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1
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PALERMO
SCUOLA DELLE SCIENZE GIURIDICHE ED ECONOMICO SOCIALI
CORSO DI LAUREA IN CONSULENTE GIURIDICO E DEL LAVORO
LA TUTELA DEI DIRITTI DEI DETENUTI
E IL
SOVRAFFOLLAMENTO CARCERARIO
Tesi di Laurea di:
MARINA SPARACIO
RELATORE:
Prof. COSTANTINO VISCONTI
ANNO ACCADEMICO
2013/2014
2
“Il grado di civilizzazione di una società
si misura dalle sue prigioni.”
Fedor Dostoevskij
INDICE
I. I DIRITTI COSTITUZIONALMENTE GARANTITI AI DETENUTI pag.4
II. LA CONDIZIONE DEI DETENUTI NELLA GIURISPRUDENZA DELLA
CORTE EUROPEA pag.8
III. LA PENA DETENTIVA E LE MISURE SOSTITUTIVE ALLA
DETENZIONE pag. 10
IV. LA RIFORMA PENITENZIARIA DEL 1975 pag.15
V. IL SOVRAFFOLLAMENTO CARCERARIO pag. 21
CONCLUSIONI pag. 26
BIBLIOGRAFIA pag. 27
3
PREMESSA
Il tema della tutela dei diritti dei detenuti e del sovraffollamento carcerario è una questione
annosa e all’ordine del giorno nelle cronache quotidiane. Giornali, quotidiani, tg e
documentari sull’argomento si pongono un unico quesito: cosa accade all'interno degli
istituti di pena? Quali diritti appartengono ai soggetti reclusi? A quali organi possono
chiedere tutela ed in base a quali norme? Queste semplici domande introducono l'oggetto
del seguente elaborato, incentrato sulle questioni giuridiche concernenti il trattamento dei
detenuti all’interno delle carceri italiane, anche alla luce della numerosa giurisprudenza
prodotta dalla Corte europea dei diritti dell'uomo.
La Corte europea per i diritti dell’uomo di Strasburgo ha già condannato il nostro
Paese: la situazione delle carceri italiane viola i diritti dei detenuti. L’ennesimo decreto
svuota carceri è stato approvato dal governo con l’obiettivo di ridurre la popolazione
carceraria di 3.500 - 4.000 persone. Dai forniti dal Ministero della Giustizia sono 65.831
mila i detenuti a dispetto di una capienza di 47.045 mila.
In questo elaborato tratteremo la tematica relativa alla tutela offerta dal nostro
ordinamento alle persone recluse e il tema del sovraffollamento carcerario, un problema
mai stato definitivamente risolto.
Il primo capitolo si occuperà dei diritti garantiti a questi soggetti dalla nostra
Costituzione.
Il secondo capitolo verterà sulla pena detentiva, sulla reclusione in particolare e
sulle misure sostitutive alla detenzione in carcere.
Il terzo capitolo concerne la trattazione della riforma penitenziaria del 1975.
L’ultimo capitolo è rivolto al tema del sovraffollamento carcerario.
4
CAP 1
I diritti costituzionalmente garantiti ai detenuti
Dall’art. 2 della Costituzione che recita «la Repubblica riconosce e garantisce i diritti
inviolabili dell’uomo» e dall’articolo 27, comma 3, Cost. secondo cui «la pena non può
consistere in trattamenti contrari al senso di umanità» si fa discendere un principio di
civiltà giuridica, secondo il quale : le persone sottoposte a restrizione della libertà
personale conservano intatta «la titolarità di situazioni giuridiche soggettive» e vedono
«garantita quella parte di personalità umana» che la pena o la misura di sicurezza detentiva
e la custodia cautelare in carcere non intaccano. 1
Con riferimento ai detenuti, si precisa che la sanzione detentiva comporta una grave
limitazione, ma non la privazione, dei diritti di libertà della persona, ritenendosi che quel
residuo di libertà, che la detenzione lascia sopravvivere, «è tanto più prezioso, in quanto
costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale». 2
In altre parole, anche durante l’esecuzione di una misura limitativa della libertà, la dignità
della persona è «protetta attraverso il bagaglio dei diritti inviolabili dell’uomo, che anche il
detenuto porta con sé» 3
Nell’interpretare l’art. 27 Cost. la dottrina coeva alla’emanazione della Carta
costituzionale ha espresso orientamenti ermeneutici rivolti a restringerne la portata. Invero,
facendo leva sul verbo «tendere», si è sostenuto che la rieducazione sia non una finalità
essenziale , ma soltanto uno scopo «eventuale» della pena: e, considerando l’ordine di
successione dei due enunciati contenuti nel terzo comma dell’art. 27 Cost. si pone
l’accento sulla circostanza che il riferimento al divieto di trattamenti inumani precede il
richiamo della rieducazione4; perciò se ne è dedotto che scopo necessario della prima
rimane la «retribuzione», mentre la funzione rieducativa resterebbe confinata alla fase
esecutiva 5.
Un simile tentativo di sminuire la portata dell’articolo 27, comma 3°, Cost. finisce, in
realtà, col mortificare l’indubbia carica innovatrice che ispira la disposizione stessa. Nel
prendere posizione esplicita sulla funzione della pena, nulla avrebbe impedito al legislatore 1 Corte Costituzionale, sentenza n. 114, 25 luglio 1979.
2 Corte Costituzionale, sentenza n. 349, 24 giugno – 28 giugno 1993.
3 Corte Costituzionale, sentenza n. 26, 11 febbraio 1999.
4 G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale parte generale, Bologna, Zanichelli ed., 2009
5 Petrocelli, Retribuzione e difesa nel progetto di codice penale del 1949, in Rivista italiana diritto penale,
1950, p, 593.
5
– ove egli avesse inteso esprimere un’idea diversa da quella esplicitamente manifestata – di
usare i termini più appropriati (affermando, ad esempio che le pene devono tendere alla
«retribuzione» o impiegando espressioni consimili).
D’altra parte, proprio il concetto di rieducazione, non sembra prestarsi ad una
interpretazione che ne riconduca la portata entro i confini delle teorie tradizionalmente
accolte sulla funzione della pena. Infatti, quando in passato si era sostenuto che la pena
assolve a finalità, oltre che retributive, anche di prevenzione speciale, ci si era per lo più
riferiti alla prospettiva di un trattamento punitivo del delinquente volto all’emenda
individuale sotto un profilo squisitamente etico.
Mentre il concetto di rieducazione in senso costituzionale esprime significati che
rimandano anche, se non soprattutto, alla dimensione intersoggettiva dell’esperienza
umana: la rieducazione, in altri termini, dice di più dell’emenda ed inclina verso il concetto
di «risocializzazione».
Si potrebbe, a questo punto, obiettare che la rieducazione intesa come risocializzazione
finirebbe con l’annullare la differenza di scopi che tradizionalmente giustifica la
separazione tra pene e misure di sicurezza 6. Una simile obiezione, non coglierebbe,
tuttavia nel segno perché apparirebbe viziata da inversione metodologica : essa, cioè in
contrasto col principio della gerarchia delle fonti, implicherebbe un’interpretazione della
norma costituzionale alla luce delle scelte politico-criminali recepite nella legislazione
ordinaria 7.
Inoltre, è agevole replicare che dall’assunzione della finalità rieducativa a scopo comune
sia alle pene che alle misure di sicurezza, non deriva ancora che entrambe le misure si
riducono ad un inutile doppione : la rieducazione infatti si connota diversamente, in
funzione delle caratteristiche soggettive dei destinatari (imputabili o inimputabili) della
sanzione penale.
