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La teoria del debito pubblico NB: all’esame verrà richiesto il contenuto delle diapositive. Questo testo serve per capire meglio i concetti che ritrovate anche nelle diapositive. 1. Premessa La crisi finanziaria del 2007 che ha coinvolto tutto il mondo occidentale e da cui non ci si è ancora risollevati, ha avuto origine in squilibri del settore privato (debiti eccessivi per acquisti immobiliari principalmente negli Stati Uniti, crisi dei titoli subprime) e si è poi tradotta in drammatici peggioramenti del rapporto Debito/PIL a causa della caduta del prodotto e come conseguenza delle politiche fiscali espansive messe in atto per contrastare il ciclo negativo. Tali peggioramenti hanno generato preoccupazioni sulla solvibilità del debito degli stati sovrani, in particolare nei confronti di paesi, come la Grecia e l’Italia, che già prima della crisi avevano livelli di debito molto elevati. Per la Grecia è aperta la discussione sulla possibilità di default, che avrebbe conseguenza molto gravi come ad esempio l’abbandono della moneta europea. Per paesi come l’Italia crescono i timori di insolvenza e si discute affannosamente sulla necessità di ridimensionare, anche con misure di carattere straordinario, il peso del debito pubblico. Da più parti si propone il ricorso all’imposta straordinaria patrimonio come strumento per realizzare ingenti gettiti da destinare al rimborso di parte del debito esistente. Questa alternativa – il debito o l’imposta straordinaria - non è nuova nella storia del pensiero finanziario. Come vedremo essa è stato sapientemente discussa da uno dei padri dell’economia politica, David Ricardo, ed ha sempre attirato l’attenzione degli economisti soprattutto in corrispondenza ai periodi bellici o alle grandi crisi in cui, tipicamente, si accumulano volumi elevati di debiti pubblici. In Italia il problema si pone senza dubbio in modo drammatico: la crisi, come si è visto nelle figure presentate nel capitolo secondo, ha riportato il rapporto debito/PIL vicino al massimo storico del 120%. Nei dibattiti giornalistici il tema è spesso drammatizzato sottolineando l’idea che il sacrificio dell’intero prodotto di un anno non sia sufficiente a colmare la voragine del debito pubblico o l’idea che su ogni cittadino italiano gravi un peso di debiti di oltre 30 mila euro. Il debito pubblico italiano è senza dubbio molto elevato e tende a crescere in valore assoluto se il bilancio non è in pareggio e se non intervengono politiche di privatizzazione (che hanno però solo l’effetto di sostituire attività reali a debito finanziario nel conto patrimoniale dello stato). Ciò tuttavia non significa che le affermazioni appena ricordate, pur asserite con molta sicurezza, forniscano un quadro corretto della reale solvibilità del nostro stato. Il rapporto debito pubblico/PIL, un rapporto tra uno stock e un flusso, è un indicatore dal significato ambiguo ed incerto. Per sdrammatizzare si potrebbe osservare che se lo stato italiano ha contratto 1850 miliardi di euro di debito pubblico, più della metà di esso è stato sottoscritto da

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La teoria del debito pubblico NB: all’esame verrà richiesto il contenuto delle diapositive. Questo testo serve

per capire meglio i concetti che ritrovate anche nelle diapositive. 1. Premessa La crisi finanziaria del 2007 che ha coinvolto tutto il mondo occidentale e da

cui non ci si è ancora risollevati, ha avuto origine in squilibri del settore privato (debiti eccessivi per acquisti immobiliari principalmente negli Stati Uniti, crisi dei titoli subprime) e si è poi tradotta in drammatici peggioramenti del rapporto Debito/PIL a causa della caduta del prodotto e come conseguenza delle politiche fiscali espansive messe in atto per contrastare il ciclo negativo. Tali peggioramenti hanno generato preoccupazioni sulla solvibilità del debito degli stati sovrani, in particolare nei confronti di paesi, come la Grecia e l’Italia, che già prima della crisi avevano livelli di debito molto elevati. Per la Grecia è aperta la discussione sulla possibilità di default, che avrebbe conseguenza molto gravi come ad esempio l’abbandono della moneta europea. Per paesi come l’Italia crescono i timori di insolvenza e si discute affannosamente sulla necessità di ridimensionare, anche con misure di carattere straordinario, il peso del debito pubblico. Da più parti si propone il ricorso all’imposta straordinaria patrimonio come strumento per realizzare ingenti gettiti da destinare al rimborso di parte del debito esistente.

Questa alternativa – il debito o l’imposta straordinaria - non è nuova nella

storia del pensiero finanziario. Come vedremo essa è stato sapientemente discussa da uno dei padri dell’economia politica, David Ricardo, ed ha sempre attirato l’attenzione degli economisti soprattutto in corrispondenza ai periodi bellici o alle grandi crisi in cui, tipicamente, si accumulano volumi elevati di debiti pubblici.

In Italia il problema si pone senza dubbio in modo drammatico: la crisi, come si è visto nelle figure presentate nel capitolo secondo, ha riportato il rapporto debito/PIL vicino al massimo storico del 120%. Nei dibattiti giornalistici il tema è spesso drammatizzato sottolineando l’idea che il sacrificio dell’intero prodotto di un anno non sia sufficiente a colmare la voragine del debito pubblico o l’idea che su ogni cittadino italiano gravi un peso di debiti di oltre 30 mila euro.

Il debito pubblico italiano è senza dubbio molto elevato e tende a crescere in valore assoluto se il bilancio non è in pareggio e se non intervengono politiche di privatizzazione (che hanno però solo l’effetto di sostituire attività reali a debito finanziario nel conto patrimoniale dello stato). Ciò tuttavia non significa che le affermazioni appena ricordate, pur asserite con molta sicurezza, forniscano un quadro corretto della reale solvibilità del nostro stato. Il rapporto debito pubblico/PIL, un rapporto tra uno stock e un flusso, è un indicatore dal significato ambiguo ed incerto. Per sdrammatizzare si potrebbe osservare che se lo stato italiano ha contratto 1850 miliardi di euro di debito pubblico, più della metà di esso è stato sottoscritto da

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cittadini italiani, che oltre ad avere accumulato risparmi per tale impiego dispongono di una ricchezza netta privata di 8300 miliardi di cui 4600 sotto forma di immobili.

Anche sul piano strettamente empirico un valore elevato del rapporto non dipinge di per sé una situazione della finanza pubblica sull’orlo del fallimento. Non è la prima volta nella storia del nostro paese che ciò accade. E lo stesso può dirsi di altre economie: nel Regno Unito lo stock del debito pubblico è rimasto superiore al PIL per quasi un secolo; ha proporzioni ben più ampie di quello dell’Italia il debito pubblico del Giappone.

