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1 Gustave Flaubert LA TENTAZIONE DI SANT’ANTONIO Alla memoria del mio amico Alfred Le Poittevin morto a La Neuville Chant-D’oisel Il 13 Aprile 1848 Tradotto da Adelio Alquà

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Gustave Flaubert LA TENTAZIONE DI SANT’ANTONIO

Alla memoria del mio amico Alfred Le Poittevin morto a La Neuville Chant-D’oisel Il 13 Aprile 1848 Tradotto da Adelio Alquà

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I

Siamo nella Tebaide, in alto ad una montagna, su una piattaforma arrotondata a mezzaluna, chiusa fra grosse pietre. La capanna dell’Eremita occupa il fondo. È fatta di fango e di canne,col tetto piatto, senza porta. Nell’interno si distinguono una brocca con un pane nero; nel mezzo, su una stele di legno, un grosso libro; a terra, qua e là, delle fibre di sparto, due o tre stuoie, un cesto, un coltello. A dieci passi dalla capanna, c’è una lunga croce piantata nel suolo; e, all’altro capo della piattaforma, una vecchia palma rattorta si sporge sull’abisso, poiché il monte è tagliato a picco, e il Nilo sembra fare un lago ai piedi della falesia. A destra e a sinistra la vista è limitata da una cinta di rocce. Ma dal lato del deserto, come spiagge che si susseguissero, delle immense ondulazioni parallele, di un biondo cenere, si distendono le une dietro le altre, sempre crescendo; poi al di là delle sabbie, molto lontano, la catena Libica forma un muro color della creta, leggermente velato da vapori violetti. In faccia, il sole tramonta. Il cielo, a nord, è di una tinta grigio perla, mentre allo zenit delle nuvole di porpora, disposte come i ciuffi di una criniera gigantesca, si allungano sulla volta blu. Quei raggi di fuoco imbruniscono, le porzioni di azzurro prendono un pallore madreperlaceo ; i cespugli, i sassi, la terra, tutto ora sembra duro come bronzo; e nell’aria fluttua una polvere d’oro talmente minuta che si confonde con le vibrazioni della luce.

SANT’ANTONIO che ha una lunga barba, lunghi capelli, e una tunica di pelle di capra, sta intrecciando delle stuoie, seduto a gambe incrociate. Appena il sole scompare, emette un gran sospiro, e guardando l’orizzonte:

Ancora un giorno! Un giorno trascorso! Eppure un tempo, non ero così disgraziato! Prima che la notte finisse iniziavo le mie orazioni; poi, scendevo al fiume in cerca d’acqua, e risalivo per l’aspro sentiero con l’otre in spalla, cantando inni. Dopo, mi dilettavo a riordinare ogni cosa nella mia capanna. Prendevo gli utensili; mi sforzavo affinché le stuoie fossero ben lisce e le ceste leggere; poiché i miei atti più umili mi sembravano allora dei compiti che non avevano nulla di penoso. Ad ore regolari lasciavo il mio lavoro; e pregando con le braccia distese, sentivo come una fontana di misericordia che si versava dall’alto del cielo nel mio cuore. E’ asciutta, ora. Perché?... Cammina nella cinta di rocce, lentamente. Tutti mi biasimavano allorché ho abbandonato la famiglia. Mia madre si accasciò morente, mia sorella da lontano mi faceva dei segni perché ritornassi; e l’altra, Ammonaria, quella fanciulla che incontravo ogni sera al bordo della cisterna, quando conduceva i suoi bufali, mi ha rincorso. Gli anelli alle sue caviglie brillavano nella polvere, e la sua tunica aperta sui fianchi fluttuava al vento. Il vecchio asceta che mi portava via le ha gridato delle ingiurie. I nostri due cammelli galoppavano senza sosta; e non ho più rivisto nessuno. Dapprima, ho scelto per dimora la tomba di un faraone. Ma, un incantesimo circolava all’interno di quei palazzi sotterranei, dove le tenebre hanno l’aspetto denso per l’antico fumo degli aromi. Dal fondo dei sarcofagi ho inteso alzarsi una voce dolente che mi chiamava; oppure, al’improvviso, vedevo vivere le cose abominevoli dipinte sui muri; e sono fuggito sulle rive del mar Rosso dentro una fortezza in rovina. Là, avevo per compagni degli scorpioni che strisciavano tra le pietre, e sopra la mia testa, delle aquile che giravano continuamente per il cielo blu. La notte, ero lacerato da artigli, pinzato da becchi, sfiorato da ali carezzevoli; e demoni spaventosi, che urlavano nelle mie orecchie, mi rovesciavano per terra. Una volta persino, m’hanno soccorso gli uomini di una carovana che andava verso Alessandria, poi m’hanno portato via con loro. Allora, ho voluto istruirmi presso il buon vegliardo Didimo. Benché fosse cieco, nessuno lo eguagliava nella conoscenza delle Scritture. Quando la lezione era finita, egli reclamava il mio braccio per passeggiare. Lo conducevo sul Paneo, da dove si rivela il Faro e il mare aperto. Successivamente ritornavamo per il porto, gomito a gomito con uomini di tutte le nazioni, persino

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con Cimmeri rivestiti di pelli d’orso, e con Gimnosofisti del Gange unti di sterco di vacca. Ma per le strade v’erano sempre tafferugli, a causa dei Giudei che si rifiutavano di pagare l’imposta, o dei sediziosi che volevano cacciare i Romani. D’altra parte la città è piena di eretici, di seguaci di Mani, di Valentino, di Basilide, di Ario, tutti che vi vogliono accaparrare per discutere e convincervi. A volte mi tornano alla mente i loro discorsi. È bene non prestarvi attenzione, il farlo confonde. Io mi sono rifugiato a Colzim; e le mie penitenze furono così grandi che non temevo più Dio. Alcuni si riunirono attorno a me per divenire anacoreti. Ho loro imposto una regola pratica, in opposizione alle stravaganze della Gnosi e alle asserzioni dei filosofi. Mi giungevano ambasciate da ogni luogo. Mi si veniva a vedere da molto lontano. Intanto il popolo torturava i confessori della fede cristiana, e la sete di martirio mi trascinò ad Alessandria. La persecuzione era cessata da tre giorni. Mentre me ne ritornavo, una marea di gente mi fermò davanti al tempio di Serapide. Si trattava, mi fu detto, di una punizione esemplare che il governatore voleva dare. Al centro del portico, in pieno sole, una donna nuda era legata contro una colonna, due soldati la battevano con un flagello; ad ogni colpo tutto il suo corpo si contorceva. Ella ha rovesciato il capo, la bocca aperta; ed oltre la folla, attraverso i suoi lunghi capelli che le coprivano il viso, ho creduto di riconoscere Ammonaria… Tuttavia…quella era più alta…e bella…prodigiosamente! Si passa le mani sul viso.

No! No! Non voglio pensarci! Un’altra volta, Atanasio mi chiamò per sostenerlo contro gli Ariani. Tutto si è limitato a degli insulti e a delle beffe. Ma, da allora in poi, egli è stato calunniato, spodestato del suo seggio, obbligato a fuggire. Dove si trova, ora? Non ne so nulla! Ci si preoccupa così poco di inviarmi delle notizie. Tutti i miei discepoli mi hanno abbandonato, Ilarione come gli altri! Aveva forse quindici anni quand’è venuto; e la sua intelligenza era così curiosa che mi tempestava di domande. Poi ascoltava con aria pensosa; e ciò di cui abbisognavo, me lo portava senza mormorare, più lesto di un capretto, d’altronde allegro da far ridere i patriarchi. Era un figlio per me! Il cielo è rosso, la terra completamente nera. Sotto le raffiche del vento strisce di sabbia si sollevano simili a giganteschi sudari, poi ricadono. In un lembo di cielo luminoso, all’improvviso, passa uno stormo di uccelli in formazione triangolare, simile ad un pezzo di metallo di cui solo i bordi fremono. Antonio li guarda.

Ah! Come vorrei seguirli! Quante volte, pure, ho contemplato con invidia i lunghi barconi, le cui vele somigliano ad ali, e soprattutto quando portavano lontano quelli che avevo accolto presso di me! Che bei momenti trascorrevamo! Quali effusioni! Nessuno mi ha dilettato più di Ammone; mi raccontava il suo viaggio a Roma, le Catacombe, il Colosseo, la pietà delle donne illustri, mille altre cose!...E non ho voluto partire con lui! Da dove viene la mia ostinazione a continuare una simile vita? Avrei fatto bene a restare con i monaci di Nitria, giacché mi supplicavano di farlo. Abitano delle celle appartate, e tuttavia comunicano tra loro. La domenica, la tromba li raduna in chiesa, dove si vedono appese tre sferze che servono per punire i delinquenti, i ladri, gli intrusi, poiché la loro disciplina è severa. Ciò nonostante, non mancano di certe delicatezze. I fedeli recano loro uova, frutta, ed anche strumenti adatti a togliere le spine dai piedi. Vi sono vigneti intorno a Pispir, quelli di Tabenna hanno una zattera per andare a cercare le provviste. Ma avrei servito meglio i miei fratelli restando semplicemente un sacerdote. Si soccorrono i poveri, si distribuiscono i sacramenti, si ha un poco d’autorità all’interno delle famiglie. D’altra parte i laici non sono tutti dannati, e non stava che a me d’essere…per esempio…grammatico, filosofo. Avrei nella mia camera una sfera di canne, sempre delle tavolette

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in mano, delle persone giovani all’intorno, e sulla mia porta, come insegna, appesa una corona di alloro. Ma v’è troppo orgoglio in quei trionfi! Meglio sarebbe stato soldato. Ero robusto ed ardito abbastanza per tendere le funi delle macchine, attraversare le foreste oscure, entrare con l’elmo in capo nelle città fumanti!...Niente, neppure, mi impediva di acquistare col mio denaro un ufficio di pubblicano per la riscossione del pedaggio di qualche ponte; e i viaggiatori mi avrebbero informato degli avvenimenti, mostrandomi nei loro bagagli una quantità di oggetti curiosi… I mercanti di Alessandria, nei giorni di festa, navigano sul ramo di Canopo e bevono vino dentro calici di loto, al suono dei tamburelli che fanno tremare le taverne lungo la riva! Al di là, degli alberi tagliati in forma di cono proteggono dal vento del sud le masserie quiete. Il tetto della grande casa s’appoggia su esili colonnette, accostate come i pali di un recinto a giorno; e attraverso quegli intervalli, il padrone, disteso su una lunga sedia, scorge intorno a lui tutti i suoi poderi, con i cacciatori nei campi di grano, il torchio dove si vendemmia, i buoi che battono la paglia. I suoi bambini giocano per terra, sua moglie si china per baciarlo. Nella lattiginosa oscurità della notte, qua e là appaiono dei musi aguzzi, con delle orecchie diritte e degli occhi brillanti. Antonio cammina verso loro. Scivola del pietrisco, le bestie fuggono via. Era un branco di sciacalli. Solo uno s’è fermato; si tiene su due zampe, con il corpo a semicerchio e la testa obliqua, in una posa piena di diffidenza.

Com’è grazioso! Vorrei passare la mia mano sul suo dorso, dolcemente. Antonio fischia per farlo venire. Lo sciacallo scompare.

Ah, se ne va a raggiungere gli altri! Che solitudine! Che noia! Ridendo amaramente:

È una gran bella vita questa di torcere al fuoco dei bastoni per farne bacchette di vimini, e di intrecciare canestri, di cucire stuoie, poi di scambiare tutto ciò con i Nomadi in cambio di un pane che vi spezza i denti! Ah, me disgraziato! E questo per sempre! Sarebbe meglio morire! Non ne posso più! Basta! Basta! Pesta i piedi, e gira in mezzo alle rocce con passo sostenuto, poi si ferma col fiato corto, scoppia in singhiozzi e si stende per terra su di un fianco. La notte è calma; palpitano numerose stelle; non si ode che lo stridore delle tarantole. Le due braccia della croce formano un’ombra sulla sabbia; Antonio, che piange, la scorge. Sono alquanto debole, mio Dio! Coraggio, alziamoci! Entra nella capanna, scopre un tizzone nascosto, accende una torcia e la fissa sulla stele di legno, in modo da illuminare il grosso libro.

Se prendessi… la Vita degli Apostoli?... Si!... non importa dove!

“ Egli vide il cielo aperto con una gran tovaglia che scendeva tenuta per i quattro angoli, nella

quale c’erano tutte le specie di animali terrestri e di bestie selvagge, di rettili e di uccelli; e una

voce gli disse: Pietro, alzati! Uccidi, e mangia! ”

Dunque il Signore voleva che il suo apostolo mangiasse di tutto?... mentre io… Antonio resta immobile col mento sul petto. Il fruscio delle pagine, che il vento agita, gli fa sollevare la testa, e legge:

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“ I Giudei uccisero con la spada tutti i loro nemici e ne fecero grande strage, di modo che

disposero a loro piacere di coloro che odiavano. ”

Segue l’enumerazione degli uomini da loro uccisi: settantacinquemila. Avevano patito tanto! D’altra parte, i loro nemici erano i nemici del vero Dio. E quanto dovevano gioire a vendicarsi, massacrando degli idolatri! La città senza dubbio traboccava di morti! Ve n’erano all’entrata dei giardini, sulle scalinate, ad una tale altezza nelle stanze che le porte non potevano più girare!...Ma ecco che sprofondo in pensieri di sangue e di morte! Apre il libro in un altro punto.

“ Nabucodonosor si prosternò col viso a terra e adorò Daniele. ”

Ah, bene! L’Altissimo esalta i suoi profeti al di sopra dei re; quello però viveva nei festini, sempre ebbro di delizie e di orgoglio. Ma Dio, per punizione, l’ha mutato in bestia. Camminava a quattro zampe! Antonio si mette a ridere; e allungando le braccia, con la punta delle dita, scompiglia i fogli del libro. I suoi occhi cadono su questa frase:

“ Ezechia fu molto contento della loro venuta. Mostrò loro i suoi profumi, il suo oro e il suo

argento, tutti gli aromi e gli oli odorosi, tutti i suoi vasi preziosi, e quanto si trovava nei suoi

tesori. ”

Mi immagino…che si vedessero ammucchiate fino al soffitto delle pietre fini, dei diamanti, delle dariche. Un uomo che ne possiede una così gran quantità non è più come gli altri. Maneggiando quelle ricchezze, medita che tiene fra le mani il risultato di una quantità innumerevole di sforzi, e come la vita dei popoli che egli avrebbe succhiata e che può disperdere. Questa è una cautela utile ai re. Il più saggio di tutti non l’ha tralasciata. Le sue flotte gli portavano avorio, scimmie…Dove si trova questo passo? Egli sfoglia vivacemente il libro. Ah, ecco qua: “ La regina di Saba, che conosceva la gloria di Salomone, venne a tentarlo, proponendogli degli

enigmi. ”

Come sperava di tentarlo? Il Diavolo ha pur voluto tentare Gesù! Ma Gesù ha trionfato perché era Dio, e Salomone grazie forse alla sua sapienza di mago. Quella scienza è sublime! Poiché il mondo – è così che un filosofo me l’ha spiegato – forma un insieme di cui tutte le parti influiscono le une sulle altre, come gli organi di un solo corpo. Si tratta di conoscere le attrazioni e le repulsioni naturali delle cose, poi di metterle in gioco?...Si potrebbe dunque modificare ciò che sembra essere l’ordine immutabile? In quel momento le due ombre disegnate dietro lui dalle braccia della croce si proiettano in avanti. Formano come due grandi corna; Antonio grida:

Aiuto, mio Dio! L’ombra ritorna al suo posto.

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Ah…era un’illusione! Nient’altro! E’ inutile che sto a tormentarmi l’anima! Non devo fa niente!...assolutamente niente! Si mette seduto e incrocia le braccia.

Tuttavia…avevo creduto sentire l’approssimarsi…Ma perché verrebbe? D’altra parte, le sue astuzie mi sono note! Ho respinto il mostruoso anacoreta che mi offriva, ridendo, dei piccoli pani caldi, il centauro che tentava di prendermi sulla sua groppa – e quel bimbo nero apparso tra le sabbie, bellissimo, che mi ha dichiarato essere lo spirito della fornicazione. Antonio cammina avanti e indietro, a passo sostenuto.

È per mio ordine che è stata edificata quella moltitudine di santi eremi, pieni di monaci che portano il cilicio sotto le loro pelli di capra, tanto numerosi da poterci fare un’armata! Ho guarito da lontano dei malati; ho attraversato il fiume in mezzo ai coccodrilli; l’imperatore Costantino mi ha scritto tre lettere; Balacius, che aveva sputato sulle mie, è stato sbranato dai suoi cavalli; il popolo di Alessandria, quando sono ricomparso, si batteva per vedermi, e Atanasio m’ha riaccompagnato sulla strada. Ma quant’altre opere ancora! È da più di trent’anni che sto nel deserto a gemere ognora! Ho portato sulle mie reni ottanta libbre di bronzo come Eusebio, ho esposto il mio corpo alle punture degli insetti come Macario, sono rimasto cinquantatre notti senza chiudere occhio come Pacomio; e coloro che vengono decapitati, attanagliati o bruciati hanno meno merito, forse, poiché la mia vita è un continuo martirio! Antonio rallenta il passo. Certamente, non v’è nessuno che vive in così grave indigenza! I cuori caritatevoli sono sempre meno. Non mi si dona più nulla. Il mio mantello è logoro. Non ho sandali, neppure una scodella! Giacché ho distribuito ai poveri e alla mia famiglia tutti i miei beni, senza trattenere un obolo. Per procurarmi gli utensili indispensabili al mio lavoro, mi occorrerebbe un po’ di denaro. Oh, non molto! Appena una piccola somma…L’amministrerei con parsimonia. I Padri di Nicea, vestiti di porpora, stavano come magi, assisi sui troni disposti lungo i muri; li si è festeggiati con un lauto banchetto, colmandoli di onori, soprattutto Pafnuzio, poiché è cieco di un occhio e zoppo, dopo la persecuzione di Diocleziano! L’Imperatore in più occasioni gli ha baciato l’occhio accecato; che sciocchezza! Del resto, il Concilio aveva dei membri così infami! Un vescovo di Scizia, Teofilo; un altro di Persia, Giovanni; un guardiano di bestiame, Spiridione! Alessandro era troppo vecchio. Atanasio avrebbe dovuto mostrare maggior condiscendenza verso gli Ariani, per ottenerne delle concessioni! Ne avrebbero fatte! Non hanno voluto ascoltarmi! Quello che parlava contro di me – un giovanottone dalla barba crespa – mi lanciava, senza scomporsi, delle obiezioni capziose; e, mentre cercavo le parole, stavano a guardarmi con i loro volti cattivi, abbaiando come iene. Ah, potessi farli esiliare tutti dall’imperatore, o meglio ancora percuoterli, schiacciarli, farli soffrire! Soffro bene anch’io! Si appoggia, venendo meno, contro la capanna.

È che ho digiunato troppo! Le forze mi abbandonano. Se mangiassi…una volta soltanto, un boccone di carne cotta. Socchiude gli occhi, con languore. Ah, della carne rossa…un grappolo d’uva da mordere!...Del latte cagliato che tremula su di un piatto!...

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Ma cosa mi succede, dunque!…Cosa mi succede!...Sento il mio cuore ingrossare come il mare quando si gonfia prima di un temporale. Mi opprime una mollezza infinita, e il vento caldo mi sembra trasportare il profumo di una chioma. Nel frattempo, è forse sopraggiunta una donna? Si volge verso il sentiero fra le rocce.

È da là che arrivano, dondolate nelle loro lettighe dalle nere braccia degli eunuchi. Scendono, e congiungendo le loro mani cariche di anelli, si inginocchiano. Mi raccontano le loro inquietudini. Il bisogno di un godimento soprannaturale le tortura; vorrebbero morire, in sogno hanno visto degli Dei che le chiamavano – e l’orlo della loro veste cade sui miei piedi. Io le respingo. “ Oh! No, dicono, non ancora! Cosa devo fare? ” Sarebbero disposte a tutte le penitenze. Domandano le più rudi, di condividere le mie, di vivere con me. È da gran tempo che non ne vedo! Può essere che ne stia venendo una? Perché no? Se all’improvviso…sentissi risuonare nella montagna dei sonagli di mulo. Mi sembra… Antonio arrampica su una roccia all’entrata del sentiero; si sporge, lanciando il suo sguardo nelle tenebre.

Si! Laggiù, in fondo, si agita una massa, come della gente che cerca il cammino. Ella è là! Stanno sbagliando. Chiamando:

Da questa parte! Vieni! Vieni! L’eco ripete: Vieni! Vieni! Egli lascia cadere le braccia, stupefatto.

Che vergogna! Ah, povero Antonio! E immediatamente, sente bisbigliare: “Povero Antonio!”

C’è qualcuno? Rispondete! Il vento che passa negli intervalli delle rocce produce delle modulazioni; e nelle loro sonorità confuse,egli distingue delle voci come se l’aria parlasse. Sono basse, e insinuanti, sibilanti. LA PRIMA Vuoi delle donne? LA SECONDA Una gran quantità di denaro, piuttosto! LA TERZA Una spada lucente? E LE ALTRE - Tutto il popolo ti ammira! - Dormi! - Li scannerai, coraggio, li scannerai!

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Nello stesso tempo, gli oggetti si trasformano. Sul bordo della falesia,la vecchia palma, col suo cespo di foglie gialle, diventa il busto di una dona china sull’abisso, con i folti capelli che ondeggiano. ANTONIO si gira verso la capanna; e lo sgabello che sostiene il grosso libro, con le sue pagine piene di lettere nere, gli pare un arbusto coperto di rondini. Senza dubbio è la torcia, che facendo un gioco di luce…Spegniamola! La spegne, l’oscurità è profonda. E, improvvisamente, nell’aria trascorrono, prima una pozza d’acqua, poi una prostituta, l’angolo di un tempio, una figura di soldato, un carro con due cavalli bianchi che si impennano. Queste immagini arrivano bruscamente, a scosse, stagliandosi sulla notte come pitture di scarlatto sull’ebano. Il loro moto si accelera. Sfilano vertiginosamente. A volte si arrestano e impallidiscono gradatamente, si fondono; oppure, si dileguano, e ne arrivano immediatamente altre. Antonio chiude gli occhi. Esse si moltiplicano, lo circondano, l’assediano. Lo invade uno spavento indicibile; e non sente nient’altro che una contrazione bruciante all’epigastro. Malgrado il tumulto della sua testa, percepisce un gran silenzio che lo separa dal mondo. Si sforza di parlare: impossibile! È come se ciò che tiene unito il suo essere si dissolvesse; e, non resistendo più, Antonio cade sulla stuoia.

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II

Allora una grande ombra, più sottile di un’ombra naturale, adorna lungo i suoi bordi di altre ombre, si disegna sul terreno. È il Diavolo, appoggiato coi gomiti contro il tetto della capanna, che tiene sotto le sue due ali – come un gigantesco pipistrello che allatta i suoi piccoli – i Sette Peccati Capitali, dei quali si possono intravvedere confusamente i volti che fanno delle smorfie. Antonio, gli occhi sempre chiusi, gode della propria inerzia; e distende le sue membra sulla stuoia. Gli sembra sempre più confortevole, tanto che si ammorbidisce, si solleva, diviene un letto, questo una scialuppa; dell’acqua rumoreggia lungo i suoi fianchi. A destra e a sinistra si alzano due lingue di terra nera che dominano dei campi coltivati, punteggiati di sicomori. Un brusio di sonagli, di tamburi e di canti risuona in lontananza. È della gente che se ne va a Canopo a dormire sul tempio di Serapide per avere dei sogni. Antonio lo sa; e scivola, spinto dal vento, tra i due argini del canale. Le foglie dei papiri e i fiori rossi delle ninfee, più grandi che un uomo, si chinano su di lui. È disteso sul fondo della barca; un remo, dietro, si trascina nell’acqua. Di tanto in tanto arriva un soffio tiepido, e le esili canne si urtano. Il mormorio delle piccole onde si attenua. Si assopisce. Sogna di essere un eremita d’Egitto. Allora si rialza di soprassalto.

Ho sognato?...era così nitido che ne dubito. Mi arde la lingua! Ho sete! Entra nella capanna, e tasta a caso ovunque.

Il suolo è umido!...Ha piovuto? Veh…dei cocci! La mia brocca rotta!...ma l’otre? La trova.

Vuota! Completamente vuota! Per scendere fino al fiume, mi ci vorrebbero almeno tre ore, e la notte è così profonda che non vedrei dove vado. Il mio stomaco reclama. Dov’è il pane? Dopo avere cercato a lungo, raccatta una crosta non più grossa di un uovo.

Come? L’avranno preso gli sciacalli? Ah, maledizione! E, furente, scaglia il pane per terra. Appena fatto quel gesto, davanti a lui compare una tavola imbandita con ogni sorta di buone cose da mangiare. La tovaglia di bisso, striata come le modanature delle sfingi, produce delle vibrazioni luminose. Sopra vi sono enormi quarti di carni rosse, grandi pesci, uccelli con tanto di piume, quadrupedi con la loro pelliccia, frutti d’una colorazione quasi umana; e pezzi di ghiaccio bianco e boccali di cristallo violetto si rimandano luccichii. Antonio distingue nel mezzo della tavola un cinghiale che fuma da tutti i suoi pori, con le zampe sotto il ventre, gli occhi semichiusi; e il pensiero di poter mangiare quella formidabile bestia lo rallegra estremamente. Poi ci sono delle cose che non ha mai viste, degli ammorsellati neri, gelatine color dell’oro, intingoli dove galleggiano funghi come i nenufari sulle acque stagnanti, mousse così leggere da somigliare a nuvole. E l’aroma di tutto ciò gli porta l’odore salato dell’Oceano, la frescura delle fonti, il gran profumo dei legni. Dilata le sue narici quanto può; sbava; si dice che ne ha per un anno, per dieci anni, per la vita intera! A mano a mano che percorre con gli occhi sgranati le vivande, altre se ne accumulano, formando una piramide i cui spigoli crollano. I vini scorrono, i pesci palpitano, il sangue nei piatti ribolle, la polpa dei frutti gli si accosta come le labbra di un’ amante; e la tavola sale fino al suo petto, fin sotto il suo mento, reggendo un solo piatto e un solo pane, che si trovano giusto in faccia a lui. Sta per afferrare il pane. Ne appaiono altri. Per me!... tutti! Ma…

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Antonio indietreggia.

Ce n’era uno, ed ecco che invece… È un miracolo allora, lo stesso che fece il Signore!... A che scopo? Eh, tutto il resto non è meno incomprensibile! Ah, Demonio! Vattene! Vattene! Da un calcio alla tavola. Quella scompare.

Sparito tutto? No! Respira profondamente.

Ah, la tentazione era forte! Ma ho saputo liberarmene! Solleva il capo, e inciampa contro un oggetto sonoro. Cosa c’è ora? Antonio si china.

Guarda! Una coppa! Qualcuno, un viandante, l’avrà perduta. Niente di straordinario… Inumidisce il dito, e la sfrega.

Brilla! Del metallo! Tuttavia, non distinguo… Accende la torcia, ed esamina la coppa.

È d’argento, ornata d’ovuli sul bordo, con una medaglia sul fondo. Fa saltare la medaglia con un colpo d’unghia.

È una moneta che vale…da sette a otto dracme; non di più! Poco importa! Con questa, potrei ben procurarmi un poco di pecora. Un riflesso della torcia illumina la coppa.

Non è possibile! D’oro! Si!...tutta d’oro! Un altra moneta, più grande, si trova sul fondo. Sotto questa, ne scopre molte altre. Ma è una somma… abbastanza grossa per acquistare tre buoi… un piccolo campo! Ora la coppa è piena di monete d’oro.

Eh via! Cento schiavi, dei sodati, una folla, di che comprare… Le granulazioni del contorno, distaccandosi, formano una collana di perle.

Con questo gioiello si potrebbe comprare anche la moglie dell’Imperatore! Con una scossa, Antonio fa scivolare la collana sul suo polso. Tiene la coppa con la mano sinistra, e con l’altro braccio alza la torcia per illuminarla meglio. Come l’acqua che sgorga da una vasca, si versano a fiotto continuo – tanto

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da formare un monticello sulla sabbia - diamanti, rubini e zaffiri confusi a grandi monete d’oro che portano impresse delle effigi di re.

Come? Come? Stateri, sicli, dariche, ariandiche! Alessandro, Demetrio, i Tolomei, Cesare! Ma nessuno di questi ne aveva altrettante! Più niente di impossibile! Fine dei patimenti! E questi raggi che mi abbagliano! Ah, il mio cuore trabocca! È un a meraviglia! Si, si!... ancora! Mai abbastanza! Potrei gettarne in mare continuamente, me ne resterebbe sempre. Perché buttarne? Custodirò tutto; senza dirlo a nessuno; mi farò scavare una camera nella roccia, foderata internamente con lamine di bronzo – e mi ci recherò per sentire le pile d’oro sprofondare sotto i miei talloni; vi tufferò le mie braccia come nei sacchi di grano. Voglio strofinarmene il volto, dormirci sopra. Lascia la torcia per abbracciare il mucchio, e cade per terra bocconi. Si rialza. Lo spazio intorno è interamente vuoto.

Cos’ho mai fatto? Se fossi morto in quel momento, era l’inferno! Irrevocabilmente l’inferno! Trema con tutto il corpo. Sono dunque dannato? Eh no! La colpa è mia! Cado in tutte le trappole! Non si può essere più imbecilli e più infami. Vorrei battermi, o meglio strapparmi dal mio corpo! È da troppo tempo che mi reprimo! Ho bisogno di vendicarmi, di colpire, di uccidere; è come se avessi dentro me un branco di bestie feroci. Vorrei, a colpi d’ascia, nel mezzo d’una folla… Ah, un pugnale!... Si getta sul suo coltello, che scorge. Il coltello gli sfugge di mano, e Antonio resta appoggiato di fianco contro il muro della capanna, la bocca spalancata, catalettico. Tutto ciò che l’attorniava è sparito. Si crede ad Alessandria sul Paneo, una collina artificiale circondata da una scala a chiocciola, che si innalza nel centro della città. Di fronte a lui si stende il lago Mareotide, a destra il mare, a sinistra la campagna, e, immediatamente sotto i suoi occhi, una confusione di tetti piatti, attraversata da sud a nord e da est a ovest da due strade che si incrociano e che formano per tutta la loro lunghezza una fila di portici a capitelli corinzi. Le case che sporgono sopra quel doppio colonnato hanno finestre con vetri colorati. Alcune, all’esterno, sostengono delle enormi gabbie di legno, nelle quali si ingolfa l’aria proveniente dall’esterno. Monumenti di architetture diverse si ammucchiano gli uni presso gli altri. Piloni egizi dominano dei templi greci. Obelischi spuntano come lance tra merlature di mattoni rossi. Nel mezzo delle piazze ci sono Ermes dalle orecchie aguzze e Anubi con la testa di cane. Antonio distingue mosaici nei cortili, e tappeti appesi alle travi dei soffitti. Egli abbraccia con un solo colpo d’occhio i due porti ( il Porto Grande e l’Eunosto ), entrambi rotondi come due circhi, e separati da un molo che unisce Alessandria alla dirupata isoletta sulla quale si alza la torre del Faro, quadrangolare, alta cinquecento cubiti e a nove piani, sulla cui sommità fuma un ammasso di carboni neri. Dei piccoli porti interni suddividono i porti principali. Il molo, a ciascun capo, termina con un ponte che poggia su colonne di marmo piantate nel mare. Delle vele vi passano sotto; e pesanti gabarre stracolme di mercanzie, navi thalamegos con intarsi d’avorio, gondole coperte da un piccolo riparo di tela, triremi e biremi, insomma ogni sorta di imbarcazioni, circola o staziona lungo le banchine. Attorno al Porto Grande, c’è una sfilata ininterrotta di costruzioni reali: il palazzo dei Tolomei, il Museo, il Posidium, il Cesareum, il Timonium ove si rifugiò Marco Antonio, il Soma che contiene la tomba di Alessandro; mentre all’altro capo della città, presso l’Eunosto, in un sobborgo, si scorgono le fabbriche di vetro, di profumi e di papiri. Venditori ambulanti, facchini, conducenti d’asini, corrono, si urtano. Qua e là, un sacerdote di Osiride con una pelle di pantera sulla spalla, un soldato romano con un casco di bronzo, molti negri. Sulla soglia delle botteghe si soffermano delle donne, degli artigiani lavorano; e il cigolio dei carri fa alzare in volo gli uccelli che mangiano per terra gli avanzi delle macellerie e i resti di pesce.