Si può ulteriormente ribattere che non è neppure probante l’argomento che fa leva
sull’ordine di successione dei due enunciati contenuti nell’art. 27, comma 3°, Cost. In
astratto, il divieto di trattamenti inumani si può riferire egualmente bene sia alla
retribuzione che alla rieducazione. Ed infatti non è affatto vero che quest’ultima
presuppone necessariamente un trattamento ispirato a criteri di unanimità: si ipotizzi un
trattamento rieducativo che, al fine di conseguire la neutralizzazione degli impulsi
antisociali del reo, ricorra a tecniche che offendono la dignità della persona (ad es.
trattamenti farmacologici o di altra natura idonei a modificare la struttura della personalità
6 Caraccioli, I problemi generali delle misure di sicurezza, Milano, 1970.
7 Musco Enzo, La misura di sicurezza detentiva: profili storici e costituzionali, Milano, 1978.
6
del reo ovvero a limitarne fortemente la capacità di autodeterminazione), ponendosi perciò
in contrasto con elementari principi umanitari.
Un ultimo rilievo. Proprio perché la «rieducazione» deve conciliarsi col rispetto
dell’autodeterminazione del reo, l’esito favorevole del processo rieducativo non è scontato
in partenza. Esclusa ogni forma di imposizione o di intervento coattivo, la possibilità di
rieducare si atteggia soltanto ad obiettivo tendenziale , perseguibile finchè il reo sia
disposto a collaborare. Da questo punto di vista, ben si comprende dunque perché il
legislatore costituzionale abbia usato l’espressione «tendere» nel fare riferimento alla
funzione rieducativa.
Tutto ciò premesso, si tratta a questo punto di segnalare i reali limiti della presa di
posizione costituzionale sulle finalità della pena.
Il primo limite va individuato in ciò: la prevenzione speciale sub specie di rieducazione
non è da sola sufficiente ad esaurire tutte le funzioni cui oggi la sanzione penale assolve.
Se la rieducazione assume un ruolo primario nelle due fasi dell’esecuzione e della
commisurazione giudiziale della pena, altrettanto non può dirsi nella fase della minaccia :
l’obiettivo perseguito in questa fase è quello della «prevenzione generale» , proprio perché
la minaccia della pena serve a distogliere la generalità dei consociati dalla commissione
di fatti penalmente illeciti. Non a caso, nella stessa giurisprudenza costituzionale,
predomina una concezione polifunzionale della pena, la quale è andata vieppiù evolvendo
secondo un modello cd. associativo-dialettico, cioè che tende ad assegnare un diverso ruolo
alla prevenzione generale e alla prevenzione speciale in chiave rieducatrice, in funzione
delle diverse fasi in cui si articola la demonologia punitiva. 8
Il secondo limite va ravvisato nella stessa «genericità» del concetto di rieducazione, sia
pure assunto a criterio ispiratore non di tutte, ma di alcune funzioni soltanto della sanzione
penale: ciò sollecita l’interprete ad un impegno rivolto a precisare portata e limiti della
rieducazione alla stregua dell’insieme dei principi che caratterizzano il nostro sistema
costituzionale.
Come abbiamo visto, numerose sono le pronunce della Corte Costituzionale sul significato
e sulla portata del finalismo rieducativo della pena.
Il primo problema che l'articolo 27, comma terzo, della Costituzione pone all'interprete è
quello di chiarire se la formula «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al
8 per un quadro ricostruttivo cfr. Fiandaca, Scopi della pena tra comminazione edittale e commisurazione
giudiziale, in Diritto penale e giurisprudenza costituzionale, Napoli, 2006.
7
senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato» stia ad indicare i
limiti più significativi di una disciplina generale della pena oppure soltanto i limiti
dell'esecuzione penale.9 Questo è un interrogativo a cui la Corte Costituzionale ha risposto
in maniera non sempre univoca.
Di fondamentale importanza è stato il ruolo svolto dalla stessa Corte con la sentenza n. 204
del 1974. La Corte riconosce quale fine ultimo e risolutivo della pena quello di tendere al
recupero sociale del condannato, il quale «ha assunto un peso ed un valore più incisivo di
quello che non avesse in origine; rappresenta, in sostanza, un peculiare aspetto del
trattamento penale e il suo ambito di applicazione presuppone un obbligo tassativo per il
legislatore di tenere non solo presenti le finalità rieducative della pena, ma anche di
predisporre tutti i mezzi idonei a realizzarle e le forme atte a garantirle». Inoltre riconosce
al condannato l'equivalente diritto a vedere riesaminata la pretesa punitiva al fine di
accertare se, in effetti, la quantità di pena espiata abbia o meno assolto al suo fine
rieducativo. L'individuazione di tale diritto soggettivo è centrale nella sentenza, perché dal
riconoscimento di tale posizione giuridica del soggetto, deriva l'affermazione della
competenza a decidere del giudice ordinario in materia di liberazione condizionale e la
dichiarata incostituzionalità della competenza del ministro della giustizia, prevista dalla
normativa allora vigente.10
Con la sentenza n. 313 del 1990 la giurisprudenza della Corte Costituzionale ha subìto una
svolta: la portata del principio rieducativo della pena viene evidenziata in tutta la sua
estensione.
Si parla di svolta perché questa pronuncia ha comportato un'inversione di tendenza
rispetto alla consolidata prassi giurisprudenziale che considerava la funzione rieducativa
circoscritta al solo ambito dell'esecuzione.
La sentenza n. 313 del 1990 ha individuato nel fine rieducativo della pena il principio che
deve informare di sé i diversi momenti che siglano il processo ontologico di previsione,
applicazione, esecuzione della sanzione penale. La Corte ha affermato che «in uno stato
evoluto, la finalità rieducativa non può essere ritenuta estranea alla legittimazione e alla
funzione stessa della pena». Ed ancora che «la necessità costituzionale che la pena debba
tendere a rieducare, lungi dal rappresentare una mera generica tendenza riferita al solo
trattamento, indica invece proprio una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano
9 M. Spasari, Diritto penale e Costituzione, Giuffrè, Milano, 1966, pag. 117
10 A. Margara, Chi punire, perché punire, come punire, in Questione Giustizia, bimestrale promosso da
Magistratura democratica, n. 5, 2002, pag. 1042.
8
la pena nel suo contenuto ontologico e l'accompagnano da quando nasce, nell'astratta
previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue». 11
Una volta stabilito che il principio costituzionale della finalità rieducativa della pena
condiziona tutto il sistema penale e non soltanto la fase d'esecuzione, esso si riflette sul
meccanismo delineato nell'art. 133 c.p.: ne consegue che, così come sostenuto dalla
Cassazione, con sentenza 18 febbraio 1991, la commisurazione della pena non può
prescindere dalle «necessità rieducative» da determinare in relazione alla gravità del reato
e alla personalità dell'imputato. 12
La Suprema Corte ha ritenuto anche, che in tema di valutazione della gravità del reato agli
effetti della pena, l'individuazione della pena medesima non ha significato senza la
considerazione della finalità rieducativa 13, e ancora che «tra i criteri direttivi per la
determinazione della pena, il giudice deve tenere conto della necessità della rieducazione:
è quindi necessario valutare la personalità dell'imputato e le sue inclinazioni soggettive con
riferimento alla capacità a delinquere, intesa come attitudine a commettere nuovi reati». 14
11
Corte Costituzionale, sentenza 3 luglio 1990, n. 313, in Giurisprudenza costituzionale, 1990, pag.
