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La terapia inquieta Aldo Carotenuto, Roma In appendice a Ricordi sogni riflessioni Jung dedica alcune pagine al sinologo Wilhelm con una notazione sul destino dello studioso che mi appare estremamente stimolante. È da essa che vorrei prendere lo spunto per soffermarmi su alcuni aspetti del processo terapeutico. Per Jung il problema di Wilhelm poteva essere considerato come un conflitto tra la coscienza e l'inconscio. Nel caso specifico tale lacerazione si esteriorizzava nel tentativo di un confronto fra Occidente e Oriente. Secondo Jung, però, Wilhelm era del tutto inconsapevole di questo conflitto e ogni sforzo compiuto verso la presa di coscienza della sua condizione intcriore naufragava di fronte alla reale impossibilità da parte del sinologo di affrontare la questione. Commenta Jung che ci troviamo in questa situazione ogni qualvolta ci av- viciniamo ad una regione che non vuole essere violata, « nella quale nessun uomo può, ne deve entrare per forza; un destino che non sopporta intervento umano »(1). Jung si riferisce ad un caso alquanto peculiare perché Wilhelm non si era mai rivolto a lui per un (1) C.G. Jung, Ricordi sogni riflessioni, Rizzoli, Milano, 1981, p. 445.

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La terapia inquietaAldo Carotenuto, Roma

In appendice a Ricordi sogni riflessioni Jung dedicaalcune pagine al sinologo Wilhelm con una notazione suldestino dello studioso che mi appare estremamentestimolante. È da essa che vorrei prendere lo spunto persoffermarmi su alcuni aspetti del processo terapeutico.Per Jung il problema di Wilhelm poteva essereconsiderato come un conflitto tra la coscienza el'inconscio. Nel caso specifico tale lacerazione siesteriorizzava nel tentativo di un confronto fra Occidente eOriente. Secondo Jung, però, Wilhelm era del tuttoinconsapevole di questo conflitto e ogni sforzo compiutoverso la presa di coscienza della sua condizione intcriorenaufragava di fronte alla reale impossibilità da parte delsinologo di affrontare la questione. Commenta Jung che citroviamo in questa situazione ogni qualvolta ci av-viciniamo ad una regione che non vuole essere violata, «nella quale nessun uomo può, ne deve entrare per forza;un destino che non sopporta intervento umano »(1).Jung si riferisce ad un caso alquanto peculiare perchéWilhelm non si era mai rivolto a lui per un

(1) C.G. Jung, Ricordi sogniriflessioni, Rizzoli, Milano,1981, p. 445.

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sostegno psicologico. Era, in un certo qual modo, soltantoil suo furor sanandi che probabilmente lo spingeva, anchese molto cautamente, a dare una mano non richiesta alvecchio sinologo. Ma come spesso accade, in particolarmodo al di fuori del contesto analitico, l'aiuto incontra un «muro », che bisogna cautamente astenersi dall'abbattere, poiché alle sue spalle esiste un mistero, ilquale non ammette alcuna violazione.Il problema diviene più complesso quando la stessasituazione si verifica nel corso di un'analisi. È in questasede che forse la constatazione di Jung acquista la suamaggiore rilevanza. In effetti alle volte, quando unapersona che soffre si presenta davanti a noi con tutto ilsuo « male di vivere », cercando il nostro soccorso e lanostra assistenza, possiamo provare l'impressione che «non ci sia nulla da fare ». È necessario riflettere sulleimplicazioni di un tale convincimento, poiché ciò cheemerge è una problematica fondamentale per il nostrolavoro. Una valutazione puramente superficiale dellaprassi terapeutica rischia, infatti, di scambiare rigore ecorrettezza con ciò che, invece, è solo ignoranza e negli-genza. Tutti noi siamo perfettamente consapevoli che imotivi ultimi dell'esistenza umana si pongono al di là diogni comprensione razionale, e che il destino di ciascunindividuo persegue un suo segreto percorso, una sualegge interna, inaccessibili allo sguardo indagatore delmondo. Malgrado la coscienza dell'inadeguatezza deinostri sforzi, noi cerchiamo sempre di impegnarci, in ognimodo e con ogni mezzo, per consentire a chi soffre diuscire dal suo stato di disagio. Ecco perché si presentacosì ambiguo il dilemma che nasce dal ritenere lapsicoterapia da una parte come strumento di cura, edall'altra come processo conoscitivo. Focalizzando meglioil problema, si può rilevare come spesso circoli l'opinioneche la psicoanalisi — qui intesa con riferimento preciso alcorpus freudiano — abbia degli scopi principalmenteconoscitivi, a detrimento naturalmente della sua funzioneterapeutica. Si arriva anche a sostenere, con un senso diderisione e disprezzo

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(2) S. Freud, Introduzione allapsicoanalisi, in Opere, vol. 11,Boringhieri, Torino, 1979, p. 256.

(3) J. Hillman, Le storie checurano. Cortina, Milano,1986, p. 1.

