoluzione della Terra come fondamento

dell’evoluzione umana • Il regno delle possibilità: l’agire dei morti nei fatti

che ci accadono.• I morti ci parlano attraverso i nostri pensieri, i

nostri sentimenti, le nostre azioni. • La scienza dello spirito: il primo linguaggio co-

mune tra i vivi e i morti. • Leggere ai defunti.• Momenti privilegiati per fare domande e ricevere

risposte dai defunti.

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Dibattito 114

4. Siamo tutti immortali, 121allora pure innatali

• Il pensare: peculiarità dell’essere umano. • Incarnarsi per progredire nel pensiero. • Dilettantismo e scientifi cità nello spirituale. • Immagini e sentimenti suscitati in noi dal defunto. • L’infl usso dei morti nella sfera sociale.• Quando nasce l’anima umana? • Immortali si diventa.

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A proposito di Pietro Archiati 189

Dibattito 145

5. Morire ogni giorno, 159per vivere meglio

• Il rispetto della libertà umana. • La percezione come morire quotidiano. L’asino

reale e l’asino ideale. • Tre modi fondamentali del morire quotidiano. • Il criterio della moralità.• Ogni azione è un esporsi all’arbitrio degli altri. • Le sette sfere dell’anima.• Diventare buongustai dello spirito.

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Prefazione

Da giovani, è ovvio, si pensa a ben altro che alla morte - e poi è troppo lontana. Per anni il suo mistero non ci sfi ora nemmeno, non suscita alcun interesse. Poi, all’improvviso, muore una per-sona cara, forse l’amico con cui la sera prima eravamo andati a ballare in discoteca.

Allora la morte comincia a esistere ed è capace di riempire di sé tutte le ore del giorno e della notte. E ci si accorge di essere impreparati, sprovveduti, spaventati.

Ma che cos’è la morte? E che senso ha nascere se poi, non si sa né come né quando, ci toccherà morire? E dopo la morte, che succede?

C’è chi dice: nessun morto è mai tornato a raccontare ai vivi quel-lo che avviene nell’altro mondo, ammesso che paradisi, inferni, pur-gatori - e limbi - esistano davvero.

E se invece fossimo noi a non capire il linguaggio dei Morti, che muoiono dalla voglia di raccontarci la loro nuova e bellissima vita, quello che fanno fuori dal corpo in mezzo a miriadi di Esseri spirituali, in regioni dell’anima e dello spirito piene di meraviglie?

E se fosse possibile guardare anche da vivi oltre la soglia della morte, come accade ogni volta che apriamo la porta di casa e ci si presenta davanti agli occhi il mondo di fuori, tutto da esplorare?

Insomma, che succederebbe se piano piano si venisse a scoprire che la morte può diventare una cara e rincuorante amica?

Pietro ArchiatiNota redazionaleIl testo integrale, non rivisto dal relatore, è stato redatto in modo essenziale e fedele al parlato senza apporto di modifi che o stralci di contenuto.

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LA MORTE SCUOTE TUTTI,anche i più duri

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Cari amici,la situazione attuale nei confronti della morte, il modo in cui gli uomini e le donne d’oggi vivono la realtà della morte è determi-nato dalla temperie, dalla mentalità in uso, e la caratteristica più importante della struttura mentale oggi più comune è ciò che noi chiamiamo materialismo. Il materialismo rappresenta in fondo due grandi fortune per l’umanità:

1. una è la capacità di godersi il mondo materiale. “Ma-terialismo” è proprio questa bella capacità di vivere e godere il mondo materiale;

2. la seconda grande fortuna è quella di potersi conqui-stare il mondo invisibile. Infatti, poiché uno non se lo gode già in partenza – e proprio perché non lo si cono-sce già in partenza – è tutto da conquistare.

Allo stesso modo in cui si può volgere in chiave positiva il mate-rialismo, si può volgere positivamente anche la morte.

La morte è la soglia d’ingresso nell’invisibile e chi ha paura dell’invisibile deve aver paura della morte. Chi non conosce l’invi-sibile non conosce dove porta la morte, quindi è ovvio che con-frontati col mistero della morte siamo confrontati col limite del materialismo, perché la morte è il terminare nell’essere umano di ciò che è materiale – della carcassa, di ciò che Francesco d’Assisi chiamava Frate asino.

Il mio compito sarà di presentare la morte nella sua positività: una positività che è ancora più bella se è tutta da conquistare, e per il materialismo è tutta da conquistare. Cercherò di convincer-vi che è una cosa molto bella conquistarsi la positività non soltan-to della morte che arriva alla fi ne della vita, ma anche di quell’altra morte – ancora più interessante – che è il morire quotidiano.

Seguirò quindi questi due fi loni: la morte che arriva tutta in una

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volta e il morire quotidiano. La morte fi nale in un certo senso è meno interessante perché ci coglie di sorpresa: non sappiamo né come arriva, né quando arriva. Molto più interessante invece è il morire quotidiano: quello è più interessante, quella è una sfi da mol-to più forte. E nel morire quotidiano si gioca la capacità dell’essere umano di risorgere – per usare un termine tradizionale –, di ricari-carsi, di rivivere. Ecco, il senso del morire quotidiano è il rivivere quotidiano.

Il senso di ogni morte, si diceva una volta, è la “risurrezione”, il risorgere, ma se questa parola urta la sensibilità di qualcuno, pos-siamo usare “rivivere” che forse è una traduzione neutra per chi è in Italia. In questo Paese il rapporto col religioso, con lo spirituale, è diventato problematico proprio perché è stato gestito per tanti secoli dall’autorità materna della Chiesa che, negli ultimi decenni soprattutto, è diventata un po’ indigesta a molte persone. Pren-diamolo come un fatto psicologico di disaffezione nei confronti del religioso. Ne tengo conto, e perciò penso che sia importante tradurre i termini che religiosamente avevano il loro signifi cato con termini accessibili a tutti.

Si diceva una volta che il senso di ogni morte è la risurrezione, il risorgere – se a qualcuno non va questa parola usiamo il rivivere: un ricominciare la vita in un modo nuovo, quotidianamente però. La vita non si può ricominciare ogni giorno in un modo nuovo a meno che non si muoia a qualcosa. Bisogna sempre lasciare qualcosa: il morire è il dover lasciare qualcosa per ricominciare da capo. Magari lasciare una cattiva abitudine. Questo lasciare una cattiva abitudine veniva chiamato un piccolo morire, ed è bella questa parola, perché qualcosa in me vuol morire per far posto a qualcosa di più bello.

La situazione attuale nei confronti della morte è di tante perso-ne che, vivendo in questa immediatezza del mondo visibile, del mondo materiale, alla morte non ci pensano. Possiamo partire

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proprio da questa prima constatazione fondamentale: molte per-sone oggi, soprattutto nella prima metà della vita, dove ci sono forze vitali, dove si è giovani e c’è da fare, dove ci sono anche ideali, dove c’è tutto da conquistare, alla morte non ci pensano.

Se sono giovane la morte non è necessariamente un fatto che mi riguarda personalmente, però all’improvviso può succedere che una persona con cui ero in discoteca tre giorni prima, una persona con cui ho fatto una passeggiata ieri, una persona forse neanche tanto anziana, muore, magari in un incidente stradale. Ed è questo che all’improvviso all’uomo d’oggi evidenzia: “Ma un momento! Questa persona era accanto a me fi no a ieri! Chi si permette di farla sparire?”.

All’improvviso l’enormità della morte ci colpisce. E colpisce an-che i più duri, certo! Perché anche i più duri hanno amici, hanno persone con cui vivono e che dall’oggi al domani possono vera-mente varcare la soglia. Abbiamo quindi questo fenomeno molto comune – che oggi si vive frequentemente – di un individuo che alla morte non ci pensa; e va bene così, non vogliamo subito dire che è una cosa che non va bene: non gli viene spontaneo, e poi perché dovrebbe pensare alla morte? C’è abbastanza da fare nella vita. Però all’improvviso, la realtà della morte gli dà una botta, uno schiaffo e lo costringe a fermarsi, perché quest’individuo si dice: “Ma se la morte oggi ha colpito questo mio amico, se ha colpito questa persona così vicina a me, domani può colpire me! Non col-pisce soltanto gli anziani”.

La cultura materialistica ha generato una durezza del cuore nei con-fronti della morte, e perciò la morte deve colpire anche i più duri. Ma perché la cultura materialistica ha generato una durezza del cuore? Perché fa parte del capitalismo moderno – visto che qui siamo nella facoltà di economia e commercio –, fa parte proprio del modo di vivere dell’umanità di oggi in registro di globalizzazione, di reprimere la morte: non soltanto non ci si pensa, ma viene addirittura repressa.

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Reprimere la morte è qualcosa di ancora diverso dal non pensarci, perché non pensandoci io non me ne occupo, non faccio una teoria sulla vita che esclude la morte, invece nel reprimere la morte c’è il voler interpretare la vita come se la morte non ci fosse, come se la morte fosse un incidente casuale che sarebbe meglio non esistesse.

Non si può capire la vita senza includere nel progetto-vita l’even-to più fondamentale che è la morte. In altre parole, la morte è l’evento più fondamentale della vita perché ne evidenzia il ca-rattere transeunte: evidenzia il fatto che la vita nel corpo non è qualcosa di eterno bensì qualcosa di effi mero. Non posso capire la vita senza interpretarla, e cioè mettendone alla base il fatto che si vive solo per un certo corto periodo di tempo – al massimo alcuni decenni, al massimo cento anni. Come mai è così? Perché? Chi ha deciso che la vita termini?

Generare questa durezza del cuore nei confronti della vita ha fatto sì che la maggior parte degli esseri umani sia del tutto impreparata e sprovvista di fronte alla morte, e perciò, quando la morte all’improv-viso bussa alla porta, magari in una persona che mi è vicina, mi rendo conto che la mia formazione – anche accademica – mi ha preparato a tutto tranne che a far fronte alla morte, che è una realtà, una realtà molto importante.

Pensavo in questi giorni alla guerra dell’Iraq e mi dicevo: non c’è forse nell’umanità di oggi un certo cinismo nei confronti della morte, che addirittura il fatto di compiere qualcosa che per natu-ra ucciderà delle persone – e probabilmente non poche – viene considerato come un “danno collaterale”? Un paio di migliaia di persone vanno all’altro mondo e questo è considerato un danno collaterale che purtroppo non si può evitare se si vuol raggiungere la cosa importante da raggiungere. In altre parole, che queste centinaia di persone se ne vadano all’al-tro mondo è una cosa del tutto secondaria, ma rispetto a che

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cosa? Che cosa può mai essere più importante della vita umana? Che cosa può essere moralmente più grave che terminare la vita, togliere la vita, uccidere delle persone? Mi sono chiesto: ma non è un’umanità balorda quella che arriva al punto di considerare la morte, anzi proprio il fatto di uccidere un numero notevole di persone, come effetto collaterale?

Cosa intendo dire io quando affermo che la morte scuote tutti? Intendo dire che deve, dovrebbe, scuotere tutti! Perché se la mor-te termina di essere la provocazione, la sfi da più micidiale che ci sia per l’essere umano, perde il suo valore. La morte ha il suo va-lore, conserva il suo valore, soltanto se ci provoca, se fa ribellare tutto dentro di noi. Il senso della morte è di farci ribellare in tutto il nostro essere, perché questa ribellione spontanea nei confronti della morte ci costringe a fare i conti con noi stessi. Cosa scuote la morte?

• Scuote la nostra mente, in quanto la morte è l’assurdo più assoluto che ci sia;

• Scuote il nostro cuore e tutta la sfera dei sentimenti perché la morte genera la somma massima di paura;

• Scuote la vita proprio perché la morte sembra l’opposto della vita, la morte sembra cancellare, annientare, il progetto di vita che portiamo dentro di noi.

La morte scuote la mente perché pone il pensiero di fronte all’assur-do, al non senso più assoluto – perché se non è insensata la morte, che cosa è senza senso? Scuote il cuore perché ci riempie di dolore, di sofferenza e di paura. E scuote la vita, il comportamento, i valori.

Non è un’assurdità per la mente, per il pensiero, nascere con l’intento di morire?

Si nasce per morire – perché il fatto di morire è inevitabile. Tant’è vero che qualcuno ha detto: “Allora sarebbe meglio non nascere”. Qualcun altro dirà: “No, si nasce per vivere. Poi, c’è

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purtroppo questo fattore, questo danno collaterale della morte, però si nasce per vivere!”. E come la mettiamo con persone che muoiono subito all’inizio della vita? Persone che muoiono nei pri-missimi anni della loro esistenza? Non si può neanche dire che siano nate per vivere, perché non hanno avuto neanche la pos-sibilità di vivere. E che la morte sia assolutamente immessa nel progetto di vita, su questo non c’è dubbio, perché ogni nascita sfocia inevitabilmente nella morte.

È questo che intendo dire quando affermo che la morte scuote la mente, perché la morte è l’enigma più grande che ci sia. È la sfi da somma alla mente umana e perciò la provocazione più forte, più assoluta per il pensiero umano. Trovare il senso della morte di fronte all’evidente non-senso della morte, è forse uno dei cammi-ni di pensiero più belli e più grandi proprio perché è arduo.

Sul fatto che la morte scuota il cuore oltre alla mente non c’è bisogno di insistere molto, basta vedere ciò che ognuno di noi vive quando una persona cara muore: quale somma di dolore e di sofferenza! Ma, soprattutto, il senso di questa sofferenza, di que-sto dolore è la privazione: la persona cara che è morta mi manca. Ma che signifi ca: “mi manca”? La morte l’ha fatta sparire questa persona? Non c’è più? Quando dico mi manca, quando dico che soffro perché mi manca, signifi ca che mi sento un essere umano del mondo d’oggi, un essere umano abituato a vivere, a sentire come reale soltanto ciò che vede, ciò che sente materialmente. Questa persona che è morta non può più parlare, materialmente non può più farsi sentire: “mi manca!”. Non sento più la sua voce, non sento più il suo conforto, non sento più i suoi pensieri, non mi dice più nulla, non mi accompagna più, non posso più consu-mare un pasto con lei.

La morte scuote il cuore, ci porta via persone care e noi dicia-mo: “ho perso la tal persona, non c’è più”. Vivere la morte in questo modo – ed è un fatto, che la maggior parte degli esseri

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umani oggi la vivano così – è una fonte di grande dolore perché, per quanto riguarda me, il mio vissuto, quello che io riesco a co-gliere di questa persona non c’è più: non colgo più nulla di lei, vivo nel vuoto. Certo, ci sono i ricordi, però i ricordi possono addirittura rincarare la dose della sofferenza perché sottolineano con crudeltà, a volte ancora maggiore, il fatto che sono costretto a vivere di ricordi perché questa persona non c’è più. Lei non è più in grado di aggiungere a questi ricordi del passato, il presente. Il defunto non mi parla più, non mi dice più nulla di nuovo. Vivere di ricordi signifi ca vivere del passato: non c’è più nulla di nuovo. Una persona morta non mi dice più nulla di nuovo.

La terza dimensione della morte che scuote tutti, è che scuote la vita. Scuote il comportamento, nel senso che di fronte alla morte uno si chiede: “Ma allora, qual è il valore di ciò che faccio? Quasi mi cadono le braccia se domani afferrerà me, o addirittura oggi stesso! Che senso ha il darmi così da fare? Che senso hanno le conquiste, gli ideali, i valori per i quali vivo, se poi io stesso cado nel nulla? Qual è il senso della mia vita, della mia vita nella sua totalità, se poi essa termina nella morte?”.

Vi dicevo che la prospettiva di questo convegno, per quanto mi ri-guarda, è di presentare la morte come la realtà più positiva che ci sia, nel senso che ogni momento, ogni forma di morte trova il suo senso se viene trasformata in un rivivere, in un ricominciare in modo nuovo a vivere. Però trasformare ogni morte quotidiana – ed anche la morte alla fi ne della vita – in un rivivere, e vedere la morte delle persone che muoiono come la loro grande fortuna di rivivere e vivere molto più pienamente in mondi spirituali, questa realtà positiva della morte non ci viene data spontaneamente – per fortuna! La positività della morte non può essere che una conquista della libertà. E se la positività della morte è una conquista della libertà, questa conquista non viene im-posta a nessuno, altrimenti non sarebbe libera.

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In altre parole, che tu, come persona singola, ti conquisti nella mente, nel cuore e nella vita la positività di ogni morire e del-la morte fi nale, sono fatti tuoi, riguarda la tua libertà. Nessuno t’impone di vivere la positività della morte, però lo puoi fare, è un’offerta data alla tua libertà.

E vedremo che forse non c’è nulla, non c’è nessuna realtà di fronte alla quale gli esseri umani sono così liberi come lo sono di fronte alla morte. Tutte le altre realtà della vita non ci possono la-sciare del tutto liberi, perché dobbiamo fare i conti con tanti altri fattori, con tanti altri esseri umani. Invece il mio modo di pormi di fronte alla morte, di interpretarla e di viverla, non me lo gesti-sce nessuno. Nessuno può gestire il modo di un altro di vedere la morte, di capirla, di interpretarla, di viverla. In altre parole, di fronte al mistero della morte ognuno di noi è confrontato con la propria libertà. Come io mi pongo di fronte alla morte, come io la vedo e come io la vivo, riguarda in tutto e per tutto la mia libertà: nessuno mi può imporre una certa interpretazione della morte, e soprattutto nessuno mi può imporre di vivere la morte in un certo senso.

Il mio intento sarà di presentare la positività della morte a tutti i livelli, ma secondo me il discorso non sarebbe convincente se io dicessi: “Sì, cari amici, la morte è una cosa veramente brutta, però vediamo se riusciamo a.... ”, no, no, no! Questo sarebbe un barare! O ci riesce di vedere la morte intrinsecamente nella sua positività – e può essere proprio un cammino di pensiero libero che ognuno può fare – oppure la morte resta qualcosa di negativo.

Come primo pensiero, prima rifl essione da offrire al pensiero di ognuno, direi che tutto ciò che vive, tutto ciò che è vivente, si esprime in ritmi. Il ritmo è il mistero di tutto ciò che vive. Il ciclo della pianta, che è un essere vivente, si svolge per ritmi: c’è il seme che fa nascere la pianta, la pianta cresce, si espande e quando

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arriva al termine del suo ciclo (la fi ne porta in sé un germe) un seme ricade nella terra e fa ricominciare da capo il ciclo. Il ritmo della vita degli animali è che c’è una nascita, poi una morte e poi attraverso il germe la vita ricomincia.

Una delle domande fondamentali che riguardano la morte – e che questa sera vorrei soltanto accennare – è se noi vogliamo fare per la vita dell’uomo un’eccezione assoluta.

Tutto ciò che è vita vive in un ciclo di vita, di morte, di rinasci-ta..., vita, morte, rinascita.., vita, morte, rinascita... eccetera.

La cultura occidentale che si chiama cristiana – ma non sono sicuro fi no a che punto lo sia – ha fatto un’eccezione per l’essere umano. La cultura occidentale di matrice cristiana, nel suo insie-me, ha pensato fi nora che ogni essere umano vive una volta sola. Fa parte della rifl essione sulla morte e sul senso della morte avere almeno il coraggio di porre questa domanda: se è vero che il senso di ogni morte nelle piante e negli animali è il rinascere, il rivivere, perché non dovrebbe esserlo anche per l’essere umano, in quanto partecipe del vitale, in quanto partecipe del mondo animale? Per-ché il rivivere non dovrebbe essere il senso di ogni morte umana? Il rivivere non soltanto in un mondo spirituale, ma il rivivere sulla Terra: un ricominciare il ciclo così come tutte le piante, tutti gli animali ricominciano il ciclo. Non potrebbe forse essere che un frammento, un buon pezzo dell’assurdità e della paura di fronte alla morte, sia dovuto al fatto che il materialismo occidentale si è messo in testa che l’essere umano vive sulla Terra una volta sola?

La cultura materialistica, che è quella più abbarbicata, più attac-cata alla Terra, è giusto appunto la cultura che si è messa in testa che l’essere umano sulla Terra ci vive una volta sola. Tutto ciò mi puzza di ascesi medievale o, se volete, di ascesi buddista. L’affermazione fondamentale del Cristianesimo è l’amore del Verbo cosmico per la Terra: l’incarnazione. Non è forse che la nostra paura della morte provenga dal disprezzo – molto poco

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cristiano – della Terra e della vita sulla Terra? Disprezzo che è nato pensando che si vive una volta sola. Potrebbe essere che noi superiamo la paura della morte quando sinceramente, apertamen-te, cordialmente, ne parliamo insieme e ci diciamo: “Ma siamo proprio sicuri?”. “Chi ha decretato, chi ha deciso che si vive una volta sola?”. E se invece fosse che il senso della morte sia quello di metter via un corpo ormai malandato che quando arriva a ses-santa, settanta, ottanta anni non fa certo più salti come quando si è giovani? Si mette via quello vecchio proprio come si mette via un abito vecchio, come si mette via uno strumento musicale che non serve più; si passa un po’ di tempo nei mondi degli artisti che fabbricano un corpo umano, e poi si ritorna giù.

Coloro che dicono: “No, no, no, una volta mi basta, mi basta, per carità! Per carità!”, le persone che ne hanno di avanzo di una vita sulla Terra, non meritano neanche quella. La vita la meritano coloro che se la godono in un modo tale che la riempiono di si-gnifi cato, che la trovano così bella che sono capaci di dire: “Sì, sì, sì, ancora una volta, ancora una volta, tre, quattro, cinque, sei!”. Perché una persona che dica che una volta le basta e avanza, cosa ne ha fatto della vita? Nulla! Vogliamo prendere quella persona lì a misura dell’umano, a criterio dell’umano?

Vedete che le domande sulle quali possiamo intrattenerci in questi giorni sono fondamentali. A me interessa porle lì come domande, perché mica voglio vendervi dei dogmi – ne son stati venduti abbastanza di dogmi. Caso mai m’interessa provocare un pochino il pensiero di ognuno. Importante è ciò che avviene nel pensatoio di ognuno, quello è importante: per ognuno ciò che avviene nel proprio pensiero.Faccio un passo indietro e chiedo: cos’è che ci potrebbe dar fi du-cia nei confronti della morte? Partiamo da una fi ducia più sempli-ce, accessibile a tutti – sul programma c’era scritto: “un cammino

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di fi ducia”. Sta di fatto che il giorno e il modo della morte non ven-gono decisi da noi.

Il suicida in fondo è un essere umano che, tra le altre cose, non riesce ad accettare questo fatto. Il suicidio, forse ne parleremo, è un fenomeno molto complesso, ma tra le altre cose c’è certamente la diffi coltà, comprensibile, ad accettare che la morte – la mia morte, un evento che mi riguarda così profondamente da vicino – non sia nelle mie mani. C’è la diffi coltà ad accettare che io non posso decidere né il modo, né il giorno. Credo faccia parte dell’atteggia-mento suicida questo non riuscire ad accettare, nell’esuberanza della propria libertà, che una delle cose più importanti della vita, se non la più importante, che è la propria morte (ed il modo di morire) venga imposta. L’essere umano che vorrebbe una libertà assoluta vuole estendere la sua libertà sull’ora, sul giorno e sul modo della sua morte, e vuol decidere lui quando e come morire. Anche questo è un abisso evidenziato nei tempi moderni ancora di più di fronte alla morte.

Perché non viene lasciato alla coscienza ordinaria di decidere il giorno e il modo della morte? Ognuno di noi si sente una persona intelligente, e allora perché non viene lasciato a me, che non sono certo il più stupido di questo mondo, di decidere io quando voglio morire e come voglio morire?

La risposta che tutte le religioni, che tutte le culture hanno dato è che se si lasciasse all’arbitrio della coscienza ordinaria di deci-dere il giorno e il modo della morte, sarebbe subito il caos più assoluto perché quasi tutti noi sceglieremmo il giorno e il modo sbagliato di morire. Il giorno sbagliato perché vorremmo protrar-re la nostra morte e magari rimandarla al millennio futuro.“Dar fi ducia alla morte” è stato sempre detto, cito adesso, in modo che possiamo francamente dire la nostra su queste affermazioni che ci vengono da tutte le culture. L’affermazione fondamentale è: sta’ attento che la morte, la tua morte, la morte di ognuno, è saggia,

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è buona ed è piena di positività poiché il giorno è quello giusto, perché non viene deciso da te; e il modo è quello giusto perché non viene deciso da te. Il giorno e il modo della morte di ogni persona è quello giusto: è saggio, è bello, è buono.

Il giorno e il modo della mia morte vengono decisi da Colui che più mi ama, o da Coloro che più mi amano, e mi amano più di quanto io stesso sia capace di amarmi.

Ci sono due esseri principali – ne cito soltanto due poi gli altri si possono aggiungere –, questi due esseri principali amano me più di quanto io stesso possa amarmi e mi amano soprattutto scegliendo per me il giorno migliore per morire, tanto che uno migliore non ci potrebbe essere: ognuno muore nell’ora che è quella migliore per lui se non ci mette il suo arbitrio.

Questi esseri scelgono il modo di morire che è quello migliore per me, quello che più mi porta avanti nella mia evoluzione. Chi sono questi due esseri spirituali? Questi due in particolare, poi ce ne sono tanti altri, sono:

1. il mio Io superiore – ed ognuno trovi qui la terminologia che vuole, il mio Io migliore, il mio Io spirituale;

2. e l’Io dell’umanità.

Da sempre si parla di due anime, di due esseri dentro ciascuno di noi. Se vogliamo, l’io dell’egoismo e l’Io dell’amore; l’io dell’otte-nebramento e l’Io della saggezza.

In altre parole, c’è la sfi da al pensiero che c’è in ognuno di noi ol-tre l’io ordinario, un Io più saggio, sovraconscio: l’Io superconscio. Se le terminologie tramandate non ci piacciono, possiamo inventar-ne di nuove, ma il pensiero è: sono d’accordo o no che c’è in ogni essere umano un’istanza più vasta, più saggia – il mio Io superiore è una super-coscienza che vive in me –, che sa meglio di me, meglio della mia coscienza ordinaria, quando e come va bene per me morire?

Il primo essere quindi è l’Io superiore; il secondo, abbiamo detto,

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è l’Io dell’umanità, cioè Colui che i cristiani chiamano il Cristo e i giudei il Messia.

A questo punto qui il discorso diventa ancor più diffi cile, perché psicologicamente è più facile introdurre la categoria dell’Io supe-riore in quanto ognuno di noi fa l’esperienza: “È vero, è vero, ci sono due forze dentro di me, una che mi tira in giù, l’altra che mi porta incontro le ispirazioni più belle che ho”, e quindi il concetto di Io superiore, bene o male, ognuno di noi lo può capire perché lo vive. Invece il concetto che l’umanità intera sia un organismo e che la mia morte sia armonicamente inserita in questo organismo è molto più diffi cile.

Proviamo a metterla lì come affermazione e poi nella discussio-ne potremo metterla in questione: tutte le religioni affermano che l’intera umanità, e cioè tutti gli esseri umani, sono un organismo e che la vita di ogni essere umano, e quindi il momento e il modo di ogni morte, va inserita armonicamente a seconda del contribu-to di quell’essere umano nell’organismo dell’umanità. Per questo motivo si parla di un Io dell’umanità o di uno Spirito dell’umani-tà. Qualcuno poi potrà chiedere: ma tu come fai a sapere che c’è questo Spirito dell’umanità? Vediamo… vediamo, possiamo farci delle domande su ciò.

Se l’umanità è un organismo, è una realtà unitaria, allora ci deve essere uno Spirito dell’umanità che concerta, che articola, che orga-nizza gli esseri umani l’uno dentro l’altro in un modo così sapien-te che ogni individuo ha un compito ben specifi co nell’organismo vivente dell’umanità, esattamente come accade per tutti gli organi, per tutte le cellule, molecole e atomi di un organismo. Questi due esseri, il mio Io migliore e l’Io dell’umanità, sanno chi io sono nell’umanità, quale compito devo svolgere in questa vita o, per esempio, ciò che io devo fare per l’umanità dopo la mia morte.

Permettetemi questa rifl essione che sembra strana in tempi di ma-terialismo, ma me la permetto lo stesso: supponiamo che una per-

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sona abbia un compito da svolgere nell’umanità per l’umanità. Un compito che si può svolgere soltanto dopo la morte, un compito che non si può svolgere da vivi. Forse voi siete del parere che ci siano soltanto compiti, forze che si immettono nell’umanità unicamente se si è vivi? O siete forse del parere che anche da morti, cioè oltre la morte, si possano immettere ispirazioni, si possano immettere forze nell’umanità? Supponiamo, dicevo, e non renderò facile il compito a chi mi vuol smontare questo pensiero – però provateci, mi racco-mando, è compito mio non rendervelo facile –, supponiamo che una persona abbia un compito importante: delle ispirazioni, dei pensieri da immettere nell’umanità che si possono immettere soltanto se si è oltre la morte in uno stato di purifi cazione dell’egoismo, in uno stato di oggettività di coscienza tale da poter veramente immettere certi pensieri, pensieri che non si possono immettere nell’umanità quando si è intrisi di soggettività come lo è ognuno di noi quando è dentro al corpo. Allora, cosa deve fare questa persona, se a partire da una sfera di oggettività, di saggezza che guarda veramente, spassionatamente i destini dell’umanità vuole veramente svolgere questo compito, im-mettere questi pensieri?

Questa persona dirà: “È importantissimo che io lasci il mio corpo, è importantissimo che io muoia. Gli esseri umani materialisti diran-no che io sono sparito, che io non ci sono più, però io lo so che adesso – dopo la mia morte – comincia veramente la missione, il compito più importante della mia vita. So che tutta la vita nel corpo non è stata che una preparazione a ciò che io, ancora più importante per l’umanità, ho da immettere nell’umanità dopo la mia morte. Che poi una persona riceva un’ispirazione da me, un’ispirazione che ma-gari socialmente o religiosamente cambia profondamente l’umanità in bene e non sappia che questa ispirazione viene da me che sono morto apposta per dargli questa ispirazione, quello è un problema suo. Lui non lo sa, ma io lo so però! So che il senso della mia morte è di compiere questa attività che posso compiere soltanto a partire da

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una consapevolezza più vasta, più saggia e meno intrisa di egoismo e di soggettività. Una consapevolezza che viene consentita soltanto lasciando le strettoie necessarie, comprensibilissime, che vengono imposte dall’inabitare un corpo fi sico”.

Il mio Io vero e l’Io di tutti gli uomini decidono il giorno e l’ora della morte che sono il meglio per me e per l’umanità. Ogni essere umano riceve il modo di morire, e riceve il giorno della morte che è il migliore per lui e per l’umanità.

Provate a smontarmi questo pensiero quando ci sarà il dibattito, però venite con delle alternative! Aggiungerei anche: non soltanto il giorno della mia morte (anche quando si muore da giovani), e non soltanto il modo della mia morte, ma anche ciò che io causo, ciò che le persone che mi sono care vivono, il loro dolore, forse una passata molto diffi cile, e perciò anche ciò che la mia morte causa nelle persone che mi sono per destino vicine, anche per loro, questo vissuto è voluto ed è positivo. Se lo vivono in negativo è soltanto perché la coscienza è ottenebrata, ma se lo vedessero nella realtà, così come è voluta dal loro Io superiore e dall’Io dell’umanità, saprebbero che è previsto per il bene loro e dell’umanità.

Delle persone soffrono perché un loro caro è morto: è negativa questa sofferenza? Forse non c’è nulla di più positivo della sofferenza, perché da che mondo è mondo gli esseri umani crescono massimamente là dove massimamente soffrono. Questo non vuol dire che dobbiamo andare a cercare più sofferenza di quella che già c’è, e ce n’è abbastanza per tutti. Il concetto di karma, il concetto di destino, è che la vita, l’Io superiore, dà ad ognuno la propria giusta misura di sofferenza. Viverla con coraggio però, viverla con gratitudine, è proprio quello che più ci fa crescere.

Detto ciò, pongo la domanda che per questa sera è un po’ introdut-tiva – domani e dopodomani ci entreremo più a fondo –, la semplice domanda: che cos’è la morte?

Immagino che voi vi aspettiate che se uno addirittura viene dalla Germania a Roma per parlare della morte… beh, che almeno ci

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dica che cos’è ‘sta morte. La morte è nulla! E se voi avete mai pen-sato che la morte sia qualcosa, è ora che mettiate un po’ di sale in testa, perché la morte non è nulla!

Ma come…, allora io ho paura di fronte al nulla? Eh sì! È pro-prio il nulla che ci fa paura. Quindi, la realtà della morte è la paura che abbiamo di fronte al nulla. Però il nulla l’abbiamo nella testa. La realtà della morte è la nostra paura, e la paura è una realtà, psi-cologicamente è una realtà, qualcosa che viviamo. La paura è un vissuto reale. È la paura che quando mi viene a mancare il corpo, mi viene a mancare tutto. Chi ci ha messo in testa questa paura? Socrate, per dire un esempio, la pensava all’opposto. Lui diceva: “mannaggia, fi nché ho questo corpo faccio fatica…”, e gli rispon-devano: “Ma Socrate aspetta, non berla la cicuta! Non vedi che tutti noi siamo qui a piangere?”. E Socrate a loro: “Ma voi siete matti! È una vita che aspetto di lasciare questa prigione del corpo perché quando poi ne sarò fuori, allora sì che comincerò a vivere! Questa vita nel corpo non è neanche una mezza vita, è forse un terzo di vita, dai!”. E questi giovani attorno a Socrate dicevano: “Ma quello è matto..!” perché facevano già parte di quell’umanità che cominciava a vivere in misura sempre maggiore la realtà del corpo, e per noi, oggi, duemilaquattrocento anni dopo, questo accade ancora di più.

Se noi togliamo alla psiche, se noi portiamo via alla nostra espe-rienza tutto ciò che noi dobbiamo al corpo – percezioni sensibili, sensazioni, emozioni, e quando con il corpo mangiamo, beviamo, ci incontriamo, sentiamo gli altri –, se togliamo via tutto ciò che dobbiamo all’interazione col corpo, cosa resta? Nulla. Quindi, la paura è giustifi cata. Soluzione? Arriva subito la soluzione. La do-manda fondamentale di fronte alla paura della morte, alla giustifi -cata paura della morte, è questa: è possibile che esista un modo di pensare, un modo di sentire, un modo di volere, che non dipenda in tutto e per tutto dal corpo?

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T’arriva lo scienziato e ti dice: “No... ma sei matto! Che ci sta a fare la scienza moderna? I pensieri che una persona pensa sono prodotti dal cervello, proprio come la bile lo è dal fegato. Il tuo cervello ha questo tipo di geni e il tipo di composizione ereditaria dei tuoi geni fa sì che tu abbia questi pensieri. Se i tuoi geni si fossero composti in modo diverso avresti altri pensieri. Quando i geni muoiono, allora muoiono anche tutti i tuoi pensieri. Mi dispiace!”.

Adesso siamo arrivati ai geni, prima c’era il genio – ne bastava uno –, adesso milioni di geni, e dentro ad ognuno addirittura!

La domanda più fondamentale, più micidiale sulla morte è: se di me c’è soltanto ciò che produce un cervello fi sico che è perituro, non c’è via di scampo, il cervello fi sico sparisce. Facciamolo cam-pare anche centoventi anni se volete, ma poi per fortuna sparisce. Per fortuna per i giovani, perché il senso della morte è anche un minimo di rispetto per i giovani, di fargli posto.

Allora, se i pensieri sono in tutto e per tutto effetto di ciò che c’è come matrice ereditaria dentro di me, quando il sostrato eredita-rio cessa di esistere cessano in me tutti questi pensieri. La doman-da della morte dello strumento fi sico, del processo di pensiero è: esiste soltanto un tipo di pensiero che viene causato dal sostrato fi sico? Oppure è possibile un processo di pensiero che è sempre meno dipendente da ciò che muore in me, da ciò che è perituro, da ciò che è morituro in me?

Che uno scienziato o un altro essere umano possano dire: “Io conosco soltanto, ho fatto fi nora solamente l’esperienza di tipi di pensiero o di una spiritualità, o come la si voglia chiamare, che è dovuta al sostrato fi sico”, questo non dimostra però che non sia possibile un altro tipo di esplicazione dello spirito.

In altre parole, se lo spirito umano è in tutto e per tutto dipendente dal corpo fi sico, quando questo corpo muore, muore anche lo spirito umano. Se lo spirito umano, i pensieri, i sentimenti, ecc., sono

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in tutto e per tutto dipendenti da una costituzione fi sica che per natura è transeunte e muore, quando questa costituzione fi sica muore, cosa resta di ciò che è dipendente in tutto e per tutto da questa costituzione fi sica? Nulla! Ecco la domanda della morte. È proprio questa la domanda centrale della morte.

E l’altra mia domanda, senza voler dimostrare l’opposto perché for-se non lo si può dimostrare, è quella che si chiede se l’affermazione: non è possibile un tipo di pensiero non dipendente dal sostrato fi sico, sia scientifi ca.

Perché se è vero che non è possibile un tipo di vita spirituale, o di pensiero, che non sia in tutto e per tutto dipendente dal cervello fi sico, allora quando l’essere umano muore, quando il cervello fi sico si de-compone, sparisce lo spirito. Ma è proprio questa la paura dell’uomo d’oggi perché è abituato a viversi in tutto e per tutto dipendente dal corpo fi sico, e sa che il corpo fi sico prima o poi sparisce, muore, fi ni-sce di esistere. Su questo non c’è dubbio.

Quindi, la domanda fondamentale sulla morte dell’uomo d’og-gi è la domanda del rapporto tra ciò che è di natura corporea e che muore – sappiamo che muore –, e ciò che in noi è il vissuto dell’animo, ciò che in noi è la vita del pensiero, ciò che in noi sono gli ideali, sono i bei valori per i quali viviamo, ecc.

Come primo accenno direi che la morte è una realtà opposta per i vivi e per i morti. Prima di morire si vive la morte in modo opposto a dopo la morte. Adesso voi arriverete subito con la domanda: “Ma tu come fai a sapere come si vive la morte dopo la morte?”. Domani vi spiegherò tutto quello che io so sulla vita dopo la morte e magari vi dirò anche se sono stato di là e sono tornato di qua, ma per non rischiare che non torniate domani, non ve lo dico stasera.

Per i vivi, per noi che siamo in vita, la morte è la paura dell’annien-tamento di sé. Per colui che è morto, la morte è l’opposto: guarda-re indietro al momento della propria morte è riaccendere sempre di nuovo la coscienza di sé. Aver vissuto la morte, quindi essere oltre la morte, e poter guardare alla propria morte con gioia, con gratitudine,

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signifi ca far l’esperienza: “Ma guarda, non ci avrei mai creduto che io come spirito sono stato capace di portare a morte, cioè di distruggere, di disgregare tutto un corpo completo. Mica una malattia che ti fa andar male qualcosa, no! tutto intero, per dimostrare che sono uno spirito che sa vivere senza corpo. E questo mi dà l’esperienza di essere un Io immortale”. Non può essere che così, e stavo dicendo che colui che è morto, è più vivo di noi: “Quelli mi pensano morto, ma sono matti. Quelli hanno paura della morte, io invece vedo la morte come la prova, proprio la dimostrazione metafi sica, che io vivo anche senza il corpo… e quelli mi dicono morto. Sono loro i morti! Per fortuna che non lo sanno, senò sarebbero troppi quelli che vogliono tuffarsi subito nell’eternità. Gli farei venire troppa voglia di scappar via dai tre quarti di morte in cui vivono ogni giorno”.

Se volete possiamo prendere in considerazione adesso non le reli-gioni o le culture, ma l’esoterismo dell’umanità dove c’erano gli ini-ziati. Da sempre l’essenza dell’iniziazione in tutte le culture è di fare l’esperienza della morte prima di morire. Questa è l’iniziazione: fare l’esperienza di vivere in un mondo spirituale indipendentemente dal corpo. L’esoterismo, gli iniziati di tutte le culture, e quindi non soltan-to di quella cristiana, ma di tutte le culture, fanno sulla morte questa affermazione fondamentale: per colui che è oltre la morte, la morte è la prova assoluta della coscienza dell’Io.

Prima della morte noi vivi abbiamo paura che la morte sia l’an-nientamento dell’io, il morto (oltre la morte) vive la sua azione di morire (perché è un’azione compiuta dal suo Io superiore) come dimostrazione di essere un Io e, per così dire, la sua coscienza “si accende”.

Già Aristotele diceva che l’accensione della coscienza dell’Io avviene proprio guardando eternamente al momento, all’ora e al luogo, della propria morte. In quel luogo, in quell’ora, distruggen-do in senso positivo tutto il sostrato fi sico della mia vita terrena, io ho vissuto per la prima volta, e ho dimostrato a me stesso e a

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tutto il mondo, di essere un Io eterno, uno spirito le cui sorti non dipendono da un pezzo di materia che sorge e si disgrega.

La morte è un fatto di coscienza di coloro che si ritengono vivi. La morte è l’illusione di coloro che non sanno che il morire è l’oc-casione privilegiata di rinascere a tutti i livelli dell’essere. E come fatto di coscienza la morte non è una realtà oggettiva: oggettiva-mente la morte è il nulla. Soggettivamente, dentro alla coscienza umana, è una somma infi nita di illusioni ed un vissuto fortissimo di paura. Ma oltre a queste illusioni nella coscienza umana, nella coscienza ordinaria, oltre a questo vissuto di paura, che è molto importante per colui che lo vive, oggettivamente in quanto dato di natura, la morte è nulla. Perché, oggettivamente, cos’è la mor-te? Un nuovo modo di comporsi di una somma infi nita di atomi e di molecole. Questi atomi e queste molecole che erano compo-ste in un certo modo, in ciò che io chiamo morte si compongono in un altro modo. Ma che cosa è morto? Nulla! L’anima non può morire, lo spirito ancora meno, e quindi che cos’è la morte? Nul-la! Oggettivamente nulla. La morte è un fatto di coscienza: nella coscienza umana la morte è qualcosa di enormemente rilevante, ma nell’oggettività del cosmo è nulla, è un’illusione.L’altra domanda che vorrei porre è: c’è sempre stata la morte? E la risposta è: no, la morte non c’è stata sempre. La morte è nata nell’evoluzione dell’umanità.