Sulla monotonia delle case bianche, il disegno delle strade proietta un reticolato nero. I mercati colmi di erbe, vi formano come boschetti verdi, i seccatoi dei tintori chiazze colorate, gli ornamenti d’oro sul frontone dei templi punti luminosi, tutto ciò all’interno della cinta ovale di mura grigiastre, sotto la volta blu del cielo, vicino al mare immobile.

Ma la folla si ferma e guarda verso Occidente, da dove avanzano enormi vortici di polvere. Sono i monaci della Tebaide, vestiti di pelli di capra, armati di randelli, urlando un cantico religioso e guerresco con questo ritornello: “Dove sono? Dove sono?” Antonio capisce che vengono per uccidere gli Ariani. Improvvisamente le strade si vuotano, e non si vede altro che un gran fuggi fuggi.

12

Gli Eremiti ora sono dentro la città. I loro terribili bastoni, irti di chiodi, volteggiano come soli d’acciaio. Si sente il fracasso delle suppellettili frantumate nelle case. Ci sono intervalli di silenzio. Poi si levano degli alti gridi. Da un capo all’altro delle strade, è una corrente continua di popolo atterrito. Molti portano delle picche. A volte, due gruppi si incontrano, ne formano uno; e quella massa scorre sul lastricato, si separa, si avventa. Ma sempre gli uomini dai lunghi capelli riappaiono. Fili di fumo sfuggono dagli angoli degli edifici. I battenti delle porte vanno in pezzi. Ali di mura crollano. Soffitti si abbattono. Antonio ritrova tutti i suoi nemici uno vicino all’altro. Ne riconosce di quelli che aveva dimenticati; prima di ucciderli, li oltraggia. Sventra, sgozza, ammazza, trascina i vecchi per la barba, schiaccia i fanciulli, colpisce i feriti. Ci si vendica del lusso; quelli che non sanno leggere, stracciano i libri; altri fracassano, rovesciano le statue, i dipinti, i mobili, i cofanetti, mille raffinatezze delle quali ignorano l’uso e che, a causa di ciò, li esasperano. Di tanto in tanto, s’arrestano a corto di fiato, poi ricominciano. Gli abitanti, rifugiati nei cortili, gemono. Le donne alzano al cielo i loro occhi in lacrime e le loro braccia nude. Per commuovere gli Eremiti, li abbracciano alle ginocchia; quelli le atterrano e il sangue sprizza fino ai soffitti, ricade come una cortina lungo le pareti, ruscella dal tronco dei cadaveri decapitati, riempie gli acquedotti, forma per terra delle larghe pozze rosse. Antonio ne ha fino ai garretti Ci marcia dentro; ne assapora le goccioline sulle sue labbra e trasale di gioia nel sentirlo contro le sue membra, sotto la sua tunica di pelo, che ne è zuppa. Viene la notte. L’immenso clamore si quieta. Gli Eremiti sono scomparsi. Di colpo, sulle gallerie esterne che orlano i nove piani del Faro, Antonio scorge delle grosse linee nere come fossero dei corvi immoti. Vi accorre, e si trova sulla cima. Un grande specchio di rame, rivolto verso il mare aperto, riflette i navigli che sono al largo. Antonio si diletta a guardarli; e a misura che li guarda, il loro numero aumenta.

Sono ammucchiati in un golfo che ha la forma di una mezzaluna. Dietro, su un promontorio, si distende una città nuova di architettura romana, con delle cupole di pietra, dei tetti conici, dei marmi rosa e blu, ed una profusione di bronzo applicato alle volute dei capitelli, al colmo delle case, agli angoli delle cornici. La domina un bosco di cipressi. Il colore del mare è più verde, l’aria più fredda. Sulle montagne all’orizzonte, c’è la neve. Antonio sta cercando la strada, quando un uomo lo avvicina e gli dice: “Venite! Siete atteso!” Attraversa una piazza, entra in una corte, si china sotto l’architrave di una porta; ed arriva davanti la facciata di un palazzo, decorato da un gruppo in cera che rappresenta l’imperatore Costantino nell’atto di atterrare un dragone. Una vasca di porfido regge nel centro una conchiglia in oro colma di pistacchi. La sua guida gli dice che ne può prendere. Egli ne prende. Poi è come perso in una successione di appartamenti. Si vedono lungo i muri mosaici raffiguranti generali che offrono all’Imperatore sul palmo della mano delle città conquistate. E ovunque, ci sono colonne di basalto, grate in filigrana d’argento, seggi d’avorio, tappezzerie ornate di perle. La luce cade dalle volte. Antonio continua a camminare. Circolano delle esalazioni tiepide; a volte, ode il ticchettio discreto di un sandalo. Appostati nelle anticamere, dei guardiani, che somigliano ad automi, tengono sulle loro spalle bastoni d’argento dorato. Infine, si trova sull’entrata di un salone, chiuso, sul fondo, da tende di giacinto. Il cortinaggio si scosta, e scopre l’Imperatore, seduto sopra un trono, vestito di una tunica violetta e calzato di stivaletti rossi a bande nere. Un diadema di perle incorona la sua capigliatura acconciata in pieghe simmetriche. Ha le palpebre cadenti, il naso diritto, la fisionomia pesante e sorniona. Negli angoli del baldacchino disteso sopra la sua testa vi sono quattro colombe d’oro, e ai piedi del trono due leoni di maiolica accovacciati. Le colombe si mettono a cantare, i leoni a ruggire. L’imperatore rotea gli occhi. Antonio avanza; e immediatamente, senza preamboli, si raccontano degli avvenimenti. Nelle città di Antiochia, di Efeso e di Alessandria, sono stati saccheggiati i templi e con le statue degli dei si son fatte pentole e marmitte; l’Imperatore ne ride assai, Antonio gli rimprovera la sua tolleranza verso i Novaziani. Ma l’Imperatore si adira; Novaziani, Ariani, Meleziani, lo annoiano tutti. Tuttavia ammira l’episcopato, poiché essendo i cristiani soggetti ai vescovi, che a loro volta dipendono da cinque o sei personaggi, si tratta di conquistare questi per avere dalla propria parte tutti gli altri. Così egli non ha mancato di fornir loro delle considerevoli somme. Però detesta i Padri del Concilio di Nicea. “Andiamo a vederli!” Antonio lo segue. E si ritrovano su una terrazza allo stesso piano. Domina un ippodromo pieno di gente, sormontato da portici dove passeggia il resto della folla. Al centro del campo di corse si stende una stretta piattaforma, sulla quale stanno allineati un piccolo tempio di Mercurio, la statua di Costantino, tre serpenti di bronzo intrecciati e, ad uno dei capi, delle grosse uova in legno, all’altro sette delfini con la coda sollevata. Dietro il padiglione imperiale, i Prefetti degli appartamenti, i Conti dei domestici e i Patrizi si incolonnano fino al primo piano di una chiesa, tutte le finestre della quale sono stipate di donne. A destra c’è la tribuna della fazione blu; a sinistra quella della verde, di sotto un picchetto di soldati, e a livello dell’arena, una fila di archi corinzi formano l’entrata delle logge.

13

Le corse stanno per cominciare, i cavalli si allineano. Degli alti pennacchi, fissati tra le loro orecchie, dondolano al vento come alberi; e,i cavalli, scalpitando, scuotono dei carri a forma di conchiglia, guidati da cocchieri rivestiti di una sorta di corazza multicolore, con le maniche strette ai polsi e larghe di braccia, le gambe nude, la barba folta, i capelli rasati sulla fronte alla moda degli Unni. In un primo momento Antonio è assordato dallo strepito delle voci. Da cima a fondo, non scorge che volti imbellettati, abiti screziati, ornamenti d’oreficeria; e la sabbia dell’arena, bianchissima, brilla come uno specchio. L’imperatore lo intrattiene. Gli confida cose importanti, segrete, gli confessa l’assassinio di suo figlio Crispo, gli chiede persino dei consigli per la sua salute. Frattanto Antonio ravvisa degli schiavi sul fondo delle logge. Sono i Padri del Concilio di Nicea, coperti di spregevoli stracci. Il martire Pafnuzio spazzola la criniera di un cavallo, Teofilo lava le gambe di un altro, Giovanni colora gli zoccoli di un terzo, Alessandro raccoglie dello sterco in una cesta. Antonio passa fra loro. Essi fanno ala, lo pregano di intercedere, gli baciano le mani. Tutta la folla li fischia; ed egli gioisce smisuratamente della loro degradazione. Eccolo divenuto uno dei grandi della Corte, confidente dell’Imperatore, primo ministro! Costantino gli posa il suo diadema sulla fronte. Antonio non lo rifiuta, trovando quell’onore del tutto naturale. E ben presto si rivela sotto le tenebre un salone immenso, illuminato da candelabri d’oro. Delle colonne, che si perdono nell’ombra tanto sono alte, vanno allineandosi alla fila delle tavole che si prolunga all’esterno fino all’orizzonte, dove appaiono in un vapore luminoso sovrapposizioni di scale, fughe di arcate, colossi, torri e, dietro, un vago profilo di palazzi che oltrepassano dei cedri, formando delle masse più nere contro l’oscurità. I convitati, coronati di violette, si appoggiano col gomito su dei divani. Lungo quelle due file, delle anfore inclinate dai servi versano vino; e proprio in fondo, solo, con una tiara sul capo e ricoperto di rubini, mangia e beve il re Nabucodonosor. Alla sua destra e alla sua sinistra, due teorie di sacerdoti dalle alte cuffie dondolano degli incensieri. Per terra, sotto di lui, strisciano i re prigionieri privi di mani e di piedi, ai quali egli getta ossi da rosicchiare; più sotto stanno i suoi fratelli, con una benda sugli occhi, poiché sono tutti ciechi. Un lamento ininterrotto sale dal fondo degli ergastoli. Il suono dolce e lento di un organo idraulico si alterna ai cori di voci; e si sente che tutt’intorno alla gran sala v’è una città smisurata, un oceano d’uomini i cui marosi s’infrangono contro le mura. Gli schiavi corrono portando piatti. Delle donne girano offrendo da bere, le ceste gemono sotto il peso dei pani; e un dromedario carico di otri bucate va e viene, lasciando colare dell’acqua di verbena per rinfrescare il lastricato. Alcuni domatori accompagnano dei leoni. Danzatrici, con i capelli raccolti entro una reticella, volteggiano sulle mani sputando fuoco dalle narici; giocolieri negri si esibiscono, fanciulli nudi si lanciano palle di neve, che, cadendo, si schiacciano contro le argenterie lucenti. Il clamore è così formidabile che si direbbe una tempesta, e una nuvola galleggia sul festino, tanto numerosi sono i piati fumanti e i respiri. A volte una favilla delle grandi fiaccole, strappata dal vento, attraversa la notte come una stella cadente. Il re, con un braccio, si deterge i profumi dal volto. Mangia nei vasi sacri, poi li spezza; e dentro di sé enumera le sue flotte, le sue armate, i popoli a lui soggetti. Tra poco, per capriccio, darà fuoco al palazzo con tutti i convitati. Conta di ricostruire la torre di Babele e di spodestare Dio. Antonio, da lontano, gli legge sulla fronte tutti i suoi pensieri. Essi lo penetrano, ed egli diviene Nabucodonosor. Tosto è sazio di dissolutezze e di stragi, e lo prende la voglia di rivoltarsi nell’abiezione. D’altra parte, l’avvilimento di ciò che gli uomini temono è un oltraggio fatto al loro spirito, un altro modo di sbalordirli; e siccome non v’è nulla di più spregevole d’una stupida bestia, Antonio si mette a quattro zampe sulla tavola e muggisce come un toro. Sente un dolore alla mano – un sasso, per caso, l’ha ferito – e si ritrova davanti alla sua capanna. La cinta delle rocce è vuota. Le stelle brillano. Tutto tace. Una volta di più mi sono ingannato! Perché queste cose? Vengono dai turbamenti della carne. Ah, miserabile! Si slancia nella capanna, vi prende un fascio di corde che terminano con degli uncini metallici, si denuda fino alla cintola, e alzando la testa al cielo: Accetta la mia penitenza, o mio Dio! Non disprezzarla per la sua debolezza. Fa in modo che sia acuta, prolungata, eccessiva! È tempo! All’opera! Si sferra un gran colpo vigoroso. Ahi, no, no! Nessuna pietà! Ricomincia.

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Oh! Oh! Oh! Ogni colpo mi lacera la pelle, mi spezza le membra. Mi sento bruciare orribilmente! Eh, non è terribile! Ci si abitua. Mi sembra perfino… Antonio si ferma.

Continua dunque, vigliacco! Continua! Bene! Bene! Sulle braccia, nella schiena, sul petto, contro il ventre, ovunque! Fischiate, cinghie, mordetemi, dilaniatemi! Vorrei che le gocce del mio sangue zampillassero fino alle stelle, che i colpi mi facessero scricchiolare le ossa, mi mettessero a nudo i nervi! Delle tenaglie, dei cavalletti, del piombo fuso! I martiri ne han subite ben altre! Non è vero, Ammonaria? Riappare l’ombra delle corna del Diavolo.

Avrei potuto essere legato alla colonna vicino alla tua, faccia a faccia, sotto i tuoi occhi, rispondendo ai tuoi gridi coi miei sospiri; e le nostre sofferenze si sarebbero confuse, le nostre anime mischiate. Si flagella con furia.

Tieni! Tieni! Per te! Ancora!...Ma ecco che un soave fremito percorre il mio corpo. Che supplizio! Che delizia! Sono come baci! Mi struggo fin nel profondo! Io muoio!

E vede davanti a sé, montati su degli onagri, tre cavalieri vestiti di tuniche verdi, che tengono in mano dei gigli e si

somigliano tutti nell’aspetto. Antonio si volta, e ne vede altri tre simili, su onagri uguali, nello stesso atteggiamento. Indietreggia. Allora tutti in una volta gli onagri muovono un passo e strofinano il loro muso contro di lui, cercando di

mordergli le vesti. Delle voci gridano: “Per di qua, per di qua, si trova là!” E appaiono stendardi tra le pieghe della montagna, insieme a teste di cammello dentro cavezze di seta rossa, dei muli carichi di bagagli, e donne coperte di veli gialli, montate a cavalcioni su cavalli pomellati.

Le bestie anelanti si adagiano, gli schiavi si precipitano sui pacchi, vengono srotolati dei tappeti screziati, si sciorinano per terra delle cose che brillano.

Un elefante bianco, coperto da una gualdrappa di sottili fili d’oro, viene avanti, scuotendo il pennacchio di piume di struzzo attaccato al suo frontale.

Sul suo dorso, tra cuscini di lana blu, a gambe incrociate, con le palpebre semichiuse e la testa dondolante, c’è una donna così splendidamente vestita che emana all’intorno raggi luminosi. La folla si prosterna, l’elefante piega le ginocchia, e

LA REGINA DI SABA

lasciandosi scivolare lungo la sua spalla, scende sui tappeti e avanza verso sant’Antonio. La sua veste di broccato d’oro, regolarmente adorna di falpalà di perle, di giaietti, di zaffiri, le serra il busto in uno stretto corpino, abbellito da ornamenti colorati che rappresentano i segni dello Zodiaco. Calza delle pianelle molto alte, delle quali una è nera e punteggiata di stelle d’argento con una falce di luna, e l’altra, è bianca e ricoperta di goccioline d’oro con un sole nel mezzo. Le larghe maniche guarnite di smeraldi e di piume d’uccello, lasciano vedere nudo il suo piccolo braccio rotondo, ornato al polso di un braccialetto d’ebano, e le sue mani cariche di anelli terminano con delle unghie tanto appuntite che l’estremità delle sue dita assomiglia quasi ad un ago. Una catena d’oro piatta, passandole sotto il mento, sale lungo le sue gote, si arrotola in spirale attorno alla sua acconciatura spolverata di cipria blu, poi, ridiscendendo, le sfiora le spalle e viene ad allacciarsi sul suo petto ad uno scorpione di diamante che allunga la lingua tra i suoi seni. Due grosse perle bionde le stirano i lobi. Il bordo delle sue palpebre è dipinto di nero. Ha sullo zigomo sinistro una macchia bruna naturale; e respira spalancando la bocca come se il corsetto la stringesse più del dovuto. Camminando, agita un parasole verde col manico d’avorio, circondato da campanellini vermigli; e dodici moretti crespi portano la lunga coda della sua veste, la cui estremità è tenuta da una scimmia che di quando in quando la solleva. Ella dice:

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Ah, bell’eremita, bell’eremita! Mi vien meno il cuore! A forza di scalpitare d’impazienza, mi son venuti i calli ai piedi, ed ho rotto una delle mie unghie! Ho inviato pastori che restavano sui monti con la mano distesa davanti agli occhi, e cacciatori che gridavano il tuo nome nei boschi, e spie che percorrevano tutte le strade chiedendo ad ogni passante: “ L’avete visto? ” La notte, piangevo, col viso rivolto verso il muro. Le mie lacrime, col tempo, hanno scavato due piccole cavità nel mosaico, come due pozze d’acqua di mare negli scogli, perché ti amo! Oh, si, molto! Ella gli prende la barba.

Sorridi dunque, bell’eremita! sorridi! Io sono molto allegra, vedrai! Pizzico la lira, danzo come un’ape, e conosco un sacco di storie da raccontare, una più divertente dell’altra. Neppure immagini quanta strada abbiamo fatto. Ecco gli onagri dei verdi corrieri che sono morti di fatica! Gli onagri sono stesi per terra immobili.

Per tre lunghe lune, hanno corso con andatura eguale, con un ciottolo trai denti per tagliare il vento, la coda sempre dritta, i garretti sempre piegati, e sempre al galoppo. Non se ne troverà più di simili! Mi venivano da mio nonno materno, l’imperatore Saharil, figlio di Iakhshab, figlio di Iaarab, figlio di Kastan. Ah, se fossero ancora vivi li attaccheremmo ad una lettiga per ritornarcene presto a casa! Ma…come?...A cosa pensi? Ella lo esamina.

Ah! Quando sarai mio marito, ti vestirò, ti profumerò, ti taglierò la barba ed i capelli. Antonio resta immobile, più rigido di un palo, pallido come un morto.

Hai l’aria triste; perché devi lasciare la tua capanna? Ma io ho lasciato tutto per te – perfino il re Salomone, che pure è molto saggio, possiede ventimila carri da guerra, e una bella barba! T’ho portato i miei regali di nozze. Scegli. Ella cammina tra le file degli schiavi e le mercanzie.

Ecco del balsamo di Genèsaret, dell’incenso di capo Gardefan, del ladano, del cinnamomo, e del silfio buono da mettere nelle salse. Là dentro vi sono ricami di Assur, avori del Gange, porpora di Elisa; e quella cassa di ghiaccio contiene un otre di chalibon, vino riservato per i re di Assiria , che si beve puro in un corno di liocorno. Ecco delle collane, delle fibbie, delle reti, dei parasoli, della polvere d’oro di Baasa, del cassiteros di Tartesso, del legno blu di Pandio, delle pellicce bianche di Issedonia, dei carbonchi dell’isola Palesimondo, degli stecchini fatti con i peli del tachas – un animale frenetico che vive sotto terra. Questi cuscini sono di Emath, e quelle frange da mantello di Palmira. Su questo tappeto di Babilonia, c’è…ma vieni dunque, vieni! Tira sant’Antonio per la manica. Egli fa resistenza. Ella continua:

Questo fine tessuto,che scricchiola sotto le dita con un rumore di scintille, è la famosa tela gialla portata dai mercanti dalla Battriana. Han bisogno di quarantatre interpreti durante il loro viaggio. Te ne farò fare di vesti, che metterai quando saremo a casa. Premete i ganci della custodia di sicomoro, e datemi la cassetta d’avorio che è al garrese del mio elefante!

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Da una cassa viene estratto qualcosa di rotondo avvolto in un velo, e le viene portato un piccolo cofanetto carico di cesellature.

Vuoi lo scudo di Dgian ben Dgian, quello che ha costruito le piramidi? Eccolo! È composto di sette pelli di drago messe una sopra l’altra, unite con viti di diamante e conciate nella bile di un parricida. Da una parte mostra tutte le guerre che hanno avuto luogo dopo l’invenzione delle armi, e, dall’altra, tutte le guerre che avranno luogo fino alla fine del mondo. La folgore vi rimbalza sopra come una palla di sughero. Sto per donartelo, lo porterai alla caccia. Ma se tu sapessi cos’ho nella mia cassettina! Rigirala, tenta di aprirla! Nessuno ci riuscirebbe; abbracciami; telo dirò. Prende sant’Antonio per le guance; egli la respinge a braccia tese. Fu una notte nella quale re Salomone aveva perso la testa. Infine concludemmo uno scambio. Si levò dal letto, e uscendo quatto quatto… Ella fa una piroetta.

Ah,ah! Bell’eremita! Tu non lo saprai! Non lo saprai mai! Ella agita il suo parasole; tutti i campanellini tintinnano. E ne ho ben altre di cose ancora, sai! Possiedo tesori rinchiusi entro sotterranei dove ci si perde come in una foresta. Ho palazzi d’estate fatti di canne intrecciate, e palazzi d’inverno in marmo nero. Nel mezzo di laghi grandi quanto mari, possiedo isole rotonde come monete d’argento, tutte ricoperte di madreperla, le cui spiagge risuonano del battito dei tiepidi flutti che rotolano sulla sabbia. Gli schiavi delle mie cucine prendono gli uccelli nelle mie voliere, e pescano i pesci dei miei vivai. Ho scalpellini che se ne stanno sempre seduti ad incidere il mio ritratto su delle pietre dure, fonditori che si affannano a colare le mie statue, profumieri che miscelano il succo delle piante ad aceti e mescolano impasti. Ho sarte che mi tagliano le stoffe, orefici che mi lavorano i gioielli, pettinatrici che mi cercano le acconciature più adatte, e diligenti pittori che versano sui rivestimenti del mio palazzo resine bollenti, che raffreddano con i ventagli. Ho tante ancelle da farci un serraglio, tanti eunuchi da farci un armata. Ho delle armate, sono padrona di popoli! Ho nel mio vestibolo una guardia di nani che reggono sulla spalla trombe d’avorio. Antonio sospira.

Possiedo tiri di gazzelle, quadrighe di elefanti, coppie di cammelli a centinaia, e cavalle con la criniera così lunga che i loro zoccoli vi si impigliano quando galoppano, e mandrie dalle corna tanto possenti da abbattere interi boschi davanti a loro quando pascolano. Ho delle giraffe che passeggiano nei miei giardini, e che spingono la loro testa sopra la cornice del mio tetto, quando prendo aria dopo pranzo. Seduta dentro una conchiglia, e trainata da delfini, vado a spasso nelle grotte ascoltando cadere l’acqua delle stalattiti. Vado al paese dei diamanti, dove gli stregoni miei amici mi lasciano scegliere i più belli, poi risalgo sulla superficie della terra, e faccio ritorno al mio palazzo. Ella emette un fischio acuto; e un grande uccello, che scende dal cielo, atterra sulla sommità della sua capigliatura, dalla quale fa cadere la polvere blu. Il suo piumaggio, color d’arancia, sembra composto di scaglie metalliche. La sua piccola testa, ornata d’una cresta d’argento, mostra un volto umano. Ha quattro ali, due zampe di avvoltoio, e un’immensa coda di pavone, che dispiega in cerchio dietro sé. Egli afferra nel suo becco il parasole della Regina, vacilla un poco prima di trovare il suo equilibrio, poi rizza tutte le sue penne e rimane immobile.

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Grazie, nobile Simorg Anka! Tu che mi hai insegnato dove si nascondeva l’amoroso! Grazie, grazie!messaggero del mio cuore! Egli vola come il desiderio. Fa il giro del mondo in una sola giornata. La sera, ritorna; si posa ai piedi del mio letto; mi racconta ciò che ha visto, i mari che sono trascorsi sotto di lui con tutti i pesci e le navi, i grandi deserti vuoti che ha contemplato dall’alto dei cieli, e tutte le messi che si curvavano nelle campagne, e le piante che crescevano sulle mura delle città abbandonate. Ella si cinge le braccia, languidamente. Oh, se tu volessi, se tu volessi!... Possiedo un padiglione su un promontorio, nel mezzo di un istmo, tra due oceani. È rivestito di lastre di vetro, pavimentato di squame di tartaruga, e si apre ai quattro venti del cielo. Di là sopra, vedo tornare le mie flotte e le moltitudini che risalgono la collina con fardelli sulle spalle. Dormiremmo su piumini più soffici delle nuvole, berremmo bevande ghiacciate dentro la scorza dei frutti, e guarderemmo il sole attraverso gli smeraldi! Vieni!... Antonio indietreggia. Ella gli si avvicina, e in tono irritato: Come? Ne ricca, ne seducente, ne innamorata? Tutto ciò non ti basta, eh? Ma la vuoi lasciva, grassa, con una voce roca, i capelli color del fuoco e la carne che ballonzola. O preferisci un corpo freddo come la pelle di un serpente, oppure dei grandi occhi neri, più scuri delle caverne mistiche? Guardali, i miei occhi! Antonio, suo malgrado, li guarda. Tutte quelle che hai incontrate, dalla donna di strada che canta sotto la sua lanterna fino alla nobildonna che sfoglia delle rose dall’alto della sua lettiga, tutte le forme intravviste, tutte le immaginazioni del tuo desiderio, domandale! Io non sono una donna, io sono un mondo. Le mie vesti non hanno che da cadere, e tu scoprirai sulla mia persona una successione di misteri! Antonio batte i denti. Se tu posassi un tuo dito sulla mia spalla, sarebbe come una strisciata di fuoco nelle tue vene. Il possesso della più piccola parte del mio corpo ti riempirà di una gioia più veemente che la conquista di un impero. Avvicina le tue labbra! I miei baci hanno il gusto di un frutto che si scioglierebbe nel tuo cuore! Ah, sei sul punto di perderti tra i miei capelli, sorbire il profumo del mio seno, incantarti delle mie membra, e incenerito dalle mie pupille, tra le mie braccia, in un turbine… Antonio fa un segno di croce. Tu mi disdegni! Addio! Si allontana piangendo, poi si volta: Proprio sicuro? Una donna così bella! Ride, e la scimmia che tiene l’orlo della sua veste la solleva. Te ne pentirai, bell’eremita, te ne dorrai! Ti annoierai! Ma io me ne infischio! La, la, la! Oh, oh, oh! Se ne va col viso fra le mani, saltellando a piè zoppo.

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Davanti a sant’Antonio sfilano gli schiavi, i cavalli, i dromedari, l’elefante, le ancelle, i muli di nuovo carichi, i moretti, la scimmia, i corrieri verdi, tenendo in mano il loro giglio rotto; e la Regina di Saba s’allontana, emettendo una specie di rantolo convulso, che assomiglia a un singhiozzo o a un sogghigno.

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III

Quando è scomparsa, Antonio scorge un bambino sulla soglia della sua capanna. È uno dei servitori della Regina, pensa. Quel bambino è piccolo come un nano, e tuttavia tarchiato come un Cabiro, deforme, d’aspetto miserabile.Capelli bianchi coprono la sua testa prodigiosamente grossa; e trema sotto una tunica meschina, stringendo nella sua mano un rotolo di papiro. La luce della luna, attraverso una nuvola, cade su di lui. ANTONIO l’osserva da lontano e ne ha paura.

Chi sei? IL BAMBINO risponde:

Il tuo vecchio discepolo Ilarione! ANTONIO Tu menti! Ilarione dimora da tanti anni in Palestina. ILARIONE Ne sono ritornato! Sono proprio io! ANTONIO si avvicina, e lo considera. Però il suo volto era luminoso come l’aurora, candido, gioioso. Questo è assai tetro e vecchio. ILARIONE Travagli senza fine mi hanno affaticato! ANTONIO Anche la voce è diversa. Ha un timbro che vi gela. ILARIONE È perché mi nutro di cose amare!

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ANTONIO E quei capelli bianchi? ILARIONE Ho avuto dei dispiaceri! ANTONIO a parte:

Sarà mai possibile ciò?... ILARIONE Non ero tanto lontano come tu credi. L’eremita Paolo ti ha fatto visita quest’anno, nel mese di shebar. Sono giusto venti giorni che i Nomadi t’hanno portato del pane. Avantieri, hai detto ad un marinaio di farti pervenire tre punteruoli. ANTONIO Sa tutto! ILARIONE Di più, sappi che non ti ho mai lasciato. Ma tu trascorri dei lunghi periodi senza accorgerti di me. ANTONIO Come può essere? È vero che ho la testa confusa! Questa notte particolarmente… ILARIONE Son venuti tutti i Peccati Capitali. Ma i loro vili agguati non la spuntano contro un santo come te! ANTONIO Oh, no!...no! Ad ogni passo cado! Non sono uno di quelli la cui anima è sempre intrepida e il cui spirito è sempre saldo – come il grande Atanasio per esempio. ILARIONE È stato ordinato illegalmente da sette vescovi! ANTONIO Che importa! Se la sua virtù…

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ILARIONE Andiamo, via! Un uomo orgoglioso, crudele, sempre intrigante, ed infine esiliato come accaparratore. ANTONIO Calunnie! ILARIONE Non negherai che abbia voluto corrompere Eustate, il tesoriere delle elargizioni? ANTONIO Lo si afferma; ne convengo. ILARIONE Ha bruciato, per vendetta, la casa di Arsenio! ANTONIO Ahimé! ILARIONE Al Concilio di Nicea, parlando di Gesù, ha detto: “ l’uomo del Signore ”. ANTONIO Ah, questa è una bestemmia! ILARIONE Una mente così ristretta, che confessa di non comprendere nulla della natura del Verbo. ANTONIO sorridendo di piacere: Effettivamente, non ha un’intelligenza…tanto elevata. ILARIONE Se ti avessero messo al suo posto, sarebbe stata una gran fortuna per i tuoi fratelli come per te. Questa vita appartata è cattiva.