verso chi pensa e agisce in maniera differente, che unvero psicoanalista non è interessato alla cura, se non invia del tutto secondaria. Un simile ragionamento nonsarebbe del tutto privo di validità, dal momento chel'atteggiamento conoscitivo dovrebbe a lungo andareanche consentire una buona comprensione del disturbopsicologico, in grado di fornirci delle strategie preventived'intervento. Nella psicoterapia come momento di terapiaprevale, invece, l'intento curativo. Se questo è il fine a cuitende l'analisi, il risultato che ne deriva, allora, non sarà dicerto indifferente per il terapeuta. È mia profondaconvinzione, basata del resto sul reale atteggiamento diFreud con i suoi pazienti, che la distinzione tra cura eprocesso conoscitivo sia del tutto fitti-zia, e che nessunanalista possa dimostrare la sua totale indipendenzaemotiva dall'esito dei suoi sforzi. Tutte le asserzionicontrarie sono, a mio avviso, delle opinioni puramenteteoriche, mai sottoposte a verifica. L'esistenza di unasostanziale divergenza tra quello che si dice e quello chesi fa mette in luce il vero nodo dell'analisi, cioè la concretapossibilità di recare un sostanziale aiuto a chi soffre.Consideriamo due affermazioni radicali sull'argomento,una di Freud ed una di Hillman. Nel 1932 Freudsosteneva: « Come forse sapete, non sono mai stato unentusiasta della terapia; non c'è pericolo che abusi diquesta lezione per farne gli elogi » (2). Hillman da partesua, cinquant'anni dopo è ancora più pessimista: « Ormaisappiamo che la psicoterapia è inutile: raramente i sintomine sono guariti, difficilmente i matrimoni salvati, gliimpieghi trovati; dipendenze, depressioni, suicidi, nonsono evitati » (3). Questi due drastici punti di vista sifondano probabilmente su di una vasta casistica, allaquale non è sufficiente opporre un'opinione contrastante,ma, per quanto arduo e spinoso possa sembrare ilcompito, credo sia necessario, e sicuramente più proficuo,sottoporli ad un'attenta critica.Torniamo per un attimo all'idea di Jung, secondo la qualeci sono destini che non sopportano intervento umano.Questa è un'esperienza a cui difficilmente

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può sottrarsi un analista, ed in cui emerge la sofferenzadel terapeuta. Il termine sofferenza, dal latino sub fero,indica, come ci ricorda il suo etimo, qualcosa che « stasotto », cioè che non è esplicita, di cui non si può parlareapertamente, sia perché si presenta in maniera sfumata,sia perché si tratta comunque di un sentimento vago acui è difficile attribuire un nome, una definizione che loisoli, tracciando nettamente i suoi confini all'interno delmagmatico mondo dell'anima. La sofferenza delterapeuta si manifesta, appunto, quando egli si incontracon quelle situazioni a cui alludeva ieri Freud, e alle qualirimanda oggi Hillman. È pur vero che ogni analistapotrebbe citare numerosi casi in grado di confutare loscetticismo freudiano o l'apparente nichilismo di Hillman,ma si potrebbe trattare di vicende radicalmente differenti,che forse avrebbero avuto in ogni caso un esito positivo,indipendentemente dal nostro intervento terapeutico. Nelmomento in cui ci si interroga sulle situazioni clinichedall'esito fausto e su quelle dal risultato infausto, si hacome la sensazione di trovarsi in un vicolo cieco. È pos-sibile che quando una vicenda psicologica riesce adimboccare quel punto di svolta che le permette di tornaread estrinsecarsi nuovamente, o per la prima volta, nellavita, con quel grado minimo di disagio ineliminabiledall'esistenza umana, ci si debba seriamente domandarese, per caso, quest'evoluzione positiva non sarebbeavvenuta comunque. Assai più drammatica è poi ladomanda che ci poniamo quando, di fronte al perdurantedisagio di un paziente, sperimentiamo che " lapsicoterapia è inutile ». Qui nasce la più sconsolatasofferenza dell'analista. Cerchiamo di capire perciò checosa si porti silenziosamente dentro il terapeuta chevede, nonostante i suoi ripetuti sforzi, il consolidarsinell'altro di una situazione intollerabile. 11 problema checosì si presenta riguarda un tipo di profondità chedefinirei « in avanti », piuttosto che « all'indietro ». Contale termine voglio alludere alla dolorosa condizione dicolui il quale riesce a vedere i fenomeni nel loro divenire.Le nature superficiali affondano nella sto-

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(4) A. GuggenbuhI-Craig, «L'archetipo dell'invalido e i limitidella guarigione », in Unapsicologia poetica, per unseminario fiorentino di James Hill-man, a cura di F. Donfran-

ria dei fatti, senza che questa si trasformi in un fascio diluce che illumina il futuro. Tali individui attingonoesclusivamente al passato, e più esso è lontano, remoto,e quindi immutabile, più essi sono sicuri delle loroaffermazioni, di modo che, nelle loro teorizzazioni, unevento del presente non attinge la sua verità dal fatto cheè accaduto adesso, ma dall'essersi verificato « duemila »anni fa.Quando, al contrario, si è profondi « in avanti », laprospettiva cambia completamente. Bisogna intendere laprofondità come la capacità di scorgere il dispiegarsi di undestino. Non so bene a cosa volesse alludere Laplace,nel sostenere che se noi conoscessimo tutte le forzedell'universo potremmo anticiparne ogni evento, ma soperfettamente cosa significhi afferrare una serie dideterminanti psicologiche nella vita di un essere umano,per capire « in avanti » lo svolgersi della sua esistenza.Quanto più, allora, il paziente appartiene alla tipologiadescritta da Jung, nel caso di Wilhelm, tanto più il suofuturo appare trasparente, con l'amaro risultato, però, dioffrire all'analista il senso della sua inutilità ed incapacità.Nonostante la specificità dell'essere terapeuti consista nelnostro desiderio di comprendere in che modo si siastrutturata una nevrosi, e come si sia poi estrinsecata nelmondo, questa capacità di vedere oltre le apparenze sitraduce anche nella consapevolezza dei nostri limiti, dellanostra impotenza, equivalendo al vedere ridotta a zero lanostra attività curativa. Non so se questo sentimento siaparagonabile al vissuto del medico di fronte ad unamalattia mortale, ma ciò che è importante sottolineare èche l'analista si trova spesso davanti a dei casi nei qualil’inguaribilità è parte integrante della struttura psicologicadella persona sofferente.GuggenbuhI-Craig parla, a questo proposito, dell'ar-chetipo dell'invalido (4). Se la sanità rimanda in latino alconcetto di interezza, dobbiamo allora ammettere chemolti pazienti non possono guarire, nel senso di diventareinteri, quasi che la loro anima avesse bisogno, permantenere la sua vitalità, di