C’è stato tutto un inizio di evoluzione in cui la morte non c’era – non c’era come fatto di coscienza, perché oltre ad un fatto di coscienza non è nulla.

Cosa signifi ca che la morte ha avuto un inizio e che prima non c’era? Signifi ca che c’è stato un tempo in cui gli esseri umani – se volete, si tratta di noi stessi, se partiamo dal presupposto che ogni spirito umano partecipa dall’inizio alla fi ne a tutta l’evoluzione dell’umanità – erano così connessi col mondo spirituale che vivevano come una realtà le ispirazioni e, per esempio, avevano ricordi di ciò che si era vissuto prima di nascere.

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Non c’è bisogno di andare indietro tanto: ancora Platone trecento, quat-trocento anni prima di Cristo, dice che conoscere signifi ca “ricordarsi ciò che già sapevamo prima di nascere”. In altre parole, Platone ci parla della preesistenza, e ci dice che lo spirito umano esiste in un mondo spirituale ancor prima di entrare nella materia.

Questa umanità antica non viveva la materia come una realtà. Del resto, l’assunto fondamentale della sapienza orientale è che il mondo materiale è Maja, cioè un’illusione: “Maja” cioè Ma–ha a–ja signifi ca “la grande illusione”. Quindi tutta la sapienza orientale ci dice che il mondo materiale non è una realtà, ma è un’illusione, mentre lo spirito quella sì che è realtà. Ci si ricordava di ciò che si era vissuto nei mondi spirituali prima di nascere e mentre si era in vita c’era una connessione, c’era proprio un ricevere le ispirazioni – un comunicare con gli angeli, con i morti, con tutti gli esseri divini che ci possiamo immaginare.

Che cos’era la morte? Passare da una stanza all’altra. Dalla stanza di questo mondo, alla stanza dell’altro mondo. Quando una persona lascia la stanza dove siamo e va di là, in un’altra stanza, è morta? No, è andata di là, e se le vado dietro la vedo che è di là. Quindi per una umanità per la quale il mondo spirituale era una realtà, non esisteva la morte. La morte era come passare da una stanza all’altra, da un mondo all’altro, ma niente moriva dell’essere umano: “È andato di là. E se tu vai di là, anche tu parli con lui”.Il primo grande documento, la grande epopea dei Babilonesi, degli Assi-ri, dove la morte diventa una realtà per la psiche umana, per la coscienza umana, è l’Epopea di Gilgamesh. In questa epopea, sorta circa tremila anni prima di Cristo, abbiamo per la prima volta il problema della morte. Per la prima volta questo Gilgamesh, a cui è morto il caro amico Enkidu, non è più capace di andare nella stanza di là e continuare a parlare con lui: no, il suo amico Enkidu è sparito. Nell’epopea di Gilgamesh c’è questa soglia del divenire dove nasce la morte, cioè nasce l’esperienza che quan-do di un essere umano sparisce la realtà fi sica, non c’è più nulla.

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Mille, duemila anni prima di Gilgamesh se fosse morto un amico, non sarebbe successo nulla perché si sarebbe potuto parlare con il mor-to, se ne sarebbero sentite le ispirazioni, si sarebbe conversato con lui. Ci si sarebbe detti: “Prima parlavo con una persona che era nel corpo, adesso parlo con la stessa persona che si trova fuori dal corpo, ma non è cambiato nulla; questa persona ha solo cambiato stanza – ha lasciato la stanza di questo mondo ed è entrato nella stanza dell’altro mondo, ma se io posso parlare con lui anche nella stanza dell’altro mondo, non è successo nulla, ha soltanto cambiato stanza”. La morte è nata, è sorta cioè l’esperienza della morte dove tutto sparisce, nella misura in cui l’umanità si è identifi cata sempre di più con il mondo materiale.

L’undicesima tavola dell’epopea di Gilgamesh narra di Utnapishtim, il grande iniziato dei tempi precedenti il grande diluvio, i tempi dell’isola Atlantide di cui parla anche Platone. Gilgamesh va da questo grande iniziato per farsi dire i misteri della morte, ma ormai Gilgamesh è il primo essere umano diventato incapace di cogliere come reale ciò che non è incarnato, ciò che non si esprime attraverso un corpo fi sico. E quindi anche questa iniziazione che provò, non riuscì, sortì solo un mezzo effetto che poi gli sparì quando tornò a Uruk.

Uruk, questa grande città dell’Iraq di oggi, mi fa pensare tra l’altro, con grande rammarico, a quanti e quali documenti della nostra civiltà umana siano stati distrutti in questa guerra, ma questa è soltanto una rifl essione a latere1.L’Apocalisse di Giovanni, l’ultimo libro della Bibbia ebraico-cristiana, parla del sorgere, del nascere della morte, nell’immagine di quattro ca-valli. Il cavallo è un simbolo delle forze pensanti della coscienza, della co-noscenza. Pensiamo al cavallo di Troia: i greci, popolo “nano” che vince i persiani, “un gigante”, attraverso l’astuzia. Il cavallo di Troia è l’astuzia. Il

1 L’autore si riferisce alla cosiddetta “guerra preventiva” scagliata dagli Stati Uniti e i suoi alleati contro l’Iraq di Saddam Hussein nel periodo in cui queste conferenze si sono svolte (l’invasione dell’Iraq iniziò il 20 marzo 2003). Durante questa guerra sono

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nano vince nelle fi abe il gigante perché è astuto: quello ha un grosso pez-zo di materia, ma gli manca il sale nella zucca, invece il nano ne ha di sale nella testa. Davide è piccolo, ma ha pensieri giusti, Golia è grosso, è un pezzo di materia che non fi nisce più, però la materia è peritura, mentre i pensieri (lo spirito) non sono perituri.

Nell’Apocalisse si presentano quattro cavalli: sono quattro stadi di na-scita della morte, il modo in cui l’esperienza della morte è nata nell’uma-nità.

• Primo cavallo (bianco) cioè prima esperienza di coscienza: erano i primordi dell’umanità dove la saggezza, i pensieri dell’umanità, erano intrisi di sapienza divina. Il pensiero umano pensava ciò che è spirituale;

• secondo cavallo (rosso): c’è già un’interazione tra spirito e mate-ria; “rosso” vuol dire che la coscienza umana non è più così bianca da cogliere la realtà dello spirituale ma comincia a vi-vere il rapporto tra ciò che è materiale e ciò che è spirituale.

• Terzo cavallo (nero): è la coscienza umana che vede reale sol-tanto il mondo fi sico. C’è di peggio:

• Quarto cavallo (incolore): è il pensare umano che non ha più neanche la realtà del mondo fi sico ed è divenuto pura astra-zione. Su questo cavallo dove la coscienza umana, il pensare umano, la conoscenza, ha perso ogni realtà, anche quella del mondo materiale, su questo cavallo cavalca il cavaliere che si chiama “la morte”. Perché un essere umano che nella sua coscienza, nei suoi pensieri, nella sua conoscenza, non ha né la realtà del mondo spirituale, né la realtà dell’in-terazione tra mondo spirituale e mondo materiale, ed infi ne non ha neanche la realtà del mondo materiale ma soltanto astrazioni, che sono nulla, cos’è questo essere umano? Morto. Vive da morto.

stati distrutti tesori d’arte e di storia inestimabili e saccheggiato il museo archeologico di Bagdad. Il Museo che conteneva preziosissimi reperti e pezzi unici di epoca sumera, assiro-babilonese, persiana, sassanide e islamica. (N.d.R)

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Gli atteggiamenti fondamentali della libertà umana di fronte alla morte – e dicevo che ognuno di noi ha la massima libertà nel pren-dere posizione di fronte alla morte – si possono riassumere in quat-tro. Quattro prese di posizione fondamentali:

1. Chi la ignora, non ci pensa, ma la morte si fa sentire; co-lui che ignora la morte, ignora tanto attorno a sé perché la morte c’è, la morte viene vissuta; per ignorare la morte bisogna mettere da parte tanto dell’umano.

2. In secondo luogo c’è chi respinge la morte: non soltan-to la ignora ma la respinge, la rifi uta, la vede tutta nega-tiva e si riempie di aggressività; si riempie lui stesso di negatività perché la morte c’è dappertutto. Siccome la morte c’è dappertutto, colui che vede la morte soltanto negativa, riempie se stesso di negatività;

3. Terza presa di posizione fondamentale: c’è chi si ras-segna di fronte alla morte e la tollera, l’accetta a denti stretti, la vive come un fato che gli viene imposto, come la legge del più forte. La morte vissuta, subita come im-posizione, è un vivere da rassegnati che tanto viviamo in un mondo dove vige la legge del più forte. Potrem-mo aggiungere che chi si rassegna di fronte alla morte si pone in un atteggiamento maggiormente depressivo, mentre chi rifi uta la morte si pone in un atteggiamento in maggior misura aggressivo.

4. Il quarto modo fondamentale di porsi di fronte alla morte è che c’è chi la ama (e di questo parlerò di più domani), che è grato, che è riconoscente per ogni oc-casione di morte perché sa che ogni morte è il luogo privilegiato per trasformare ogni morte in una vita.

Vedremo domani e dopodomani, adesso lo voglio soltanto accen-nare, che il conforto più convincente nei confronti della morte è una conoscenza oggettiva di ciò che avviene nei mondi invisibili soprattutto dopo la morte.

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Faccio due piccoli accenni, due piccoli esempi di ciò: contributi che sono possibili grazie ad una scienza dello spirituale. Molti di voi sanno – a chi non lo sa lo dico già questa sera – che ciò che io dico di positivo riguardo alla morte lo attingo in modo particolare dalla scienza dello spirito di Rudolf Steiner, però per noi, qui, quello che viene detto, viene offerto al pensiero e ci prendiamo la libertà di parlarne apertamente e di dire la nostra.

Vivere con i morti signifi ca prima di tutto conoscere oggettiva-mente i mondi in cui i morti vivono, e poi conoscere oggettiva-mente le esperienze che fanno i morti oltre la soglia della morte. Ecco qui di seguito due esempi concreti di contributi della scienza dello spirito di Steiner.

Il primo riguarda Raffaello Santi, il grande pittore, che perde undicenne il padre. Raffaello ha avuto, ha tuttora e avrà sull’uma-nità un infl usso enorme con la sua arte: pensiamo a cosa hanno vissuto tanti esseri umani meditando, guardando, contemplando i quadri di questo grande artista.

Steiner – e coloro di voi che lo conoscono sanno che Steiner non inventa nulla – descrive soltanto cose osservate, percepite nei mondi spirituali. Egli racconta che uno dei motivi fondamentali per cui il padre del grande artista morì quando Raffaello aveva solo undici anni è che, dopo la morte, questo padre, che tra l’altro era anch’egli un pittore, ha avuto la possibilità di ispirare in un modo decisivo tutta l’opera d’arte di Raffaello – cosa che non avrebbe potuto fare se fosse rimasto in vita.

In altre parole, noi non avremmo l’opera di Raffaello – o non l’avremmo in questa profondità feconda per l’umanità – se non ci fosse stato il sacrifi cio, e qui parliamo di un sacrifi cio conscio, dell’Io superiore del papà di Raffaello, che ha scelto la morte in quel giorno e in quel modo. Uno dei signifi cati, di sicuro non il solo, ma uno dei signifi cati fondamentali di questa morte e del fatto che Raffaello ha perso il papà da bambino piccolo a undici

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anni, è che solo in questo modo, solo un padre oltre la soglia della morte, gli poteva dare le ispirazioni, che magari Raffaello ha rice-vuto nell’inconscio, subconscio, se volete, e che hanno permesso a Raffaello di diventare il pittore che è diventato.

Vista così la cosa, il perdere il padre in tenera età acquista un tutt’altro signifi cato. Però bisogna vederla così e ciò presuppone che si conosca l’oggettività di questo operare del padre di Raffael-lo. Un operare reso possibile soltanto dall’aver lasciato le strettoie del corpo fi sico che costringono anche ad una somma infi nita di egoismo o di chiusura della coscienza.

L’altro esempio è quello di una morte improvvisa, violenta, per incidente: una morte causata da fattori esterni. Uno dei signifi cati più importanti di una morte improvvisa e violenta è che rafforza per natura in un modo straordinario la coscienza dell’io. Quindi, se le cose sono così, possiamo partire dal presupposto che ci sono Io superiori che scelgono liberamente – forse in vista di una missione, di un contributo da dare all’umanità in tempi successivi –, scelgono di morire in contesti di morte violenta proprio per rafforzare la coscienza dell’io in modo tale da permettere, forse in tempi suc-cessivi, una missione, un compito da svolgere nell’umanità.

Dibattito Intervento. Mi sembra che lei abbia messo in evidenza che la paura della morte sia un aspetto negativo. Ora, a un aspetto negativo si contrappone in genere anche un aspetto positivo: non ritie-ne che la paura della morte sia la chiave di volta per l’evoluzio-ne dell’umanità? Cioè è questa paura che fa evolvere l’umanità, perché quando l’uomo aveva una conoscenza atavica non aveva bisogno di religione e non aveva paura della morte, ma non era assolutamente libero individualmente. Per diventare libero indi-

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vidualmente devi avere paura della morte, perché senza questa l’evoluzione dell’umanità non dico che si fermerebbe, ma sicura-mente rallenterebbe. Non è d’accordo con quanto dico?

Archiati. Qualcuno vuole ricamare su questa domanda prima che io intervenga?

Intervento. Io avevo proprio preparato una domanda simile: per-ché questo mistero? Perché noi non sappiamo? La risposta ap-punto poteva essere: perché se noi sapessimo tutto quello che avviene dopo la morte, conoscessimo i mondi spirituali, non sa-remmo più liberi di scegliere di fronte al bene e al male, cioè è per conquistare una forma di libertà, essere liberi di fronte a una scelta. Perché questo mistero? Perché non sapere, che è tanto an-goscioso per noi?

Archiati. Di fronte a domande così fondamentali forse l’assem-blea non gradisce che io tenga un’altra conferenza, la prima basta! Quindi sono costretto a sintetizzare, e allora il tutto dovrà avere un certo aspetto oracolare. Lascio al pensatoio di ognuno svilup-pare ciò che dirò.

La paura di fronte alla morte è conseguenza necessaria di un oscuramento di coscienza che vede reale solo il mondo sensibile, e non conosce il cosiddetto mondo spirituale. Questo oscuramen-to di coscienza è stato chiamato dalle religioni – quella cristiana per esempio – la caduta dell’umanità. Ora, che l’umanità prima fosse inserita nel mondo spirituale e poi sia caduta giù nel mondo ma-teriale, è un fenomeno complessissimo che abbraccia tanti millen-ni. La sua domanda, che è una delle domande fondamentali, una delle sfi de fondamentali al pensare umano, è: la caduta, l’oscura-mento della coscienza umana – vedi i cavalli dell’Apocalisse che rappresentano la coscienza che si è sempre più oscurata: prima il cavallo bianco, poi rosso, nero ed infi ne neanche più nero – avve-nuto nei millenni con conseguente ed inevitabile paura, è un bene

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o un male? Né l’uno né l’altro! È una necessità evolutiva, e questa risposta è importantissima. La caduta è il presupposto perché ci sia l’evoluzione. Ora qualcosa che è necessario per l’evoluzione non è né buono né cattivo: è necessario.

Quindi la categoria metafi sica del necessario è pre-morale, non è né buona né cattiva. Come la libertà umana la afferra, come la vive, sarà buono o non buono per l’essere umano. In che cosa consiste questa necessità? Che se noi non avessimo la caduta, se noi non avessimo l’oscuramento di coscienza, se noi non avessi-mo questa paura, se non avessimo l’egoismo, non avremmo nulla da fare e non ci sarebbe evoluzione. Quindi il senso della caduta era necessario se vogliamo che ci sia evoluzione. Lei ha espresso il pensiero che se noi vincessimo la paura della morte non avrem-mo più nulla da fare. Il senso è che per vincere ogni frammento di paura della morte sarà necessario tutto il resto dell’evoluzione, che abbraccia millenni. Quindi non ha bisogno di vincere in cin-que giorni la paura della morte. La paura della morte non è mo-ralmente né bene né male: è inevitabile, necessaria.

Intervento. Lei ha detto prima, a proposito del suicidio, che deci-dere la data della propria morte è un segno di grande libertà, cioè chi mette in atto il suicidio è una persona che si sente molto libera dentro...

Archiati. Ho detto questo?Pubblico. Nooooo!Intervento. Non che si sente libero, che è una persona che anela

ad una libertà… non so se ho capito bene. Vorrei che mi preci-sasse il fatto della libertà. Lei ha usato questo termine: libertà. Io volevo capire se il suicida ha paura della morte, e quindi la vince determinando il giorno, l’ora ed il modo in cui morire, se è così che supera questa paura e come la supera?

E poi la seconda domanda: mi è sembrato di capire dalle sue pa-role che mentre nel cattolicesimo e in molte religioni il suicidio è

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condannato come un fatto molto negativo – si dice che nell’aldilà questi suicidi saranno puniti per questo loro atto di presunzione – mi è sembrato di capire, ma non so se ho capito male, che invece lei dicesse che non è tutto così, non è tutto come appare …

Archiati. Affronteremo domani questo problema del suicidio, perché è veramente molto complesso. Se lei non ha la pazienza di aspettare fi no a domani c’è un libricino2 su Giuda, il grande suicida, il quale dice al Padre Eterno: “La vita mi era diventata insoppor-tabile, e allora me la sono tolta”. Supponiamo che adesso, dopo la morte, si dica: “No, no, ho fatto un grosso sbaglio! Ma lo vedo soltanto adesso … e Tu sei così tirchio da non darmi neanche una seconda possibilità? Non sei Tu il Dio dell’Amore?”. Il suicidio è la fatica che l’uomo fa ad accettare il morire quotidiano. Il mo-rire quotidiano diventa insopportabile, perché la vita è diventata troppo vuota. Nella fase del materialismo il senso della vita è di-ventato così sottile che tante persone non hanno più la voglia di vivere. Ora, vivere senza voglia di vivere, perché la vita non ha senso, diventa così insopportabile che uno vuole terminare que-sto insostenibile dolore di una vita insensata. E poi dopo la morte il suicida fa una scoperta: “Ma guarda, la vita riceve senso soltanto nella misura in cui tu glielo dai”. Perché la vita dell’umanità d’oggi ha perso il senso? Per darci la possibilità di trovarlo noi, di dar-glielo noi, il senso.

Intervento. Durante l’esposizione lei ha fatto un’affermazione un po’ forte, che la morte è nulla. Se la morte è nulla, e di solito la morte è l’opposto della vita, allora le volevo chiedere: che cos’è la vita? E poi se ci sono due esseri, o almeno lei ha detto che ce ne sono diversi, ma due sono in particolare gli esseri (l’Io superiore e l’Io dell’umanità) che decidono il momento della morte, signifi ca

2 Paolo Agnello – Pietro Archiati: Giuda Ritorna. L’abisso come possibilità di risalita – co-noscere e amare il dramma umano. Archiati Edizioni, Cumiana.

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che questi due esseri sanno qualcosa che l’io ordinario non sa, e quindi che la vita ha un compito. Come si fa ad avere coscienza della vita e a sapere qual è il compito da svolgere, per rendere il la-voro dell’Io superiore e dell’Io dell’umanità un po’ più semplice?

Archiati. Qualcuno vuole spiegarmi la domanda ricamandoci un pochino, variandola un po’? Perché non sono sicuro di aver capito bene la domanda...

Intervento. Non so se ho capito bene io, però io vorrei sapere se noi in vita possiamo avere la coscienza dell’Io superiore. Forse è quello che chiedeva...cioè quali sono gli strumenti? Oppure l’Io superiore lo conosceremo soltanto dopo la morte, guardando in-dietro? Credo che questa sia una parte della sua domanda, non è tutta.

Intervento Allora la prima domanda era: visto che ha dato una spiegazione di cos’è la morte, cos’è la vita? Mentre la seconda do-manda chiedeva: visto che ci sono degli esseri che nella nostra vita decidono il momento in cui dobbiamo morire, signifi ca che c’è un motivo per cui uno muore. Quindi qual è l’obiettivo della vita?

Archiati. Quello che intendevo dire è che noi viviamo sempre e quindi c’è un modo di vivere che noi chiamiamo vita e c’è un altro modo di vivere che noi chiamiamo morte. Ma non esiste mai un momento in cui noi non viviamo. Noi per morte intendiamo che terminiamo di vivere, e questo non esiste. Ecco il nulla! Non esiste. È un’illusione che una persona che lascia il corpo fi sico termina di vivere. No, vive ancora meglio!

Intervento. Quindi non esiste nemmeno la nascita.Archiati. Sarà la conferenza di domani sera. Se siamo immortali

allora siamo anche innatali. Io questa sera volevo soltanto accen-nare alla problematica per stuzzicare un po’ l’appetito. Quindi ho detto alcune cose in modo un po’ provocatorio. La morte è il nulla, perché non esiste che uno spirito umano termini di vivere. Non esiste! Vive in un altro modo. Noi per morte intendiamo che

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fi nisce di vivere: no, non esiste questo. In altre parole, la morte è un’invenzione di menti bacate, questo volevo dire. Basta che fi ni-scano di essere bacate e poi la morte non c’è.

Intervento. Visto che ci sono l’Io superiore e l’Io dell’umanità che decidono il momento in cui è giusto che avvenga la morte della persona, come faccio io a fare in modo che l’Io superiore e l’Io dell’umanità compiano in maniera giusta il destino? Cioè, durante la vita della persona c’è un percorso, c’è un qualcosa da compiere. Come faccio io a sapere cos’è?

Archiati. Sono domande molto grosse. Un piccolo accenno: come faccio io a sapere cosa pensa, cosa vuole il mio Io superiore, ciò che i cristiani chiamano il Cristo? Basta che ponga attenzione a ciò che mi capita, perché nella mia vita c’è ciò che io voglio e ciò che mi capita. Ciò che io voglio lo gestisco con l’arbitrio della co-scienza ordinaria, mentre ciò che mi capita non sono io a gestirlo. Chi lo gestisce? Questo signorino. L’affermazione fondamentale, che però non è da prendere come un dogma, ma bisogna lavo-rarci con il pensiero, è che ciò che mi capita è molto più saggio ed è sempre il meglio per me perché viene scelto e deciso da una coscienza più saggia, più amante, più vasta, che non quella dell’io ordinario. Essere d’accordo con l’Io superiore signifi ca essere sempre d’accordo con ciò che mi capita. Di meglio non si può.

Intervento. Volevo estendere questa domanda. Siccome ci sono almeno due esseri che sanno meglio di noi che cosa è meglio per noi, rifacendomi a ciò che diceva durante la conferenza sui cosid-detti “effetti collaterali” della guerra in corso, logicamente allora dovremmo esser molto contenti: più ne ammazzano, meglio è, perché l’Io superiore dell’umanità è saggio e sa meglio di noi cosa è meglio per noi… (ilarità in sala). Voglio dire che secondo questa logica qui, se questi due esseri conoscono il miglior percorso per tutti noi e permettono che migliaia di esseri umani vengano uccisi nelle guerre, signifi ca che fanno bene…?

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Archiati. È una domanda importante, riduciamola a una situa-zione più semplice – due persone vivono insieme e uno, il signor “A”, dice a “B”: “Io sono quello che ti capita”.

Lei ha fatto un sillogismo aristotelico: siccome ciò che ti capita è sempre la cosa migliore per te, io che faccio parte di ciò che ti capita sono sempre la cosa migliore per te (ilarità in sala).

Beh!? funziona il sillogismo? No, perché? Dov’è lo sbaglio?Intervento. “A” dice questo con la sua coscienza ordinaria; in re-

altà quello che capita fa parte, deriva, dall’Io superiore e dall’Io dell’umanità. Secondo questa logica “A” è solo lo strumento di quello che accade a “B”.

Archiati. Però quello che fa “A” per “B” è sempre ciò che è il meglio per “B”...

Intervento. Secondo quella logica sì: quando “A” diventa lo stru-mento di quello che accade a “B”, che è il meglio per “B”.

Archiati. Attenzione, ora faccio una complicazione del sillogismo aristotelico. Mettiamo che “A” sia un arciegoista; il fatto che “B” sia esposto a questo egoismo fa parte del karma di “B”, e gli sta bene. Perché se per “B” non fosse una buona cosa, una buona occasione di crescita, essere esposto a questo egoismo, non gli capiterebbe. Il fatto che questo egoismo possa essere un fattore evolutivo per “B” non signifi ca che “A” fa bene ad essere egoista – questa è un’altra questione.

In altre parole, abbiamo a che fare con una sapienza evolutiva che ha la forza di trasformare in bene anche il male. “Tu mi tratti da egoista? Da arciegoista? Problema tuo! Perché deve essere un problema mio?”. Si potrebbe dire: “Ma quello mi sfrutta!”. Basta che io mi goda il fatto che mi sta sfruttando. È possibile godere dell’essere sfruttati?

Intervento. Ma quando si parla di guerra, si parla del momento della morte di alcuni individui e di quel momento supremo che secondo questa logica è stabilito sia dall’Io superiore che dall’Io

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dell’umanità e che perciò non è accidentale…Archiati. Sì, però l’Io superiore e l’Io dell’umanità hanno sempre

a che fare con l’arbitrio intriso di egoismo dell’io inferiore. Due-mila anni fa cosa è successo? Adesso non parlo del Cristianesimo tradizionale, parlo dell’essenza del fenomeno di duemila anni fa. Il fenomeno di duemila anni è il fenomeno archetipico dell’umano. Perché, l’uccisione della persona migliore che c’era… è stato un bene o un male?

Intervento. …un bene! Ne parlano da duemila anni.Archiati. È stato un bene o un male? (rumore in sala)Inevitabile! Necessario! É importante vedere che il bene e il male

morale subentrano soltanto dove c’è la libertà. Dove non c’è la li-bertà siamo nel pre-morale. Quindi la situazione dell’umanità, la co-scienza dell’umanità erano a un punto di oscuramento tale che era inevitabile che Lui venisse messo a morte. Lui cosa ne ha fatto di questa morte? S’è arrabbiato? Ha ricambiato picchiando qualcuno?

Intervento. L’ha trasformata.Archiati. E come? Che signifi ca “l’ha trasformata”?Intervento L’ha trasformata in bene.Archiati. E che signifi ca “l’ha trasformata in bene”?Intervento. Ha dimostrato che la morte non esiste.Archiati. Ah, questo mi piace un po’ di più. Ha dimostrato che la

morte è nulla. Nulla! Però qui qualcuno può dire: “Beh, questo a me non dice niente”. Questo tizio, duemila anni fa, cosa ha fatto? Cerchiamo di articolare un pochino il discorso.

Intervento. È risorto.Archiati. Non mi dice nulla “ È risorto”!Intervento. Come fa a dire che non le dice nulla che è risorto?Archiati. Se fossi in Germania magari direi: sì, mi dice qualcosa.

Ma in Italia, dove per secoli ci hanno costretti ad essere cristiani per forza, beh… Diamo anche la possibilità agli esseri umani che dicono: “Basta, con ‘sta risurrezione!”. È una faccenda psicologica,

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mi metto nei panni di tanta gente di qui. O mi sono sbagliato? (molte persone rispondono di no in sala).

La categoria “risurrezione” va tradotta, altrimenti per la mag-gior parte delle persone è aria fritta. “Ha redento l’umanità”. “Re-denzione”: che vuol dire? Redenzione non mi dice nulla.

Intervento. Ha seminato l’amore nell’umanità.Archiati. E che amore è? Le mie risposte sono per farci vedere

che noi siamo agli inizi di un certo livello di coltivazione di co-scienza. Abbiamo soltanto frasi fatte, abbiamo soltanto slogan. Ora vi chiedo di articolarmi minimamente il pensiero: che cosa signifi ca redenzione?

Intervento. Secondo me la vita e la morte sono molto più in mano all’uomo di quanto sostenga lei, nel senso che uno può uccidersi veramente. Oggi come oggi poi abbiamo mille mezzi e ognuno può essere padrone di togliersi la vita. Personalmente non mi ri-conosco in questa sua idea che ci sia qualcuno e che noi non de-cidiamo la nostra vita, ecco...

Archiati. Lei lo sa quanto dura?Intervento. No, ma posso infl uire sicuramente sul momento in cui

muoio, posso infl uire in maniera decisiva sul momento in cui mo-rirò. Secondo me sì, ho questa consapevolezza, potrebbe essere pure presunzione....

Archiati. Ho una proposta: tutti i problemi che non sono stati risolti questa sera verranno risolti domani o come minimo dopo-domani, intanto auguro una buona notte a tutti!

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COME VIVONO I MORTI?Il dopo morte passo dopo passo

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Cari amici, questa mattina dedichiamo i nostri pensieri a come vivono i morti. Già l’enunciato iniziale è un paradosso, perché li chiamiamo mor-ti, li consideriamo morti e stamattina io devo raccontarvi come vivono questi morti. Addirittura ho promesso nel programma di descrivere il dopo-morte passo dopo passo, tant’è vero che qual-cuno ha chiesto se ci sarà qualche voce registrata di trapassati da ascoltare...

Partirei da alcune rifl essioni già fatte ieri sul grande mistero del suicidio e cioè sul fatto che alcune persone decidono di porre termine alla propria vita. Nessuno di noi che siamo ancora in vita sa cosa passa una persona che si è tolta la vita, perché noi l’espe-rienza di essercela tolta non l’abbiamo fatta.

Però c’è un risvolto del suicidio che è quotidiano, e a me in-teressa prendere proprio questo aspetto quotidiano: i pensieri di suicidio. In vari paesi sono state fatte delle inchieste su quante persone hanno avuto durante la loro esistenza il pensiero di to-gliersi la vita. Si è scoperto che il numero di coloro che pensano di porre fi ne alla propria vita, però poi non lo fanno, è molto alto. Sono molte le persone a cui frulla per testa – anche in gioventù, e non soltanto una volta, ma diverse volte – il pensiero: “Ma no, ma questa vita è così brutta, così pesante, così tetra, così misera… sarebbe proprio meglio andare all’altro mondo!” Visto che qui le cose vanno così male, e siccome non si sa nulla dell’altro mondo, non si può che pensare che di là non possano che andar meglio. Però poi uno non si suicida, perché per togliersi veramente la vita ce ne vogliono, di decisioni e di forze.

Questo risvolto quotidiano del suicidio, questo suicidio laten-te, questi pensieri di suicidio, si riconducono alla mancanza della voglia di vivere. Questo è il suicidio quotidiano. Quindi penso sia molto importante, per affrontare più concretamente il mistero della morte, chiederci come mai tante persone oggi non hanno

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più di tanto voglia di vivere. Perché la cosa più bella della vita, ciò che rende più vivaci, più viventi, è proprio la voglia di vivere. Però la voglia di vivere presuppone che la vita venga vissuta come qualcosa di bello, pieno di signifi cato, pieno di conquiste, con tante mete da raggiungere. Potremmo chiederci allora: come mai tante persone oggi vivono senza una particolare voglia di vivere, così alla giornata?

Il fatto di non aver più di tanto voglia di vivere è una cosa molto bella, perché se la voglia di vivere me la dà la spontaneità, me la dà la natura, non ho la possibilità di conquistarmela io liberamente, individualmente. Allora un’umanità che riceve sempre più forze – e per umanità intendo ognuno di noi, ogni singolo – diventa sempre più capace di non ricevere per natura il senso della vita.

Questa è un’umanità più matura, a cui si può chiedere di più, per-ché ha la capacità di conquistarsi il senso della vita proprio perché non ce l’ha già in partenza, non ce l’ha per grazia ricevuta. Quindi è una gran bella cosa non aver voglia di vivere, perché non avendo voglia di vivere ho la possibilità di farmela venire, la voglia. E farsi venire la voglia di vivere è molto meglio che averla. C’è più gusto a farsi venire, a riconquistarsi ogni giorno la voglia di vivere, anziché averla come ce l’hanno il cagnolino o il gattino. Il cagnolino e il gat-tino hanno la voglia di vivere, non ci possono far nulla, perché gliela dà la natura. Invece l’essere umano è libero, proprio perché man mano che diventa maturo (e più diventa maturo più ha forze pro-prie), la natura gli tira via quella voglia di vivere che dà spontanea-mente, affi nché se la conquisti lui a modo suo giorno per giorno, e ognuno a modo suo. Quindi, ripeto, c’è qualcosa di meglio che aver voglia di vivere, ed è: conquistarsi giorno per giorno la gioia di vivere. Perché una voglia di vivere conquistata è più forte, più micidiale, molto più irresistibile. Una persona che si conquista ogni giorno la voglia di vivere perché riconquista i valori dell’esistenza, riconquista ideali e li fa propri, questa persona non la ferma nessuno.

Però si può anche omettere di conquistare questa voglia di vive-

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re, visto che non la dà la natura. Il suicidio quotidiano – la man-canza della voglia di vivere, il vuoto esistenziale – è un’omissione della libertà. È l’omissione di una libertà possibile proprio perché l’uomo e la donna d’oggi avrebbero la possibilità – e sempre di più man mano che si va avanti – di conquistarsi la voglia di vivere liberamente ed individualmente. Se uno non ha voglia di vivere è perché ha omesso qualcosa, ed ha omesso qualcosa che è libero di creare o non creare. In altre parole, più l’umanità va avanti e meno avranno voglia di vivere tutti coloro che non si conquistano individualmente e liberamente la voglia di vivere.

Parlo della voglia di vivere per evitare ogni moralismo, perché la predica del devi, devi, devi l’abbiamo sentita nel Cristianesimo tradizio-nale almeno da duemila anni, e quali sono i risultati? Miserelli. Quindi il devi non funziona: l’essere umano non è stato creato per dovere qual-cosa. Il valore morale più alto non è il dovere, è la gioia. Però la gio-ia la si sente soltanto facendo l’esperienza del proprio essere. Allora tutto sta a capire sempre meglio che cosa mi fa fare l’esperienza della pienezza dell’umano, perché lì sento la gioia. Quindi il valore morale supremo non è un comandamento, un dovere, un sottomettersi, es-sere un animale che sottostà alla legge: il valore supremo è l’uomo. Ci può essere un valore morale più grande dell’uomo? Però non l’uomo decurtato, non un mezzo o un terzo, ma l’uomo nella sua pienezza. Nella pienezza di ciò che può vivere nel suo pensiero, nel suo cuore, nelle sue azioni, nel modo di interagire non soltanto con gli altri esseri umani, ma con la natura e con tutti gli esseri attorno a lui.

Gli sforzi che faremo questa mattina saranno sforzi tesi a riconqui-starci certi concetti a partire dalla libertà individuale, quindi a partire non soltanto da quello che ci è stato tramandato, ma dalla capacità del pensiero, dell’amore – perché quando io parlo del pensiero non intendo mai un pensiero avulso dal cuore. Il pensiero vero, il pensiero che rende felice l’essere umano è un pensiero intriso di gioia, intriso di forze del cuore.

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I due peccati originali dell’essere umano sono una mente che perde di vista il cuore, e il cuore senza la mente. Mi piace che in italiano, a differenza del tedesco, c’è la possibilità di dire: “Pecca-to!” con un bel punto esclamativo. Peccato! Con il punto esclama-tivo signifi ca: “Peccato! Avevo un’occasione, avrei potuto farmi una bella mangiata, avrei potuto incontrare una persona, peccato! Sono arrivato in ritardo: peccato! Non è successo!”. In italiano il peccato con il punto esclamativo sono i colpi persi della vita, altri peccati non esistono. Non esistono! I peccati veri sono i colpi persi.

Il discorso di oggi sarà di chiederci come si fa a vivere perdendo sempre meno colpi, perché meno colpi si perdono e più la vita è interessante, più la vita è bella. I colpi che si perdono sono i colpi della testa: quando si scopre, si pensa, si intuisce meno di quello che si potrebbe intuire. “Peccato! Se l’avessi capito prima! Peccato! Non ci ho pensato”. E allora, datti da fare: coltiva il tuo pensiero. Perché è un peccato non coltivare la testa? Dov’è il pec-cato per una persona che non coltiva la sua testa, il suo pensiero? Che gli altri pensano al posto suo. A voi va bene che altri pensino al posto vostro? È un peccato? È un peccato se faccio pensare gli altri al posto mio? Perché non va bene? È più comodo far pensare gli altri al posto mio?

Non va bene perché se io faccio pensare gli altri al posto mio sono abbindolabile su tutta la linea. Questo è il peccato: sono manipolabile, sono esposto. Non mi faccio abbindolare, non mi faccio strumentalizzare soltanto se penso con la testa mia, se mi faccio idee mie e dico: “Questo sì, questo mi sta bene; questo no, datti una calmata, no, no, no”. Però questa presa di posizione presup-pone una mente mia. Pensiero e intuizione del cuore devono andare insieme, per perdere meno colpi possibile nella testa e nel cuore.

Stavo parlando dei due grossi peccati: un grosso peccato è la mente che perde di vista il cuore, che va per conto suo senza

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il cuore, e l’altro grande peccato è il cuore senza la mente. Mi sembra di dire delle verità così lapalissiane che mi sto annoiando. Sembrano verità lapalissiane, ma se uno si rendesse conto delle conseguenze enormi nella vita, se si rendesse conto di quale pec-cato sia avere una mente che pensa, pensa, pensa senza cuore: come fai a goderti la vita? E se hai un cuore, un brodo di giuggiole che non fi nisce più, ma senza un minimo di comprendonio… santa pace! Come si fa con quella persona lì? Che piange, che ride… ma la mente?

Quindi evitare il peccato signifi ca coltivare tutte e due queste di-mensioni dell’umano: rendere il pensiero sempre più caldo, sem-pre più amante, sempre più intuitivo, e rendere il cuore sempre più luminoso, sempre più saggio. Non amare a vanvera, ma amare a ragion veduta.

Allora vi racconto tutto quello che ho da dire sul dopo morte: cosa vivono i morti? Non vi dico da dove io traggo queste conoscenze perché se ve lo dico la cosa diventa problematica, diventa rischiosa. Mi riservo di venire aggredito dopo, nella discussione, e allora può darsi che vi dica da dove ho queste conoscenze. Adesso faccio fi nta di sapere tutto ciò che avviene dopo la morte e parlo a gente che non sa nulla di ciò che avviene dopo la morte… siamo d’accordo? Sul secondo punto siamo d’accordo, sul primo chi lo sa? Vedremo.

Ieri il pensiero fondamentale era che la paura della morte giu-stamente consiste nel fatto che noi – e per “noi” intendo l’uomo normale, se qui seduti in sala ci sono degli iniziati stiano zitti, che io parlo a gente normale come me, d’accordo? Non parlo a degli iniziati – non-iniziati, gente comune, ben pensante, conosciamo il mondo visibile, ma del mondo invisibile non sappiamo nulla. Quin-di quando una persona muore, sparisce punto e basta. Questo è il punto di partenza. La paura della morte è il fatto che, secolo per seco-lo, millennio per millennio, l’umanità, la coscienza umana si è sentita

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sempre più a casa nel visibile (e lo vediamo bene: ciò che vediamo, ciò che sentiamo, ciò che tocchiamo, ciò che mangiamo, ecc.), perché lo spirituale prima di tutto va a sapere se c’è, e in secondo luogo, che mi interessa, se non lo posso né mangiare, né bere, né...? Insomma, l’invisibile non ci dice nulla. Questo è il punto di partenza.

Vorrei partire dall’affermazione fondamentale del Cristianesimo, del-la cultura cristiana che bene o male è la nostra. Anche il linguaggio che noi parliamo è intriso di cosiddetto “Cristianesimo”, benché in Italia sia più diffi cile riferirsi al Cristianesimo che non in Germania. In Germa-nia uno non ha bisogno di scusarsi quando si rifà alla cultura cristiana, mentre in Italia, a causa della storia di questo Paese, c’è bisogno di scu-sarsi quando ci si riferisce ad esso. Allora, visto che voi mi scusate, parto dall’affermazione: duemila anni fa è successo il fenomeno archetipico dell’umano. Questa è l’affermazione fondamentale del Cristianesimo.

I due millenni passati, in fondo, sono stati come un primo inizio, un Cristianesimo infantile, della fede e del cuore. Sono stati un primo inizio perché era un Cristianesimo dove il cuore era molto presente, e non sto parlando di noi, parlo delle generazioni passate. Noi non abbiamo più neanche il cuore cristiano, però quando io penso a mia mamma posso dire che lei era ancora un cuore cristiano. In questo Cristianesimo del cuore (si chiamava Cristianesimo della fede) la mente ancora non c’era: non c’era cioè la capacità di recuperare in chiave di pensiero, di interpretazione pensante, il fenomeno archetipico dell’umano.

Ora ci troviamo ad un punto tale che – siccome la disaffezione col Cristianesimo è diventata bella forte, almeno in Italia – o lo recuperiamo in chiave pulita, di conoscenza, di interpretazione pensante, oppure lo perdiamo, questo Cristianesimo. Allora io, dopo avervi chiesto scusa, di-rei che uno degli aspetti fondamentali di questo fenomeno archetipico è che la morte viene presentata come una spada a doppio taglio (e questo ci fa già insospettire che forse lì ci sia qualcosa da masticare). La spada a doppio taglio sta in ciò che ora vi dirò. Naturalmente io adesso vi dico cose che non trovate tali e quali nel Cristianesimo tradizionale, perché se

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non dicessi nulla di nuovo non sarebbe interessante. Quindi aspettatevi qualcosa di nuovo, però mi riferisco ai testi che ognuno può leggere.

Nel Vangelo di Matteo e di Marco c’è un’affermazione sulla morte dell’essere umano – perché il cosiddetto “Cristo” è l’essere umano per eccellenza. Lasciate perdere tutte le disquisizioni dei teologi, tutti i dogmi che possono essere stati intelligenti o non intelligenti, tanto non abbiamo un rapporto con tutti questi dogmi. L’assunto fondamentale è che questo cosiddetto Cristo o è l’Essere Umano per eccellenza che è in tutti noi, op-pure non mi interessa. A noi cosa interessa? L’essere umano. Eh! Siamo esseri umani mica siamo...