1981 e seg. 12
Cass. Pen., sez. II, 18 febbraio 1991. 13
. Cass. Pen., sez. I, 3 ottobre 1985. 14
Cass. Pen., sez. III, 28 gennaio 1993.
9
CAP 2
La condizione dei detenuti nella giurisprudenza della Corte Europea
La convenzione europea ed i suoi protocolli sono privi di disposizioni specifiche in tema di
detenzione carceraria e di misure penitenziarie.15 Tuttavia, non sono mancate applicazioni
dei principi espressi dalle fonti europee di tutela dei diritti fondamentali alle situazioni
denunciate dai detenuti. L’articolo 3 della Convenzione europea, nello stabilire il divieto di
tortura e di trattamenti inumani e degradanti, sancisce uno dei valori fondamentali delle
società democratiche. Il principio è stato invocato in numerose occasioni, e i giudici hanno
chiarito che l’assolutezza della norma impone che non siano possibili «bilanciamenti» tra il
precetto espresso dalla Carta ed esigenze specifiche, neppure che investano particolare
delicatezza nella gestione di questioni di ordine pubblico. In effetti, non deve essere
sottovalutato il fatto che l’art. 15 della Convenzione non autorizzi alcuna deroga all’art. 3,
neppure «in caso di guerra o in caso di altro pericolo pubblico che minacci la vita della
nazione». 16 Quindi è chiaro che il divieto espresso dall’art. 3 rappresenta uno dei valori
irrinunciabili condivisi dai Paesi che aderiscono al sistema di tutela europea dei diritti
umani. La norma ha trovato applicazione nell’ambito delle modalità di esecuzione della
pena.
Nel 1987 il Consiglio d’Europa ha dato vita alla Convenzione europea per la
prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, entrata in vigore
nel 1989. Si tratta di uno strumento operativo di grande impatto, dato che rende possibile
un controllo diretto da parte di un Comitato costituito ad hoc. La Convenzione, infatti, ha
previsto l’istituzione del «Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o
trattamenti disumani o degradanti», che rende efficace un sistema di controllo sul reale
rispetto da parte degli Stati di quanto disposto dall’art.3 della Convenzione europea dei
diritti dell’uomo. Ai sensi dell’art. 1 della Convenzione, il Comitato ha il potere di
esaminare, per mezzo di sopralluoghi, il trattamento delle persone private della libertà, al
fine di rafforzare, se necessario, «la loro protezione dalla tortura e dalle pene o trattamenti
inumani o degradanti».17 Ogni Stato autorizza quindi il sopralluogo «in ogni luogo
15
Andrea Sirotti Gaudenzi, I ricorsi alla Corte Europea dei diritti dell’uomo, Maggioli editore,2002. 16
Si rinvia all’art. 15 della Convenzione europea. 17
Si rinvia all’art. 1 della Convenzione europea.
10
dipendente dalla propria giurisdizione nel quale vi siano persone private di libertà
dall’Autorità pubblica»18
Naturalmente, i maltrattamenti sono l’espressione più grave delle pene degradanti
L’applicazione pratica dell’art. 3 della Convenzione europea non può che avere ad oggetto
ogni maltrattamento in cui il cd. ius corrigendi si estrinsechi in un trattamento inumano o
degradante.
I giudici di Strasburgo hanno osservato che l’art. 3 della Convenzione impone ad ogni stato
di accertare che le condizioni di ogni detenuto siano compatibili con il rispetto della dignità
umana. Pertanto, le modalità di esecuzione della misura non devono creare disagi che si
spingano oltre all’inevitabile livello di sofferenza legato allo stato detentivo.
Ad esempio, secondo la Corte, rappresenta un trattamento inumano, la detenzione
in un’unica cella di molti reclusi, impediti ad uscire dalla cella, di vedere l’esterno e di fare
filtrare la luce. E’ altresì illegittima la scelta di un’Autorità nazionale di sanzionare con
l’isolamento la protesta attuata dal detenuto tramite lo «sciopero della fame». L’isolamento
intracarcerario, invece, non costituisce violazione dell’art. 3 della Convenzione, qualora sia
limitato ad impedire la comunicazione con altri detenuti, e sia giustificata da oggettive
esigenze di sicurezza, disciplina e difesa sociale. Tuttavia, se tale misura viene applicata
senza limiti temporali, ci si troverà dinanzi ad una situazione in grado di umiliare il
detenuto.
Lo Stato è inoltre tenuto ad erogare una efficace assistenza medica al detenuto. La
Convenzione impone all’Autorità nazionale di garantire la salute del detenuto, tanto da
potersi configurare la violazione dell’art. 3 ogni qualvolta non siano prestate le adeguate
cure. I giudici di Strasburgo, si sono però occupati, oltre che della salute, anche dello stato
di benessere del detenuto. In particolare, La Corte ha chiarito che la permanenza in carcere
di persone anziane e malate, può in astratto, configurare la violazione dell’art.3 della
Convenzione europea.
Nella pratica, per stabilire se la persona detenuta stia subendo un trattamento
degradante, la Corte ritiene si debbano considerare tre criteri oggettivi: a) le condizioni del
detenuto, b) la qualità delle cure dispensate, c) l’opportunità di mantenere lo stato
detentivo alla luce delle condizioni di salute del ricorrente.
18
Si rinvia all’art. 2 della Convenzione europea
11
CAP 3
La pena detentiva e le misure sostitutive alla detenzione
L’art. 18 del codice penale sancisce che sono pene detentive l'ergastolo, la reclusione e
l'arresto.
Qui ci soffermeremo sul tema della reclusione 19, che secondo l’art. 23 c.p. «si estende da
quindici giorni a ventiquattro anni, ed è scontata in uno degli stabilimenti a ciò destinati,
con l’obbligo del lavoro e con l’isolamento notturno. Il condannato alla reclusione, che ha
scontato almeno un anno della pena, può essere ammesso al lavoro all'aperto».
La reclusione è la pena temporanea per i delitti. I limiti temporali, minimi e massimi, sono
invalicabili solo per il giudice nella scelta della pena da irrogare nel caso concreto.
L’esecuzione della reclusione è disciplinata dalla legge sull’ordinamento penitenziario
(legge n.354/1975) sulla base dei seguenti principi:
1. L’esecuzione della pena della reclusione avviene nelle case di reclusione;
2. È previsto l’obbligo del lavoro e dell’isolamento notturno;
3. Il trattamento penitenziario deve rispondere a particolari bisogni della personalità
del condannato;
4. Il trattamento si fonda sull’istruzione, sul lavoro, sulla religione, sulle attività
culturali, ricreative e sportive;
5. Sono agevolati i rapporti col mondo esterno e con la famiglia;
6. Il lavoro non deve avere carattere afflittivo e deve essere remunerato in misura non
inferiore a due terzi delle tariffe sindacali .
Le misure alternative alla detenzione 20, rappresentano uno dei momenti più significativi
nella prospettiva della traduzione in atto del principio finalistico della rieducazione della
pena, sancito dall’art. 27 comma 3 della Costituzione.