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conservare le sue frammentazioni e le sue imperfezioni.« Vivere l'archetipo dell'invalidità significa rendersi contodella propria dipendenza da qualcosa o da qualcuno » (5).È come se la psiche dovesse tener sempre presente il suostato di bisogno, di mancanza, forse per non cadere nelpericolo di un Io inflazionato dalla propria grandiosità eonnipotenza. Se, come scrive GuggenbuhI-Craig,l'archetipo dell'invalido nel suo aspetto positivo, favorendola modestia, l'umiltà, agisce verso una maggiore spiri-tualizzazione, verso un sentimento profondo dei pro-prilimiti, e costellando inoltre pazienza, tolleranza facilita irapporti interpersonali, potrebbe anche darsi che l'animaabbia scelto la via della propria incurabilità, come unsegreto processo d'illuminazione. Riferendosiall'atteggiamento che dovrebbe esser preso in questi casi,Hillman sostiene che riconoscere l'incurabile « è unriconoscere il Dio presente in quella condizione, un Dioche non può essere profanato dalla pretesa di curare e diconvertire. Se scacci il diavolo, scacci anche l'angelo » (6).Aggiungendo subito dopo: « Irrimediabile non significa irri-dimibile. La redenzione non cambia una condizione:la benedice così com'è » (7). Solo l'interesse verso questacondizione, interessamento che si manifestanell'interrogarla, nello spingerla ad agire ancora di più, puòforse mutarla, « farle crescere le ali » (8). Non è un casoche nei sogni di una giovane donna questa condizione diincurabilità si manifesti attraverso l'immagine di un alterego, di un doppio completamente folle. Soltanto nelmomento in cui ella, rinunciando a curare I' « altra », iniziaa dialogare con quest'immagine, si produce un mutamentoche riduce la distruttività inconscia della donna, pur senza« guarire » magicamente la sua condizione di disagio.Quando mi trovo di fronte a quei manuali che parlano dellapsicoterapia come se questa fosse una « scienza esatta »,presentando, quali infallibili ricette di cura, « rigorose »tecniche terapeutiche, senza che in essi traspaia il benchéminimo dubbio sulla validità dei nostri approcci, sul nostroeffettivo

cesco, Alleanza per la fon-dazione individuale, I qua-derni della biblioteca, Ot-tobre 1981, vol. Il, pp. 3-23,(edizione fuori commercio).

(5) Ibidem, p. 14.

(6) J. Hillman, « Disturbicronici e cultura », in Trameperdute. Cortina, Milano,1985, p. 52.

(7) Ibidem.

(8) Ibidem, p. 53.

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(9) P. Levi, Autoritratto,Edizione Nord-Ovest, Pa-dova, 1987, passim.

potere di sanare, o almeno di alleviare la sofferenza deinostri pazienti, rimango estremamente perplesso. Sonogiunto alla conclusione che i casi possono essere soltantodue: o gli autori mentono, oppure si riferiscono a dellevicende i cui esiti fausti non provano affatto l'efficacia delleoperazioni che su di esse sono state condotte. La verità èche il terapeuta deve sempre confrontarsi conl'inguaribilità. Parlando di inguaribilità il nostroragionamento si imbatte in una serie di difficoltà, perché lastoria dell'uomo è incredibilmente colma di verità «incontrovertibili » che sono state successivamente messein discussione e smentite da una conoscenza più ap-profondita. Nel far riferimento al disturbo psicologico, noiintendiamo un tipo di comportamento che rende infelice lapersona. Si vive come se si fosse « obesi »psicologicamente. Ci si muove cioè in maniera pesante,sgraziata. Tutti si accorgono di noi perché siamo goffi. Ilnostro stato di persone sofferenti non è mai « muto », nonpuò passare inosservato, ma anzi viene trasmesso aglialtri utilizzando tutti i possibili linguaggi. In terminidarwiniani la persona che soffre psicologicamente non èadatta a vivere, e generalmente soccombe. La definizionedi adattabilità richiede, tuttavia, una certa cautela, poichéfar coincidere la sanità di un individuo con la sua capacitàdi adattamento apre una serie di interrogativi.L'adattamento, che nell'ottica di Darwin è l'unico modo perconsentire la sopravvivenza, non implica di certo che unindividuo per vivere discretamente debba essere « adatto». Nel rievocare alcuni episodi della sua odissea, PrimoLevi sosteneva, infatti, che i più adatti, quelli cheriuscirono a sopravvivere nei campi nazisti, non furonocerto i migliori (9).Tocchiamo così un tema che mi sta molto a cuore e chemi è sempre presente nel corso del mio lavoro. Tantevolte la sofferenza che ho dinanzi, e che diventa poi difatto la mia sofferenza, è strettamente legata ad unaprofonda difficoltà, ad una impossibilità del paziente disottostare ad alcune regole dell'esistenza. In questi casinoi parliamo di incapacità

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ad accettare « il principio di realtà ». Ma forse questoprincipio di realtà, che esercita tanto fascino in tutti queitesti di psicoterapia impermeabili al dubbio, alla crisi delleloro presunte verità, quello stesso principio di fronte alquale si fermano ammaliati tutti quei terapeuti, che hodefinito « profondi all'indietro », costituisce, ad un esamepiù accurato, un gigantesco abbaglio. La forza di una talelegge, che sembra avere un significato quasi metafisico,risiede certamente nell'averla considerata, da Freud inpoi, un punto di riferimento obbligato, oggettivo euniversale.Essa è in realtà la più diretta espressione del collettivo.Pur possedendo una sua validità astratta e generale,quando viene calata nella singola esperienza individuale,perde la sua fisionomia di autentico principio di realtà, perdiventare invece un « principio di costrizione ». Non è acaso che usi questo termine, riecheggiante la lugubreimmagine della camicia di forza, perché questaassociazione mi sembra quanto mai appropriata eilluminante. Credo che, a questo punto, il problema chestiamo analizzando si chiarisca meglio. Siamo partitidall'idea che esistono destini che non ammettonol'intrusione umana e siamo arrivati alla conclusione checoloro che portano questa particolare sorte sulle lorospalle potrebbero essere in fondo i veri fruitori di un aiutoanalitico. La loro resistenza ad ogni intervento terapeuticoè ciò che genera nell'analista la sofferenza del-l'insuccesso, parallela, d'altra parte, alla sofferenza delpaziente, inchiodato ad una situazione apparentementeimmutabile. La strenua opposizione alla « cura » siorigina dal fatto che ciò che viene presentato comemodus vivendi è vissuto da alcune persone comeinaccettabile.Possiamo far riferimento ad un lavoro di lonesco, //rinoceronte, per renderci conto dell'enorme forza diattrazione posseduta dal collettivo. Nella commedia tutti ipersonaggi scelgono di diventare rinoceronti, perché inquesto modo si sentono più soddisfatti, e l'unico chedecide di restare uomo viene considerato e trattato comeun anormale, un de-