In situazioni normali, in cui cioè non vi siano timori di crisi finanziarie improvvise, l’onere del debito di un paese è infatti rappresentato dal peso degli interessi passivi che ogni anno devono essere pagati ai sottoscrittori. Gli interessi passivi nel conto delle AP, come si è visto nel capitolo secondo, sono pari a poco meno del 5% del PIL. Ciò significa che la pressione fiscale del paese è impegnata per 5 punti per finanziare il servizio del debito: un valore senza dubbio elevato ma superiore di non più di 2-3 punti di PIL rispetto alla media dei paesi europei. Differenze di due-tre punti nella pressione fiscale tra due paesi, ceteris paribus, non dovrebbe generare allarmi particolari.

Ben diversa e maggiore è invece la preoccupazione in periodi, come quello attuale, di instabilità finanziaria – in cui cioè gli investitori, sulla base di motivazioni più o meno ragionevoli, temono che vi siano rischi di mancato rimborso del capitale prestato. In tal caso è importante sapere se la dinamica del debito si pone su un sentiero che tende alla stabilità e valutare la sostenibilità finanziaria. Questo capitolo cercherà di fare un po’ di chiarezza su alcuni aspetti di questo problema.

2. Perché esiste il debito pubblico

Se si vuole affrontare il problema del debito pubblico in modo rigoroso, prima

di domandarsi come eliminare il debito, può essere utile ricordare le risposte che gli studiosi hanno fornito sulla natura del debito pubblico e sul suo ruolo in un’economia di mercato. In estrema sintesi, ci pare che la teoria economica abbia messo a fuoco quattro funzioni che esso può svolgere: la modificazione nel tempo del livello dell’attività economica (funzione di stabilizzazione); la redistribuzione degli oneri di spese pubbliche tra diverse generazioni; la realizzazione di una distribuzione ottimale delle aliquote fiscali (tax smoothing); l’eliminazione di cause di fallimento del mercato, attribuibili alla presenza di incompletezza di mercati.

La prima e più nota funzione è oggetto dei corsi di macroeconomia. Essa è fondamentalmente legata alla tradizione della macroeconomia keynesiana e pone l’accento sul ruolo dello strumento fiscale nell’influenzare il livello dell’attività economica e/o dei prezzi.

La seconda funzione è connessa all’idea che il finanziamento della spesa pubblica con debito anziché con imposte significhi addossare a generazioni future l’onere di decisioni prese dalle generazioni presenti. La tesi, molto popolare, ma in realtà assai controversa, è al centro del lunghissimo dibattito sul debito pubblico iniziato da Ricardo nel secolo scorso, di cui ci occuperemo più avanti.

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La terza funzione, proposta da Barro nel 1979 all’interno della teoria della tassazione ottimale, parte dalla constatazione che a causa dei costi di benessere prodotti dall’inevitabile applicazione di imposte distorsive, sia pure sotto ipotesi semplificate, sarebbe ottimale una distribuzione delle aliquote fiscali costante nel tempo. Il debito pubblico è lo strumento che permette di realizzare tale obiettivo, evitando inasprimenti o riduzioni troppo brusche delle aliquote in presenza di shock alla spesa indotti da fattori esogeni, come guerre, calamità, ecc.

La quarta funzione, sviluppata a livelli molto astratti all’interno della teoria dell’equilibrio economico generale in condizioni di incertezza e con mercati incompleti, vede nel debito lo strumento che consente agli operatori economici di realizzare transazioni, in particolare di assicurazione, rispetto a possibili eventi futuri, che diversamente, a causa dell’incompletezza dei mercati finanziari, non sarebbero possibili. L’emissione di debito pubblico potrebbe essere un modo per aprire mercati non esistenti; lo stato agirebbe quindi come innovatore finanziario.

In questo capitolo non intendiamo discutere tutti gli aspetti sopraccennati, alcuni dei quali ci porterebbero ad affrontare questioni teoriche molto complesse. Ci concentreremo invece sull’insieme di problematiche, all’interno della seconda delle funzioni elencate, che ruotano intorno al c.d. teorema dell’equivalenza ricardiana, che ci pare abbia più dirette implicazioni di politica economica. Tenuto conto dell’importanza del contributo originario di Ricardo e della sua influenza sulla letteratura successiva, soprattutto italiana – dopo avere indicato le connessioni tra vecchie e nuove querelles – presenteremo una breve esegesi del pensiero ricardiano. I principali quesiti affrontati saranno: il debito può essere considerato come una componente della ricchezza finanziaria dell’economia? Un debito elevato pone un onere a carico delle generazioni future?

L’urgenza dei problemi di politica economica di economie come quella italiana gravate dal peso di un debito molto elevato ci porterà poi ad affrontare questioni relative ai limiti di sostenibilità di un debito pubblico crescente. Fino a che limite può aumentare il debito pubblico? In quali circostanze è più probabile che si scateni una crisi di fiducia nei confronti dello stato debitore e inizi una crisi finanziaria?

Non ci si devono attendere dall’economia risposte molto circostanziate e definite a tali quesiti: si possono tuttavia offrire indicazioni sui principali fattori causali in gioco. Partendo da un famoso contributo di Domar del 1944 gli economisti hanno svolto molte riflessioni sulle condizioni che determinano l’esplosione del rapporto debito/PIL e di esse, seppure in via introduttiva, si darà conto nella seconda parte di questo capitolo.

3. Il debito pubblico nella teoria macroeconomica keynesiana (leggere, questo

par. 3 non sasà oggetto di esame). Il debito pubblico, dal punto di vista di coloro che lo hanno sottoscritto, è

una forma di impiego finanziario della ricchezza, che esercita i propri effetti sulle variabili macroeconomiche attraverso gli stessi canali delle altre componenti della ricchezza, che indicheremo con W. Gli effetti di ricchezza sono di solito esplicitati sia