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ANTONIO Al contrario! L’uomo, essendo spirito, deve allontanarsi dalle cose mortali. Ogni azione lo degrada. Vorrei non essere attaccato alla terra, neppure con la pianta dei piedi! ILARIONE Ipocrita che ti sprofondi nella solitudine per abbandonarti meglio all’eccesso delle tue brame! Ti privi delle pietanze, del vino, delle comodità, degli schiavi e degli onori; però lasci che la tua immaginazione ti offra banchetti, profumi, femmine nude e una folla che ti applaude! La tua castità non è che una corruzione più sottile, e questo disprezzo del mondo, l’impotenza del tuo odio contro esso! Ecco cosa rende quelli come te tanto lugubri, o, forse, perché dubitano. Il possesso della verità dona la gioia. Era forse triste Gesù? Andava circondato di amici, si riposava all’ombra degli ulivi, frequentava i pubblicani, moltiplicava le coppe, perdonando le peccatrici, guarendo tutti i mali. Tu, non hai pietà che per la tua miseria. Ti agita come un rimorso e una demenza feroce, che giunge fino a respingere le feste di un cane o il sorriso di un bambino. ANTONIO scoppia in singhiozzi.

Basta! Basta! Tu sconvolgi troppo il mio cuore. ILARIONE Scuoti i pidocchi dai tuoi stracci! Liberati dei tuoi escrementi! Il tuo Dio non è un Moloch che chiede della carne in sacrificio! ANTONIO Ciononostante la sofferenza è benedetta. I cherubini si chinano per ricevere il sangue dei confessori. ILARIONE Ammira dunque i Montanisti! Superano tutti gli altri. ANTONIO Ma è la verità della dottrina che fa il martirio! ILARIONE Come può provarne l’eccellenza, poiché testimonia egualmente per l’errore? ANTONIO Ti cheterai, vipera!

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ILARIONE Il martirio non è forse così difficile. Le esortazioni degli amici, il piacere di insultare il popolo, il giuramento che uno ha fatto, una certa vertigine, mille circostanze aiutano i martiri. Antonio si allontana da Ilarione. Ilarione lo segue.

D’altra parte, quella maniera di morire porta grandi disordini. Dionigi, Cipriano e Gregorio vi si sono sottratti. Pietro d’Alessandria l’ha biasimata, e il Concilio di Elvira… ANTONIO si tappa le orecchie.

Non ascolto più! ILARIONE alzando la voce:

Ecco che ricadi nel tuo abituale peccato, l’accidia. L’ignoranza è la schiuma dell’orgoglio. Uno dice: “ Ho le mie convinzioni, perché discutere? ” e disprezza i dottori, i filosofi, la tradizione, e perfino il testo della Legge che ignora. Credi di tenere la saggezza sulla punta delle dita? ANTONIO Continuo a sentirlo. Le sue brucianti parole mi riempiono la testa. ILARIONE Gli sforzi per comprendere Dio valgono più delle tue mortificazioni per commuoverlo. Non abbiamo meriti che per la nostra sete di Verità. La Religione da sola non spiega tutto; e la soluzione dei problemi che tu misconosci può renderla più inattaccabile e più elevata. Bisogna dunque, per la propria salvezza, essere in relazione con i propri fratelli – altrimenti la Chiesa, l’assemblea dei fedeli, non sarebbe che una parola - ed ascoltare tutte le ragioni, non disdegnare nulla, ne alcuno. Il mago Baalam, il poeta Eschilo e la sibilla di Cuma avevano annunciato il Salvatore. Dionigi l’Alessandrino ricevette dal Cielo l’ordine di leggere tutti i libri. San Clemente ci prescrive lo studio delle lettere greche. Erma è stato convertito per l’apparizione di una donna che aveva amata. ANTONIO Che aria d’autorità! Mi sembra che ti stai ingrandendo… In effetti, la statura di Ilarione è progressivamente aumentata; e Antonio, per non vederlo più, chiude gli occhi. ILARIONE Rassicurati, buon eremita! Sediamoci là, su quella grossa pietra - come un tempo, quando alla prima luce del giorno io ti salutavo chiamandoti “ chiara stella del mattino ”; e tu cominciavi subito ad ammaestrarmi. Non hai terminato il tuo compito. La luna ci illumina sufficientemente. Ti ascolto. Ha tolto un calamo dalla cintura; e, a terra con le gambe incrociate, un rotolo di papiro in mano, alza la testa verso sant’Antonio che, seduto vicino a lui, resta con la fronte china. Dopo un istante di silenzio, Ilarione riprende:

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La parola di Dio non ci viene forse confermata dai miracoli? Tuttavia i maghi del Faraone ne facevano; altri impostori possono farne; si può essere tratti in inganno. Cos’è dunque un miracolo? Un avvenimento che ci sembra trascendere la natura. Ma noi conosciamo tutta la sua potenza? E dal fatto che una cosa ordinariamente non ci stupisce, ne consegue che la comprendiamo? ANTONIO Poco importa! Bisogna credere alla Scrittura! ILARIONE San Paolo, Origene e tanti altri non la intendevano letteralmente; ma se la si spiega per mezzo di allegorie, essa diviene retaggio d’un piccolo numero e l’evidenza della verità scompare. Che fare allora? ANTONIO Rimettersi alla Chiesa! ILARIONE Dunque la Scrittura è inutile? ANTONIO No! Sebbene l’Antico Testamento, lo riconosco, contenga… delle oscurità… Ma il Nuovo risplende di una luce pura. ILARIONE Tuttavia l’angelo annunciatore, in Matteo, appare a Giuseppe, mentre in Luca, a Maria. L’unzione di Gesù per mano di una donna avviene, stando al primo Vangelo, all’inizio della sua vita pubblica, e, secondo gli altri tre, pochi giorni prima della sua morte. La bevanda che gli viene offerta sulla croce è , in Matteo, dell’aceto misto a fiele, in Marco del vino e della mirra. Seguendo Luca e Matteo, gli apostoli non devono prendere con sé ne soldi ne sacco, tanto di meno sandali e bastone; in Marco, al contrario, Gesù vieta loro di portar seco cosa alcuna se non sandali e bastone. Mi ci perdo!... ANTONIO un po’ sbalordito: In effetti…in effetti… ILARIONE Al contatto dell’emorroissa, Gesù si rigira dicendo: “ Chi mi ha toccato? ” Non sapeva, dunque, chi lo toccava? Ciò contraddice l’onniscienza di Gesù. Se la tomba era sorvegliata da alcune guardie, le donne non avevano motivo di preoccuparsi di un aiuto per sollevare la pietra tombale. Dunque, non vi erano guardie, oppure le sante donne non erano là. A Emmaus, mangia coi suoi discepoli e fa

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loro toccare le sue piaghe. È un corpo umano, un oggetto materiale, ponderabile, e tuttavia che passa attraverso i muri. È mai possibile ciò? ANTONIO Occorrerebbe molto tempo per risponderti! ILARIONE Perché ricevette lo Spirito Santo, benché fosse il Figlio? A che gli serviva il battesimo se era il Verbo? Come poteva il Diavolo tentarlo, lui, Dio? Non ti sono mai venuti questi pensieri? ANTONIO Si!... sovente! Indolenti o furiosi, abitano la mia coscienza. Io li scaccio, essi ritornano, mi soffocano; e a volte credo di essere maledetto. ILARIONE In quei momenti, non senti il bisogno di servire Dio? ANTONIO Ho sempre bisogno di adorarlo! Dopo un lungo silenzio, ILARIONE riprende: Ma al di fuori del dogma, siamo liberi di indagare. Non vuoi conoscere la gerarchia degli angeli, la virtù dei Numeri, la ragione dei germi e delle metamorfosi? ANTONIO Si! Si! Il mio pensiero si dibatte per uscire dalla sua prigione. Mi sembra che raccogliendo le mie forze vi perverrei. A volte persino, per la durata di un baleno, mi ritrovo come sospeso; poi ricado. ILARIONE Il segreto che tu vorresti possedere è custodito da alcuni saggi. Vivono in un paese lontano, seduti sotto alberi giganteschi, vestiti di bianco e quieti come dei. Li nutre un aria calda. Intorno a loro, sui prati, gironzolano leopardi. Il mormorio delle sorgenti e il nitrito dei liocorni si mescolano alle loro voci. Tu li ascolterai; allora il volto dell’Ignoto si svelerà! ANTONIO sospirando: La strada è lunga, ed io sono vecchio!

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ILARIONE Oh, oh! Gli uomini sapienti non sono rari! Ve ne sono anche molto vicino a te, qui! Entriamo!

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IV

E Antonio vede davanti a sé una basilica immensa. La luce si proietta dal fondo, meravigliosa come un sole multicolore. Illumina le innumerevoli teste della folla che riempie la navata centrale e rifluisce tra le colonne verso le navate laterali, ove si distinguono, entro scomparti di legno, altari, letti, catenelle di piccole pietre blu, e costellazioni dipinte sui muri. Nel mezzo della folla, qua e là stazionano dei gruppi. Alcuni uomini, in piedi sopra sgabelli, arringano con il dito levato in aria; altri pregano con le braccia incrociate, sono distesi per terra, cantano inni, o bevono del vino; attorno ad una tavola dei fedeli consumano l’agape, dei martiri liberano le loro membra dalle bende per mostrarne le ferite; alcuni vegliardi, appoggiati a bastoni, raccontano i loro viaggi. Ve ne sono che vengono dal paese dei Germani, dalla Tracia e dalla Gallia, dalla Scizia e dalle Indie, con la neve sulla barba, le piume tra i capelli, le spine alle frange dei loro vestiti, i sandali neri di polvere, la pelle bruciata dal sole. Tutte le varietà di costumi si confondono: i mantelli di porpora e le vesti di lino, le dalmatiche ricamate, i saioni di pelo, i berretti di marinai, le mitrie di vescovi. I loro occhi lampeggiano in modo singolare. Hanno l’aria di carnefici o di eunuchi. Ilarione avanza in mezzo a loro. Tutti lo salutano. Antonio, stringendosi alla sua spalla, li osserva. Nota un gran numero di donne. Molte sono vestite da uomini, con i capelli rasati; ne ha paura.

ILARIONE Sono cristiane che hanno convertito i loro mariti. D’altra parte le donne parteggiano sempre per Gesù, anche le idolatre, Procula la sposa di Pilato e Poppea la concubina di Nerone lo provano. Smettila di tremare e cammina! E ne arrivano altri, continuamente. Si moltiplicano, si sdoppiano, leggeri come ombre, facendo un gran clamore a cui si mischiano urla di rabbia, grida d’amore, cantici e obiurgazioni.

ANTONIO a voce bassa: Cosa vogliono?

ILARIONE Il Signore ha detto: “ Avrei ancora da parlarvi di molte cose. ” Essi conoscono quelle cose. E lo spinge verso un trono d’oro a cinque gradini, dove, attorniato da novantacinque discepoli, tutti lustri d’olio, magri e assai pallidi, siede il profeta Mani, bello come un arcangelo, immobile come una statua, coperto d’ una veste indiana, con rubini fra i capelli intrecciati, nella mano sinistra un libro con immagini dipinte, e sotto la destra un globo. Le immagini rappresentano le creature assopite nel caos. Antonio si china per vederle. Poi,

MANI fa girare il globo; e regolando le sue parole su una lira dalla quale sprigionano suoni cristallini: La terra celeste sta all’estremità superiore, la terra mortale all’estremità inferiore. È sostenuta da due angeli, lo Splenditenens e l’Omoforo a sei volti. Al sommo del cielo più alto sta la Divinità impassibile; nella parte inferiore, faccia a faccia, stanno il Figlio di Dio e il Principe delle tenebre. Essendosi spinte le tenebre fino al suo regno, Dio trasse dalla propria essenza una virtù che produsse il primo uomo e lo circondò dei cinque elementi. Ma i demoni delle tenebre gliene sottrassero una parte, e quella parte è l’anima.

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Non v’è che una sola anima, universalmente sparsa, come l’acqua di un fiume diviso in più rami. È lei che sospira nel vento, stride nel marmo quando lo si taglia, urla attraverso la voce del mare; e piange lacrime di latte quando si strappano le foglie del fico. Le anime uscite da questo mondo emigrano verso gli astri, che sono esseri animati.

ANTONIO si mette a ridere Ah, ah! Che assurda fantasia!

UN UOMO senza barba, e dall’apparenza austera: Perché mai? Antonio sta per rispondere. Ma Ilarione gli dice sottovoce che quell’uomo è l’immenso Origene; e

MANI riprende: Dapprima si trattengono nella luna, dove si purificano. In seguito salgono nel sole.

ANTONIO lentamente: Non conosco nulla… che ci impedisca… di crederlo.

MANI Il fine di tutte le creature è la liberazione del raggio celeste imprigionato nella materia. Questo si sprigiona più facilmente attraverso i profumi, le spezie,l’aroma del vino cotto, le cose leggere che assomigliano ai pensieri. Ma le azioni della vita ve lo trattengono. L’assassino rinascerà nel corpo di un lebbroso, colui che uccide un animale diventerà quell’animale; se pianti una vigna resterai legato ai suoi tralci. Il cibo ne assorbe. Dunque, privatevene! Digiunate!

ILARIONE

Sono temperanti, come vedi!

MANI Ve n’è molto nelle carni, meno nelle verdure. D’altronde, i Puri, grazie ai loro meriti, spogliano i vegetali di questa parte luminosa ed essa risale al suo focolare. Gli animali, mediante la generazione, l’imprigionano nella carne. Dunque, fuggite le femmine! ILARIONE Ammira la loro continenza!

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MANI

O piuttosto, fate in modo di non fecondarle – È meglio per l’anima cadere sulla terra che languire nelle pastoie carnali!

ANTONIO Ah, l’abominio!

ILARIONE Che importa la gerarchia delle turpitudini? La Chiesa ha ben fatto del matrimonio un sacramento!

SATURNINO in un costume siriano: Egli diffonde un ordine di cose funeste! Il Padre, per punire gli angeli ribelli, ordinò loro di creare il mondo. Il Cristo è venuto affinché il Dio dei Giudei che era uno di quegli angeli… ANTONIO Un angelo? Lui, il Creatore! CERDONE Non ha forse voluto la morte di Mosè, non ha ingannato i suoi profeti, sedotto il popolo, diffuso la menzogna e l’idolatria? MARCIONE Certamente, il Creatore non è il vero Dio! SAN CLEMENTE D’ALESSANDRIA La materia è eterna! BARDESANE vestito da mago babilonese: È stata creata dai Sette Spiriti planetari. GLI ERMINIANI Gli angeli hanno creato le anime! I PRISCILLIANISTI È il Diavolo che ha fatto il mondo!

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ANTONIO ha un moto di repulsione: Orrore! ILARIONE soccorrendolo: Ti sgomenti troppo in fretta! Fraintendi la loro dottrina! Eccone qui uno che ha ricevuto la sua da Teodato, l’amico di san Paolo. Ascoltalo! E ad un segno di Ilarione, VALENTINO vestito con una tunica di tela argentata, la voce sibilante e il cranio aguzzo: Il mondo è l’opera di un Dio delirante… ANTONIO china il capo: L’opera di un Dio delirante!… Dopo un lungo silenzio: Come può essere ciò? VALENTINO Il più perfetto degli esseri, degli Eoni, l’Abisso, riposava nel seno della Profondità con il Pensiero. Dalla loro unione scaturì l’Intelletto, che ebbe per compagna la Verità. L’Intelletto e la Verità generarono il Verbo e la Vita, che, a loro volta, generarono l’Uomo e la Chiesa – con ciò sono otto Eoni! Conta sulle dita. Il Verbo e la Verità produssero dieci altri Eoni, vale a dire cinque coppie. L’Uomo e la Chiesa ne avevano prodotto dodici altri tra i quali il Paracleto e la Fede, la Speranza e la Carità, il Perfetto e la Saggezza, Sofia. L’insieme di questi trenta Eoni costituisce il Pleroma, o Totalità di Dio. Così, come l’eco di una voce che si allontana, come gli effluvi di un profumo che svapora, come la luce del sole che tramonta, le Potenze emanate dal primo Principio vanno sempre scadendo. Ma Sofia, desiderosa di conoscere il Padre, si slanciò fuori dal Pleroma – e il Verbo allora fece un’altra coppia, il Cristo e lo Spirito Santo, che univa tra loro tutti gli Eoni; e tutti assieme formarono Gesù, il fiore del Pleroma. Però, lo sforzo di Sofia per fuggirsene aveva lasciato nel vuoto un’immagine di lei, un sostanza cattiva, Acharamoth. Il Salvatore impietosito, la liberò dalle passioni; e dal sorriso di Acharamoth liberata nacque la luce; le sue lacrime formarono le acque, la sua tristezza generò la materia scura. Da Acharamoth nacque il Demiurgo, fabbricatore dei mondi, dei cieli e del Diavolo. Egli dimora ben più in basso del Pleroma, senza neppure scorgerlo, tanto da potersi credere il vero Dio, e attraverso la bocca dei suoi profeti ripete: “Non v’è altro Dio all’infuori di me!” In seguito fece l’uomo, e gli gettò nell’anima il seme immateriale, che era la Chiesa, riflesso dell’altra Chiesa che sta nel Pleroma.

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Acharamoth, un giorno, pervenendo alla regione più alta, si unirà al Salvatore; il fuoco nascosto all’interno del mondo annienterà tutta la materia, divorerà sé stesso, e gli uomini, divenuti puri spiriti, sposeranno gli angeli! ORIGENE Allora il demonio sarà vinto, e avrà inizio il regno di Dio! Antonio trattiene un grido; e tosto BASILIDE prendendolo per il gomito: L’Essere supremo con le infinite emanazioni si chiama Abraxas, e il Salvatore con tutte le sue virtù Kaulakau, altrimenti norma alla norma, rettitudine alla rettitudine. Si ottiene la forza di Kaulakau con il soccorso di certe parole, scritte sopra questo calcedonio per facilitare la memoria. E mostra al suo collo una piccola pietra dove sono incise delle strane linee. Allora verrai trasportato nell’Invisibile; e, superiore alla legge, disprezzerai tutto, anche la virtù! Noi altri, i Puri, dobbiamo fuggire il dolore, seguendo l’esempio di Kaulakau. ANTONIO Macché! E la croce? GLI ELCASAITI in vesti di giacinto, gli rispondono: La tristezza, la bassezza, la condanna e l’oppressione dei mie padri sono cancellate, grazie alla missione che è venuta! Si può rinnegare il Cristo inferiore, l’uomo-Gesù; ma è necessario adorare l’altro Cristo, sbocciato dalla sua persona sotto l’ala della Colomba. Onorate il matrimonio! Lo Spirito Santo è femminile! Ilarione è scomparso; e Antonio, spinto dalla folla, arriva davanti I CARPOCRAZIANI sdraiati con alcune donne su cuscini di scarlatto. Prima di ritornare nell’Unico, passerai attraverso una serie di stati e di azioni. Per affrancarti dalle tenebre compi, già da ora, le loro opere! Lo sposo dice alla sposa: “Fai la carità a tuo fratello” ed ella subito ti bacerà. I NICOLAITI riuniti intorno ad un piatto fumante: È della carne cotta offerta agli idoli; prendine! L’apostasia è lecita quando il cuore è puro. Sazia la tua carne di ciò che chiede. Fai in modo di annientarla a forza di stravizi! Prunikos, la madre del Cielo, s’è rotolata nelle ignominie.

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I MARCOSIANI con degli anelli d’oro, e grondanti balsamo: Vieni da noi per unirti allo Spirito! Vieni da noi per bere l’immortalità! E uno di loro gli mostra, dietro un tendaggio, il corpo di un uomo che ha la testa di un asino. Quello rappresenta Sabaoth, il padre del Diavolo. A testimonianza del suo odio, sputa verso l’alto. Un altro scopre un letto molto basso, cosparso di fiori, dicendo che Le nozze spirituali stanno consumandosi. Un terzo, con una coppa di vetro in mano, pronuncia un’invocazione; vi appare del sangue: Ah, eccolo! Eccolo, il sangue di Cristo! Antonio si scosta. Ma viene bagnato dall’acqua che schizza da un tino di pietra. GLI ELVIDIANI vi si gettano a testa in giù, borbottando: L’uomo rigenerato dal battesimo non è soggetto a peccare! Poi passa vicino a un grande fuoco ove si riscaldano gli Adamiti, completamente nudi per imitare l’innocenza del paradiso, ed urta contro i MESSALIANI stravaccati sul lastricato, semiaddormentati, intontiti: Oh, calpestaci pure se vuoi, non ci sposteremo! Il lavoro è peccato, tutte le occupazioni sono cattive! Dietro di loro, gli abbietti PATERNIANI uomini, donne e bambini, alla rinfusa sopra un mucchio di rifiuti, sollevano le loro facce schifose sporche di vino: Le parti inferiori del corpo, fatte dal Diavolo, gli appartengono. Beviamo, mangiamo, fornichiamo! AEZIO I peccati sono bisogni al cospetto di Dio! Ma all’improvviso UN UOMO, vestito d’un mantello cartaginese, balza in mezzo a loro con in mano un fascio di corregge; e colpendo a caso, con violenza, a destra e a sinistra: Ah, impostori, briganti, simoniaci, eretici e demoni! Pidocchi delle scuole, feccia dell’inferno! Quello là, Marcione, è un marinaio di Sinope scomunicato per incesto; Carpocrate è stato bandito come mago; Aezio ha rubato la sua concubina; Nicola ha prostituito sua moglie; e Mani che si fa chiamare il Buddha e che invece si chiama Cabricus, fu scuoiato vivo con una punta di canna, tanto che la sua pelle essiccata dondola alle porte di Ctesifonte!

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ANTONIO ha riconosciuto Tertulliano, e si slancia per raggiungerlo: Maestro! A me! Soccorrimi! TERTULLIANO continuando: Distruggete le immagini! Velate le vergini! Pregate, digiunate, piangete, mortificatevi! Niente filosofia! Niente libri! Dopo Gesù, la scienza è inutile! Sono fuggiti tutti; e Antonio vede, al posto di Tertulliano, una donna seduta su una panca di pietra. Singhiozza, con la testa appoggiata contro una colonna, i capelli sciolti, il corpo avvolto in una lunga zimarra bruna. Poi si ritrovano uno vicino all’altra, lontano dalla folla; e intorno v’è un silenzio, una quiete straordinaria, come nei boschi quando il vento si arresta e le foglie di colpo non si agitano più. Quella donna è assai bella, anche se sciupata e di un pallore mortale. Si guardano; e i loro occhi si rimandano come un flusso di pensieri, mille cose antiche, confuse e profonde. Infine, PRISCILLA comincia a parlare: Ero nell’ultima camera dei bagni, e sonnecchiavo al ronzio delle strade. All’improvviso ho inteso dei clamori. Gridavano: “ È un mago! È il Diavolo! ” E la folla si fermò davanti alla nostra casa, di fronte al tempio di Esculapio. Mi sollevai con la forza dei polsi fino all’altezza degli spiragli. Sotto il peristilio del tempio, c’era un uomo che aveva una gogna di ferro intorno al collo. Prendeva dei carboni in un braciere, e si faceva delle larghe strisciature sul petto, invocando: “ Gesù, Gesù! ” Il popolo diceva: “ Non è permesso far ciò! Lapidiamolo! ” Egli, incurante, continuava. Eran cose mai viste, esaltanti. Fiori grandi quanto il sole ruotavano davanti ai miei occhi, e sentivo vibrare nell’aria un’arpa d’oro. Moriva il giorno. Le mie mani allentarono la presa, il mio corpo s’accasciò, poi, quando egli mi ebbe condotta con se, a casa sua… ANTONIO Di chi, dunque, stai parlando? PRISCILLA Ma, di Montano! ANTONIO È morto, Montano. PRISCILLA Non è affatto vero! UNA VOCE

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No, Montano non è morto! Antonio si gira; e vicino a lui, dall’altro lato, sulla panca, sta seduta una seconda donna; è bionda, e ancora più pallida, con delle borse sotto le palpebre come se avesse pianto a lungo. Senza essere interrogata, parla: MASSIMILLA Noi tornavamo da Tarso attraverso le montagne, allorché, ad una svolta della strada, vedemmo un uomo sotto un fico. Da lontano gridò: “ Fermatevi! ” e si slanciò contro di noi ingiuriandoci. Accorsero gli schiavi. Egli scoppiò a ridere. I cavalli si impennarono. Tutti i molossi latravano. Stava dritto di fronte a noi. Il sudore gli colava dal viso. Il vento faceva schioccare il suo mantello. Chiamandoci per nome, ci rimproverava la vanità delle nostre azioni, l’infamia dei nostri corpi – e levava il pugno dalla parte dei dromedari per via dei campanellini d’argento che portano sotto la mascella. Il suo furore mi riempiva di spavento fin nel profondo; tuttavia provavo come una voluttà che mi cullava, mi inebriava. In un primo momento, gli schiavi ci si fecero intorno: “ Padrone – dissero - le bestie sono stanche ”; poi fu la volta delle donne: “ Abbiamo paura ”, e gli schiavi se ne andarono. Poi, i bambini cominciarono a piangere: “Abbiamo fame! ” E siccome non s’era risposto alle donne, esse scomparvero. Egli, intanto, parlava. Sentii qualcuno al mio fianco. Era mio marito; io ascoltavo l’altro. Il mio sposo si trascinò fra le pietre gridando: “ Mi abbandoni? ” ed io risposi: “ Si, vattene! ” – perché volevo accompagnare Montano. ANTONIO Un eunuco! PRISCILLA Ah, ciò ti stupisce, cuore triviale! Tuttavia Maddalena, Giovanna, Marta, Susanna non entravano nel letto del Salvatore. Le anime, meglio dei corpi, possono abbracciarsi con frenesia. Per tenere impunemente presso di sé Eustolia, Leonzio, il vescovo, si mutilò – avendo più a cuore il suo amore che la sua virilità. E poi, non è quella la mia colpa; uno spirito mi costringe; Sota non ha potuto guarirmi. Nondimeno è crudele! Che importa! Io sono l’ultima delle profetesse; e dopo di me, verrà la fine del mondo. MASSIMILLA Egli mi ha colmato dei suoi doni. D’altra parte nessuna l’ama altrettanto – ed è amata di più! PRISCILLA Tu menti! Sono io la più amata! MASSIMILLA

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No, sono io! Si accapigliano. Tra le loro spalle appare la testa di un negro. MONTANO coperto di un mantello nero chiuso con due ossi di morto: Calmatevi, colombe mie! Incapaci della felicità terrestre, noi siamo, a causa di questa unione, nella pienezza spirituale. Dopo l’età del Padre, l’età del Figlio; ed io inauguro la terza, quella del Paracleto. La sua luce m’è giunta durante le quaranta notti nelle quali la Gerusalemme celeste ha brillato nel firmamento, sopra la mia casa, a Pepuza. Ah, come gridate d’angoscia quando le cinghie vi flagellano! Come le vostre membra dolenti si offrono ai miei ardori! Come languite sul mio petto, per un amore irrealizzabile! È così forte che vi ha rivelato dei mondi, ed ora voi potete scorgere le anime con i vostri occhi. Antonio fa un gesto di stupore. TERTULLIANO ritornato vicino a Montano: Certo, poiché l’anima ha un corpo – non esistendo nulla di completamente immateriale. MONTANO Per renderla più sottile, ho istituito numerose mortificazioni, tre quaresime l’anno, e per ogni notte preghiere a bocca chiusa – per tema che l’alito sfuggendo offuschi il pensiero. Bisogna astenersi dalle seconde nozze, o meglio ancora dal matrimonio! Gli angeli hanno peccato con le femmine. GLI ARCONTICI in cilici di crine: Il Salvatore ha detto: “ Sono venuto per distruggere l’opera della Femmina.” I TAZIANITI in cilici di giunco: Ella è l’albero del male! Gli abiti di pelle sono il nostro corpo. E, sempre avanzando dalla stessa parte, Antonio incontra I VALESIANI stesi a terra, con delle chiazze rosse in fondo al ventre, sotto la tunica. Gli mostrano un coltello: Fai come Origene e come noi! Temi forse il dolore, vigliacco? È l’attaccamento alla tua carne che ti trattiene, ipocrita? E mentre egli li guarda dibattersi, stesi sul dorso in un mare di sangue, I CAINITI con i capelli trattenuti da una vipera, passano vicino a lui vociferando al suo orecchio:

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Gloria a Caino! Gloria a Sodoma! Gloria a Giuda! Caino fece la razza dei forti. Sodoma spaventò la terra col suo castigo; ed è grazie a Giuda che Dio salvò il mondo! Si, Giuda! Senza di lui niente morte e niente redenzione! Scompaiono sommersi dall’onda dei CIRCONCELLIONI vestiti di pelli di lupo, coronati di spine, e recanti clave di ferro: Schiacciate il frutto! Intorbidate la fonte! Affogate il fanciullo! Spogliate il ricco che vive felice, che mangia in abbondanza! Battete il povero che invidia la gualdrappa dell’asino, il pasto del cane, il nido dell’uccello, e che si affligge perché gli altri non sono dei miserabili quanto lui. Noi, i Santi, per affrettare la fine del mondo, avveleniamo, bruciamo, massacriamo! La salvezza sta solo nel martirio! Noi ce lo procuriamo. Noi ci togliamo con le tenaglie la pelle della testa, noi esponiamo le nostre membra sotto gli aratri, noi ci gettiamo nella bocca dei forni! Maledetto il battesimo! Maledetta l’eucaristia! Maledetto il matrimonio! Dannazione universale! Allora, in tutta la basilica, è un moltiplicarsi di furori. Gli Audiani scagliano frecce contro il Diavolo; i Colliridiani lanciano al soffitto dei veli azzurri; gli Asciti si prosternano davanti un otre; i Marcioniti battezzano un morto con l’olio. Vicino ad Apelle, una donna, per spiegare meglio le sue idee, mostra un pane rotondo dentro una bottiglia; un’altra, nel mezzo dei Sampseiani, distribuisce, come un ‘ostia, la polvere dei suoi sandali. Sul letto dei Marcosiani cosparso di rose, due amanti si abbracciano. I Circoncellioni si sgozzano fra loro, i Valesiani rantolano, Bardesane canta, Carpocrate danza, Massimilla e Priscilla emettono sonori gemiti; e la falsa profetessa di Cappadocia, tutta nuda, poggiata coi gomiti su un leone, agitando tre fiaccole urla la Terribile Invocazione. Le colonne dondolano come tronchi d’alberi, gli amuleti ai colli degli eresiarchi intrecciano delle traiettorie luminose, le costellazioni si agitano nelle cappelle, e i muri indietreggiano respinti dall’andirivieni della folla, ogni capo della quale è un’onda che s’avventa e ruggisce. Intanto, dal profondo di quel clamore, si leva un canto, accompagnato da scoppi di risa, nel quale si ripete il nome di Gesù. È gente del popolino che batte le mani per segnare la cadenza. In mezzo a loro sta ARIO vestito da diacono: I pazzi che inveiscono contro di me pretendono spiegare l’assurdo; e per screditarli completamente, ho composto dei poemetti tanto faceti, che vengono ripetuti a memoria nei mulini, nelle taverne e nei porti. Mille volte no! Il Figlio non è coeterno al Padre, ne della medesima sostanza! In caso contrario non avrebbe detto: “ Padre, allontana da me questo calice! – Perché mi chiamate buono? Solo Dio è buono! – Vado al mio Dio, al vostro Dio! ” e altre parole che attestano la sua qualità di creatura. E ciò ci viene dimostrato, inoltre, da tutti i suoi nomi: agnello, fontana, saggezza, figlio dell’uomo, profeta, buona via, pietra angolare! SABELLIO Io sostengo che tutti e due sono identici. ARIO Il Concilio di Antiochia ha deciso il contrario. ANTONIO Chi è dunque il Verbo? Chi era Gesù?