Oggi, a seguito di un lungo e complesso processo riformistico, le misure alternative
alla detenzione sono: l’affidamento in prova al servizio sociale, l’affidamento in prova
per tossicodipendenti, la detenzione domiciliare, la semilibertà, la liberazione
anticipata, i permessi premio, e la misura prevista dall’art. 4bis ord.pen. per i
collaboratori di giustizia. 19
G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale parte generale, Bologna, Zanichelli ed., 2009,pp. 370 - 371 20
G. Fiandaca, E. Musco, Op. cit., p. 741 e segg.
12
a) L’affidamento in prova al servizio sociale è la più importante delle misure
alternative, la cui disciplina è fissata dall’art. 47 ord.pen. : il condannato a pena
detentiva non superiore a tre anni può essere affidato al servizio sociale fuori
dall’istituto per un periodo uguale a quello della pena da scontare (art. 47, comma
1°). Le prescrizione imposte all’affidato costituiscono il contenuto della sanzione
alternativa in esame: esse pertanto pongono problemi sia di legalità che di
tassatività ex art. 25, comma 2, Cost. Secondo il sistema di legge alcune di queste
prescrizioni sono espressamente previste, mentre altre sono genericamente indicate
nelle loro direttive d’ordine generale (ad. es. «svolgere attività o avere rapporti
personali che possano occasionare il compimento di reati»): rispetto a queste ultime
potrebbero invece prospettarsi problemi di legittimità costituzionale, qualora
avessero un contenuto concretamente afflittivo e non agevolassero il reinserimento 21.
L’affidamento in prova è revocato qualora il comportamento del soggetto, contrario
alla legge o alle prescrizioni dettate, appaia incompatibile con la prosecuzione della
prova (art. 47, comma 11°, ord. Penit.) . La revoca dunque, non consegue ipso iure
alla commissione di un nuovo reato oppure alla trasgressione delle prescrizioni
imposte: è infatti necessaria un’ulteriore valutazione in termini di compatibilità con
la continuazione della prova. L’esito positivo del periodo di prova estingue la pena
e ogni altro effetto penale (art. 47, ultimo comma, ord. Penit.), ma non le pene
accessorie, né le obbligazioni civili derivanti da reato.
b) L’affidamento in prova per tossicodipendenti o alcooldipendenti è una particolare
ipotesi di affidamento in prova al servizio sociale previsto in considerazione delle
specifiche peculiarità legate allo stato di dipendenza del condannato. Si applica su
domanda dell’interessato che abbia in corso un programma di recupero o che ad
esso intenda sottoporsi e deve scontare una condanna entro il limite dei quattro
anni. Mira a proseguire o a concordare l’attività terapeutica sulla base di un
programma stabilito con una unità sanitaria locale o ente privato, associazione o
cooperativa ad hoc previsti. Con questa misura si sono volute evitare le
conseguenze negative derivanti dall’interruzione del programma di attività
terapeutica in corso, o dall’impedimento dell’inizio del programma medesimo.
21 Bricola F., L'affidamento in prova al servizio sociale: "fiore all'occhiello" della riforma penitenziaria,
in Questione Criminale, Bologna, Il Mulino, 1976.
13
c) La detenzione domiciliare, dal punto di vista della natura giuridica, più che una
misura alternativa alla detenzione, costituisce una mera modalità di esecuzione
della pena per alcune categorie di condannati nei confronti dei quali la sanzione
penale normalmente eseguita non svolgerebbe alcuna funzione risocializzante. Nel
disporre la detenzione domiciliare il tribunale di sorveglianza stabilisce le
prescrizioni e le modalità esecutive. La misura è revocata se il comportamento del
soggetto, contrario alla legge e alle prescrizioni dettate, appare incompatibile con la
prosecuzione della misura.
d) La semilibertà consiste in una parziale limitazione della libertà personale, alternata
con un periodo di libertà 22. E’ prevista dall’art. 48 dell’ordinamento penitenziario,
il quale stabilisce: «il regime di semilibertà consiste nella concessione al
condannato e all’internato di trascorrere parte del giorno fuori dall’istituto per
partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento
sociale». La sanzione in esame, più che una misura alternativa, rappresenta invero
una modalità di esecuzione della detenzione, in quanto attenua lo stato di
privazione della libertà 23. La semilibertà può essere concessa ab initio per le pene
detentive brevi e di lunga durata. Il tempo trascorso in semilibertà è sempre
considerato come pena detentiva effettivamente scontata. La semilibertà può essere
revocata se il soggetto si dimostra inidoneo al trattamento, oppure rimane assente
dall’istituto senza giustificato motivo per non più di dodici ore.
e) La liberazione anticipata: l’art. 54 dell’ ordinamento penitenziario dispone che «al
condannato a pena detentiva che ha dato prova di partecipazione all’opera di
rieducazione è concessa, quale riconoscimento di tale partecipazione, e ai fini del
suo più efficace reinserimento nella società, una detrazione di quarantacinque
giorni per ogni singolo semestre di pena scontata. A tal fine è valutato anche il
periodo trascorso in stato di custodia cautelare o di detenzione domiciliare».24
Questa progressiva riduzione di pena, nella misura di quarantacinque giorni per
ogni semestre, persegue l’obiettivo di agevolare il trattamento penitenziario,
incentivando la partecipazione del detenuto con il prospettargli la concreta
22
Palazzo F., Semilibertà e trattamento penitenziario, in alternative alla detenzione, p. 67. 23
Di Gennaro – Bonomo - Breda, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Milano,
1980.
24
Di Gennaro, Riduzione di pena e liberazione anticipata, in Giustizia Penale, 1977, III, p. 604.
14
possibilità di una liberazione anticipata: in tal senso è corretto attribuire alla
riduzione di pena un carattere «premiale», e considerarla quale un momento del
trattamento penitenziario, progressivo ed individualizzato.
f) I permessi premio svolgono una funzione identica a quella propria delle misure
alternative alla detenzione e si concedono ai condannati che hanno tenuto regolare
condotta – e cioè hanno manifestato senso di responsabilità e correttezza nella vita
carceraria -, e che non risultano socialmente pericolosi, per consentire loro di
coltivare interessi affettivi, culturali o di lavoro. L’esperienza dei permessi premio
è parte integrante del programma di trattamento e deve essere seguita dagli
educatori e assistenti sociali penitenziari in collaborazione con gli operatori sociali
del territorio. La durata dei permessi premio non può essere superiore a
quarantacinque giorni in ciascun anno di espiazione.
g) L’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, introdotto con legge n. 203/91 si
applica nei confronti dei condannati appartenenti alla criminalità organizzata od
eversiva, stabilisce che, fremo quanto previsto nell’art. 13 ter legge 15 marzo
1991, n.82, l’assegnazione al lavoro esterno, i permessi premio e le misure
alternative alla detenzione, fatta eccezione per la liberazione anticipata, possono
essere concessi ai detenuti e internati per delitti commessi avvalendosi delle
condizioni previste dall’art. 416 bis del codice penale ovvero al fine di agevolare
l’attività delle associazioni previste dal medesimo articolo, nonché per i delitti di
cui agli artt. 416 bis e 630 del codice penale e dall’art. 74 del d.p.r 9 ottobre 1990,
n.309, solo nei casi in cui collaborano con la giustizia a norma dell’art. 58 ter ord.
penit. Quando si tratta di detenuti per i medesimi delitti ai quali sia stata applicata
una delle circostanze attenuanti previste dall’art. 62, n.6 c.p. o dall’art. 114, o
dall’art. 116, comma 2°, c.p. , i benefici predetti possono essere concessi anche se
la collaborazione offerta risulti irrilevante, purchè siano stati acquisiti elementi tali
da escludere in maniera certa l’attualità dei collegamenti con la criminalità
organizzata.