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viante. II collettivo esercita, dunque, un potere coercitivo,sinistro e brutale nei confronti dell'individualità.Il nodo gordiano del nostro problema, che si legaindissolubilmente al dramma e alla lacerazione del-l'analista, è racchiuso nel considerare la « realtà », cui noifacciamo riferimento, come l'unico punto sicuro e faciledel nostro lavoro, quasi fosse una forma platonica dellaquale non si vuole, però, cogliere l'assoluta astrattezza. Inaltri termini, poiché all'analista manca un concettoconcreto di sanità, simile a quello di cui dispone il medico,che può utilizzare come parametro Io stato degli organidel corpo umano, in campo psicologico la sanità diventauna condizione, un punto astratto verso il quale si ritieneche, in un modo o nell'altro, mirino tutte le personesofferenti. Siamo giunti così ad un punto critico del nostroargomentare. Vorrei citare due esempi in grado di chiarireulteriormente la mia tesi. Quando Marconi si presentò alMinistero delle Comunicazioni per tentare di vendere alloStato italiano la sua invenzione fu accolto dapprima conderisione, e quindi cacciato via. Successivamente,quando sostenne che le onde radio non tengono contodella curvatura terrestre e si propagano comunque, rice-vette come risposta dell'altro scherno, unito ad unadrastica confutazione delle sue idee. In quei momentiMarconi si trovò nella medesima situazione della «persona sofferente » che ha deviato dal cammino, che glialtri considerano tracciato in maniera immutabile. Per suafortuna i « fatti » contarono più delle parole altrui, ed eglipotè dimostrare l'esattezza della sua teoria, del suo mododi vedere il mondo.L'altro esempio è costituito da un film girato nel 1981 daJohn Badham sul tema del suicidio. In Whose life is itanyway? (Di chi è la mia vita?) Il regista narra la storia diuno scultore giovane ed affermato, che dopo un incidenteautomobilistico rimane completamente paralizzato. Nonesistendo alcuna speranza di recupero l'uomo potràvivere una vita puramente vegetativa soltanto grazie adun'assidua assi-

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stenza ospedaliera. Presa coscienza della sua situa-zione, dal momento che le sue facoltà mentali sonorimaste del tutto integre, lo scultore decide di rifiutarequeste cure, optando ovviamente per la morte. A questasua scelta si oppone però il primario dell'ospedale, chefedele al giuramento d'Ippocrate, ritiene sia suo doveredifendere e mantenere la vita ad ogni costo, e inqualsiasi condizione. Il giudice nominato a risolvere ilcaso darà ragione allo scultore, il quale potràlucidamente e serenamente morire. Questi due casi cipermettono di sottolineare come il punto di vista diciascun individuo sia il risultato di una complessa rete diesperienze che tengono conto di una serie infinita di datidi fatto. La conclusione a cui perviene una data opinione,frutto di un humus del tutto personale, non deve quindinecessariamente coincidere con quella di un altrosoggetto, a sua volta prodotto di una diversa condizioneumana. La vicenda di Marconi, che pure dovette a lungoe strenuamente lottare per far accettare la sua idea,trasformando l'inusuale in ovvio, appare in fondoabbastanza semplice, perché alla fine è la stessa logicadei fatti ad imporre il suo peso.Il problema dello scultore è invece più complesso, anchese non insolubile. L'irremovibilità del medico nel volerlomantenere in vita, per quanto fondata su precise regoledeontologiche, si rivela l'esatto contrario della serietàprofessionale e del rispetto verso la vita umana. La suaposizione si basa, come possiamo capire, su unapetizione di principio per la quale la vita è semprepreferibile alla morte. Esistono tuttavia diverseconcezioni, tutte ugualmente valide da un punto di vistateorico. Una di esse, quella portata avanti dallo scultore,ritiene, invece, che un individuo consapevole di esseregià morto, ancor prima di spirare fisicamente, puòdecidere lucidamente di porre fine ai suoi giorni, dalmomento che per lui non esiste più alcuna speranza diguarigione. Il suo desiderio di non essere curato si legit-tima, quindi, solo su di un piano di comprensioneindividuale e non collettiva.