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I VALENTINIANI Era lo sposo di Acharamoth pentita! I SETIANI Era Sem, figlio di Noè! I TEODOTIANI Era Melchisedech! I MERINZIANI Non era altro che un uomo! GLI APOLLINARISTI Ne ha preso l’apparenza! Ha simulato la Passione! MARCELLO DI ANCIRA È un’estensione del Padre! PAPA CALLISTO Padre e Figlio sono i due modi di un unico Dio! METODIO Dapprima fu in Adamo, poi nell’uomo! CERINTO E resusciterà! VALENTINO Impossibile, poiché il suo corpo è celeste! PAOLO DI SAMOSATA Egli non è Dio che dopo il suo battesimo! ERMOGENE Risiede nel sole!

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E tutti gli eresiarchi fanno cerchio intorno ad Antonio, che piange col capo fra le mani. UN GIUDEO, dalla barba rossa e la pelle macchiata di lebbra, gli si avvicina; e sogghignando orribilmente: La sua anima era l’anima di Esaù ! Soffriva del male di Bellerofonte; e sua madre, una domestica, s’è data a Pantera , un soldato romano, su dei covoni di mais, una sera nel tempo della mietitura. ANTONIO solleva la testa animosamente, li guarda senza parlare; poi marciando dritto su loro: Dottori, maghi, vescovi e diaconi, uomini e fantasmi, via! via! Siete tutti dei bugiardi! GLI ERESIARCHI Noi abbiamo martiri più martiri dei tuoi, preghiere più difficili, slanci d’amore superiori, estasi interminabili. ANTONIO Ma niente rivelazioni! Nessuna prova! Allora tutti impugnano nell’aria rotoli di papiro, tavolette di legno, pezzi di cuoio, strisce di stoffa; e urtandosi l’un l’altro: I CERINZIANI Ecco il Vangelo degli Ebrei! I MARCIONITI Il Vangelo del Signore! I MARCOSIANI Il Vangelo di Eva! GLI ENCRATITI Il Vangelo di Tommaso! I CAINITI Il Vangelo di Giuda! BASILIDE Il trattato dell’anima avventizia! MANI La profezia di Barcuf !

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Antonio si dibatte, sfugge; e scorge, in un angolo pieno d’ombra, I VECCHI EBIONITI disseccati come mummie, lo sguardo spento, le sopracciglia bianche. Con voce tremula, dicono: Noi l’abbiamo conosciuto, noi altri l’abbiamo conosciuto, il figlio del falegname! Eravamo della sua età, abitavamo nella sua strada. Si divertiva a modellare uccellini col fango; senza timore degli attrezzi taglienti, aiutava il padre nel suo lavoro, o preparava gomitoli di lana colorata per sua madre. Poi fece un viaggio in Egitto, da dove riportò grandi segreti. Noi eravamo a Gerico, quando venne a trovare i mangiatori di cavallette. Discussero a voce bassa, senza che nessuno potesse udirli. Ma fu da quel momento che si cominciò a parlare di lui in Galilea e si divulgarono delle fole sul suo conto. Vacillando, ripetono: L’abbiamo conosciuto, noi altri! L’abbiamo conosciuto! ANTONIO Ah, continuate a parlare! Parlate! Com’era il suo viso? TERTULLIANO Aveva un aspetto truce e repellente – giacché s’era fatto carico di tutti i peccati, tutti i dolori, e tutte le deformità del mondo. ANTONIO Oh, no! No! Io mi immagino, al contrario, che tutta la sua persona avesse una bellezza più che umana. EUSEBIO DI CESAREA A Panea, nei pressi di un rudere, in un folto d’erba, v’è una statua di pietra, innalzata, a quel che si dice, dall’emorroissa. Ma il tempo le ha consumato il volto, e le piogge hanno corroso l’iscrizione. Una donna sorta dal gruppo dei Carpocraziani, MARCELLINA Un tempo, ero diaconessa a Roma in una piccola chiesa, dove mostravo ai fedeli le immagini in argento di San Paolo, di Omero, di Pitagora e di Gesù Cristo. Ho conservato solo la sua. Socchiude il suo mantello. La vuoi? UNA VOCE Quando lo chiamiamo, egli riappare! È l’ora! Vieni!

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E Antonio sente cadere sul suo braccio una mano brutale, che lo trascina. Sale una scalinata completamente al buio; e dopo molti gradini, arriva davanti una porta. Allora, colui che lo conduce (si tratta di Ilarione? Antonio non può dirlo) dice all’orecchio di un altro: “ Il Signore sta per venire ” e vengono introdotti in una camera, dal soffitto basso, senza mobili. Ciò che dapprima lo colpisce è, di fronte, una lunga crisalide color sangue, con la testa umana dalla quale emanano dei raggi, e la parola Knuphis scritta in greco tutt’intorno. Essa domina un fusto di colonna posto al centro di un piedestallo. Sulle altre pareti della camera, dei medaglioni in ferro levigato rappresentano teste di animali: quella di un bue, di un leone, di un’ aquila, di un cane, e, di nuovo, la testa d’asino. Le lampade d’argilla, sospese alla base di quelle immagini, fanno una luce vacillante. Antonio, attraverso un buco della muraglia, scorge la luna che brilla in lontananza sui flutti, e distingue persino il loro debole sciabordio regolare, insieme al rumore sordo di una carena di nave che batte contro le pietre di un molo. Degli uomini accovacciati, con la figura nascosta sotto i mantelli, ad intervalli lanciano come un latrato soffocato. Alcune donne sonnecchiano con la fronte tra le braccia che sostengono le loro ginocchia, tanto perse nei loro veli che si direbbero dei mucchi di panni disposti lungo il muro. Vicino a loro, dei bimbi seminudi, divorati dai parassiti, guardano con aria idiota le fiamme delle lampade - e nessuno fa nulla; si attende qualcosa. Parlano sottovoce delle proprie famiglie, e si comunicano rimedi per le loro malattie. Molti stanno per imbarcarsi allo spuntar del giorno, poiché la persecuzione si fa troppo violenta. I pagani, però, non sono difficili da gabbare. “ Credono, i minchioni, che adoriamo Knuphis! ” Ma uno dei fratelli, improvvisamente ispirato, si pone davanti la colonna dove è stato messo un pane che fuoriesce da una cesta piena di finocchio e aristolochie. Gli altri hanno preso posto in piedi, formando tre file parallele. L’ISPIRATO srotola una vecchia carta coperta di cilindri intrecciati, poi comincia: Il raggio del Verbo discese sulle tenebre e si sprigionò un grido violento, che sembrava la voce della luce. TUTTI rispondono, dondolando i loro corpi: Kyrie eleison! L’ISPIRATO Poi, dall’infame Dio d’Israele, fu creato l’uomo, con l’aiuto di quelli: indicando i medaglioni, Astopphaios, Oraios, Sabaoth, Adonai, Eloi, Iao ! Ed egli giaceva nel fango, schifoso, debole, informe, senza pensiero. TUTTI in tono lamentoso: Kyrie eleison! L’ISPIRATO Ma Sofia, compassionevole, lo vivificò d’una particella della sua anima. Allora, vedendo l’uomo così bello, Dio fu preso dalla collera. Lo imprigionò nel suo reame, vietandogli l’albero della conoscenza. L’altra, ancora una volta, lo soccorse! Inviò il serpente, che, con abili raggiri, lo fece disobbedire a quella legge dettata dall’astio. E l’uomo, quando ebbe gustato la conoscenza, comprese le cose celesti.

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TUTTI con forza: Kyrie eleison! L’ISPIRATO Ma Iabdalaoth, per vendicarsi, precipitò l’uomo nella materia, e il serpente con lui! TUTTI in tono sommesso: Kyrie eleison! Chiudono la bocca, restando silenziosi. I sentori del porto si mischiano nell’aria calda al fumo delle lampade. Gli stoppini, crepitando, vanno spegnendosi; delle grandi zanzare volteggiano. E Antonio rantola d’angoscia; è come la sensazione di una mostruosità fluttuante intorno a lui, la paura di un crimine vicino a compiersi. Ma L’ISPIRATO battendo col tallone, schioccando le dita, scuotendo la testa, salmodia su un ritmo furioso, al suono dei cimbali e di un flauto sottile: Vieni! Vieni! Vieni! Esci dalla tua caverna! Veloce che corri senza piedi, conquistatore che prendi senza mani! Sinuoso come i fiumi, orbicolare come il sole, nero con delle macchie d’oro come il firmamento seminato di stelle! Simile alle spire dei pampini e alle circonvoluzioni delle viscere! Ingenerato! Mangiatore di terra! Sempre giovane! Perspicace! Onorato a Epidauro! Buono per gli uomini! Che hai guarito il re Tolomeo, i soldati di Mosè e Glauco figlio di Minosse! Vieni! Vieni! Vieni! Esci dalla tua caverna! TUTTI ripetono: Vieni! Vieni! Vieni! Esci dalla tua caverna! Tuttavia, non appare nulla. Perché? Cosa gli succede? Ci si concerta, si propongono degli espedienti. Un vegliardo porge una zolla d’erba. Allora nella cesta si produce un sollevamento. La verdure si agitano, cadono dei fiori – e appare la testa di un pitone. Passa lentamente sul bordo del pane, come un cerchio che giri intorno ad un disco immobile, poi si dispiega, si allunga; è enorme ed d’un peso considerevole. Per impedire che sfiori la terra, gli uomini lo tengono contro il loro petto, le donne sulla loro testa, i bambini all’estremità delle loro braccia; e la sua coda, uscendo attraverso il buco della muraglia, si prolunga indefinitivamente fino in fondo al mare. Le sue spire si sdoppiano, riempiono la camera; imprigionano Antonio. I FEDELI con la bocca incollata contro la sua pelle e disputandosi il pane che egli ha morso: Sei tu! Sei tu! In principio innalzato da Mosè, distrutto da Ezechia, ristabilito dal Messia. Ti aveva bevuto nelle acque del battesimo; ma tu l’ha i abbandonato nell’Orto degli Ulivi, ed allora egli sentì tutta la sua debolezza.

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Attorcigliato al legno della croce, sopra il suo capo, sbavando sulla corona di spine, lo guardavi morire. Perché tu non sei Gesù, tu, tu sei il Verbo! Tu sei il Cristo! Antonio sviene per l’orrore e cade davanti alla sua capanna sulle schegge di legno, tra le quali brucia lentamente la torcia che gli è sfuggita di mano. Questa scossa gli fa socchiudere gli occhi ed egli scorge il Nilo, increspato e splendente sotto il candore della luna, come un grande serpente nel mezzo delle sabbie – di modo che viene ripreso dall’allucinazione, e si ritrova tra gli Ofiti; questi lo circondano, lo chiamano, trasportano coi carri dei bagagli, scendono verso il porto. Antonio si imbarca con loro. Trascorre un tempo incalcolabile. Poi lo circonda la volta di una prigione. Delle sbarre, davanti a lui, formano linee nere su un fondo blu; e ai suoi fianchi, nell’ombra, alcune persone piangono e pregano circondate da individui che le esortano e le consolano. All’esterno, si direbbe il brusio di una folla, e lo splendore di un giorno d’estate. Voci acute strillano di cocomeri, di acqua, di bevande ghiacciate, di cuscini d’erbe per sedersi. Di tanto in tanto scoppiano applausi. Sente camminare sopra la sua testa. All’improvviso, parte un lungo migghio forte e cavernoso, come il rumore dell’acqua in un acquedotto. Ed egli scorge, di fronte, dietro le sbarre di un’altra cella, un leone che passeggia – poi una fila di sandali, gambe nude, frange di porpora. Oltre, corone di gente, disposte simmetricamente a piani, vanno allargandosi dalla più bassa che chiude l’arena fino alla più alta, dove si ergono dei pali per sostenere un velo di giacinto disteso nell’aria per mezzo di corde. Delle scalinate che irraggiano verso il centro, tagliano, ad intervalli uguali, quei grandi cerchi di pietra. I loro gradini scompaiono sotto una folla seduta: cavalieri, senatori, soldati, plebei, vestali e cortigiane – avvolti in mantelli di lana, fasce di seta, tuniche rossicce, con ciuffi di pietre preziose, pennacchi di piume, verghe di littori; e tutto quel formicolare, quel gridare, tumultuoso e furioso, lo stordisce, come un immenso tino ribollente. Nel mezzo dell’arena, su un altare, fuma un vaso d’incenso. Dunque le persone che lo circondano sono cristiani condannati alle belve. Gli uomini portano il mantello rosso dei pontefici di Saturno, le donne le bende di Cerere. I loro amici si spartiscono brandelli dei loro vestiti, anelli. Per introdursi nella prigione è stato necessario , dicono, sborsare una grande somma. Ma non importa! Resteranno fino alla fine. Tra questi consolatori, Antonio nota un uomo calvo, in tunica nera, la cui figura ha già visto altrove; parla loro della vanità del mondo e della felicità degli eletti. Antonio si entusiasma. Si augura di poter versare il suo sangue per il Salvatore, credendo d’essere lui stesso uno di quei martiri. Ma eccettuato un Frigio dai lunghi capelli, che se ne sta con le braccia levate al cielo, tutti gli altri sono mesti. Un vecchio singhiozza su una panca, ed un giovanetto, in piedi, sospira a testa china. IL VECCHIO non ha voluto sdebitarsi, all’angolo di un crocicchio, davanti ad una statua di Minerva; ed contempla i suoi compagni con uno sguardo che significa: Dovreste aiutarmi! Alcune comunità, a volte, si accordano affinché le si lasci tranquille. Molti di voi hanno persino ottenuto di quelle lettere che dichiarano falsamente che si è sacrificato agli idoli. Domanda: Non è Pietro d’Alessandria che ha regolato quel che si deve fare quando si cede tra i tormenti? Poi, tra di sé: Ah, tutto questo è assai duro alla mia età! Le mie infermità mi rendono debole! Tuttavia, avrei potuto vivere ancora fino al prossimo inverno! Il ricordo del suo piccolo giardino lo commuove - e guarda dalla parte dell’altare. IL GIOVINETTO che ha turbato, con atti, una festa di Apollo, mormora: Pure, non stava che a me di fuggire tra le montagne!

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- I soldati ti avrebbero preso!

dice uno dei fratelli. - Oh, avrei fatto come Cipriano, sarei ritornato; e, la seconda volta, di sicuro,avrei avuto più coraggio! Poi, pensa agli innumerevoli giorni che aveva da vivere, a tutte le gioie che non avrà conosciute – e guarda dalla parte dell’altare. Ma L’UOMO IN TUNICA NERA accorre verso lui: Che scandalo! Come, tu, una vittima d’elezione? Via, pensa a tutte queste donne che ti guardano! E poi Dio, a volte, fa un miracolo. Pionio intorpidì la mano dei suoi carnefici, il sangue di Policarpo spense le fiamme del suo rogo. Si volge verso il vecchio: Padre, padre! Devi edificarci con la tua morte. Ritardandola, commetteresti senza dubbio qualche cattiva azione che ti farebbe perdere il premio riservato ai buoni. D’altra parte la potenza di Dio è infinita. Può essere che il tuo esempio serva a convertire la moltitudine. E nella cella di fronte, i leoni vanno e vengono senza posa, con un movimento continuo e rapido. Il più grosso di colpo guarda Antonio, ruggisce, e un vapore esce dalle sue fauci. Le donne si stringono contro gli uomini. IL CONSOLATORE va dall’uno all’altro. Cosa direste, cosa diresti tu, se venissi bruciato con dei ferri roventi, squartato dai cavalli, se il tuo corpo spalmato di miele fosse divorato dalle mosche! Ma non ti toccherà altro che la morte del cacciatore sorpreso nella foresta. Antonio preferirebbe ogni tortura a quelle orribili bestie feroci; gli sembra di sentire i loro denti, gli artigli, gli sembra di udire le sue ossa scricchiolare tra le loro mascelle. Nella prigione entra un guardiano delle belve; i martiri tremano. Uno solo resta impassibile, il Frigio, che pregava in disparte. Ha bruciato tre templi; e si fa avanti con le braccia alzate, la bocca aperta, la testa rivolta al cielo, senza nulla vedere, come un sonnambulo. IL CONSOLATORE grida: Indietro! Indietro! Lo spirito di Montano si impossesserebbe di voi. TUTTI indietreggiano, vociferando: Dannazione al Montanista! Lo ingiuriano, gli sputano addosso, vorrebbero picchiarlo. I leoni impennandosi si mordono la criniera. Il popolo urla: “ Alle belve! Alle belve! ” I martiri, scoppiando in singhiozzi, si abbracciano. Viene loro offerta una coppa di vino drogato. Se la passano di mano in mano, con frenesia. Addossato alla porta della cella, un altro guardiano attende il segnale. La porta si apre; ne esce un leone.

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Attraversa l’arena a grandi passi obliqui. Dietro quello, ad uno ad uno, appaiono gli altri leoni, poi un orso, tre pantere, alcuni leopardi. Si disperdono come un gregge in una prateria. Risuona il sibilo di una frusta. I cristiani vacillano - e per farla finita, i loro fratelli li spingono avanti. Antonio chiude gli occhi. Li riapre, ma è avvolto nelle tenebre. Ben presto si rischiarano; ed egli distingue una distesa arida e bernoccoluta, come se ne vede intorno alle cave abbandonate. Qua e là spunta un cespuglio di arbusti tra lastre di pietra distese al suolo; e alcune forme bianche, più vaghe che nuvole, vi stanno piegate sopra. Ne giungono altre, alla spicciolata. Delle pupille brillano negli spiragli dei lunghi veli. Antonio, dalla mollezza del loro incedere e dai profumi che esalano, le riconosce come nobildonne. Vi sono anche uomini, ma di condizione inferiore, poiché il loro aspetto è, ad un tempo, semplice e grossolano. UNA DI ESSE respirando a pieni polmoni: Ah, com’è buona l’aria fredda della notte tra i sepolcri! Sono così stanca dell’indolenza dei letti, del fracasso dei giorni, della pesantezza del sole! La sua ancella estrae da un sacco di tela una torcia alla quale da fuoco. I fedeli ne accendono altre, e le piazzano sulle tombe. UNA DONNA ansimando: Ah, eccomi finalmente! Ma che seccatura l’aver sposato un idolatra! UN’ALTRA Le visite nelle prigioni, gli incontri coi fratelli, di tutto sospettano i nostri mariti! E ci dobbiamo nascondere anche quando facciamo il segno della croce; lo prenderebbero per un esorcismo magico. UN’ALTRA Con il mio, litigavo tutti i giorni; non volevo sottomettermi agli abusi del mio corpo che egli esigeva; e per vendicarsi, mi ha fatto perseguitare come cristiana. UN’ALTRA Vi ricordate di Lucio, quel giovinetto così bello, che venne trascinato per i talloni legato dietro un carro, come Ettore, dalla porta Esquilina fino alle alture di Tibur; e ai due lati del percorso il sangue macchiava i cespugli! Ne raccolsi le gocce. Eccole! Estrae dal suo seno una spugna tutta nera, la copre di baci, poi si getta sulle lastre di pietra, urlando: Amico mio! Amico mio! UN UOMO Proprio oggi sono tre anni che è morta Domitilla. Fu lapidata nel folto del bosco di Proserpina. Ne ho raccolto le ossa che brillavano come lucciole tra l’erba. Ora le ricopre la terra!

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Si getta su una tomba. O mia promessa sposa! Mia promessa sposa! E TUTTI GLI ALTRI nella distesa: O sorella mia! O fratello mio! O figlia mia! O madre mia! Stanno inginocchiati con la testa fra le mani, o bocconi con le braccia distese; e i singhiozzi che trattengono sconquassano il loro petto. Guardano il cielo dicendo: Abbi pietà della sua anima, o mio Dio! Ella langue nella dimora delle ombre; degnati di ammetterla alla Resurrezione, affinché gioisca della tua luce! Oppure, con lo sguardo fisso sulle lapidi, mormorano: Placati, smetti di patire! T’ho portato del vino, delle pietanze! UNA VEDOVA Ecco qua del pultis, preparato da me, come piaceva a lui, con molte uova e una doppia misura di farina! Lo gusteremo assieme, come altre volte, vero? Ne avvicina un poco alle labbra; ed improvvisamente scoppia in una risata stravagante, frenetica. Gli altri, come lei, rosicchiano qualche boccone, bevono un sorso. Si raccontano le storie dei loro martiri; il dolore si esalta, le libagioni raddoppiano. I loro occhi bagnati di lacrime si fissano gli uni negli altri. Farfugliano per l’ubriachezza e la desolazione; poco a poco, le loro mani si toccano, le loro labbra si uniscono, i veli si socchiudono, e si congiungono sulle tombe tra le coppe e le fiaccole. Il cielo comincia a schiarire. La nebbia inumidisce le loro vesti; e, fingendo di non conoscersi, si allontanano gli uni dagli altri, nella campagna, per strade diverse. Il sole brilla, la vegetazione è cresciuta, la distesa s’è trasformata. E Antonio vede distintamente attraverso dei bambù una foresta di colonne d’un grigio bluastro. Sono fusti d’alberi provenienti da un solo tronco. Da ciascuno dei suoi rami scendono altri rami che affondano nel suolo; e l’insieme di tutte quelle linee orizzontali e perpendicolari, moltiplicate all’infinito, somiglierebbe ad una ossatura mostruosa, se esse non avessero, di tratto in tratto, un piccolo fico, con un fogliame nerastro, come quello del sicomoro. Antonio distingue nelle biforcazioni grappoli di fiori gialli, fiori violetti e delle felci, simili a piume d’uccelli. Sotto le ramificazioni più basse, si mostrano qua e là le corna di un bubal, oppure gli occhi luccicanti di un antilope; vi sono pappagalli appollaiati, farfalle che svolazzano, lucertole che strisciano, mosche che ronzano; e si intende, nel cuore del silenzio, come il palpitare d’una vita profonda. All’entrata del bosco, su una sorta di rogo, vi è una strana cosa – un uomo - spalmato di sterco di vacca, completamente nudo, più secco di una mummia; le sue articolazioni formano nodi all’estremità delle sue ossa che sembrano bastoni. Ha mazzi di conchiglie alle orecchie, la figura allungata, il naso a becco d’avvoltoio. Il suo braccio sinistro resta diritto in aria, anchilosato, rigido come un piolo; e sta là da così gran tempo che alcuni uccelli hanno fatto un nido nella sua capigliatura. Ai quattro angoli della catasta ardono quattro fuochi. Il sole è proprio di fronte. Egli lo contempla ad occhi spalancati - e senza guardare Antonio: Brahmano delle rive del Nilo, che ne dici? Attraverso gli intervalli delle travi, da tutti i lati, escono fiamme; e IL GINNOSOFISTA riprende: Come il rinoceronte, io mi sono immerso nella solitudine. Abitavo l’albero che sta alle mie spalle.

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In effetti, il grande fico mostra, nelle sue scanalature, un incavo naturale della taglia di un uomo. E mi nutrivo di fiori e di frutti, con una tale osservanza dei precetti, che neppure un cane m’ha visto mangiare. Siccome l’esistenza proviene dalla corruzione, la corruzione dal desiderio, il desiderio dalla sensazione, la sensazione dal contatto, ho fuggito ogni azione, ogni contatto; e – immobile come la stele di una tomba, esalando il mio respiro attraverso le due narici, fissando lo sguardo sul mio naso, e considerando l’etere nel mio spirito, il mondo nelle mie membra, la luna nel mio cuore – io pensavo all’essenza della grande Anima dalla quale sfuggono continuamente, come scintille dal fuoco, i principi della vita. Infine ho afferrato l’Anima suprema in tutti gli esseri, tutti gli esseri nell’Anima suprema; e sono pervenuto a farvi entrare la mia anima, nella quale avevo fatto rientrare i miei sensi. Io ricevo la scienza, direttamente dal cielo, come l’uccello Tchataka, il quale non si disseta che nei raggi della pioggia. Per il fatto stesso che conosco le cose, le cose non esistono più. Per me, ora, non v’è speranza ne angoscia, non vi è gioia, non vi è virtù, ne giorno ne notte, ne te, ne me, assolutamente nulla. Le mie spaventose austerità mi hanno reso superiore alle Potenze. Una contrazione del mio pensiero può uccidere cento figli di re, detronizzare gli dei, sconvolgere il mondo. Ha detto tutto ciò con voce monotona. Le foglie all’intorno si accartocciano. Dei topi, per terra, fuggono via. Abbassa lentamente gli occhi verso le fiamme che salgono, poi aggiunge: Ho preso in disgusto la forma, la percezione, perfino la conoscenza stessa – poiché il pensiero non sopravvive al fatto transitorio che lo causa, e lo spirito non è che un’illusione come il resto. Tutto ciò che è generato perirà, tutto ciò che è morto deve rivivere; gli esseri attualmente scomparsi soggiorneranno nelle matrici non ancora formate, e ritorneranno sulla terra per servire con dolore altre creature. Ma, siccome ho vagato in una moltitudine infinita di esistenze, sotto le sembianze di dei, di uomini e di animali, rinuncio al viaggio, non voglio più saperne di questa fatica! Abbandono il sordido albergo del mio corpo, fatto di carne, tinto di sangue, ricoperto di pelle schifosa, pieno d’immondizie; e, a mia ricompensa, infine vado a riposare nel più profondo dell’assoluto, nell’Annichilimento. Le fiamme si alzano fino al suo petto, poi lo avvolgono. La sua testa ne esce come attraverso il buco di un muro. I suoi occhi spalancati guardano sempre. ANTONIO si rialza. La torcia, a terra, ha incendiato le schegge di legno; e le fiamme gli hanno bruciacchiato la barba. Strillando, Antonio batte sul fuoco coi piedi; e quando non resta altro che un ammasso di cenere: Che fine ha fatto Ilarione? Era lì poco fa. L’ho visto! Eh no, è impossibile! Mi inganno! Perché?...La mia capanna, queste pietre, la sabbia non sono forse più reali. Divento pazzo. Calma! Dov’ero? Chi c’era con me? Ah, il gimnosofista!...Quella morte è comune tra i saggi indiani. Calano si diede fuoco davanti ad Alessandro; un altro ha fatto lo stesso al tempo di Augusto. Che disgusto per la vita bisogna avere! A meno che non li spinga l’orgoglio?...Che importa, occorre il coraggio di un martire!...Quanto a quegli altri, ora credo tutto quello che mi era stato detto sulle loro gozzoviglie.

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E prima? Si, mi ricordo! La folla degli eresiarchi…Che versi! Che occhi! Ma perché tante dissolutezze della carne, smarrimenti dello spirito? È verso Dio che pretendono dirigersi attraverso tutte quelle strade! Che diritto ho di maledirli, io che vacillo lungo la mia! Quando sono scomparsi, ero forse sul punto di saperne di più. Tutto si svolgeva troppo in fretta; non avevo il tempo di rispondere. Ora, è come se nella mio intelletto vi fosse più spazio e più luce. Sono tranquillo. Mi sento capace…Cosa succede? Credevo di aver spento il fuoco! Una fiamma volteggia tra le rocce; e ben presto si lascia intendere, frammentata, in lontananza, una voce nella montagna. È il latrato di una iena, o sono i lamenti di qualche viaggiatore disperso? Antonio sta in ascolto. La fiamma si avvicina. Ed egli vede avanzare una donna che piange, appoggiata alla spalla di un uomo dalla barba bianca.

Ella indossa una veste di porpora a brandelli. Egli è a capo scoperto come lei, con una tunica dello stesso colore, e porta un vaso di bronzo dal quale si alza una piccola fiamma blu.

Antonio ha paura; vorrebbe sapere chi è quella donna. IL FORESTIERO (SIMONE) È una fanciulla, una povera bimba, che porto con me ovunque. Solleva il vaso di bronzo. Antonio la considera al barlume di quella fiamma che vacilla. Ella ha sul volto segni di morsicature, lungo le braccia tracce di colpi; i suoi capelli sparsi si impigliano negli squarci

della sua veste stracciata; i suoi occhi sembrano insensibili alla luce. SIMONE A volte, resta così, per un tempo infinito, senza parlare, senza mangiare; poi si risveglia, e

riferisce di cose meravigliose. ANTONIO Davvero? SIMONE Ennoia! Ennoia! Ennoia! Racconta quel che hai da dire! Ella volge intorno le sue pupille come se uscisse da un sogno, passa lentamente le sue dita sulle sopracciglia, e con

voce dolente: ELENA (ENNOIA) Ho il ricordo di una regione lontana, color smeraldo. La occupa un solo albero. Antonio trasale. Ad ogni grado delle sue ampie fronde, nell’aria, sta una coppia di Spiriti. I rami attorno a loro si

incrociano come le vene di un corpo; ed essi guardano la vita sempreviva circolare dalle radici che si immergono nell’ombra fino alla cima che oltrepassa il sole. Io, sul secondo ramo, illuminavo con la mia figura le notti d’estate.

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ANTONIO toccandosi la fronte:

Ah! Ah, capisco! La testa!

SIMONE

il dito sulla bocca:

Zitto!... ELENA

La vela restava gonfia, la carena fendeva la schiuma. Egli mi diceva: “ Che importa se turbo la mia patria, se perdo il mio regno! Tu mi apparterrai, nella mia casa! ”

Com’era dolce la remota camera del suo palazzo! Egli si sdraiava sul letto d’avorio, e, carezzandomi i capelli, cantava amorosamente. Al tramonto, scorgevo i due campi, le lanterne che venivano accese. Ulisse fuori dalla sua tenda, Achille completamente armato che guidava un carro lungo la riva del mare.

ANTONIO

Ma è completamente pazza! Come mai?

SIMONE Zitto!... Zitto!... ELENA Mi hanno unta con degli unguenti, e m’hanno venduta al popolo perché lo sollazzassi. Una sera, in piedi con il sistro fra le mani, facevo danzare dei marinai greci. La pioggia, come

una cateratta, cadeva sulla taverna, e le coppe di vino caldo fumavano. Entrò un uomo, senza che la porta venisse aperta.

SIMONE Ero io! Ti ho ritrovata! Eccola, Antonio, quella che viene chiamata Sigeh, Ennoia, Barbelo, Prunikos! Gli spiriti che

governano il mondo furono gelosi di lei, e la rinchiusero in un corpo di donna. È Stata l’Elena dei Troiani, della quale Stesicoro ha maledetto la memoria. È stata Lucrezia, la

nobildonna violentata da un re. È stata Dalila, che tagliò i capelli di Sansone. È stata quella figlia di Israele che si concedeva ai capri. Ha amato l’adulterio, l’idolatria, la menzogna e la stoltezza. S’è prostituita a tutti i popoli. Ha cantato a tutti i trivi. Ha baciato tutti i volti.

A Tiro di Siria, è stata la signora dei ladri. La notte beveva con loro, e nascondeva gli assassini nella feccia del suo letto tiepido.

ANTONIO

Eh, sai che mi importa! SIMONE

furente:

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L’ho riscattata, ti dico, e ristabilita nel suo splendore; tanto che Caio Cesare Caligola se ne è

innamorato, poiché voleva giacere con la Luna! ANTONIO E allora?... SIMONE Ma è lei la Luna! Papa Clemente non ha scritto che fu imprigionata in una torre? Trecento

persone andarono a circondare la torre; e ad ogni feritoia, nello stesso momento, apparve la Luna – benché al mondo non ci siano ne molte lune, ne molte Ennoia!

ANTONIO

Si… Credo di ricordare… E cade in una fantasticheria. SIMONE Innocente come il Cristo che è morto per gli uomini, ella si è sacrificata per le donne. Poiché

l’impotenza di Jehovah si dimostra con la trasgressione di Adamo, e bisogna scuotere la vecchia legge, che è incompatibile con l’ordine delle cose.