Riguardo ai detenuti o internati per delitti commessi per finalità di terrorismo o di
eversione dell’ordinamento costituzionale o per i delitti di cui agli artt. 575, 628,
comma 3°, 629, comma 2°, c.p.. e 73 e 80, comma 2°, d.p.r. n. 309/1990, i benefici
predetti possono essere concessi solo se non vi sono elementi tali da far ritenere la
sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva.
15
Questa disciplina molto rigorosa vuole, per un verso, costruire un forte deterrente
contro la pericolosità sociale di questi delinquenti, ma per altro verso tende a
sollecitare l’uscita dall’associazione criminale mediante gli incentivi premiali.
16
CAP 3
La riforma penitenziaria del 1975. La legge n° 254/75 “Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle
misure privative e limitative della libertà”
La piena concretizzazione del principio rieducativo si realizza compiutamente con la
riforma dell'ordinamento penitenziario, introdotta con la Legge 26 luglio 1975 n. 354, che
all'art. 1, ultimo comma, recita: «nei confronti dei condannati e degli internati deve essere
attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l'ambiente
esterno, al reinserimento sociale degli stessi».
La riforma era stata proposta per la prima volta nel 1960 con un disegno di legge sul quale,
l'allora Ministro di Grazia e Giustizia Gonnella aveva ottenuto il consenso del Governo. A
determinare finalmente la sua approvazione, dopo una gestazione di ben 28 anni, concorse
uno stato di agitazione che si percepiva all'interno degli istituti penitenziari, oltre ad un
clima culturale e politico che verso la metà degli anni '70 era divenuto più incline alle
innovazioni e più sensibile ai problemi dei soggetti marginali.
Subito dopo l'approvazione del nuovo ordinamento penitenziario, è stato emanato, con il
DPR 431/76 il regolamento di esecuzione con il compito di dare attuazione nella pratica
alle norme dettate dalla legge n. 354.
Con questa normativa il legislatore italiano ha recepito le indicazioni fornite dall'ONU e
dal Consiglio d'Europa 25 enfatizzando la funzione rieducativa della pena nella fase di
esecuzione della stessa: il carcere non è più inteso come luogo di segregazione e
separazione dalla società, ma come momento necessario per la rieducazione e il
reinserimento del detenuto. Viene sancita la regola della individualizzazione del
trattamento poiché ogni intervento deve essere elaborato e programmato in considerazione
della personalità del detenuto, in tal modo emerge una tendenziale identificazione del
concetto di rieducazione con quello di recupero del condannato.
La Legge 354/75 ha rispecchiato il processo di trasformazione della società nel rapporto tra
i cittadini e le autorità dello Stato; la norma ha rappresentato una svolta ideologica circa il
modo di intendere il detenuto e la sua posizione all'interno dell'universo carcerario. Si 25
Si è data attuazione ai principi enunciati dalle "Regole minime per il trattamento dei detenuti",
approvate nel gennaio del 1973 dal Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, e successivamente
modificate con il titolo di "Regole penitenziarie europee".
17
assiste ad un miglioramento della posizione del detenuto conseguente alla novità
rappresentata dall'aver posto la figura del detenuto quale persona umana, al centro
dell'esecuzione penale 26.
È comunemente noto che le pene non devono consistere in trattamenti contrari al senso di
umanità e devono essere volte alla rieducazione del condannato. Si evidenzia un processo
di trasformazione della funzione del carcere che, da istituzione di custodia e isolamento, si
trasforma in istanza che deve favorire la risocializzazione del detenuto, mediante un
trattamento adeguato e relazioni continue con la società esterna. La formazione del
programma di trattamento tiene conto dei risultati dell'osservazione scientifica, il cui scopo
è quello di accertare le "carenze fisiopsichiche e le altre cause del disadattamento" cosi
come recita il secondo comma dell'articolo 13 O.P.
L'art. 15 dell'Ordinamento Penitenziario considera quali elementi rieducativi del
trattamento il lavoro, l'istruzione, le attività culturali, ricreative e sportive, i contatti con il
mondo esterno e i rapporti con la famiglia. I permessi e le licenze, anche se non sono
oggetto del trattamento individualizzato fanno parte del trattamento e la loro concessione è
subordinata ai progressi conseguiti dal detenuto. A tal proposito, l'articolo 80 della Legge
354 del 1975 ha previsto che "per lo svolgimento delle attività di osservazione e
trattamento, l'amministrazione penitenziaria può avvalersi di professionisti esperti in
psicologia, servizio sociale, pedagogia, psichiatria e criminologia clinica".
Sono state ampliate le possibilità di comunicazione fra detenuto e società esterna, in
particolare sono previste alcune forme di partecipazione della collettività esterna alla vita
dell'istituto: "sono ammessi a frequentare gli istituti penitenziari, con l'autorizzazione e
secondo le direttive del magistrato di sorveglianza, su parere favorevole del direttore, tutti
coloro che, avendo concreto interesse per l'opera di risocializzazione dei detenuti,
dimostrino di poter utilmente promuovere lo sviluppo dei contatti fra la comunità
carceraria e la società libera" 27
Se da una parte vi è l'obbligo dello Stato di programmare i mezzi idonei ad attuare le
finalità rieducative della pena, dall'altra parte si riconosce al condannato l'equivalente
diritto a vedere riesaminata la pretesa punitiva dello Stato al fine di verificare se, nel caso
concreto, la quantità di pena espiata abbia o meno assolto al fine rieducativo.
26
V. Grevi, Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario a cinque anni dalla riforma, in Diritti dei
detenuti e trattamento penitenziario, a cura di Grevi, Bologna, 1980, pag. 152. 27
Art. 17, 2° comma Ordinamento Penitenziario.
18
Una delle novità più importanti della Legge sull'ordinamento penitenziario si è avuta con
l'introduzione delle misure alternative: esse hanno dato ai condannati la possibilità di
influire con il proprio comportamento sulla durata della pena. La pretesa di aver sostituito
la funzione rieducativa a quella punitiva si rivela puramente ideologica sino a che la pena
rimane incentrata nel carcere; la spinta realmente innovativa è circoscritta alla parte in cui
il carcere viene sostituito con altre misure 28
La crisi della pena detentiva insieme con il più diffuso convincimento che il carcere lungi
dallo svolgere in concreto una qualche funzione rieducativa, ha portato il legislatore a
prevedere con la Legge 24 novembre 1981, n. 689 delle sanzioni sostitutive delle pene
detentive brevi. Per evitare che queste producano effetti più desocializzanti che rieducativi,
che il soggetto subisca un "contagio criminale" prodotto dall'impatto con la realtà
carceraria, è stata prevista la loro sostituzione con sanzioni di altro tipo.
Negli anni successivi all'emanazione dell' ordinamento penitenziario, si manifesta una nota
inversione di tendenza sul terreno della pena: c'è infatti una progressiva entrata in crisi del
concetto rieducativo.
Solo verso la metà degli anni ottanta viene emanata la Legge 10 ottobre 1986 n. 663,
meglio nota come "Legge Gozzini" recante "Modifiche alla legge sull'ordinamento
penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà", che ha
sostanzialmente modificato sia le misure alternative, sia le ulteriori leggi che hanno
istituito le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi.