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nelle funzioni che descrivono i flussi della domanda aggregata (in particolare i consumi), sia nella domanda di attività finanziarie (moneta e titoli, nella consueta stilizzazione fornita dal modello IS-LM). Un aumento di W determina un effetto positivo sia sui consumi sia sulla domanda di attività finanziarie (in quest’ultimo caso la derivata parziale è compresa tra 0 e l’unità). Secondo questo modo di ragionare un aumento della spesa pubblica finanziato con titoli, e quindi dallo stock del debito pubblico, determinerebbe un aumento di W e quindi un ulteriore spostamento della IS verso destra e uno spostamento della LM verso l’alto. Un aumento di spesa finanziato con moneta determina un identico effetto sulla IS e uno spostamento verso destra della LM inferiore a quello che si sarebbe verificato in assenza di effetti di ricchezza. A questi tradizionali risultati dell’analisi macroeconomica keynesiana si è opposto, nel 1974, R. Barro, un noto esponente della scuola della Nuova macroeconomia classica. In un famoso saggio dal titolo Are Government Bonds Net Wealth?, utilizzando un modello a generazioni sovrapposte, sostiene che il debito pubblico non deve essere incluso nella ricchezza finanziaria del settore privato dell’economia. Un punto rilevante della sua argomentazione è che i soggetti dell’economia terranno conto, nel valutare la propria ricchezza, dell’onere che in futuro graverà su di essi a causa delle imposte che lo stato dovrà introdurre per trovare copertura finanziaria agli interessi da versare ai sottoscrittori dei titoli e per restituire, alla scadenza del debito, il capitale preso a prestito. Se gli operatori hanno un comportamento razionale e previsione perfetta, al valore positivo dei titoli posseduti dai detentori dei titoli pubblici si contrappone un debito fiscale di eguale ammontare dei contribuenti che dovranno pagare le imposte future. La conclusione di questo ragionamento è che il debito pubblico non andrebbe computato nella valutazione della ricchezza nazionale. Qualora invece gli operatori non abbiano una previsione perfetta e non anticipino integralmente gli oneri futuri connessi al debito, i titoli sottoscritti potranno, in tutto o in parte, contribuire alla definizione della ricchezza, W. Solo nel caso di totale mancanza di previsione degli oneri futuri, secondo questo modo di ragionare, i titoli potrebbero rientrare pienamente nella definizione di W. Al lettore che abbia già affrontato lo studio della macroeconomia non sfuggirà come questa conclusione faccia parte della critica rivolta dalla Nuova macroeconomia classica alla funzione del consumo keynesiana.

Lo stesso problema era stato intravisto, anche se in un contesto analitico meno sofisticato, un decennio prima, da un grande sistematore della sintesi macroeconomica neoclassica, Don Patinkin, che, nella riedizione della sua opera Money, Interest and Prices, aveva esaminato come caso particolare del real balance effect, vale a dire l’effetto legato alla variazione del valore reale delle scorte monetarie, l’effetto del debito pubblico, assumendo come caso più plausibile quello di sconto solo parziale delle imposte future. Ma ben prima della considerazione del ruolo del debito nei modelli macroeconomici, il problema del debito pubblico era stato affrontato, agli albori della scienza economica, da David Ricardo, che aveva già formulato le tesi di Barro, la cui analisi a ragione viene infatti indicata come neoricardiana. Anche se il tipo di problema che Ricardo si poneva non coincideva esattamente con quello di Barro, le argomentazioni utilizzate dal grande economista

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inglese non erano meno rilevanti delle sofisticate analisi moderne. Per questo ritieniamo utile prendere le mosse dal celebre teorema di Ricardo.

4. L’analisi del debito pubblico di Ricardo Per Ricardo, e per i classici in genere, il problema del debito pubblico è

considerato nell’ambito della finanza straordinaria, in quella parte della Scienza delle finanze che si occupa di momenti particolari della vita finanziaria di un paese, ad esempio la guerra, in cui i governi devono affrontare grandi e impellenti spese di carattere eccezionale. L’alternativa a cui i governi si trovano dinanzi in questi casi è se finanziare tali spese straordinarie una tantum con un’imposta straordinaria sul patrimonio (si presuppone infatti che le fonti ordinarie di gettito siano già state utilizzate al massimo grado) o con l’emissione di un prestito.

Le due misure finanziarie alternative sono equivalenti o no? Un debito contratto dallo stato ha lo stesso significato di un debito contratto da un privato? Ricorrere al prestito pubblico non è un modo per rimandare al futuro l’onere della spesa straordinaria, gravando quindi sulle generazioni future? Nel caso in cui si ricorra all’emissione di un prestito è indifferente che esso venga sottoscritto dai cittadini dello stato che si indebita o da stranieri? Queste erano le domande che Ricardo e i suoi contemporanei si ponevano, le cui risposte passeremo rapidamente in rassegna.

L’analisi di Ricardo porta a conclusioni molto chiare: prestito e imposta sono strumenti equivalenti; l’analogia tra debito pubblico e debito privato non è corretta; l’onere del debito pubblico non può essere trasferito sulle generazioni future. Egli tuttavia correda la sua analisi di molte precisazioni e osservazioni, apparentemente secondarie, a cui spesso gli studiosi successivi si sono più o meno consapevolmente appellati per motivare conclusioni opposte a quelle del «teorema dell’equivalenza ricardiana». Il punto di vista di Ricardo merita quindi di essere esaminato con un certo dettaglio perché in esso possiamo ritrovare gran parte degli sviluppi successivi di un dibattito quanto mai acceso e sempre vivo tra gli economisti.

Tab.4.1

L’esposizione delle tesi ricardiane è complicata dal fatto che il problema è

stato affrontato in due diverse circostanze: nel capitolo XVII dei Principles (1817) e nell’opera Funding System (1820). Le sue argomentazioni, pur portando ad una

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medesima conclusione, seguono poi due vie analitiche diverse, che con qualche forzatura interpretativa potremmo indicare come spiegazione «macroeconomica» e spiegazione «microeconomica».

La tesi macro è la prima avanzata nei Principles e riprende osservazioni già presenti nel pensiero di altri autori (ad esempio, Melon, che scriveva sui debiti pubblici nel 1734 nell’opera Essai politique sur le commerce). I prestiti pubblici implicano il pagamento di interessi ai sottoscrittori dei titoli (il «servizio del prestito»): lo stato per pagare tali interessi dovrà necessariamente ricorrere a maggiori imposte. L’operazione del prestito pubblico può quindi essere così configurata: al momento dell’emissione si ha un trasferimento di potere di acquisto dai sottoscrittori dei titoli, che supponiamo siano delle rendite perpetue, allo stato. Successivamente lo stato pagherà interessi ai sottoscrittori prelevando imposte dai contribuenti. Nei periodi successivi il prestito si risolve quindi in un trasferimento di risorse dai contribuenti ai sottoscrittori o, per usare la felice espressione di Melon, in un trasferimento «dalla mano destra alla mano sinistra». L’onere del debito, inteso come trasferimento reale di risorse, è avvenuto una volta per tutte al momento della sottoscrizione, esattamente come sarebbe accaduto se lo stato avesse fatto ricorso allo strumento dell’imposizione straordinaria. Secondo un’efficace espressione usata da un economista che condivideva la tesi di Ricardo, il prestito non può trasferire al futuro alcun onere, perché «non si possono combattere con i cavalli di domani le guerre di oggi». Come mostra la tabella 10.1, l’imposta comporta la sottrazione di 2.000 al tempo t; anche il prestito richiede la rinuncia alla disponibilità di potere di acquisto nella stessa misura. Nei periodi successivi non si avrà alcun effetto nel caso dell’imposta, mentre nel caso del prestito si avrà una mera redistribuzione di 100 unità dai contribuenti ai sottoscrittori del prestito.