Ho predicato il rinnovamento in Efraim e in Issacar, lungo il torrente Bizor, alle spalle del lago Huleh, nella vallata di Mageddo, oltre le montagne, a Bostra e a Damasco! Vengano a me gli ubriaconi, gli abbietti, gli assassini; ed io cancellerò le loro macchie con lo Spirito Santo, chiamato Minerva dai Greci! Ella è Minerva! Ella è lo Spirito Santo! Io sono Giove, Apollo, il Cristo, il Paracleto, l’infinita potenza di Dio incarnata nella persona di Simone.

ANTONIO Ah, sei tu!... sei tu, quindi? Io conosco i tuoi crimini! Sei nato a Gittoi, vicino a Samaria. Dositeo,

il tuo primo maestro, t’ha cacciato! Detesti san Paolo perché ha convertito una delle tue mogli; e, vinto da san Pietro, per la rabbia e il terrore hai gettato tra i flutti il sacco che conteneva i tuoi artifici!

SIMONE Li vuoi? Antonio lo guarda; e dentro il suo petto una voce mormora: “ Perché no? ”

Simone riprende: Colui che conosce le forze della Natura e la sostanza degli Spiriti necessariamente opera miracoli.

È il sogno di tutti i saggi e il desiderio che ti rode; confessalo! Tra i Romani ho volato nel circo così in alto che non mi si è più rivisto. Nerone ordinò di

decapitarmi; ma fu la testa di una pecora che cadde a terra in luogo della mia. Infine mi hanno seppellito vivo; ma sono resuscitato il terzo giorno. La prova è che sono qui!

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Gli porge le mani da annusare. Puzzano di cadavere. Antonio indietreggia. Posso far muovere i serpenti di bronzo, ridere le statue di marmo, parlare i cani. Ti mostrerò

un’immensa quantità d’oro; insedierò dei re, vedrai popoli interi adorarmi! Posso camminare sulle nuvole e sulle onde, passare attraverso le montagne, apparire un giovinetto, un vecchio, una tigre e una formica, assumere il tuo aspetto, darti il mio, dirigere la folgore. Te ne rendi conto?

Il tuono rumoreggia, si susseguono dei lampi. È la voce dell’Altissimo! “ poiché l’Eterno tuo Dio è un fuoco ” e tutte le creazioni scaturiscono

da quel nucleo originario. Tu stai per riceverne il battesimo – quel secondo battesimo annunciato da Gesù, che cadde sugli

apostoli un giorno di temporale che la finestra era aperta! E muovendo la fiamma con la mano, lentamente, come per aspergerne Antonio: Madre di misericordia, tu che riveli i segreti, affinché la requie giunga a noi nell’ottava casa… ANTONIO

grida: Ah, se avessi dell’acqua benedetta! La fiamma si spegne, producendo molto fumo. Ennoia e Simone sono scomparsi. Una nebbia estremamente fredda, opaca e fetida, riempie l’atmosfera. ANTONIO

con le braccia distese come un cieco: Dove sono?... Ho paura di cadere nell’abisso. E la croce, certamente, è troppo lontana da me…

Ah, che notte! Che notte! Sotto un colpo di vento, la nebbia si socchiude – ed egli scorge due uomini, coperti di lunghe tuniche bianche. Il primo è di statura alta, dolce d’aspetto, di maniere gravi. I suoi capelli biondi, separati come quelli del Cristo, gli

scendono regolarmente sulle spalle. Ha buttato una bacchetta che teneva in mano e che il suo compagno ha raccolta facendo una riverenza alla maniera degli Orientali.

Quest’ultimo è piccolo, grosso, camuso, tarchiato di spalle, ha i capelli crespi e l’aria del sempliciotto. Sono entrambi a capo scoperto, a piedi scalzi e impolverati come chi giunge da un viaggio. ANTONIO

sobbalzando: Cosa volete? Parlate! Andatevene! DAMIDE (È IL PICCOLETTO) Eh, basta così... buon eremita! Cosa voglio? Non ne so nulla! Ecco il Maestro. Si siede; l’altro resta in piedi. Silenzio. ANTONIO riprende:

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Così voi venite?... DAMIDE Oh, da lontano, da molto lontano! ANTONIO E andate?... DAMIDE indicando l’altro: Dove vorrà! ANTONIO Ma chi è? DAMIDE Guardalo! ANTONIO a parte:

Ha l’aria di un santo! Se osassi… Il fumo se ne è andato. L’atmosfera è limpida. La luna brilla. DAMIDE A cosa pensate, che non parlate più? ANTONIO Penso…Oh, niente! DAMIDE avanza verso Apollonio e gli gira intorno più volte, con il busto piegato, senza sollevare la testa. Maestro, è un eremita di Galilea che chiede di conoscere le origini della saggezza. APOLLONIO Che si avvicini! Antonio esita. DAMIDE Avvicinatevi!

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APOLLONIO con voce tonante: Avvicinati! Tu vorresti sapere chi sono, cos’ho fatto, cosa penso? Non è vero, ragazzo? ANTONIO …Se queste cose, però, possono servire alla mia salvezza. APOLLONIO Rallegrati, sto per dirtele! DAMIDE sottovoce ad Antonio: Strano! Bisogna che, di primo acchito, abbia riconosciuto in voi delle straordinarie inclinazioni

per la filosofia! Voglio approfittarne anch’io! APOLLONIO Dapprima ti racconterò la lunga strada che ho percorso per ottenere la dottrina; e se tu riesci a

scovare in tutta la mia vita un’azione malvagia, mi interromperai – poiché chi ha malfatto con le sue opere deve scandalizzare per le sue parole.

DAMIDE

ad Antonio: Che uomo giusto, eh? ANTONIO Decisamente, ritengo che sia sincero. APOLLONIO La notte della mia nascita, mia madre credette di vedersi mentre coglieva fiori sul bordo di un lago. Apparve un lampo ed ella mi mise al mondo cullata dalla voce dei cigni che cantavano nel suo sogno. Fino a quindici anni, venivo immerso, tre volte al giorno, nella fonte Asbadea, le cui acque rendono gli spergiuri idropici; e mi si strofinava il corpo con foglie di cniza, per rendermi casto. Una sera venne a trovarmi una principessa di Palmira, offrendomi tesori che sapeva contenuti entro tombe. Una ierodula del tempio di Diana si sgozzò, per disperazione, con il coltello dei sacrifici; e il governatore della Cilicia, come ultimo impegno, urlò in faccia alla mia famiglia che mi avrebbe fatto ammazzare; ma fu lui a morire tre giorni dopo, assassinato dai Romani. DAMIDE ad Antonio, colpendolo con il gomito: Eh, quando vi dicevo…Che uomo!

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APOLLONIO Per quattro anni di seguito, ho mantenuto il silenzio dei Pitagorici. Il dolore più improvviso non mi strappava neppure un sospiro; e a teatro, quando entravo, ci si scostava da me come da un fantasma. DAMIDE Voi avreste fatto altrettanto? APOLLONIO Terminato il tempo del mio noviziato, ho cominciato ad istruire i sacerdoti che avevano smarrito la tradizione. ANTONIO Quale tradizione? DAMIDE Lasciatelo proseguire! Tacete! APOLLONIO Ho conversato con i Samaniani del Gange, con gli astrologi della Caldea, con i magi di Babilonia, con i Druidi della Gallia, con i sacerdoti dei negri! Ho salito i quattordici Olimpi, ho scandagliato i laghi della Scizia, ho misurato la grandezza del deserto! DAMIDE È tutto vero! Io c’ero! APOLLONIO Dapprima mi sono recato fino al mare d’Ircania. Ne ho fatto il giro; e attraverso il paese dei Baramati, dove è sepolto Bucefalo, sono disceso verso Ninive. Alle porte della città, si avvicinò un uomo. DAMIDE Io! Io! Mio buon Maestro! Vi amai immediatamente! Eravate più dolce di una fanciulla e più bello di un dio! APOLLONIO senza ascoltarlo: Voleva accompagnarmi per servirmi da interprete.

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DAMIDE Ma voi rispondeste che comprendevate tutte le lingue e che indovinavate tutti i pensieri. Allora ho baciato l’orlo del vostro mantello, e mi sono messo a camminare dietro voi. APOLLONIO Dopo Ctesifonte, entrammo nelle terre di Babilonia. DAMIDE E il satrapo emise un grido, vedendo un uomo così pallido! ANTONIO a parte: Che significa?... APOLLONIO Il Re mi ha ricevuto in piedi, vicino ad un trono d’argento, in una sala rotonda costellata di stelle; e dalla cupola pendevano , da fili invisibili, quattro grandi uccelli d’oro con le ali distese. ANTONIO sognante: Sulla terra ci sono cose simili? DAMIDE Laggiù v’è una città, la famosa Babilonia! Lì tutti sono ricchi! Le case, dipinte di blu, hanno porte di bronzo, con una scalinata che scende al fiume! Col suo bastone, traccia un disegno per terra. Così, vedete? E poi, ci sono templi, piazze, bagni, acquedotti! I palazzi sono coperti di rame rosso! E l’interno, se voi sapeste! APOLLONIO Sulle mura rivolte a settentrione, s’innalza una torre che ne regge una seconda, una terza, una quarta, una quinta – e ve ne sono altre tre ancora! L’ottava è una cappella con un letto. Nessuno vi entra se non la donna scelta dai sacerdoti per il dio Belus. Il re di Babilonia mi vi fece alloggiare.

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DAMIDE Me, era tanto se mi vedevano! Così, restavo solo a passeggiare per le strade. Mi informavo delle usanze; visitavo i laboratori; esaminavo le grandi macchine che portano l’acqua nei giardini. Ma mi rincresceva di non essere col Maestro.

APOLLONIO Infine, uscimmo da Babilonia; e al chiaro di luna, improvvisamente vedemmo un’empusa.

DAMIDE Si, davvero! Saltava sul suo zoccolo di ferro; nitriva come un asino; galoppava tra le rocce. Egli le gridò delle ingiurie ed ella scomparve.

ANTONIO a parte: A cosa mirano? APOLLONIO A Taxila, capitale di cinquemila fortezze, Fraorte, re del Gange ci ha mostrato la sua guardia di uomini neri alti cinque cubiti, e nei giardini del suo palazzo, sotto un padiglione di broccato verde, un enorme elefante, che le regine si divertivano a profumare. Era l’elefante di Poro, ch’era fuggito dopo la morte di Alessandro. DAMIDE E che era stato ritrovato in una foresta. ANTONIO Parlano molto, come le persone in preda all’ebbrezza. APOLLONIO Fraorte ci fece sedere alla sua tavola. DAMIDE Che paese bizzarro! I signori, mentre si ubriacano, si sollazzano a scagliare frecce sotto i piedi di un fanciullo che danza. Ma io non approvo… APOLLONIO Quando fui pronto a partire, il Re mi donò un parasole, e mi disse: “ Posseggo sull’Indo una razza di cammelli bianchi. Quando non ti serviranno più, soffia nelle loro orecchie. Ritorneranno a casa. ” Discendemmo lungo il fiume, marciando di notte al lume delle lucciole che brillavano tra i bambù. Lo schiavo fischiava un’aria per allontanare i serpenti; e i nostri cammelli curvavano le reni passando sotto gli alberi, come sotto porte troppo basse.

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Un giorno, un bambino nero che teneva un caduceo d’oro in mano, ci condusse al collegio dei saggi. Iarca, loro capo, mi parlò dei miei antenati, di tutti i miei pensieri, di tutte le mie azioni, di tutte le mie esistenze. Egli era stato il fiume Indo, e mi ricordò che, al tempo del re Sesostri, avevo guidato barche sul Nilo. DAMIDE A me, non disse nulla, di modo che non so chi sono stato. ANTONIO Hanno l’aria vaga come di ombre. APOLLONIO Abbiamo incontrato, sulla riva del mare, i Cinocefali satolli di latte, che se ne tornavano dalla loro spedizione nell’isola di Taprobana. Le tiepide onde spingevano davanti a noi delle perle bionde. L’ambra scricchiolava sotto i nostri passi. Scheletri di balene imbiancavano nelle fenditure delle falesie. Infine la terra si fece più stretta d’un sandalo – e dopo aver scagliato verso il sole delle gocce di Oceano, noi girammo a destra, per ritornare. Siamo ritornati passando per la Regione degli Aromi, il paese dei Gangaridi, il promontorio di Comaria, la contrada dei Sacaliti, degli Adramiti e degli Omeriti; poi, attraverso i monti Cassanici, il Mar Rosso e l’isola di Topazo, siamo penetrati in Etiopia dal regno dei Pigmei. ANTONIO a parte: Com’è grande la terra! DAMIDE E quando siamo ritornati al nostro paese, tutti quelli che avevamo conosciuti un tempo erano morti. Antonio china il capo. Silenzio. APOLLONIO riprende: Allora nel mondo si cominciò a parlare di me. La peste sconvolgeva Efeso; io ho fatto lapidare un vecchio mendicante. DAMIDE E la peste se ne è andata! ANTONIO Come! Scaccia le malattie?

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APOLLONIO A Cnido, ho guarito l’innamorato della Venere. DAMIDE Si, un folle, che aveva anche promesso di sposarla. Passi ancora amare una donna; ma una statua, che sciocchezza! Il maestro gli posò le mani sul cuore; e l’amore subito si estinse. ANTONIO Che! Libera dai demoni? APOLLONIO A Taranto, si portava al rogo una fanciulla morta. DAMIDE Il Maestro le toccò le labbra, ed ella si rialzò chiamando sua madre. ANTONIO Come! Resuscita i morti? APOLLONIO Ho predetto il potere a Vespasiano. ANTONIO Cosa! Prevede il futuro? DAMIDE V’era a Corinto… APOLLONIO Essendo a tavola con lui, alle terme di Baia… ANTONIO Scusatemi stranieri, è tardi! DAMIDE Un giovinetto che si chiamava Menippo.

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ANTONIO No, no! Andatevene! APOLLONIO Entrò un cane che aveva nelle fauci una mano mozzata. DAMIDE Una sera, in un sobborgo, incontrò una donna. ANTONIO Non mi sentite? Allontanatevi! APOLLONIO Si aggirava incerto attorno ai letti. ANTONIO Basta! APOLLONIO Si voleva cacciarlo. DAMIDE Menippo, dunque, si recò da lei; si amarono. APOLLONIO Battendo il mosaico con la coda, depose quella mano sulle ginocchia di Flavio. DAMIDE Ma il mattino, alle lezioni di scuola, Menippo era pallido. ANTONIO scattando: Ancora! Ah, che continuino pure, poiché non v’è… DAMIDE Il maestro gli disse: “ O bel giovinetto, tu accarezzi un serpente; un serpente ti accarezza! A quando le nozze? ” Partecipammo tutti ai festeggiamenti.

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ANTONIO Sbaglio di sicuro, ad ascoltare tutto ciò! DAMIDE Fin dal vestibolo v’erano servitori che si agitavano, le porte si aprivano; tuttavia, non si udiva ne rumore di passi, ne rumori di porte. Il Maestro prese posto vicino a Menippo. Subito la fidanzata se la prese coi filosofi. Ma il vasellame d’oro, i coppieri, i cucinieri, i panettieri, scomparvero; il tetto volò via, i muri crollarono; e Apollonio restò solo, diritto, innanzi a quella donna piangente prostrata ai suoi piedi. Si trattava di un vampiro che soddisfaceva i bei giovanotti per cibarsi della loro carne – perché non v’è nulla di meglio, per quella specie di larve, che il sangue degli innamorati. APOLLONIO Se vuoi conoscere l’arte… ANTONIO Non voglio conoscere niente! APOLLONIO La sera del nostro arrivo alle porte di Roma… ANTONIO Oh si, parlami della città dei papi! APOLLONIO Un uomo ubriaco, che cantava con una voce melodiosa, ci si accostò. Cantava un epitalamio di Nerone; e aveva il potere di far morire chiunque l’ascoltasse con noncuranza. Portava sul dorso, in una scatola, una corda presa alla cetra dell’Imperatore. Io ho alzato le spalle. Ci ha gettato del fango sul viso. Allora, mi sono tolta la cintura e gliel’ ho messa in mano. DAMIDE Avete sbagliato, lasciatemelo dire! APOLLONIO L’Imperatore, durante la notte, mi fece chiamare a casa sua. Stava giocando agli aliossi con Sporo, appoggiato col braccio sinistro su un tavolinetto d’agata. Si distolse, e aggrottando le sopracciglia bionde: “ Perché non hai paura di me? ” mi chiese “ Perché il Dio che ti ha fatto terribile mi ha fatto intrepido. ” risposi.

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ANTONIO a parte: Qualcosa di inesplicabile mi spaventa. Silenzio. DAMIDE riprende con voce acuta: Tutta l’Asia, d’altra parte, potrà dirvi… ANTONIO di soprassalto: Mi sento male! Lasciatemi! DAMIDE Ascoltate dunque. Ha visto, da Efeso, uccidere Domiziano, che stava a Roma. ANTONIO sforzandosi di ridere: Ma è mai possibile ciò! DAMIDE Si, a teatro, in pieno giorno, il quattordicesimo prima delle calende di ottobre, improvvisamente gridò “ Stanno sgozzando Cesare! ” e di momento in momento aggiungeva: “ Rotola a terra; oh, come si dibatte! Si rialza; tenta di fuggire; le porte sono chiuse; ah, è la fine! È morto! ” E, in effetti, quel giorno Tito Flavio Domiziano fu assassinato, come sapete. ANTONIO Senza l’aiuto del Diavolo… certamente… APOLLONIO Quel Domiziano, aveva voluto mettermi a morte! Damide, su mio ordine, era fuggito, ed io restavo solo nella mia prigione. DAMIDE È stata una terribile temerarietà, bisogna ammetterlo! APOLLONIO Verso l’ora quinta, i soldati mi condussero in tribunale. Avevo pronta la mia arringa nascosta sotto il mantello.

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DAMIDE Eravamo sulla spiaggia di Pozzuoli, noi altri! Vi credevamo morto; piangevamo. Quando, verso l’ora sesta, all’improvviso, appariste e ci diceste: “ Sono io! ” ANTONIO a parte: Come Lui! DAMIDE a voce alta: Pari pari! ANTONIO Oh, non è possibile! Mentite! Mentite, non è vero? APOLLONIO Egli è sceso dal Cielo. Io vi salgo, grazie alla mia virtù che m’ha elevato fino all’altezza del Primo Principio! DAMIDE Tiana, la sua città natale, ha fondato in suo onore un tempio con dei sacerdoti! APOLLONIO si avvicina ad Antonio e gli grida alle orecchie: Il fatto è che io conosco tutti gli dei, tutti i riti, tutte le preghiere, tutti gli oracoli! Sono penetrato nell’antro di Trofonio, figlio di Apollo! Ho impastato per le Siracusane le focacce che portano sui monti! Ho sofferto le ottanta prove di Mitra! Ho stretto al mio cuore il serpente Sabasio! Ho ricevuto la fascia dei Cabiri! Ho lavato Cibele nelle onde dei golfi campani, ed ho trascorso tre lune nelle caverne di Samotracia! DAMIDE ridendo scioccamente: Ah, ah, ah! Ai misteri della Buona Dea! APOLLONIO Ed ora ricominciamo il pellegrinaggio! Andiamo al Nord, dalla parte dei cigni e delle nevi. Sulla pianura bianca, gli ippopodi ciechi spezzano con la punta dei loro piedi la pianta d’oltremare. DAMIDE Vieni! È l’aurora. Il gallo ha cantato, il cavallo ha nitrito, la vela è pronta.

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ANTONIO Il gallo non ha affatto cantato! Al contrario, sento il grillo tra le sabbie, e vedo la luna ferma al suo posto. APOLLONIO Andiamo al Sud, dietro le montagne e i grandi flutti, a cercare nei profumi la ragione dell’amore. Tu aspirerai l’odore del mirrodion che uccide i deboli. Immergerai il tuo corpo nel lago d’olio di rose dell’isola Giunonia. Vedrai, mentre dormi su un tappeto di primule, la lucertola che si risveglia tutti i secoli quando giunge a maturazione il carbonchio che ha in fronte. Le stelle palpitano come occhi, le cascate cantano come lire, dai fiori dischiusi esalano ebbrezze; il tuo spirito si dispiegherà nell’aria, e nel tuo cuore come sul tuo volto. DAMIDE Maestro, è tempo! Sta alzandosi il vento, si destano le rondini, la foglia del mirto s’è dileguata! APOLLONIO Si, partiamo! ANTONIO No, io resto! APOLLONIO Vuoi che ti insegni dove cresce la pianta Balis,che resuscita i morti? DAMIDE Chiedigli piuttosto l’andromada che attira l’argento, il ferro e il rame! ANTONIO

Oh, come soffro! Come soffro! DAMIDE Comprenderai la voce di tutti gli esseri, i ruggiti, i gemiti! APOLLONIO Ti farò salire sui liocorni, sui draghi, sugli ippocentauri e i delfini!

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ANTONIO piange. Oh, oh, oh! APOLLONIO Conoscerai i demoni che abitano le caverne, quelli che parlano nei boschi, quelli che agitano i

flutti, quelli che spingono le nuvole. DAMIDE Stringi la tua cintura, annoda i tuoi sandali! APOLLONIO Ti spiegherò le ragioni delle forme divine, perché Apollo sta in piedi, Giove seduto, Venere è

nera a Corinto, quadrata ad Atene, conica a Pafo. ANTONIO congiungendo le mani: Purché se ne vadano! Purché se ne vadano! APOLLONIO Strapperò davanti a te le armature degli Dei, forzeremo i santuari, ti farò violare la Pizia! ANTONIO

Signore, aiutami! Si precipita verso la croce. APOLLONIO Qual è il tuo più gran desiderio? Il tuo sogno? Solo il tempo di pensarvi… ANTONIO Gesù, Gesù, vieni in mio soccorso! APOLLONIO Vuoi che lo faccia apparire, Gesù! ANTONIO Cosa? Come?

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APOLLONIO Proprio lui, non un altro! Getterà la sua corona, e discuteremo faccia a faccia. DAMIDE sottovoce: Di che lo vuoi! di che lo vuoi! Antonio, ai piedi della croce, mormora orazioni. Damide gli gira intorno, facendo moine. Vediamo, buon eremita, caro sant’Antonio! Uomo puro, uomo illustre! Uomo più che lodevole!

Non spaventatevi; è un parlare esagerato, alla maniera degli Orientali. Tuttavia ciò non toglie… APOLLONIO Lascialo, Damide! Egli crede, come un bruto, alla realtà delle cose. Il terrore che nutre per gli dei gli impedisce di

comprenderli; e avvilisce il suo al livello di un re invidioso! Tu, figlio mio, non mi lasciare! Si avvicina di spalle al bordo della falesia, lo oltrepassa, e resta sospeso in aria. Al di sopra di tutte le forme, oltre la terra, al di là dei cieli, risiede il mondo delle Idee,

interamente occupato dal Verbo! Con un balzo, salteremo in un altro spazio; e tu abbraccerai nella sua infinità l’Eterno, l’Assoluto, l’Essere! Andiamo! Dammi la mano! In marcia!

Entrambi, fianco a fianco, si sollevano pian piano nell’aria. Antonio, abbracciando la croce, li guarda salire. Scompaiono.

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V ANTONIO camminando lentamente: Quello vale tutto l’inferno! Nabucodonosor non mi aveva abbagliato tanto. La Regina di Saba non mi ha così profondamente incantato. Il suo modo di parlare degli Dei ispira il desiderio di conoscerli. Mi ricordo di averne visto centinaia insieme, nell’isola di Elefantina, al tempo di Diocleziano. L’Imperatore aveva ceduto ai Nomadi una vasta contrada, a condizione che essi ne custodissero le frontiere; e il trattato fu concluso in nome delle “ Potenze invisibili ”. Poiché gli dei di ciascun popolo erano sconosciuti all’altro. I Barbari avevano portato i propri. Occupavano le colline di sabbia che fiancheggiano il fiume. Li si scorgeva che tenevano i loro idoli fra le braccia come grandi bambini paralitici; oppure, navigando nel mezzo delle cateratte su un tronco di palma, mostravano da lontano gli amuleti che portavano al collo, i tatuaggi sui loro petti; e ciò non è più peccaminoso che la religione dei Greci, degli Asiatici e dei Romani! Quando abitavo il tempio di Eliopoli, ho spesso riflettuto su tutto quello che v’era sui muri: avvoltoi che portavano scettri, coccodrilli che suonavano lire, volti d’uomini con il corpo di serpente, donne con la testa di vacca inginocchiate davanti a dei osceni; e quelle forme soprannaturali mi trascinavano verso altri mondi. Avrei voluto sapere cosa guardano quegli occhi sereni. Perché la materia abbia tanto potere, bisogna che contenga uno spirito. L’anima degli dei è legata alle loro immagini… Quelli che hanno un’apparente bellezza possono sedurre. Ma gli altri…che sono abbietti o terribili, come credervi?... E vede passare rasoterra foglie, pietre, conchiglie, rami d’alberi, vaghe immagini di animali, poi delle specie di nani idropici; sono tutti dei. Scoppia a ridere. Alle sue spalle parte un’altra risata; e compare Ilarione, in abito da eremita, molto più grande di poco prima, colossale. ANTONIO non è affatto sorpreso di rivederlo. Bisogna essere scemi per adorare simili cose! ILARIONE Si, si, del tutto scemi!

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Allora, sfilano davanti a loro idoli di tutte le nazioni e di tutte le età, fatti di legno, di metallo, di granito, di piume, di pelli cucite. I più vecchi, anteriori al Diluvio, scompaiono sotto una cortina di alghe che pendono come delle criniere. Alcuni, troppo alti per la loro base, scricchiolano nelle loro giunture e si spezzano le reni camminando. Altri lasciano colare della sabbia attraverso i buchi dei loro ventri. Antonio e Ilarione si divertono un mondo. Si tengono i fianchi a forza di ridere.

Poi, passano degli idoli col profilo di montone. Barcollano sulle loro gambe sbilenche, socchiudono le palpebre e balbettano come muti: “ Ba, ba, ba! ”

Più si avvicinano al tipo umano, più irritano Antonio, che li prende a pugni e a calci, accanendosi. Diventano spaventosi – con alti pennacchi, gli occhi a palla, le braccia che terminano con artigli, le mascelle da

pescecane. E davanti a quegli dei si sgozzano uomini sopra altari di pietra; altri vengono tritati entro tini, schiacciati sotto carri,

inchiodati agli alberi. Ve n’è uno, di ferro arroventato e con delle corna di toro, che divora i fanciulli. ANTONIO Orrore! ILARIONE Ma gli dei reclamano sempre supplizi. Anche il tuo ha voluto… ANTONIO piangendo: Oh, non continuare, taci!

La cinta di rocce si muta in una vallata. Una mandria di buoi bruca l’erba dei suoi pascoli. Il pastore che li sorveglia osserva una nuvola; e lancia nell’aria, con voce acuta, delle parole imperative. ILARIONE Siccome ha bisogno della pioggia, si sforza, con dei canti, di costringere il re del cielo ad aprire il nembo fecondo. ANTONIO ridendo: Ecco un orgoglio assai ingenuo! ILARIONE Perché tu compi esorcismi? La vallata diviene un mare di latte, immobile e sconfinato. Nel mezzo galleggia una lunga culla, composta dalle spire di un serpente, le cui teste, piegandosi tutte insieme, ombreggiano un dio addormentato sul suo corpo. È giovane, imberbe, più bello di una fanciulla e coperto di veli diafani. Le perle della sua tiara brillano dolcemente come lune, un rosario di stelle forma parecchi giri sul suo petto; e, con una mano sotto la testa, l’altro braccio disteso, egli riposa, con aria sognante e inebriata. Una donna accoccolata ai suoi piedi attende che si risvegli. ILARIONE È la dualità primordiale dei Brahmani – giacché l’Assoluto non si manifesta sotto nessuna forma.

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Sopra l’ombelico del dio è spuntato uno stelo di loto; e nel suo calice, appare un altro dio a tre volti. ANTONIO Guarda, che trovata! ILARIONE Ugualmente, Padre, Figlio e Spirito Santo formano una sola persona! Le tre teste si separano, e appaiono tre grandi Dei. Il primo, di colore rosa, morde la punta del suo alluce. Il secondo, di colore blu, agita quattro braccia. Il terzo, di colore verde, porta una collana di teschi umani. In faccia a loro, immediatamente, sorgono tre Dee, l’una avvolta in una reticella, l’altra offrente una coppa, l’ultima che brandisce un arco. E quegli dei e quelle dee aumentano, si moltiplicano. Sulle loro spalle spuntano braccia, all’estremità delle loro braccia, mani che impugnano stendardi, asce, scudi, spade, parasoli e tamburi. Dalle loro teste zampillano fontane, dalle loro narici scendono erbe. A cavallo di uccelli, cullati dentro portantine, troneggianti su scranni d’oro, in piedi dentro nicchie, pensano, viaggiano, comandano, bevono del vino, aspirano profumi. Alcune danzatrici volteggiano; dei giganti inseguono mostri; sull’entrate delle grotte, meditano degli eremiti. Non si distinguono le pupille dalle stelle, le nuvole dalle banderuole; i pavoni si abbeverano a ruscelli di polvere d’oro, gli ornamenti dei padiglioni si confondono con le macule dei leopardi, raggi colorati si incrociano nell’aria turchina con frecce che volano e incensieri che oscillano. E tutto ciò si dispiega come un alto fregio, che appoggia la sua base sulle rocce e sale fino in cielo. ANTONIO abbagliato: Quanti! Cosa vogliono? ILARIONE Quello che si gratta l’addome con la sua proboscide d’elefante, è il dio solare, l’ispiratore della saggezza. Quell’altro, le cui sei teste reggono delle torri e le quattordici braccia dei giavellotti, è il principe delle armate, il Fuoco divoratore. Il vegliardo che cavalca un coccodrillo, va a lavare sulla riva del mare le anime dei morti. Esse saranno tormentate da quella donna nera dai denti guasti, dominatrice degli inferi. Il carro trainato da cavalli rossi e condotto da un cocchiere senza gambe porta a spasso nell’azzurro del cielo il Signore del sole. Il Dio lunare l’accompagna in una lettiga attaccata a tre gazzelle. In ginocchio sulla schiena di un pappagallo, la dea della Bellezza porge all’Amore, suo figlio, la sua tonda mammella. Eccola più lontano che salta di gioia nei prati. Guarda, guarda! Con in testa una mitria abbagliante, corre sui campi di grano, sulle onde del mare, sale in cielo, si spande ovunque! Tra quegli dei siedono i Geni dei venti, dei pianeti, dei mesi, dei giorni, mille altri ancora! E le loro sembianze sono molteplici, i loro mutamenti rapidi. Eccone uno che da pesce diviene tartaruga; assume l’aspetto di un cinghiale, la statura di un nano. ANTONIO Per far che?