Essere cristiani è più che essere umani? Ma no: ognuno di noi può essere meno che umano, ma nessuno di noi può essere più che umano. Più dell’umano, meglio dell’umano, non c’è! Perché l’umano è il più divino che esista nel nostro mondo. O se vogliamo, l’umano è la potenzialità assoluta a diventare sempre più divini, sempre più creatori, sempre più fantasiosi a tutti i livelli della vita. Questo archetipo dell’umano presenta la morte, vive la morte riassumendo, citando le scritture del giudaismo come preparazione al fenomeno umano. Allora, se voi fate uno studio sui vari manoscritti di Matteo e di Marco, troverete una parola del cosiddetto Cristo in croce che cita la Torah dei giudei, in ebraico naturalmente, e dice: “Elì, Elì, lamà sciavachtani?”3 (כמה אתה הרמת אותי אלוהים אדירי). Viene trascritto con lettere greche, però è una dicitura ebraica che si rifà ai Salmi, che si rifà addirittura a processi di iniziazione. Ma ci sono altri manoscritti che cambiano due lettere e allora la differenza è enorme: “Elì, Elì, lamà asaftanì” (כי אתה נטשת אותי אלוהים אדירי).Nel primo caso – suppongo che qui siate tutti ebraisti – sciavachtani significa innalzare, glorifi care, portare in alto, mentre nel secondo asaftanì signifi ca abbandonare. In altre parole, abbiamo in un caso:

3 Vangelo di Matteo, Cap. 27,46; Vangelo di Marco, Cap. 15,34

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“Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?” e nell’altro: “Mio Dio, mio Dio, quanto mi hai esaltato!” Ho fatto uno stu-dio e ci sono centinaia, migliaia di manoscritti. Alcuni traducono, traslitterano in greco asaftanì, altri sciavachtani. Allora il Cristo cosa ha detto sulla croce morendo: “Mio Dio, mio Dio perché mi hai abbandonato?” o ha detto: “Quanto mi hai esaltato”?

Cos’è la morte? La paura dell’abbandono: “abbandonato, la-sciato” – ecco la paura; oppure la morte è esaltare, innalzare? L’esperienza della morte è duplice: l’elemento umano che noi co-nosciamo è un’esperienza di paura, di solitudine, di abbandono, di venir lasciati soli. Ma nello stesso tempo, nel momento in cui veramente si muore, in cui veramente l’insieme delle forze vitali – che Rudolf Steiner chiama il corpo eterico – lascia il corpo fi sico, c’è veramente un assurgere, un innalzarsi di questo corpo eterico, di queste forze vitali che fi nalmente vengono liberate dal compito che hanno avuto per tutta la vita (di strutturare e di mantenere vivo il corpo fi sico). C’è quindi un innalzarsi, un espandersi di tutte queste forze vitali, di queste forze che sono impregnate della memoria di tutta la vita. In questo corpo eterico infatti ci sono tutte le percezioni, tutti i pensieri, tutte le sensazioni di un’intera vita.

Il Cristo, l’essere umano per eccellenza, fa l’esperienza del-la morte come spada a doppio taglio dell’evoluzione, e lo fa in modo archetipico per tutti noi. Nella misura in cui tu, caro essere umano, ti sei identifi cato – e ciò fa parte della tua libertà, fa parte della libertà di ognuno – in tutto e per tutto con ciò che è mate-riale, con ciò che è fi sico, con ciò che è perituro, farai nella morte l’esperienza di venire abbandonato, di essere lasciato. L’Essere dell’amore non poteva amare l’umanità se non facendo Lui stesso l’esperienza di cosa signifi chi aver vissuto soltanto ciò che è fi sico, non conoscere la realtà dell’animico, del vitale che si innalza e si espande nei recessi infi niti dell’universo – e pertanto l’esperienza

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4 Elisabeth Kübler Ross (Zurigo, 8 Luglio 1926 – Scottsdale, 24 agosto 2004). È stata un medico psichiatra che ha lavorato per molti anni con i malati terminali. In base a queste sue esperienze ha scritto il libro Sulla morte e sul morire che ha fatto di lei una vera esperta dell’argomento. (N.d.R.)

5 Raymond A.Moody (Porterdale,30 giugno 1944) è un medico psicologo e parapsicolo-go statunitense, noto per i suoi studi e ricerche, basati su testimonianze e racconti, sugli stati di premorte. Il suo libro più noto La vita oltre la vita (pubblicato in Usa nel 1975) ha venduto più di 13 milioni di copie nel mondo. (N.d.R.)

di essere soli, di sentirsi abbandonati, la paura di cadere nel nulla. Se non c’è l’esperienza della paura di cadere nel nulla, la morte non è umana abbastanza. Però questa esperienza, questa paura di cadere nel nulla è soltanto un lato della medaglia: la morte è una spada a doppio taglio.

Nella misura in cui l’essere umano, oltre a vivere ciò che è fi sico, ciò che muore, perisce, ciò che termina di essere, nella misura in cui oltre a vivere il perituro – e questo ci tocca, nessuno lo può evitare – si è dato da fare liberamente e si è conquistato qualcosa che non può morire col morire fi sico, vivrà anche l’altro lato della morte, l’altro lato di questa spada a doppio taglio. Il corpo fi sico viene abbandonato, viene lasciato, mentre il corpo eterico, cioè tutte le forze vitali, tutti i pensieri, tutte le percezioni, tutto il pen-sato e anche il vissuto, compare.

Steiner descrive tante volte questo quadro poderoso, immane, di tutta la vita. Pensiamo a persone che si sono occupate dei mi-steri della morte: voi avrete letto Kübler Ross4, Raymond Moody5, au-tori che ci raccontano tante descrizioni, tante esperienze di quasi morte, da dove poi si è ritornati. Oppure di persone che stavano per annegare, persone che sono precipitate giù da un crepaccio ecc., e che descrivono in questo shock vicino alla morte, in questo perico-lo di morte che hanno avuto, come delle immagini velocissime di tutta la vita. In pochi secondi hanno visto tutta la loro vita.

Il morto vive per tre o quattro giorni in questo poderoso qua-

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dro di tutta la sua vita in immagini. Ecco il primo grande passo del dopo-morte: tutta la sua vita si squaderna in immagini davanti a lui. Il tempo degli eventi vissuti uno dopo l’altro si trasforma in spazio. Ciò che la memoria quand’ero in vita mi faceva ricordare, mi faceva riportare al cuore (questo signifi ca ri-cor-dare), adesso lo vedo. Ciò che ho vissuto dieci anni fa è soltanto un pochino più lontano, e quel che ho vissuto undici anni fa è ancora un po’ più lontano, ma lo vedo contemporaneamente. In altre parole la vita estesa nel tempo, la vita delle cose una dopo l’altra diventa un panorama simultaneo.

La prima esperienza del morto, per due o tre giorni, è la simul-taneità della sua vita vissuta nel tempo. Ora tutto è simultaneo, come in un panorama; solo che ciò che ha vissuto un anno fa lo vede più vicino e ciò che ha vissuto vent’anni fa lo vede più lontano, ma vede tutto simultaneamente. É una cosa straordinaria avere questo sguardo d’insieme! Ognuno vive in questo quadro simultaneo della sua vita tanto quanto riuscirebbe da vivo a re-stare sveglio senza strapiombare addormentato: circa tre giorni e mezzo. Proprio per questo nell’umanità c’è l’uso di aspettare tre giorni e mezzo prima di seppellire, in modo da poter accompa-gnare la persona che apparentemente è morta, ma che in realtà ha soltanto lasciato il corpo fi sico e adesso vive questo esaltare, questo innalzare, questo espandersi.

Il microcosmo del mondo eterico diventa macrocosmo e l’es-sere umano fa confl uire dentro al cosmo dell’umanità, dentro al cosmo della natura, dentro al cosmo di tutti gli esseri spirituali il portato della sua esistenza terrena. Tutte le gerarchie spirituali, tutti gli animali – le loro anime di gruppo – stanno lì a guardare quale dono, quale grande regalo immette nel cosmo l’esistenza di questo tizio. L’esistenza di un essere umano in uno sguardo d’in-sieme: “Ecco i miei doni squadernati, non se ne può nascondere nessuno. Quelli belli sono lì, come anche quelli meno belli”.

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Rudolf Steiner descrive come i primi giorni dopo la morte sia-no giorni dove c’è un salto di coscienza tale che l’essere umano ne è abbagliato. L’essere umano non ha il problema di una coscienza ottenebrata, bensì quello di doversi orientare perché la luce che gli rifl ette queste immagini poderose di tutta la sua vita è una luce abbagliante. Potremmo dire, per usare un’immagine, che è come se noi guardassimo direttamente la luce del Sole: ci abbaglia. Allo-ra la lotta interiore dei primi giorni del morto è abituarsi a questa luce così abbagliante, in modo da poterla sostenere.

Quindi il primo problemino del morto non è quello di aver troppo poca coscienza, ma di averne troppa. È la troppa luce a cui deve abituarsi: deve abituare i suoi occhi a questo enorme sal-to qualitativo nella capacità pensante, interpretativa e conoscitiva, di penetrare il signifi cato cosmico di tutta una vita. E pensiamoci bene: c’è una bella differenza tra dare alla nostra coscienza, po-veretta, la possibilità di assimilare la vita per centellini, un giorno dopo l’altro, una cosa dopo l’altra, come facciamo nella vita di tutti i giorni, oppure tutto insieme, come accade nel dopo morte.

Quando una persona cara muore, è bello sapere cosa passa i pri-mi giorni. Accompagnarla è una cosa bellissima: “Guarda, ti aiuto io. Tu adesso sei stordito, ti aiuto a orientarti. Ti ricordi dieci anni fa? Ti ricordi l’anno scorso? Ti ricordi vent’anni fa? Ti aiuto io – ti do dei punti di orientamento in modo che i tuoi occhi comincino a sopportare questa luce che ti abbaglia, ti abbacina”. E qual è il grande punto di orientamento, fondamentale per non perdersi del tutto in questa luce? È la propria morte, lo dicevo già ieri.

Guardare alla propria morte – là c’è il corpus mortuum che è il corpo fi sico lasciato, il cadavere – e non importa se la materia, se gli atomi di materia vengono inumati oppure bruciati. No, questo non importa. Il morto guarda al morire non tanto come ad una vicenda della materia: quello non gli interessa, interessa alla Terra, alle forze della Terra il modo in cui gli esseri elementari si avval-

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gono delle forze del fantoma6 del corpo fi sico. Lui guarda alla sua morte come al vissuto. Guarda alla sua morte e dice: “Ma io avevo una paura da morire di sparire con la morte, avevo paura che con la morte sarebbe fi nito tutto di me e adesso mi trovo qui ad essere molto più di prima”.

Questo guardare alla spada a doppio taglio della morte, dove il senso del mio morire è un rivivere incredibile, chi l’avrebbe mai pensato? Chi l’avrebbe mai pensato che morire signifi ca rivivere cento volte di più? Ritornare sempre con lo sguardo dell’anima all’esperienza del morire crea la coscienza dell’Io: ecco il primo grande orientamento dopo la morte. La gratitudine, la gioia infi -nita di aver potuto nascere per godersi la cosa più bella che c’è, che è quella di morire.

Il morto sa con assoluta certezza – e lo sa per esperienza – che non c’è nulla di più bello, di più metafi sicamente costruttivo del proprio essere e della propria coscienza dell’opera, dell’atto del morire. Dice: “Mi sono potuto permettere di lasciare indietro tutto ’sto corpo umano, tutto ’sto pezzo di materia; mi sono per-messo di far sparire tutto ciò che è visibile, percepibile…” perché per i morti noi esistiamo, ma i nostri pezzi di materia non ci sono. Dove ci sono pezzi di materia, per il morto ci sono “buchi”, per-ché i sensi non li ha più. Vede buchi, eh, se no cosa vede il morto?

6 La scienza dello spirito descrive che il corpo fi sico, prima della caduta nella materia, era formato da elementi fi sico-terrestri (un corpo di forze e leggi fi sico-terrestri di tipo magnetico, elettrico, gravitazionale ecc.) e non ancora compenetrato dalla materia minerale. Questo corpo sovrasensibile di forze regolate da leggi fi siche, la scienza dello spirito lo chiama Fantoma. Steiner ne parla diffusamente nell’O.O. 131 pubblicata da Archiati Edizioni con il titolo: “Il fenomeno Uomo - Da Gesù a Cristo” dal quale riporto la seguente citazione (pag.179): “In realtà il fantoma è stato la prima realtà del corpo fi sico, impos-sibile a vedersi con gli occhi fi sici. È un corpo, una struttura energetica del tutto trasparente. L’occhio fi sico vede le sostanze fi siche mangiate e assimilate dall’uomo che riempiono questo contenitore invisibile. Quando l’occhio fi sico osserva un corpo fi sico, vede in realtà le sostanze minerali che lo riempiono, ma non il corpo fi sico vero e proprio”. (N.d.R.)

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I nostri pensieri. I morti dicono: “Mi sono permesso di far sparire nel nulla, fa-

cendo sparire il mio corpo fi sico, tutto il mondo visibile… e per-ché l’ho fatto? Per dimostrare a me stesso che ciò che è spirituale, che ciò che è contenuto del pensiero, ciò che è contenuto del cuore, ha una densità di esistenza molto maggiore. E quei pove-racci là che si ritengono vivi… che matti! Quei poveracci là hanno paura della morte, perché hanno paura che la morte sia la fi ne. Come faccio a dirgli che non è vero?! Dai, affrettatevi a morire, che è la cosa più bella che ci sia!… No, no, no, no, no! Mi devo dare una calmata, perché se intervengo direttamente ledo la liber-tà dei cosiddetti vivi; se mi presento direttamente con questa mia esperienza, con questa mia realtà, lo schiaccio questo povero vivo, gli faccio venir voglia di morire troppo presto – non sia mai”.

Arrivati a questo punto apro una parentesi, che per quanto mi riguarda è soltanto una parentesi, ma può darsi che per qualcuno di voi sia forse la cosa più importante. Vedremo nella discussione come ce la caviamo a vicenda. La parentesi è questa: ditemi voi cosa signifi ca che tante persone vanno in cerca del morto che si fa sentire, del morto che si fa vedere?! A me un morto che si fa sentire o un morto che si fa vedere non mi dice nulla! Anzi, gli dico: “Ma chi te lo fa fare? Cosa sei morto a fare? Guarda che il senso della tua morte è di non farti né sentire né vedere, ma di farti pensare. Perché se tu da morto vuoi continuare a farti vede-re e a farti sentire come prima, cosa sei morto a fare? Resti qua. Le persone si fanno sentire e vedere prima di morire. Allora che senso ha la tua morte se continui a farti sentire e a farti vedere?”. Non esistono morti che si fanno sentire e vedere esteriormente: esistono soltanto vivi che hanno queste esperienze perché non sopportano la libertà.

Quindi se qui c’è qualcuno – e lo so che dopo, nella discussione, mi direte peste e corna, ma io mi godo anche le pesti e le corna,

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so come difendermi – che ha sentito voci di morti o ha visto... Va bene, non ho niente in contrario, ma non creda mica che que-sto lo faccia camminare, lo faccia progredire nel suo cammino di spirito umano. Il senso dei trapassati è di venir vissuti, di venir percepiti sovrasensibilmente: se no a che serve lasciare il corpo fi sico? Di lesioni della libertà dove ci impingiamo, dove ci urtiamo e ci sopraffacciamo a vicenda ne abbiamo già abbastanza. Non ne abbiamo già abbastanza di esseri umani che si fanno vedere e sentire? Pure i morti ci vogliamo mettere?

E poi, la domanda più importante: come faccio io a sapere se la visione di un morto o le voci che sento sono oggettive? E se fos-sero proiezioni della mia soggettività? Come faccio io a saperlo? La cosa importante è di chiederci se ci sono o no criteri dell’og-gettività. Voi direte: “Ma tu come fai a sapere che sono oggetti-vi questi tre giorni del dopo-morte che hai descritto prima”? Io non posso dimostrarvelo metafi sicamente, perché il dimostrare dipende dalla capacità, anche pensante, della persona a cui si vuol dimostrare. Dico soltanto che quando leggo queste cose mi pare di vedere che Rudolf Steiner sia la sola individualità a descriverle (e perciò il suo spicco, anche morale, assoluto, nell’umanità mo-derna) e posso dirvi che non ho trovato da nessuna parte di me-glio – e mi sono dato da fare, ho perso i capelli perché ho girato un po’ in tutto il mondo per vedere se c’è qualcosa di meglio. Se io trovassi qualcosa di meglio, di più bello, di più universale, di più convincente e avvincente che non Rudolf Steiner, metterei subito da parte Rudolf Steiner e piglierei il meglio.

Io sono nato con l’intenzione di prendermi il meglio, voi no? Eh, svegliatevi, datevi da fare, sarebbe ora! Ogni essere umano è stato creato per il meglio. Il meglio che conosce, naturalmente. Il meglio! Chi di voi si accontenta del secondo meglio? Ognuno vuole il meglio che c’è, che conosce. Parlo di Rudolf Steiner proprio perché non conosco nulla di meglio.

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Questo quadro poderoso mi convince – e mi convince proprio in senso di lucidità e anche di sobrietà di pensiero – perché mi dico: è mai possibile che tutto il vissuto, tutte le percezioni, tutti i pensieri che una persona ha pensato nella sua vita siano spariti? No, no, non esiste. Ciò che è spirituale, un pensiero che viene pensato, non può sparire. Se io penso che tutto questo possa spa-rire è perché non ho capito nulla. Quindi mi sta bene, sta bene al mio pensiero e, anche se Rudolf Steiner è il primo a parlare di queste cose, allora dico che è il primo che ha capito veramente le cose, perché non può essere che così! Non può il pensato, la somma dei pensieri e delle percezioni, tutte le immagini del corpo eterico di una persona, tutte queste immagini che si sono accu-mulate, sparire nel nulla. Non può essere che così: liberate dalla prigionia del corpo fi sico si squadernano e vengano reinserite nel cosmo oggettivo.

Ci sono tre gradini, tre passate del dopo-morte:

• la prima, al livello della mente, è la somma di percezioni e pensieri, rappresentazioni, immagini. È come un qua-dro di memoria squadernato, è il tempo della vita che diventa spaziale e si inserisce nel cosmo;

• la seconda passata è maggiormente al livello del cuore e quindi tutto il mondo dell’anima: il vissuto, i sentimenti, gli stati d’animo;

• la terza è lo spirito: il valore oggettivo, morale, di un’esi-stenza dentro al cosmo.

Dopo tre o quattro giorni questo quadro di memoria sparisce, si ingrandisce ad un punto tale che sparisce nel cosmo. Resta vi-sibilissimo a esseri con stati di coscienza più alti – gli angeli, gli arcangeli ecc. –, però per l’essere umano sparisce perché è troppo diluito. È come mettere in una damigiana di acqua due o tre goc-ce di Chianti, di vino rosso: fi nché le gocce restano unite in sé si

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vedono, ma quando si sono diluite in tutta la damigiana, che cosa si vede delle gocce di Chianti rosso? Più nulla. Questo avviene al corpo eterico: si espande e si diluisce. Supponiamo che possa esistere una persona con occhi di lince che, così come il cane an-nusa cose che noi non sentiamo, abbia una capacità veggente tale da poter vedere in quella damigiana di acqua anche le tre gocce di vino. Una tale persona saprebbe vedere le tre gocce di vino, mentre la nostra percezione non vedrebbe più nulla.Quindi sparito quello, si entra in ciò che la sapienza orientale con una bella parola in sanscrito chiama Kamaloca. Kama signifi ca bra-ma (dal greco γάμος – gamos –). L’unirsi dei due sessi è la dimen-sione più potente, più irresistibile della brama. Loca è il luogo, locus, il luogo delle brame: kama-loca. Una bellissima parola. In italiano, nella terminologia cristiana, è invalsa una parola meno azzeccata, un pochino più moraleggiante: la parola “Purgatorio” – la purga di ricino dopo la morte. Cosa vive il morto dopo quei tre, quattro, giorni? Vive nel Kamaloca, vive nel Purgatorio per circa un terzo della sua vita. Quindi se è morto a sessant’anni vi starà per circa vent’anni, se è morto a novant’anni vi soggiornerà per circa trent’anni – un terzo della vita, appunto. Ma perché un terzo della vita? É il terzo della vita che normalmente si passa dormendo; c’è qualcuno che dorme un po’ di più di un terzo? Quello starà in Purgatorio un pochino di più! In questo Kamaloca il defunto fa i conti: rivive a ritroso tutta la sua vita per un terzo del tempo – dalla nascita alla morte – col compito di purifi care l’anima.

Questo è il mondo animico: il defunto non è ancora nella sfera dello spirito, bensì in quella dell’anima, del vissuto, delle brame, dei desideri, delle passioni, delle gioie, delle sofferenze, dei dolori, delle aspettative, degli ideali. Ma cosa c’è da purifi care? Che cosa vuol dire? Cosa c’è che non va in un morto? Ci sono nell’anima tante brame, tanti desideri, tante voglie, gusti, che si possono sod-

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disfare soltanto col corpo fi sico. É comprensibile la cosa, no? Qui non c’è nessuno che ha dei desideri, delle brame, delle voglie che vengono soddisfatte col corpo fi sico? Nessuno tra di voi, qui? Eh… siamo pieni! Non conosciamo quasi nient’altro! Almeno io; poi, se voi siete più avanti nel cammino evolutivo, sarò ben contento per voi, ma insomma io mi vedo in pieno in questa sfera dell’anima.

Per esempio, prendiamo uno che per tutta la vita si è gustato il Chianti migliore che esista. Questo tizio ora è morto: la voglia del Chianti è sparita? Eh, no! La voglia del Chianti non è nel cada-vere, il cadavere non ha voglia del Chianti. La voglia del Chianti dov’è? Nell’anima. Dopo la morte questa voglia, desiderio, brama di bere il Chianti resta tale e quale, esattamente come l’ha avuta durante tutta la vita – solo che nella vita poteva soddisfare questa brama. Adesso senza corpo che fa? Glielo portiamo al cimitero il Chianti? No. Una brama che non ha più la possibilità di soddi-sfarsi perché non ha più il corpo, letteralmente si brucia in se stessa. Dapprima è un’esperienza ardente di brama che mi brucia, ma non avendo la possibilità di venire soddisfatta, deve abituarsi a non bramare più il Chianti, e si brucia. Siccome questa brama che non riesce a soddisfarsi mi diventa proprio insopportabile, l’unica soluzione è di non aver più la brama: si brucia. Ma questo non avviene così, ci si mette un terzo della vita.

Pensate voi quanto può essere bello avere questo tipo di co-noscenze oggettive ed accompagnare i nostri morti con questi pensieri. Non è mica detto che il defunto capisca subito, e questo perché il peso morale dell’esistenza nel corpo è che ognuno di noi sa pensare dopo la morte, non di più e non di meno, non meglio e non peggio, di quanto ha imparato a pensare nella vita. Quindi uno dei sensi fondamentali dell’esistenza è il cammino, il progredire nella forza di pensiero. Ma se questo povero mor-to (un mio caro) non capisce perché non si sa orientare e, così

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come faceva fatica con la luce delle immagini della sua vita ora fa fatica a capire il senso di questo bruciore – di cui le fi amme del Purgatorio sono un’immagine molto calzante – allora, se sono in grado di pensare questi pensieri, io da vivente ho la possibilità di trasmetterglieli. “Guarda che tu adesso ti trovi nel problemino del fatto che la brama del Chianti ti resta nell’anima. L’anima non è che la cambi dall’oggi al domani e la brama resta, però quello che ti manca è il corpo per soddisfarla; l’unica soluzione che hai è di fartela passare, ’sta brama! Anche perché io il Chianti non te lo posso portare nel mondo di là”. Il defunto afferra questi pensieri ed è grato di potersi orientare, di poter capire il senso di quello che sta passando.

Ma perché bisogna purifi care tutte queste brame, tutti questi desi-deri? Perché tutte queste brame, tutti questi desideri sono l’insieme della nostra soggettività: queste brame sono soggettive e riguardano solo me. Ma non è bello esser soggettivi? Essere soggettivi è bello, ma c’è qualcosa di molto più bello: essere oggettivi, diventare oggettivi.

Essere soggettivi è bello perché mi mette in comunione con me stesso, sento la gioia di vivere tutti gli stati d’animo che sono miei. Diventare sempre più oggettivo, sempre più capace di oggettività, è mille volte più bello perché mi dà la capacità di essere in sintonia, in comunione con tutti gli esseri. La soggettività è la capacità di essere in sintonia con un essere solo, il mio; l’oggettività è la capacità di essere in sintonia con tutti gli esseri.

Allora il morto capisce sempre meglio: “Più purifi co, più smaltisco, più brucio la mia soggettività, le mie brame, ciò che interessa solo me e più mi apro all’oggettività del cosmo. E quella è ancora più bella, più meravigliosa”. Allora è contento di bruciare, bruciare, bruciare, perché ogni fi amma fa sprigionare una luce oggettiva, infi nita, una gioia senza fi ne.

Tra l’altro, per i cristiani qui in sala (casomai ce ne fossero alcuni residui), un’altra cosa interessantissima è che certe frasi dei Van-

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geli le si capiscono soltanto in chiave di una scienza dello spirito, di una scienza dello spirituale oggettiva. Tutto questo cammino a ritroso è un vissuto dell’anima. Anche la preghiera l’Eterno riposo parla di tutto questo cammino. Riposo è la pace dell’anima (non dello spirito). Dona a loro Signore l’eterno riposo cioè pace, ordine e non questo subbuglio delle brame che non si possono soddisfa-re. Tutto questo cammino di purifi cazione dell’anima è il presup-posto per diventare capaci di spirito. Finito questo cammino a ritroso si entra nel mondo dello spirito, e questa è la terza fase. Il vissuto dell’anima, l’animico di un’esistenza era la seconda fase; lo spirito è la terza. È il valore oggettivo, morale, di un’esistenza dentro al cosmo.

Stavo dicendo, per chi di noi ha ancora un rapporto con la tradi-zione cristiana, che c’è nei Vangeli una frase con molti signifi cati, fra cui quello che nel dopo-morte si vive la vita a ritroso, partendo dalla morte e arrivando fi no alla nascita: Se non diventerete come bambini non entrerete nel regno dei cieli.7 Il regno dei cieli è il regno oggettivo dello spirito, e per diventare capaci dell’oggettività dello spirito bisogna purifi care tutto ciò che è animico partendo dalla morte e diven-tando come bambini, solo allora sarà possibile entrare nel regno dei cieli. Queste frasi che nei primi duemila anni del Cristianesi-mo si sono capite in un senso più animico, più del cuore, hanno un signifi cato ben più profondo: un signifi cato di oggettività, di cammino spirituale.

Le cose da dire su questa passata che dura un terzo della vita sa-rebbero infi nite, e perciò leggete e studiate i trecentocinquanta volumi dell’Opera Omnia di Steiner; vorrei comunque ancora fare un altro accenno sul senso del rivivere la vita a ritroso. Un terzo del tem-po è il tempo che abbiamo passato dormendo. Pensiamoci bene,

7 Vangelo di Matteo, Cap. 18,3

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anche senza che ce lo dica un Rudolf Steiner: noi per due terzi della vita siamo svegli e quello che viviamo da svegli l’abbiamo già vissuto e non ci serve ripeterlo – se no che ci sta a fare l’esistenza sulla Terra? Invece quello che abbiamo vissuto durante il sonno non l’abbiamo portato a coscienza perché dormivamo. Nel son-no viene vissuto tantissimo. Ognuno di noi vive tante cose nel sonno, solo che non le porta a coscienza. Questo terzo della vita serve a portare a coscienza ciò che abbiamo vissuto incosciente-mente durante il sonno.

Domanda: quale risvolto del karma, del destino, della vita, dell’esistenza viviamo noi durante il giorno? Durante il giorno io vivo quello che interessa a me. Vivo quello che vivo io: se faccio un complimento sincero, se per esempio dico a una ragazza: “Ma quanto sei bella!” (in modo sincero però), oppure se dico a una: “Ma quanto sei brutta!”, cosa vivo io? Vivo quello che vivo io! Durante la notte – e per fortuna non lo portiamo a coscienza durante la vita se no sarebbero guai –, durante la notte incoscien-temente viviamo ciò che l’altro ha sentito quando gli abbiamo detto “quanto sei brutta”, o quando gli abbiamo dato uno schiaf-fo, o quando gli abbiamo fatto passare una brutta esperienza. Il senso del sonno è di portarci dentro una sfera dove noi viviamo le conseguenze oggettive di ciò che causiamo negli altri col nostro dire e col nostro fare. Per fortuna non lo portiamo a coscienza mentre siamo nel corpo, perché non sopporteremmo, non sarem-mo capaci di portare il peso morale delle conseguenze oggettive nell’umanità di tutte le nostre azioni. Dopo la morte invece sì. A ritroso io non vivo la mia vita, perché quella l’ho già vissuta, ma vivo tutto quello che gli altri hanno vissuto in base alle mie parole, alle mie azioni. Fa parte di me, quello? Eh, sì; eh, sì! É ciò che ho immesso io nel mondo. Però durante la vita non avrei avuto la forza morale di sopportare le conseguenze oggettive di tutto ciò che sono stato.

È molto bello sapere che possiamo accompagnare i nostri cari

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per anni interi in questo cammino, addirittura a partire dal terzo, quarto giorno dopo la loro morte. Sapere che loro sono confron-tati, per esempio, con gli eventi che hanno passato con noi: “Ah, ti ricordi cinque anni fa? Ti ricordi che cinque anni prima che tu morissi mi hai fatto fare una bella passata?”. Adesso lui, a ritroso vive ciò che io ho vissuto con lui a causa sua – lo vive lui. Nella misura in cui l’ha causato lui, lo vive lui.

È tutto un altro modo di vivere con i morti e di accompagnarli. Magari lui mi sta chiedendo perdono, e io gli dico: “Ma sì che ti perdono. Ne ho combinate tante anch’io e dopo la morte vedrò anch’io tutto quello che ho combinato negli altri”. Questo tipo di possibilità evolutiva di vivere con i morti presuppone una conoscen-za oggettiva di ciò che i morti vivono. Questi pensieri che sto espri-mendo non entrano nel merito specifi co di ciò che il morto “A” o il morto “B” vive. No, questo lo lasciamo a ognuno. Noi stiamo parlando di fenomeni, di leggi del dopo-morte che valgono per tutti. Queste leggi sono importanti perché, se per esempio il mor-to “A” mi proietta un’immagine oppure mi fa percepire dei suoni, ma non riesco a collocarlo in questo Kamaloca, in questo Pur-gatorio, perché non so che cosa mi vuol dire, a che mi serve una comunicazione isolata di cui non ho la chiave di interpretazione?

La conoscenza oggettiva delle leggi del dopo-morte è la chiave di interpretazione per capire ogni manifestazione concreta senza andar fuori. Quindi io non sto dicendo che sia una brutta cosa ave-re dei sogni per esempio – perché i morti si fanno sentire soprattut-to nei sogni – o avere una visione, un’immagine, o delle percezioni uditive. Non sta a me, non mi compete dire che non va bene. Dico soltanto che l’unica possibilità veramente di capire, di collocare que-ste esperienze è inserirle nel loro contesto oggettivo. Perché ogni af-fermazione, ogni immagine, ogni frammento di percezione ha senso soltanto se lo metto in un contesto. L’apparizione di un morto, senza pensieri che la collochino in un contesto, è come l’apparizione

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di un pezzetto di un puzzle senza contesto. Che mi dice? Senza contesto, che mi dice? Mi spiego: cosa vuol dire collocare ogni singola comunicazione che può avvenire? Ci sono tante persone – ne conosco anch’io – che hanno delle comunicazioni singole del morto “A”, del morto “B” ecc. ma si trovano veramente nei pasticci perché si chiedono: “Che cosa mi vuol dire?” Ma scusa, se non hai neanche la minima conoscenza di ciò che ogni essere umano sta passando e deve passare nel dopo-morte, come fai a capire il senso di una comunicazione?

Un altro esempio. Uno dice una parola in italiano: “giuggio-le” – vi dice qualcosa? Vi dice qualcosa soltanto nel contesto della lingua italiana. Se io dicessi “giuggiole” ad Amburgo le per-sone mi guarderebbero stranite. Cos’è che rende comprensibile una parola? Il linguaggio. Cos’è che rende comprensibile un’appa-rizione o una visione? Il contesto globale.

La frenesia, la povertà spirituale degli esseri umani di oggi, que-sta fi ssazione alla percezione sensibile tende a raddoppiare il ma-terialismo e stiamo materializzando addirittura il mondo spiritua-le: vogliamo renderlo visibile, percepibile, udibile. Lo spiritismo è proprio questo. Ma è già un problema che non fi nisce più avere tutto questo mondo di materia – che non è neanche reale –, e noi che facciamo? Raddoppiamo il mondo della materia, che è quello che ci ingolfa e ci fa perdere, e rendiamo materiale addirittura il mondo spirituale: una paranoia collettiva!

Quindi l’importante per vivere con i morti non è avere fram-menti di percezione – ne abbiamo tante di percezioni – ma è il contesto conoscitivo, la possibilità di conoscere oggettivamente il senso del dopo-morte e quindi ciò che ogni essere umano vive dopo la sua morte.Ci sono quattro sfere fondamentali in questo punto due8:

1. c’è la sfera lunare (Kamaloca)

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8 L’autore si sta riferendo alla divisione fatta a pag. 60 in rapporto alle “passate” del defunto nel dopo-morte; nello specifi co al secondo gradino: quello che riguarda l’ani-mico e tutta la sfera dell’anima.(N.d.R)

9 L’esoterismo ha invertito Mercurio e Venere in modo da scompigliare le carte in tavola a chi non dovrebbe occuparsi di queste cose: prima viene Venere e dopo viene Mercurio, però nell’esoterismo si parla prima di Mercurio e poi di Venere.

10 Dante tra l’altro, ha molti aspetti di questa saggezza atavica dell’umanità.

2. Mercurio9 [astronomicamente Venere](sfera del morale)3. Venere [astronomicamente Mercurio] (sfera del religioso)4. poi viene il Sole (sfera dell’universale umano)

La sfera lunare riguarda il Kamaloca: tutto il Kamaloca avviene nella sfera lunare. Naturalmente sto riassumendo cose grandi e per la for-tuna degli uditori non si può dir tutto in una conferenza, altrimenti ci occorrerebbe un’intera giornata. Dopo aver smaltito ciò che è perso-nale, ciò che è soggettivo (il proprio vissuto fi no alla nascita), l’essere umano si amplia e diventa capace di spirito – diventa capace di ciò che è oggettivo.

La prima sfera è Mercurio (astronomicamente Venere) ed è la sfera del morale. La seconda, esotericamente parlando, è Venere (astronomi-camente Mercurio) ed è la sfera del religioso, mentre il Sole è la sfera dell’universale umano. Mercurio, Venere e Sole, queste tre sfere dei pianeti sub-solari, vengono vissute dopo il Kamaloca che è la sfera lunare10. Il morto quindi, dopo aver passato il periodo del Kamaloca (che abbia-mo detto dura un terzo della vita), fa il bilancio della sua esistenza in chiave morale e si domanda: “Che peso ha, che valore ha la mia vita in quanto moralità?”. E poi si chiede: “Che peso ha la mia esistenza in quanto religiosità?”. E in seguito, moralmente ancora più importante, si domanda: “Che peso ha la mia esistenza nel contesto dell’umanità, al di là di religioni particolari, al di là di una moralità particolare?”.

Che differenza c’è tra moralità e religione? Moralità è il rappor-to inter-umano mentre la religione è il rapporto col divino.

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La moralità è il modo in cui gli esseri umani si rapportano fra di loro. Se volete, l’essenza della moralità è l’amore, il rispetto reciproco, la sincerità, l’onestà ecc. Il morto fa i conti col peso morale o immorale della sua esistenza: “Ho avuto o non ho avuto dei valori morali? La morale è stata per me importante, oppure ho vissuto senza valori morali?” Immaginiamoci questo vissuto: sono esperienze enormi! Il senso della morte, il senso amico della morte, il senso bello della morte è che la morte ci dà la possibilità ogni volta (supponendo che ognuno di noi muoia diverse volte), di liberarci dalle strettoie di ciò che è soggettivo, di ciò che è im-morale, di ciò che è irreligioso, per portarci in sfere di purifi ca-zione e di superamento di ciò che è puramente soggettivo – nella sfera dei valori morali oggettivi.

Prendiamo per esempio il peso dell’uguaglianza: nella vita dopo la morte, nella sfera di Venere (chiamata sfera di Mercurio) l’esse-re umano vive come gli angeli, gli arcangeli, con altri morti che gli fanno capire il peso morale dell’uguaglianza, della dignità umana. Perché lui sulla Terra non lo può capire più di tanto, è tutto indaf-farato a difendere i propri diritti ecc. e non riesce a respirare più di tanto per cogliere il peso assoluto dell’uguaglianza della dignità umana. Io ho passato cinque anni in Sud Africa, ancora ai tempi dell’Apartheid e ricordo molto bene tutti ‘sti bianchi arroccati sui loro diritti, tutti intenti a difendere i loro privilegi ecc... Ma gli passa mai nell’anticamera del cervello che noi siamo tutti uguali in dignità, come persone umane? Io ho parlato con dei bianchi che dicevano: “Questi negri saranno essere umani al 70%… su, via, siamo generosi, ma mica al 100%!”. A me cadevano i capelli a sentire queste cose! Mi dicevo: “…Ma ho sentito bene?!”.

L’essere umano nel dopo-morte passa in una sfera dove è cir-condato da altri esseri umani e divini che hanno questo senso assoluto dell’uguaglianza della dignità di ogni persona umana, e ne coglie il valore morale. Si rende conto delle sue carenze e dice:

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“Ma come? Io da bianco in Sud Africa ho pensato che potevano esserci alcuni umani più umani ed altri meno umani? Ma questo pensiero è un abisso di immoralità!”. E lì si rimette a posto il cer-vello. Il dopo-morte è una lavata di cervello… eh, sennò quando ce lo laviamo, il cervello?

Arriva l’altra sfera: le religioni. Il mio essere vive un ampliamen-to continuo perché fi nché abbraccio la sfera lunare, essa è più ristretta, ma quando abbraccio la sfera di Venere diventa più gran-de, e poi ancor più grande quando abbraccio la sfera di Mercurio ed addirittura la sfera solare. In altre parole: il campo di coscienza di colui che è morto diventa sempre più ampio.

Il religioso, l’amore (esotericamente la sfera di Venere) consiste nel fatto che il morto fa l’esperienza che lo porta a dirsi: “Tu eri inserito in una religione: eri musulmano, eri induista, eri buddi-sta, eri cristiano… ma in quanto tu hai vissuto questa religione come diversa, o come migliore di altre religioni, mica hai vissuto l’umano universale?” In altre parole, c’è una purifi cazione della religione, ed è quella di vincere ogni settorialismo. I cosiddetti cristiani (cioè coloro che sono morti negli ultimi duemila anni), in questa sfera mercuriale o di Venere della religione fanno i conti con il loro Cristianesimo tradizionale e si dicono: “Ma che Cri-stianesimo era? Una religione accanto ad altre, se non addirittura contro altre”. Il senso di ogni religione è di diventare sempre più universale, perché il Padre Divino degli esseri umani è Uno solo.

Tra l’altro, in questa sfera del religioso, dove si tirano le somme della religiosità o dell’irreligiosità, certi ateisti, persone che sono vissute in vita da ateisti, si beano di fronte a certe altre persone pie, perché dicono loro: “Beh? Hai visto tu che eri pia? Eri religio-sa, ma il tuo concetto di Dio era così bacchettone, così ristretto, che il povero Dio inorridiva! Meglio io, che tutti ‘sti Dio inventati dagli uomini, li ho mandati al diavolo”. Perché cosa signifi ca es-sere ateisti da intelligenti? Essere ateisti da intelligenti signifi ca

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mandare al diavolo ogni divinità inventata. Quindi rispetto a un certo tipo di religiosità l’ateista è evolutiva-

mente un passo avanti, perché l’unico concetto vero di divinità è il concetto di divinità universale. Un concetto di divinità che vale soltanto per i cristiani o soltanto per i musulmani è uno schiaffo dato in faccia alla divinità, perché una divinità settoriale non esi-ste! Esiste solo nelle menti razziste degli esseri umani. Finché le religioni sono al plurale sono intrise di razzismo, perché ogni reli-gione esclude tutti gli altri esseri umani. Quindi il futuro di ogni religione è di passare dal plurale al singolare. Questo è il compito di entrare da morto, da defunto, nella sfera del Sole.

La sfera del Sole è la sfera dell’universale umano e cioè di tutto ciò che tutti abbiamo in comune al di là delle particolari razze, al di là delle particolari religioni, al di là dei particolari valori morali. L’umanità come organismo unico, nel quale ognuno di noi è un membro vivente. E questo Essere spirituale del Sole è l’amico di tutti gli uomini – non è l’amico dei cristiani o dei musulmani, o degli induisti, o dei buddisti, ma è l’amico degli uomini in quanto uomini. Perché essere uomo è molto di più che essere cristiano, o buddista, o induista, o musulmano. Essere cristiano è la chiamata a camminare oltre. Essere musulmano è la chiamata a camminare oltre perché essere musulmano signifi ca non essere ancora nella pienezza dell’umano. Essere cristiano in senso tradizionale signi-fi ca non essere ancora nella pienezza dell’umano. Cammina, cam-mina ancora e poi non ti chiamerai più cristiano, non ti chiamerai più musulmano: “Tu sei musulmano? Io no. Tu sei cristiano? Io no. Tu sei un essere umano? Anch’io! Anch’io! Anch’io!”. Finché pensiamo all’italiano abbiamo tante cose da dire, quando pensia-mo al cristiano abbiamo tante cose da dire (sempre di meno per fortuna), quando pensiamo all’umano… non abbiamo più nulla da dire? E allora, ce n’è di strada da fare!

Ieri a Francoforte stavo aspettando di imbarcarmi sull’aereo ed

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era pieno di americani. Nella vita passata io ero un sarto e in que-sta vita attacco bottone con tutti… (risate) Allora con la scusa di Bush e dell’Iraq sono entrato in conversazione.