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Naturalmente il senso profondo degli esempi citati ècollegato all'angosciante drammaticità della decisione,che accompagna quelle situazioni analitiche nelle qualiogni intervento sembra inutile. Ciascun terapeutapotrebbe a questo punto avanzare la sua opinione,portando dei casi a sostegno di una tesi o di un'altra. Iriferimenti alla mia attività di analista, come anche debbopresumere quelli dei miei colleghi, presentano l'enormesvantaggio di non poter essere mai del tutto espliciti, maciò non toglie nulla alla validità e alla drammaticità dellaloro testimonianza.Nel leggere questi episodi bisogna tener conto di duevariabili ugualmente importanti costituite dalla personalitàdell'analista e da quella del paziente. Il terapeuta ha unasua precisa visione della vita, anche se fa in modo chequesta non contamini la situazione analitica. Che ciriesca o meno rappresenta un altro problema, lo sonoconvinto che questa separazione sia in realtà impossibile.Nel momento in cui entra nel « gioco » analitico l'analistaporta in campo il peso della sua personalità, del suomodo di essere, di quella che Jung ha definito equazionepersonale. Non solo, ma egli reca anche con sé il caricodei suoi dolori, dei suoi desideri, dei suoi sogni piùnascosti. Ogni dichiarazione che parla di neutralità, diassenza di desiderio è terribilmente falsa, e il fatto chesia sempre da più parti ripetuta indica, probabilmente, iltentativo di negare una realtà più pesante, inquieta, emaledettamente dolorosa. Ho in più occasioni sostenutoche pure nei casi più " estremi » di terapia, come ilcomportamentismo o il biofeedback, che hanno comesostrato teorico una visione oggettiva e quanto maimeccanica della cura, esiste sempre un confronto con unaltro essere umano: il terapeuta. Basta questo particolaredecisivo per creare un campo psicologico, così come lapresenza di corpi celesti nello spazio implica ne-cessariamente che lo spazio stesso si curvi, generandodei fenomeni i quali possono essere scambiati perprodotti della teoria gravitazionale. Il rapporto con un altroessere umano, e non l'adozione

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di tecniche o strategie particolari, è dunque l'origine diquelle manifestazioni che si verificano nel setting analitico.Bisogna a questo punto, in quanto analisti, ricordare che icasi che ci troviamo di fronte hanno sviluppato unproblematico Zeitgeist personale, che non può, e forse nondeve neppure essere ricondotto ad alcun modello.Dovendo confrontarci con l'unicità dell'altro, noi analistidobbiamo rispondere con l’unicità delle nostre scelte.Durante la terapia l'indirizzo che potrebbero prendere certielementi curativi può, infatti, essere del tutto diverso da ciòche pensa il terapeuta.Il tanto invocato fattore terapeutico è, e probabilmenteresterà, un mistero, poiché esso non si iscrive ne in alcunatecnica particolare, ne in un modello teorico più esplicativodi un altro. Questo profondo mistero, che ogni relazione tradue esseri umani custodisce dentro di sé è, in realtà, ilsegreto ineffabile dell'esistenza. Scrive Jung: « 11 misterovivente della vita è sempre nascosto tra Due, ed è il veromistero che non può essere tradito dalle parole » (10.)L'analisi è l'inconfro di due personalità, di due destini cheproprio con il loro incrociarsi, con il conficcarsi, a volte,dell'uno nell'altro è capace di imprimere ad un'esistenzauna direzione nuova, sbloccando una precedentesituazione di paralisi, di sofferenza. Nel corso della miaattività analitica mi sono sorpreso spesso nel constatarecome questo particolare punto critico, in grado di mutare ilcorso di una vita, coincidesse raramente con ciò che i ma-nuali registrano quale intervento appropriato. Voglioriportare a questo proposito un caso che ritengoemblematico, proprio perché il suo sviluppo, cheoltrepassa i confini dell'ortodossia, apre degli interrogativiinquietanti sulla nostra attività.Si tratta di una giovane donna, che per particolari vicende,e per una situazione familiare apparentemente normale,ma segretamente attraversata da dinamiche incestuose,giunge nel mio studio recando sulle sue spalle il dolorosofardello di una totale incapacità di relazione con il mondomaschile. Avendo

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(10) C.G. Jung, Letters, vol.2: 1951-1961, PrincetonUniversity Press, Princeton,p. 581.

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sofferto per anni esclusioni e rifiuti, ella appare par-ticolarmente vulnerabile nei confronti di questa di-mensione. Qualsiasi piccolo particolare, un tono di voceo un momento di distrazione o di stanchezza, vengonoletti da lei come un rifiuto, con conseguenze devastantisul suo equilibrio psicologico. Già dalle prime battutel'analisi acquista un'atmosfera singolare. Più che diparole, di reali interpretazioni, la donna sembra affamatadi calore. E più volte ripete il suo lamento: nessunaparola può raggiungerla in quella sfera di cristallo nellaquale si sente rinchiusa e dalla quale, distaccata, guardail mondo pulsare. Per sopravvivere, ha sviluppato unadimensione intellettuale particolarmente sofisticata, ma lasua lucida e brillante intelligenza non è riuscita a per-metterle di vivere la vita, senza frantumarsi ogni voltache viene in contatto con la dimensione dei sentimenti. Isogni della ragazza e il suo attaccamento nei mieiconfronti dimostrano immediatamente un coinvolgimentototale, quasi che la sua vita avesse preso a girare nonpiù sul suo centro interiore, ma sulla mia persona.Nonostante ciò, per più di un anno, ella rimaneguardinga, comportandosi in modo cordiale ma ancoradistaccato. Man mano che il suo coinvolgimento, anche alivello cosciente, aumenta d'intensità, la ragazza apparesempre più impaurita, mostrando apertamente l'intenzio-ne di troncare il rapporto. D'altra parte però, avendomiproiettato addosso « l'archetipo del Salvatore », ella èincapace di fare a meno di me. Io divento il baluardocontro la sua famiglia, apparendo nei suoi sogni comel'unica figura capace di salvarla dalle percosse, dallaviolenza del padre, che, cessata da anni, si ripresentauguale nelle immagini oniriche. La difendo anche da tuttigli assalti maschili, dai tentativi di stupro, che ellacontinua a subire a livello immaginario, divenendo cosìl'unico tramite rassicurante tra il suo lo cosciente e la suastessa travolgente e irrelata dimensione erotica.Consapevole delle sue difficoltà nel vivere i rapportiaffettivi, ella sa che solo abbandonandosi all'intensosentimento che prova nei miei confronti, e che