Le novità più rilevanti di questa riforma si possono cogliere sotto un duplice piano. Da un
lato la Legge Gozzini risponde a delle irrinunciabili esigenze di garanzia, tenta di risolvere
il problema della sicurezza degli istituti penitenziari che si era già posto dopo la Legge del
'75 in seguito all'esplosione di un nuovo tipo di criminalità a carattere organizzato, di
matrice terroristica o di tipo mafioso. Dall'altro lato, la legge cerca di ripristinare i rapporti
di comunicazione tra carcere e mondo esterno, attraverso un graduale processo di
reinserimento nella società del soggetto. Prevede un allargamento della possibilità di
accesso alle misure alternative alla detenzione con la previsione di determinati meccanismi
che incentivino la partecipazione e la collaborazione attiva del detenuto all'opera di
trattamento, così come già previsto dalla normativa del '75, ma soprattutto con la
previsione di strumenti tendenti a favorire il reinserimento fin dal momento iniziale
dell'esecuzione.
28
E. Fassone, La pena detentiva in Italia dall'800 alla riforma penitenziaria, cit., pag. 145.
19
Nella Legge 663/1986 i due nuovi istituti del "regime di sorveglianza particolare" (art. 1-3)
e dei "permessi premio" (art. 9) costituiscono gli strumenti complementari nel processo
della diversificazione esecutiva. 29
È la legge della "massima individualizzazione" del trattamento esecutivo, della fiduciosa
valorizzazione delle prospettive di recupero 30 e di reinserimento del condannato, di
un favor libertatis che tende ad attenuare o interrompere appena possibile lo stato di
restrizione della persona.
Attraverso la normativa penitenziaria si è pervenuto indirettamente ad una sorta di riforma
del sistema penale, anche se è tuttora in corso nel nostro paese un ampio dibattito sulla
validità di tale sistema. Vi è un conflitto tra ideologia e prassi corrente: la situazione del
carcere nel nostro paese insieme ai continui episodi di violenza rendono difficoltoso quel
processo di rieducazione e umanizzazione che la Costituzione pone come finalità
essenziale della esecuzione della pena. Da quanto si verifica nella prassi nasce la
consapevolezza della difficoltà di individuare una pena che possa assolvere ai compiti
costituzionalmente previsti. A ogni modo, nonostante le diverse posizioni, è opinione
ormai condivisa da tutti che la pena deve essere considerata uno strumento di recupero del
detenuto ai valori della legalità e della solidarietà, principi che ispirano tutta la nostra
Costituzione, alla realizzazione dei quali lo Stato non può sottrarsi. In questi anni però, nel
mondo politico il dibattito si è incentrato principalmente sull'estensione o meno delle
sanzioni alternative alla detenzione, nulla, o quasi, è stato fatto per migliorare le condizioni
della detenzione, né si è pensato a delle forme di controllo della legalità nei luoghi di
carcerazione né a dei meccanismi di tutela dei diritti fondamentali delle persone detenute.
Lo stesso Mario Gozzini riteneva necessaria un'opera di "coscientizzazione popolare" volta
a far capire che il carcere rieducativo è un interesse collettivo primario. Appare necessario
un profondo cambiamento dell'opinione pubblica, per evitare che la riforma penitenziaria,
gli sforzi verso l'apertura del carcere, non restino episodi isolati a cui non è attribuita la
necessaria importanza.
Nuove difficoltà insorsero all'inizio degli anni novanta per il concorrere di alcuni elementi
che portarono ad un atteggiamento critico nei confronti della Legge Gozzini: da una parte
la diffusione di una sempre più violenta criminalità organizzata, dall'altra alcuni episodi di
applicazione di misure premiali a condannati di elevata pericolosità, applicazione che portò
a pensare di delimitare i presupposti per la concessione di misure alternative. 29
Cappelli, Il carcere controriformato, in AA. VV., Il carcere dopo le riforme, Feltrinelli, Milano, 1979. 30
F. Palazzo, Commento all'art. 1 della legge 663/86, in Legislazione penale, 1987, pag. 102.
20
Le innovazioni furono introdotte con alcuni atti legislativi approvati nel biennio 1991-
1992. In primis il d.l. 152/91 che dedica alla materia penitenziaria il capo I, consta di
quattro articoli (il terzo, peraltro, è del tutto estraneo a tale materia). Si tratta di fatto
dell'abrogazione della "Legge Gozzini" per una serie di reati. Più specificatamente, l'art. 1
del decreto, attraverso il suo primo comma, introduce nell'ordinamento penitenziario
l'articolo 4 bis. Esso definisce una serie di reati per i quali l'applicazione delle misure
alternative subisce forti limitazioni.
La scelta legislativa è stata quella di differenziare il trattamento penitenziario dei
condannati per determinati delitti legati alla criminalità organizzata, secondo la formula del
cosiddetto "doppio binario", mirante alla diversificazione del trattamento dei condannati in
ragione del differente grado di pericolosità sociale. L'articolo 4 bis opera una separazione
tra due distinte fasce di delitti, stabilendo che ai condannati dei delitti della prima fascia le
misure penitenziarie rieducative possono applicarsi "solo se sono stati acquisiti elementi
tali da escludere l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva",
mentre nel caso dei condannati per delitti della seconda fascia, le stesse misure sono
normalmente applicabili, a meno che non siano accertati "elementi tali da far ritenere la
sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata od eversiva".
La nuova disciplina, tesa a contrastare i più gravi fenomeni di criminalità, non è
andata esente da qualche eccesso, cui ha posto rimedio la Corte Costituzionale con la
sentenza n. 306 del 1993 in tema di revoca delle misure alternative già disposte. In risposta
alle critiche sulla incompatibilità con il principio rieducativo della pena, la Corte,
richiamando il principio della "polifunzionalità della pena", ha ribadito la piena legittimità
di "privilegiare finalità di prevenzione generale e di sicurezza della collettività attribuendo
determinati vantaggi a coloro che collaborano con la giustizia, anche se ciò può comportare
l'affievolirsi della finalità rieducativa della pena".
Solo con riferimento all'istituto della revoca di misure precedentemente concesse la Corte
Costituzionale ha assunto una posizione nettamente diversa da quella del legislatore,
proprio per salvaguardare il principio rieducativo. La sentenza n. 306 del 1993 si è infatti
tradotta in un intervento additivo sull'articolo 15, secondo comma, d.l. 306/92 che
imponeva la revoca della misura rieducativa precedentemente concessa al condannato per
taluno dei reati figuranti nella prima categoria di quelli previsti dall'articolo 4 bis, primo
comma, dell'ordinamento penitenziario a prescindere dal fatto che la sua condotta
risultasse, magari da lungo tempo, ineccepibile. La Corte ha evidenziato come
l'automaticità del presupposto vanifichi i programmi ed i percorsi rieducativi, con
21
particolare pregiudizio per quei soggetti la cui "rottura con le organizzazioni criminali sia
adeguatamente dimostrata".
In sostanza la Corte ha contestato che la mancata collaborazione di colui, la cui
pericolosità sia già stata esclusa dalla magistratura di sorveglianza al momento della
concessione della misura rieducativa, possa essere considerata un indice univoco di
inidoneità al trattamento extramurario. Ed ha concluso che il ripristino del regime
detentivo ordinario debba essere subordinato alla ricorrenza di un ulteriore requisito:
quello dell'accertata sussistenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata.