Sempre nei Principles, poche righe dopo avere enunciato la tesi principale, Ricardo enuncia tuttavia una prima qualificazione alle sue conclusioni: «Il prestito è un sistema che tende a renderci meno parsimoniosi e a non farci vedere la nostra vera situazione». Più avanti ancora Ricardo afferma: «è interesse di ogni contribuente togliersi questo peso dalle spalle e trasferirne il pagamento su qualche altra persona, sicché la tentazione di trasferirsi in un altro paese in cui il capitale sia esentato da tali oneri diventa irresistibile». Si annunciano qui aspetti relativi ai rapporti con altri paesi che hanno avuto importanti sviluppi.

Ancora poche righe più avanti Ricardo rafforza le sue conclusioni utilizzando un’altra linea di argomentazione, quella che sopra abbiamo chiamato «microeconomica». In questo caso l’economista inglese si immagina un contribuente tipico, un proprietario terriero, rappresentativo dell’intera comunità nazionale, a cui lo stato avanzi la richiesta o di un’imposta una tantum di 2 mila sterline o di sottoscrivere un prestito dello stesso ammontare che porta l’interesse del 5%. Afferma Ricardo: «Un individuo che possiede 10.000 sterline che gli danno un reddito di 500 su cui deve pagare 100 sterline l’anno quale [imposta per pagare gli] interessi del debito, in effetti possiede solo 8.000 sterline e sarebbe altrettanto ricco sia se continuasse a pagare 100 sterline l’anno, sia se sacrificasse subito, una volta tanto, 2.000 sterline».

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Si noti che in tale argomento microeconomico Ricardo utilizza il concetto di ammortamento dell’imposta che abbiamo illustrato nel Capitolo terzo par.7.1. Il patrimonio di 10 mila sterline la cui rendita è gravata di un onere perpetuo di 100 sterline vedrà diminuire il proprio valore di mercato di 2 mila sterline, se il tasso di sconto di mercato è il 5%. Ma che accade nel caso in cui, come è sostenuto nella teoria finanziaria, l’ammortamento non si verifichi o si verifichi solo in parte? Anche questo punto è stato ripreso da studiosi successivi. Anche se questa è la conclusione a cui porta un modo corretto di ragionare, Ricardo è tuttavia convinto che gli uomini non la penseranno così. Nel Funding System afferma: Sarebbe difficile persuadere un tale che possiede 20.000 sterline che un pagamento perpetuo di 50 sterline all’anno comporta lo stesso onere di un pagamento una tantum di 1.000 sterline. Egli avrebbe la vaga idea che le 50 sterline all’anno saranno pagate dai posteri e non da lui; ma se lascia la sua fortuna in eredità a suo figlio e la lascia gravata di un’imposta perpetua, che differenza fa lasciare 20.000 sterline gravate di imposta o 19.000 sterline senza di essa?

In questo importante passo, Ricardo sembra distinguere tra comportamenti perfettamente razionali (da cui discenderebbe l’equivalenza tra prestito e imposta) e il comportamento dell’uomo comune, affetto da una qualche forma di illusione. Questa consapevolezza dei risultati che si possono derivare da un’analisi condotta ipotizzando comportamenti perfettamente razionali e informazione perfetta o da un’analisi che realisticamente tenga conto degli effettivi comportamenti sociali, che agli schemi astrattamente razionali non si adeguano, dà un carattere di maturità all’analisi di Ricardo che sembra perduta nei moderni contributi dei sostenitori dell’ultrarazionalità ricardiana.

Ma l’argomento è portato ancora più avanti. Ricardo in modo ellittico, come è suo stile letterario, immagina una possibile obiezione: nel caso del prestito, non sarebbe irrazionale pensare di non dovere pagare le imposte future, dato che l’orizzonte temporale degli uomini è necessariamente finito. A ciò Ricardo replica che se l’individuo ha interesse a lasciare ai propri eredi la sua fortuna, l’argomento della limitatezza dell’orizzonte diviene irrilevante. Se sconta, nelle sue valutazioni, il benessere dei suoi eredi, si ripropone la conclusione dell’equivalenza. Queste poche righe includono tutto quanto è stato successivamente teorizzato ricorrendo ai modelli di generazioni sovrapposte. In particolare, l’idea che l’individuo abbia interesse ad effettuare lasciti costituisce il cuore dell’argomentazione di Barro del 1974.

Conviene ora sottolineare un importante aspetto del modo di argomentare «microeconomico» rispetto a quello «macro». Nei due contesti si può forse osservare che il concetto di onere utilizzato è mutato. Nel contesto macro si trattava di trasferimento del comando su risorse reali; nel contesto micro invece affiorano anche altre preoccupazioni: lo sconto delle imposte future, la lunghezza dell’orizzonte dell’individuo, l’interesse per gli eredi. Tutto ciò spinge chi abbia presenti gli strumenti dell’economia neoclassica contemporanea ad immaginare il processo di scelta di un individuo in un contesto di massimizzazione di una funzione di utilità intertemporale. In questo secondo caso è chiaro che il concetto di onere tenda ad

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assumere connotati soggettivi (sacrificio di utilità) e non più oggettivi (perdita di risorse) come nell’ambito dell’argomentazione macro. Griziotti, Borgatta, Buchanan, Ferguson e ancora Barro e tutta la letteratura che è seguita all’articolo di Barro si pongono in questa prospettiva. Qui preme tuttavia sottolineare che la grande varietà di conclusioni raggiunte da chi ha affrontato questo problema dipende, assai di frequente, da modificazioni spesso inconsapevoli dei concetti utilizzati di onere, generazione, carattere perfetto o imperfetto dei mercati, presenza o assenza di motivi altruistici, di incertezza, ecc. L’analisi micro ora ricordata ci aiuta a capire che il confronto tra prestito e imposta può in realtà essere visto come il confronto tra due tipi di imposte: un’imposta straordinaria una tantum e un’imposta ordinaria perpetua (per il servizio del prestito) il cui valore attuale è identico alla prima.