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ILARIONE Per ristabilire l’equilibrio, per combattere il male. Ma la vita si esaurisce, le forme si logorano, è necessario che progrediscano nelle metamorfosi. Improvvisamente appare UN UOMO NUDO seduto sulla sabbia con le gambe incrociate. Un largo alone vibra, sospeso alle sue spalle. I riccioli dei suoi capelli neri, che mandano riflessi azzurri, contornano simmetricamente una protuberanza sulla cima del suo cranio. Le sue braccia, assai lunghe, scendono diritte contro i fianchi. Le sue due mani, con le palme aperte, riposano distese sulle sue cosce. La parte inferiore dei piedi offre l’immagine di due soli; e sta completamente immobile – di fronte ad Antonio e a Ilarione – con tutti gli dei intorno, scaglionati sulle rocce come sui gradini di un circo. Le sue labbra si socchiudono; e con voce profonda: Io sono il maestro della grande elemosina, il soccorso delle creature, e ai credenti come ai profani io espongo la legge. Per salvare il mondo, ho voluto nascere tra gli uomini. Gli dei piangevano quando sono partito. Dapprima ho cercato una donna adeguata: di razza bellicosa, moglie di un re, molto buona, assai bella, con l’ombelico profondo, il corpo sodo come un diamante; e nel tempo del plenilunio, senza l’ausilio di alcun maschio, sono entrato nel suo ventre. Ne sono uscito dal fianco destro. Alcune stelle si fermarono. ILARIONE mormora tra i denti: “ E quando videro la stella fermarsi, concepirono una grande gioia! ” Antonio guarda con maggiore attenzione IL BUDDHA che riprende: Dall’interno dell’Himalaya, un religioso centenario accorse per vedermi. ILARIONE “ Un uomo chiamato Simeone, che non doveva morire prima d’aver visto il Cristo ! ” IL BUDDHA Mi hanno portato nelle scuole. Ne sapevo più dei dottori. ILARIONE “ … Nel mezzo dei dottori; e tutti quelli che lo ascoltavano erano stupiti della sua sapienza. ” Antonio fa segno ad Ilarione di tacere.

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IL BUDDHA Continuamente, stavo a meditare nei giardini. Le ombre degli alberi giravano; ma l’ombra di quello che mi riparava non si muoveva. Nessuno mi eguagliava nella conoscenza delle scritture, nell’enumerazione degli atomi, nella guida degli elefanti, nei lavori con la cera, nell’astronomia, la poesia, il pugilato, tutti gli esercizi e tutte le arti! Per conformarmi alle usanze, ho preso moglie; e trascorrevo i giorni nel mio palazzo reale, vestito di perle, sotto una pioggia di profumi, ventilato dagli scacciamosche di trentatremila donne, osservando il mio popolo dall’alto delle mie terrazze, adorne di campanelle risonanti. Ma la vista delle miserie del mondo mi distoglieva dai piaceri. Sono fuggito. Ho mendicato sulle strade, coperto di stracci raccolti nei sepolcri; e siccome c’era un eremita assai sapiente, ho voluto divenirne lo schiavo; sorvegliavo la sua porta, gli lavavo piedi. Tutte le sensazioni furono annientate, tutte le gioie, tutti i languori. Poi, concentrando il mio pensiero in una più vasta meditazione, conobbi l’essenza delle cose, l’illusione delle forme. Ho purgato senza indugio la scienza dei Brahmani. Sotto le loro apparenze austere, sono rosi dalla cupidigia, si voltolano nella sozzura, si coricano sulle spine, credendo di giungere alla felicità per la via della morte! ILARIONE “ Farisei, ipocriti, sepolcri imbiancati, razza di vipere! ” IL BUDDHA Anch’io ho fatto delle cose sorprendenti – non mangiando per giorni che un solo grano di riso, e i grani di riso a quei tempi non erano più grossi che al presente – i miei peli caddero, il mio corpo divenne nero; i miei occhi rientrati nelle orbite sembravano stelle intravviste sul fondo di un pozzo. Per sei anni sono rimasto immobile, esposto alle mosche, ai leoni e ai serpenti; e il solleone, gli acquazzoni, la neve, la folgore, la grandine e le tempeste, ricevevo ogni cosa senza ripararmi neppure con la mano. I viaggiatori che passavano, credendomi morto, mi gettavano da lontano dei pugni di terra! Mi mancava la tentazione del Diavolo! L’ho chiamato a me! Sono venuti i suoi figli – schifosi, ricoperti di squame, nauseabondi come carnai, urlanti, fischianti, mugghianti, cozzando armature e ossa di morti. Alcuni sputano fiamme dalle narici, alcuni creano le tenebre con le loro ali, alcuni portano dei rosari di dita mozzate, alcuni bevono del veleno di serpente nel cavo delle loro mani; hanno teste di porco, di rinoceronte o di rospo, ogni sorta di figura che ispira disgusto o terrore. ANTONIO a parte: Ho sopportato tutto ciò un tempo! IL BUDDHA Poi mi inviò le sue figlie – belle, ben truccate, ornate di cinture d’oro, i denti bianchi come il gelsomino, le cosce rotonde come la proboscide di un elefante.

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Alcune, ballando, distendono le braccia, per mostrare le fossette dei loro gomiti; alcune fanno l’occhiolino, alcune si mettono a ridere, alcune socchiudono le loro vesti. Vi sono vergini che arrossiscono, matrone piene d’orgoglio, regine con un gran seguito di schiavi e di bagagli. ANTONIO a parte: Ah, anche lui! IL BUDDHA Avendo vinto il demonio, ho trascorso dodici anni a nutrirmi esclusivamente di profumi; e siccome avevo acquisito le cinque virtù, le cinque facoltà, le dieci forze, le diciotto sostanze, ed ero penetrato nelle quattro sfere del mondo invisibile, l’Intelligenza fu mia! Divenni il Buddha! Tutti gli dei si inchinano; quelli che hanno molteplici teste le abbassano tutte insieme. Egli alza alta nell’aria la sua mano e riprende: In vista della liberazione degli esseri, ho fatto un’infinità di sacrifici! Ho regalato ai poveri vesti di seta, letti, carri, case, mucchi d’oro e di diamanti. Ho dato le mie mani ai monchi, le mie gambe agli zoppi, le mie pupille ai ciechi; ho tagliato la mia testa per i decapitati. Al tempo in cui ero re, ho distribuito province; al tempo in cui ero brahmano, non ho disprezzato alcuno. Quando ero un eremita, ho avuto parole amorevoli per il ladro che mi scannò. Quand’ero una tigre, mi sono lasciato morire di fame. E in quest’ultima esistenza, avendo predicato la legge, non ho più nulla da fare. Il grande periodo è compiuto! Gli uomini, gli animali, gli dei, i bambù, gli oceani, le montagne, i granelli di sabbia del Gange con le miriadi e miriadi di stelle, ogni cosa sta per finire; e, fino ad un nuovo principio, una fiamma danzerà sulle rovine dei mondi distrutti! Allora una vertigine prende gli dei. Barcollano, cadono in convulsioni, e vomitano le loro esistenze. Le loro corone vanno in pezzi, i loro stendardi volano via. Si strappano i loro attributi, i loro sessi, scagliano dietro le spalle le coppe dalle quali bevevano l’immortalità, si strangolano con i loro serpenti, svaniscono in fumo – e quando tutto è scomparso… ILARIONE lentamente: Or ora tu hai visto la credenza di molte centinaia di milioni di uomini! Antonio è per terra con il viso fra le mani. In piedi presso di lui, voltando la schiena alla croce, Ilarione lo guarda. Trascorre un tempo abbastanza lungo. Poi, compare un essere singolare, che ha una testa d’uomo su un corpo di pesce. Avanza diritto nell’aria colpendo la sabbia con la sua coda; e quella figura di patriarca con le sue piccole braccia fa ridere Antonio. OANNES con voce lamentosa: Rispettami! Io sono contemporaneo delle origini. Ho abitato il mondo informe dove sonnecchiavano le bestie ermafrodite, sotto il peso di un’atmosfera opaca, entro la profondità di onde tenebrose – quando le dita, le pinne e le ali erano confuse, e occhi senza testa galleggiavano come molluschi, in mezzo a tori dalla faccia umana e a serpenti dalle zampe di cane.

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Sull’insieme di questi esseri, Omoroca, piegata come un cerchio, stendeva il suo corpo di femmina. Ma Belus la tagliò netta in due metà, con l’una fece la terra, con l’altra il cielo; e i due mondi simili si contemplano mutuamente. Io, la prima coscienza del Caos, sono sorto dall’abisso per indurire la materia, per regolare le forme; ed ho insegnato agli uomini la pesca, le seminagioni, la scrittura e la storia degli dei. Da allora, vivo negli stagni che restano del Diluvio. Ma il deserto avanza intorno ad essi, il vento vi getta la sabbia, il sole li divora; e io muoio sul mio letto di fango, guardando le stelle attraverso l’acqua. Vi ritorno. Salta, e scompare nel Nilo. ILARIONE Era un antico dio dei Caldei! ANTONIO ironicamente: Com’erano dunque quelli di Babilonia? ILARIONE Li puoi vedere! E si ritrovano sulla piattaforma di una torre quadrangolare dominante sei altre torri che, più strette man mano si elevano, formano una mostruosa piramide. In basso si distingue una grande massa nera – la città senza dubbio – distesa nella pianura. L’aria è fredda, il cielo blu cupo; palpitano un gran numero di stelle. Nel mezzo della piattaforma si innalza una colonna di pietra bianca. Tutt’intorno vanno e vengono sacerdoti in tuniche di lino che descrivono con le loro evoluzioni un cerchio in movimento; e, con il capo rivolto al cielo, contemplano gli astri. ILARIONE ne indica parecchi a sant’Antonio. Ve ne sono trenta principali. Quindici badano alla parte superiore della terra, quindici a quella inferiore. Ad intervalli regolari, uno d’essi si slancia dalle regioni superiori verso quelle in basso, mentre un altro abbandona le inferiori per salire verso le sublimi. Dei sette pianeti, due sono benefici, due cattivi, tre ambigui; nel mondo, ogni cosa dipende da quei fuochi eterni. Dal loro movimento e dalla loro posizione si possono trarre presagi – e tu stai calpestando il luogo più degno di rispetto della terra. Pitagora e Zoroastro vi si sono incontrati. Sono oramai dodicimila anni che questi uomini osservano il cielo, per conoscere meglio gli dei. ANTONIO Gli astri non sono dei. ILARIONE Essi dicono di si; poiché le cose attorno a noi passano; il cielo, come l’eternità, resta immutabile! ANTONIO Tuttavia ha un padrone.

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ILARIONE Quello là, Belus, il primo raggio, il Sole, il Maschio! L’Altra, che egli feconda, è sotto di lui! Antonio scorge un giardino illuminato da lampade. Egli è in mezzo alla folla, in un viale di cipressi. A destra e a sinistra, delle stradine conducono a d alcune capanne costruite in un bosco di melograni, protetti da graticci di canne. Gli uomini in maggioranza hanno berretti a punta e vesti sgargianti come il piumaggio dei pavoni. V’è gente del Nord vestita di pelli d’orso, nomadi con mantelli di lana bruna, pallidi Gangaridi con lunghi orecchini; e i ranghi come le nazioni appaiono confusi, giacché marinai e tagliatori di pietre stanno gomito a gomito di principi che portano tiare di rubini e lunghi bastoni dal pomo cesellato. Tutti camminano dilatando le narici, raccolti nel medesimo desiderio. Di tanto in tanto, si scostano per lasciar passare un lungo carro coperto, trainato da buoi; oppure si tratta di un asino che dondola sulla sua groppa una donna avvolta nei veli, che scompare così verso le capanne. Antonio ha paura, vorrebbe tornare indietro. Tuttavia una inspiegabile curiosità lo spinge a proseguire. Ai piedi dei cipressi, alcune donne stanno accoccolate in fila su delle pelli di cervo; tute hanno per diadema una treccia di corde. Alcune, magnificamente vestite, chiamano ad alta voce i passanti. Le più timide, nascondono il loro viso fra le braccia, mentre alle loro spalle, una matrona, senza dubbio la madre, le esorta. Altre, con la testa avvolta in uno scialle nero e il corpo interamente nudo, da lontano sembrano statue di carne. Non appena un uomo ha gettato del denaro sulle loro ginocchia, si alzano. E si odono, sotto il fogliame, mormorii e baci – a volte un gran grido acuto. ILARIONE Sono le vergini di Babilonia che si prostituiscono alla Dea. ANTONIO Quale Dea? ILARIONE Eccola! E gli mostra, in fondo al viale, sulla soglia di una grotta illuminata, un blocco di pietra rappresentante l’organo sessuale femminile. ANTONIO Ignominia! Quale abominio dare un sesso a Dio! ILARIONE Anche tu lo immagini come una persona vivente! Antonio si ritrova nelle tenebre. Egli scorge, nell’aria, un cerchio luminoso, posato su ali orizzontali. Quella specie di anello circonda, come una cintura troppo allentata, la vita di un piccolo uomo con il capo coperto da una mitria, una corona nella mano, e la parte inferiore del corpo che scompare sotto grandi piume che formano un gonnellino. È ORMUZ il dio dei Persiani.

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Svolazza gridando: Ho paura! Ho intravisto le sue fauci. Ti avevo vinto, Ahriman! Ma tu ricominci! Dapprima, rivoltandoti contro me, hai fatto perire la primogenita delle creature, Kaiomortz, l’Uomo-Toro. Poi hai sedotto la prima coppia umana, Meschia e Meschiana; ed hai sparso le tenebre nei cuori, hai spinto verso il cielo i tuoi battaglioni. Io avevo i miei, il popolo delle stelle; e contemplavo al di sotto del mio trono tutti gli astri disposti ad intervalli. Mitra, mio figlio, abitava un luogo inaccessibile. Vi accoglieva le anime, le lasciava andar via, ed ogni mattino si alzava per spargere la sua ricchezza. Lo splendore del firmamento era riflesso dalla terra. Il fuoco brillava sulle montagne – immagine dell’altro fuoco da cui avevo creato tutti gli esseri. Per preservarlo dalle sozzure, i morti non venivano bruciati. Il becco degli uccelli li trasportava in cielo. Avevo regolato i pascoli, le arature, la legna del sacrificio, la forma delle coppe, le parole che occorre dire nell’insonnia – e i miei sacerdoti pregavano continuamente, affinché la venerazione di Dio fosse eterna. Ci si purificava con l’acqua, si offrivano pani sugli altari, si confessavano ad alta voce i propri peccati. Homa si dava da bere agli uomini, per trasmettere loro la sua forza. Mentre i geni del cielo combattevano i demoni, i bambini dell’Iran inseguivano i serpenti. Il Re, che innumerevoli cortigiani servivano in ginocchio, raffigurava la mia persona, era acconciato come me. I suoi giardini avevano la magnificenza di una terra celeste; e sulla sua tomba era rappresentato mentre sgozzava un mostro, emblema del Bene che stermina il Male. Poiché un giorno io dovevo, grazie al tempo senza limiti, vincere Ahriman. Ma la distanza fra noi si annulla; la notte avanza! A me gli Amshaspand, gli Ized, i Feruer! Mitra, aiuto! Prendi la tua spada! Caosyac, che devi tornare per la salvezza universale, difendimi! Come!...Non c’è nessuno! Ah, muoio! Ahriman, sei tu il padrone! Ilarione, alle spalle di Antonio, trattiene un grido di gioia – e Ormuz sprofonda nelle tenebre. Allora appare LA GRANDE DIANA D’EFESO nera, con occhi di smalto, i gomiti ai fianchi, gli avambracci divaricati, le mani aperte. Dei leoni si arrampicano sulle sue spalle; frutti, fiori e stelle si intrecciano sul suo petto; più sotto si dispiegano tre file di mammelle; e, dal ventre fino ai piedi, ella è stretta in una guaina dalla quale si proiettano con la metà del corpo, tori, cervi, grifoni e api. La si scorge al niveo barlume emesso da un disco d’argento, rotondo come la luna piena, posto dietro il suo capo. Dov’è il mio popolo? Dove sono le mie amazzoni? Cosa mi succede… Io l’incorruttibile, eccomi colta dal deliquio! I suoi fiori avvizziscono. I frutti troppo maturi si staccano. I leoni, i tori piegano il loro collo; i cervi sbavano sfiniti; le api, ronzando, muoiono per terra. Ella stringe, l’una dopo l’altra, le sue mammelle. Sono tutte vuote! Ma, sottoposta ad uno sforzo disperato, la sua guaina scoppia. Ella la afferra per l’orlo inferiore, come il lembo di una veste, vi getta gli animali, le fioriture; poi rientra nell’oscurità. E in lontananza, delle voci mormorano, ringhiano, ruggiscono, bramiscono e muggiscono. L’oscurità della notte è accresciuta da sospiri. Cadono gocce di una pioggia tiepida.

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ANTONIO Com’è buono il profumo delle palme, il fremito delle verdi foglie, la trasparenza delle sorgenti! Vorrei distendermi sulla terra per sentirla contro il mio cuore; e la mia vita si ritemprerebbe nella sua eterna giovinezza! Sente un rumore di cimbali e di nacchere; e nel mezzo di una rustica folla, alcuni uomini, vestiti di tuniche bianche a bande rosse, conducono un asino riccamente bardato, con la coda ornata di nastrini, gli zoccoli dipinti. Una cassa, coperta da una gualdrappa di tela gialla, ondeggia sulla sua schiena tra due ceste; una riceve le offerte che vi vengono poste: uova, uva, pere e formaggio, pollame, piccole monete; e la seconda è piena di rose, che i conduttori dell’asino sfogliano davanti a lui mentre camminano. Hanno ciondoli alle orecchie, ampi mantelli, i capelli intrecciati, le gote imbellettate; una corona di ulivo si chiude sulla loro fronte per mezzo di un medaglione a forma di statuina; hanno pugnali infilati nelle cinture; e agitano frustini col manico d’ebano e corregge guarnite di ossicini. Gli ultimi del corteo posano a terra, dritto come un candelabro, un grande pino che brucia alla sua sommità e i cui rami inferiori ombreggiano un piccolo montone. L’asino si è fermato. Viene tolta la gualdrappa. Sotto, v’è una seconda coperta di feltro nero. Allora, uno degli uomini in tunica bianca comincia a danzare, agitando dei crotali; un altro, ginocchioni davanti alla cassa, batte un tamburello e IL PIÙ VECCHIO DEL GRUPPO comincia: Ecco la Buona Dea, l’abitante del monte Ida, la grande madre di Siria! Avvicinatevi, brava gente! Ella procura la gioia, guarisce le malattie, invia eredità, e soddisfa gli innamorati. Siamo noi che la portiamo in giro per le campagne col bello e il cattivo tempo. Spesso dormiamo all’aria aperta, e non tutti i giorni abbiamo cibo in abbondanza. Nei boschi si incontrano i ladri. Le bestie feroci s’avventano dalle loro caverne. Sentieri scivolosi costeggiano i precipizi. Eccola! Eccola! Tolgono la copertura; e si vede una cassa incrostata di pietruzze. Più alta che i cedri, ella plana nell’etere azzurro. Più vasta che il vento, ella circonda il mondo. Il suo respiro esala dalle narici delle tigri; la sua voce ringhia sotto i vulcani, la sua collera è la tempesta; il pallore del suo volto ha imbiancato la luna. Ella matura le messi, gonfia le scorze, fa crescere la barba. Donatele qualcosa, perché detesta gli avari! La cassa si socchiude; e si distingue, sotto un tendaggio di seta blu, una piccola immagine di Cibele, scintillante di lustrini, coronata di torri e seduta in un carro di pietra rossa trainato da due leoni con la zampa sollevata. La folla si spintona per vedere. L’ARCHIGALLO continua: Ella ama il fragore dei timpani, il calpestio dei piedi, l’ululato dei lupi, le montagne risonanti e le gole profonde, il fiore del mandorlo, la melagrana e i fichi verdi, la danza che gira, i flauti che sussurrano, la linfa zuccherata, la lacrima salata – del sangue! A te, a te, Madre dei monti! Essi si flagellano con le fruste, e i colpi risuonano sui loro petti, la pelle dei tamburi vibra fino a scoppiare. Afferrano i coltelli, si tagliuzzano le braccia. Ella è triste; rattristiamoci! Per piacerle, bisogna soffrire! Con ciò i vostri peccati vi saranno rimessi. Il sangue lava ogni cosa; gettatene delle gocce, come fossero fiori! Ella chiede quello di un altro – d’un puro! L’Archigallo alza il suo coltello sul montone.

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ANTONIO colto da orrore: Non sgozzate l’agnello! Zampilla un fiotto color porpora. Il sacerdote ne asperge la folla; e tutti – compresi Antonio e Ilarione – raccolti attorno all’albero in fiamme, osservano in silenzio le ultime palpitazioni della vittima. Dal mezzo dei sacerdoti esce una Donna – esattamente uguale all’immagine racchiusa nella piccola cassa. Ella si ferma scorgendo un Giovinetto con in testa un berretto frigio. Le sue cosce sono rivestite di pantaloni attillati, spaccati qua e là da losanghe regolari strette da fiocchi colorati. Egli si appoggia con il gomito ad uno dei rami dell’albero, in una posa languorosa, tenendo un flauto in mano. CIBELE circondandogli la vita con le braccia: Per raggiungerti, ho percorso tutti i paesi – e la carestia devastava le campagne. Mi hai ingannata! Non importa, ti amo! Riscalda il mio corpo! Uniamoci! ATTIS La primavera non tornerà più, o Madre eterna! Malgrado il mio amore, non mi è possibile penetrare la tua essenza. Io vorrei coprirmi d’una veste colorata, come la tua. Invidio i tuoi seni gonfi di latte, la lunghezza dei tuoi capelli, i tuoi vasti fianchi dai quali scaturiscono gli esseri. Perché non sono te! Perché non sono femmina! No, giammai! Vattene! La mia virilità mi fa orrore! Con una pietra tagliente, si evira, poi si mette a correre furiosamente, levando in aria il suo membro reciso. I sacerdoti imitano il dio, i fedeli i sacerdoti. Uomini e donne si scambiano i vestiti, si abbracciano – e quel tumulto di carni insanguinate si allontana, mentre le voci, perdurando, divengono più stridule e insistenti come quelle che si sentono ai funerali. Un grande catafalco tappezzato di porpora sostiene un letto d’ebano circondato di fiaccole e di canestri in filigrana d’argento, ove verdeggiano lattughe, malve e del finocchio. Sui gradini, dall’alto in basso, sono sedute delle donne vestite di nero, la cintura slacciata, i piedi nudi, che tengono con aria malinconica grandi mazzi di fiori. Per terra, agli angoli del palco, fumano lentamente urne d’alabastro colme di mirra. Sul letto si distingue il cadavere di un uomo. Dalla sua coscia cola del sangue. Egli lascia pendere il suo braccio; e un cane che ulula gli lecca le unghie. La fila di fiaccole assai vicine impedisce di vedergli il volto; e Antonio viene colto da un timore. Ha paura di riconoscere qualcuno. I singhiozzi delle donne si arrestano; e dopo un intervallo di silenzio, TUTTE insieme salmodiano: Bello! Bello! Quant’è bello! Basta dormire, solleva il capo! Alzati! Respira il profumo dei nostri fiori! Sono narcisi e anemoni, colti nei tuoi giardini per compiacerti. Scuotiti, ci fai paura! Parla! Che ti occorre? Vuoi bere del vino? Vuoi giacere con noi? Vuoi mangiare pani di miele che hanno la forma di piccoli uccelli? Abbracciamo i suoi fianchi, baciamogli il petto! Guarda, guarda! Le senti le nostre dita cariche di anelli che corrono sul tuo corpo, e le nostre labbra che cercano la tua bocca, e i nostri capelli che solleticano le tue cosce, dio svenuto, sordo alle nostre preghiere! Esse lanciano dei gridi, lacerandosi il volto con le unghie, poi tacciono; e si sentono sempre gli ululati del cane.

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Povere noi, povere noi! Il sangue nero cola sulla sua carne candida! Ecco che le sue ginocchia si piegano; le sue costole si infossano. Le lacrime del suo volto hanno intriso la porpora. È morto! Piangiamo! Addoloriamoci! Vanno, tutte in fila, a porre tra le fiaccole le loro lunghe capigliature, che da lontano somigliano a serpenti neri o biondi; e il catafalco si abbassa piano piano fino al livello di una grotta, un sepolcro tenebroso che si apre alle sue spalle. Allora UNA DONNA si piega sul cadavere. I suoi lunghi capelli l’avvolgono dalla testa ai piedi. Versa così tante lacrime che il suo dolore non deve essere come quello delle altre, ma un dolore più che umano, un dolore infinito. Antonio pensa alla madre di Gesù. Ella dice: Tu ti sprigionavi dall’Oriente; e mi prendevi nelle tue braccia rosee e frementi, o Sole! Alcune colombe svolazzavano sull’azzurro del tuo mantello, i nostri baci formavano brezze tra le fronde; ed io mi abbandonavo al tuo amore, godendo del piacere della mia debolezza. Povera me, povera me! Perché sei andato a caccia sui monti? All’equinozio d’autunno un cinghiale t’ha ferito! Tu sei morto; e le fonti piangono, gli alberi si chinano. Il vento d’inverno sibila fra i cespugli spogli. I miei occhi stanno per chiudersi, poiché le tenebre ti coprono. Ora, tu abiti l’altra parte del mondo, presso la mia più potente rivale. O Persefone, tutto ciò che è bello scende verso te, e non ritorna più! Mentre ella parlava, le sue compagne hanno preso il morto per calarlo nel sepolcro. Rimane loro fra le mani. Non era altro che un cadavere di cera. Antonio prova come un sollievo. Svanisce tutto; e la capanna, le rocce, la croce sono riapparsi. Nel frattempo egli distingue, dall’altra parte del Nilo, una Donna, in piedi nel mezzo del deserto. Ella tiene in mano l’orlo di un lungo velo nero che le nasconde il volto, mentre regge col suo braccio sinistro un bambinello che sta allattando. Al suo fianco, una grande scimmia è accovacciata sulla sabbia. Ella alza il capo verso il cielo; e malgrado la distanza si ode la sua voce. ISIDE O Neit, principio delle cose! Amon, signore dell’eternità, Ptah, demiurgo, Thot suo intelletto, divinità dell’Amenti, Triadi particolari dei Nomi, sparvieri nell’azzurro, sfingi a lato dei templi, ibis in piedi tra le corna dei buoi, pianeti, costellazioni, lidi, mormorio dei venti, riflesso della luce, insegnatemi dove si trova Osiride! L’ho cercato per tutti i canali e tutti i laghi; più lontano ancora, fino a Biblo in Fenicia. Anubis, le orecchie diritte, saltellava intorno a me, abbaiando e frugando tra le macchie di tamarindi. Grazie buon Cinocefalo, grazie! Da amichevolmente alla scimmia due o tre schiaffetti sul capo. L’orrido Tifone dal pelo rosso l’aveva ucciso e fatto a pezzi! Noi abbiamo ritrovato tutte le sue membra. Ma non quello che mi fecondava! Emette dei lamenti acuti. ANTONIO è colto da furore. Le getta dei sassi, ingiuriandola.

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Impudica! Vattene, vattene! ILARIONE Rispettala! Era la religione dei tuoi avi! Avevi addosso i suoi amuleti nella tua culla. ISIDE Un tempo, quando tornava l’estate, l’inondazione spingeva verso il deserto le bestie impure. Le dighe si aprivano, le barche si urtavano, la terra anelante beveva il fiume con ebbrezza, dio dalle corna di toro ti stendevi sopra di me – e si udiva il muggito della vacca eterna! Le seminagioni, i raccolti, la trebbiatura del grano e le vendemmie si succedevano regolarmente, con l’alternarsi delle stagioni. Nelle notti sempre limpide luccicavano grandi stelle. I giorni erano immersi in un eterno splendore. Ad ogni lato dell’orizzonte, come una coppia regale, si vedevano il sole e la luna. Noi troneggiavamo entrambi in un mondo più sublime, monarchi gemelli, sposi fin dal seno dell’eternità – lui tenendo uno scettro con la testa di cucufa, io uno scettro con il fiore di loto, l’uno e l’altra in piedi con le mani giunte – e i crolli degli imperi non mutavano il nostro contegno. L’Egitto si stendeva sotto di noi, monumentale e severo, lungo come il corridoio di un tempio, con obelischi a destra, piramidi a sinistra, il suo labirinto nel mezzo – e ovunque viali di mostri, foreste di colonne, imponenti piloni che fiancheggiano porte aventi sulla loro sommità il globo terrestre tra due ali. Gli animali del suo zodiaco si ritrovavano nei suoi pascoli, riempivano delle loro forme e dei loro colori la sua scrittura misteriosa. Diviso in dodici regioni come l’anno lo è in dodici mesi – ciascun mese, ciascun giorno avente il proprio dio – riproduceva l’ordine immutabile del cielo; e l’uomo che moriva non perdeva il suo aspetto; ma saturo di profumi, divenuto indistruttibile, andava a dormire per tremila anni in un Egitto silenzioso. Quello, più grande dell’altro, si estendeva sotto la terra. Vi si discendeva per scale che conducevano a sale dov’erano riprodotte le gioie dei buoni, le torture dei cattivi, tutto ciò che ha luogo nel terzo mondo invisibile. Ordinati lungo i muri, i morti, entro bare dipinte, attendevano il loro turno; e l’anima, esente dalle migrazioni, continuava il suo assopimento fino al risveglio di un’altra vita. Osiride, nel frattempo, a volte tornava a trovarmi. La sua ombra m’ha resa madre di Arpocrate. Ella contempla il fanciullo. È lui! Sono i suoi occhi; sono i suoi capelli intrecciati come le corna del montone! Tu ricomincerai le sue opere. Noi rifioriremo come il loto. Sono sempre la grande Iside! Nessuno ancora ha sollevato il mio velo! Il mio frutto è il sole! Sole di primavera, nuvole oscurano il tuo volto! Il fiato di Tifone divora le piramidi. Poco fa, ho visto la sfinge fuggire. Galoppava come uno sciacallo. Cerco i miei sacerdoti – i miei sacerdoti nei mantelli di lino, con delle grandi arpe, e recanti una navicella mistica ornata di patere d’argento. Non più feste sui laghi! Non più luminarie sul mio Delta! Non più coppe di latte a File! Da molto tempo Api non è riapparso. Egitto, Egitto! I tuoi grandi dei immobili hanno le spalle imbiancate dagli escrementi degli uccelli, e il vento che passa sul deserto rotola la cenere dei tuoi morti! Anubi, guardiano delle ombre, non mi abbandonare! Il cinocefalo è svanito. Ella scuote suo figlio.

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Ma… cos’hai?... le tue mani sono fredde, la tua testa ricade! Arpocrate è appena morto. Allora ella emette un grido tanto acuto, funebre e straziante, che Antonio vi risponde con un altro grido, allargando le braccia per sostenerla.

Ella è scomparsa. Egli china il capo, schiacciato dalla vergogna. Tutto ciò che da poco ha visto si confonde nella sua mente. E’ come lo stordimento di un viaggio, il malessere di

un’ubriacatura. Vorrebbe esecrarlo; e tuttavia una vaga pietà intenerisce il suo cuore. Si mette a piangere copiosamente. ILARIONE Cos’è che ti rattrista? ANTONIO dopo aver cercato entro sé a lungo: Penso a tutte le anime perdute a causa di questi falsi dei! ILARIONE Non trovi che… a volte… hanno come una somiglianza col vero? ANTONIO È un’astuzia del Diavolo per meglio sedurre i fedeli. Attacca i forti attraverso lo spirito, gli altri

nella carne. ILARIONE Ma la lussuria, nei suoi furori, mostra lo stesso disinteresse della penitenza. Le frenesie carnali

accelerano la distruzione del corpo, e proclamano con la loro debolezza la vastità dell’impossibile. ANTONIO Cosa vuoi che mi importi tutto ciò? Il mio cuore freme di disgusto innanzi a questi dei bestiali,

sempre occupati in carneficine ed incesti! ILARIONE Ricordati tutte le cose che ti scandalizzano nelle Scritture perché non le comprendi. Allo stesso

modo, questi dei sotto le loro forme peccaminose possono nascondere la verità. Ne restano altri da vedere. Distogliti! ANTONIO No, no! È pericoloso! ILARIONE Poc’anzi volevi conoscerli. Cosa temi? La tua fede forse vacillerebbe davanti a delle menzogne? Le rocce di fronte ad Antonio si sono trasformate in un monte.