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cerca invano di negare, potrà infrangere quel vetro che lasepara dal mondo esterno. Le relazioni che inizia nellarealtà rimangono, infatti, caratterizzate dallo stessodistacco difensivo. Incapace di portarle avanti per lungotempo, queste si concludono prima che la maschera diinvulnerabilità della donna venga infranta. L'unicocontatto con il polo del sentimento rimango io. Inizia cosìuna fase particolarmente difficile della terapia in cui ciòche mi viene richiesto non è il mio intervento analitico,che suscita ancora di più la sua diffidenza, rendendolaletteralmente incapace di proferire parola, ma il miocalore, il mio affetto, la mia vicinanza. Quel misto divuoto, di dolore, di rifiuto, che ella continua asperimentare continuamente, si placa solo quando io lepermetto di accoccolarsi ai miei piedi con la testa sullemie ginocchia, o quando le tengo la mano. Soltanto allorala ragazza può iniziare a parlare, solo allora si senterassicurata e sa di non poter essere ferita. Per leiunicamente il contatto corporeo contiene una veridicitàche scavalca ogni maschera, ogni possibile finzione.Avendo sempre vissuto negli anni passati,l'inaccettazione, specialmente a livello fisico, a causadella sua problematica anoressica, adesso ha bisogno diun accoglimento totale. L'inconsapevolezza del propriocorpo, finora tradito, alienato, trattato alla stregua di unoscomodo involucro, un oggetto di cui liberarsi, di-menticarsi attraverso le altezze dello spirito, o medianteuna sessualità privata dal suo connotato emotivo eaffettivo, fanno sì che ella identifichi me e le mie reazionicon l'unico reale specchio, con l'unica fonte attraverso laquale riappropriarsi della sua materialità.Nelle sue richieste è implicita la sfida della tra-sgressione, come se solo il poter rompere una regolafosse una garanzia di impegno, di autentico inte-ressamento. Non è difficile immaginare come la si-tuazione acquisti piano piano una coloritura sessuale. Albisogno di tenerezza si accompagna un'analogaesigenza di conferma sessuale, quasi che il suo poteressere donna, il suo potersi incontrare con il

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Maschile passino inevitabilmente attraverso la miaattrazione. La sessualità rimossa, o vissuta in manierascissa dall'affettività chiede ora di venire riconosciutanell'ambito di un rapporto che coinvolge tutte lesfaccettature del suo essere. L'acting-out rappresentacosì l'incontro con un Maschile allo stesso tempo tenero esatiresco, su cui si proietta il fantasma del padre. L'animarichiede la liberazione della sua parte dionisiaca. Per chi ècresciuto in una atmosfera di razionalità, nella quale solo ivalori dello spirito, dell'intelletto potevano essere accettatie sviluppati, trovarsi di fronte al dirompere dell'eros, dellapassione, non può non avere un esito lacerante. Lapsiche sperimenta di colpo tutta l’ombra della carne, neiriti dell'amore, della gelosia, del tradimento. La continuapaura dell'abbandono diviene ancora più drammatica eannichilente perché l’AItro è entrato a far parte non solodell'anima, ma anche del corpo.Di fronte a questi casi forse anche noi come Giobbedovremmo umilmente dire « ho parlato una volta, ma nonreplicherò più ». La nostra esperienza di terapeuti benconosce il negativo di queste situazioni, dove possonoessere agiti i vissuti meno nobili, dove il bisogno di poteresull'altro si può travestire con il manto dell'amore edell'aiuto, dove la tra-sgressione può essere razionalizzata solo per coprire un'incapacità personale, un nucleonevrotico dell'analista; tuttavia la misteriosità di taliesperienze non viene minimamente scalfita da questeconsiderazioni. Alla fine della sua vita, quando potevavolgere serenamente lo sguardo indietro, e ricordare ledolorose storie in cui era stato coinvolto — e un nomesolo basta per tutte: quello di Sabina Spielrein — Jungscriveva: « Sia nella mia esperienza di medico che nellamia vita, mi sono ripetutamente trovato di fronte al misterodell'amore, e non sono stato mai capace di spiegare checosa esso sia. (...) Qui si trovano il massimo e il minimo, ilpiù remoto e il più vicino, il più alto e il più basso, e non sipuò parlare di uno senza considerare anche l'altro » (11).E aggiungeva: «Noi siamo, nel senso

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(11) C.G. Jung, Ricordi sogniriflessioni, cit, pp. 413-4.

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più profondo, le vittime o i mezzi e gli strumentidell'"amore" cosmogonico. (...) Essendo una sua parte,l'uomo non può intendere il tutto. È alla sua mercé. Puòconsentire con esso, o ribellarsi; ma sempre ne è preda eprigioniero. Ne dipende e ne è sostenuto. L'amore è lasua luce e le sue tenebre, la cui fine non può riuscire avedere. (...) L'uomo può cercare di dare un nomeall'amore, attribuendogli tutti quelli che ha a suadisposizione, ma sarà sempre vittima di infinite illusioni.Se possiede un granello di saggezza, deporrà le armi echiamerà l'ignoto con il più ignoto, ignotum per ignotius,cioè con il nome di Dio » (12).Tutte le volte che il mio ricordo torna su questa vicenda,io continuo ad interrogarmi sul suo significato. Sia io chela mia paziente siamo consapevoli che l’anima haimposto la sua strada, la sua soluzione. La donna non hacerto risolto tutte le sue problematiche, forse ve ne haaggiunte delle altre, eppure ella sa che è accaduto ciòche in quel particolare momento della sua vita dovevaaccadere. Di fronte a queste storie i nostri parametri disanità, di curabilità o incurabilità, di ciò che è giusto o nofare, hanno ben poco valore. Le mie parole sono benlontane dalla legittimazione di una trasgressioneselvaggia, ma contengono, invece, il seme del dubbio,dell'inquietudine, unitamente al senso del limite. Quandoil terapeuta si scontra con una forma di incurabilità cheresiste a qualsiasi approccio tradizionale, qual è la stradada seguire? La precedente analisi della mia paziente siera, infatti, arrestata proprio su questo doloroso scoglio:le parole dell'analista, le sue interpretazioni cadevano nelvuoto della sua impossibilità di sentire la vicinanza,l'interesse, l'affetto di un altro essere umano. E se moltianni dopo il nostro incontro, ella ha intrapreso altre dueterapie, al fine di imparare a manifestare, senza essernepiù travolta, quel mondo emotivo venuto alla luce nelnostro rapporto, ciò non altera il senso dell'accaduto.Come il bambino, per apprendere a parlare, ha bisognodella vicinanza di qualcuno che lo ami, di sentirsiimmerso, per

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(12) Ibidem.