Seguiamo ancora l’esposizione del Funding System. Poche righe più avanti Ricardo ritorna su un problema di tipo macroeconomico: gli effetti del prestito e dell’imposta sull’accumulazione.

Se ad un individuo si chiede di pagare 1.000 di imposta, è probabile che si dia da fare per

risparmiare un’eguale somma del proprio reddito; forse non si comporterebbe nello stesso modo [...] se lo stato fosse ricorso al prestito per il quale l’individuo sarebbe chiamato a pagare solo 50 di imposte sul reddito. Le imposte di guerra sono quindi più convenienti (economical), perché una volta pagate stimolano il risparmio e non lasciano quindi impoverire il capitale della nazione.

Questa considerazione, ripresa negli anni ’40 da Borgatta, costituirà il cuore

dell’analisi di Modigliani del 1963, successivamente generalizzata da Diamond nel 1965. Si noti però che questa preferenza per l’imposta è giustificata sulla base di un concetto di onere ancora diverso. Il prestito è più oneroso perché rallenta l’accumulazione. La breve esposizione dei principali spunti contenuti nell’analisi di Ricardo, di straordinaria sintesi e complessità insieme, può essere riassunta in questo modo. La tesi principale è il teorema dell’equivalenza tra prestito e imposta e, conseguentemente, che l’onere del debito pubblico sia in ogni caso sostenuto dalla generazione presente.

Nell’analisi di Ricardo vengono però utilizzati tre concetti di onere, come: – trasferimento reale di potere di acquisto (analisi macro); – sacrificio del contribuente di natura soggettiva (analisi micro); – rallentamento del ritmo di accumulazione.

Nel corso dell’esposizione abbiamo sottolineato alcune qualificazioni che saranno riprese dalla letteratura successiva:

– il tema dell’illusione finanziaria; – il ruolo dell’ipotesi di ammortamento delle imposte future; – il ruolo dei lasciti intergenerazionali; – una particolare teoria del risparmio fondata sull’idea che un’imposta una

tantum elevata induca un aumento del risparmio più ampio di una successione di imposte ordinarie.

Ricardo non affronta esplicitamente l’ultima delle domande che abbiamo formulato all’inizio di questo paragrafo: il confronto tra un prestito emesso all’interno o sottoscritto da stranieri. Su questo problema le opinioni sono spesso

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state discordi. Anche in tempi recenti, alcuni studiosi hanno sostenuto che un prestito estero, a differenza di quello interno, consente di trasferire l’onere sulle generazioni future. Partendo dall’analisi «macroeconomica» ricardiana, con il prestito estero le imposte per il servizio del debito sono usate per pagare interessi che usciranno dal paese: non vi sarà quindi il «passaggio dalla mano destra alla mano sinistra». Le generazioni future, chiamate a pagare tali imposte, subiranno un vero sacrificio. Questa argomentazione contiene però un vizio logico. È vero che per le generazioni future non vi sarà la compensazione tra interessi e imposte ordinarie presente con il prestito interno, ma si deve riflettere nei due casi sulla genesi del debito. Se infatti in t0 si è utilizzato lo strumento del debito estero, l’economia nel suo complesso (lo stato e i suoi cittadini) ha potuto usufruire di un accrescimento delle proprie risorse, che non si verifica con il prestito interno. Nel caso del prestito estero le generazioni successive, ceteris paribus, avranno ereditato da quelle precedenti una ricchezza maggiore. Su questo aspetto la parola definitiva era già stata detta da M. Pantaleoni in un saggio del 1891, che non ha avuto sufficiente diffusione a livello internazionale. Egli mise in luce che ciò che rileva è l’ammontare dei trasferimenti di ricchezza che nell’uno o nell’altro caso si verificano tra generazioni successive. Le generazioni future avrebbero ragione a lamentarsi dei propri avi, solo se questi lasciassero loro in eredità un capitale insufficiente a fruttare gli interessi sul debito da versare ai sottoscrittori stranieri. Dal punto di vista teorico quindi con il debito estero si possono trasferire oneri alle generazioni successive, ma, in considerazione del ruolo significativo dei lasciti ereditari nella società in cui viviamo, si può concludere che tale caso ha scarsa rilevanza pratica.

5. I limiti del debito pubblico La tesi dell’equivalenza ricardiana potrebbe indurci a sdrammatizzare il

problema del debito pubblico: l’onere reale del debito è gia stato sopportato al momento dell’emissione; oggi si tratta solo di gestire «il passaggio dalla mano destra alla mano sinistra», vale a dire la redistribuzione tra sottoscrittori e contribuenti. Se poi, come osservava De Viti de Marco, il debito risultasse abbastanza equamente distribuito tra tutti i cittadini, non dovrebbe spaventare neppure una politica di consolidamento del debito. Lo stato potrebbe annunciare: da domani il debito è ripudiato e per un ammontare corrispondente è ridotta la pressione fiscale. Questi ragionamenti, come ci insegna Ricardo, sono però veri solo in teoria e sotto ben precise ipotesi.

Nella realtà non vi è perfetta corrispondenza tra titolari del debito pubblico e contribuenti. Una proposta di consolidamento (o «ammortamento democratico» come la chiamava De Viti) non sarebbe neutrale per ciascun soggetto. Gli uomini sono affetti da illusione finanziaria: se lo stato proponesse di bruciare le cartelle dei BTP in cambio di un equivalente sgravio fiscale, molti sarebbero indotti a pensare, a torto o a ragione, di essere stati in qualche modo raggirati dallo stato. In tema di debito pubblico la fiducia e la reputazione del debitore hanno un’importanza decisiva

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e questa considerazione è un buon punto di partenza per affrontare l’ultimo problema di questo capitolo: i limiti del debito pubblico.

Quando il debito è molto elevato e i sottoscrittori hanno la sensazione che la sua dinamica possa sfuggire dal controllo del governo, si possono determinare improvvise crisi di sfiducia che inceppano la complessa gestione del debito, caratterizzata da continue operazioni di rimborso, di rinnovo e di nuove emissioni. Il problema diventa ancora più delicato in un contesto di liberalizzazione valutaria in cui operatori stranieri possono liberamente partecipare al mercato dei titoli, entrando e uscendo con estrema rapidità. Non è il valore assoluto del debito la grandezza che può generare sfiducia. In un’economia che cresce e si sviluppa è del tutto naturale che aumenti il volume delle attività e passività finanziarie, fra le quali è compreso anche il debito dello stato. L’attenzione degli operatori spesso si concentra sul rapporto debito/PIL.