Sulla spinta di una forte pressione dell'opinione pubblica 31 le Leggi Gozzini e Simeone
sono state ripetutamente oggetto di modifiche. Ciò ha condotto alla presentazione, nel
febbraio del 2000 e, conseguentemente, all'approvazione 32 di una proposta di legge, il
famoso "pacchetto sicurezza", che dovrebbe garantire maggiore attenzione all'emergenza
criminalità. L'intervento riguarda essenzialmente il reato di furto in abitazione e lo scippo,
le cui pene sono aggravate; nonché la disciplina della sospensione condizionale della pena,
con l'ipotesi di revoca in sede di esecuzione, quando emerga che il beneficio sia stato
concesso senza che la persona condannata ne avesse diritto; inoltre, è stata istituita una
commissione ad hoc che consente tempi più rapidi per l'ammissibilità dei ricorsi in
Cassazione e sono stati dati maggiori poteri d'indagine alla polizia giudiziaria.
Con l'emanazione del D.P.R. 30 giugno 2000 n. 230, è stato integralmente abrogato il
regolamento d'attuazione della riforma del 1975 che era costituito dal D.P.R. 29 aprile
1976, n. 431. Il nuovo regolamento d'esecuzione avviato per dare attuazione agli elementi
del trattamento penitenziario e per valorizzare compiutamente il fondamentale principio
costituzionale della funzione rieducativa della pena, suggerisce una valutazione
complessivamente positiva dell'intervento riformatore.
Il regolamento presta maggiore attenzione alla protezione del soggetto detenuto
privilegiando un trattamento ed un'esecuzione penale orientati sul versante extramurario. È
prevista la trasformazione del Centro Servizi Sociali per Adulti in una struttura
multiprofessionale che curi l'esecuzione penale esterna garantendo interventi sempre più
appropriati 33.
31
M. Castaldo, La rieducazione tra realtà penitenziaria e misure alternative, Jovene, Napoli, 2001,
pag. 69. 32
La legge contenente "Interventi legislativi in materia di tutela di sicurezza dei cittadini" è stata
approvata il 6 marzo 2001 ed è stata pubblicata sulla G.U. del 19 aprile 2001, n. 91 33
Mario Castaldo, La rieducazione tra realtà penitenziaria e misure alternative, cit., pag. 108.
22
Il nuovo regolamento di esecuzione del 2000 è nato con l'obiettivo di delineare un nuovo
assetto del trattamento, maggiormente conforme alle finalità che si era proposto
l'ordinamento penitenziario del 1975. La normativa consta di 136 articoli che hanno lo
scopo di intensificare e migliorare i rapporti tra il carcere e la società esterna.
In linea con la finalità rieducativa, gli istituti di pena devono garantire la possibilità di
frequentare le scuole superiori e di iscriversi all'università. L'articolo 41 del regolamento
del 2000 prevede che siano organizzati corsi d'istruzione, ex art. 19 ordinamento
penitenziario, per la scuola dell'obbligo; mentre l'art. 43 si occupa dei corsi di istruzione
secondaria superiore . Per i detenuti iscritti ai corsi di studi universitari sono previste delle
agevolazioni per il compimento degli studi; sono assegnati, quando sia possibile, in camere
e reparti adeguati allo svolgimento dello studio, rendendo disponibili per loro appositi
locali comuni; potranno inoltre, essere autorizzati a tenere nella propria camera e negli altri
locali di studio, i libri, le pubblicazioni e tutti gli strumenti didattici necessari al loro
studio, così come previsto dall'art. 44 del regolamento penitenziario.
Visto il costante e progressivo aumento di detenuti stranieri nelle carceri italiane, nasce la
figura del mediatore culturale per fronteggiare i problemi che possono sorgere con questi,
poiché, così come recita l'articolo 35 del nuovo regolamento, "Nell'esecuzione delle misure
privative della libertà nei confronti dei cittadini stranieri, si deve tener conto delle loro
difficoltà linguistiche e delle differenze culturali".
23
CAP 4
Il sovraffollamento delle carceri italiane
Nelle carceri italiane sono detenute 67.437 persone, contro una capienza regolamentare di
45.281. Queste cifre valgono al nostro Paese il primato europeo per sovraffollamento
carcerario, oggi pari al 140%. Non solo all'Italia spetta la maglia nera per il
sovraffollamento in carcere, ma siamo anche il secondo paese in Europa per numero di
detenuti imputati non ancora giudicati colpevoli in via definitiva. Nel nostro Paese, infatti,
le persone carcerate in attesa di giudizio sono il 44% del totale dei detenuti.
L'Associazione Antigone si interessa della tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema
penale. L'Osservatorio sulle condizioni di detenzione nasce nel 1998 e coinvolge nelle sue
attività circa 40 osservatori volontari. Le visite degli osservatori negli istituti penitenziari
italiani sono autorizzate dal Ministero della Giustizia su base regionale e nazionale.
Attraverso visite periodiche alle carceri, vengono redatte e aggiornate relazioni relative ai
vari istituti. Estratti di queste relazioni vengono pubblicati sotto forma di schede nel
Rapporto on line consultabile sul sito dell'Osservatorio. Ogni due anni, e dal 2008 ogni
anno, l'Osservatorio pubblica un Rapporto cartaceo, nel quale il sistema penitenziario
italiano e le problematiche legate alla pena detentiva vengono analizzati sulla base delle
constatazioni dirette degli osservatori.
La dichiarazione dello stato di emergenza per il sovraffollamento carcerario risale al 13
gennaio 2010. Il numero dei detenuti al 31/12/2009, subito prima della dichiarazione dello
stato di emergenza, era di 64.791. Al 31/10/2012 la presenza era di 66.685 detenuti, 1.894
in più. La legge n. 199 del 2010, prevedeva la possibilità di scontare l’ultimo anno di pena
in detenzione domiciliare, misura poi estesa con il decreto del dicembre 2011 a 18 mesi. Al
31/10/2012 hanno beneficiato di questa possibilità 8.267 detenuti. Tra costoro 539 donne
(il 6,5%) e 2.283 stranieri (il 26,7%). Il numero sembra significativo, ma è in parte un
abbaglio. Si tratta anzitutto di un dato di flusso, e non statico, che va dunque messo in
relazione non con il numero dei detenuti presenti, ma con quello dei detenuti usciti dal
carcere dall’entrata in vigore della legge, verosimilmente oltre 140.000. Una piccola cosa
dunque. Parte di questi detenuti avrebbe potuto fruire di altra più estesa misura alternativa.
A questo si aggiunga che, trattandosi di una misura che consentiva di scontare solo gli
24
ultimi mesi della pena fuori oggi, 20 mesi dopo l’entrata in vigore della legge, una parte di
quanti ne hanno usufruito sarebbe fuori comunque, ed il resto uscirebbe al massimo tra
qualche mese. Insomma, una novità certamente non di grande impatto.
L’Italia è considerata maglia nera europea. A causa dei numeri citati sopra, e dunque della
mancanza di novità significative, l’Italia resta il paese con le carceri più sovraffollate
nell’Unione Europea. Il nostro tasso di affollamento è oggi infatti del 142,5% (oltre 140
detenuti ogni 100 posti). La media europea è del 99,6%.
Le regioni più affollate sono Liguria (176,8%), Puglia (176,5%) e Veneto (164,1%). Le
meno affollate Abruzzo (121,8%), Sardegna (105,5%) e Basilicata (103%).