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(13) Problematiche analoghesono rintracciabili nei lavori diMìchael Balint. Vedi in modoparticolare « La regressioneterapeutica, l'amore primarioe il difetto fondamentale » inLa regressione (1968), Raf-faele Cortina Editore, Milano,1983, pp. 287-315.

un certo periodo di tempo, in una dimensione di cura,nella quale viene anche a contatto con tutti i suoni dellalingua, così, nel caso della mia paziente, solo passandoattraverso una forma quasi ossessiva e annichilente dipassione, l'anima ha potuto sciogliere il ghiaccio chericopriva tutti i suoi sentimenti, imparando il linguaggiodelle emozioni. Si potrebbe obiettare che una relazioneaffettiva vissuta all'esterno avrebbe potuto sortire lostesso effetto. Ma noi sappiamo che l'anima per rivelarsiin tutta la sua nudità ha scelto il temenos analitico, proprioperché questo con i suoi rituali, e con le sue premesse ditotale accettazione e tolleranza le appariva assai piùrassicurante del mondo esterno.All'ideale di una guarigione garantita e programmata colsuo bravo « know how » con tanto di marchio (freudiano,junghiano, ecc.), possiamo, allora, opporre l'umile esofferta convinzone che non esistono itinerari già tracciati(13).Un'altra situazione analoga a quelle descritte che ho avutooccasione di incontrare nel corso del mio lavoro puòessere sintetizzata e rappresentata simbolicamente dallaprotagonista del romanzo di Henry James Ritratto disignora. Isabel Archer, una giovane donna intelligente,colta e sensibile, è amata profondamente da lordWarburton, un uomo che ha tutte le qualità per renderlafelice, e tuttavia lei lo rifiuta, affermando di non potersfuggire al proprio destino. Quando il gentiluomo lechiede, incuriosito, quale sia il suo destino, la donnarisponde in modo pacato e consapevole « L'infelicità ». Laprotagonista andrà poi incontro al proprio destino,seguendo fino in fondo la sua inclinazione alla sofferenza.La paziente di cui voglio parlare assomiglia alla pro-tagonista del romanzo di James, nel senso che anche ilsuo destino non si lasciava ridurre ad altro se non aquesta lucidità sofferta e dolorosa. Si trattava di unagiovane donna intelligente e con una sensibilità di tipo *mimosa ', cioè estremamente delicata e fragile; avevaconseguito risultati molto brillanti nello studio, ma siportava fin dalla nascita il bagaglio di un'inesprimibilesolitudine. L'isolamento in cui era

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sempre vissuta l'aveva confinata in una vita interioreintensamente dilatata, dove la fantasticheria e lariflessione erano diventate la lente attraverso cui vedevala realtà. Dico vedeva perché la ragazza non viveva lavita, ma si limitava ad osservarla standosene chiusa nellasua stanza: per un lungo periodo, infatti, non era piùuscita di casa trascorrendo il tempo nella lettura, anzivivendo emozioni profonde solo attraverso i libri. Lasolitudine era quasi totale: aveva perso le amicizie e nonlavorava. Se vogliamo generalizzare, era una situazionetipica di una certa generazione sul finire degli annisettanta. Spesso la giovane donna pensava alla sua vitacome ad un ' deserto dei tartari ' — il bei libro di Suzzatiche proprio in quel periodo era divenuto un film — dovela solitudine e il vuoto erano riempiti dall'attesa diqualcosa che non sarebbe mai arrivato. Uno dei pochimotivi che spingevano la ragazza fuori casa era lafrequenza alle lezioni che tenevo all'Università. Ad uncerto punto il momento acuto dell'introversione ebbe finee la giovane riprese ad interessarsi del mondo esterno,trovò un lavoro e si laureò per la seconda volta; alloraincominciò a sentire l'esigenza di tirare le somme su quelperiodo di ripiegamento in se stessa che l'aveva cosìprofondamente segnata. Decise di andare in analisi, fucosì che le tornò alla mente quel professore che avevasuscitato echi e risonanze così intense nella suainteriorità da indurla a uscire di casa in un momento in cuiil mondo esterno non rivestiva alcun interesse per lei.Venne a trovarmi e iniziammo un lungo camminoanalitico.La solitudine e la mancanza d'amore — la ragazza avevagrosse difficoltà a stabilire legami sentimentali —avevano fatto di questa giovane donna una sorta diconchiglia che rischiava di incrinarsi ogni volta chequalcuno si avvicinava troppo a lei. La paziente avevaun'immagine femminile interna estremamente negativa,derivante da un pessimo rapporto con la madre e dadevastanti traumi sessuali subiti durante l'infanzia. Eranecessario dunque ricreare un rapporto primario che asuo tempo era stato