Anche con riferimento a questo indicatore, dobbiamo tuttavia dire chiaramente che non esiste alcuna teoria economica in grado di affermare che il debito pubblico debba essere in un preciso rapporto con qualche indicatore di attività economica, ad esempio il livello del reddito nazionale. Non abbiamo conoscenze abbastanza sicure per prevedere se e quando il raggiungimento di un dato rapporto tra debito pubblico e PIL dia inizio ad una crisi finanziaria. L’evidenza storica è, sotto questo profilo, molto variegata. Il rapporto debito/PIL ha assunto, in diversi paesi e in diversi periodi storici, valori che hanno superato anche tre volte il prodotto nazionale senza creare crisi finanziarie. In altre circostanze, crisi di fiducia si sono viceversa manifestate anche con rapporti debito/ PIL largamente inferiori all’unità. È però un dato di fatto che ben difficilmente saremmo disposti a consegnare i nostri risparmi al governo di uno stato in cui il rapporto debito/PIL tenda continuamente ad aumentare.

In questa situazione di estrema incertezza teorica, è tuttavia utile cercare di definire in modo chiaro le principali variabili e le relazioni tra le stesse da cui dipende la crescita del debito pubblico. Una delle analisi più importanti in questa direzione è quella, ormai non più recente, di E. Domar, del 1944, alla fine quindi di un periodo bellico, in cui, come spesso accade, si formano volumi di debito pubblico molto elevati. Domar costruisce un modello di crescita di un’economia molto semplificato di cui prende in considerazione solo alcune variabili: il reddito, il livello del tasso di interesse, lo stock del debito pubblico, il disavanzo pubblico. Fa alcune ipotesi sulla crescita del prodotto nazionale e sul livello del tasso di interesse e calcola gli effetti di lungo periodo di politiche fiscali alternative su una variabile che egli chiama «onere del debito pubblico»: il rapporto tra spesa per interessi per il servizio del debito e reddito nazionale. La ragione di tale denominazione è intuitiva: quel rapporto rappresenta quanti punti della pressione tributaria devono essere destinati al servizio del debito.

L’analisi di Domar è molto parziale, in quanto assume come dati e costanti la dinamica del reddito, il livello dei tassi di interesse e il livello dei prezzi (assenza di inflazione). Essa si limita in sostanza a simulare le conseguenze di talune politiche fiscali sulla dinamica dello stock del debito pubblico in presenza di diversi quadri macroeconomici di lungo periodo. Anche con questi evidenti limiti, il contributo di

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Domar è tuttavia illuminante per inquadrare le relazioni che intercorrono tra le principali variabili che possono influenzare la crescita del debito pubblico nel tempo.

Per una puntuale comprensione dei risultati, è indispensabile una trattazione formale, che condurremo nell’ambito di uno schema in cui il tempo è suddiviso in periodi discreti, della durata, ad esempio, di un anno. Definiamo anzitutto le variabili che verranno utilizzate nell’analisi che segue.

Yt prodotto interno lordo del periodo t; INTt interessi corrisposti alla fine del periodo t ai possessori del debito

pubblico; Bt stock del debito pubblico accumulato alla fine del periodo t; ht onere del debito pubblico, ovvero il rapporto tra spesa per

interessi sul debito, INTt, e prodotto interno nel periodo t; Dt disavanzo di bilancio creatosi nel periodo t; i tasso di interesse; Tt , Gt entrate e uscite pubbliche nel periodo t. Con riferimento a tali variabili, introduciamo le seguenti ipotesi:

a) crescita costante del prodotto interno lordo al tasso annuo n. In simboli: Yt = Yt – 1 (1 + n) ovvero Yt /Yt – 1 = 1 + n b) costanza nel tempo del tasso di interesse, i;

c) pagamento posticipato degli interessi sui titoli del debito pubblico:

INTt = i Bt – 1

d) per quanto riguarda la politica fiscale, studieremo due casi: d1) il primo caso, che svolgeremo nel prossimo paragrafo, secondo l’originaria analisi di Domar, considera un governo che realizzi ogni anno un disavanzo complessivo pari ad una percentuale costante del PIL; d2) il secondo caso, che costituisce un’estensione dell’analisi di Domar, considera un governo che intenda mantenere costante rispetto al PIL il disavanzo primario (vale a dire la differenza tra spesa al netto degli interessi ed entrate).

L’equazione fondamentale da cui prendere le mosse e che attribuisce

carattere dinamico all’analisi è quella che descrive la dinamica del debito pubblico:

[1] Bt = Bt – 1 + Dt

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Lo stock del debito pubblico alla fine del periodo t è pari allo stock del debito all’inizio del periodo più il disavanzo (un flusso) che si è formato nel corso del periodo. Ciò è mostrato con ancora maggiore evidenza nello schema che segue.

Una prima breve digressione a commento di questa equazione potrà

essere utile a qualcuno dei lettori. L’equazione [1] è dinamica, perché le variabili che in essa compaiono fanno riferimento a periodi di tempo diversi (Bt e Dt al periodo t, Bt – 1 al periodo precedente). Tale equazione, in relazione al modo discreto in cui è considerato il tempo in questo modello, costituisce un esempio di equazione alle differenze finite del primo ordine, che si possono considerare «cugine» delle equazioni differenziali. Alle differenze, perché essa può essere espressa mettendo in luce le variazioni nel tempo di una o più delle variabili che la compongono. Nel nostro caso, se sottraiamo da entrambi i lati della [1] il valore di Bt – 1, essa può essere riformulata nel seguente modo: ∆Bt = Dt, ove ∆ indica la variazione (differenza finita) tra Bt e Bt – 1. Del primo ordine, perché l’intervallo temporale massimo che compare tra le variabili è di un periodo, tra t e t – 1. Studiare un’equazione di tipo dinamico significa domandarsi che cammino temporale seguono le variabili in essa contenute (nel nostro caso, Bt e Dt); se col trascorrere del tempo queste tendono a valori costanti (soluzioni stazionarie), se tendono a valori infinitamente grandi o infinitamente piccoli, o, ancora, come può accadere, se mostrano oscillazioni cicliche nel tempo. Risolvere l’equazione significa trovare per ciascuna delle variabili un’espressione, direttamente funzione del tempo, che consenta di identificare il valore di ciascuna variabile ad un qualunque tempo t (ad esempio Bt = f(t)). Senza bisogno di conoscere le tecniche matematiche necessarie per trovare le soluzioni di questo tipo di equazioni, è sufficiente osservare che il sentiero temporale delle stesse può essere ricostruito se disponiamo dei loro valori iniziali (nel nostro caso B0 e D1). Per sostituzioni successive possiamo infatti calcolare B1 = B0 + D1 e poi B2 = B1 + D2, ecc.) e ragionare su questa successione di valori.