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Una linea di nuvole lo taglia a mezza altezza; e sopra appare un altro monte, enorme, tutto verde, scavato da valloni, che sostiene sulla sua sommità, in un bosco di lauri, un palazzo di bronzo col tetto d’oro e le colonne d’avorio.

Nel mezzo del peristilio, su un trono, GIOVE, colossale e a dorso nudo, tiene la vittoria in una mano, la folgore nell’altra; e, la sua aquila rizza la testa tra le sue gambe.

GIUNONE vicino a lui, straluna gli occhi, sormontati da un diadema dal quale sfugge, come un vapore, un velo che si agita al vento.

Alle loro spalle MINERVA, ritta su un piedestallo, si appoggia alla sua lancia. La pelle della gorgone le copre il petto; e un peplo di lino cade in pieghe regolari fino alla punta dei suoi alluci. I suoi occhi glauchi, che brillano sotto la visiera, guardano, assorti, lontano.

A destra del palazzo, il vecchio NETTUNO cavalca un delfino che batte con le sue pinne una distesa azzurra che è il cielo o il mare, poiché la prospettiva dell’OCEANO continua l’etere blu; i due elementi si confondono.

Dall’altro lato, PLUTONE, truce, avvolto in un mantello color della notte, con una tiara di diamanti e uno scettro d’ebano, sta nel mezzo di un isola circondata dalle spire dello Stige; e quel fiume d’ombra va a gettarsi nelle tenebre che formano sotto la falesia un grande buco nero, un abisso informe.

MARTE vestito di bronzo, brandisce con aria furiosa il suo largo scudo e la sua spada. ERCOLE, più basso, lo contempla appoggiato alla sua clava. APOLLO, il volto raggiante, conduce, con il braccio destro teso, quattro cavalli bianchi che galoppano; e CERERE,

in un carro trainato da buoi, avanza verso lui con una falciola in mano. BACCO le vien dietro su un carretto molto basso, tirato fiaccamente da delle linci. Grasso, imberbe e con dei

pampini sulla fronte, passa reggendo un cratere dal quale trabocca del vino. Sileno, al suo fianco, ondeggia su un asino. Pan, dalle orecchie puntute, soffia nella siringa; le Mimallonidi battono dei tamburi, le Menadi lanciano fiori, le Baccanti danzano con la testa rovesciata e i capelli sparsi.

DIANA, la tunica rialzata, esce dal bosco con le sue ninfe. Nel fondo di una caverna, VULCANO batte il ferro tra i Cabiri; qua e là gli antichi Fiumi, appoggiati coi gomiti su

dei massi verdi, versano l’acqua dalle loro urne; le Muse, in piedi, cantano nelle valli. Le Ore, di uguale statura, si tengono per mano; e MERCURIO sta disteso di traverso sopra un arcobaleno, col suo

caduceo, le ali e il petaso. Ma in alto alla scalinata degli Dei, tra nuvole leggere come piume, le cui volute roteando lasciano cadere delle rose,

VENERE ANADIOMENE si guarda in uno specchio; le sue pupille accennano languidamente sotto le palpebre un poco pesanti.

Ha lunghi capelli biondi che si sciolgono sulle sue spalle, i seni piccoli, la vita sottile, i fianchi allargati come il profilo delle lire, le cosce ben tornite, delle fossette attorno ai ginocchi e i piedi delicati; poco lontano dalla sua bocca volteggia una farfalla. Lo splendore del suo corpo forma attorno ad essa un alone di madreperla brillante; e tutto il resto dell’Olimpo è immerso in un albore vermiglio, che insensibilmente si propaga nella profondità del cielo blu.

ANTONIO Ah, il mio petto si dilata! Una gioia che non conoscevo mi scende fino in fondo all’anima!

Com’è bello! Com’è bello! ILARIONE Si chinavano dall’alto delle nuvole per guidare le spade; li si incontrava ai bordi delle strade, li

si teneva nella propria casa – e questa familiarità divinizzava la vita. Essa non aveva per fine che d’essere libera e bella. Le ampie vesti facilitavano la nobiltà degli

atteggiamenti. La voce dell’oratore, esercitata dal mare, batteva con onde sonore i portici di marmo. L’efebo, lustro d’olio, lottava completamente nudo in pieno sole. La più religiosa delle azioni era di mettere in mostra forme pure.

E quegli uomini rispettavano le spose, i vecchi, i supplici. Dietro il tempio di Ercole, c’era un altare dedicato alla Pietà.

Si immolavano vittime con le dita ornate di fiori. Il ricordo stesso dei morti era esente da putredine. Non ne restava che un po’ di cenere. L’anima, confusa all’etere illimitato, era partita verso gli dei!

Chinandosi all’orecchio di Antonio:

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E sono ancora vivi! L’imperatore Costantino adora Apollo. Ritroverai la Trinità nei misteri di Samotracia, il battesimo presso Iside, la redenzione presso Mitra, il martirio di un dio alle feste di Bacco. Proserpina è la Vergine!...Aristeo, Gesù!

ANTONIO resta con gli occhi abbassati; poi improvvisamente ripete il simbolo di Gerusalemme – nel momento in cui se ne

ricorda – emettendo ad ogni frase un lungo sospiro: Credo in un solo Dio, il Padre; e in un solo Signore, Gesù Cristo, figlio primogenito di Dio, che si

è incarnato e fatto uomo, che è stato crocifisso e sepolto, che è salito al cielo, che verrà per giudicare i vivi e i morti, e il cui regno non avrà mai fine; credo in un solo Spirito Santo; e in un solo battesimo di pentimento; e a una sola santa Chiesa Cattolica; e alla resurrezione della carne; e alla vita eterna.

Tosto la croce cresce, e passando attraverso le nuvole getta un ombra sul cielo degli dei. Tutti impallidiscono. L’Olimpo è scosso. Antonio distingue alla sua base, seminascosti nelle caverne, o intenti a sostenere macigni sulle loro spalle, colossali

corpi incatenati. Sono i Titani, i Giganti, gli Ecatonchiri, i Ciclopi. UNA VOCE si eleva indistinta e formidabile – come il brusio delle onde, come il rumore del bosco sotto la tempesta, come il

muggito del vento nei precipizi. Noi lo sappiamo, noi altri! Gli dei devono morire. Urano fu mutilato da Saturno, Saturno da

Giove. Lui stesso sarà annientato. A ciascuno il suo tempo; è il destino! E, poco a poco, sprofondano nella montagna, scompaiono. Intanto, le tegole d’oro del palazzo volano via. GIOVE è sceso dal suo trono. La folgore ai suoi piedi fuma come un tizzone sul punto di spegnersi; e l’aquila, allungando il

collo, raccoglie col becco le sue piume che cadono. Io non sono più, dunque, il padrone delle cose, buonissimo, grandissimo, dio delle fratrie e dei

popoli greci, avo di tutti i re, Agamennone del cielo! Aquila delle apoteosi, quale soffio dell’Erebo t’ha respinto fino a me? O, fuggendo dal campo di

Marte, mi rechi l’anima dell’ultimo degli imperatori? Di quelle degli uomini non so che farmene! Che le serbi la Terra, e che si agitino al livello della

sua bassezza. Di questi tempi hanno cuori di schiavi, si scordano degli oltraggi, degli antenati, dei giuramenti; e ovunque trionfa l’imbecillità delle masse, la mediocrità dell’individuo, la bruttezza delle razze!

La respirazione gli solleva le costole fino a spezzarle, ed egli stringe i pugni. Ebe, piangendo, gli presenta una

coppa. Egli l’afferra. No, no! Finché vi sarà, non importa dove, una testa in grado di pensare, che provi avversione

per il disordine e concepisca la Legge, lo spirito di Giove vivrà! Ma la coppa è vuota. Egli la inclina lentamente sulla punta del suo dito. Neppure una goccia! Quando viene a mancare l’ambrosia, gli Immortali se ne vanno! La coppa gli scivola dalle mani; egli si appoggia contro una colonna, sentendosi morire.

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GIUNONE Non bisognava avere tanti amori! Aquila, toro, cigno, pioggia d’oro, nuvola e fiamma, tu hai

preso tutte le forme, smarrito la tua luce in tutti gli elementi, perso i tuoi capelli su tutti i letti! Questa volta il divorzio è irrevocabile, e il nostro dominio, la nostra esistenza dissolta!

Ella si allontana nell’aria. MINERVA non ha più la sua lancia; e alcuni corvi, che nidificavano nelle sculture dei fregi, le volteggiano intorno, mordono il

suo casco. Lasciatemi vedere se le mie navi, che fendono il luccicante mare, sono ritornate nei miei tre

porti; lasciatemi vedere perché le campagne sono deserte, e che cosa fanno le figlie di Atene. Nel mese di Hecatombeon, tutto il mio popolo veniva a me, condotto dai suoi magistrati e dai

suoi sacerdoti. Poi avanzavano le lunghe file delle vergini, nelle vesti bianche con le tuniche d’oro, reggendo coppe, ceste, parasoli; poi, i trecento buoi del sacrificio, i vecchi che agitavano ramoscelli verdi, i soldati cozzando con le loro armature, gli efebi che cantavano inni, i suonatori di flauto e di lira, i rapsodi, le danzatrici – infine, appeso all’albero di una trireme che procedeva su ruote, il mio gran velo ricamato dalle vergini, che erano state nutrite per un anno in modo particolare; e quando s’era mostrato in tutte le strade, tutte le piazze e davanti a tutti i templi, nel mezzo del corteo che salmodiava ininterrottamente, saliva lentamente la collina dell’Acropoli, rasentava i Propilei, ed entrava nel Partenone.

Ma, che mi succede? Son colta da un turbamento, io, l’industriosa! Come, come, neppure un progetto! Ecco che tremo come una femminuccia.

Scorge un crollo alle sue spalle, emette un grido, e colpita in fronte, cade a terra supina. ERCOLE si è liberato della sua pelle di leone; e, ben piantato sulle gambe, gonfiando i dorsali, mordendosi le labbra, compie

degli sforzi smisurati per sostenere l’Olimpo che crolla. Ho vinto i Cercopi, le Amazzoni e i Centauri. Ho ucciso molti re. Ho spezzato il corno di

Acheloo, un grande fiume. Ho tagliato montagne, riunito oceani. I paesi schiavi, li ho liberati; quelli vuoti, li ho popolati. Ho percorso le Gallie. Ho attraversato il deserto, dove si patisce la sete. Ho difeso gli dei, mi sono liberato da Onfale. Ma l’Olimpo è troppo pesante. Le mie braccia cedono. Muoio!

Resta schiacciato sotto le macerie. PLUTONE È colpa tua, Anfitrionade! Perché sei disceso nel mio regno? L’avvoltoio che mangia le viscere di Tityos sollevò il capo, a Tantalo si inumidì il labbro, la

ruota di Issione si arrestò. Intanto le Keres allungavano le loro unghie per trattenere i morti; le Furie, per la disperazione,

strangolavano i serpenti delle loro capigliature; e Cerbero, che avevi incatenato, rantolava, sbavando dalle sue tre fauci.

Lasciasti la porta socchiusa. Altri sono venuti. La luce dei viventi è penetrata nel Tartaro! Sprofonda nelle tenebre.

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NETTUNO Il mio tridente non solleva più tempeste. I mostri che facevano paura sono imputriditi in fondo

al mare. Anfitrite, i cui piedi bianchi correvano sulla schiuma, le verdi Nereidi che si distinguevano

all’orizzonte, le Sirene squamose che fermavano le navi per raccontare delle storie, e i vecchi Tritoni che soffiavano nelle conchiglie, tutto è morto! L’allegrezza del mare è scomparsa!

Io non vi sopravviverò! Che il vasto Oceano mi ricopra! Svanisce nell’azzurro del mare. DIANA vestita di nero, nel mezzo dei suoi cani divenuti lupi: La libertà delle foreste mi ha inebriata con l’odore degli animali selvatici e le esalazioni delle

paludi. Le donne di cui io proteggevo le gravidanze, mettono al mondo figli morti. La luna trema per gli incantesimi delle streghe. Nutro desideri di violenza e di grandezza. Voglio bere veleni, perdermi nei vapori, nei sogni!...

E una nuvola che passa la porta via. MARTE a capo scoperto, insanguinato: In principio ho combattuto solo, provocando con ingiurie tutta un armata, indifferente alle patrie

e per il piacere del massacro. Poi ho avuto dei compagni. Marciavano al suono dei flauti, in buon ordine, con passo eguale,

respirando al di sopra dei propri scudi, alto il pennacchio, la lancia obliqua. Ci si gettava nelle battaglie con possenti gridi d’aquila. La guerra era gioiosa come un festino. Trecento uomini s’opposero all’Asia intera.

Ma i Barbari tornano, a miriadi, a milioni!Poiché il numero, le macchine e il calcolo sono più forti, meglio finire come un prode!

Si uccide. VULCANO asciugando con una spugna le sue membra sudate: Il mondo si raffredda. Bisogna riscaldare le sorgenti, i vulcani e i fiumi sotterranei che

trasportano metalli! Colpite sodo, con tutta la forza delle vostre braccia! I Cabiri si feriscono coi loro martelli, si accecano con le scintille,e, camminando tastoni, si perdono nell’ombra. CERERE in piedi nel suo carro mosso da ruote che hanno ali al loro mozzo: Ferma! Ferma! Si aveva ragione di escludere gli stranieri, gli atei, gli epicurei e i cristiani! Il mistero della cesta

è svelato, il santuario profanato, tutto è perduto! Scende per una ripida china – disperata, urlante, strappandosi i capelli. Ah, menzogna! Daira non mi è stata restituita! Il bronzo mi chiama verso i morti. È un altro

Tartaro, dal quale non si torna. Orrore!

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L’abisso la inghiotte. BACCO ridendo freneticamente: Che importa! La moglie dell’Arconte è mia sposa! La legge stessa si ubriaca. A me il canto

nuovo e le forme multiple! Il fuoco che divorò mia madre scorre nelle mie vene. Che bruci più forte, dovessi morire! Maschio e femmina, buono per tutti, io mi consegno a voi, Baccanti! E la vite si attorciglierà al

tronco degli alberi! Urlate, ballate, contorcetevi! Liberate la tigre e lo schiavo! Mordete la carne con denti feroci!

E Pan, Silene, i Satiri, le Baccanti, le Mimallonidi e le Menadi, coi loro serpenti, le loro fiaccole, le loro maschere

nere, si lanciano fiori, scoprono un fallo e lo baciano, scuotono i timpani, battono i tirsi, si lapidano con delle conchiglie, divorano grappoli d’uva, strozzano un capro e sbranano Bacco.

APOLLO con i capelli incanutiti che volano al vento, frustando i suoi corsieri: Ho lasciato alle mie spalle la petrosa Delo, tanto pura che là ora tutto sembra morto; e mi sforzo

di raggiungere Delfo prima che la sua virtù ispiratrice non sia completamente perduta. I muli brucano i suoi lauri. La Pizia smarrita, non si ritrova più.

Con una maggiore concentrazione otterrò dei poemi sublimi, dei monumenti eterni; e tutta la materia sarà penetrata dalle vibrazioni della mia cetra!

Ne pizzica le corde. Esse saltano, sferzandolo sul volto. Respinge la cetra; e colpendo la sua quadriga con furore: No, basta forme! Via, più lontano! Sopra ogni cosa! Nella pura idea! Ma i cavalli indietreggiano, si impennano, rompono il carro; e intralciato dai pezzi del timone, dal groviglio dei

finimenti, egli cade verso l’abisso a testa in giù. Il cielo si è oscurato. VENERE violacea per il freddo, trema. Con la mia cintura formavo tutto l’orizzonte della Grecia. I suoi campi splendevano delle rose delle mie gote, le sue spiagge erano ritagliate sulla forma

delle mie labbra; e le sue montagne, più bianche delle mie colombe, palpitavano sotto le mani degli scultori. Si ritrovava la mia anima nei decreti delle feste, nelle acconciature dei capelli, nei dialoghi dei filosofi, nella costituzione delle repubbliche. Ma io ho troppo amato gli uomini! È l’Amore che mi ha disonorata!

Ella si rovescia a terra in lacrime. Il mondo è abominevole. Mi manca l’aria! O Mercurio, inventore della lira e guida delle anime, portami via! Ella si mette un dito sulla bocca, e descrivendo un’immensa parabola, precipita nell’abisso. Non si vede più nulla. Le tenebre sono complete. Intanto, dalle pupille di Ilarione, fuoriescono come due frecce rosse. ANTONIO infine nota la sua alta statura.

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Più di una volta, mentre parlavi, m’è parso vederti crescere; e non era una mia illusione. Com’è

possibile? Spiegami…Tu mi spaventi! Si avvicinano dei passi. Cos’è questo? ILARIONE distende il suo braccio. Guarda! Allora, sotto un pallido raggio di luna, Antonio distingue un’interminabile carovana che sfila sulla cresta delle

rocce – e tutti i viandanti, l’uno dopo l’altro, cadono dalla falesia nel baratro. Vengono per primi i tre grandi dei di Samotracia, Axieros, Axiokeros, Axiokersa, riuniti insieme, velati di porpora

e con le mani alzate. Esculapio avanza con aria malinconica, senza neppure accorgersi di Samo e Telesforo che lo interrogano con

angoscia. Sosipolis eleo, a forma di pitone, srotola le sue spire verso l’abisso. Despoene, colta da vertigini, vi si lascia cadere. Britomarti, urlando di terrore, si aggrappa alle maglie della sua rete. I Centauri arrivano al gran galoppo e si precipitano alla rinfusa nel buco nero.

Dietro loro, marcia zoppicando la truppa miseranda delle Ninfe. Quelle dei prati sono coperte di polvere; quelle dei boschi gemono e sanguinano, ferite dalle asce dei taglialegna.

Le Gellude, le Strige, le Empuse, tutte le dee infernali, in un disordine di artigli, zanne, torce, serpenti formano una piramide – e al sommo, su una pelle di avvoltoio, Eurinome, bluastra come le mosche della carne, si divora le braccia.

Di seguito, in un vortice spariscono una alla volta: Ortiha la sanguinaria, Hymnia di Orcomeno, Laphria dei Patrassini, Afia d’Egina, Bendis Tracia, Stynfalia a coscia di uccello. Triopas, al posto delle sue tre pupille, non ha che tre orbite vuote. Erittonio, le gambe molli, striscia come uno storpio sulle sue mani.

ILARIONE Che gusto si prova, non è vero, nel vederli tutti agonizzare e sprofondare nell’abiezione! Sali

con me su questo masso; e sarai come Serse che passa in rivista la sua armata. Laggiù, tra le nebbie, vedi quel gigante dalla barba bionda che lascia cadere una spada rossa di

sangue? È lo scita Zalmoxis tra due pianeti: Artimpasa–Venere e Orsilochia-la luna. Più lontano, affioranti da pallide nuvole, vi sono gli dei che si adoravano presso i Cimmeri,

addirittura oltre Thule! I loro saloni erano ben riscaldati; e al bagliore delle lame nude che ne tappezzavano le volte,

bevevano dell’idromele in corni d’avorio. Mangiavano il fegato delle balene in piatti di rame forgiati da demoni; oppure prestavano l’orecchio agli stregoni prigionieri che facevano correre le loro mani su arpe di pietra.

Eccoli! Hanno freddo! La neve appesantisce le loro pelli d’orso, e i loro piedi spuntano dagli squarci dei loro sandali.

Rimpiangono le praterie, dove sulle alture erbose riprendevano fiato durante le battaglie, le navi affilate le cui prue tagliavano le montagne di ghiaccio, e i pattini che avevano per seguire l’orbita dei poli, portando in punta di braccia tutto il firmamento che girava con loro.

Una raffica gelata li avvolge. Antonio abbassa lo sguardo da un’altra parte. E scorge – che spiccano neri su un fondo rosso – degli strani personaggi con soggoli e guanti ferrati, che giocano a

pallamano, a cavallina, fanno smorfie, danzano freneticamente. ILARIONE Sono gli dei etruschi, gli innumerevoli Aesar.

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Ecco Tagete, l’ideatore dei presagi. Con una mano si sforza di aumentare le divisioni del cielo, e, con l’altra si appoggia alla terra. Che vi rientri!

Norzia considera la muraglia nella quale infiggeva i chiodi per segnare il numero degli anni. La superficie ne è piena, e l’ultimo periodo concluso.

Come due viandanti colpiti da un temporale, Kastur e Pulutuk si riparano tremanti sotto lo stesso mantello.

ANTONIO chiude gli occhi. Basta, basta! Ma, nell’aria passano, con un gran brusio d’ali, tutte le Vittorie del Campidoglio, nascondendo il loro volto fra le

mani e perdendo i trofei sospesi alle loro braccia. Giano – signore dei crepuscoli – fugge su un montone nero; e, dei suoi due volti, uno è già putrefatto, l’altro si

addormenta per la fatica. Summano – dio del cielo oscuro – che non ha più testa, stringe contro il suo cuore una focaccia rafferma in forma di

ruota. Vesta, sotto una cupola in rovina, si affanna a rianimare la sua lampada spenta. Bellona si ferisce le gote senza far scaturire il sangue che purifica i suoi devoti. ANTONIO Per favore! Non ne posso più di costoro! ILARIONE Un tempo divertivano! E gli mostra, in un boschetto di sorbo, una Femmina nuda, messa a quattro zampe come una bestia e montata da un

maschio nero che tiene in ciascuna mano una fiaccola. È la dea di Ariccia, con il demone Virbio. Il suo sacerdote, il re del bosco, doveva essere un

assassino; e gli schiavi fuggiaschi, gli spogliatori di cadaveri, i briganti della via Salaria, gli sciancati del ponte Sublicio, tutta la feccia delle stamberghe della Suburra non aveva devozione più cara!

Le patrizie del tempo di Marcantonio preferivano Libitina. E gli mostra, sotto cipressi e roseti, un’altra donna, coperta di veli. Sorride, circondata da zappe, barelle, paramenti

neri, tutti gli utensili dei funerali. I suoi diamanti brillano da lontano avvolti nelle ragnatele. Le Larve, come scheletri, mostrano le loro ossa tra i rami, e i Lemuri, che sono fantasmi, allargano le loro ali di pipistrello.

Al bordo di un campo, il dio Termine, divelto, sta chino, tutto coperto di sporcizie. Nel mezzo di un solco, il gran cadavere di Vertunno è divorato da cani rossi. Gli dei rustici – Sartor, Sarrator, Vervactor, Collina, Vallona, Ostilino - se ne allontanano piangendo, coperti di

corti mantelli col cappuccio, e portando chi una grande zappa, chi un forcone, chi un vaglio o uno spiedo. ILARIONE Era la loro anima che faceva prosperare la villa, con le sue colombaie, le sue gabbie per i ghiri e

per le lumache, i suoi pollai protetti da reti, le sue calde scuderie profumate di cedro. Proteggevano tutto il miserabile popolo che trascinava le sue catene sui sassi della Sabina, quelli

che richiamavano i porci suonando il corno, quelli che raccoglievano le infiorescenze sull’alto degli olmi, quelli che sospingevano lungo i sentieri gli asini carichi di letame. Il bifolco, ansando sul manico del suo aratro, li pregava di dar forza alle proprie braccia; e i bovari all’ombra dei tigli, accanto alle zucche colme di latte, avvicendavano le loro lodi sui flauti di canna.

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Antonio sospira. E nel mezzo di una camera, su di un palco, si scopre un letto d’avorio, circondato da persone che tengono in mano

delle torce di abete. Sono gli Dei del matrimonio. Attendono la sposa. Domiduca doveva condurla, Virgo disfare la sua cintura, Subigo stenderla sul letto, e Praema

allargarle le braccia, dicendole all’orecchio parole dolci. Ma ella non verrà! Ed essi congedano gli altri: Nona e Decima, le infermiere; i tre Nixii, gli

ostetrici; le due nutrici: Educa e Potina; e infine, Carna la cullatrice, che col suo mazzetto di biancospino allontana dal bambino i brutti sogni.

Più tardi, Ossipago gli avrebbe consolidato i ginocchi, Barbatus regalato la barba, Stimula i primi desideri, Volupia i primi godimenti, Fabulinus gli avrebbe insegnato a parlare, Numeria a contare, Camena a cantare, Consus a riflettere.

La camera è vuota; e al bordo del letto non resta che Nenia – centenaria – borbottante fra sé le lamentazioni che

gridava alla morte dei vegliardi. Ma ben presto la sua voce è superata da gridi acuti. Sono: I LARI DOMESTICI Accoccolati in fondo all’atrio, vestiti di pelli di cane, con il corpo adorno di fiori; tengono le loro mani chiuse sulle

gote, e piangono dirottamente. Dov’è mai la porzione di cibo che ad ogni pasto ci veniva donata, le amorevoli cure della serva,

il sorriso della matrona, e la gaiezza dei fanciulli intenti a giocare agli aliossi sui mosaici della corte? Poi, fattisi grandi, appendevano ai nostri petti le loro palle d’oro o di cuoio.

Che gioia, quando, la sera di un trionfo, il padrone di casa rientrando volgeva i suoi occhi umidi verso di noi! Narrava le sue battaglie; e la piccola casa si sentiva più fiera d’un palazzo e sacra come un tempio.

Com’erano dolci i pasti in famiglia, soprattutto il giorno dopo i Feralia! Nell’affetto per i morti ogni discordia si placava; e ci si abbracciava, bevendo alle glorie del passato e alle speranze dell’avvenire.

Ma gli antenati di cera dipinta, rinchiusi dietro noi, pian piano si coprono di muffa. Le nuove generazioni, per punirci delle loro delusioni, ci hanno rotto la mascella; rosi dai denti dei topi, i nostri corpi di legno si sbriciolano.

E gli innumerevoli Dei che vegliavano sulle porte, sulla cucina, sulla dispensa, sulle stufe, si disperdono per ogni

dove sotto l’apparenza di enormi formiche che corrono o di farfalle che se ne volano via. CREPITUS si fa sentire. Un tempo si onorava anche me. Mi si offrivano libazioni. Fui un Dio! L’Ateniese mi salutava come un presagio di fortuna, mentre il Romano devoto mi malediceva

con i pugni alzati e il pontefice d’Egitto, che si asteneva dalle fave, tremava al suono della mia voce e impallidiva al mio odore.

Quando il vinaccio dei soldati colava sulle barbe non rasate, e si faceva festa con ghiande, piselli e cipolle crude, quando il caprone in pezzi cuoceva nel burro rancido dei pastori, allora, senza preoccuparsi del vicino, ognuno faceva il comodo suo. I cibi solidi rendevano la digestione fragorosa. Al sole della campagna gli uomini indugiavano nel darsi sollievo.

Così, io passavo senza scandalo, come gli altri bisogni della vita, come Mena tormento delle vergini, e la dolce Rumina che protegge il seno della nutrice gonfio di vene bluastre. Io ero festoso.

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Facevo ridere! E gonfiandosi di piacere a causa mia, il commensale esalava la sua gaiezza attraverso le aperture del suo corpo.

Ho avuto i miei giorni di gloria. Il buon Aristofane mi ha portato sulla scena, e l’imperatore Claudio Druso mi ha fatto sedere alla sua tavola. Ho circolato maestosamente entro i laticlavi dei patrizi! I vasi d’oro, come timpani, risuonavano sotto di me; e quando pieno di murene, tartufi e pasticci, l’intestino del padrone si liberava con fracasso, l’universo sollecito apprendeva che Cesare aveva pranzato!

Ma al presente, io sono confinato tra la plebaglia, e si levan proteste soltanto che mi si nomini! E Crepitus s’allontana,emettendo un gemito. Poi si ode un colpo di tuono. UNA VOCE Ero il Dio degli eserciti, il Signore, il Signor Dio! Ho dispiegato sulle colline le tende di Giacobbe, e nutrito tra le sabbie il mio popolo in fuga. Sono io che ho bruciato Sodoma! Sono io che ho sepolto la terra sotto il Diluvio! Sono io che ho

annegato Faraone, con i principi figli di re, i carri da guerra e i cocchieri. Dio geloso, esecravo gli altri dei. Ho calpestato gli impuri; ho abbattuto i superbi; e la mia

rovina correva a destra e a sinistra, come un dromedario lasciato libero in un campo di mais. Per liberare Israele, ho scelto i poveri di spirito. Angeli dalle ali di fuoco parlavano a loro nei

cespugli. Profumate di nardo, di cinnamomo e di mirra, con vesti trasparenti e calzature dal tacco rialzato,

donne dal cuore intrepido andavano sgozzando i capitani. Il vento che soffiava trascinava i profeti. Ho inciso la mia legge su tavole di pietra. Essa rinchiudeva il mio popolo come in una fortezza.

Era il mio popolo! Ero il suo Dio! La terra era mia, gli uomini erano miei, coi loro pensieri, le loro opere, i loro utensili da lavoro e la loro discendenza.

La mia arca giaceva in un triplo santuario, dietro cortine di porpora e candelabri accesi. Avevo, per servirmi, tutta una tribù che oscillava incensieri, e il sommo sacerdote in una veste di giacinto, con pietre preziose sul petto disposte in ordine simmetrico.

Sciagura, sciagura! Il Santo dei Santi s’è aperto, il velo s’è strappato, i profumi dell’olocausto si sono perduti ai quattro venti. Lo sciacallo ulula nei sepolcri; il mio tempio è distrutto, il mio popolo disperso!

I sacerdoti sono stati strangolati con i cordoni dei loro abiti; le donne fatte schiave, i vasi tutti fusi!

La Voce allontanandosi: Ero il Dio degli eserciti, il Signore, il Signor Dio! Allora si fa un silenzio enorme, una notte profonda. ANTONIO Se ne sono andati tutti. Resto solo io! dice QUALCUNO E Ilarione sta davanti a lui, ma trasfigurato, bello come un arcangelo, luminoso come un sole, e talmente grande che per vederlo

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ANTONIO rovescia la testa. Chi sei dunque? ILARIONE Il mio reame è grande quanto l’universo, e la mia brama non ha limiti. Io vado sempre, affrancando lo spirito e pesando i mondi, senza odio, senza paura, senza pietà, senza amore, e senza Dio. Mi chiamano la Scienza. ANTONIO indietreggia: Tu devi essere piuttosto…il Diavolo! ILARIONE fissando gli occhi su di lui: Vuoi vederlo? ANTONIO non si stacca più da quello sguardo; è preso dalla curiosità di vedere il Diavolo. Il suo terrore aumenta, il suo desiderio diviene smisurato. Però se lo vedessi…se lo vedessi?... Poi in uno scatto di collera: Si! L’orrore che ne provo me ne libererà per sempre. Si mostra un piede biforcuto. Antonio si pente. Ma il Diavolo l’ha scagliato sulle sue corna, e lo solleva.