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vissuto dalla ragazza come distruttivo. Furono necessarianni di paziente lavoro per costruire una capacitàcomunicativa sul piano emotivo che compensassel'ipertrofia del logos, dimensione che aveva da semprecaratterizzato l'approccio alla vita da parte della paziente.La cultura era infatti il suo meccanismo di difesa elettivo,il filtro attraverso cui recepiva anche le emozioni. Tuttociò che ella sentiva, infatti, lo esprimeva non attraversouna corrispondente espressione emotiva, ma riferendosiad un modello culturale, ad una musica, ad una frase oun verso letti nei libri. Questo serviva da schermo a deicontenuti che non poteva avvicinare se non a rischio diessere bruciata dalla sofferenza legata ad essi. Ladimensione del sentimento può assumere un aspettodevastante e distruttivo quando non viene vissutaall'interno di un ' contenitore '. Questa giovane aveva uncontenitore inadeguato, per questo temeva tantol'avvicinamento al mondo di emozioni e di istinti.II nostro rapporto analitico aveva assunto fin dall'iniziocoloriture molto intense: la ragazza aveva condensatonella mia persona tutte le sue aspettative, tutto il suomondo di parole mai dette. II giorno del nostro primoincontro mi portò questo sogno:si trovava a percorrere un labirinto, alla fine di un lungocammino mi incontrava, avevo tutti i capelli bianchì eaccanto a me c'era una figura femminile indistinta.Il labirinto rappresenta il percorso analitico, il fatto chenel sogno io abbia le caratteristiche di un uomo anzianosignifica che la paziente aveva proiettato su di me unafigura salvifica e rassicurante, un grande saggio appunto.L'immagine femminile indistinta era la sua stessa figuraproiettata nel futuro, la donna che sarebbe diventata nelsuo cammino insieme a me, ed era indistinta proprioperché eravamo all'inizio del viaggio e nessuno sapevacome sarebbe diventata e cosa avrebbe trovato alla finedell'itinerario analitico. In realtà per lunghi anni i sognirimasero per lei l'espressione di un linguaggio antico esconosciuto, totalmente straniero. Solo molto più tar-

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di riuscì a confrontarsi con i suoi contenuti inconsci. Poi,come spesso avviene nei destini umani, fu un incontrosentimentale, da lei vissuto con particolare intensità, adalterare quell'equilibrio nevrotico basato sullarazionalizzazione di ogni vissuto. La dimensione emotiva,con tutta la sua forza travolgente, si aprì la strada versola libera espressione di contenuti che fino ad allora eranostati tenuti rigorosamente lontani dalla coscienza. Emerseallora in tutta la sua violenza un insanabile conflitto con lafamiglia che aveva sempre avuto un ruolo coercitivo eopprimente e, per la prima volta nella sua vita, la donnapensò di andare via da casa. Vennero introdotti neldiscorso analitico alcuni ricordi traumatici che portavanocon sé un carico di tale dolore che la paziente non eramai riuscita a trovare le parole per portare in superficiequesti abissi. Ma emerse anche una tragica dimensione,una dimensione sconvolgente e oscura che per la primavolta ella vedeva in tutta la sua terribilità. Fu un sogno arivelare, con un'evidenza simbolica e tangibile nello stes-so tempo, questo nucleo inconscio che assorbiva eincanalava tutte le energie disponibili. La giovane donnasognò che abbracciava e baciava un suo collega.Attraverso le associazioni emerse che costui aveva unanatura masochista. La paziente allora, con uno di quegliinsight fulminei che a volte si producono in analisi, disse:« Io sto abbracciando, mi sto congiungendo con il miomasochismo ». Cosa era accaduto? La situazionesentimentale che la donna stava vivendo e che avevaattivato e liberato tante energie aveva assunto lecaratteristiche di uno stato di sofferenza.L'esperienza non era certamente nuova, ma era nuovo ilmodo di porsi di fronte ad essa: la paziente era in gradodi riconoscere le sue proiezioni, capiva che il rapportocon l'uomo amato rispecchiava i suoi desideri inconsci,sapeva che questa relazione, per quanto la riguardava, sisarebbe giocata sul filo della sofferenza e della passività.E tuttavia si sentiva irresistibilmente attratta dal partner,come a

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volte, quando ci affacciamo su di un abisso, sentiamouna forza oscura che ci spinge lì dove si cela un qualcosadi terribile e affascinante. La donna, attraverso questoamore che, per dirla con Barthes, le aveva aperto gliocchi, era entrata in contatto con quella potenza oscurache l'aveva guidata per tutta la vita. Dopo Io sgomento ela paura che questa rivelazione portava con sé, lapaziente comprese che era necessario confrontarsi conquesta forza che aveva avuto ed aveva tuttora un poterecosì assoluto su di lei. II mito della lotta con il drago assu-meva in questo caso un significato individuale edestremamente pregnante. La conclusione di questo ' casoclinico ' possiamo lasciarla aperta, come avviene per leparabole e per tutte quelle produzioni umane che nonesauriscono mai il loro significato, poiché possiedono unaricchezza di contenuti inesauribile. La paziente dovevaprendere coscienza e rapportarsi a quella che era unamodalità precipua della sua psiche; non possiamo dire apriori se era bene modificare radicalmente questo suoatteggiamento con il fine di renderla più ' felice '. Siamopoi così sicuri di sapere che cosa è bene per una per-sona? Le scelte di vita sono sempre individuali e laguarigione, per alcuni, non coincide affatto con l'adozionedi criteri collettivi e con l'adattamento ad una realtà chespesso non rispecchia la propria verità inferiore. Nellasituazione della paziente prendere coscienza del fondooscuro del proprio essere poteva portare ad uncambiamento oppure ad una ac-cettazione sofferta, ma inentrambi i casi l'essenziale era comunque lo stabilirsi diuna sintonia tra il piano cosciente e la dimensionedell'inconscio. In tal modo qualsiasi decisione fossescaturita da questo confronto — scegliereconsapevolmente la strada della sofferenza o cercare disublimarla e di contenerla — sarebbe stata frutto di unascelta matura che aveva individuato le linee del propriodestino e le percorreva con passo sicuro.Qui si nasconde quella che io chiamo la terapia inquieta.Essa va per una strada completamente diversa da quellache è stata programmata, perché

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risponde a destini del tutto personali e non massificati. Cipuò essere anche del dolore in questa soluzione, ci puòessere anche della disperazione, e rimane sempre ildubbio che la soluzione avrebbe potuto essere un'altra. Èin questo procedere che io vedo la sofferenzadell'analista.

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