L’attenzione di Domar si concentra, come detto, sulla dinamica del

rapporto tra spesa per interessi e prodotto interno che possiamo scrivere:

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anche questa un’equazione alle differenze finite, per la quale valgono le stesse considerazioni fatte sopra.

5.1. Disavanzo complessivo costante Esaminiamo ora gli effetti del primo

tipo di politica fiscale, sviluppato nell’originario contributo di Domar (caso d1). In questo caso ogni anno la politica fiscale è tale da creare un disavanzo di bilancio pari ad a volte il prodotto interno lordo, vale a dire costante in rapporto al PIL.

Dt = Gt + iBt – 1 – Tt = aYt La relazione tra stock del debito e disavanzo potrà essere così scritta: Bt = Bt – 1 + Dt = Bt – 1 + aYt È ovvio che in tale ipotesi il livello assoluto del debito pubblico è

destinato a diventare infinito: ogni anno infatti si produce un disavanzo che va ad aumentare il debito. Come si è già detto, ciò non è in sé preoccupante, se allo stesso tempo anche le altre grandezze dell’economia e in particolare il livello del prodotto interno lordo tendono a crescere. Nel nostro caso abbiamo infatti supposto che il reddito cresca ogni anno al tasso costante n. I problemi sorgono se il debito tende a crescere in misura più veloce del reddito. In tal caso il rapporto tra debito e prodotto tende all’infinito e questo è sicuramente preoccupante, perché è implausibile pensare che possa permanere in una situazione di stabilità finanziaria un’economia in cui il rapporto tra uno stock finanziario e il flusso della nuova ricchezza prodotta assume valori sempre più grandi. Per queste ragioni la nostra analisi non si concentrerà sullo studio della dinamica nel tempo del livello del debito, bensì del suo rapporto rispetto al PIL.

Se dividiamo entrambi i membri della precedente equazione per Yt e indichiamo con bt il rapporto tra debito pubblico e PIL, l’espressione può essere trasformata nel modo che segue:

e infine:

Anche questa espressione, che descrive la dinamica nel tempo del

rapporto debito/PIL, è un’equazione alla differenze finite del primo ordine. Ancora una breve digressione su aspetti formali. In generale un’equazione alle

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differenze finite del primo ordine come quella appena descritta, in cui il parametro a sia costante e positivo, tende nel lungo periodo ad un valore positivo e costante di bt (possiede cioè una soluzione stazionaria, in cui cioè da un certo periodo in poi il valore di bt si mantiene sempre allo stesso livello) se il valore del coefficiente che moltiplica bt – 1 è inferiore, in valore assoluto, all’unità. La ragione è abbastanza intuitiva. Se tale coefficiente (1/(1 + n) nel nostro caso) fosse maggiore dell’unità, il valore di bt tenderebbe sicuramente ad esplodere: ogni anno aumenterebbe non solo di a, ma anche per l’effetto di ampliamento di bt indotto dal coefficiente stesso. Se invece il coefficiente è minore di uno, si avrà un esito diverso. Per afferrare il punto, ragioniamo innanzitutto nel caso in cui a sia uguale a zero. In tal caso il valore di bt sarà in generale sempre inferiore a bt – 1 e così via periodo dopo periodo. Con il passar del tempo tenderà ad un particolare valore costante, zero. Se invece a è positivo col passare del tempo tenderà ad un diverso valore, positivo ma sempre costante. Quando il valore di bt – bt – 1/(1 + n), con il crescere di bt, avrà raggiunto il valore pari ad a, da quel momento in poi bt resta costante. Per individuare quale sia questo valore, basta osservare che in tale situazione stazionaria dovrà essere bt = bt – 1, che possiamo porre pari al valore b. Se nell’equazione sostituiamo b a bt e bt – 1, e risolviamo per b troviamo il valore cercato.

Tale equazione ha una soluzione stazionaria (che possiamo chiamare anche di steady state, o di crescita costante, se ci riferiamo al tasso di crescita dei livelli delle nostre variabili Bt e Yt) se il coefficiente di bt – 1, vale a dire 1/(1 + n), è minore dell’unità. Se il tasso di crescita del prodotto nazionale è positivo, tale condizione è sempre verificata. La situazione stazionaria in cui la variabile in questione cessa di variare, e quindi bt – 1 = bt = b, sarà:

L’onere degli interessi per il debito pubblico, rapportato al PIL, sarà:

In steady state, dovrà aversi bt – 1 = b e quindi:

L’esercizio impostato da Domar conduce quindi ad una formula analitica

molto semplice. Né il rapporto debito/PIL, né il rapporto interessi passivi/PIL, nelle ipotesi fatte, tendono ad esplodere, anche se si ipotizza un bilancio

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continuamente in disavanzo. L’onere del debito, nell’accezione assunta da Domar (ht), sarà direttamente proporzionale a i e ad a e inversamente proporzionale a n. Una lezione da trarre da questo modello è che la riduzione dell’onere del debito non dipende solo dal parametro a, ma anche da i e n. Domar mise in guardia i responsabili di politica economica a non contare troppo e solo sulla riduzione di a (aumento della tassazione e/o riduzione della spesa pubblica) in quanto le misure necessarie a tale scopo avrebbero avuto l’effetto di ridurre il tasso di crescita del prodotto e quindi di frustrare, almeno parzialmente, gli obiettivi del governo.

5.2. Disavanzo primario costante Il risultato di Domar sembrerebbe

abbastanza incoraggiante: se il reddito aumenta nel tempo, il rapporto bt tenderà ad un valore finito. Nel dibattito di politica economica corrente il problema è però più complicato. Potrebbe essere difficile per un governo realizzare una politica del tipo Dt = Gt + iBt – 1 – Tt = aYt, che presuppone che, se il peso degli interessi aumenta, il governo debba compensarne la crescita riducendo il disavanzo primario. Poiché la dinamica della spesa per interessi dipende in parte dall’elevato stock di debito accumulato nel passato e in parte dalla politica monetaria (che concorre a determinare il tasso di interesse), cioè da fattori al di fuori del diretto controllo delle autorità di politica fiscale, queste sono indotte a concentrare la loro attenzione sulla componente primaria del disavanzo, che sono in grado di controllare. Dal punto di vista analitico è allora interessante domandarsi quale sarebbe la dinamica del rapporto debito/ PIL e del rapporto interessi/PIL nell’ipotesi che il governo attui una politica fiscale in cui è mantenuto costante rispetto al PIL non il disavanzo complessivo, come nel modello originario di Domar, ma solo il disavanzo primario. In questa ipotesi (caso d2) la relazione che descrive il disavanzo è:

È ovvio che per a = a′ la regola appena descritta genera una crescita del

debito più ampia, in quanto ad essa, oltre alla componente primaria, contribuisce anche la dinamica della spesa per gli interessi.