Nella nostra Regione le carceri con una maggiore densità di detenuti sono il carcere
Bicocca di Catania, con una capienza regolamentare di 141 detenuti, a fronte di 287
detenuti presenti, il carcere di Castelvetrano con una capienza di 49 detenuti, a fronte di
104 detenuti presenti, il carcere di Mistretta con una capienza di 16 posti, a fronte di 104
detenuti, l’istituto penitenziario di Piazza Armerina con 49 posti, a fronte di 104 detenuti
presenti ed infine il carcere di Modica con una capienza di 35 posti su 71 realmente
occupati.
Inoltre, non sono mancate le condanne da parte della Corte Europea nei confronti del
nostro paese. Peraltro, una recente decisione del gennaio 2013 ha riproposto con forza il
problema del sovraffollamento all’interno delle carceri italiane. Nell’occasione, la Corte ha
rilevato la sistematica violazione dell’art. 3 della Convenzione da parte del nostro Paese,
richiamando vari casi in cui la stessa era chiamata a decidere su ricorsi presentati da ospiti
del sistema carcerario nazionale. In effetti, sembra che a nulla sia valso un intervento
normativo del 2012, con l’obiettivo di contrastare la tensione detentiva determinata dal
sovraffollamento delle carceri. 34
A fronte di un quadro complesso come quello del sistema carcerario italiano, difficilmente
la Corte Europea potrà rigettare le istanze provenienti dai detenuti presso le case
circondariali del nostro Paese.
Con la recente sentenza datata 8 gennaio 2013 35, la Corte ha condannato il nostro Paese
per il sovraffollamento delle carceri italiane, non in grado di ospitare la popolazione
34
Legge n° 9/2012 (“Sovraffollamento delle carceri. Interventi urgenti per il contrasto della tensione detentiva”). 35
Corte Europea, 8 gennaio 2013, Torreggiani e altri contro Italia.
25
carceraria presente presso le strutture nazionali. I giudici di Strasburgo hanno osservato
che, nonostante gli sforzi effettuati dal nostro Paese, la situazione già analizzata dalla Corte
e dagli organismi del Consiglio d’Europa non accenna a migliorare.
Con il decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146 (“Misure urgenti in tema di tutela dei diritti
fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria”) si tenta
di dare una soluzione definitiva a questo problema mai finora risolto. Tenendo conto
anche delle sollecitazioni provenienti dal Presidente della Repubblica, dalla Corte
costituzionale e dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo, si introduce un pacchetto
di misure che operano su distinti piani. Si vuole quindi intervenire con l’obiettivo di
diminuire, in maniera selettiva e non indiscriminata, il numero delle persone ristrette in
carcere. Tale obiettivo viene perseguito attraverso misure dirette ad incidere sia sui flussi
di ingresso negli istituti di pena (con un intervento “chirurgico” in materia di piccolo
spaccio di stupefacenti, responsabile della presenza in carcere di un numero elevatissimo di
persone) che su quelli di uscita dal circuito penitenziario (estendendo la possibilità di
accesso all’affidamento in prova al servizio sociale, sia ordinario che terapeutico;
ampliando a 75 giorni per ciascun semestre la riduzione per la liberazione anticipata, in un
arco di tempo compreso tra il 1 gennaio 2010 e il dicembre 2015; stabilizzando l’istituto
della esecuzione della pena presso il domicilio prevista dalla legge n°199/2010. La
modifica riguarda ipotesi di lieve entità in materia di stupefacenti e consiste
nell’introduzione di una nuova ipotesi di reato in luogo della previgente circostanza
attenuante. Infatti, per il sistema del bilanciamento delle circostanze che poteva comportare
l’azzeramento di quella attenuante legata alla lieve entità del fatto si arrivava spesso a pene
molto alte e sproporzionate. La norma prevede comunque una riduzione, nel massimo,
della pena edittale. Per quanto attiene all’affidamento terapeutico si interviene
esclusivamente per ampliare le ipotesi concessione anche ai casi di precedenti violazioni
(come indicato dalla Corte Costituzionale) che, ovviamente continuano ad essere
sottoposte alla valutazione del Giudice. Per quanto riguarda la “liberazione anticipata” si
amplia il beneficio dell’aumento dei giorni di detenzione (da 60 a 75) per ciascun semestre
di pena espiata. L’applicazione retroattiva comporta una contenuta anticipazione di una
uscita che si verificherebbe comunque in tempi brevi. Non si tratta di una misura
automatica e non si determina una liberazione immediata (in massa) di un numero rilevante
di detenuti, ma è spalmata nel tempo e comunque sottoposta alla rivalutazione del Giudice
che deve verificare il corretto comportamento dei detenuti. Inoltre per i reati più gravi
previsti dall’art. 4 bis dell’ord. Pen. è richiesta una motivazione rafforzata per giustificare
26
la riduzione. La misura (già preannunciata ed approvata dal Comitato dei Ministri di
Strasburgo nell’incontro del 5 novembre) è indispensabile anche per adeguarsi alla
sentenza Torreggiani della Corte Europea dei diritti dell’uomo che impone l’adozione di
misure compensative interne per il sovraffollamento.
Si rafforzano gli strumenti di tutela dei diritti delle persone detenute:
1. viene istituita la figura del Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o
comunque private della libertà personale (intervento, quest’ultimo, senza alcun
onere per la finanza pubblica);
2. viene anche previsto un nuovo procedimento giurisdizionale davanti al magistrato
di sorveglianza (caratterizzato da meccanismi diretti a garantire l’effettività delle
decisioni giudiziarie, nella prassi troppo spesso inevase) finalizzato a garantire ai
detenuti e internati la tutela dei loro diritti.
3. vengono introdotte norme dirette a semplificare la trattazione di alcune materie di
competenza della magistratura di sorveglianza, sulla quale graverà, in termini
organizzativi, il peso dell’intervento d’urgenza.
27
CONCLUSIONI
A chiusura di questo elaborato, occorre precisare che la questione della tutela dei detenuti è
e sarà sempre un argomento spinoso per lo Stato, visto che, nonostante la nostra
Costituzione parli di «rieducazione del condannato», la quasi totalità delle persone che, una
volta scontata la loro pena e chiuso i conti con la giustizia, escono di prigione, non si
sentono e non sono da considerare come persone rieducate. La ragione, è a mio avviso da
ricercare nella funzione svolta del carcere, che non è quella di rieducazione propria della
Carta Costituzionale, ma ad onor del vero, nella realtà dei fatti spinge il detenuto a fare
uscire la parte peggiore di sé per via delle umiliazioni e delle dinamiche che si creano
all’interno delle mura carcerarie. Con questo mio pensiero non intendo criticare
l’ordinamento penitenziario e il suo funzionamento, ma credo vivamente che qualcosa
dovrebbe cambiare, e che di questo giovamento potrebbe beneficiarne lo Stato e tutti noi
cittadini.
28
BIBLIOGRAFIA
BRICOLA F., L'affidamento in prova al servizio sociale: "fiore all'occhiello" della riforma penitenziaria, in Questione Criminale, Bologna, Il Mulino, 1976.
CAPPELLI, Il carcere controriformato, in AA. VV., Il carcere dopo le riforme, Feltrinelli, Milano, 1979. CARACCIOLI, I problemi generali delle misure di sicurezza, Milano, 1970. CORBI F., L'esecuzione nel processo penale, Giappichelli, Torino, 1992. CASTALDO M., La rieducazione tra realtà penitenziaria e misure alternative, Jovene, Napoli, 2001. DI GENNARO – BONOMO - BREDA, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Milano, 1980.
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