L’America la conosco, ci sono vissuto e tra l’altro lo studentato in cui ho fatto l’università qui a Roma, la Gregoriana, era pieno di americani. Per anni sono stato il solo italiano qui a Roma e quindi posso dire che l’America la conosco abbastanza, anche la sua lingua, e la cosa che mi colpisce di più è questo we americans! (noi americani) – è così poderoso! In Italia quando si sente dire noi italiani non è certo così vigoroso… Se lo fosse scappo via, eh!? I tedeschi poveretti, dopo le due botte che hanno preso nel secolo scorso non si fi dano neanche a dire noi tedeschi… Poverini, mi fanno compassione. L’italiano dice noi italiani, ma non è che si presenta con questa forza militare, come invece fa l’americano con il suo we americans!. Io all’aeroporto pensavo tra me e me: “Adesso devo andare a Roma a parlare della morte – non gliel’ho detto, però pensavo – tu, vent’anni dopo la tua morte quando sarai entrato nella sfera dell’umano universale, che gli vai a dire, col tuo we americans!?” (risate e applauso)

Beh, visto che mi avete fatto un applauso, vi racconto ancora una cosa: è una cosa che farà parte del mio Kamaloca quando morirò, ma è vera. Voi non ci crederete, ma è vera.

Sono andato negli Stati Uniti in una parrocchia che doveva es-sere di italiani, ma oramai erano diventati tutti americani e perciò ci voleva uno che parlasse la loro lingua. L’FBI voleva rimandarmi a Roma subito come comunista, però la forza del Vaticano…eh il Vaticano... ne avete mai sentito parlare? C’è il Vaticano! La for-za del Vaticano ha ottenuto che io – da prete cattolico – restassi prigioniero degli americani. Non potevo uscire dagli Stati Uniti: ho provato una volta da Detroit ad andare in Canada e la polizia mi ha fermato. Mi ha detto: “Reverendo, non lo faccia più, perché la prossima volta la sbattiamo dentro”. E io ho pensato: “Perché

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non mi sbattete dentro adesso?”Perché l’FBI voleva rimandarmi in Italia e mi ha tenuto prigio-

niero negli Stati Uniti? Per un motivo molto semplice. Dovevo celebrare la messa e c’era la bandiera degli Stati Uniti in chiesa. Mi sono detto: “Io sono nato e cresciuto in Italia; non ho studia-to Karl Marx più di tanto (mi piacevano Aristotele e Tommaso d’Aquino) però come tendenza sociale politica…” oh, qui devo chiedere scusa agli amici di Berlusconi, ma io come gusto tende-vo piuttosto per la sinistra che per la destra perché mi sembrava che il Vangelo parlasse quel linguaggio lì… del volemose bene nel senso buono, perché ci sono anche esseri umani per i quali i soldi sono più importanti che non le persone… mi pare di aver capito! (applauso) Allora io – e farà parte del mio Kamaloca – mica gliela lascio lì la bandiera degli Stati Uniti. Ho detto loro: “Voi siete liberi, io sono libero, se volete che celebri la messa, la bandiera deve andar fuori dalla chiesa. Volete tenerla dentro? Io non ven-go. Liberi voi, libero io”.

Un putiferio: “Ma questo qua è un comunista!”. Poi durante la messa cantavano inni all’America, tipo: from see to see God bless America (da mare a mare Dio benedica l’America). Tra me e me pensavo: “Ma questo è nazionalismo puro”. Arrivo nella predica e dico: “Ma cari fedeli, cari cristiani noi chiediamo nei canti, qui nella liturgia, maggiore prosperità per l’America … Mica per la famiglia di questo padre … no, per l’America. Adesso io vi chie-do: una maggiore prosperità per l’America (che è così povera, così misera) da dove deve venire? Dalle nuvole? No, bisogna rubare ancora di più agli altri!”.

“Comunista! Comunista! Comunista!” (risate)Ve l’ho detto, farà parte del mio kamaloca!Facciamo una pausa!

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Dibattito Intervento. La domanda è questa: l’Averroismo11 diceva in so-

stanza che dopo la morte l’anima dell’uomo si ricongiunge con la divinità dell’universo… posso dire così, no?

Archiati. Per gli studiosi di Steiner – è il volume 7412 dell’Opera Omnia – sono tre conferenze: la prima su Agostino, la seconda sul tomismo e la terza sulla scienza dello spirito moderna. Tre conferenze bellissime, tra l’altro.

Intervento. Quando io lessi per la prima volta queste conferenze rimasi colpito perché mi dissi: Sant’Agostino spese una vita intera per lottare contro una tesi molto importante, perché – dal mio punto di vista – non può esserci (o meglio, anche se c’è non ha alcun signifi cato) l’immortalità dell’anima se non c’è coscienza. In particolare: non basta la coscienza, e cioè il percepire qualcosa che avviene attorno a te, quello che per me era importante capire era se l’uomo nell’aldilà avesse una coscienza individuale.

Un giorno un mio amico scherzando sul fatto che io leggo le opere di Steiner mi ha detto: “Beh, di cosa ti stupisci? La morte è semplicissima, no? É come il coma profondo – uno muore, pren-de un coma e non percepisce nulla, come nel sonno profondo!”. Era una battuta che però mi ha colpito moltissimo, perché la do-manda fondamentale che uno si dovrebbe porre nel momento in cui si inizia a concepire il tema dell’immortalità dell’anima è: se il corpo eterico abbandona il corpo fi sico, e se il fi sico non è solo lo specchio che ci permette di percepire il mondo dei sensi ma è anche il mezzo per renderci individui, persone differenti gli uni

11 Averroè (Cordova 1126 – Marrakesh 1198) è stato medico e fi losofo ed ha scritto numerosi commenti su Aristotele (tant’è che Tommaso d’Aquino lo chiamava “il com-mentatore”) cercando di conciliare l’arabismo, maomettanesimo, e l’aristotelismo (N.d.R)

12 R. Steiner: La fi losofi a di Tommaso D’Aquino - Ed. Antroposofi ca

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dagli altri, ci deve essere un qualche cosa che nel momento in cui si varca la soglia (e non da iniziati, questo è importante, perché da iniziato è un altro discorso) ci deve essere un qualche cosa che ci permette di percepirci come individui e di avere una coscienza.

É chiaro che all’inizio – quello che lei ha citato riguardo i primi tre giorni, cioè fi no a quando c’è ancora il corpo eterico – io credo che è possibile avere una coscienza perché il corpo eterico stesso agisce da rifl esso, da specchio. O sbaglio?

A quel punto io mi sono posto la domanda di capire che cos’è che permette all’uomo – non da iniziato – di avere un minimo di coscienza nell’aldilà. Ho iniziato a leggere opere di Steiner ed ho capito che l’unica parte in cui potevo comprendere questo era la cristologia, non c’era altro verso secondo me. E infatti nella cristologia, nelle conferenze di Karlsruhe Da Gesù a Cristo, ma ancora di più in quelle sull’anima umana, tenute a Norrkoping in Danimarca, Rudolf Steiner cita il fantoma.

Archiati. Da Gesù a Cristo è il volume 131 dell’Opera Omnia, mentre Cristo e l’anima umana è il volume 15513… tombola!

Intervento. …dicevo che in queste conferenze Steiner introduce un tema secondo me vitale anche per la comprensione, almeno così credevo all’inizio, che è quello del fantoma. Il fantoma è in sostanza, possiamo dire, una parte del corpo eterico (il formatore del corpo fi sico). La domanda è questa: a un certo punto il fanto-ma però viene deposto, allora l’uomo una volta varcata la soglia e aver deposto anche il corpo eterico, come fa a percepire? Che cosa gli permette di avere una coscienza anche individuale?

Archiati. Partiamo dal presupposto che la cosiddetta immortalità senza coscienza di essere un io, sarebbe una parola vuota, perché

13 Questi cicli di conferenze sono ora disponibili anche nella versione redatta da Pietro Archiati e pubblicati da Archiati Edizioni con i titoli: Il fenomeno Uomo, da Gesù a Cristo e Cristo e l’anima umana, il cuore dell’uomo alla ricerca dello spirito. (N.d.R)

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sarebbe come dire che resta tutto di me, le molecole, gli atomi, le correnti animiche, fuorché io! Se così fosse io non sarei immor-tale, ma lo sarebbero la sostanza animica, le forze vitali – quelle sono sempre immortali –, gli atomi del corpo fi sico, quindi giusta-mente il tuo primo pensiero è: l’essenza dell’immortalità dell’indi-viduo è di viversi come “io” anche dopo la morte, senza l’ausilio del corpo. E soltanto questo può essere immortalità.

Torniamo indietro di alcuni secoli, a questa controversia mici-diale tra Tommaso d’Aquino e Averroè. Ci sono dei quadri dove Tommaso d’Aquino, dove gli scolastici, schiacciano sotto i piedi questi musulmani – cose molto pericolose nel mondo d’oggi. In che cosa consisteva questa controversia?

Il pensiero fondamentale di Averroè, un arabo, era che non esiste uno spirito individualizzato. L’intelligenza che noi abbiamo, il pen-sare che noi abbiamo è il pensare divino. Quando ti crei un corpo, tu ti pigli una goccia, io un’altra goccia ecc. Quando moriamo la goccia ritorna nell’oceano, ma non esiste una individualità dopo la morte. Tommaso d’Aquino e gli altri scolastici percepivano – non ancora a livello di coscienza pensante quale possiamo noi oggi cominciare ad avere anche grazie alla scienza dello spirito –: “Se è come dice Averroé, povero il nostro Cristianesimo! Non esiste l’immortalità. Allora se l’individuo non esiste più dopo la morte, non può essere reso responsabile né del bene né del male perché non c’è mai stato come individuo, era solo un’illusione!”.

Quindi questi scolastici cristiani, che avevano un Cristianesimo del cuore, ma di quello buono, erano pensatori, però non ancora a livello di cogliere col pensiero il mistero – avvertivano che il mistero cristico dell’umano è l’io individualizzato.

Una volta che Tommaso è andato nel suo Kamaloca, cosa ha sco-perto? Se Tommaso fosse stato già perfetto sarebbe stato alla fi ne dell’evoluzione, e quindi qualcosa doveva imparare anche lui. Ha im-parato quello che tu hai letto da Steiner, e che Steiner ha aggiunto

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con la sua opera, ma l’ha aggiunto in base ai conti che si è dovuto fare Tommaso d’Aquino dopo la morte. Ciò che Tommaso d’Aqui-no dovette imparare – e fa parte del cammino evolutivo – è che la cosiddetta immortalità, cioè sentirsi e viversi come “io” anche senza il corpo fi sico, ha due caratteristiche fondamentali che nel medioevo ancora non si potevano cogliere come le possiamo co-gliere noi.

Ciò che la scienza dello spirito di Rudolf Steiner aggiunge come nuova conquista della coscienza umana, non come contraddizio-ne del Cristianesimo, è:

• l’immortalità non viene “data”, ma è oggetto di conquista della libertà

• seconda cosa, l’immortalità ha gradi di intensità, non si è tutti immortali allo stesso modo.

In altre parole: di ogni essere umano resta immortale ciò che è im-mortale, ciò che era immortale in lui già prima di morire, e nell’in-tensità in cui se l’è creato durante la vita. Quale coscienza dell’io è immortale (immortale signifi ca che non dipende dal corpo)?

Intervento. Quella del pensiero.Archiati. É quella del pensiero. Ma bravo! Allora se una perso-

na costruisce in modo sempre più forte una coscienza dell’io, e quindi un’auto-identità che non dipende da ciò che bevo, da ciò che mangio, dal Chianti, ecc... ma dipende dai pensieri, ad una tale persona cosa verrà portato via quando muore? Nulla, nulla di tutto questo.

Un’altra persona si è creata col pensiero pochino, pochino, di questa sfera di auto-identifi cazione con ciò che è eterno: dopo la morte gli resterà un lumicino di autocoscienza e capirà. Il Kama-loca infatti consiste proprio nel capire che non posso avere dopo la morte più coscienza dell’io di quella che mi sono creato durante la vita. Se fosse diverso sarebbe un’ingiustizia, uno si è dato da

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fare mentre l’altro ha poltrito e poi entrambi si ritrovano con la stessa coscienza dell’io – no, non è giusto.

Il senso dell’esistenza nel corpo è di acquisire la coscienza dell’io, ma una volta acquisita essa non dipende più dal corpo. L’acquisir-la dipende dal corpo perché soltanto nella materia ci distinguiamo l’uno dall’altro. Acquisirla signifi ca recepirla nel proprio spirito e renderla eterna, però a gradi d’intensità .

Intervento. Recentemente è uscito sulla rivista Antroposofi a un in-serto legato all’eutanasia, e all’interno si parla della coscienza di-cendo che l’uomo, una volta morto, ha una coscienza nettamente superiore rispetto a quando è in vita. Questo l’ha detto lei stesso nella conferenza, del resto. In un articolo, un antroposofo affer-ma che l’uomo mentre pensa è come se bruciasse le sue cellule cerebrali e conseguentemente, una volta morto completamente il corpo, la sua coscienza diventa nettamente superiore.

Però dopo quello che lei ha detto adesso c’è un problema. Io ho fatto un distinguo tra gli iniziati e i non-iniziati perché è chiaro che chi è iniziato può purifi care anche gli altri corpi – eterico, astrale e via dicendo – ed in questo modo avere, nell’aldilà, una percezione maggiore proprio perché ha anche degli strumenti ri-specchianti maggiori. Una persona che invece non ha questa pos-sibilità, perché magari ha vissuto una vita dissoluta, varca la soglia: i primi tre giorni ha una coscienza superiore, e dopo? Sarà in uno stato d’incoscienza?

Archiati. Credo che molte cose saranno più chiare con la con-ferenza di questo pomeriggio e con quella di questa sera... avrai pazienza?

Intervento. Vorrei sapere cosa pensa delle preghiere per i morti? Lei ha ricordato Dante, io so che lei ne è un appassionato lettore, e Dante insiste molto sulle preghiere, sul ricordo... le sarei grata se dicesse qualcosa su ciò.

Archiati. Le preghiere per i morti sono una cosa molto bella, per-

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ché documentano l’affetto, l’amore, l’essere legati con chi è morto. Ciò di cui noi stiamo parlando non è qualcosa che smentisce l’im-portanza della preghiera. La preghiera è un accompagnare il morto con il cuore e la domanda che noi ci poniamo è: cosa succede se accompagniamo il morto col cuore e con la mente? É ancora me-glio. Si può pregare per il morto anche senza sapere minimamente ciò che lui passa. Cosa sente il morto quando noi preghiamo per lui senza sapere ciò che lui passa? Il morto dice: “Ma guarda quanto mi vuol bene! La mia mamma o questi miei cari pregano per me, però sarebbe ancora meglio se avessero una minima idea di quello che io sto passando. Sarebbe molto meglio se mi accompagnassero un pochino”.

La soglia in cui ci troviamo ora è di aggiungere alla preghiera – che è l’accompagnamento del cuore – la conoscenza oggettiva di ciò che si vive dopo la morte, per accompagnare il morto non solo col cuore ma anche con la mente. Una mente talmente immersa nella realtà in cui vive il morto da far sì che questa conoscenza renda le preghiere molto più belle.

Supponiamo che io preghi: “Caro morto, io ti auguro con la mia preghiera che tu possa andare subito in Paradiso ed essere felice”. E lui mi risponde: “Ma che mi stai augurando? Io muoio dalla voglia di passare ‘sto Kamaloca perché se non mi purifi co io, del mondo spirituale non ci posso capire nulla! Quindi tu mi stai au-gurando qualcosa che non voglio, io invece voglio assolutamente farla, questa passata di purifi cazione”.

Supponiamo che il caro che è rimasto sulla Terra si faccia una pulita di cervello e impari ciò che il morto sta passando. In questo caso la sua preghiera sarà: “Ti auguro di passare questo Purgato-rio in un modo così conscio, così bello e con così tanta gioia che dopo, quando tu avrai bruciato tutto ciò che è puramente tuo, egoistico e personale, vedrai che gioia vivrai nei mondi spirituali”. E il morto dice: “Questa preghiera sì che mi piace! Questa sì che

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va bene!”.La preghiera tradizionale per i morti era più un contentino per

i vivi, che non per i morti. E va bene, mica niente di male, però c’è di meglio: c’è un tipo di preghiera che fa felice sia il vivo sia il morto.

Intervento. Come mai, nonostante tutto questo escursus così parti-colare di presa di coscienza nel post mortem, dopo alcuni si reincar-nano e sono completamente grezzi e inevoluti? Come è possibile? Perché effettivamente c’è molto da fare e quindi si dovrebbe rina-scere, non dico come un Dante Alighieri o un Tommaso d’Aqui-no, però con una certa evoluzione.

Archiati. Ma tu ne conosci persone grezze e inevolute? Io non ne ho mai incontrata nessuna.

Intervento. Beh! Persone sanguinarie per esempio, che fanno ve-ramente del male. Purtroppo persone che fanno soffrire migliaia, milioni di persone ci sono sempre. Ecco queste persone si sono reincarnate tante volte e quindi hanno passato tutto questo itine-rario così dettagliato, così opportuno. Come mai dopo aver subito su se stessi il dolore che hanno fatto provare agli altri, ricascano un’altra volta ritornando a farlo, e forse anche in modo peggiore rispetto a prima?

Archiati. Questo ci fa entrare in complessità abbastanza gros-se. Aggiungo solo un pensiero come un avvio di conoscenza. La libertà umana – torniamo sempre alla libertà umana – è la possibilità che dobbiamo avere, altrimenti non saremmo liberi, di omettere, omettere, omettere. Omettendo, omettendo, omet-tendo tu puoi passare fi nché vuoi il Kamaloka e renderti conto di ciò che hai fatto agli altri, di ciò che hanno vissuto gli altri per causa tua. Ma, avendo omesso, omesso, omesso il tuo cuore non viene trafi tto più di tanto. Vedi ciò che gli altri hanno vissuto ma, uso questa metafora, il tuo cuore viene trafi tto a seconda del tuo gradino evolutivo.

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In altre parole, stiamo dicendo che l’evoluzione è complessa e non si può ridurre a una formuletta. L’evoluzione deve esse-re complessa, ci mancherebbe altro, del resto per convincersene basta guardare l’organismo umano: il corpo ha una complessità vertiginosa! Immaginiamo quindi l’evoluzione. Da questo punto di vista ciò che noi qui stiamo facendo sono primi orientamenti, proprio i primi orientamenti conoscitivi, ma non per illuderci che le cose siano semplici. No, per avere un minimo di orientamento in una complessità che è infi nita. E tutto ciò ci dice quanto sia ingenua l’umanità di oggi, sia in campo scientifi co sia in campo religioso – dove di queste cose non esiste neanche la consapevo-lezza del fatto che questo cammino conoscitivo ci aspetta e ormai urge alla porta.

In altre parole, quello che in due, tre giorni qui ci diciamo serve piuttosto a mettere la pulce nell’orecchio, a creare mille domande, che non a darci la rispostina; la rispostina è sempre stata data, ma non basta perché le cose sono complesse.

Intervento. In effetti, anche nella vita alcune persone hanno svi-luppato una maggiore sensibilità alla sofferenza degli altri, mentre altri sono totalmente indifferenti. E quindi i conti tornano.

Archiati. Certo. La persona “A” ha sviluppato una certa sensibi-lità mentre la persona “B” non l’ha sviluppata. Come vive il Ka-maloca la persona “A”? Le trafi gge il cuore vedere la sofferenza che ha causato negli altri. La persona “B” è indifferente e resta indifferente!

Un’affermazione fondamentale del dopo-morte è che il dopo-morte serve a fare il bilancio dell’esistenza, a rendersi conto in chiave conoscitiva di ciò che si è fatto o non si è fatto, di ciò che si è combinato, di ciò che si è omesso ecc. ecc., ma non consente di fare neanche un minimo passo morale evolutivo. Per riprendere la propria evoluzione e fare dei passi avanti bisogna ritornare sulla Terra.

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Intervento. Abbiamo visto che l’anima si purifi ca col Kamaloca – che poi nella tradizione cristiana è il Purgatorio – solamente che nella vi-sione Cattolica, e cioè quando si pensa che ci sia una sola vita, il Pur-gatorio serve per arrivare in Paradiso, serve per arrivare nello spirito, mentre in questo nuovo contesto di più vite la cosa è un po’ più com-plicata. Come è possibile riportare tutte le brame nella nostra prossima incarnazione, dove ci sarà una continuità? Intendo dire: se abbiamo purifi cato le nostre brame nel Kamaloca, perché poi in qualche modo le riprendiamo quando torniamo a incarnarci? In questo senso, cosa signifi ca purifi carle?

Archiati. Per risponderti dobbiamo articolare un tantino il di-scorso, ed è proprio per questo che poco fa dicevo che la pulce nell’orecchio serve a far venire la voglia di studiarsi i 350 volumi dell’Opera Omnia. Non è una battuta, è seria la cosa, mica per nien-te io da venticinque anni li mastico giorno e notte. Per rispondere alla tua domanda, bisogna complessifi care un pochino il discorso fatto fi nora e distinguere ciò che io ho messo lì come se fosse una cosa semplice. “Purifi cazione” è una parola che rasenta il morali-smo perché non si tratta di purifi care, si tratta di rendersi conto.

Naturalmente la brama verso il Chianti si brucia, e si brucia per-ché la lascio indietro. Dopo aver passato la sfera saturnia – che Steiner chiama la mezzanotte dell’esistenza – si ritorna per tutte le sfere planetarie, che si trovano anche nella Divina Commedia: quella saturnia, gioviale, marziale, solare, mercuriale, venerea, lunare, e in-fi ne si ritorna sulla Terra.

Quando si ripassa per la sfera lunare, si ritrova il pacchetto karmico che si era lasciato su quella sfera – infatti nella sfera solare non si può portar nulla di soggettivo – e questo pacchetto karmico è tutto quello che resta da fare nelle incarnazioni successive. Quindi sareb-be errato pensare che il Kamaloca serva a smaltire tutto il karma, no, serve a renderci conto di quanto ancora c’è da fare. Nella sfera lunare l’essere spirituale che ritorna si riveste del suo corpo astra-

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le, e in questo corpo astrale ci sono tutte le forze karmiche che gli faranno rincontrare quelle persone a cui ha dato uno schiaffo, a cui ha fatto un complimento, che ha mandato al diavolo ecc.

Intervento. ...serve a correggere la nostra anima.Archiati. Correggere... sono tutti termini piuttosto negativi. Serve

per crescere nelle forze dell’amore. Perché parliamo sempre in ne-gativo? Serve per recuperare. Quanto ancora c’è da amare? Siamo all’inizio delle forze dell’amore. In questo pacchetto karmico c’è: “Ah, devo assolutamente rincontrare quella persona; nella vita pre-cedente è stato mio marito, ma gliene ho dette di peste e corna... se l’è meritate, eh! Però, poveretto, adesso ci riprovo, vediamo se mi riesce di amarlo un pochino di più. Lo voglio assolutamente rin-contrare”. Immaginiamo che queste due persone si incontreranno a trent’anni. In questo pacchetto di forze karmiche, di forze astrali, c’è quella forza che muove tutti i passi fi no a trent’anni, muove tutti i passi suoi e tutti i passi di quell’altro fi no a che si incontrano.

Intervento. La cosa è reciproca?Archiati. Sì, la cosa è reciproca, e se non lo è allora la vai a trovare

tu. Se è reciproca ci si viene incontro, se invece l’altro non vuole, al-lora lo vai a trovare tu. E lui dirà: “Ma chi ti vuole?!” e tu: “Ti voglio io!”. Il karma è complesso.

Intervento. Tenendo conto del percorso dopo la morte, cioè consi-derando i tre giorni importanti subito dopo la morte, qual è il dan-no che si apporta a un essere togliendogli degli organi per donarli? C’è un danno?

Archiati. Vogliamo risolvere il “problemino” del trapianto di or-gani? (ilarità in sala) É una domanda complessa, che richiederebbe almeno un po’ di contesto.

Supponiamo che l’umanità arrivi a livelli evolutivi tali da conosce-re in tutto e per tutto – però ci vorranno un paio di millenni – le forze karmiche esistenti tra queste due persone: il donatore e il rice-vente. Sono due mondi da conoscere, due mondi con il loro corpo

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fi sico, tutta la compagine del corpo eterico – che noi ora ignoriamo –, tutta la compagine del corpo astrale, del donatore e non, e dell’Io. In base a questa conoscenza minuta e concreta del karma, si è in grado di dire se questa donazione è nella saggezza del karma oppu-re se lede la volontà karmica dell’Io dell’uno o dell’altro.

Detto in altre parole, noi abbiamo un cammino della scienza che si fa forte della sperimentazione. A forza di sperimentare, qualcosa salta fuori e a forza di far saltare fuori le cose, si impara. Uno dei tratti fondamentali del karma dell’umanità di oggi, e delle passate che gli uomini d’oggi fanno dopo la morte, è la discrepanza as-soluta di evoluzione tra le conquiste della scienza (il fattibile) e la conoscenza (il dato morale). L’umanità sta facendo passi da gigante nella scienza e nella tecnica, e non si muove quasi per niente per ciò che riguarda il cammino di coscienza, di conoscenza di ciò che è invisibile, e per ciò che riguarda il cammino morale.

Quindi, il quesito morale della scienza e della tecnica d’oggi non è tanto il fatto che si stia facendo qualcosa di male, bensì il fatto che non si sa ciò che si sta facendo! Questo è il mistero karmico della scienza e della tecnica: che l’uomo d’oggi è in grado di fare, di fare, di fare – vedi la clonazione per esempio –, però non ha la minima idea di ciò che combina nel suo corpo eterico, di ciò che combina nella sua anima, di ciò che combina nel suo spirito. Ciò avviene perché la scienza ignora il mondo dell’eterico (del vitale), ignora il mondo dell’anima, anzi quest’ultimo non lo conosce proprio. In fondo neanche la religione tradizionale lo conosce: lo presuppo-ne, presume che ci sia, ma a conoscerlo scientifi camente neanche comincia. Non parliamo poi di ciò che è spirituale.

Quindi non si tratta di moraleggiare su ciò che fa la scienza e la tecnica dicendo: “È male”, perché sarebbe un discorso troppo raccorciato. Si tratta invece di rendersi conto che è bene per l’essere umano soltanto ciò che l’essere umano compie a ragion veduta, sapendo ciò che fa.

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14 Vangelo di Luca, Cap. 23,34

Alla svolta dei tempi, duemila anni fa il “fi glio dell’uomo”, quindi l’emergenza dell’umano, chiese perdono al Padre dell’umanità per tutto ciò che l’umanità aveva combinato fi no allora. E qual era il motivo del perdono? Leggiamo nel Vangelo: Padre perdona loro per-ché non sanno quello che fanno14. Questo signifi ca che l’umanità fi nora era bambina. Quindi questo perdona loro perché non sanno quello che fanno, varrà sempre? Se valesse sempre, noi saremmo destinati a non sapere mai quello che facciamo. Invece la legge dell’evoluzione è che ogni essere umano è chiamato a sapere sempre meglio ciò che fa. Quindi è molto meno legittimo invocare oggi, rispetto a duemila anni fa, questo perdono. Perché adesso il Padre dell’umanità deve perdonare una umanità che dovrebbe sapere un po’ di più ciò che fa, e lo potrebbe sapere, ma omette questo cammino di conoscenza.

Riassumo: il mistero dell’umanità di oggi è quello di una scienza e di una tecnica che fanno passi da gigante nelle loro conquiste, però con un divario pauroso rispetto alla coscienza da loro acquisita. Una scienza e una tecnica che combinano tante cose senza sapere ciò che fanno.

Intervento. Prima lei diceva del personaggio “B”, il “sanguinario”, che non è trafi tto dal suo periodo nel Kamaloca, come passa poi le altre sfere?

Archiati. Dormendo. Non ci vede quasi nulla e non ci capisce quasi nulla.

Intervento. E quindi ritornerà...Archiati. Obnubilato!

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I MORTI CI PARLANOanche i più duri

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Questa mattina le nostre considerazioni erano maggiormente ri-volte a ciò che i morti vivono, a che tipo di vita si fa dopo la morte. Questo pomeriggio invece ci occuperemo del colloquio, del con-tatto con i morti, in che modo ci si mette in rapporto con i morti. Siccome questa volta ci sono veramente tante persone – una cosa bella –, e le discussioni dopo la mia conferenza hanno già dimo-strato di essere molto più interessanti di quello che io ho da dire durante la conferenza, mi sono chiesto se non sia il caso, anche se non è previsto dal programma, di fare un quarto d’ora di scambio anche dopo questa conferenza. (il pubblico approva)Il pensiero fondamentale questa mattina era – ed è un pensiero molto semplice – che per farci un’idea di cosa passano i morti, prima di tutto dobbiamo avere una minima conoscenza del fatto che questi morti sono vivi, perché il materialismo (questa ipnosi del sensibile, questo vivere nell’immediato di ciò che si vede, di ciò che si tocca ecc.) ci bombarda da ogni parte. Per esempio adesso, venendo qui dall’hotel in cui sono alloggiato – impiego circa 10-15 minuti di strada a piedi – sono arrivato sudato perché è tutto un trambusto, e con questa realtà così martellante di ciò che è fi sico-materiale, come si fa a pensare ai morti? Neanche uno che deve tenere la conferenza ce la fa!

Quindi, per noi che siamo talmente bombardati da ciò che è vi-sibile, sensibile ecc., è molto diffi cile pensare che i morti, che non hanno più il corpo, non hanno più i sensi, non hanno gli occhi, non hanno gli orecchi, non hanno il naso ecc., vivono – se c’è – in un mondo che in realtà è spirituale. Però, nel momento in cui par-liamo di realtà spirituale, per noi bravi materialisti, è “aria fritta”.

Tutte cose naturalmente dove la discussione è lì apposta per po-ter prendere posizione e dire la propria. Io mica dico le cose con l’intento che voi mi crediate, o addirittura con l’intento di convin-cervi. No! Io metto lì le mie convinzioni come offerte al pensiero di ognuno, e poi ognuno si fa i propri pensieri. Intendiamoci bene:

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l’importante è che ognuno si faccia dei pensieri con la sua testa.Ci siamo detti, e lo ripeto come assunto fondamentale, che per

avere un minimo di possibilità di colloquiare, di entrare in rap-porto con i morti, bisogna farsi un’idea di come sono fatti questi morti, bisogna farsi un’idea del mondo in cui vivono. In altre pa-role: per un rapporto con l’altro, la conoscenza dell’altro è fon-damentale. Se io da genitore, da educatore non ho una minima idea del mondo in cui il bambino vive, e non riesco ad immede-simarmi, come faccio a mettermi in rapporto con lui? L’arte del rapporto è l’arte di immedesimarsi nell’altro.

Ora, se è vero che i morti sono dei tipini del tutto diversi da noi perché non hanno il corpo, non hanno i sensi, non mangiano, non bevono ecc., come possiamo addirittura illuderci di metterci in rapporto con loro senza un minimo di conoscenza oggettiva della loro realtà, del loro mondo, di ciò che vivono?

Tiriamo via dall’essere umano il corpo fi sico. Se tiriamo via tutta la materia – ad alcuni anziani non gli fa nulla tirar via la materia, ma se le belle donne in sala mi consentono di tirar via tutta la materia che c’è qui –, se da questa sala tiriamo via tutta la materia, immaginiamo che sparisca la materia… dico la materia, eh!? Cosa resta? Resta qualcosa?

Per quanto mi riguarda spero proprio di sì, che resti qualcosa, per esempio spero che restino i pensieri che mi sono preparato da dire in questa conferenza. Ma immagino che qui oltre ai miei pensieri ce ne siano altri. O mi sbaglio? Ci sono qui dei pensieri? Siete sicuri?

Ma che sono? Sono aria fritta o sono la realtà?I morti sono fatti di pensieri – primo elemento non materiale –, de-

vono avere dei pensieri e se voglio parlare con loro, devo farmi un’idea di quali pensieri pensano. E se è vero che essere incarnati, essere inseriti nella materia – per gioco forza, mica perché siamo cattivi ma per-ché non si può fare altrimenti – ci intride di brame, di desideri

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egoistici, allora il senso della morte è di diventarne sempre più disinteressati.

Lasciando via il corpo, lasciando via questo fascio di interessa-menti tutti personali, che sono inevitabili, spariscono anche questi interessi egoistici che sono dati dal corpo. Ecco che allora i morti devono avere dei pensieri almeno un pochino più amanti, più pie-ni di amore, più disinteressati, più universali.

Stamattina abbiamo visto tutto il processo del Kamaloca, che è il luogo della purifi cazione, le fi amme del Purgatorio, abbiamo visto che morire signifi ca diventare più oggettivi – che è una cosa bella – e che quando si muore ci si accorge di quanto uno fosse soggettivo, di quanto uno fosse fi ssato su di sé. Ma da vivi non se ne può fare a meno: ognuno deve pensare a se stesso. Morire signifi ca liberarsi da questo assillo del pensare a sé ed allargare lo sguardo, vedere un pochino anche gli altri, vedere un pochino anche l’evoluzione delle piante, degli animali e della Terra.

Parlavo questa mattina della prima metà del dopo-morte. I cat-tolici qui in sala mi perdonino alcune cose, ma parto dal presup-posto che c’è la morte, passa un arco di tempo dopo questa morte e poi c’è una nuova nascita. A coloro che sono cristiani cattolici non ho la possibilità di fondare tutte queste cose, ci vorrebbe molto più tempo. L’assunto fondamentale è che uso termini re-ligiosi per coloro che hanno alle spalle un Cristianesimo, un Cat-tolicesimo ecc. Se la grazia divina, l’amore divino, la divinità ha creato l’essere umano così pieno di belle cose, così capace di pen-siero – con pensieri che sono capaci di scandagliare tutti i misteri nel mondo, pensieri che non hanno limiti –, un cuore che è capace di amare, perché mai questa divinità dovrebbe essere così tirchia da farci nascere soltanto una volta e morire soltanto una volta?

La vita è la cosa più bella che c’è. Perché la divinità piena di amore ce la deve dare una volta sola? Questa è una cosa impor-tante per intenderci con i morti, perché se i morti sono convinti

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che stanno preparando la loro rinascita, mentre noi siamo con-vinti che si vive una volta sola o che, come dice il Cristianesimo tradizionale, si va all’Inferno eterno o in Paradiso, come possiamo intenderci con loro? Supponiamo che i morti lo sappiano (metà dei morti sono nascituri perché si stanno preparando a ritornare), e se noi abbiamo la convinzione che si vive una volta sola, non parliamo certo lo stesso linguaggio.

Quindi occorre schiarirsi le idee. Uno dei grossi problemi del Cattolicesimo è che la domanda, il quesito se si vive una volta sola o se si vive più volte non viene neanche permesso. Tutte le religio-ni orientali sono partite dal presupposto che ogni essere umano partecipa a tutta l’evoluzione dall’inizio alla fi ne. Supponiamo che ci siano ripetute vite – una cosa bellissima –, e se qualcuno fosse stufo di questa vita, il fatto che ci siano ripetute vite terrene sareb-be un motivo in più per tornare e non essere stufo. Perché la vita può essere una cosa stupenda, ed è bello pensare che se io non riesco a renderla bella questa volta, mi si dà un’altra possibilità, un’altra chance per renderla sempre più bella.

Se è così, qual è il senso del fatto che giusto il Cristianesimo ha perso di vista – nella sua coscienza – la realtà di questa dovizia della grazia divina che ci permette di vivere tante volte? Che senso ha aver perso la coscienza di questo? Il senso è bellissimo perché l’essenza del Cristianesimo è la divinità che si rifi uta di pensare al posto nostro e che ci rende capaci di pensare con la nostra testa. Questa è l’essenza del Cristianesimo che è puro umanesimo.

Nella prima metà dell’evoluzione, siccome eravamo ancora bam-bini, la sapienza divina veniva comunicata ed accompagnava gli esseri umani (l’Oriente ha accompagnato la prima metà dell’evo-luzione). Al centro dell’evoluzione avviene una svolta. La svolta consiste nel fatto che la sapienza divina si tira indietro sempre di più. Il dato di rivelazione, la pappa pronta – la rivelazione divina è la pappa pronta, che è importante e necessaria per i bambini –,

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si tira indietro sempre di più. Questa rivelazione della sapienza divina si tira sempre più indietro perché gli esseri umani vengono resi sempre più capaci di pensare con la propria testa.

Così come nel Taoismo, nel Buddismo, nello Scintoismo ecc., la realtà delle ripetute vite terrene era stata conferita come rivelazio-ne, allo stesso modo, nella seconda metà dell’evoluzione questa affermazione si è ritirata per dare ad ogni individuo la possibili-tà – bellissima – di riconquistarsi questa realtà. Di riconquistarsi cioè la coscienza delle ripetute vite a partire dal proprio pensiero, a ragion veduta.

Quindi era proprio il compito del Cristianesimo, era proprio il compito dell’emergenza dell’Io, della libertà del singolo che questo contenuto di rivelazione divina recedesse amorevolmente affi nché il pensare umano singolo, individuale, potesse riconqui-stare questa realtà. Il Cristianesimo tradizionale è in questa grande soglia dove addirittura ha ancora paura di lasciare che si ponga la domanda! Io sono dovuto scappare dalla Chiesa Cattolica – contentissimo eh! mi pare di vivere meglio senza –, e il motivo fondamentale è proprio l’aver posto questa domanda: “Ma chi ha deciso, chi ha decretato che si deve vivere una volta sola?”. Rispo-sta: “Tu sei eretico! Eretico, via!”. Ed io ho detto: “Vabbè, me ne vado. Liberi voi, libero io”.

Come possiamo immaginarci di colloquiare con i morti, di par-lare con loro, se ci manca questa lunghezza d’onda fondamenta-le, comune, che è il quesito – che loro sanno già subito dopo la morte perché c’è un ampliamento di coscienza enorme –: si vive più di una volta sulla Terra? E una delle prime cose che il morto si dice è: “Ma guarda come ero morto sulla Terra, ero veramen-te morto perché ero convinto che si vivesse una volta sola. Ma io sulla Terra, come ho potuto pensare che la divinità fosse così tirchia da dare una sola vita all’essere umano? Come ho potuto pensarlo?”. E allora dice: “Ah! Adesso mi rendo conto che ho

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diverse vite dietro di me: le vedo, comincio a vederle. E poi ne ho diverse altre davanti a me! Quindi ora mi do una bella pulitina agli occhiali in modo che possa veder meglio”. Questa pulitina l’ab-biamo chiamata Kamaloca, Purgatorio. E ci si pulisce gli occhiali perché senza pulizia non si può vedere. Dopo questo, lo sguardo si apre sempre di più. Abbiamo visto il quadro dei suoi pensieri, il suo vissuto, da liberare dalla zavorra dell’egoismo, e poi dopo il vissuto l’oggettività dell’evoluzione, ciò che è oggettivo.

In questa sfera dell’oggettivo il morto, il defunto, il trapassato che si immerge nei misteri dell’evoluzione si dice: “Devo lavora-re non soltanto all’umanità ma anche ai regni della natura; devo partecipare al modo in cui gli esseri angelici, con uno stato di coscienza superiore a quello umano, trasformano la fl ora e la fau-na”. Perché, quali sono i presupposti per ritornare sulla Terra? Per reincarnarsi? I morti ritornano sulla Terra soltanto quando questi presupposti a cui lavorano ci sono. E quali sono?

Il presupposto fondamentale è che quando un morto ritorna sulla Terra, le condizioni evolutive, le provocazioni per lo spirito umano – per il cuore e per la mente – a crescere siano cambiate. Altrimenti il morto si dice: “Le condizioni sulla Terra sono ancora com’erano quando sono morto, è inutile che ci ritorni”. Quindi, a meno che il morto abbia il compito di mettere in secondo piano la sua evoluzione individuale, e magari venir giù prima per dare un contributo all’umanità, le condizioni evolutive non sono più le stesse di quando aveva lasciato la Terra.

Se mette in secondo piano la sua evoluzione e ritorna poco dopo, perché ha da compiere una missione, le condizioni evolu-tive sono nella natura più o meno le stesse, però ha un compito di cultura da immettere nell’umanità. Ma in linea di normalità, in questa sfera dell’oggettivo, i morti lavorano alle piante, lavora-no all’ambiente, lavorano agli animali. Sono i grandi promotori dell’evoluzione dell’ambiente perché dicono: “Noi ci reincarnia-

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mo soltanto quando le condizioni evolutive sulla Terra saranno così diverse da quando siamo morti, che val la pena ritornare sulla Terra perché così potremo fare altri passi evolutivi”. Per esempio: “Nell’ultima vita non c’erano i computer, non c’era l’Aids, non c’era la Sars – allora noi aspettiamo e torniamo sulla Terra soltan-to quando queste belle cose nuove ci saranno, come provocazione a superarle e a crescere”.

Per poter colloquiare, per potere parlare con i morti è impor-tante capire che dopo il Purgatorio, il mondo in cui i morti vivo-no – e sul quale possiamo colloquiare perché è il nostro mon-do – è il mondo dell’oggettività, delle condizioni dell’evoluzione umana. Quindi i morti partecipano intimissimamente ai misteri dell’ambiente, partecipano tantissimo alle forze che conducono l’evoluzione delle piante, delle pietre, degli animali – lì troviamo i pensieri dei morti, lì troviamo l’operare dei morti.

Amare la Terra, occuparsi dell’evoluzione della Terra, signifi ca aprirsi – e lo si può fare coscientemente – ai pensieri, alle ispira-zioni dei morti che ci dicono come dovremmo fare, come do-vremmo trattare il minerale, come dovremmo trattare le piante, come dovremmo trattare gli animali e, soprattutto, come dovrem-mo trattare gli esseri umani. Il mondo in cui i morti vivono è il mondo dell’evoluzione oggettiva e i pensieri fondamentali dei morti sono le leggi dell’evoluzione.

Che pensieri pensano i morti? Pensano i pensieri che reggono le leggi dell’evoluzione, se ne innamorano, le trovano così belle! Per esempio la legge delle ripetute vite terrene, se c’è – dico così perché non voglio ledere la libertà di nessuno, visto che siamo in Occidente e siamo in fase di riconquista di questa realtà –, è una legge fondamentale dell’evoluzione. Ed è chiaro che il pensiero del-la reincarnazione è uno dei pensieri cardine di ogni persona morta, perché tutto quadra se c’è la reincarnazione. Tutto è comprensibile in questa ripetuta possibilità di camminare sempre oltre.