L’equazione fondamentale, che esprime la dinamica dello stock del debito pubblico, diviene in questo caso:

in cui a′ rappresenta appunto il rapporto tra disavanzo primario e PIL. In rapporto al PIL si avrà:

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Questa equazione alle differenze converge ad una soluzione stazionaria se (1 + i )/(1 + n) < 1 cioè se n > i. In steady state il rapporto debito/PIL dovrà rispettare la condizione bt = bt – 1 = b:

Le condizioni poste da questa espressione sono più stringenti di quelle

presenti nel modello originario di Domar: in questo caso un valore finito di b si può realizzare solo se il tasso di crescita dell’economia è superiore al tasso di interesse. Il permanere di i > n avrebbe come conseguenza l’esplosione del rapporto debito/PIL e quindi l’inevitabile verificarsi di una crisi finanziaria. Si può dare una spiegazione intuitiva di questo risultato. Supponiamo che il disavanzo primario D2 sia nullo: in questo caso il livello del debito risulta essere Bt = (1 + i) Bt – 1, vale a dire esso cresce ad un tasso annuo pari al tasso di interesse. È chiaro che se il reddito non cresce almeno nella stessa misura del debito (cioè se n non è almeno uguale a i ) il rapporto debito/PIL è destinato a crescere. A maggior ragione se ammettiamo che D2 sia positivo si dovrà avere n > i.

L’onere del debito, secondo l’accezione di Domar, sarà:

che in steady state assumerà il valore:

Tra le varie ipotesi che stanno alla base di questo modello, una

meriterebbe di essere abbandonata: la costanza del tasso di interesse. Se il rapporto debito/PIL tende a crescere nel tempo è poco plausibile che il tasso di interesse resti immutato: prestare denaro allo stato diverrebbe infatti sempre più rischioso è ciò dovrebbe indurre questi ad offrire tassi di interesse sempre più elevati. Il controllo della dinamica del debito è quindi strettamente collegato con la formazione delle aspettative dei sottoscrittori dei titoli pubblici. In tali ipotesi se il governo mette in atto politiche di riduzione del disavanzo primario, si potranno avere rischi di caduta del tasso di crescita del PIL, ma può anche darsi che gli operatori finanziari attribuiscano maggiore fiducia al governo e che ciò si traduca in un abbassamento del «premio per il rischio» del paese considerato e in una riduzione del costo del debito. Sembra appunto questa la situazione in cui si trova il nostro paese. Politiche fiscali severe hanno l’effetto di ridurre la domanda e quindi il reddito e rendere più difficile un abbassamento del rapporto debito/PIL. D’altro canto esse possono

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avere alla fine effetti positivi se inducono una maggiore fiducia negli operatori finanziari, consentendo l’eliminazione di quel «premio per il rischio» che un investitore pretende quando deve prestare denaro ad un soggetto che è già molto indebitato. Se tale premio si abbassa, i tassi di interesse potranno diminuire e con essi la spesa per interessi, il disavanzo complessivo e quindi la crescita del debito. Molto spesso le opinioni di politica economica si dividono tra quelle di chi teme maggiormente gli effetti negativi delle politiche restrittive sulla domanda aggregata e quindi sul reddito e di chi teme maggiormente gli effetti di un innalzamento del premio per il rischio. Una risposta univoca è però impossibile, perché si tratta di indovinare quali siano gli umori dei «mercati finanziari», quale sia il momento in cui un paese stia per entrare in una fase di instabilità finanziaria. Qualora una situazione di instabilità finanziaria diventasse realtà, il problema del debito sarebbe brutalmente spazzato via da un male peggiore: l’iperinflazione, che seguirebbe necessariamente alla creazione di moneta da parte di uno stato che non riesce più a collocare sul mercato i titoli del debito pubblico.

5.3. Il saldo primario che stabilizza il rapporto debito/PIL. I due casi

esaminati nel precedenti paragrafi hanno descritto soluzioni di steady state delle equazioni che descrivono la dinamica del rapporto debito/PIL e della spesa per interessi rispetto al PIL. Nella vita concreta un sistema economico non si trova di norma in tale situazione astratta stazionaria: le politiche fiscali non restano costanti indefinitamente; i governi, quando si rendono conto che l’economia si trova su un sentiero che comporta una tendenza del rapporto debito/PIL ad esplodere (i > n), tenderanno a reagire per modificare la politica relativa alla dimensione del disavanzo primario, anche se nel breve periodo non sono in grado di influire in modo sostanziale sulla crescita del reddito e sull’andamento dei tassi di interesse. Alla ricerca di politiche fiscali in grado di tranquillizzare i sottoscrittori dei titoli pubblici, i responsabili della politica economica potranno ragionevolmente porsi l’obiettivo, quanto meno, di arrestare la crescita del rapporto debito/PIL agendo immediatamente sul disavanzo primario. Ci possiamo allora domandare, nel contesto del nostro modello, in che modo un policy maker possa determinare la misura del disavanzo primario in grado di arrestare la crescita del rapporto debito/PIL. In termini formali, con riferimento all’equazione [2], il problema può essere posto nel seguente modo: nell’anno t – 1 il rapporto debito/PIL era pari a bt – 1; che valore deve assumere a’ nell’anno t affinché bt sia pari a bt – 1?

La [2] può essere scritta:

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L’incognita del nostro problema ora è a’. Se vogliamo che bt = bt-1, ovvero che ∆bt=0 è necessario che a’ assuma il valore:

Si osserva quindi che se i > n, cioè il tasso di interesse è più elevato del

tasso di crescita, a’ dovrà essere negativo; si dovrà cioè avere un avanzo del saldo al netto degli interessi. Il contrario accade se i < n.

Il saldo primario che consente di realizzare l’arresto della crescita del rapporto debito/PIL, rappresentato dalla [3], è oggi divenuto un importante indicatore della politica fiscale. A differenza dei tradizionali indicatori di derivazione keynesiana attenti alle condizioni della domanda nel breve periodo, questo indicatore è utile per valutare le tendenze di lungo periodo della finanza pubblica di paesi caratterizzati da elevato debito pubblico e che devono impostare piani a medio termine di rientro. Confrontando infatti il valore che si ricava dalla [3] con il disavanzo primario effettivo realizzato in un dato anno, siamo in grado di valutare se il paese considerato stia o meno attuando una politica coerente con l’obiettivo di arresto della crescita del rapporto debito/PIL.