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Un Giuda che è morto: dove sta Giuda ora? Che fa? É sparito? É fi nito? Il Cattolicesimo per un certo tempo l’ha messo all’Infer-no, però negli ultimi decenni non conosco quasi nessuno (nean-che i preti) che, in buona coscienza, lo metta all’Inferno. Perciò io dicevo: “Beh, se nell’Inferno non c’è neanche Giuda, allora chiu-diamolo questo Inferno, tanto non ci va nessuno”. E se Giuda ci dicesse: “Ma io sono già ritornato un paio di volte…”?

Siamo all’inizio di una conoscenza oggettiva, scientifi ca, di ciò che è invisibile. E i morti, i trapassati, i defunti ci gridano a voce alta, ma proprio ci implorano, ci supplicano: “Ma carissimi, voi che siete sulla Terra occupatevi delle realtà, delle leggi dell’evo-luzione! Questi sono i nostri pensieri!”. Un Giuda che è appena morto, che si è tolto la vita, non vede l’ora di ritornare sulla Ter-ra… e il pensiero di un cattolico l’ha messo all’Inferno. Come può comunicare con Giuda? Manca la stessa lunghezza d’onda. Quindi la prima cosa fondamentale per comunicare con i morti è di pensare i pensieri giusti sull’evoluzione dell’umanità, sull’evo-luzione della Terra.

Se è vero che i morti lavorano alla realtà oggettiva, allora dobbia-mo conoscere i loro pensieri, dobbiamo conoscere il loro vissuto e dobbiamo conoscere ciò che sta loro a cuore. Cosa sta a cuore ai morti, al di sopra di tutto? Ai morti sta a cuore l’evoluzione di tutti e di ognuno. Che cosa può essere ancora più importante per i morti? Hanno uno sguardo scevro di egoismo, uno sguardo lim-pido sull’oggettivo e guardano agli esseri umani (quelli incarnati e quelli disincarnati) col desiderio di contribuire all’evoluzione di tutta l’umanità e all’evoluzione di ognuno.

Il cuore dei morti desidera il meglio per tutta l’umanità e il me-glio per ognuno. I loro pensieri sono intrisi di amore. Ma è chiaro, è una realtà così evidente! Perché se è vero che subito dopo la morte c’è questa purifi cazione, questo lasciare indietro la zavor-ra dell’egoismo, allora lo sguardo diventa più oggettivo e sorge

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l’amore verso l’evoluzione dell’umanità intera e di ogni individuo.L’evoluzione dell’umanità ha un sostrato, ha un presupposto. I

morti guardano ai destini della cultura umana, però sanno che la base, il fondamento della cultura è la natura e quindi si occupano dell’evoluzione della natura in quanto essa deve evolversi in modo tale da consentire sempre meglio l’evoluzione umana. I morti ama-no l’evoluzione della natura (le pietre, le piante e gli animali) come condizione, conditio sine qua non, come sostrato, come fondamento necessario all’evoluzione umana.

I due grandi amori dei morti sono due mondi infi niti – mica una cosa da poco – l’evoluzione della Terra e poi, come se non bastasse, l’evoluzione dell’uomo. L’evoluzione della Terra come fondamento dell’evoluzione dell’uomo. I morti godono di pensare pensieri sem-pre più profondi, sempre più belli, sempre più oggettivi, più lucidi e di farsi le idee sempre più chiare sull’evoluzione dell’uomo e della Terra. Se noi mettessimo l’antenna del cervello, i pensieri, sulla stessa lunghezza d’onda dei morti, coglieremmo i loro pensieri sull’evolu-zione della Terra e i loro pensieri sull’evoluzione dell’uomo.

Capire il linguaggio dei morti e creare l’antenna intellettuale e morale che percepisce, che raccoglie i loro messaggi, signifi ca: per far questo dobbiamo occuparci con sempre più gioia, con sempre più amore, dei destini dell’umanità e della Terra. Perché entrambi questi destini sono i due grandi amori dei morti. Morti, che in realtà sono più vivi di noi, e si capisce che sono più vivi di noi perché noi siamo soltan-to mezzi vivi, mentre loro sono vivi del tutto. Noi siamo mezzi vivi perché siamo mezzi pieni di egoismo e mezzi pieni di amore. I morti sono vivi in tutto e per tutto perché sono pieni di amore, si sono liberati dall’egoismo.

Rudolf Steiner descrive a più riprese che per capire sempre me-glio, per recepire sempre meglio i messaggi dei morti bisogna fare attenzione ad un regno fondamentale: lo chiamo il regno delle

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possibilità. Per esempio, per quanto riguarda la giornata di oggi, esso comprende tutto ciò che in questa giornata sarebbe potuto accadere. Noi conosciamo soltanto ciò che accade perché ce l’ab-biamo nella percezione. Ciò che accade lo sentiamo, lo vediamo, lo viviamo, ma molto raramente ci fermiamo a porre la domanda: cosa sarebbe potuto succedere oggi che invece non è successo?

Questi pensieri ci mettono veramente in comunione profon-da con i morti, perché i morti partono dal regno delle possibili-tà. Quindi pongo nuovamente la domanda: cosa sarebbe potuto succedere oggi che invece non è successo? Infi nite cose. Faccio un esempio: mentre sto bevendo il caffè può succedere che la tazzina, invece di andare fi no alla bocca rimanga un centimetro più indietro – magari perché sto parlando con l’altro – e che tut-to il caffè vada giù. Può succedere? Sì. Oppure può succedere, mentre sto scendendo la scala, di non notare l’ultimo gradino e di rompermi un pezzo della testa. Mi faccio capire? Il regno delle possibilità è infi nito. Di tutto quello che sarebbe potuto succedere oggi è successo soltanto una minima parte, che è quello che noi viviamo.

I morti scelgono, coscientemente e liberamente, nel mondo di tutto ciò che sarebbe possibile – e loro lo conoscono – tutto quello che è il meglio per noi. Noi non sappiamo ciò che sareb-be possibile, mentre loro vivono proprio in questo mondo delle possibilità, e da questo mare infi nito di tutto ciò che potrebbe accadere, scelgono tutto ciò che è il meglio per noi e lo fanno accadere. Ogni cosa che accade è una scelta, una decisione dei morti in un mare di possibilità che vengono scartate, che vengono decisamente e volutamente scartate.

Noi constatiamo ciò che capita soltanto quando si evidenzia attraverso la percezione sensibile: è capitato che io ho visto l’ulti-mo gradino, l’ho fatto, e quindi sono andato avanti. Proprio per il fatto che io l’ultimo gradino l’ho visto, non ci ho neanche badato.

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Mi viene forse in mente di pensare che sarebbe stato possibile non vederlo e quindi cadere? No, non ci penso perché ho da fare.

Quindi, a ciò che sarebbe possibile noi non ci pensiamo. Ciò che sarebbe possibile lo ignoriamo e prendiamo soltanto la metà del possibile, che sarebbe il negativo per noi – nell’esempio della scala mi sarei rotto la testa. Invece, ogni volta che io vengo pre-servato da qualcosa di negativo che sarebbe possibile, ma che non avviene, mi viene incontro una persona cara – che forse mi era particolarmente cara – che in quel momento ha fatto la scelta di preservarmi. É lui che mi ha portato via, che mi ha tirato via que-sta possibilità che c’era. Se lui non mi avesse portato via questa possibilità, io ci sarei caduto.

Perciò, tutto il male che non mi è capitato non mi è capitato perché i morti volutamente, amorevolmente, mi hanno preserva-to da questo male. E chiediamoci: quanti sono i contraccolpi che mi sarebbero potuti capitare e che invece non mi sono capitati? Infi niti. Nulla avviene a caso. Tutto avviene per decisione di amo-re. Le decisioni di amore che non siamo in grado di prendere noi le prendono esseri con una coscienza più vasta, esseri che hanno una consapevolezza di queste possibilità reali. Nel caso in cui que-sti esseri ritengano la possibilità di questa caduta come qualcosa che mi fa bene, che mi fa crescere, allora fanno sì che le forze del karma mi facciano cadere.

Tutto ciò che mi accade, mi accade perché i morti lo vogliono. Tutto ciò che non mi accade, non mi accade perché i morti non lo vogliono. Nel primo caso è una decisione loro che mi accada; nel secondo caso è ugualmente una decisione loro di preservarmi.

Le cose avvengano a caso? Io ho sempre detto che il caso è un buco nel cervello degli uomini. E coloro che spiegano tut-to col caso hanno nel cervello solo un buco. Cosa signifi ca dire: “É avvenuto solo a caso”? É avvenuto a caso signifi ca: “Non so perché”. Ma allora dimmi che non sai perché è avvenuto e non

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parlare di caso! Il caso, chi è? Che pinco pallino è il caso? Come fa a causare le cose, se è caso? Le cose o avvengono casualmente o avvengono causalmente. Casuale e causale sono la stessa cosa? Una è l’opposto dell’altra. Causale signifi ca che c’è una causa, mentre casuale indica proprio che non c’è una causa!

Può avvenire qualcosa senza una causa? La scienza moderna si basa sul dogma fondamentale che nulla può avvenire senza una causa. Ma il caso è la mancanza di causa, quindi è la contraddizio-ne più assoluta dello scienziato moderno, perché l’assunto fon-damentale di quest’ultimo è che tutto ciò che avviene deve avere una causa. Lo scienziato moderno spiega tutto causalmente, ma se vuol spiegare tutto causalmente non può permettersi di dire che qualcosa avviene casualmente, perché si contraddice in tutto e per tutto.

La scienza moderna si occupa soltanto delle cause e degli effetti visibili e quindi vede la causa nel mondo visibile, nella natura. Ma ciò che non ha una causa nella natura ha una causa spirituale. Dove non è la natura a causare qualcosa, sono spiriti a causare qualcosa. Quindi quando noi parliamo di caso intendiamo dire: “Non trovo una spiegazione nel mondo visibile”. Se non trovo una spiegazione nel mondo visibile – e il mio dogma mi dice che una spiegazione ci deve essere –, allora la spiegazione, la causa, deve essere di natura sovrasensibile. Questa causa sono i morti: è quello che i morti vo-gliono! Loro sono la causa di ciò che noi riteniamo avvenga a caso, perché non percepiamo materialmente la causa.

I tre grandi campi di infl usso dei morti, i tre grandi campi anche di colloquio con i morti sono :

1. i nostri pensieri,2. i nostri sentimenti, 3. e la nostra volontà, le nostre azioni.

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Quando noi parliamo di intuizione – ho avuto un’intuizione –, in-tendiamo dire: “Beh, questa bella pensata non la posso attribuire in tutto e per tutto a me”. Cosa c’è di strano che in un’intuizione che mi viene ci sia l’amore, ci sia l’ispirazione di uno spirito che ha oltrepassato la sfera della morte? Colloquiare con i morti signifi ca proprio parlare con loro: “Tu adesso sei oltre la soglia della morte. Sei morto da vent’anni, sei nella fase di vivere la vita a ritroso e cominci a vedere le cose un pochino più spassionatamente, come ti comporteresti in questa situazione? Che consiglio mi dai?”.

Mi piace tantissimo quando Steiner descrive che dovrà venire, dovrà sorgere una umanità nella quale i Parlamenti diventeranno molto meno importanti che non parlare con i morti ed ascoltare i loro consigli. Se nel Parlamento ci sono soltanto le coscienze incarnate, intrise di oscuramento, intrise di egoismo, cosa salta fuori da cinquecento egoismi? La bella società che abbiamo! La conosciamo! E Steiner racconta cosa sarebbe un Parlamento dove tutti per una mezzoretta stanno zitti. In Parlamento, che è il luogo dove si parla, tutti non parlano e ascoltano le ispirazioni dei morti, chiedono consiglio ai morti… Non andate subito a dirlo a Berlu-sconi eh!? (risate in sala)

Mi pare di capire che Steiner intenda dire: ci vorrà un pochino di tempo. Intende dire che probabilmente la sofferenza dell’uma-nità diventerà tale che gli esseri umani dovranno imparare – se non vorranno soffrire sempre di più – a prendere sul serio i morti. In altre parole: noi dovremmo soffrire talmente per il fatto di igno-rare i morti e per il fatto di non voler sentire la loro voce intrisa di saggezza che vuole il nostro bene, che a forza di vivere una tragedia dopo l’altra, a forza di soffrire, prima o poi impareremo a prendere sul serio i morti. Mi pare una prospettiva evolutiva molto bella!

Però ci accorgiamo che ci vuol tempo, anche semplicemente perché siamo agli inizi addirittura del farci delle idee sul fatto che i

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morti vivono. Io sono qui che sto sudando, ma non so mica quan-te persone ho convinto che i morti vivono, eh!? Mica mi illudo di aver convinto tutti quanti. Allora: c’è la diffi coltà a renderci conto che i morti vivono, poi come vivono, e poi addirittura recepire i loro pensieri, i loro saggi consigli. Ce n’è da fare, è un cammino evolutivo molto bello. E proprio perché c’è molto da fare è im-portante che ci siano delle persone che si rimbocchino le maniche e comincino a farlo.

Il colloquio, l’incontro, il rapporto con i morti rappresenta il fu-turo più luminoso, più pieno di speranza per l’umanità. L’umanità avrà un futuro soltanto nella misura in cui i vivi, i cosiddetti vivi, impareranno sempre di più a mettersi in rapporto con i morti.

Ora parto dal presupposto che fra cent’anni nessuno di noi sarà più vivo (in realtà saremo tutti più vivi di adesso), quindi psicolo-gicamente immaginiamo noi stessi ormai defunti. Immagino me stesso oltre la soglia della morte, che verrà prima o poi, a guardare giù gli esseri umani che con me non parlano, che non vogliono saperne di me, non si occupano dei miei pensieri e mi considera-no sparito. Gli esseri umani pensano: “Non c’è più”. Per i morti deve essere una tristezza infi nita sentirsi ignorati: “Ma quelli là sulla Terra non si occupano di noi; per loro è come se noi fossimo aria fritta!”.

Deve essere una grande tristezza per i morti, quando loro san-no che non soffrono soltanto loro, ma che siamo noi i primi a soffrire per il fatto di non considerarli. Se mi metto nei panni dei morti, se considero come io vivrò la mia morte, penso che mi toc-cherà vedere che tutti quelli che sono rimasti indietro mi avranno dimenticato, non si occuperanno di me o penseranno che non ci sono più, che sono sparito.

Il materialismo è una cosa poderosa, una cosa fenomenale. Uno dei suoi tratti più fondamentali è questo ignorarsi, questo ignorare tutti gli spiriti umani (che sono più vivi di noi). Tutti questi spiriti

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15 Dei volumi citati sono pubblicati in Italia dall’Editrice Antroposofi ca i seguenti: O.O.141 con il titolo Vita da morte a nuova nascita in relazione ad eventi cosmici; O.O.153 Natura interiore dell’uomo e vita fra morte e nuova nascita; O.O.157a Formazione del destino e vita dopo morte; O.O.181 Morte sulla Terra e vita nel cosmo.)

16 P. Archiati: “Angeli e morti ci parlano”- Archiati Edizioni

vengono ignorati.Per chi volesse digerire i volumi fondamentali dell’Opera Om-

nia di Rudolf teiner dove si parla dei morti, vi indico quali sono: O.O. 140, 141, 153, 157a, 168, 181, 182, ecc.15 Questi sono volumi particolarmente incentrati sui morti. Se invece volete un Rudolf Steiner diluito da Pietro Archiati c’è la nuova edizione di Angeli e i morti ci parlano16. In questo libro per esempio, ho parlato di quattro atteggiamenti, di quattro lunghezze d’onda, quattro stati d’animo fondamentali senza i quali non possiamo capire i morti (ne parla Steiner nel volume dell’O.O.181). Se noi non coltiviamo questi quattro stati d’animo fondamentali non è possibile capire il linguaggio dei morti.

Mettersi in rapporto con i defunti signifi ca capire il loro linguag-gio. Il linguaggio dei morti è il linguaggio oggettivo della realtà, e nell’umanità il primo inizio di linguaggio oggettivo è proprio la scienza dello spirito. La scienza naturale degli ultimi cinquecento anni – una bella cosa – è stata un primo inizio di linguaggio ogget-tivo sul mondo sensibile. Essa è una scienza oggettiva, necessaria per l’evoluzione dell’umanità, che ha sviscerato e tuttora sviscera il visibile, il tangibile, il sensibilmente percepibile a tutti i livelli. Ma la scienza dello spirito di Rudolf Steiner è un primo inizio di conoscenza scientifi ca oggettiva di tutto ciò che è invisibile: un vero e proprio uragano nell’umanità! Essa aspetta che ci siano in-dividui che se la godono, è tutta un’offerta alla libertà individuale. Vi garantisco che è una cosa proprio molto bella.

Per esempio in questo volume 181 – tra le altre cose – si parla

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di questi quattro stati d’animo fondamentali in cui vivono i morti e che è importante che noi coltiviamo, altrimenti non capiamo il loro linguaggio. Essi sono:

1. la gratitudine per tutto ciò che avviene2. il senso di comunione per tutto3. il senso di fi ducia verso l’avvenire 4. la capacità di diventare sempre più giovani.

I morti dopo la morte vivono in un mondo di gratitudine, sen-tono gratitudine per tutto ciò che esiste perché ne vedono il lato positivo. Essi si sentono in comunione con tutto ciò che esiste, come una cellula, come un membro dentro a un organismo viven-te. Si sentono in comunione con tutti gli esseri: tutto il cosmo è come un organismo spirituale.

Poi, per quanto riguarda il futuro, c’è questa prospettiva di speranza, tutta positiva, che ogni cosa che avviene, avviene per farmi camminare in avanti; avviene per favorire la mia evoluzione. Nulla avviene contro l’uomo, tutto avviene per l’uomo. Se io vivo qualcosa contro di me è perché ho omesso di trasformarlo in qualcosa che favorisce la mia evo-luzione. Tutto ciò che avviene, avviene a favore dell’uomo e nulla può avvenire contro l’uomo. Soltanto l’uomo stesso può mettersi – nella sua libertà – contro se stesso. Contro di me posso mettermi soltanto io. Tutto il mondo, tutti gli altri, tutto ciò che avviene, avviene con l’inten-to di favorire la mia evoluzione. Soltanto io posso danneggiare la mia evoluzione omettendo di afferrare in positivo tutto ciò che mi avviene.

Qualcuno obietterà: “Ma quello lì mica mi vuol bene, quello lì vuole imbrogliarmi!”. Se lui vuole imbrogliarmi danneggia se stesso, è un problema suo. Io posso fare del suo imbroglio un motivo di evoluzione. Chi me lo proibisce? “Ma mi ha rubato diecimila euro!”. Meno male, diecimila grane in meno. (risate)

Adesso vedo che vi siete svegliati veramente. State pensando:

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“Quello lì è matto del tutto”. Questo esempio l’ho anche scritto nel libro Il mistero dell’amore17 perché arriva sempre qualcuno che dice: “Sì, sì, sì, fai presto tu a dire diecimila grane in meno; a me quei diecimila euro mi servivano per campare”. Se ti servivano per campare, come hai fatto a campare fi nora senza spenderli? Perché se i diecimila euro te li hanno rubati, non li avevi spesi e quindi hai campato senza spenderli. Perciò non dire che ti ser-vivano per campare. Perciò è possibile vivere un furto dove mi spariscono diecimila euro, dicendo: “Oh, che bello! Che bello! La tasca più leggera… Che bella cosa!”.

La scienza dello spirito è il primo linguaggio comune tra i vivi e i morti. Noi viviamo, cari amici, nei tempi in cui per la prima volta è sorto nell’umanità dei cosiddetti viventi, un linguaggio degno, scientifi camente degno dei morti. La scienza dello spirito – così come l’ha inaugurata Rudolf Steiner – è il primo linguaggio che i morti veramente capiscono perché è un linguaggio di indagine scientifi ca e rigorosa dell’invisibile, almeno quanto la scienza na-turale è un’indagine scientifi ca del mondo visibile.

Perché noi diciamo che la scienza è un linguaggio comune a tutti noi? Perché è oggettiva. Se la scienza fosse una questione soggettiva, allora diremmo: “No, non ci capiamo”. Nella scienza ci si capisce perché si parla un linguaggio oggettivo, e il cardine di questo linguag-gio oggettivo sono le leggi di natura. Il linguaggio della scienza dello spirito sono le leggi di evoluzione dello spirito. Nella misura in cui noi le conosciamo oggettivamente, siamo in grado di parlare con i morti perché ci capiscono, e questo perché i morti vivono nei pensieri che sono le leggi oggettive di evoluzione dello spirito umano.

Steiner descrive un’altra cosa che è interessantissima, e dice: “Un individuo sulla Terra a cui è morta una persona cara, si chiede: ma

17 P. Archiati: “Angeli e morti ci parlano”- Archiati Edizioni

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come posso comunicare con questa persona?”. Una cosa che si può fare, e che duecento anni fa non era possibile nell’umanità, è di leggere ai morti.

Leggere ai morti vuol dire che, prima di tutto bisogna convo-care il morto, e il morto si convoca creando nella fantasia un’im-magine, una rappresentazione, tipica di lui. I morti cercano il rap-porto con i cari che hanno lasciato, ma la materia non la vedono, la Terra fi sica non la vedono e possono vedere i cari quando essi creano nella loro fantasia questa immagine tipica di loro. Il morto dice: “Cosa si accende sulla Terra?...Là, là, là, cosa sono queste luci? Ah, quella è la mia mamma! Quello è mio fratello!”. Deve essere un’immagine della fantasia, che deve essere vivida, in cui devo immaginare lui, il morto. Lo immagino – pensate a questa immagine vivida – come era solito mettersi nell’angoletto perché nessuno lo disturbasse, col giornale aperto. Immagino il modo in cui metteva i piedi, il modo in cui si nascondeva a tre quarti dietro al giornale ecc. Quante volte l’ho visto così?

Se io ravvivo nella mia fantasia questa immagine così tipica di lui – che non può essere di nessun’altra individualità – questa im-magine che si accende nella mia fantasia è come una luce. E lui dice: “Ah! Ecco mio fi glio che è rimasto sulla Terra, mi ricorda nel modo in cui io leggevo il giornale”. Adesso questo papà che è morto e che leggeva il giornale così, è lì, è presente. Ora il fi glio può mandargli dei pensieri di leggi, pensieri oggettivi sullo spiri-tuale, di ciò che il morto passa ecc. Il morto beve questi pensieri, li capisce, li fa suoi ed è pieno di gratitudine perché nessun essere umano può pensare, dopo la morte, pensieri che non ha pensato prima di morire.

Il peso morale dell’esistenza sulla Terra è che gli esseri umani possono progredire, evolvere nella loro forza di pensiero soltanto nello stato incarnato. L’unico modo di poter fare qualche passo in più è l’aiuto karmico delle persone care lasciate sulla Terra. Chia-

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mo il mio caro con questa immagine, e poiché lo visualizzo con i suoi tratti tipici non può essere che lui. Gli comunico i pensieri: “Stai attento che dopo la morte i primi giorni tu vedrai questo quadro immenso delle memorie, ma poi dopo tre, quattro, giorni sarà sparito. Tu cercherai di orientarti, ma io ti dico, ti faccio sa-pere che dovrai passare tutta la tua vita a ritroso cominciando da quando sei morto e andando indietro fi no a quando sei nato”. Il morto dice: “Ma è vero? Davvero?”. E allora comincia a orien-tarsi.

Oppure la persona incarnata, che siamo noi, gli dice: “Guar-da che tu, a un certo punto, tra la morte e una nuova nascita, e cioè dopo che hai tirato il bilancio della tua esistenza, dovrai cominciare ad orientarti (non a distinguere l’italiano dal cinese, dall’americano, dal francese ecc.), dovrai distinguere tra un ange-lo, un arcangelo… guai se li confondi! Perché se li confondi non capisci nulla. Dovrai distinguere un trono, un cherubino, e poi dovrai assolutamente distinguere un angelo da un diavolo”. Colui che è morto dice: “Ma come faccio a distinguere?”. E noi: “Te lo dico io! Io sono uno studioso della scienza dello spirito, te lo dico subito”.

Che differenza c’è tra un angelo e un diavolo? Tanti morti aspettano che gli diciamo questo pensiero. É semplicissima la dif-ferenza tra un angelo e un diavolo: l’angelo è tutto bello bianco e il diavolo è nero! (risate in sala) No. Quando ero piccolino mia mamma mi diceva che l’angioletto è sulla spalla destra mentre il diavoletto è sulla spalla sinistra. Io dicevo al diavoletto: “Via, via, via!” Mentre invece l’angioletto lo portavo con me.

No! La differenza è tutta un’altra: angelo è ogni essere che si mette al servizio dell’evoluzione dell’uomo, mentre diavolo è ogni essere che strumentalizza l’uomo per la sua evoluzione. Questo criterio è un pensiero però. È un pensiero semplice, no? Si capisce. Uno che è morto e che non ha mai pensato questo pensiero, non lo

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capisce. Però, se noi che siamo rimasti indietro gli comunichiamo questo pensiero, con questa chiarezza (una distinzione molto sempli-ce), la capisce, e dice: “Ah, grazie, adesso capisco. Questo essere mi viene vicino e mi accorgo che mi vuol bene: mi dà consigli che mi favoriscono. Poi mi viene vicino un altro essere… mi sta abbindolan-do: deve essere un diavolo!”.

Se il defunto, questa chiara differenza tra un angelo e un demone non l’ha pensata quand’era sulla Terra, dopo la morte non la saprà pensare senza l’aiuto di coloro che sono sulla Terra. Quindi noi dob-biamo partire dal presupposto che in tempi di materialismo abbiamo tanti morti che vivono nel mondo spirituale e sono pieni di solitudine perché non riescono a orientarsi, non riescono a distinguere nulla, non capiscono nulla.

Rudolf Steiner dice addirittura che abbiamo tanti esseri umani che tendono a ritornare sulla Terra cento, duecento, trecento anni prima di ciò che sarebbe bene per loro perché si stufano nel mondo spiri-tuale: una grande stufata! Le brame del mondo visibile sono talmente forti che ritornano giù prima – però questo scombussola tutto il kar-ma dell’umanità.

La concretezza del rapporto con i morti ci dice – faccio solo alcuni cenni – che i momenti privilegiati del colloquio, del dialogo, con i morti sono lo svegliarsi e l’addormentarsi. Il fare attenzione al mo-mento dell’addormentarsi ed al momento dello svegliarsi con l’inten-to di comunicare sempre più profondamente con i morti, fa parte della tecnica morale, dell’esercizio della fantasia morale, per accoglie-re sempre di più ispirazioni, pensieri e consigli dei morti.

Quando ci addormentiamo è il momento privilegiato per espri-mere le nostre domande ai morti (non le risposte, non si ricevono risposte quando ci si addormenta). Nell’addormentarci portiamo nel mondo spirituale – perché noi stessi lasciamo il corpo fuoriu-scendone con l’anima e lo spirito –, portiamo incontro ai morti le

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nostre domande. Il momento del risveglio riporta nella coscienza diurna le risposte dei morti. É importante sapere che nei sogni del risveglio riportiamo nel mondo ordinario le risposte dei morti. Quando tu ti risvegli, non te ne accorgi, ma in ogni risveglio sono sempre presenti i morti, soprattutto quelli che ti sono cari.

Nei sogni del risveglio ci sono le risposte dei morti. Per esem-pio: i morti da piccoli, i bambini, che tipo di risposta ci danno? Tutto il senso della religiosità, il senso del sacro. Steiner dice che il senso del sacro, il senso del religioso, la pietà, non ci sarebbero già più, se coloro che sono morti da bambini non parlassero a noi al momento del risveglio. Quando ci risvegliamo, portiamo sempre nella coscienza desta, anche se non ce ne accorgiamo, i messaggi, le risposte di coloro che sono morti bambini. E sono morti bam-bini proprio per fare il sacrifi cio di mantenere acceso nell’umanità il senso del divino.

Un’altra cosa interessante è che le domande che noi poniamo ai morti vengono dal morto e le risposte che il morto ci dà, sorgono da noi: si inverte tutto. Quando noi ci addormentiamo e in un sogno sogniamo un morto, è come se le nostre domande, i nostri quesiti, i nostri rovellii fossero diventati oggettivi dentro al morto. In altre parole, ciò che abbiamo da domandare al morto è ciò che lui porta dentro di sé. Il motivo per cui non cogliamo tante rispo-ste è che noi pensiamo di colloquiare con i morti allo stesso modo di come facciamo con le persone incarnate.

Quando io parlo, quando io faccio una domanda, la domanda parte da me e va verso l’altro. Quando lui mi risponde, la risposta parte da lui e viene verso di me. Con i morti è l’opposto! La domanda che io ho da fargli vive in lui, e la risposta che lui mi dà, la pone nella mia interio-rità e nasce da me. Questo è importantissimo, perché altrimenti noi, quando sentiamo qualcosa sorgere dalla nostra interiorità, pensiamo: “Questo viene da me, non può venire dai morti”. No, no. Le risposte che i morti ci danno sorgono proprio dalla nostra interiorità.

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Poi ci sarebbe tutto un lungo discorso da fare sulla grande diffe-renza che c’è tra le persone che muoiono da bambine e le persone che muoiono da anziane. Steiner dice, per esempio, che fare un funerale giusto, un funerale consono a ciò che fa bene al morto, è più importante che non tante decisioni parlamentari. Dice che è una cosa mostruosa celebrare allo stesso modo il funerale per una persona morta bambina e per una morta anziana. Per una persona che muore anziana il funerale protestante è quello giusto, perché questo tipo di celebrazione ha quasi nulla di rito, di rituale, quasi nulla di liturgia. Nel funerale protestante c’è al centro la predica, l’orazione funebre, il necrologio. Cioè, al centro di questa liturgia c’è qualcuno che per venti minuti, mezz’ora, articola e rende visi-bile e vivente la biografi a di questo individuo che ha vissuto sulla Terra per settanta, ottanta, novant’anni.

Quando si fa il funerale a una persona anziana l’individuo, nella sua unicità, deve venir portato a coscienza di coloro che restano sulla Terra. Invece quando muore un bambino le cose sono diver-se perché un bambino non ha avuto la possibilità di un’esisten-za individualizzata, non ha sviluppato uno spicco individuale, un contributo tutto suo. La morte di un bambino è un sacrifi cio di co-munanza nell’umanità e quindi lì va molto meglio un rito in chiave Cattolica. Una persona che muore da bambino non lascia la Terra, non ci perde perché resta con noi. È molto importante pensare a bambini, individualità che sono morte da bambine, come un’aura che aleggia intorno a noi, ma che non lascia la Terra. Quindi noi sulla Terra non perdiamo coloro che muoiono da bambini: restano con noi. Noi non perdiamo i bambini che muoiono e gli anziani che muoiono non perdono noi. Vedete che la scienza dello spirito è anche capace di porre le cose proprio in termini di chiavi di lettura.

Coloro che muoiono da anziani, non ci perdono perché sono diventati spiriti umani tali, hanno una matrice di pensiero così esercitata che ci portano dentro al mondo spirituale. Sono intrisi

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di ricordo, di vissuto passato con noi e ci portano nel mondo spi-rituale. Allora il dolore per un bambino che è morto è di tutt’altra natura che il dolore per una persona anziana che è morta. Queste differenze l’umanità di oggi non le conosce – vanno imparate ed è una gran bella cosa impararle.

Il dolore per un bambino che è morto è un dolore di com-passione. Si soffre con lui, si soffre della sua sofferenza perché è pieno di rammarico per aver lasciato la Terra senza neanche essere riuscito a gustarsela: stava ancora formando il suo corpo. Perciò i bambini restano con noi. Quindi il dolore per una persona che muore da bambino è un dolore di amore, di compassione, di immedesima-zione in lui che è morto. Invece il dolore per una persona anziana è eminentemente egoistico perché siamo noi a perderla. E non è un dolore di compassione perché la persona anziana ha svolto il compito che aveva da svolgere sulla Terra.

Quindi colui che muore bambino sente dolore per la sua morte perché aveva davanti a sé una vita. Forse è morto come sacrifi cio per compiere qualcosa nell’umanità, ma per quanto riguarda lui, voleva viverla la vita. Invece chi muore da anziano gioisce della sua morte, per lui la morte è fonte di gioia, non sente dolore.

É comprensibile che noi sentiamo dolore però è importante ca-pire che questo dolore è una faccenda nostra, è un dolore di natura egoistica. L’egoismo ce l’abbiamo tutti, nulla di male, però sarebbe un precluderci il dialogo con una persona anziana morta se noi pensassimo che il nostro dolore per la sua morte fosse anche il suo dolore. Entriamo in comunione con lui soltanto nella misura in cui ci sforziamo di vincere il nostro egoismo che ci fa soffrire per averlo perso, e siamo capaci di gioire della sua morte come ne ha gioito lui.

Allora sì che parliamo lo stesso linguaggio.

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Dibattito Intervento. Potrebbe per favore aggiungere due parole in relazio-

ne all’esposizione, testé interrotta, sulle domande che si pongono agli angeli custodi e le domande che si pongono ai morti? Che rapporto esiste tra gli angeli custodi e i morti?

Archiati. Qui noi vorremmo in un fi ne settimana risolvere tutti i problemi del mondo: già i morti sono un problemino che basta… se poi ci mettiamo anche gli angeli, poveri noi!

Intervento. All’inizio si è detto che i morti aiutano la decisione delle infi nite possibilità quotidiane che abbiamo. La mia domanda è: qual è il confi ne della nostra libertà? Voglio dire: tutte queste infl uenze che ci sono nel nostro karma, da parte dell’Io superiore, che infl uenza il momento della nostra morte, da parte dei morti, che possono infl uire nel mio quotidiano perché capiscono quello che può essere meglio per me, per il mio karma… ma io ho una libertà e quindi qual è il confi ne?

Archiati. Il dislivello tra ciò che non è libero e ciò che è libero proviene dal fatto che ciò che non è libero c’è di necessità. Di ciò che è necessario è pieno il mondo, le leggi della natura per esempio.

Intervento. Dal momento in cui io mi incarno, lo faccio perché devo fare un’evoluzione: allora se è un’evoluzione è perché io ho del mio da metterci.

Archiati. Sì. Voglio dire questo: le cose che ci sono, sono infi ni-te e sono così come sono. La mia libertà non sta nel far le cose diversamente, sta nel fare il meglio di ciò che mi capita. Però io posso omettere di fare il meglio di ciò che mi capita, ma allora non posso lamentarmi. La libertà è la somma di tutto ciò che mi è possibile. Tu dirai: però ciò che è possibile a me è una cosa mini-ma rispetto a tutto quello che c’è. Il peso morale di un solo fram-mento di libertà che io afferro e che realizzo, è infi nitamente più

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grande che non tutto ciò che c’è e che non è libero, perché non è libero. Quindi non è un discorso quantitativo. Se fai un discorso quantitativo, il non libero ti schiaccia; se fai un discorso qualitativo, un frammento di libertà vale qualitativamente di più che non tutto ciò che è determinato.

Intervento. Quindi le non-omissioni sono la mia libertà.Archiati. Esatto. E anche soltanto una al giorno di non-omissio-

ne pesa moralmente più che non tutto il dato di natura insieme, perché quella è bene morale. L’altro non è un bene morale, è un dato di natura.

Intervento. Se tutto quello che mi accade, mi accade perché i mor-ti lo vogliono, e tutto ciò che non mi accade è perché i morti mi stanno preservando, come interagiamo con il nostro pensiero, con il nostro volere? Io ho la possibilità di cambiare anche quel karma, di creare un pensiero nuovo, di creare una realtà nuova?

Archiati. (rivolto a chi a fatto l’intervento prima) Lui ha capito. Spie-gaglielo tu: si è visto che l’hai capito. Spiegaglielo tu perché c’è bisogno di variazioni.

Intervento. Perché secondo me nel momento in cui tu riesci a fare un atto di libertà, cioè un atto che ti allontana dalla necessità del tuo vivere, agisci nella direzione della tua libertà. Cioè, come dice Pietro Archiati, quando tu non ometti un’azione, fai una piccola trasformazione che poi trasforma tutto il seguito del divenire.

Archiati. Bravo! Il pensiero c’era. Tu stavi dicendo che gli angeli e i morti decidono di ciò che mi capita, ma io decido come reagisco, e questa è la libertà. Come io reagisco sono affari miei. Ti pare poco?

Intervento. Coloro che non reagiscono lo fanno di necessità, al-lora?

Archiati. Si lasciano fare. Invece di prendere in mano ciò che gli capita e farne il meglio, si lasciano fare. E come si lasciano fare? Si lasciano andare. Quindi di fronte ad ogni cosa che mi capita ho due possibilità fondamentali della libertà: prenderla in mano

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e reagire in modo da farne il meglio, e questo è sempre possibile, oppure perdere i colpi!

Intervento. Rimuovendo?Archiati. Ma una malattia, per esempio, che senso ha? Come l’affer-

ro io una malattia nella libertà? Facendone un trampolino di crescita. Qual è il senso di una malattia? Non è né l’inizio né la fi ne, perché l’inizio non è interessante e la fi ne è la fi ne dello spasso. Il senso di una malattia è il lottare contro. Nel lottare contro una malattia faccio sorgere in me forze che non potrei far sorgere senza lottare contro questa malattia – ed è proprio per questo che il morto me la manda.

Il morto mi dice: “Adesso tu ti sei dato una bella riposata, per tre anni non ti capitato nulla e sei pieno di forze. Allora approfi tta di que-ste forze, adesso ti mando una bella malattia e tu, con tutte le forze che ti sei procurato, lotti contro questa malattia. Te la godi proprio per superarla e quando l’hai superata, ti trovi con forze che prima non avevi”. Meglio di così non si può.

Intervento. Io chiedo scusa a tutti. Sembrerò anacronistico rispetto a molta gente che fa delle domanda più specifi che, ma volevo fare un paio di domande un po’ più generali. Apprezzo e ho profondo rispetto per la buona fede che spinge e che motiva il convincimento delle tue affermazioni, io però resto scettico. Anche se sono alla ricerca, come penso tutti qui (e la grande frequenza a questo tema dimostra che tutti siamo interessatissimi a questi argomenti), ma non riesco a crederci; non riesco a credere a tutto quello che si dice. Tutto quello che dici chiaramente prende spunto e ampio riferimento da quello che dice Steiner, ma…

Archiati. No, no, no! Io non ho mai creduto a nulla nella mia vita e la Chiesa Cattolica mi ha sbattuto fuori – e aveva ragione – pro-prio perché mi chiedeva di credere. Io ho detto a mia madre: “Io ti invidio, che sai credere a cose che non capisci, io voglio credere soltanto alle cose che capisco”.

Intervento. Ma è molto sottile la differenza tra il capire e il credere

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in questi argomenti, perché se si capisce si può credere, se invece non si capisce non si crede. Allora io non ho capito nulla.

Archiati. Ma guarda che se tu non hai capito nulla il problema è tuo, non mio.

Intervento. Sì, sì certamente. Ma io chiedo proprio questo: di ca-pire…

Archiati. Quando mi riferisco a Steiner, non intendo dire: ipse dixit, il “Dottore” ha detto. Intendo dire che se c’è qualcuno in-teressato a godersi quello che mi sono goduto io, la sua opera è a disposizione di tutti: cimentatevi. Guarda, io non voglio dar peso alle mie affermazioni citando Rudolf Steiner, non mi interessa proprio. Ciò che dico lo dico a partire dal mio spirito, perché guardando l’esperienza umana – e non sono nato ieri, ho girato un po’ tutto il mondo – ho cercato di usare il pensiero che il Padre Eterno mi ha dato (perché non l’ho creato io) e dico soltanto le cose che mi pare di aver capito, nel senso che mi spiegano, me-glio di altre ipotesi, il mondo in cui viviamo. Che i pensieri che io dico ti convincano o non ti convincano, non è importante. Ti mettono una pulce nell’orecchio? Bene, bene, bene, vai avanti con la pulce…

Intervento. In altre parole, tu fai riferimento alla vita come a qualcosa di ciclico, dove praticamente nulla muore ma tutto si trasforma: l’ani-male, il vegetale, l’essere umano. Questo ciclo vitale delle specie non basta alla mia sete di conoscenza, che ne è delle nostre sensazioni, delle nostre emozioni, dei nostri pensieri, della nostra individualità dal momento in cui si muore? Della nostra coscienza di essere nella nostra memoria? Cioè: se io ho avuto diverse vite e non ho coscienza delle vite che ho avuto, che senso ha riavere altre vite?

Archiati. No, no, no. Siccome siamo intrisi di egoismo sarebbe micidiale, nella fase mediana dell’evoluzione, se noi avessimo il ri-cordo delle nostre vite passate. Perché sarebbe micidiale? Perché, essendo intrisi di egoismo, se per esempio io sapessi che tu l’altra

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volta eri mia moglie e me ne hai fatte… (ilarità in sala)Il ricordo delle nostre vite passate nascerà soltanto quando sa-

remo capaci di farne un uso positivo; soltanto quando saremo capaci di non distribuire le colpe a tutti fuorché a noi stessi. Il motivo per cui ora non ci ricordiamo delle vite passate è che di-stribuiremmo le colpe a tutti coloro con i quali abbiamo vissuto fuorché a noi stessi. Tu ti ricordi di quello che ti è successo quan-do avevi un anno?

Intervento. Qualcosa…Archiati. No. Non ti ricordi nulla. Di ciò che è avvenuto quando

avevi sei mesi?Intervento. No.Archiati. Allora non è avvenuto perché non ti ricordi? Vedi che

il discorso non funziona? Non perché io non mi ricordo di qual-cosa signifi ca che non c’è stato. Però il fatto che non mi ricordo non è neanche la prova che c’è stato. Allora ritorniamo a dei pen-sieri fondamentali – però pensieri che devi far tu – perché il mio compito è quello di tirar fuori le persone dalla letargia di pensiero, che è quella che uccide l’uomo. Ed io ti tiro fuori dicendo: Giuda muore (ci ho scritto un libricino18), è fi nita la sua evoluzione? Dimmi, dimmi pensieri tuoi – i miei li conosco!

Intervento. Eh, non lo so, altrimenti non sarei qui a chiedertelo.Archiati. Non lo sai?Intervento. No.Archiati. Allora va bene che stai lì seduto e lasci parlare me. Vedi?

Però stai attento, che tu dica: “In fondo non lo so” è diverso da dire quello che hai detto all’inizio: “Non mi convinci!”. E quando tu hai detto all’inizio: “Non mi convinci, non mi convinci!” cosa ho fatto io? Calma, calma, calma. E adesso sei arrivato al punto dove dici: “Non lo so”. Bene, bene, bene, impara ciò che non sai.

18 Vedi nota n° 2 a Pag. 39

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Intervento. No, mi fa piacere: io voglio proprio queste risposte per poter rifl etterci su dopo.

Archiati. Quindi tu mi hai mandato una bella provocazione e io te l’ho restituita, vedi? L’importante che andiamo avanti tutti e due nel cammino.

Grazie a tutti e buona cena!

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SIAMO TUTTI IMMORTALIAllora pure innatali

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Questa sera vogliamo farci dei pensieri sul fatto che l’esistenza dell’essere umano – il vivere di ciascuno di noi, il godere pensieri, sentire delle emozioni, sentimenti, compiere delle azioni, insom-ma questo bel progetto di essere uomini e donne – non si limiti ai confi ni della nascita e della morte, e come in realtà questo spazio di tempo fra la nascita e la morte sia soltanto un trattino della nostra evoluzione.

Il quesito, la domanda che ci occuperà questa sera è: cosa c’è prima della nascita? C’è qualcosa prima della nascita? Chi siamo noi prima della nascita? Ci sono dei morti che stanno qui, poco prima della nascita, che stanno per ritornare sulla Terra? È una domanda un po’ inusitata nella cultura occidentale, e vedremo il perché. L’altra domanda ci è più nota ed è la domanda dell’im-mortalità: il corpo muore però l’essere umano continua a vivere per tutta l’eternità. L’essere umano è immortale?

Riprendendo i pensieri espressi oggi, riassumerei la conferenza del pomeriggio (ed anche di questa mattina) dicendo che i mor-ti, i defunti hanno nei nostri confronti un grande desiderio – il desiderio che sorga nell’umanità un linguaggio comune. Questo desiderio ce l’hanno di sicuro tutti i morti nella misura in cui esi-stono, sono vivi e ci accompagnano nel nostro cammino. I trapas-sati vivono nel mondo spirituale e vivono in compagnia di altre anime trapassate. Vivono in compagnia – supponiamo – di esseri angelici a vari livelli di evoluzione, vivono in compagnia di spiriti della natura (che sono in un certo senso più modesti che non lo spirito umano) e sempre più dopo la morte fanno una scoperta importantissima. Scoprono che lo spirito umano, che sia vivo o che sia morto, prima della morte o dopo la morte, si caratterizza per qualcosa che è comune a tutti gli esseri umani e che distingue l’essere umano da ogni altro essere.

Ciò che distingue l’essere umano da tutti gli altri esseri è il pensa-re, il modo nostro di pensare. Il pensare umano ce lo invidiano in

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un certo senso tutti gli spiriti, a partire dagli angeli, arcangeli ecc. Ce lo invidiano perché tutti gli spiriti sovraumani non sanno cosa signifi ca pensare dentro alla materia, pensare con lo strumento fi sico.

Ci possiamo immaginare gli angeli, tutti pieni di stupore, guar-dare questi spiriti umani incarnati che inabitano un corpo umano e che sono capaci di pensare servendosi di un cervello fi sico. E cioè guardano tutti noi. Gli angeli si dicono: “Ma come fanno questi esseri umani a pensare servendosi di un cervello fi sico? Come si fa a far sprigionare qualcosa di spirituale addirittura dalla materia?”. E probabilmente ci sarà qualche angelo che vorreb-be volentieri fare un tentativo di possedere anche lui un cervello. In fondo il fenomeno del possedimento, l’essere posseduti, sta proprio in questo: che ci sono tanti spiriti che ci invidiano questa corporeità meravigliosa e complessissima, questo strumento del pensiero, e quindi cacciano fuori dalla corporeità un io un po’ de-boluccio per mettersi al suo posto e possederne in questo modo il corpo.

L’unico essere spirituale sovraumano che ha lasciato la sfera del divino (il divino è lo spirito puro) per entrare in un corpo umano, e far l’esperienza della morte in modo da poter raccontare a tutte le gerarchie angeliche cosa passano questi esseri umani quando muoiono, e quindi cosa signifi chi aver paura della morte, è stato l’Essere solare. Colui che i cristiani chiamano il Cristo e che gli ebrei chiamano il Messia, è l’unico Essere che ha detto: “Io voglio creare i presupposti per entrare, per inabitare un corpo umano come fanno gli esseri umani. Voglio creare i presupposti per fare l’esperienza della morte”. E tutte le gerarchie celesti degli angeli hanno detto: “Ma come fai? Tu mica sei uno spirito umano”. E Lui: “Vi faccio vedere Io come si fa”.

Però l’ha fatto solo Lui ed è una cosa complessissima. Ci vuole tutta la cristologia di Rudolf Steiner per entrare un pochino più

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scientifi camente nel merito di ciò che ha fatto l’Essere solare – mol-to più vasto, molto più divino che non tutte le schiere angeliche. Di come sia riuscito, per gradi di ravvicinamento all’umano attraverso le forze della compassione, attraverso le forze dell’amore, a imme-desimarsi nell’umano a un punto tale da entrare – per tre anni sulla Terra – a vivere proprio in un corpo umano (Gesù di Nazareth) e fare l’esperienza della morte. Tutti gli altri esseri non umani non hanno la più pallida idea di cosa signifi chi pensare pensieri col so-strato, con lo strumento, di un cervello fi sico.

I morti fanno l’esperienza che dopo la morte, in quanto spiriti umani si possono pensare soltanto pensieri umani. In altre parole, l’unica cosa umana che resta la stessa a tutti i livelli dell’essere, sia che siamo nel corpo sia che siamo fuori dal corpo, è il pensare.

E l’altra cosa che i morti scoprono è che nessun essere umano può progredire nella sua capacità pensante fuori dall’esistenza. Il senso dell’esistenza è proprio di evolversi nel pensare. E allora i morti dicono: “Dai, tu che sei rimasto ancora nel corpo, tu che sei dentro allo strumento che ti concede di pensare: aiutami. Dai, mandami su pensieri, che ne ho bisogno, ne ho tanto bisogno adesso, perché le cose le capisco da morto soltanto se le so pen-sare”.

Essere un essere umano signifi ca capire le cose solo nella misu-ra in cui le sappiamo pensare. Allora il grande desiderio dei morti in questo tempo è che sorga nell’umanità una scienza dello spirito affrontata in chiave di pensiero – quindi pensieri che distinguono, che sotto-distinguono e che sanno cogliere le leggi dell’evoluzio-ne. Poi hanno il desiderio che noi comunichiamo loro questi pen-sieri che pensiamo, pensieri che non riguardano soltanto il mondo visibile, la scienza naturale, ma soprattutto l’invisibile.

Noi comunichiamo questi pensieri ai trapassati, che altrimenti non li potrebbero pensare perché non hanno più l’aiuto, il sup-porto, il sostegno del cervello fi sico per pensare pensieri umani.

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In altre parole, ognuno che muore porta con sé il bagaglio dei pensieri che ha saputo pensare. E se vuol continuare, se vuole fare dei passi in avanti nell’evoluzione del suo pensiero, deve ritornare sulla Terra. Questo è il senso del ritornare sulla Terra. Ritornare volentieri tra l’altro, con molta gioia e con molta gratitudine per porre le premesse… Cosa si ripromette chi ritorna sulla Terra?

Chi nasce, nasce con l’intento di non omettere, e si dice: “Sta-volta non voglio di nuovo disdegnare o trascurare il pensare per-ché adesso mi sono fatto una bella passata qui, nei mondi spiri-tuali. Non ci capivo niente, non sapevo distinguere niente, non sapevo se quello era un angelo, un arcangelo o un diavolo, non capivo se mi voleva abbindolare. No, no, no, stavolta torno sulla Terra, e guai se non coltivo il pensiero!”.

Quando si entra nel corpo si oscura la coscienza e si dimentica quello che ci si era ripromessi. Dopodiché si fanno i conti con la vita sulla Terra e poi magari si trascura di nuovo il pensiero. Quin-di si ritorna nuovamente nel mondo spirituale e ci si dice: “Man-naggia, un’altra volta. Me l’ero detto che mi dovevo dar da fare! E invece c’erano tante cose da fare sulla Terra… E poi io sono nato in Italia, dove c’era la cucina… è una cosa così bella, mangiare! E quando ho fatto tutte le cose che ci sono da fare, dove lo trovo il tempo per pensare?”.

E adesso che è morto va a mendicare i pensieri da quelli che sono sulla Terra: “Dai, mandami i pensieri”. E l’amico sulla Terra risponde: “Sì, ed io? Credi forse che per me sia diverso rispetto a quando tu eri sulla Terra? Anch’io ho da cucinare, ho il lavoro, la macchina e un sacco di cose da fare… non ho mica il tempo per pensare”. Allora si ritorna sempre sulla Terra con l’intento prin-cipale, che poi dimentichiamo, di far fare passi in avanti al nostro spirito pensante – lo spirito umano è uno spirito pensante.

Un esempio importante è che dopo la morte ogni spirito uma-no vorrebbe cogliere o vorrebbe capire il pensiero dello spirito

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dell’umanità, dell’universale umano, e si chiede: “Ma cos’è l’uni-versale umano?”. Si trova di fronte questo Essere solare (che gli esseri umani chiamano il Cristo, il Messia ecc.) ma non capisce cos’è perché avrebbe bisogno di forze di pensiero che interpreta-no, che capiscono, che approfondiscono e articolano l’universale umano. Se questo non è stato fatto sulla Terra, come si fa a pen-sare l’universale umano quando si è dopo la morte? Cosa hanno in comune tutti gli esseri umani? Che cosa vuol dire essere un essere umano?

Accennavo che una scienza, una conoscenza scientifi ca intrisa di pensiero, intrisa di comprensione intellettuale, diventa concre-ta. Ogni scienza consiste nel fatto che si supera la fase del dilet-tantismo. Essere scientifi ci in un certo campo signifi ca non anda-re per sommi capi ma diventare specifi ci. Prendiamo l’esempio della pedagogia: il dilettante è colui che va per sommi capi e dice che il bambino è bambino sia che abbia due, tre o quattro anni… il bambino è bambino!

Il pedagogo dice: “Sì, il bambino è bambino… fai in fretta a dir-lo! Una cosa è quando ha due anni e due settimane, e tutta un’al-tra cosa è quando ha due anni e quattro settimane”. Scientifi cità signifi ca distinguere sempre di più, diventare sempre più specifi ci, sempre più concreti. Naturalmente nel mondo visibile ciascuno di noi ha la possibilità, le forze, anche il tempo, di affrontare scien-tifi camente uno, due, massimo tre campi, però in quanto spiriti pensanti tutti noi abbiamo la capacità, la chiamata, la potenzialità a diventare sempre più scientifi ci nel campo che ci riguarda tutti. Il campo che ci riguarda tutti è lo spirito, è l’invisibile, è il campo dei pensieri.

In questo contesto il compito evolutivo del materialismo è di far-ci sentire la privazione di ciò che è spirituale fi no al punto in cui non riusciamo più a sopportarla. Ecco che allora cerchiamo libera-mente, con gioia, lo spirituale e diventiamo sempre più scientifi ci,

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sempre più specifi ci, sempre più concreti per quanto riguarda lo spirituale.

In questo contesto di scientifi cità, e non di dilettantismo, per quanto riguarda la conoscenza dello spirituale, volevo – prima di entrare in merito all’immortalità e all’innatalità che è il tema della nostra conferenza – accennare a uno o due esempi concreti di cose straordinarie che un Rudolf Steiner tira fuori proprio in questo poderoso inizio di una scienza dello spirito.

Adesso il discorso diventa un pochino scientifi co. Il mio intento è soltanto di mettere lì le cose, in modo che perlomeno si capisca cosa si vuol dire. Vi metto in guardia, però, che la cosa diventa specifi ca e quindi vi consiglio di ascoltare e poi di aspettare prima di dire: “Sì, è così. No, non è così! Ma che matto questo qua…” – prima bisogna vedere un pochino le cose.

Abbiamo già visto come Rudolf Steiner descriva il dopo-morte dicendo che tutte le forze vitali (il corpo eterico) si espandono in una rete composta da tutti i ricordi della vita, che diventa sem-pre più grande fi no al punto in cui (come nell’esempio delle tre o quattro gocce di vino rosso in una damigiana d’acqua) questo morto la perde di vista. Questo mondo di immagini resta però una realtà e nulla si perde di tutte le percezioni, di tutti i fram-menti di memoria e di tutte le rappresentazioni di una vita – nulla dell’umano va perso. Il concetto che qualcosa vada perso è un concetto errato: come può andar perso un pensiero? Come può andar persa una rappresentazione? Una rappresentazione di fan-tasia, di memoria, una volta avuta resta. Non si perde nulla.

Il morto ha davanti a sé questo quadro poderoso e globale di tutta la sua vita e vorrebbe comunicare qualcosa a una persona cara che è rimasta sulla Terra, forse la persona che gli è più vi-cina. Sto diventando minimamente scientifi co proprio per darvi un’idea – soprattutto per chi non lo conosce – del tipo di cose strabilianti che saltano fuori in Rudolf Steiner, dove uno si dice:

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“Un momento, vacci piano a dire che quello è stupido o matto; fatti un’idea prima di dire che è matto, prima leggi i suoi scritti”.

Steiner dice: il morto, il defunto vorrebbe comunicare un mes-saggio a chi è rimasto indietro, soprattutto alle persone più care. Ma se gli manda direttamente un pensiero, può succedere che quello lì sulla Terra (che è un bravo materialista) non ne venga neanche sfi orato. Quindi il defunto si dice: “No, il pensiero la-sciamolo perdere”.

Lui dopo un po’ si trova nel Kamaloca – nella sfera della purifi -cazione delle brame, dei desideri – e pensa di mandare, suscitare in chi è rimasto indietro uno stato d’animo. Supponiamo di far-lo sentire un pochino depressivo, un pochino triste. Quello sulla Terra mica si sogna di dire: “Questa tristezza viene da colui che è morto, che mi vuol dire qualcosa” no, si dice: “Oggi mi sono alza-to col piede sinistro!”. Attribuisce la sua tristezza al piede sinistro anziché al morto, e allora il morto si dice: “Ma come faccio io a farmi sentire? Come faccio a fare in modo che capisca che sono io che gli voglio dire qualcosa? Qua ci vuole l’immagine, perché con un’umanità imbambolata dall’immagine, dalla televisione, ecc... occorre mettergli lì qualcosa che vede”.

Allora cosa fa il morto? – Vi dico tutte cose descritte da Rudolf Steiner, mica cose che invento io –. Il morto dice: “Io prendo un’immagine di questa rete infi nita dell’immaginario di tutta una vita e gliela appiccico sul naso”. Il caro che è rimasto in Terra ha una visione – esistono visioni di morti –, ha un’immaginazione, un’apparizione oppure gli si presenta in sogno un’immagine del defunto.

Ecco che allora arriva qualcuno che dice: “Ma io ho visto il mio caro, una persona cara morta!”. Non sa che non ha visto la persona. Non ha visto il morto perché il morto sta molto di più nella sua anima (ed è uno spirito). Invece, ciò che è il tramite della comunicazione non è stato né l’anima del morto, né lo spirito del

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morto, ma un frammento del suo corpo eterico, di cui il morto si serve perché è l’unico modo di farsi sentire.

Ma colui che vive sulla Terra forse non ha la più pallida idea di queste cose, che sono conoscenze minimamente più scientifi che e non da dilettanti (naturalmente supponendo che questo bravo Rudolf Steiner abbia ragione e che non si inventi le cose). Allora capirete bene che c’è una bella differenza tra avere questo tipo di conoscenza scientifi ca o non averla. Se ho questa conoscenza scientifi ca, so in che modo il morto sta comunicando con me. So che mi sta mettendo in contatto con frammenti reali dell’imma-ginario totale della sua vita, dove ci sono miriadi di percezioni, di rappresentazioni che ha avuto e non mi sogno di dire che sono in contatto diretto con lui, oppure con la sua anima, col suo spirito.

Quindi so e dico: “Che cosa mi sta dicendo attraverso questa immagine? Perché, tra tutte le immagini possibili del suo corpo eterico, ha preso proprio questa per presentarmela? Che cosa mi vuol dire?”. Non mi fermo al fatto dilettantesco di dire che l’ho visto, ma so che questa immagine è soltanto un tramite attraverso il quale lui – con un frammento del suo corpo eterico – mi sta dicendo qualcosa.

Che sia vero o non vero, non è questo il concetto. Il concetto è che c’è anche nelle cose dell’invisibile, nella comunicazione con i morti per esempio, un livello di pre-scientifi cità dove manca una conoscenza scientifi ca molto più specifi ca, e c’è un livello di co-noscenze più scientifi che dove il tutto diventa molto complesso. Cosa signifi ca una scienza? Una scienza signifi ca qualcosa di mol-to complesso e il dilettante (chi non conosce quella scienza) è co-lui che semplifi ca quello che invece è complesso. Per il pedagogo la crescita del bambino è una cosa infi nitamente complessa. Per chi non è pedagogo è una cosa semplice.

In altre parole, essere scientifi ci signifi ca sempre complessifi ca-re le cose e non andare a naso. Se questo è vero, dobbiamo dir-

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ci che per quanto riguarda la scientifi cità dell’approccio al mondo dell’invisibile siamo all’inizio. Ma è una cosa bella perché vuol dire che c’è ancora tutto da fare, e se il da fare ce lo godiamo, è tutto godimento che ancora ci aspetta. Però è palese, è chiarissimo che l’umanità di oggi è analfabeta riguardo allo spirito. Il materialismo consiste proprio nel fatto di essere analfabeti o, se volete, di essere dilettanti e non ancora scientifi ci in fatto di conoscenza del mondo spirituale.

Questo è il modo numero uno per il morto di farsi sentire. C’è un altro modo, più profondo, dove però il morto rischia che il messaggio non venga recepito nella sua purezza. In quest’altro modo, il morto si serve di un frammento del suo corpo eterico non per far sorgere un’immagine, una visione, ma per far sorgere uno stato d’animo o, come dicevo prima, un umore. Si serve di immagini del sogno: uno si sveglia e come risultato del sogno (in cui tesseva, in cui lavorava il morto) si trova un certo stato d’ani-mo.

In base a certi orientamenti fondamentali che sono a disposizio-ne dell’umanità di oggi – nella misura in cui questo dialogo, questo rapporto con i morti viene coltivato – si diventa sempre più capaci di cogliere il messaggio di un sogno che provoca uno stato d’animo, e di sapere perciò che attraverso questo stato d’animo il morto sta cercando di dirmi qualcosa. Magari sta cercando di dirmi che è morto all’improvviso senza aver risolto quella tal cosa e quindi, attraverso il sogno, mi sta chiedendo di fargli il favore di andare a trovare quella persona. Oppure sta cercando di comunicarmi che in un certo cas-setto c’è una lettera, o qualcosa che lui avrebbe volentieri distrutto ma non è riuscito a distruggere ecc.

La comunicazione tra i vivi e i morti è destinata a diventare sempre più scientifi ca, perché se restiamo al livello del dire: “Ho visto qualcosa, ho avuto una visione di un essere di luce ecc.” niente in contrario, però fermarsi lì signifi ca restare a un livello estremamente dilettantesco.

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Ho portato diverse volte l’importante esempio di cosa signifi -chi vedere, percepire qualcosa: in questo caso vedere un’immagine, una visione e penetrarla col pensiero sono due cose ben diverse. L’esempio che ho spesso portato è di due genitori che, con un bambino piccolino (di un anno e mezzo), vanno su un monticello e vedono, in una valle – magari andiamo indietro un po’ nel tem-po –, una battaglia in atto. È una cosa pericolosa, con gente che si sta scannando, per cui i genitori dicono: “No, no, qua dobbiamo subito scappare”. Ora, supponiamo che abbiano anche un cagno-lino, o un asino, la domanda che uno si pone è: cosa vedono i genitori? Cosa vede il bambino piccolo? E cosa vede l’asino?

L’asino, se non è cieco, ha la percezione e vede quello che c’è nella valle. Il bambino, se non è cieco, se è un bambino normale, vede. Possiamo quindi dire che vede la battaglia? Il bambino, vede il pericolo? Il pericolo è una faccenda di interpretazione del pen-siero e non può essere nella percezione. Il pericolo è l’interpre-tazione del pensiero che dice: questa percezione è la percezione di una battaglia. Cioè: attraverso le immagini, che cosa coglie il pensiero? L’interiorità degli esseri umani che si stanno scannando e che sono nemici fra di loro.

Le percezioni mi dicono che non si vogliono bene, che si stan-no uccidendo a vicenda. Si stanno uccidendo a vicenda, si vogliono male a vicenda, non sono cose che si percepiscono, ma sono concetti, cose che afferra il pensiero. Noi, da adulti, siamo abituati da sem-pre ad intridere subito ogni percezione di pensiero perché inter-pretiamo la percezione. Diventare scientifi ci nel modo di trattare i morti signifi ca non fermarsi alla percezione. Una visione, un’im-magine, è una percezione. Se ho soltanto la percezione manca tutto. Devo capire che cosa mi si vuol dire con questa immagine. Con che cosa capisco cosa mi si vuol dire con questa immagine? Col pensiero, col pensare.

Quindi, a persone che vengono e dicono: “Ho visto questo, ho

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visto quest’altro”, io sinceramente rispondo: “Embè? Anch’io ne ho viste di cose fi nora”. Tutti ne abbiamo viste di cose. Immagi-nate quante percezioni abbiamo ogni giorno: milioni, ma non è quello l’importante. L’importante è il signifi cato. L’importante è come il pensiero afferra e interpreta le percezioni che ha e – lo dicevo all’inizio – il modo in cui il pensiero umano prende posi-zione interpretativa nei confronti della percezione. Questa strut-tura di interazione tra percezione e pensiero resta la stessa anche dopo la morte. Quindi il morto è confrontato con una serie di percezioni sovrasensibili, col compito di interpretarle, di capirle.

E con che cosa le capisce? Con la capacità pensante che si è creato sulla Terra. E se non se l’è creata, se ha esercitato poco il pensiero sulla Terra, capirà poco le cose che vede. Ma di cose viste ne avrà tantissime. Pensate voi che i frammenti da percepire, che il percepibile nel mondo spirituale, nel mondo invisibile, sia meno ricco della somma del percepibile del mondo fi sico? No! Signifi ca non avere la più pallida idea della ricchezza infi nita dei mondi invisibili.

La somma del percepibile nel mondo visibile (che è una som-ma infi nita) non è nulla rispetto a tutto quello che è percepibile nel mondo invisibile. Però anche questo infi nito percepibile del mondo invisibile non mi dice nulla se non lo interpreto, se non lo capisco, se non lo approfondisco col pensiero. Sono io col pensie-ro che devo distinguere questo da quest’altro: questo è un essere che vuole da me una cosa, questo mi vuole abbindolare, quest’al-tro invece mi vuol favorire, mi vuole bene, mentre questo non mi vuol bene ecc. Tutte interpretazioni di pensiero. Del resto, il senso dell’esistenza è proprio di abituarsi, di esercitarsi a pensare sempre meglio.

La gioia della vita non è in ciò che si vede, perché se la gioia della vita fosse in ciò che si percepisce dovremmo essere tutti fe-licissimi proprio perché siamo tutti imbottiti di percezioni – oggi

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infatti siamo bombardati da percezioni che più non si può. L’in-felicità che c’è nel mondo d’oggi proviene dall’esuberanza delle percezioni rispetto ai pensieri che ci appiccichiamo.

Siccome siamo bombardati dalle percezioni, tutte le nostre energie vengono portate via dal passare da una percezione all’altra e non abbiamo il tempo per pensare. In fondo neanche lo cerchia-mo il tempo per pensare e quindi siamo poverelli, perché siamo un sacco pieno di percezioni e vuoto di pensieri. Ma la gioia della vita sono i pensieri. L’essenza dello spirito sono i pensieri e non la percezione, perché la percezione è l’essenza del mondo peritu-ro, del mondo che passa. La percezione è proprio l’apparenza, la parvenza dell’essere. L’essere appare e presenta la sua parvenza nella percezione per provocarmi a trovare la sua essenza dietro la parvenza, attraverso il pensiero.

Come agiscono i morti sui nostri stati d’animo, sul nostro umo-re? Se noi rifl ettiamo su come avvengono gli eventi della storia, gli eventi del sociale, su come avviene tutto lo sfi larsi della cultu-ra, possiamo porci la domanda: ma il sociale, il modo in cui gli esseri umani si comportano fra di loro, la storia, viene creata con piena coscienza dagli esseri umani? La risposta è che la storia vie-ne creata in uno stato sognante degli esseri umani. Determinan-ti nelle decisioni storiche, nelle decisioni che creano la storia, ci sono sempre le ispirazioni, i desideri, gli intenti di coloro che sono morti. In altre parole, al decorso della storia e allo svolgimento del sociale partecipano per metà i vivi e per metà i morti.

Rudolf Steiner ha spesso parlato del modo in cui è scoppiata la prima guerra mondiale. Ha detto che se uno analizzasse lo stato di coscienza di veglia, o di obnubilamento delle poche persone – forse dieci, quindici – che sono state decisive perché scoppiasse la prima guerra mondiale, si renderebbe conto che sono stati molto meno determinanti i pensieri consci degli esseri umani, che l’agire di esseri extraumani (dove hanno lavorato anche i morti). Attraverso questo

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stato di obnubilamento della coscienza degli esseri incarnati, gli esseri extraumani e i morti hanno voluto raggiungere i loro scopi.

Ora vi porto un esempio molto bello di come i morti ispirino i vivi. Un esempio molto bello, occorre pensarci sopra, e il bello è proprio pensarci sopra. Steiner descrive che i discepoli del Cristo, gli apostoli che duemila anni fa hanno vissuto l’evento Cristo – una cosa così madornale che l’umanità l’ha posta al centro della storia dividendo il tempo prima e dopo Cristo – mentre erano in vita han-no capito poco, in chiave di pensiero, quello che avveniva. Avevano rimasugli di una chiaroveggenza naturale, atavica (gli ultimi resti di un collegamento col mondo spirituale che migliaia di anni prima avevano tutti), e con questi resti di chiaroveggenza hanno avuto un rapporto del cuore con questo terremoto successo duemila anni fa.

Nel terzo secolo dopo Cristo, dopo che questi dodici apostoli sono da ormai tre secoli nel mondo spirituale, dopo che si sono fatti il loro bel Kamaloca – perché ogni essere umano se lo deve fare –, all’improvviso cominciano a capire sempre meglio in chia-ve di pensiero, con pensieri umani, quello che è successo.

Steiner descrive – questo è l’interessante da verifi care – che un Tertulliano19 (scrittore poderoso, pieno di temperamento, pieno di impulsività, che ha scritto e coniato per primo il linguaggio cristia-no-latino nel terzo secolo) non è capibile, non è comprensibile, se non si parte dal presupposto che molti pensieri, molte intuizioni e interpretazioni dell’evento-Cristo gli sono stati ispirati direttamente dagli apostoli. Apostoli che, dopo tre secoli passati nel dopo-morte, cominciano a capire in chiave di pensiero umano, di interpretazione pensante, quello che era successo tre secoli prima e mandano giù questi pensieri a coloro che sono aperti per ricevere queste ispi-razioni. Tertulliano non avrebbe potuto assolutamente esprimere

19 Tertulliano di Cartagine, teologo apologeta (155-220 ca.)

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certi pensieri se gli apostoli non li avessero pensati e mandati giù per ispirazione, nel loro stato di dopo-morte.

Veniamo alla contraddizione della cosiddetta fede nell’immortali-tà esistente nella nostra cultura. La chiamo fede nell’immortalità dell’anima perché è una cosa a cui la maggior parte delle persone crede. Fede signifi ca: non ho l’esperienza diretta perché non sono ancora morto e non ho neanche l’esperienza diretta di persone morte. Esperienza che mi convincerebbe che non si muore con la morte, ma che la morte riguarda solo il corpo fi sico. Cionono-stante, credo, sono convinto che l’essere umano non termini con la sua morte ma continui a vivere.

Se questa fede nell’immortalità fosse convinta, fosse profonda, fos-se forte, a che serve la paura della morte? La paura della morte ci sta a dire che la fede nell’immortalità è diventata molto esile – è diventata debole debole. É una specie di assunto teorico che ci trasciniamo in un certo senso per tradizione. Si è sempre detto, le religioni hanno detto, che l’essere umano non muore con la morte e che l’anima è immortale. Però, di questa anima viviamo così poco, percepiamo così poco, che questa fede nell’immortalità non serve a vincere la paura della morte. Uno dei motivi per cui la fede nell’immortalità diventerà sempre più esile, e sarà sempre meno un conforto per vincere la paura, è che la fede nell’immortalità è in assoluta contrad-dizione col fatto che non c’è l’innatalità.

L’anima umana nasce ma non muore mai, però nasce, nel senso che comincia a esistere. Il buon cattolico cosa dice su quando l’ani-ma umana nasce? Il Cristianesimo tradizionale dice che al momen-to del concepimento (cioè quando vengono posti i presupposti) comincia a nascere il sostrato fi sico: la divinità crea l’anima e ce la mette dentro. Quindi quest’anima non c’era prima, viene creata. Ora sto parlando della fede Cattolica, ma ci chiediamo se è so-stenibile, se è veramente plausibile al pensiero umano – perché ci permettiamo di usare il nostro pensiero –, se questi pensieri che ci

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siamo trascinati per molto tempo, adesso non vadano rivisti pro-fondamente.

Il dogma fondamentale del materialismo dice che prima della nascita del corpo l’anima non esiste, bensì viene creata da Dio quando il corpo, attraverso l’atto del concepimento, comincia a formarsi. Io parlo di contraddizione perché il dogma del mate-rialismo dice che nulla ci può essere nell’anima umana che non dipenda dal corpo. Se l’anima umana non può esistere prima che nasca il corpo signifi ca che dipende in tutto e per tutto dal corpo. Perché se non dipendesse in tutto e per tutto dal corpo potrebbe esistere anche prima del corpo. Questa bella pensata in cui l’anima umana non esiste prima della nascita del corpo, e viene creata dal-la divinità con il corpo, è un errore pauroso del pensiero umano e dell’abisso del materialismo.

Nella misura in cui il Cristianesimo tradizionale ha fatto pro-prio questo pensiero, ha dimostrato di essere arrivato a un punto morto. Si è intriso talmente di materialismo che nel suo dogma fondamentale (l’anima umana non può esistere senza il corpo) è diventato materialismo anche lui. Del resto, questo pensiero non ha nulla a che fare coi Vangeli cristiani, non ha nulla a che fare con lo spirito originario del Cristianesimo. Se l’anima umana non esiste prima della nascita del corpo e non esiste senza il corpo, vuol dire che dipende in tutto e per tutto dal corpo. Arriva la morte, il corpo sparisce e, se non ci contraddiciamo nel pensiero, dovremmo dire allora che sparisce anche l’anima – proprio per-ché abbiamo detto che l’anima non può esistere senza il sostrato, senza lo strumento corporeo.

Quindi in fatto di immortalità dell’anima la sedicente cultura occidentale, cosiddetta cristiana, vive in una profonda contraddi-zione di pensiero.

Io non voglio criticare ma sono cose molto importanti, sono cose fondamentali e si tratta di onestà intellettuale. Se è vero che

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la cultura in cui viviamo vive in questo errore di pensiero, allora è importantissimo correggerlo. Immaginiamo che non sia vero, supponiamo che le anime che entrano nel corpo a partire dal concepimento esistano già prima – la preesistenza –, cosa sono queste anime? Sono anime di morti che stanno per ritornare nel corpo. Immaginate voi se loro ci sono e noi pensiamo che non ci sono?

Il concetto della preesistenza dice che il nascituro esiste da sem-pre come spirito umano e che, forse già da secoli, si sta creando i presupposti per ritornare sulla Terra. Steiner addirittura dice che il nascituro per trentacinque-trentasei generazioni partecipa alla linea di sangue, all’ereditarietà nella quale si vuole incarnare, segue già tutti i bisnonni, i bisavoli, i trisavoli ecc... indietro fi no a tren-tasei generazioni. Se consideriamo la durata di una generazione, circa trentatré anni, moltiplicando per trentasei, arriviamo a mille anni. Ben altro che dire non esiste o viene creata da Dio al mo-mento del concepimento!

Uno dei grandi compiti della nostra cultura è di riconquistarci la realtà della preesistenza, di correggere questo errore e di dirci: è uno sbaglio pensare che l’anima umana non esiste prima del concepimento. Tutte queste anime esistono ed hanno già passa-to diverse vite sulla Terra. Sono tutte già nell’arco di vita che va dall’ultima morte alla nuova nascita ed hanno, addirittura per dei secoli, partecipato a tutto quello che avviene sulla Terra, alla linea di sangue in cui vogliono nascere. E noi veniamo con l’idea che quest’anima viene creata da Dio perché senza il corpo non esiste.

Se invece partiamo dal presupposto della preesistenza capiamo subito l’innamoramento, in tutt’altro modo. Cos’è l’innamora-mento? Il fenomeno puro dell’innamoramento non è l’innamora-mento a senso unico, che può creare problemi, bensì è l’innamo-ramento a doppio senso, reciproco. L’innamoramento reciproco è uno dei fenomeni di cogenza più micidiali che ci siano; quando

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è reciproco poi, ci si piglia una cotta tale da dire: non ci posso far nulla.

Il vissuto animico dell’innamoramento di chi è incarnato è di una brama irresistibile: la brama irresistibile dell’uomo verso la donna e della donna verso l’uomo. Questo è un vissuto animico; qual è la realtà spirituale? Nell’anima di coloro che sono incarnati c’è la brama irresistibile. Però tutto ciò che è animico è il rispec-chiamento di una realtà spirituale. Qual è la realtà spirituale che si rispecchia nell’esperienza animica della brama irresistibile che attrae l’uno verso l’altra? É la volontà perentoria di chi si vuole incarnare – quella è la realtà spirituale.

L’attrattiva dei due sessi è certamente un fatto di natura, ma non è solamente un fatto di natura, sorge come rifl esso di una volontà dei nascituri nell’anima di coloro che sono viventi sulla Terra. La volontà di un nascituro ben specifi co sa che nel suo karma, nel destino della sua vita successiva quella donna deve essere sua madre e quell’uomo deve essere suo padre. Uno è nato in Canada, l’altra è nata in Cina e lui li vuole far mettere insieme. Quel signorino lì è capace di farli incontrare. In tutti i passi che questi due futuri genitori hanno compiuto fi no al loro incontro c’erano le forze di volontà incarnatoria di colui che li ha portati ad incontrarsi e a mettersi insieme.

La domanda dell’innatalità che chiede se si esiste anche prima di nascere è: ma i nascituri, gli spiriti che vogliono incarnarsi, ci sono o non ci sono? Vengono fabbricati al momento del concepimento? Quest’ultimo, tra l’altro, è un pensiero grottesco. Perché se è vero che Dio crea l’anima ogni volta che avviene un concepimento, signifi ca che non è mica Lui che decide quante ne fabbrica. Due persone si accoppiano, magari senza neanche volerlo, ma siccome si accoppiano Dio ci deve appiccicare un’anima – deve farlo!

Stiamo parlando di cose veramente grosse, veramente impor-tanti. Pensiamo al tipo di educazione, al tipo di pedagogia, che è

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tutta diversa se parto dal presupposto che l’anima del bambino prima non c’era oppure se penso che è sempre esistita. Se è stata creata da Dio alla sua nascita, viene giù e il compito nostro è dar-le una regolata e insegnarle come ci si comporta sulla Terra. In questo caso l’educazione, la pedagogia, sono gli adulti che dicono: “Cosa sei venuto a fare? Siccome noi siamo qui da un po’ più di tempo rispetto a te sappiamo, e tu devi imparare!”.

Nell’altra prospettiva questo essere che si incarna (un bambino di un anno o di sette anni, che va a scuola) ha alle spalle secoli, millenni di evoluzione. Ha lavorato al sangue, alla generazione, all’ereditarietà per trentacinque, trentasei generazioni. Poi, attra-verso l’innamoramento reciproco, ha fatto incontrare i suoi ge-nitori da due parti opposte della Terra e – insieme col suo Io superiore, con l’angelo custode e con l’Io dell’umanità – viene giù con una missione. Viene giù a far qualcosa, si è fatto dei piani. L’educazione quindi non è dirgli cosa deve fare, ma chiedergli: “Dicci cosa sei venuto a fare, chi sei tu?”. L’educatore è un giardi-niere – e non di più – che crea le condizioni, il suolo giusto. Però cosa salterà fuori da questa pianticella devono deciderlo le leggi immanenti della pianticella.

Aristotele – non il Cristianesimo, il Cristianesimo ha recepito questo pensiero di Aristotele – è stato il primo che ha perso di vista la preesistenza, e la preesistenza è stata persa di vista per darci la possibilità di riconquistarla individualmente in chiave di pensiero e non più in chiave di rivelazione.

Nella prospettiva della preesistenza, se ogni bambino che nasce è uno spirito che l’ultima volta (e già per diverse volte) ha passato secoli nel mondo spirituale, allora possiamo dire che esistono due tipi fondamentali di pedagogia. Questo bambino dopo l’ultima incarnazione si è purifi cato e poi, nel mondo spirituale, ha parte-cipato a cambiare le condizioni evolutive sulla Terra – per potersi reincarnare un’altra volta in condizioni diverse che provocano a

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fare passi evolutivi diversi. Questo essere ora viene giù non sol-tanto in condizioni uguali per tutti, ma viene giù con un compito unico, individuale, specifi co, tutto suo, una biografi a che sarà di-versa da tutte le altre.

Se le cose stanno così, questo ci fa dire che ci sono due tipi fon-damentali di pedagogia: una pedagogia che parte dal presupposto che non esistono le vite precedenti; e l’altro tipo di pedagogia che invece parte dal presupposto che c’è la preesistenza e che ogni spirito umano, ogni bambino, è un adulto di millenni nel suo spi-rito. Ogni bimbo è uno spirito che si incarna sapendo cosa vuole e concorrendo addirittura ad unire il padre e la madre, perché vuole lui che siano suo padre e sua madre. È bambino soltanto nel corpo che questa volta, di nuovo, si sta formando per poterlo inabitare, per poterlo usare come strumento di nuovi passi evolu-tivi, che però vogliono essere del tutto individuali.

Ecco quindi una pedagogia che gli crea tutte le condizioni affi n-ché questo fi ore (se è una rosa, se è un tulipano ecc.) si espanda, possa crescere e manifestarsi. Il pedagogo, in questa prospettiva non dice al bambino cosa deve diventare perché questo sarebbe un omicidio animico. Dire al bambino cosa deve diventare è uccidere ciò che lui è venuto a essere, ciò che lui non soltanto vuole ma deve, ciò che lui è come cellula, come organo unico nell’umanità – perché l’organismo dell’umanità comporta organi del tutto differenziati.

Quindi la domanda che il pedagogo rivolge al bambino, parlando con l’Io superiore e con l’angelo custode del bambino, è la domanda: “Chi sei tu nell’umanità? Qual è il tuo compito? Qual è il tuo contribu-to, il tuo modo specifi co di amare, di servire l’umanità? Cosa sei venuto a fare questa volta sulla Terra? Lo devi dire tu!”. Perché se la generazio-ne precedente dicesse a quella successiva come deve essere, saremmo dei conservatori a tutti i livelli e l’umanità non andrebbe mai avanti.

La generazione nuova porta giù sulla Terra impulsi nuovi di cui quella vecchia non ha la più pallida idea, perché altrimenti non

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sarebbe vecchia. In altre parole, avendo perso la prospettiva della preesistenza soffochiamo già in partenza il nuovo, il rinnovamen-to, i passi in avanti che i cosiddetti bambini portano giù, perché vogliamo dirgli noi cosa devono fare, come devono essere ecc. Gli diciamo: “Qui abbiamo uno Stato e tu per essere un bravo dipendente statale, per essere un bravo soldato, devi fare questo, poi questo e quest’altro. Tu sei venuto a servire ciò che già esiste, ciò che è già stabilito”. E quello dice: “Ma come? Io sono venuto per portare qualcosa di nuovo. Fatemi respirare!”.

Nella storia dell’immortalità c’è un’evoluzione dell’immortalità e quindi anche dell’innatalità. In questo senso possiamo individuare tre pietre miliari, tre gradini fondamentali. Ora prendo tre nodi fondamentali che ci faranno capire tante cose:

1. Aristotele2. Tommaso d’Aquino (alle prese con gli arabi, con il

mondo dell’Islam e con gli averroisti)3. la situazione oggi.

Aristotele è il primo grande pensatore che non parla della preesi-stenza. Non la nega espressamente, ma la mette nel dimenticatoio perché si concentra su quel lato, quell’aspetto dell’animico che si vive nell’interazione col corpo. Tra l’altro, tutto questo lo descrive scientifi camente. Aristotele fa partire questo vissuto dell’anima da quando nasce il corpo e aggiunge che tutto ciò che l’anima ha vissuto grazie all’interazione col corpo gli resta dopo la morte; gli resta la memoria di ciò che ha vissuto col corpo.

In base a queste affermazioni di Aristotele è sorto il pensiero della non-preesistenza e poi dell’immortalità. Quindi il fatto di poter guardare, in chiave di memoria, a ciò che si è vissuto quan-do si era nel corpo, rende l’anima immortale. Un’immortalità di ri-cordi per cui, nella vita spirituale, l’anima guarda sempre a questo

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momento della morte e dice: “Ah, io sono uno che era nel corpo! Quindi mi ricordo di tutto quello che ho vissuto quando vi ero dentro” – c’è un non cadere nel nulla.

Secondo passo fondamentale, seconda pietra miliare: siamo molti secoli dopo Aristotele (dodici, tredici secoli dopo Cristo circa) e Tommaso d’Aquino si arrabbia da morire con gli aver-roisti. Averroè diceva: “No, l’immortalità è un’illusione e non esi-ste l’anima individuale che resta cosciente del proprio Io dopo la morte. Grazie al corpo abbiamo l’illusione di essere separati dagli altri. Grazie al corpo abbiamo la sensazione di essere qualcosa di distinto, ma una volta che sparisce la corporeità il nostro fram-mento d’anima ritorna nell’anima universale e non c’è immortalità individuale”.

Tommaso d’Aquino dice: “Ma questa è una cosa madornale! Se non c’è l’immortalità individuale, l’individuo sparisce nel nulla dopo la morte; e se sparisce nel nulla non c’è nessuna possibilità di metterlo né all’Inferno né in Paradiso! Se sparisce nel nulla vuol dire che era un’illusione anche sulla Terra”. Quindi Tomma-so d’Aquino avverte che l’essenza dell’umano sta proprio nell’im-mortalità dell’Io, nel sentirsi un Io anche dopo la morte, nel vi-versi come Io anche senza il corpo, e dice che l’essere umano è immortale.

Oggi (terzo passo) siamo ad un altro punto dell’evoluzione per-ché siamo in grado, se lo vogliamo, di aggiungere al pensiero di Tommaso d’Aquino un altro pensiero, che lui a quei tempi non poteva pensare, e cioè che immortali non si è, immortali si diventa. Ognuno è di tanto immortale quanto è diventato immortale nel corso della vita. Ognuno ha tanta immortalità in sé quanto ha costruito in sé di spirituale – e questo varia da persona a persona.

Quindi l’immortalità non soltanto viene conquistata nel corso dell’evoluzione, ma ha tantissimi gradi di intensità: ognuno è di tanto immortale quanto spirito indipendente dalla materia ha vis-

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suto nel corso della vita. E viversi come uno spirito che è indipen-dente dalla materia è proprio il compito dell’evoluzione.

Come conquistiamo allora la preesistenza? Io vi sto dicendo che questo è il compito più importante non soltanto per la pedagogia, ma anche per il cammino dell’umanità: riconquistare la consape-volezza della preesistenza. Perché fi nché restiamo nel convinci-mento che l’anima umana non esiste prima che sorga il corpo, resteremo nell’abisso del materialismo, e ci rimarremo per tutto il tempo in cui penseremo così.

Lo ripeto: se è vero che l’anima umana non esiste, signifi ca che l’anima umana è in tutto e per tutto un risultato, un effetto della realtà corporea. E ciò signifi ca che quando la realtà corporea spa-risce, sparisce anche l’anima. Quindi: o riconquistiamo la realtà della preesistenza, e allora vinciamo, superiamo il materialismo, oppure restiamo del parere (dogmatico, tra l’altro) che lo spirito umano non esiste prima del concepimento. In quest’ultimo caso avremo di necessità un tipo di pedagogia che continua a uccidere le forze migliori che gli spiriti umani che si incarnano portano con sé con l’intento di fruttifi care e immettere nell’umanità, in modo da farla camminare verso mete continuamente nuove.

Ognuno nasce con un compito, con una missione individuale, e aver cancellato la preesistenza signifi ca aver ucciso il senso della vita. Come posso io scoprire il senso della mia vita? Come posso sentire che sono venuto sulla Terra con una missione, con un compito ben specifi co, con un progetto di vita, se mi sono messo in testa che io non esistevo prima del concepimento? Se io non esistevo prima del concepimento come posso aver portato giù un senso, un progetto della mia vita? Come posso sentire la missione che sono venuto a compiere?

Riconquistare la preesistenza signifi ca – in chiave psicologica – sen-tire questa gioia, questo prorompere di signifi cato che (se è vero, e per quanto mi riguarda è vero che ognuno di noi ha passato secoli

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e millenni prima di questa sua nascita) ognuno di noi porta in sé una missione nel suo spirito. Non l’ha portata a coscienza fi nora, ma c’è! Non esiste uno spirito umano che si incarna senza avere uno scopo tutto positivo, se no non si incarna.

Ma immaginiamo noi la decisione di passare un’esistenza sulla Terra per nulla? É assurdo! E ci lamentiamo che la vita è senza senso, che non c’è voglia di vivere. No! O riscopro la realtà della preesistenza e comincio a chiedere al mio Io spirituale, al mio angelo custode: “Cosa hai pensato prima che questa animuccia semi-conscia si incarnasse? Tu che sei il mio vero Io, tu che sei il mio spirito, cosa sei venuto a fare? Di sicuro hai una missione tutta tua, dimmela”, oppure cancellare la preesistenza signifi ca condannarsi a vivere da rassegnati, a vivere la depressione en-demica del materialismo. I compiti, non soltanto pedagogici ma di cammino spirituale, che incombono nell’umanità sono grandi, sono belli, ma sono urgenti; sono veramente urgenti.

Facciamo una pausa, e stavolta voglio proprio vedere cosa avre-te da dire in merito.

Dibattito Intervento. Ho capito giusto se dico che il numero delle anime

è un numero chiuso? Cioè, in questa stanza per esempio, sicura-mente non c’è nessuno che è sceso sulla Terra per la prima volta. Ma se è così, come posso io porre un limite al divino di decidere ad un certo punto di inviare qualcosa di nuovo che non ha un precedente? Ecco, c’è questo passaggio che mi manca.

Archiati. Che risposta ti dai?Intervento. Che risposta mi do? Io credo che ci siano momenti

nella storia della Terra, in cui il divino decide di inviare delle ani-me speciali, che abbiano dei compiti particolari per l’evoluzione dell’uomo. Ma, mi verrebbe anche da dire che il numero delle

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anime gira, che io non sono qui per la prima volta, che ho un percorso da fare e che l’obiettivo fi nale è quello di non ritornare, di fi nire questo percorso. Un po’ come diceva Aurobindo20, pro-babilmente il futuro non è solo un futuro di incarnazione umana (come siamo noi in questo momento), ma il percorso si evolverà in altra maniera. Ecco, questo mi verrebbe da dire.

Archiati. La tua domanda comporta diversi elementi e quindi adesso io ne prenderò uno alla volta. Quelli che dimentico me li ricordi perché sono tutti importanti. Cominciamo dall’ultimo.

Il concetto cristiano di reincarnazione, diverso da quello orien-tale, classico, è che non c’è una ruota che si muove all’infi nito ma che le reincarnazioni hanno un inizio e una fi ne. Benché siano diverse, non sono infi nite. In altre parole, l’evoluzione della Terra è concepita e va dal suo inizio alla sua fi ne, dopodiché ci sarà una nuova forma planetaria della Terra che la Bibbia chiama la “Terra Nuova” (la nuova Gerusalemme) in cui non ci sarà questa legge fondamentale dell’evoluzione che è quella della reincarnazione. Quindi le esistenze umane sulla Terra hanno un inizio ed hanno una fi ne, ma non c’è n’è solamente una di esistenza.

Altro aspetto di ciò che tu dicevi è che noi o diciamo che gli spiriti umani sono stati tutti creati all’inizio, oppure diciamo che a ogni concepimento ne viene creato uno nuovo.

Intervento. Oppure metà e metà! Intendo dire che ogni tanto, può essere previsto che ne venga creato uno nuovo.

Archiati. Questo complica un pochino il compito. Diciamo che se l’organismo spirituale dell’umanità non fosse stato concepito completo dalla fantasia divina, allora la fantasia divina sarebbe ca-rente. In altre parole, il concetto di organismo spirituale dell’uma-nità comprende tutti i suoi membri nella mente divina. Quindi

20 Sri Aurobindo, fi losofo, mistico indiano (Calcutta,15 agosto 1872 – 5 dicembre 1950)

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non possono subentrare più tardi, in quanto cominciare ad esi-stere. Che questo essere, presente da sempre nella mente divina, si manifesti in un certo senso, in un altro senso, in un senso inno-vatorio, ecc. queste sono questioni di manifestazione sulla Terra e non del sorgere di uno spirito che prima non c’era. Altrimenti il concepire l’organismo dell’umanità sarebbe stato carente all’ini-zio.

Il problema dell’aumento della popolazione ce l’ha chi pensa che si vive una volta sola. Se si vive una volta sola vengono create sempre nuove anime; e che motivo avrebbe la divinità di creare oggi più anime che non tremila anni fa? Perché proprio oggi e non tremila anni fa? L’altro pensiero è che gli spiriti umani sono stati creati tutti all’inizio in questo organismo dell’umanità. Però era un organismo non ancora differenziato, e il senso di inserirsi ripetute volte nella materia è proprio di diventare sempre più au-tonomi. Gli Scolastici infatti dicevano materia principium individua-tionis: il fatto che ci congiungiamo col corpo ci rende autonomi, distinti gli uni dagli altri. Quindi l’inserirsi nella materia è l’acqui-sire, oltre al fatto di essere organizzati in un organismo spirituale, di diventare un io autonomo. Si diventa un io autonomo soltanto congiungendosi ripetutamente con l’elemento della materia.

Il numero degli spiriti umani è sempre lo stesso. Sono stati crea-ti dalla fantasia divina all’inizio, però sono composti da due strati: quelli incarnati e quelli fuori dal corpo (i morti). Se mettiamo in-sieme queste due parti dell’umano, il numero degli “Io” umani è sempre lo stesso. Del resto, far sorgere un Io umano ora sarebbe come far nascere qualcuno a trent’anni. Perché non si può nascere a trent’anni? Così come non si può nascere a trent’anni, non si può nascere come spirito umano quando l’evoluzione è già avanti di un terzo o di due terzi.

Quando gli spiriti incarnati aumentano di numero diventano un pochino di meno quelli che sono nel mondo spirituale, perché il

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numero totale è sempre lo stesso. Siccome il tempo che si passa nello spirito tra una morte e una nuova nascita, normalmente è molto più lungo che non il tempo che si passa sulla Terra, il nu-mero degli spiriti umani in questo momento escarnati è molto maggiore che non quello degli spiriti incarnati. Quelli incarnati sono circa sei miliardi, quelli escarnati sono tre, quattro, cinque volte di più, però sono numerati.

Quindi le incarnazioni hanno un inizio e una fi ne. Quello che tu dicevi è che c’è sempre bisogno di missioni particolari, ma una missione particolare la puoi affi dare a uno spirito che, come tutti gli altri già esiste da sempre. Questo spirito non ha bisogno di nascere adesso e se c’è bisogno di una missione particolare, gli affi di una missione particolare. Un Francesco d’Assisi (o uno Sri Aurobindo) perché non può essere uno spirito che è stato creato dalla mente divina fi n dall’inizio? É stato creato dall’inizio però in questa in-carnazione – supponiamo che sia come Aurobindo – ha avuto il compito di immettere importanti impulsi evolutivi per l’umanità. Come spirito non ha bisogno di sorgere ora.

Intervento. Nella mia testa ho sempre pensato a una fi gura anche demoniaca come quella di Hitler per esempio, e penso che for-se nell’evoluzione dell’uomo, nell’assolvimento di un karma (ad esempio quello del popolo ebraico) la divinità decide di mandare sulla Terra un angelo o un demone (come in questo caso) perché si compia quel fatto. Ed è una cosa unica.

Archiati. Non è che la divinità mandi un demone. Ci sono questi demoni, ci sono sempre! Così come ogni individuo ha un angelo custode e un suo demone individuale, così ogni popolo ha uno spirito del popolo e un demone del popolo. Perché se non ci fos-sero forza e controforza non ci sarebbe la libertà. La libertà è sempre possibile se io posso scegliere tra la forza e la controforza. Se ottanta milioni di individui – prendiamo il popolo mitteleuro-peo – omettono, fanno peccati di omissione, di congiungersi, di

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aprirsi alle ispirazioni dello spirito di popolo, allora si espongono alle ispirazioni del demone del popolo.

Io parto dal presupposto che questo demone del popolo è un essere spirituale reale. Se è un essere spirituale reale e se questo popolo, in un modo forte omette di congiungersi con lo spirito del popolo, conferisce al demone del popolo una potenza tale per cui è capace di rendere posseduto di sé un essere umano. Quindi il fenomeno Hitler non lo spieghi senza ricorrere alla possessio-ne, senza ricorrere al fatto che il vuoto lasciato dall’infedeltà allo spirito del popolo, ha reso il demone del popolo talmente potente da afferrare un catalizzatore e compiere quello che ha compiuto.

E resta la domanda, molto importante tra l’altro, che Steiner ha espresso nei confronti di Napoleone (però è morto prima che venisse Hitler); Steiner ha detto che ha cercato a lungo l’Io di Napoleone ma non l’ha trovato. In altre parole, Napoleone non era un Io umano. Quindi forze extra-umane si sono impossessate di questo corpo astrale, di questo corpo eterico, di questo corpo fi sico ma, un Io umano non c’era. Per me resta la domanda: Hitler era veramente un Io umano? Perché per permettere un fenome-no di possessione a questo livello, c’è da chiedersi veramente se ci fosse stato un Io umano. Ed esseri umani che cominciano a omettere l’umano a livelli tali da cominciare a disfare – almeno parzialmente – l’Io, ce ne sono tanti, dice Steiner. Questo conferi-sce naturalmente alle controforze una potenza sempre maggiore.

Intervento. Quando lei ha spiegato che i morti trasmettono a noi visioni, parlava dei morti in questa vita? Mi spiego meglio: io non riuscivo a stare dietro a questo discorso perché io in questa vita non ho dei morti cari. Quindi mi chiedevo: ma allora chi me le manda queste intuizioni o queste visioni se non ho morti cari?

Archiati. Non c’è bisogno che sia un morto caro; può essere un morto che sa che certe cose le può fare soltanto lei nell’umanità e perciò acchiappa lei.

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Intervento. Quindi non è detto che debba essere un morto caro?Archiati. No, con un morto caro avviene più di frequente e più

facilmente, ma i morti agiscono dappertutto dove possono.Intervento. Volevo una precisazione. Lei ha detto che quello che

rimane è il pensiero nella parte dell’Io del morto, allora volevo chiedere se c’è differenza tra pensiero e ragionamento. Vorrei ca-pire: cos’è del pensiero che rimane nell’Io poi costante?

Archiati. Diciamo in linea riassuntiva, perché non ho il tempo, che ci sono due tipi fondamentali di pensiero profondamente di-stinti: uno è un tipo di pensiero maggiormente passivo e l’altro è un tipo di pensiero maggiormente attivo. In questa qualità di passività, di automatismo, di ricezione, o di attività, di creatività, di fantasia si decidono le sorti del pensiero.

Il pensiero della scienza moderna è quasi tutto speculare. Che signifi ca speculare? Speculum è lo specchio, è un pensiero rifl esso quindi passivo, indotto – la percezione mi fa apparire automa-ticamente una rappresentazione. Il compito evolutivo di creare un tipo di pensiero sempre più attivo è tutto da fare, perché è la conquista della libertà.

Il morto che muore oggi in tempi di materialismo dice: “Sulla Terra io pensavo di pensare, ma non era un pensiero quello. Mi venivano, mi frullavano tante cose per la testa, ma quello non è pensare. E adesso mi vengono soltanto i pensieri che creo Io. Non me ne vengono perché non sono abituato a creare i pensieri. Mannaggia, magari avessi imparato a crearli sulla Terra! Vabbè, ci ritorno; ci ritorno al più presto per imparare a creare i pensieri”.

Intervento. Quindi dobbiamo saper distinguere, se vogliamo evol-verci, dal pensiero speculare al lasciarci liberi all’intuizione che ci permette poi di avere un pensiero creativo. Questo è il compito per poterlo poi portare dall’altra parte – è questo che mi chiedevo.

Archiati. Ti convince?Intervento. Sì, sì.

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Archiati. Quello è importante. Perché è un compito non da poco. Perché è il compito di ricreare tutta la creazione a partire dall’attività pensante del mio spirito è una cosa meravigliosa, me-glio non si può! Ce n’è da fare.

Intervento. Quando ha parlato di Cristo, non so se ho capito male, ha detto tre anni o trentatre anni? Perché se ha detto tre, voleva dire che uno spirito di Cristo era entrato quando Lui aveva trent’anni e quindi si era messo dentro di Lui. Se invece era tren-tatre c’era dall’inizio.

Archiati. Riassumo anche qui. Una delle cose che rendono in-digesto questo Steiner a certi teologi è proprio il fatto che ti fa guardare a delle cose che altrimenti non vedresti o non vorresti vedere. Se il Verbo, il Cristo, l’Essere del Sole – chiamatelo come volete – si fosse incarnato, si fosse fatto uomo alla nascita, allo-ra non mi spiego due cose importanti, fondamentali che ora vi evidenzio. Una è che due dei quattro Vangeli non ne parlano: perché? Marco e Giovanni cominciano i loro Evangeli quando Gesù aveva trent’anni, ma come possono ignorare l’incarnazione del Verbo?

Intervento. Ma qui dicono che Lui era un Esseno, che aveva vis-suto...

Archiati. Stai parlando di Gesù di Nazareth, non del Cristo. Sì, ma se il Cristo si è incarnato alla nascita di Gesù di Nazareth, come fanno due Vangeli a non parlarne? Questa è la prima pulce nell’orecchio.

Seconda pulce nell’orecchio: se l’incarnazione del Verbo fosse avvenuta a Natale, quindi alla nascita del bambino, non si spie-gherebbe il fatto che il Cristianesimo dei primi tre secoli (fi no al 391 a Roma) non avesse la festa di Natale. Proprio non esisteva. C’era la festa dell’Epifania: la festa del battesimo nel Giordano con lo Spirito Santo che si univa a Gesù. Epifanei in greco signifi ca rilucere su questo Gesù di Nazareth per restare congiunto con lui.

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Questa era la grande festa, cioè il battesimo nel Giordano. Il Na-tale è stato introdotto a Roma nel 391, come fa un Cristianesimo a vivere per quasi quattro secoli senza l’incarnazione del Verbo?

Gesù di Nazareth è un uomo, non è il Cristo. Gesù di Nazareth è il portatore del Cristo. Tutto ciò in un modo molto complesso perché il Gesù di Nazareth di cui ti parla Matteo è tutta un’altra faccenda rispetto a quella di cui ti parla il Vangelo di Luca. I teo-logi su questi punti ci dicevano: “Tu devi studiare quello che hai imparato per passare l’esame e poi stai zitto!”. E noi dicevamo: “Ma come? Nei due Vangeli neanche il nonno è lo stesso. Poi Luca li fa tornare a Nazareth e parla dei pastori, mentre Matteo te li fa andare in Egitto. Ma allora è tornato a Nazareth o è andato in Egitto?”. Risposta dei teologi: “Tu stai zitto! Devi fare l’esame”. Qua a Roma mi hanno zittito perciò ci ritorno a parlare, mi voglio rifare. (risate)

Il concetto di Gesù di Nazareth è che in questo essere umano sono riassunte tutte le forze più belle dell’umanità. Gesù di Naza-reth, in Matteo riassume tutta la corrente zaratustriana e in Luca riassume tutta la spiritualità buddista. Gesù riassume la saggezza dell’imperatore, del re da una parte, e dall’altra tutta la compas-sione dell’anima candida. Poi avviene quel putiferio descritto nel racconto della perdita di Gesù nel tempio a dodici anni – c’è una sintesi, e questo Gesù di Nazareth trentenne è la somma di tutte le forze più belle dell’umanità, che come un calice va incontro al Logos che si incarna. In quel momento il Cristo si congiunge col Gesù. Però Gesù di Nazareth è l’umano, è un essere umano.

Intervento. E quindi era giusto tre anni?Archiati. Era giusto tre anni certo, non mi è scappata sbagliata.

(risate)Però non andarglielo a dire subito al Papa che gli scombussoli un

po’ le carte in tavola.Intervento. Volevo chiederle: come si inserisce l’aborto nella scelta

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dei genitori?Archiati. L’aborto cosciente?Intervento Sia cosciente che non cosciente.Archiati. In quello di natura non c’è l’intervento dell’arbitrio uma-

no e quindi bisogna vedere che costellazione di forze karmiche ci sono. Invece tutt’altra cosa è quando l’arbitrio della coscienza in-carnata decide di interrompere il processo incarnatorio. Andrebbe osservato sovrasensibilmente di caso in caso quali realtà, quali forze karmiche sono presenti o non sono presenti in un caso o in un altro caso.

Supponiamo che la mamma faccia fatica o non riesca (non neces-sariamente per motivi economici, ma per motivi psicologici) e dica: “ Non ce la faccio” – supponiamo questo caso qui.

Il nascituro non può essersi messo in testa che quella lì deve es-serne la madre, senza che abbia avuto a che fare karmicamente con questa persona per dei millenni. Avendo avuto a che fare per dei millenni, queste individualità hanno avuto un infl usso reciproco l’uno sull’altro e quindi lui sa: “Questa mamma farà fatica ad acco-gliermi perché io sono stato così egoista e, tra l’altro, ho concorso anch’io a renderla così egoista che fa fatica a farmi nascere. Spero che ce l’ha faccia, io le mando tanti incoraggiamenti – mamma, dai che insieme ce la facciamo! Ma la Chiesa Cattolica le ha messo in testa che io non esisto, e lei mi chiude la porta!”.

Se c’è un karma che va vissuto, il karma non si raggira perché di-struggeremmo noi stessi. Allora può darsi che questo nascituro dica: “Questo karma, questo conto aperto che volevo continuare nel modo di essere fi glio di questa donna, visto che questa volta la libertà dell’arbitrio non ce lo consente, aspetto che questa donna abbia un altro concepimento e vediamo se ce la fa – io mi incarno nella pros-sima occasione”. Oppure dice: “No, no io devo incarnarmi adesso, altrimenti il tempo non è più quello giusto”. Allora si incarna da un’altra donna e dice: “Vediamo se un po’ più avanti nella vita, rie-

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sco ad acchiappare quella donna lì che doveva essere mia mamma almeno come amica. Questo però sarà un surrogato di karma”. Oppure dice: “No, questo rapporto è molto importante perché dobbiamo compensare tante cose, perché dobbiamo riamarci là dove siamo stati egoisti ecc. È così importante che lo devo riman-dare alla vita successiva”. Un tipo di karma però, che in questo momento, con questa mamma, in questa vita, avrebbe avuto le condizioni migliori, non troverà più le condizioni migliori e quin-di sarà un karma con almeno un po’ più di sofferenza.

Però chi di noi nella vita ha sempre, in tutte le cose, le condizioni migliori? Se devi fare una gita il tempo te lo pigli com’è. Il karma tra le altre cose è l’arte del possibile, perché fare l’impossibile non è meglio – non è possibile. Quindi torniamo al concetto, che io dicevo già all’inizio, che le cose dell’evoluzione sono complesse. Tutto ciò che si studia in modo scientifi co diventa complesso, e siamo all’inizio dello studio scientifi co dei misteri complessissimi del karma. Perché poi va visto concretamente cosa esiste come forze karmiche tra questo individuo che si vuole incarnare e que-sta mamma che poi decide di chiudere la porta. C’è una rifl essione che vale per tutti, ed è quella che ho fatto, a cui poi va aggiunto ciò che è specifi co in questo caso e che mi spiega altre cose ancora.

Intervento. E col papà come la mettiamo?Archiati. Il papà ha la responsabilità delle decisioni che prende

lui.Intervento. E se c’è lo stesso padre e la stessa madre? Intendo

dire: mettiamo il caso in cui la madre prima ha avuto un aborto e poi, dopo tre, quattro anni rimane di nuovo in stato interessante dello stesso padre. Può essere allora che lui, quello che voleva incarnarsi prima, ce la faccia?

Archiati. Ma anche se il padre è diverso.Intervento. No, voglio capire se il fatto che sia lo stesso padre

presupponga una possibilità in più o no?

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Archiati. No, noi stavamo parlando di una gravidanza che è già in corso.

Intervento. Sì, una ha una gravidanza in corso e la interrompe; poi con lo stesso uomo ha un’altra gravidanza…

Archiati. Il pensiero è molto semplice. Stai attenta: per certe in-carnazioni c’è un individuo che dice: “Per me questa volta, ac-chiappare il padre giusto è più importante perché quello che devo fare con lui è più importante che non acchiappare la madre giu-sta”. Per un altro è l’opposto. Perciò ho detto che i casi sono in-dividuali e andrebbero osservati. Per quello per cui il padre giusto è la cosa più importante, più insindacabile, il fatto che la madre gli chiuda la porta non è così grave come quando invece la madre giusta è il fattore principale.

Sono cose così fondamentali come orientamenti del pensiero, che uno dice: “Ma che bella cosa che il Cristo abbia dato all’uma-nità questo Rudolf Steiner”. Un altro esempio: nel periodo di cultura greco-romano il fattore di incarnazione più importante di tutti era la corrente del sangue, la discendenza, mentre ora non lo è più. A partire dal XV° secolo qual è il fattore che è ancora più importante del sangue? Il fattore climatico-geografi co diventa ancora più importante del sangue, e il nascituro si dice: “Per me la cosa più importante è nascere accanto ad un lago, o in pianura, o in montagna, o al mare, e mi piglio i genitori che mi capitano per-ché là devo nascere”. La Terra, il peso morale della Terra diventa più importante per l’incarnazione che non il sangue. Trovatemi voi qualcosa di paragonabile a questi spunti conoscitivi che uno Steiner ti mette lì. Non esistono. Non esistono!

La Chiesa Cattolica non ha niente da offrire in confronto. Era una brava mamma mille anni fa e, una mamma che non muore prima, diventa nonna. E non soltanto la mamma diventa nonna, ma i fi gli crescono, se non muoiono prima anche loro. E lo ve-diamo. Se tu metti a paragone ciò che uno Steiner ti offre come

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spunto per far camminare il tuo spirito, con quello che ti offre il Cattolicesimo, anche il migliore, gli dici: “Ma chiudete baracca e burattini!”. Però che quelli lì abbiano un po’ di paura esistenziale è anche comprensibile, perché è diffi cile accettare che non c’è più nulla da dire. Mi sono fatto prete per vendere lo spirito e mi rendo conto che non ho nulla da dire. Ci vuole compassione, però dobbiamo essere onesti con il cammino dell’umanità.

(Rivolto al pubblico in sala) Ma scusate… e tutta ‘sta faccenda del-la preesistenza? Mi aspettavo che qualcuno la affrontasse questa faccenda della preesistenza e facesse qualche domanda. Ma in-somma, il Padre Eterno fabbrica le anime al momento del conce-pimento o ci sono già prima? Dove sono i cattolici qui in sala? Io sono venuto in Italia per godermi i cattolici.

Intervento. Il primo fatto che mi ha un po’ colpito del discorso è quando ha detto che l’immortalità ce la dobbiamo conquistare. Questo mi ha un po’ colpito perché se ce la dobbiamo conquista-re vuol dire che prima non c’era? Come si concilia questo discor-so con la preesistenza?

Poi mi ha colpito anche il discorso sui demoni di popolo, sulle controforze. Volevo sapere se lo Steiner ha affermato che fi ne faranno un giorno questi demoni, e se anche loro hanno una pos-sibilità di evolversi, di uscire dalla situazione in cui sono?

Archiati. Partiamo dall’ultima cosa: Steiner ha detto tutto quello che c’era da dire. La risposta più bella, perché è in chiave artistica, alla tua seconda domanda è il Faust di Goethe.

Mefi sto è il diavolo, chi gli fa fare il diavolo? Chi gli dà il ruolo di diavolo? Il Padre Eterno. Lo fa bene il diavolo? Mefi sto è Me-fi sto, mica si scherza, e il diavolo lo fa molto bene. Faust però è così bravo che non molla. Perché il senso della controforza, il senso della molla, che è la controforza dei muscoli, qual è? Di cedere? No. É di rafforzare la forza, di rendere più forte la forza del bene. Cimentandosi col Mefi sto quindi, la forza del bene di

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Faust, diventa così forte che vive cent’anni. La scommessa del Mefi sto era: “Caro Padre Eterno vogliamo vedere se sei più bra-vo Tu o se sono più bravo io? Sei più bravo Tu se non riesco ad abbindolare il Faust; sono più bravo io se riesco ad abbindolarlo”. Faust ha fatto un’evoluzione che è la più bella che si possa imma-ginare, perché l’evoluzione più bella è quella dove non si perde nessun colpo. Goethe ha esposto l’archetipo, il fenomeno puro dell’umano e il fenomeno puro dell’umano è il tipo di uomo che non perde nessun colpo.

Faust muore a cent’anni: chi ha vinto? Il Padre Eterno o Me-fi sto? Tutti e due! Quella è la trovata geniale. Il Padre Eterno ha vinto perché l’essere umano va in Paradiso e Mefi sto ha vinto perché è stato il diavolo più bravo di questo mondo. Lo spettatore che vive tutto il dramma – perché ci vuole una settimana a met-terlo in scena – si innamora talmente di Mefi sto, perché è vera-mente il diavolo più bravo che esista. Egli concorre all’evoluzione di Faust perché l’evoluzione di Faust non sarebbe possibile senza il Mefi sto. Allora lo spettatore quando vede alla fi ne del dramma l’ascensione al cielo di Faust, si immagina che anche il Mefi sto vada con lui.

Ti immagini che il Padre Eterno rimandi il diavolo all’Infer-no dopo che l’ha aiutato e ha fatto il suo ruolo così bene? Pro-prio spontaneamente il Mefi sto è diventato così simpatico che la psiche umana immagina, vede il Mefi sto spiritualmente salire. E perché sale al cielo? Perché il suo compito è fi nito. Si è fatto una bella sudata, ha fatto il diavolo così bene, perché non vuoi ricom-pensare anche lui? E poi cosa avverrà? Che il Padre Eterno gli dice: “Mefi sto, se questo compito l’hai svolto così bene ti faccio passare di grado”. Perché anche l’essere umano passa di grado. Bello no?

In altre parole, il Cattolicesimo per esempio, è pieno di negati-vità, di moralismi. A che ci servono i moralismi quando abbiamo

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a che fare con una divinità che ha fatto un mondo così, che spri-giona positività da tutte le parti?

Intervento. Nell’ambito dell’evoluzione dell’umanità è ipotizza-bile la cessazione dell’evoluzione dell’umanità, posta in relazione alla ipotizzata morte del nostro pianeta?

Archiati. “Cieli e Terra passeranno”21 cioè tutto ciò che è fi sico perisce. La tua domanda dice: potrebbe essere che tutti gli spiriti umani omettono l’evoluzione positiva? Teoricamente sì. E sic-come teoricamente questo abisso della libertà dovrebbe essere aperto, altrimenti non saremmo liberi, la divinità si è fatta uomo apposta per assicurarsi che in questo Uno l’umano è salvo. Perché questo Uno da solo è più buono di tutti noi messi insieme. Il Cri-stianesimo è una cosa dell’altro mondo. In Lui è salva l’umanità; cioè il progetto umano è fatto in modo tale che non può fallire.

Vi auguro una buona notte.

21 Vangelo di Matteo, Cap. 24,35; Marco, Cap. 13,31; Luca, Cap. 21,33

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MORIRE OGNI GIORNOPer vivere meglio

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Cari amici,questa mattina vi esorto ad ascoltare la voce vivace, vivente dei morti, perché sono molto viventi, sono molto vivaci, sono più vivi di noi. Per i morti, per coloro che ci hanno lasciato qui per andare in regni più vasti e più belli, esiste una legge fondamentale per la loro vita. La legge fondamentale dei morti, della loro esistenza dopo la morte, è il rispetto assoluto della libertà per coloro che sono rima-sti sulla Terra. Rispetto assoluto signifi ca che non ci impongono nulla. Signifi ca che non ci soverchiano con la loro voce in modo da costringerci, ma è una presenza così dolce, che ci lascia talmente liberi che se noi vogliamo non li percepiamo neanche. Ma se invece vogliamo imparare ad ascoltarli con la nostra libertà, ne hanno di cose da dirci!

Il fatto che i morti arrivino al punto da non farsi neanche sen-tire, da non farsi neanche vedere, ci sta a dire quanto sia preziosa, quanto sia moralmente importante la libertà dell’essere umano incarnato. Perché tutto ciò che avviene nella libertà interiore, tut-to ciò che avviene per slancio dello spirito è moralmente buono, e tutto ciò che lede la libertà è moralmente cattivo. La libertà in-teriore è il criterio della moralità. Tutto ciò che favorisce il creare libero, l’esubero dello spirito è moralmente buono perché nulla è più buono della libertà che crea. E tutto ciò che mortifi ca la libertà, tutto ciò che arriva con i comandamenti, con le leggi, con il: “ Tu devi, devi, devi, e se non fai, vai all’inferno”, questo modo, questo tipo di ricatto della libertà è moralmente cattivo. Non c’è nulla di più moralmente cattivo del ricattare la libertà degli esseri umani.

Il Cristo di cui si parla da duemila anni è così rispettoso della libertà umana che non si è fatto sentire in duemila anni. Infatti la maggior parte degli esseri umani ignorano che ci sia. Ce ne vuole di amore per la libertà degli uomini, per rispettarla in un modo così eccelso, così sublime. E Lui ha tempo, perché sa che siccome

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camminiamo lentamente, la nostra libertà ha a disposizione mil-lenni e Lui aspetta. Meglio aspettare che premere e poi ricattare e infrangere la libertà. Il Cristo aspetta perché rispetta i tempi di crescita di ognuno. E chi Lo ignora, gli va bene che Lo ignori: non ha mica bisogno dei nostri complimenti, mica Lo smontiamo col nostro ignorarlo. Lui gode del fatto che siamo liberi e che gestia-mo la nostra libertà anche nei suoi abissi di oscuramento ecc.

I morti di cui abbiamo parlato in questi giorni ci dicono con una voce sommessa ma piena di amore: “Caro amico, cara amica che sei rimasta sulla Terra, la legge del vivere da uomini è il morire e il risorgere continuo ogni giorno, sempre”. Penso a un fi losofo, un pensatore, Martin Heidegger22 di cui ero innamorato quando ero studente qui a Roma, dove cominciavo a cimentarmi col tedesco, (il suo è l’unico libro che poi portai in America). Martin Heideg-ger, questo esistenzialista che ha vissuto nei tempi non facili del nazismo, parla della struttura dell’esistenza umana, dell’esistenza come un essere proiettati verso la morte, vivere con la morte in faccia.

Tra l’altro sapete da dove viene la parola esistenza? Ex-sisto: sisto signifi ca porre in piedi, mentre ex signifi ca viene fuori. Quindi ex-sisto, viene fuori da qualcosa, da un mondo, e si pone lì. L’esistenza è quel modo di essere che noi conosciamo molto bene e che vi-viamo ogni giorno. È quel modo di essere dove noi siamo stati catapultati fuori dal mondo reale – cosiddetto spirituale, invisi-bile – e messi lì in piedi, in questo mondo sensibile. Ex signifi ca fuori, fuori dal mondo. Ve lo dico nei termini di Rudolf Steiner, in termini di scienza spirituale: fuori dal mondo vero, il mondo dell’eterico, dell’astrale, dello spirituale. Ex – sbattuto fuori da

22 Martin Heidegger, fi losofo tedesco (Meßkirch, 26 settembre 1889 – Friburgo in Bri-sgovia, 26 maggio 1976)

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tutto questo mondo vero. Sisto – messo lì, nell’esistenza corporea, fi sica, materiale.

Quella che noi chiamiamo la nascita è una bella morte: ci hanno sbat-tuto fuori; nascere vuol dire esser sbattuti fuori dal mondo vero. E che senso ha questa ex-sistenza che ci ha sbattuti fuori dal mondo vero? É chiarissimo il senso: è quello di accorgerci di essere fuori dal mondo e di godere di ritornarci dentro sempre, ogni giorno, ogni momento. Se fossi-mo rimasti sempre dentro non ci sarebbe il gusto di ritornarci dentro per attività propria, per esercizio di esuberanza, di attività libera del proprio spirito. Queste bellissime cose ce le abbiamo nelle parole normali del vo-cabolario: l’esistenza, ex-sisto. Perché chi ha inventato questa parola deve essersi fatto un pensierino su questo ex, fuori. Noi siamo tutti degli ex. Noi che esistiamo, che viviamo l’esistenza, siamo tutti degli ex.

Il senso della conferenza di ieri sera, qual era? La preesistenza, e cioè il fatto che prima di cominciare l’esistenza fuori dal mon-do reale, eravamo tutti – per forza – nel mondo reale. E nascere signifi ca cominciare l’esistenza, venire fuori dal mondo reale ed en-trare in una coscienza illusoria che ritiene reale ciò che non è reale. Perché è passeggero, è effi mero, è transeunte, è perituro. Oggi c’è, domani non c’è, per farci esercitare quella libertà che consiste proprio nel risorgere ogni giorno per forza propria, risorgere nel pensiero quando lo accendiamo di fronte alle percezioni. Le percezioni sono il mondo morto. Appiccicare i concetti, trovare i concetti, è vivere cosa sono le cose e far risorgere il mondo.

La percezione è un morire quotidiano continuo, e il concetto che io trovo nel pensiero è il modo migliore di vivere. Morire ogni gior-no nella percezione, guardando questo mondo che sembra tutto vero, e poi vivere meglio nel pensiero trovando i concetti, dicen-do nel pensiero la realtà eterna delle cose. L’asino che io ho nel-la percezione è una realtà? No! É un frammento di morte perché quell’asino lì che io vedo, fra trent’anni non c’è più. Mica può essere una realtà quella che oggi c’è e domani non c’è.

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Quindi ogni frammento di percezione è un entrare nel campo di morte dell’universo, e ogni volta che io col concetto, col pensiero dico l’idea dell’asino, entro nella realtà dell’asino. Perché l’asino che io penso è diverso dall’asino che io vedo. L’asino che io penso è l’asino in tutti gli asini, è l’asino eterno, è l’idea dell’asino, direbbe Platone, e l’idea dell’asino c’è sempre. Da quando la divinità l’ha pensato – e l’ha pensato da sempre, se no non avremmo gli asini – questa idea dell’asino è una realtà sovrasensibile, un insieme di forze vitali, eteriche, astrali, quello che volete voi, che fanno sì che la materia di volta in volta si strutturi, si formi in forma di asino. Se no come saltano fuori gli asini? Cos’è che fa saltar fuori l’asino che io vedo? Deve essere per forza l’asino sovrasensibile.

Voi direte: ma l’asino che si vede è più reale dell’asino sovrasensibile. No, no, no, no, no! Pensate a un orologio: è una cosa reale. L’idea dell’uomo ha congegnato l’orologio. Sarebbe stato possibile che l’orologio sorgesse come percezione senza l’idea che l’ha creato? L’idea umana, l’idea dell’uomo ha creato l’orologio. E l’orologio sta per tutte le cose che l’essere umano ha creato. Pensiamo per esempio a quando, per la prima volta, è sorta la ruota. Per millenni gli esseri umani si sono spaccati la schiena a portare pesi, fi nché nella testa di una persona (un Archimede della ruota) è saltata fuori l’idea che dice: un momento, se io trovo qualcosa di rotondo, lo faccio rotolare e poi ci metto qualcosa sopra, non c’è più bisogno di spaccarsi la schiena.

Com’è nata la ruota? Una risurrezione del pensiero umano. L’idea dell’orologio ha creato l’orologio fi sico, tanto è reale, ma questo orologio fi sico – lo potete picchiare fi nché volete – non tirerà mai fuori un’idea. Questo orologio è così irreale che non è capace di creare nessuna idea. L’idea umana è così reale che ha fatto saltar fuori l’orologio. Non mi dite che l’idea dell’orologio è

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meno reale che non l’orologio materiale. Quindi il materialismo in cui viviamo è una fregatura del pensiero senza fi ne, è roba da menti bacate. Si è messo in testa che ciò che è materiale è più reale che non ciò che è del pensiero. Roba da matti!

I greci sono stati i primi grandi fi losofi che hanno cominciato a pensare, perché prima non si pensava; prima si beveva a damigia-ne la sapienza divina e mica c’era bisogno di pensare. La rivelazio-ne, la sapienza orientale era l’essere umano che beveva, beveva, ma i pensieri glieli articolava la divinità. Quindi t’arrivano i greci e ti dicono: “No, non è mica bello che siano soltanto gli esseri divini che pensano, vogliamo pensare anche noi, che ce l’hanno data a fare la testa?”

I greci sono stati i primi a dire: “Vogliamo provare un pochino anche noi a pensare. Magari Giove penserà meglio di noi, ma non importa, sono affari suoi! Io come essere umano comincio adesso a pensare; sarò forse più modesto però i pensieri che penso io me li gusto di più che non quelli che pensa lui”.

I greci sono i primi che hanno detto che i pensieri che l’essere umano pensa lui stesso se li gusta di più perché li crea lui, e perciò sono meglio che non tutti i pensieri di Giove, Pallade Atena ecc., che sono pensieri loro. Se venisse qui un greco – non dico Aristo-tele o Platone, ma pigliamo quei giovincelli che erano accanto a Socrate e che discutevano – e gli dicessimo: “Caro Ippocrate, noi riteniamo il mondo visibile come quello reale e non i pensieri”. Io credo che quello ci guarderebbe e direbbe: “Ma di cosa state parlando?”. Direbbe: “Ma come? Voi ritenete che la percezione sia più reale del pensiero? Ma siete matti!”.

Il senso del materialismo è la morte del pensiero che ci dà la possibilità di infi nite risurrezioni. Però è una vittoria interiore, è una risurrezione interiore. Devo io vivere ogni giorno questa conversione interiore che mi fa convertire alla realtà di ciò che c’è nel pensiero, e mi convince sempre di nuovo che la parvenza pas-

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seggera di ciò che chiamo percezione è soltanto la provocazione a pensare.

Il senso del visibile è di provocarci a pensare all’infi nito l’invi-sibile. Allora raggiunge il suo senso. Moriamo ogni giorno nella percezione quando ci diluiamo in questa distesa quantitativa del mondo della percezione e risorgiamo a una vita migliore, a una vita nuova – morire ogni giorno per vivere meglio –, quando ci concentriamo e poniamo termine a questo diluire il nostro spirito nella distrazione delle percezioni e lo concentriamo nel pensiero.

E quando concentriamo il nostro spirito nel pensiero si vive meglio che non con lo spirito diluito. Il materialismo è lo spirito diluito degli esseri umani, e la risurrezione quotidiana è il concen-trato dello spirito. Uno dei modi di concentrazione dello spirito è l’attenzione. È una cosa semplice – li abbiamo nel vocabolario tutti questi inviti a risorgere ogni giorno –, l’attenzione è il primo passo della concentrazione del pensiero.

Tre modi quotidiani di morire che viviamo continuamente:

1. Pensare – ciò che non capisco2. Sentire – ciò che non mi dà soddisfazione3. Volere – ciò che non mi riesce

Un modo è ciò che non capisco e tante cose non capisco an-cora, a meno che qui non ci siano solo fi or di persone che hanno sempre capito tutto. O non è così? Comunque non vi invidierei se aveste già capito tutto, perché la vita diventerebbe noiosa e non avreste più nulla da scoprire. Allora: il primo modo di morire è ciò che non capisco ancora. Il secondo modo di morire quotidia-no continuo è ciò che non mi dà soddisfazione. Il terzo modo di morire è ciò che non mi riesce.

Gli Scolastici dicevano omne trinum es perfectum23, poi ho avuto la

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fortuna di studiare Hegel, l’idealismo tedesco ed anche lì andava tutto per trinità (tesi, antitesi e sintesi), e poi t’arriva un Rudolf Steiner, e anche lui, tutto per trinità. Quindi anch’io quando fac-cio le conferenze sono tutte piene di cripto-trinità: la trinità del pensare, del sentire e del volere. Uno si chiede: “Come faccio la conferenza stamattina”? Soprattutto l’ultima, che le persone vo-gliono andare in brodo di giuggiole e si aspettano che io fi nisca in gloria (e poi non c’è neanche la discussione). “Come faccio, come faccio, come faccio”?

Tre modi fondamentali di morire: pensare, sentire, volere.

1. Muoio ogni giorno nelle cose che non capisco, e il senso di questa morte quotidiana è di non mollare, il senso è di vive-re meglio. Cosa c’è di meglio di aver già capito? Capire adesso, il capire nel presente. Quindi è una bella cosa questa occasione di morire quotidianamente perché vengo confrontato, sempre di nuovo, con cose che non riesco a capire più di tanto. “Ma cosa hai detto? Non ti capisco…”. Questo rovellio, questo sforzo interiore di farmi passare dalla morte di qualcosa che non capisco al capirlo sempre meglio, questo trapasso, questa pasqua di morte e di ri-surrezione quotidiana è bella perché l’esistenza è fatta di questo.

L’esistenza signifi ca trapassare sempre da morte a risurrezio-ne. Essere cioè in questo passaggio, in questa vivacità, in questa concentrazione dello spirito che vuol capire ciò che fi nora non ha capito. E la risurrezione della vita è capire sempre meglio sempre più cose, in modo sempre più profondo, più vasto, in contesti sempre più interessanti. Ce n’è da fare! E se fosse possibile a un essere umano far tutto in una vita, il Padreterno lo sbatterebbe… dove non lo so, non sono stato di là a vedere (non so com’è fatto

23 Locuzione latina che dice: “Ogni trinità è perfetta”. (N.d.R.)

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il Paradiso, come sono fatti l’Inferno e il Purgatorio), ma la cosa migliore è l’esistenza, una continua esperienza di morte e risurre-zione.

2. Secondo criterio. I destini del pensiero non bastano da soli: io ho bisogno di un criterio di morte e di risurrezione tutto mio. Se avessimo soltanto il pensiero… voi lo vedete, uno dice qualco-sa… purtroppo ha questo brutto karma di essere l’oratore, tocca a lui esporsi… e gli altri stanno lì belli seduti e dicono: “Vediamo cosa ha da dire, poi dopo che ha parlato, ha sudato per un’ora e mezza lo smontiamo”. Quindi il livello del pensiero non basta come morte e risurrezione, perché ognuno ha le convinzioni sue. C’è un criterio esistenziale di morte e di risurrezione che è indivi-duale, che è specifi co, unico per ognuno ed è il criterio di ciò che mi piace e non mi piace, di ciò che mi dà soddisfazione e ciò che non mi dà soddisfazione.

Ci possono essere dei moralisti che vengono e dicono che è un criterio pagano – problemi loro, affari loro! Perché se l’essere umano non ha il coraggio di prendersi sul serio così com’è, e ve-ramente di prendere moralmente sul serio ciò che gli va bene e ciò che non gli va bene, ciò che lo soddisfa e ciò che non lo soddisfa, non è un essere umano morale. Perché deve essere un male ciò che mi soddisfa? Il Padre Eterno mi ha creato per cercare ciò che non mi soddisfa? Ma allora è malato Lui: doveva crearmi in un altro modo. Il Padre Eterno mi ha creato per vivere nella gioia, nella pienezza, e l’unico motivo per lasciar perdere certe cose è che non mi soddisfano.

L’unico motivo, l’unico criterio moralmente accettabile di la-sciar perdere qualcosa è che non mi soddisfa. Certo che ci sono tante cose in cui gli esseri umani pensano, si illudono, di trovar soddisfazione. Magari ci mettono dieci, venti, trent’anni per ca-pire: “Ah, in effetti pensavo di essere felice, ma di fatto non lo sono”. Allora a quel punto lì, uno si dice: “Bene, bene, adesso mi

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sono accorto che questa cosa non mi soddisfa, la lascio da parte e cerco ciò che mi soddisfa”. La morte quotidiana e la risurrezione, nel suo senso individuale, personale di ognuno, è questa attenzio-ne al proprio cuore, questo prendere se stessi sul serio.

Cari amici, una persona che non sa prendere se stessa sul serio come essere umano, non sarà capace di prendere nessun altro sul serio. Soltanto chi è capace di prendere moralmente se stesso sul serio come essere umano, sarà capace di prendere anche gli altri sul serio. Altrimenti una tal persona si illude di prendere gli altri sul serio e magari lo fa per masochismo o per fare l’eroe dei due mondi che vuol salvare gli altri, ma tutto ciò non centra nulla con la moralità. Il fondamento della moralità è il peso assoluto della persona umana, e il primo accesso alla persona umana è in me.

Quindi il criterio della moralità, per quanto mi riguarda, è ciò che mi fa vivere nella pienezza, ciò che mi dà gioia, ciò che mi dà soddisfazione. Ciò che mi dà gioia è moralmente buono e ciò che non mi dà gioia, che non mi fa vivere nella pienezza, è moralmen-te non-buono proprio perché diminuisce l’umano.

Il senso del morire quotidiano in tutte queste cose che non mi dan-no soddisfazione (ce ne sono tante che non mi danno felicità – la parola felicità possiamo usarla, basta capirla giustamente), il senso di queste morti è di risorgere sempre più attentamente, di impara-re sempre meglio l’arte di trovare e di fare le cose che mi rendono felice. La risurrezione quotidiana è l’arte della felicità. Però l’arte della felicità non è semplice, perché se fosse semplice non ci sa-rebbe gusto. Essere felici non è una cosa da poco: bisogna prima di tutto conoscersi bene, bisogna individuare onestamente con se stessi tutte le cose che veramente mi rendono felice, senza barare con se stessi.

Tante persone barano con se stesse, e siccome hanno paura di ammettere che non sono felici, fanno fi nta di essere felici. C’è di meglio, c’è di meglio nella vita. Meglio di far fi nta di essere felici

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è essere felici! E la felicità si trova in queste infi nite risurrezioni di onestà con se stesso, dove ciò che non mi dà soddisfazione, sono contento di ammettere che non mi dà soddisfazione e cerco ulteriormente, cerco sempre di più, le cose che mi danno soddi-sfazione. E ogni sincera soddisfazione è una risurrezione, è un vivere meglio.

Quindi il non essere felice, il non sentirsi nella pienezza dell’uma-no – della mente, del cuore e delle azioni – è la morte quotidiana. E questo anelito, questo tendere verso la pienezza dell’umano è il vivere meglio, è il risorgere ogni giorno. La parola risorgere la possiamo usare, è mica proibita. Ieri dicevo che non possiamo più usare queste parole consacrate dalla religione come se fossero accessibili a tutti, soprattutto in Italia dove la disaffezione nei con-fronti della religione tradizionale è abbastanza forte, per lo meno più forte che in un paese come la Germania.

3. Terzo gradino del morire quotidiano per vivere meglio è la volontà, le azioni. Quindi, al livello del pensiero c’è ciò che non capisco (per capire sempre meglio); al livello del cuore, dei senti-menti, ciò che non mi dà soddisfazione (per vivere sempre meglio nel cercare ciò che mi rende felice, ciò che mi dà soddisfazione); al livello delle azioni, la terza sfera, è ciò che mi riesce (dove ho successo nel mio fare, nel mio agire) e ciò che non mi riesce.

Sarebbe una bella cosa essere un tipo a cui riesce tutto quello che fa? Non ci sarebbe gusto. Molto più interessante è quando, almeno ogni tanto, si fa cilecca in modo da avere ancora qualcosa da imparare. Quindi il senso di questa morte quotidiana delle cose che non mi riescono è di vedere, individuare sempre meglio, in che cosa sono bravo.

Ho avuto una baruffa con il mio amico, con mia moglie, con mio marito, e adesso voglio vedere se mi riesce una bella ricon-ciliazione – perché mi dà soddisfazione, no? Solo che, due ore

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dopo, vado da lui per riconciliarmi ed è troppo presto, perché lui vorrebbe godersi ancora almeno due ore la rabbia che ha dentro, altrimenti non c’è gusto! (ilarità in sala). Quindi una delle cose che non riescono nella riconciliazione è che, chi vorrebbe godersi subito la riconciliazione, arriva troppo presto perché l’altro vuole godersi un pochino di più la rabbia, se no che gusto c’è? Il gusto di una zuffa è di godersi la rabbia. In un mondo in cui non pos-siamo più godere quasi nulla, almeno un po’ di rabbia… santa pace (risate). Se quello lì va ancora in brodo di giuggiole perché si sta godendo la propria rabbia e pensa che tu sei stato impossibile, che ha ragione lui ecc... ma aspetta no?! Caso mai aspetta fi no a domani. Lui se l’è goduta la sua rabbia, tu vai vicino e gli dici: “Sei pronto per... o arrivo troppo presto”?

La vita è piena di cose che ci riescono e che non ci riescono, ma è bello perché la struttura della vita è morte e risurrezione. Basta avere sempre l’attenzione del cuore e capire, per esempio, che il motivo per cui non mi riesce ’sta riconciliazione è che io la voglio costringere troppo presto. Allora vivo meglio se vinco questa impazienza e se godo io stesso di dare all’altro la possibilità di godersi la sua arrabbia-tura almeno altri due o tre giorni. Quindi per non rischiare di arrivare troppo presto aspetto almeno una settimana, ma se aspetto volentieri non c’è problema, perché mi godo che lui se la gode l’arrabbiatura.

La vita è un’arte, non lo è per sommi capi, è un’arte molto concreta. Artisti della vita siamo tutti perché essere uomini signifi ca essere ar-tisti della vita. Ogni arte ha due componenti: il talento innato che ci è stato dato quando siamo stati catapultati qui (quindi il talento innato dell’arte della vita ce l’abbiamo tutti), e l’altra componente dell’artista è l’esercizio quotidiano, che è quello che omettiamo troppo. L’eser-cizio quotidiano è questo esercizio di morire ogni giorno per vivere meglio. Però devo fare attenzione concretamente io ai miei modi di morire – a ciò che non mi riesce, e perché non mi riesce.

Nella misura in cui faccio attenzione a tutto ciò che non mi

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riesce, e perché non mi riesce, trovo il modo di vivere meglio nel senso che mi riuscirà sempre di più.

Sono mamma di un sedicenne, sono anni che non mi riesce di avere minimamente un discorso con questo bel fi gliolo, eh, non mi riesce! Colpa sua? Vedo le mamme che mi dicono di sì…(risate) Se chiedessi al fi gliolo, mi direbbe che è colpa della mamma.

Uno dei modi di morire quotidiano è di distribuire le colpe agli altri. Perché se io distribuisco tutte le colpe agli altri, cosa c’è in me? Nulla. Sono morto su tutta la linea. Invece divento vivo quando attribuisco qualcosa anche a me. Perché devono essere re-sponsabili soltanto gli altri di tutto quello che avviene qui? Vivere meglio, cioè risorgere, rivivere ogni giorno, signifi ca prendere in mano la propria esistenza e non distribuire colpe a tutti gli altri. Tutte le altre persone attorno a me concorrono alla mia esistenza, sono concause, ma la causa principale della mia esistenza sono io! Se no che sto qui a fare? Che burattino sono? Se la causa princi-pale di ciò che avviene nella mia esistenza fossero gli altri, io sarei un burattino, una marionetta. Una persona che non ha colpa di nulla è morta, perché non ha mai fatto nulla.

Tra l’altro, io mi sono sempre chiesto se in italiano “colpa” fosse la moglie del “colpo”. (risate) Allora un individuo che perde colpi su tutta la linea non ha nessun colpo e gli restano solo le colpe. Quindi, o uno dà colpi, si rende causa di qualcosa e quindi combina qualcosa (ma allora è vivo e non è morto), oppure se è morto su tutta la linea perché non ha colpi, distribuisce le colpe. Mi sono chiesto: ma come ha fatto il genio della lingua a creare queste due parole? Il colpo e la colpa! Forse qui c’è qualcuno che ha fatto studi etimologici, ma que-sta è una cosa interessante. Quindi la vita è fatta per dar colpi e non per dar colpe, per far qualcosa, per provare, e provando si fa e si fa sempre meglio.

Uno sbaglio, cos’è uno sbaglio? Un tentativo. Soltanto il Padre Eterno non ha mai perso un colpo – suppongo eh? Io non gli

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ho mai stretto la mano, se no che Padre Eterno è? Insomma, se togliamo via le nostre imperfezioni ci facciamo un’idea di come dovrebbe essere Lui: dovrebbe essere uno che non perde nessun colpo.

Essere umani nell’esistenza signifi ca non sapere già in partenza cosa salta fuori da quello che io faccio, altrimenti sarei il Padre Eterno, altrimenti non sarei nell’esistenza del tempo. Quindi esse-re uomini signifi ca provare, far qualcosa e guardare che cosa salta fuori. Salta fuori che gli altri si arrabbiano? Che faccio? Modifi co il tiro. Se io modifi co il tiro, ho sbagliato prima? No, ho provato. Il moralismo da sempre si è messo in testa (ma è proprio una cosa da menti bacate) che la vita buona è la vita dove non si fanno sbagli, cioè dove tutto ciò che si fa deve andar bene. Allora non si fa nulla. Uno sbaglio è soltanto una prova andata male, da cui non imparo nulla e la ripeto. Soltanto quando la ripeto diventa uno sbaglio, ma lo sbaglio sta nel fatto che non ho imparato nulla. Ma la prima volta non può essere uno sbaglio perché provo e devo ancora vedere cosa salta fuori. E se io mi oriento e sono fl essibile abbastanza da orientarmi a seconda di quello che salta fuori, vivo nell’esistenza.

Quindi ogni azione che noi compiamo è un piccolo morire quo-tidiano perché non sappiamo cosa salta fuori. Come possiamo noi preventivare tutte le reazioni delle persone che ci sono accanto? Ogni azione, ogni intervento nel mondo è – ecco la morte – un esporsi all’arbitrio degli altri, perché anche gli altri vogliono avere la loro li-bertà. Se io mi espongo in questa piccola morte, che accetto coscien-temente però – ecco l’attenzione –, faccio qualcosa e sto lì a guardare come il mondo reagisce. Nel prendere sul serio e rettifi care, e quindi cambiare me stesso a seconda di come posso essere veramente d’aiu-to agli altri, in questa vivacità, in questa fl essibilità di rettifi care me stesso, in modo da essere favorevole agli altri, vivo meglio.

Nel provare qualcosa mi espongo all’arbitrio altrui, ed è una piccola

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morte. Nel rettifi care ciò che faccio, prendendo sul serio le reazioni degli altri, vivo meglio, e diventa una risurrezione. Ma partire in quarta e far qualcosa col presupposto che deve andar bene, perché gli altri non hanno la libertà di reagire come piace a loro, è assurdo! É un non voler morire. Vivere l’esistenza è un morire quotidiano, è un esporsi agli altri così come sono. Noi permettiamo all’altro che ci manipoli, che ci faccia a modo suo? No, pretendiamo dall’altro che si esponga al nostro modo di essere.

Quindi il coraggio di esporci l’uno alla libertà dell’altro è questo morire volentieri. E questo risorgere nel rapporto, risorgere nella realtà di ciò che viene fuori dal concorrere della libertà tua e mia (di un altro e mia), cioè risorgere a quello che viene fuori dal concorre-re delle varie libertà, è il vivere meglio.

I morti vivono meglio perché vivono da morti ogni giorno. I morti vivono meglio perché hanno superato la paura della morte a un pun-to tale che ci sono sempre dentro. E a che cosa sono morti i morti? All’illusione, alla non-libertà del mondo delle costrizioni, del mondo delle leggi deterministiche della natura. Sono morti a questo mondo di morte e perciò vivono meglio. E la loro voce ci dice: “Se tu ti eser-citi nell’esistenza a morire volentieri più che puoi (non totalmente come quando si muore veramente, ma più che puoi), giornalmente a morire al potere del mondo fi sico, allora vivrai sempre meglio perché potrai risorgere sempre di più nel mondo vero dello spirito, del so-prasensibile, dell’amore, della conoscenza”.

In altre parole, non si può essere contemporaneamente vivi nel po-tere ed essere vivi nell’amore. O si muore al gioco del potere, che è il gioco di questo mondo, per vivere meglio nel gioco dell’amore, oppu-re si muore nel gioco del potere (che è fatto apposta per farci morire a vicenda, per costringerci, per schiacciarci a vicenda) e non si risorge alla vita migliore che è quella dove c’è posto per tutti. Quindi la morte è essere fi ssati su un mondo di gomitate, dove ci diamo gomitate a vicenda, di concorrenza. E risorgere è servirsi di questo mondo, dei

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soldi, delle istituzioni che abbiamo, come strumenti, come il fi ne della vita, per vivere sempre meglio.

E la vita migliore è quella del pensiero, la vita migliore è quella del cuore che ama, e la vita migliore è quella delle azioni che cercano non solo il mio tornaconto, ma le azioni che vogliono il tornaconto di tutti. Il gioco più bello non è quello dove ci sono vincitori e perdenti, il gioco più bello è quello dove ci sono solo vincitori. L’esistenza è un gioco che funziona soltanto se siamo tutti vincitori – chi di noi vuole essere perdente? Funziona soltanto se riusciamo a praticare sempre meglio l’arte di essere tutti vincitori, tutti però, senza nessuna esclu-sione. In tutte le razze, in tutte le religioni, in tutti i paesi dovunque ci siano esseri umani, ogni essere umano è un’aspirazione a vincere, a non farsi schiacciare, a vivere in pienezza, se no non sarebbe un essere umano.

A questo punto pensavo di passare in rassegna con voi un settenario. Il ternario è uno dei numeri fondamentali (la trinità), poi quando si vuole complicare un pochino il discorso si ricorre al numero sette.

Il numero sette però è fatto di due trinità: uno, due, tre, (prima trinità) e poi cinque, sei e sette (un’altra trinità). E siccome sono due trinità speculari gli devi dare una virata, e il punto quattro è la svolta. Ma sono due trinità. Quindi tutto ciò che è settenario

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7Evoluzione

Svolta

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è composto da due trinità con la svolta in mezzo – questo come aiuto al pensiero per i metafi sici ed i fi losofi che sono qui in sala.

Siccome ieri non ho avuto tempo di esprimere, come mi ero proposto, alcuni pensieri su questo settenario poiché voi avete goduto – giustamente – le discussioni più delle mie conferenze (ho dovuto essere stringato nel discorso ed ho potuto parlare sol-tanto un’ora e mezza per ogni conferenza), allora mi sono detto: stamattina recupero quello che non ho potuto dire ieri.

C’è un libricino di Rudolf Steiner che si chiama Teosofi a 24. Que-sto libricino è una cosa poderosa dove, tra le altre cose, Steiner descrive le sette sfere dell’anima in cui passa colui che è morto. Io mi sono detto: “Uso queste sette sfere dell’anima come trafi la per indicare i sette modi di morire quotidiano per vivere meglio ogni giorno”. E poi mi sono detto: “Vediamo se la cosa riesce”, – poi-ché i morti passano queste sfere, se è vero che i morti diventano vivi nella vita dello spirito grazie ad una settuplice morte.

Infatti, purifi cazione signifi ca morte. Se qualcosa deve esser pu-rifi cato, allora deve morire, deve sparire. Certe brame devono sparire, la brama del Chianti migliore per esempio. Siccome l’ani-muccia il Chianti non lo può bere dopo la morte, che soluzione c’è? Smettere di voler bere il Chianti. Perché se l’anima continua a voler bere il Chianti, e il Chianti non c’è, è peggio – quindi la brama si brucia. Queste sfere di morte, all’animico servono per risorgere, per vivere meglio nei mondi spirituali.

Infatti Steiner descrive che l’essere umano, dopo aver passato la sfera dell’anima, entra in quella dello spirito, nei mondi dello spirito – e anche lì sono sette sfere tra l’altro! Però per affrontare queste sette sfere spirituali c’è un po’ da arrampicarsi sui muri. Perciò ho detto: prendiamo intanto quelle dell’anima, che forse

24 Rudolf Steiner: Teosofi a – un’introduzione ai mondi sovrasensibili - Ed. Antroposofi ca

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ci capiamo un pochino, e per le altre mettiamo la pulce nell’orec-chio in tutte queste persone che, sono sicuro, domani appena le librerie si aprono vanno tutti a comprare la Teosofi a di Steiner, per impararla.

Cosa sono queste sfere dell’anima? Sette modi di morire quo-tidiani. Io naturalmente nello spazio limitato di una conferenza posso soltanto mettere lì dei pensieri, ma il mio intento non è mai quello di presentarvi delle cose macinate dove dico: “Ecco, basta che impari a memoria quello che ho detto...”. No, il mio intento è di creare un processo di pensiero per cui voi sentendolo dite: “Ah, quello me lo voglio rivedere io però”.

La prima sfera è quella della brama ardente. La brama ardente si riferisce soprattutto agli istinti più profondi, più cogenti, quelli ri-feriti al corpo, per esempio tutte le forze della sessualità. Quando l’essere umano vive le forze della sessualità, l’attrattiva sessuale verso l’altro sesso, nella normalità delle cose questa brama è tal-mente bruciante, è talmente forte, che non consente l’apertura a nient’altro. Questa sfera fa morire l’essere umano in quanto lo riduce ad un minimo punto di istinto che esclude l’interesse a tutto il resto. Il quesito morale non è nel fatto di vivere l’istinto di natura (perché quello è un fatto di natura), ciò che evidenzia l’aspetto morale è che io mi tolgo la possibilità di aprirmi, di avere interesse, a tutto il resto – quello è problematico.

Se fosse possibile, dentro al pulsare dell’istinto, per esempio di procreazione, essere contemporaneamente aperto alle conquiste del pensiero, andrebbe benissimo, perché le cose come avvengo-no nell’istinto di natura sono cose di natura. Però l’essere umano che si riduce a natura diventa un fatto morale rilevante, in quanto si pone la domanda di ciò che ha cancellato di positivo nel suo essere, almeno in quel momento.

Quindi il morire quotidiano sta nel purifi care, nel far morire

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tutto ciò che mi riduce. E la brama ardente è il punto di riduzione, di impoverimento massimo del mio essere. Se uno lo capisce il fenomeno – e un po’ di esperienza ce l’abbiamo tutti –, deve dire: “Sì, è così”. A noi non interessa moraleggiare, ma evidenziare la realtà oggettiva.

Questa sfera è la prima che i morti passano perché è quella più cogente, è quella che rende meno liberi: è un modo di fi ssarsi su un punto assoluto e perdere la connessione con tutto il resto. E a seconda di come colui che è morto è pieno o meno pieno, è im-bevuto o meno imbevuto nella sua anima di queste brame ardenti vi passerà più tempo, e quindi dovrà soffrire di più o di meno. Molto reale la cosa.

La seconda sfera è la sfera delle sensazioni fl uttuanti. È come un mare magnum di eccitabilità della sensazione. Quando sentiamo squillare un cellulare cosa avviene? L’attenzione viene attratta lì. È forte e cogente come una brama ardente? No, però la corrente animica va là. Prima sta più o meno verso l’oratore, poi squilla un cellulare e l’oratore dice: “Adesso sono tutti via”!

Questa seconda sfera – la sfera degli stimoli, delle eccitazioni, delle irritazioni, delle attrazioni, l’allettamento, il fascino, l’incan-to, la balia delle percezioni dei sensi, delle impressioni dei sensi, dell’eccitazione e dell’eccitabilità dei sensi – è come un fl uido che scorre e va sempre dove c’è una percezione. È come se ci fosse una pendenza e l’acqua che scorre va lì.

Cosa c’è di male, cosa c’è da morire lì, in questa eccitabilità? Se l’anima vive in questa eccitabilità delle percezioni, se vive nel mondo delle sensazioni non può aprirsi più di tanto (anzi molto poco) al mondo dello spirito. Inoltre, quando il corpo viene di-messo le sensazioni cessano e perciò non possono rendere felice l’essere umano, perché sono di natura passeggera.

Oggi, in questa compagine di materialismo in cui ci troviamo,

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è proprio la diffi coltà del discorso, perché io mi sono detto: “Sì, adesso tu vai lì e gli fai questo bel discorsino, però molte persone ti diranno che fai un discorso da asceta perché se porti via gli istinti, e poi addirittura porti via il mondo delle sensazioni, alla fi ne non gli resta più nulla”. Quindi il materialismo è un impo-verimento tale dell’anima che vive soltanto in se stessa, che non ha più quasi la minima idea di ciò che è spirituale. E si ribella, si arrabbia quando gli si dice: “Guarda che per vivere meglio, per goderti ciò che è spirituale, è importante che tu bruci, purifi chi, l’irruenza del tuo animico”.

L’uomo d’oggi, del mondo spirituale non capisce nulla, non co-nosce nulla, ha soltanto l’anima. E adesso gli si dice: “Ti porto via anche l’anima”. Vedete che il discorso si fa diffi cile? Però io mi sono detto: “Per quanto il discorso sia diffi cile, non voglio bara-re”. Perché se noi a questo punto facessimo delle concessioni, o l’oratore facesse delle concessioni per farsi simpatico, barerebbe, e tutto ciò non serve a nulla. Dobbiamo avere il coraggio di dirci che c’è di meglio.

Se io muoio coscientemente a queste costrizioni dei sensi, pon-go i presupposti per vivere meglio. Questo è il concetto che c’è di meglio! Perché ognuno di noi ha il diritto legittimo di lasciare qualcosa soltanto quando trova qualcosa di moralmente meglio. E se non trova qualcosa che è moralmente meglio, fa moralmente male a lasciare ciò che ha, perché si getta nel nulla. Però questo meglio non è una cosa che la natura ti dà (perché allora non sareb-be meglio), è un meglio di conquista.

É importante cominciare col capire – e quindi cogliere questo meglio ai livelli della coscienza e del pensiero – , e poi ognuno di noi vedrà. Perché come uno si pone di fronte a questo meglio che ha capito col suo pensiero – speriamo – e quanto tempo ci mette a vivere sempre meglio, è una faccenda del tutto individuale. Però ha capito che può vivere meglio soltanto morendo al peggio.

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Se uno invece dice: “No, questo vivere nell’animico, come tu lo chiami, a me sta bene e ci voglio restare!” Padronissimo! Non gli vado a rompere la testa. A me interessa soltanto dire che mi pare ci sia qualcosa di meglio. Tuttavia per non pigliarmi botte più di tanto, che cosa ho fatto? Ho preso Rudolf Steiner: “ Lo dice lui! Datele a lui le botte”.

La terza sfera animica con cui i morti fanno i conti dopo la mor-te, e nella quale noi moriamo ogni giorno per darci la possibilità di vivere meglio se risorgiamo, è quella che Steiner chiama la sfera dei desideri e delle voglie.

Naturalmente, la brama è un desiderio fortissimo. L’eccitazione dei sensi è un desiderio meno forte. E una voglia è un desiderio ancora meno forte. In altre parole, qui, di passo in passo l’anima si dà sempre di più una calmata, e dandosi una calmata, morendo a questa violenza animica, si dà la possibilità di vivere meglio.

Quindi, la brama ardente è un’anima che non si dà nessuna cal-mata. Le sensazioni, le eccitazioni, l’eccitabilità dei sensi è un’ani-ma già un pochino meno forte di desideri. E poi le voglie, ancora meno forte. Però, in tutti e tre questi casi, l’anima vuole qualcosa, è orientata, parte per una direzione e non gli interessa nulla di ciò che è a destra, di ciò che a sinistra, di ciò che è dietro. Brama ar-dente: più forte; eccitabilità: meno forte; desiderio: ancora meno forte. Però è sempre l’anima che decide ciò che vuole e quindi non si apre.

La quarta sfera è il punto di cerniera perché la quarta sfera crea una polarità e quindi è l’elemento puro dell’animico: l’oscillare tra il piacere e il dispiacere. Quindi qui l’anima diventa già capace di oscillare, di distinguere, diventa capace di tutti e due, diventa ca-pace del piacere, di vivere ciò verso cui va, e diventa capace anche di morire dove c’è dispiacere – perché dice: “No, questo no”.

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A questo punto qui io mi sono detto leggendo in tedesco la Teosofi a di Steiner che c’è un grosso problema nella traduzione italiana. Perché se noi traduciamo con piacere e dispiacere le parole tedesche25 usate da Steiner c’è un enorme pericolo di moraleg-giare. Perché, nel piacere e nel dispiacere che c’è da purifi care? Il piacere si può sentire anche nei confronti della conoscenza. Escludiamo noi che si possa sentire piacere nei confronti della conoscenza? Invece le due parole tedesche si riferiscono più chia-ramente a una sfera da purifi care, nel senso di piacere e dispiacere in quanto originato dal corpo – e questo va purifi cato perché il corpo non c’è più.

I piaceri e i dispiaceri che l’anima ha vissuto nel cammino di conoscenza quelli gli restano, non sono da purifi care, ce li ha an-cora più forti. E in tedesco lust e unlust si riferiscono al rapporto dell’anima col corpo, molto di più che non piaceri e dispiaceri. E allora, pensa che ti ripensa, ho trovato due parole italiane che esprimono meglio di piacere e dispiacere ciò che qui si vuole in-tendere: le parole gusto e disgusto.

Questa, secondo me, sarebbe una traduzione migliore perché toglie via ogni moraleggiamento. Gusto e disgusto signifi cano: ora che non hai più il corpo, ti tocca ammettere onestamente che tutto il vissuto del gusto e tutto il vissuto del disgusto l’hai dovuto all’interazione della tua anima col tuo corpo. Invece, se ci riferia-mo allo spirito possiamo usare gioia e dolore, ma allora è diverso. Gioia e dolore non sono la stessa cosa che gusto e disgusto.

C’è un modo fondamentale del morire quotidiano per vivere meglio, ed è diventare buongustai dello spirito. Molti dicono: “Sì, dovrebbe essere meglio!? Ma va, io un Chianti me lo gusto! Quel-lo sì che me lo gusto! e tu vieni a parlare di gustare lo spirito”.

25 Lust e unlust

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Steiner dice che tipini come Hegel26, il grande pensatore tede-sco, andavano in brodo di giuggiole nel pensare. E noi diciamo che erano dei matti. No, siamo matti noi, che non sappiamo cosa ci aspetta nell’evoluzione. Però, sta di fatto che uno legge que-sto libricino (Teosofi a n.d.r.) e legge cosa passa il morto nelle sfere dell’anima per purifi care, per diventare capace della vita migliore, per vivere meglio nello spirito:

1. deve bruciare le brame ardenti, 2. deve far trascorrere, sparire tutte le eccitazioni dei sensi, 3. deve vincere desideri e voglie, perché “io voglio que-

sto” signifi ca che non mi apro a ciò che il mondo vuole da me e perciò devo diventare neutro.

4. Poi arriva la quarta botta: non più gusto e disgusto, ma gusto neutro.

Questo è il punto in cui o ci si intende in un modo giusto oppure salta fuori l’accusa di moralismo, di ascesi, di macerazione, ecc. Va capito giustamente, e perciò ci ho tenuto a non usare soltanto le parole piacere e dispiacere, per poi essere frainteso ma, proprio in riferimento al godimento dell’anima dovuto al corpo, prendere i vocaboli gusto e disgusto.

Intervento. E la parola sensualità?Archiati. Sensualità sarebbe la traduzione italiana perfetta per il

numero due – il vivere nel fl uttuare dei sensi e delle sensazioni. Solo che la parola sensualità è stata moraleggiata anche quella, e oramai si riferisce maggiormente al primo gradino e, in questo modo, saltano fuori i problemi. Tutti i problemi di terminologia non sono da poco, bisogna capirsi sulla terminologia.

Naturalmente tutte le conseguenze del discorso vengono lascia-

26 Georg Wilhelm Friedrich Hegel, fi losofo, idealista tedesco (Stoccarda, 27 agosto 1770 – Berlino, 14 novembre 1831)

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te ad ognuno. Rendere sempre meno determinante il gusto e il di-sgusto, ciò che mi piace a livello corporeo e ciò che non mi piace, morire volentieri alla preminenza, alla prepotenza del gusto e del disgusto per vivere meglio (cioè per godere, per provare gusti o disgusti più duraturi) è lasciato ad ognuno di noi. L’elemento di purifi cazione di questa sfera del gusto e del disgusto è che proprio è passeggero, perché quando il corpo non c’è più, questa sfera non c’è più, non esiste più. Questo è un dato oggettivo.

Se invece io ho passato una vita a gustare pensieri belli, per esempio a gustare opere d’arte, questo tipo di gusto, che è un pia-cere, che è una gioia spirituale, l’anima se lo porta perché quello è il gusto migliore, è la vita migliore.

Il materialismo sta proprio nel non rendersi conto di quanti ele-menti di morte portiamo dentro di noi. Nella misura in cui noi comprendiamo questi elementi di morte, siamo capaci di vivere meglio, e lo siamo nella misura in cui decidiamo, volentieri e con gioia, di morire a queste morti e quindi di farle terminare. Mo-riamo a questi elementi di morte, non li vogliamo più per vivere meglio.

Meglio dei gusti del corpo ci sono i gusti dell’arte, della religio-ne, della conoscenza. È meglio nel senso che questo gusto è più duraturo, più intenso, più beatifi cante, più profondo. Un esempio concreto. Una persona, un turista, va in un bar e chiede un caffè. Lo beve, non è di suo gusto e fa un putiferio. Mi viene in mente che una volta quando ero studente a Roma, a uno accanto a me gli era caduta una mosca nel caffè. Capita. A quei tempi il caffè co-stava trenta lire. Lui si arrabbiò e il barista gli disse: “Per trenta lire cosa volevi, un elefante”? (risate in sala) A pensare a un elefante, a lui è venuto subito il gusto di berlo il caffè – era meglio la mosca.

Domanda: come arriva un essere umano ad arrabbiarsi, a fare una tragedia per il fatto che qualcosa che sta bevendo, che sta mangiando, non è di suo gusto? È una morte umana terribile ren-

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dere il gusto così importante. Signifi ca che questa persona non ha nient’altro da godere se rende il gusto del palato così importante. E il fatto che non abbia nulla da godere, questo è il fatto morale.

Il fatto fi siologico (che sia di suo gusto o no) è un fatto di na-tura, ma l’elemento morale del fenomeno è che gli mancano tutti gli altri gusti, perché altrimenti non renderebbe questo gusto così importante. Sì, si lamenterebbe ecc., ma non farebbe un putiferio. Io ho conosciuto persone che vanno in albergo e se non è tutto di loro gusto, spariscono! E poi si rendono conto che non c’è nes-sun albergo dove tutto è di loro gusto. E dopo, alla fi ne, vanno a dormire nel bosco – là all’improvviso è tutto di loro gusto. (risate)

Riassumendo:1. La sfera della brama ardente2. La sfera delle sensazioni fl uttuanti3. La sfera dei desideri e voglie 4. La sfera del gusto e disgusto 5. La sfera della luce dell’anima.6. La sfera della forza dell’anima7. La sfera della vita dell’anima

Siamo arrivati alla sfera numero cinque: la sfera della luce dell’ani-ma (adesso le cose diventano un po’ più rarefatte).

Sei: la forza dell’anima e sette: la vita dell’anima – qui le cose sono rarefatte per chi è abituato soltanto a ciò che è corporeo. Pensate: addirittura sette sfere di ciò che è animico. E poi mica è fi nito, poi cominciano le sette sfere dello spirito, ma non ve ne parlo oggi, eh! La prossima volta. (ilarità in sala)

Cosa vuol dire luce animica? Che cosa resta ancora da purifi care? Dopo che mi hai tolto tutte le brame – bella sudata!, mi hai tolto tutte le sensazioni, addirittura mi togli tutti i gusti…

La luce dell’anima Steiner la descrive come l’esperienza del bearsi

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del godere la natura. L’anima vive nella sua luce quando si gode, si bea la natura. Che c’è di male? Ci manca lo spirito, mi dispia-ce. Goduria animica. Il morto dice: “Mannaggia anche questo mi portano via! Non mi resta più nulla”.

La luce dell’anima è il benessere fi sico. Per quanto inevitabile, questo benessere fi sico, questo bearsi della natura, è una cosa che portandoci via il corpo, non c’è più. Perciò il morto deve abituar-si al fatto che la natura e il benessere fi sico – e quindi la natura vissuta nella sua quintessenza che è il corpo umano (il benessere fi sico) e il bearsi della natura – sono anche questi presupposti di morire quotidiano per imparare a non fare della natura e a non fare della corporeità il fi ne, ma addirittura uno strumento per un cammino dello spirito.

Quindi, non godere più la natura in quanto natura, ma godere la natura in quanto campo di conquiste dello spirito. Vedete che il bearsi della natura è un diluirsi dell’anima, proprio uno spappolar-si dell’anima, un auto-godimento? Però, questo auto-godimento, per quanto bello se volete, preclude un vero e proprio cammino di creatività spirituale.

Le sfere cinque, sei e sette sono di nuovo una trinità del pensare del sentire e del volere.

La forza dell’anima sono le azioni, non soltanto il bearsi nel-le percezioni, ma la sfera delle azioni. Questa sesta sfera della forza animica, la forza dell’anima attiva, operante, è la goduria dell’attivismo e cioè il godere di fare qualcosa, le forze dell’anima applicate, è l’amore all’azione. Domanda che pongo: c’è di meglio che l’amore all’azione? Sì! Perché l’amore all’azione è l’amore al risultato dell’azione. E questo dipende dal risultato dell’azione.

L’azione è un’unità, è un risultato che voglio (l’azione, per esem-pio, di scrivere un libro), e quindi l’anima dipende dal fatto che

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questa azione venga compiuta. Cosa c’è di meglio, di più spiri-tuale? Cosa c’è di meglio? Morire all’amore all’azione per vivere meglio. Cos’è questo meglio? L’amore all’agire, lasciando al mon-do il risultato di questo agire – che ci sia, che non ci sia, che sia parziale o no.

Per coloro che parlano il tedesco, ne La fi losofi a della libertà27 di Steiner, la prima edizione c’era liebe zur handlung (l’amore all’azio-ne). Nella seconda edizione, circa venticinque anni dopo, Steiner l’ha cambiato in liebe zur handeln (l’amore all’agire), che non ricatta l’agire in vista di un successo, di un risultato, ma è il godere l’agire.

Il godere all’agire è l’anima che si apre veramente allo spirito perché lascia allo spirito i risultati dell’agire. Il godere l’agire è essere indipendenti animicamente dai risultati e lasciarli al kar-ma. Quindi l’amore all’azione è ancora animico, mentre l’amore all’agire diventa sempre più spirituale. Trovatemi voi dei testi dove si possono fare questi passi conoscitivi; io non ne conosco di paragonabili.

La vita dell’anima è l’attaccamento al mondo visibile – l’attac-camento non solo alle azioni, non solo al mondo delle percezio-ni, ma proprio a tutto il mondo visibile in quanto tale. Morire a questa vita dell’anima per vivere meglio signifi ca vivere nella vita dello spirito. E la vita dello spirito è senza questo ricatto di at-taccamento al mondo visibile. E qual è l’attaccamento al mondo visibile paradigmatico, il più fenomenale che ci sia? É ciò che noi chiamiamo materialismo.

Il materialismo è la vita dell’anima moderna perché è intriso di attaccamento al mondo visibile. Morendo ogni giorno a questo attaccamento al mondo visibile, c’è un modo migliore di vivere per cui il mondo visibile non è più lo scopo, il fi ne, ma diventa

27 Rudolf Steiner: La fi losofi a della libertà - Ed. Antroposofi ca

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uno strumento per il cammino eterno dello spirito.Arrivederci a tutti!

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Pietro Archiati è nato nel 1944 a Capria-no del Colle (Brescia). Ha studiato teologia e fi losofi a alla Gregoriana di Roma e più tardi all’Università statale di Monaco di Ba-viera. È stato insegnante nel Laos durante gli anni più duri della guerra del Vietnam (1968-70).

Dal 1974 al 1976 ha vissuto a New York nell’ambito dell’ordine missionario nel qua-le era entrato all’età di dieci anni.

Nel 1977, durante un periodo di eremitaggio sul lago di Como, ha scoperto gli scritti di Rudolf Steiner la cui scienza dello spirito ― de-stinata a diventare la grande passione della sua vita ― indaga non solo il mondo sensibile ma anche quello invisibile, e permette così sia alla scienza sia alla religione di fare un bel passo in avanti.

Dal 1981 al 1985 ha insegnato in un seminario in Sudafrica du-rante gli ultimi anni della segregazione razziale.

Dal 1987 vive in Germania come libero professionista, indipen-dente da qualsiasi tipo di istituzione, e tiene conferenze, seminari e convegni in vari Paesi. I suoi libri sono dedicati allo spirito libe-ro di ogni essere umano, alle sue inesauribili risorse intellettive e morali.

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Finito di stampare nel mese di Ottobre 2009da Stampatre s.r.l. - Torino - via Bologna, 220

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