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VI

Vola sotto lui, disteso come un nuotatore; le sue due ali spalancate, che lo nascondono completamente, assomigliano a una nuvola. ANTONIO Dove sto andando? Poco fa ho intravvisto la figura del Maledetto. No, è un nembo a trascinarmi! Forse che son morto e salgo verso Dio?... Ah, come respiro bene! L’aria pura mi riempie l’anima. Non più pesantezza! Non più sofferenza! In basso, sotto di me, scoppia la folgore, l’orizzonte si allarga, fiumi si intersecano. Quella macchia bionda è il deserto, quella pozzanghera d’acqua l’Oceano. E appaiono altri oceani di immense regioni che non conoscevo. Ecco le nere contrade che fumano come bracieri, ecco la distesa delle nevi eternamente offuscata dalle nebbie. Cerco di scoprire le montagne dove il sole, ogni sera, va a tramontare. IL DIAVOLO Il sole non tramonta mai! Antonio non si sorprende di quelle parole. Gli sembrano un eco del suo pensiero, una risposta della sua memoria. Nel frattempo, la terra prende la forma di una palla; ed egli la scorge nel mezzo del cielo che ruota sui suoi poli, girando intorno al sole. IL DIAVOLO Non è dunque il centro del mondo? Orgoglio dell’uomo, umiliati! ANTONIO La distinguo a fatica ora. Si confonde con gli altri corpi luminosi. Il firmamento non è che un tessuto di stelle. Salgono sempre più in alto. Che silenzio! Neppure il gracchio delle aquile! Nulla!...ed io mi chino per ascoltare l’armonia dei pianeti IL DIAVOLO Non li udirai. Tanto meno vedrai l’antictona di Platone, il focolare di Filolao, le sfere di Aristotele e neppure i sette cieli dei Giudei con le grandi acque sopra la volta di cristallo! ANTONIO Dal basso sembrava solida come un muro. Al contrario, la penetro, mi ci immergo!

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Ed egli giunge davanti alla luna, che somiglia ad un pezzo di ghiaccio rotondo, colmo d’una luce immobile. IL DIAVOLO Un tempo era la dimora delle anime. Il buon Pitagora l’aveva pure ornata d’uccelli e di magnifici fiori. ANTONIO Io non vi vedo che pianure desolate, con dei crateri spenti, sotto un cielo nerissimo. Andiamo verso quegli astri che brillano d’una luce più calda, a contemplare gli angeli che li tengono, come fiaccole, in punta di braccia. IL DIAVOLO lo trasporta nel mezzo delle stelle. Esse si attirano nello stesso tempo che si respingono. L’azione di ciascuna risulta dalle altre e vi contribuisce, senza il soccorso d’un aiuto esterno, per la forza d’una legge, per la sola virtù dell’ordine. ANTONIO Si…si! Il mio intelletto lo comprende! È una gioia superiore ai piaceri delle carezze! Boccheggio stupefatto di fronte alla grandezza di Dio! IL DIAVOLO Come il firmamento che si innalza a misura che tu sali, Dio crescerà con l’elevarsi del tuo pensiero; e dopo questa scoperta del mondo, in questa espansione dell’infinito, sentirai aumentare la tua gioia. ANTONIO Ah, più in alto, sempre più in alto! Gli astri si moltiplicano, scintillano. La Via Lattea allo Zenith si dispiega come una immensa cintura intervallata da buchi; in quelle crepe del suo chiarore, si allungano spazi tenebrosi. Ci sono piogge di stelle, strisce di polvere d’oro, vapori luminosi che fluttuano e si dissolvono. Talvolta improvvisamente passa una cometa; poi torna la tranquillità delle innumerevoli luci. Antonio, le braccia aperte, si appoggia sulle corna del Diavolo, occupandone così tutta l’ampiezza. Si ricorda con sdegno l’ignoranza dei suoi antichi giorni, la mediocrità dei suoi sogni. Eccoli dunque vicini a lui quei globi luminosi che contemplava dal basso! Ne distingue l’incrociarsi delle traiettorie, la complessità delle direzioni. Li vede venire da lontano, e sospesi come pietre in una fionda, descrivere le loro orbite, disegnare le loro iperboli. Scorge con un solo sguardo la Croce del Sud e l’Orsa Maggiore, la Lince e il Centauro, la Nebulosa della Dorade, i sei soli nella costellazione di Orione, Giove con i suoi quattro satelliti, e il triplo anello del mostruoso Saturno! Tutti i pianeti, tutti gli astri che gli uomini più tardi scopriranno! Colma i propri occhi delle loro luci, si affatica nel calcolo delle loro distanze; poi la sua testa ricade. Qual’è il fine di tutto ciò?

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IL DIAVOLO Non c’è un fine! Come potrebbe Dio avere un fine? Quale esperienza ha potuto istruirlo, quale riflessione determinarlo? Prima dell’inizio non avrebbe agito, e ora sarebbe inutile. ANTONIO Tuttavia ha creato il mondo, tutto in una volta, con la sua parola! IL DIAVOLO Ma gli esseri che popolano la terra vi giungono in ordine successivo. Parimenti, in cielo, sorgono nuovi astri - effetti differenti di cause diverse. ANTONIO La varietà delle cause è la volontà di Dio! IL DIAVOLO Ma ammettere in Dio più atti di volontà, equivale ad ammettere più cause e distruggere la sua unità! La sua volontà non è separabile dalla sua essenza. Non ha potuto avere un’altra volontà, non potendo avere un’altra essenza; e poiché esiste eternamente, opera eternamente. Contempla il sole! Dalla sua superficie sfuggono alte fiamme scaglianti faville, che si disperdono per divenire mondi; e più lontano dell’ultima, oltre quelle profondità ove tu non scorgi che la notte, roteano altri soli, dietro quelli altri, e ancora altri, senza fine… ANTONIO Basta, basta! Ho paura! Mi sento cadere nell’abisso. IL DIAVOLO si ferma; e dondolandolo mollemente: Non c’è il nulla! Non c’è il vuoto! Ovunque vi sono corpi in movimento sul fondo immutabile dell’Estensione; e se essa fosse limitata da qualcosa, non sarebbe più l’estensione ma un corpo,essa non ha limiti! ANTONIO sognante: Niente limiti! IL DIAVOLO Sali in cielo sempre e sempre; giammai raggiungerai la sommità! Scendi sotto la terra per miliardi e miliardi di secoli, giammai arriverai sul fondo; poiché non v’è fondo, non v’è sommità, ne alto, ne basso, nessun termine; e l’Estensione è compresa in Dio che non è affatto una porzione dello spazio, tale o tale grandezza, ma l’immensità!

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ANTONIO lentamente: La materia…allora….farebbe parte di Dio? IL DIAVOLO Perché no? Puoi forse sapere dove Egli ha fine? ANTONIO Al contrario, mi prosterno, mi umilio di fronte alla sua potenza! IL DIAVOLO E tu pretendi di commuoverlo! Gli parli, lo adorni pure di virtù, bontà, giustizia, clemenza, invece di riconoscere che possiede tutte le perfezioni! Concepire qualcosa oltre, equivale a concepire Dio al di là di Dio, l’essere sopra l’essere. Dunque, è il solo Essere, la sola Sostanza. Se la Sostanza potesse dividersi, perderebbe la propria natura, non sarebbe più lei, Dio non esisterebbe più. Dunque, è indivisibile come infinito; e se avesse un corpo, sarebbe composto di parti, non sarebbe più uno, non sarebbe più infinito. Dunque non può essere una persona! ANTONIO Come? Le mie preghiere, le mie lacrime, le sofferenze della mia carne, i trasporti del mio ardore, tutto questo rivolto a una menzogna…nello spazio…inutilmente,come un grido d’uccello, come un turbine di foglie morte! Piange. Oh, no! Sopra tutto v’è qualcuno, un grande spirito, un Signore, un padre, che il mio cuore adora e che deve amarmi! IL DIAVOLO Tu vuoi che Dio non sia Dio; poiché se egli provasse amore, collera o pietà, passerebbe dalla sua perfezione ad una perfezione più grande, o più piccola. Egli non può abbassarsi ad un sentimento, ne contenersi in una forma. ANTONIO Tuttavia, un giorno lo vedrò! IL DIAVOLO Circondato dai santi, non è vero? Quando il finito godrà dell’infinito, in un luogo circoscritto che racchiude l’assoluto!

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ANTONIO Che importa, bisogna che ci sia un paradiso per il bene, come un inferno per il male! IL DIAVOLO È ciò che esige la tua ragione a dettare la legge delle cose? Indubbiamente il male è indifferente a Dio poiché la terra ne è colma! È per impotenza che lo sopporta, o lo mantiene per crudeltà? Pensi che stia continuamente a riaggiustare il mondo come un opera imperfetta, o che sorvegli tutti i movimenti di tutti gli esseri, dal volo di una farfalla fino al pensiero dell’uomo? Se ha creato l’universo, la sua provvidenza è superflua. Se la Provvidenza esiste, la creazione è difettosa. Ma il male e il bene non riguardano che te, come il giorno e la notte, il piacere e la sofferenza, la morte e la nascita, che appartengono ad un cantuccio dell’estensione, a un ambiente speciale, a un interesse particolare. Poiché solo l’infinito è permanente; v’è l’Infinito, ed è tutto! Il Diavolo ha progressivamente disteso le sue lunghe ali; ora esse coprono lo spazio. ANTONIO non vede più. Vien meno. Un orribile freddo mi gela l’anima. Tutto ciò va ben oltre il dolore! È come una morte più profonda della morte. Io rotolo nell’immensità delle tenebre. Mi penetrano. La mia coscienza va in pezzi di fronte a quel dilatarsi del nulla! IL DIAVOLO Ma le cose non ti giungono che attraverso l’intermediazione del tuo spirito. Come uno specchio concavo, esso deforma gli oggetti; e non hai mezzo per verificarne l’esattezza. Mai conoscerai l’universo in tutta la sua estensione; di conseguenza non puoi farti un’idea della sua causa, avere una nozione giusta di Dio, neppure dire che l’universo è infinito, perché occorrerebbe sapere a priori cos’è l’infinito! La Forma ,forse, è un errore dei tuoi sensi, la Sostanza un’immaginazione del tuo pensiero. Salvo che, essendo il mondo un flusso perpetuo di cose, l’apparenza al contrario non sia tutto quel che v’è di più vero, l’illusione la sola realtà. Ma, sei poi certo di vedere? Di più, sei certo di vivere? Forse, non c’è nulla! Il Diavolo ha preso Antonio; e tenendolo in punta di braccia, lo guarda con le fauci spalancate, pronto a divorarlo. Adora me dunque! E sia maledetto il fantasma che chiami Dio! Antonio alza gli occhi, per un ultimo moto di speranza. Il Diavolo lo abbandona.

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VII

ANTONIO si ritrova disteso sulla schiena, al bordo della falesia. Il cielo comincia a schiarirsi. È la luce dell’alba, oppure un riflesso della luna? Tenta di alzarsi, poi ricade; e battendo i denti: Sento una tal stanchezza…come se tutte le mie ossa fossero rotte! Perché? Ah, mi ricordo! Il Diavolo! E mi ripeteva pure tutto quello che avevo appreso presso il vecchio Didimo delle opinioni di Senofane, Eraclito, Melisso, Anassagora, sull’infinito, la creazione, l’impossibilità di conoscere alcunché! E avevo creduto di potermi unire a Dio! Ridendo amaramente: Ah, pazzia, pazzia! È forse mia la colpa? La preghiera m’è intollerabile! Ho il cuore più arido di una roccia! Un tempo traboccava d’amore!... La sabbia, il mattino, fumava all’orizzonte come la polvere d’un incensiere; al calar del sole, fiori luminosi sbocciavano sulla croce; e nel mezzo della notte, sovente m’è parso che tutti gli esseri e tutte le cose, raccolti nel medesimo silenzio, adorassero con me il Signore. O fascino delle orazioni, felicità dell’estasi, doni del cielo, a cosa vi siete ridotti! Mi ricordo di un viaggio che ho fatto con Ammone, alla ricerca d’un luogo solitario ove costruire dei conventi. Era l’ultima sera; e noi affrettavamo i nostri passi, mormorando inni, fianco a fianco, senza parlare. A misura che il sole si abbassava, le ombre dei nostri corpi s’allungavano come due obelischi che marciassero innanzi a noi crescendo sempre. Con le schegge dei nostri bastoni, qua e là piantavamo delle croci per segnare l’ubicazione di una cella. La notte fu lenta a venire; e onde nere si spandevano sulla terra, mentre un immenso color rosa occupava ancora il cielo. Quand’ero bambino, mi divertivo a costruire con i sassi degli eremitaggi. Mia madre, accanto a me, mi guardava. M’avrà maledetto, per averla abbandonata, strappandosi a piene mani i suoi capelli bianchi. E il suo cadavere è rimasto steso nel mezzo della capanna, sotto il tetto di canne, tra le mura cadenti. Attraverso un buco, una iena bramosa, avvicina le fauci!...Orrore, orrore! Singhiozza. No, Ammonaria non l’avrà abbandonata! Dov’è, ora, Ammonaria? Forse nell’intimità di una stufa si toglie le vesti una dopo l’altra, dapprima il mantello, poi la cintura, la prima tunica, la seconda più leggera, tutti i suoi monili; e il vapore del cinnamomo avvolge le sue membra nude. Infine ella si stende sul tiepido mosaico. La sua capigliatura intorno ai suoi fianchi forma come un tosone nero; e soffocando un poco nell’atmosfera troppo calda, respira, il corpo leggermente incurvato, i due seni in avanti. Toh!…ecco che la mia carne si ribella! Nel

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mezzo dell’angoscia la concupiscenza mi tortura. Due supplizi in una volta, è troppo! Non sopporto più me stesso! Si china, e guarda il precipizio. Chi vi cadesse morirebbe. Niente di più facile, ruzzolando sul fianco sinistro; si deve fare un movimento! Uno solo. Allora appare UNA VECCHIA Antonio si solleva in un soprassalto di spavento. Crede di vedere sua madre resuscitata. Ma questa è molto più vecchia, e d’una magrezza prodigiosa. Un lenzuolo, annodato intorno alla testa, le pende con i suoi capelli bianchi fino in basso alle gambe, sottili come stampelle. Lo splendore dei suoi denti, color avorio, rende più scura la sua pelle terrea. Le orbite dei suoi occhi sono colme di tenebre, e sul loro fondo vacillano due fiamme, come lampade sepolcrali. Avanza, dice. Chi ti trattiene? ANTONIO balbettando: Temo di commettere un peccato! ELLA riprende: Ma re Saul si è ucciso! Razia, un giusto, si è ucciso! Santa Pelagia di Antiochia si è uccisa! Domnina di Aleppo e le sue due figlie, altre tre sante, si sono uccise; e ricordati tutti i confessori che correvano innanzi il carnefice impazienti di morire. Per goderne al più presto, le vergini di Mileto si strangolavano coi loro cordoni. Il filosofo Egesia, a Siracusa, predicava la morte così bene che si disertavano i lupanari per andarsi ad impiccare nei campi. I patrizi di Roma se la procurano come un piacere dissoluto. ANTONIO Si, è una potente attrazione! Molti anacoreti vi soccombono. LA VECCHIA Pensa, fare una cosa che ti eguaglia a Dio! Egli ti ha creato, tu distruggi la sua opera, tu, con il tuo coraggio, liberamente! Il godimento di Erostrato non fu più grande. E inoltre, il tuo corpo ha dileggiato a sufficienza la tua anima così che infine te ne vendichi. Non soffrirai. Sarà questione di un attimo. Cosa temi? Un grande buco nero! E vuoto, forse? Antonio ascolta senza rispondere; e dall’altro lato appare: UN’ALTRA DONNA giovane e meravigliosamente bella. In un primo momento la scambia per Ammonaria. Ma ella è più grande, bionda come il miele, ben in carne, truccata in volto e con delle rose sui capelli. La sua lunga veste adorna di lustrini emana riflessi metallici; le sue labbra carnose sembrano insanguinate, e le sue palpebre un po’ pesanti sono talmente cariche di languore che la si direbbe cieca. Mormora:

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Vivi, gioisci! Salomone raccomanda la gioia! Va dove ti porta il cuore e asseconda il desiderio dei tuoi occhi! ANTONIO Verso quale gioia? Il mio cuore è stanco, i miei occhi offuscati! ELLA riprende: Guadagna il sobborgo di Racotis, spingi una porta dipinta di blu; e quando sarai nell’atrio ove mormora un getto d’acqua, si presenterà una donna in un peplo di seta bianca guarnito di lamelle d’oro, i capelli sciolti, il riso somigliante al suono delle nacchere. È una femmina esperta. Gusterai fra le sue braccia la fierezza di una iniziazione e la quiete di un bisogno placato. Tu nemmeno conosci i turbamenti degli adulteri, le scalate, i rapimenti, la gioia di vedere completamente nuda colei che vestita si rispettava. Hai mai stretto al tuo petto una vergine che t’amava? Ti ricordi i cedimenti del suo pudore, e i suoi rimorsi che se ne andavano portati da un flusso di dolci lacrime! Puoi, non è vero, scorgervi che camminate nel bosco alla luce della luna? Al contatto delle vostre mani unite un fremito vi percorre; i vostri occhi ravvicinati effondono dall’uno all’altra come onde immateriali, e il vostro cuore si colma, scoppia; è un soave turbamento, una straripante ebbrezza… LA VECCHIA Non si ha bisogno di conoscere a fondo i piaceri per sentirne l’amaro! Basta vederli di lontano per esserne disgustati. Tu devi essere affaticato per la monotonia delle stesse azioni, la lunghezza dei giorni, la sozzura del mondo, la ferocia del sole! ANTONIO Oh si, tutto ciò che esso illumina mi disgusta! LA GIOVANE Eremita, eremita! Scoprirai diamanti tra i ciottoli, fonti sotto la sabbia, un diletto nelle vicende che tu disprezzi; e inoltre vi sono luoghi della terra così belli che si sente il desiderio di tenerla stretta al proprio cuore. LA VECCHIA Ogni sera, addormentandoti, tu speri che ben presto ti ricoprirà! LA GIOVANE Ciò nonostante, tu credi alla resurrezione della carne, che è il trasferimento della vita nell’eternità! La Vecchia, mentre parlava, s’è fatta ancora più scarna; e sopra il suo cranio, che non ha più capelli, un pipistrello forma cerchi nell’aria. La Giovane è diventata più grassa. La sua veste gatteggia, le sue narici palpitano, i suoi occhi roteano mollemente.

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LA PRIMA aprendo le braccia, dice: Vieni, io sono la consolazione, il riposo, l’oblio, l’eterna serenità! e LA SECONDA offrendo i suoi seni: Io sono la seduttrice, la gioia, la vita, l’inesauribile felicità! Antonio si volge per fuggire. Ciascuna delle due gli mette la mano sulla spalla. Il lenzuolo si apre, e scopre lo scheletro della Morte La veste si strappa e lascia vedere per intero il corpo della Lussuria, che ha la vita sottile con le natiche enormi e lunghi capelli ondulati e sfuggenti. Antonio resta immobile tra le due, considerandole. LA MORTE gli dice: Subito o tra poco, cosa importa! Tu mi appartieni, come i soli, i popoli, le città, i re, la neve dei monti, l’erba dei campi. Io volo più alto dello sparviero, corro più veloce della gazzella, io raggiungo la speranza stessa, ho vinto il figlio di Dio! LA LUSSURIA Non resistere; io sono onnipotente! I boschi risuonano dei miei sospiri, le onde sono mosse dalle mie smanie. La virtù, il coraggio, la pietà si dissolvono al profumo della mia bocca. Accompagno l’uomo per tutto il suo cammino; e sulla soglia della tomba egli si rigira verso me! LA MORTE Io ti rivelerò ciò che ti sforzavi di cogliere al barlume delle fiaccole sul volto dei morti, o quando vagabondavi oltre le Piramidi, in quelle distese di sabbia composte di resti umani. Di tanto in tanto, un frammento di cranio rotolava sotto il tuo sandalo. Prendevi la polvere, la facevi colare tra le tue dita; e il tuo pensiero, confuso con essa, si inabissava nel nulla. LA LUSSURIA Il mio abisso è più profondo! Statue di marmo hanno ispirato osceni amori. Ci si affretta ad incontri che atterriscono. Si ribadiscono catene che si è maledetto. Da dove viene la malia delle cortigiane, la stravaganza dei sogni, l’immensità della mia tristezza? LA MORTE La mia ironia supera tutte le altre! Vi sono esplosioni di godimento ai funerali dei re, nello sterminio di un popolo; e si fa la guerra accompagnati dalla musica, coi pennacchi, le bandiere, le armature d’oro, uno spiegamento solenne per rendermi grandi omaggi. LA LUSURIA La mia collera vale la tua. Urlo, mordo. Ho sudori di agonizzante e aspetti di cadavere.

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LA MORTE Sono io che ti rendo seria; abbracciamoci! La Morte sogghigna, la Lussuria ruggisce. Si prendono per la vita, e cantano assieme:

- Io accelero la dissoluzione della materia! - Io facilito lo spargimento dei germi! - Tu distruggi, per le mie rifioriture! - Tu rigeneri, per le mie distruzioni! - Attiva la mia potenza! - Feconda la mia putredine!

E l’eco delle loro voci, dispiegandosi, riempie l’orizzonte, diventa talmente forte che Antonio stramazza a terra. Una scossa, che si ripete, gli fa socchiudere gli occhi; e scorge davanti a sé fra le tenebre una specie di mostro. È una testa di morto incoronata di rose. Sta sopra un busto di donna d’una bianchezza madreperlacea. Al di sotto, un lenzuolo stellato di punti d’oro forma come una coda; e tutto il corpo ondeggia come un gigantesco verme che volesse tenersi in piedi. La visione si attenua, scompare. ANTONIO si rialza. Ancora una volta era il Diavolo, e sotto il suo doppio aspetto: lo spirito di fornicazione e lo spirito di distruzione. Nessuno dei due mi spaventa. Io ripugno il piacere, e mi sento eterno. Di conseguenza la morte non è che un’illusione, un velo che maschera qua e là la continuità della vita. Ma se la Sostanza è unica, perché le Forme sono molteplici? Vi devono essere, da qualche parte, delle figure primordiali, delle quali i corpi non sono che le immagini. Se potessimo vederle, conosceremmo il legame tra la materia e il pensiero, nella qual cosa consiste l’Essere! Si tratta di quelle figure che stavano dipinte a Babilonia sui muri del tempio di Belus, e le medesime coprivano un mosaico nel tempio di Cartagine. Io stesso, a volte ho scorto in cielo come delle forme spirituali. Coloro che attraversano il deserto incontrano animali che oltrepassano ogni idea… E di fronte, dall’altro lato del Nilo, ecco che appare la Sfinge. Allunga le sue zampe, scuote le bendelle della sua fronte, e si distende sul ventre. Saltando, volando, sputando fuoco dalle narici e colpendosi con la sua coda di drago le ali, la Chimera dagli occhi verdi si aggira, abbaia. I riccioli della sua capigliatura, riversati su un fianco, si mischiano ai peli dei suoi lombi, e dall’altro lato cadono fin sulla sabbia, agitandosi al dondolio di tutto il suo corpo. LA SFINGE è immobile, e guarda la Chimera. Qui, Chimera, fermati! LA CHIMERA No, giammai! LA SFINGE

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Non correre così veloce, non volare così alto, non abbaiare così forte! LA CHIMERA Smettila di chiamarmi, non chiamarmi più, giacché rimani sempre muta! LA SFINGE Smetti di gettarmi le tue fiamme sul volto e di riempire le mie orecchie dei tuoi latrati; non distruggerai il mio granito! LA CHIMERA Tu non mi acchiapperai, terribile sfinge! LA SFINGE Per restare con me, sei troppo folle! LA CHIMERA Per seguirmi, sei troppo pesante! LA SFINGE Dove vai, che corri tanto veloce? LA CHIMERA Galoppo nei corridoi del labirinto, spazio sui monti, rasento le onde, guaisco sul fondo dei precipizi, mi attacco con i denti al lembo delle nuvole; con la mia coda strascicante rigo le spiagge, e le colline hanno preso la loro curva dalla forma delle mie spalle. Ma tu, io ti ritrovo eternamente immobile, oppure che disegni con la punta del tuo artiglio lettere sulla sabbia. LA SFINGE Io mantengo il mio segreto! Io penso e calcolo. Il mare si rigira nel suo letto, le spighe di frumento dondolano al vento, le carovane vanno, la polvere si solleva, le grandi città crollano; e il mio sguardo, che nulla può deviare, resta teso attraverso le cose verso un orizzonte inaccessibile. LA CHIMERA Io, io sono leggera e gioconda! Io rivelo agli uomini prospettive stupefacenti fatte di paradisi nelle nuvole e di felicità lontane. Io verso nelle loro anime le eterne follie, i progetti di felicità, i piani dell’avvenire, i sogni di gloria, e i giuramenti d’amore e le risoluzioni virtuose. Spingo ai perigliosi viaggi e alle grandi imprese. Ho cesellato con le mie zampe le meraviglie delle architetture. Sono io ad aver appeso le campanelle sulla tomba di Porsenna, e circondato con un muro di oricalco le banchine di Atlantide.

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Io cerco profumi nuovi, fiori più grandi, piaceri mai provati. Se in qualche luogo scorgo un uomo il cui spirito riposa nella saggezza, gli piombo addosso e lo strangolo. LA SFINGE Tutti coloro che il desiderio di Dio tormenta, io li ho divorati. I più forti, per arrampicarsi fino alla mia fronte reale, salgono sulle strie delle mie modanature come sui gradini di una scala. Li prende la stanchezza; e cadono da sé all’indietro. Antonio comincia a tremare. Non è più davanti alla sua capanna, ma nel deserto, avendo ai suoi fianchi quelle due bestie mostruose che gli sfiorano le spalle con le loro fauci. LA SFINGE O Fantasia portami via sulle tue ali per allietare la mia tristezza! LA CHIMERA O Ignoto, sono innamorata dei tuoi occhi! Come una iena in calore io ti giro attorno, sollecitando le feconde copule il cui bisogno mi divora. Spalanca le fauci, solleva i piedi, montami sulla schiena! LA SFINGE I miei piedi, da quando sono a terra, non possono più sollevarsi. Il lichene, come un’impetigine, è cresciuto nelle mie fauci. A forza di pensare, non ho più niente da dire. LA CHIMERA Tu menti, sfinge ipocrita! Com’è che di continuo mi chiami e mi rinneghi? LA SFINGE Sei tu, indomabile capricciosa, che vai di qua e di là e giri come una trottola! LA CHIMERA È forse colpa mia? Come? Lasciami! Abbaia. LA SFINGE Tu ti agiti, mi sfuggi! Grugnisce. LA CHIMERA Proviamo! Mi schiacci!

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LA SFINGE No, è impossibile! E sprofondando poco a poco, scompare nella sabbia, mentre la Chimera, che striscia con la lingua fuori, s’allontana descrivendo cerchi. Il fiato della sua bocca ha prodotto una nebbia. In quella bruma, Antonio scorge delle volute più spesse, delle vaghe linee curve. Infine, distingue come sembianze di corpi umani; E per primo viene avanti IL GRUPPO DEGLI ASTOMI simili a bolle d’aria che il sole passa da parte a parte. Non soffiare troppo forte! Le gocce di pioggia ci deformano, i suoni stonati ci lacerano, le tenebre ci accecano. Composti di brezze e di profumi, noi rotoliamo, fluttuiamo – un po’ più che sogni, non del tutto esseri… I NISNAS non hanno che un occhio, una gota, una mano, una gamba, una metà del corpo, una metà del cuore. E dicono, gridando: Noi viviamo comodamente nelle nostre mezze case, con le nostre mezze femmine e i nostri mezzi figli. I BLEMMI assolutamente privi di testa: Le nostre spalle sono più larghe; e non v’è bue, rinoceronte o elefante che sia capace di portare ciò che portiamo noi. Delle specie di lineamenti, come una vaga immagine impressa sul nostro petto, ecco tutto! Noi pensiamo digestioni, noi sottilizziamo secrezioni. Dio, per noi, nuota in pace nei succhi gastrici. Noi andiamo dritti per la nostra strada, attraversando tutte le paludi, costeggiando tutti gli abissi; e siamo la gente più laboriosa, la più felice, la più virtuosa. I PIGMEI Piccoli bonaccioni, noi brulichiamo sulla faccia della terra come i pidocchi sulla gobba del dromedario. Ci bruciano, ci annegano, ci schiacciano; e sempre noi riappariamo più vivaci e più numerosi, terribili per il gran numero! GLI SCIAPODI Trattenuti a terra dalle nostre capigliature, lunghe come liane, noi vegetiamo al riparo dei nostri piedi, grandi come parasoli; e la luce ci arriva attraverso lo spessore dei nostri talloni. Nessun disturbo e nessun lavoro! La testa più in basso possibile è il segreto della felicità! Le loro cosce sollevate somigliano a tronchi d’alberi, si moltiplicano. E appare una foresta. Grandi scimmie vi corrono a quattro zampe; sono uomini dalla testa di cane. I CINOCEFALI Noi saltiamo di ramo in ramo per trangugiare le uova, e spenniamo gli uccelletti; poi ci mettiamo i loro nidi sul capo a mo’ di berretti.

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Non perdiamo l’occasione di strappare le mammelle delle vacche; e accechiamo le linci, defechiamo dall’alto degli alberi, scioriniamo le nostre turpitudini in pieno sole. Noi siamo maestri nel lacerare i fiori, nel pestare i frutti, nell’intorbidare le fonti, nel violare le femmine – a causa della forza delle nostre braccia e della ferocia del nostro cuore. Coraggio, compagni! Digrignate i denti! Latte e sangue colano dalle loro labbra. La pioggia scorre sui loro dorsi pelosi. Antonio respira la frescura delle foglie verdi. Esse si agitano, i rami si intrecciano; e di colpo appare un grande cervo nero, dalla testa di toro, che porta tra le orecchie un cespo di corna bianche. IL SADHUZAG I mie settantaquattro piccoli corni sono cavi come flauti. Quando mi volgo verso il vento del sud, ne scaturiscono suoni che attirano a me le bestie incantate. I serpenti si arrotolano alle mie gambe, le vespe si incollano nelle mie narici, e i pappagalli, le colombe, gli ibis si precipitano nelle mie ramificazioni. Ascolta! Rovescia le sue corna, dalle quali sfugge una musica ineffabilmente dolce. Antonio preme le due mani sul proprio cuore. Gli sembra che quella melodia gli porti via l’anima. IL SADHUZAG Ma quando mi volgo verso il vento del nord, le mie corna, più fitte di un battaglione di lance, esalano un urlo; le foreste trasalgono, i fiumi risalgono, la buccia dei frutti scoppia, e le erbe si drizzano come i capelli di un vile. Ascolta! China le sue ramificazioni, dalle quali escono dei gridi disarmonici; Antonio ne è come straziato. E il suo orrore aumenta vedendo LA MANTICORA gigantesco leone rosso, dal volto umano, con tre corone di denti. I marezzi del mio pelame scarlatto si confondono col luccichio delle distese di sabbia. Io soffio dalle mie narici il terrore delle solitudini. Io sputo la peste. Io divoro gli eserciti, quando si avventurano nel deserto. Le mie unghie sono ritorte a succhiello, i miei denti sono tagliati a sega; e la mia coda, che si contorce, è irta di dardi che io lancio a destra, a sinistra, in avanti, in dietro. Guarda! Guarda! La Manticora scaglia gli aculei della sua coda, che si irradiano come frecce in tutte le direzioni. Piovono gocce di sangue, schioccando sul fogliame. IL CATOBLEPA bufalo nero, con una testa di porco che cade fino a terra, collegata alle sue spalle da un collo sottile, lungo e floscio come un budello svuotato. Se ne sta avvoltolato a terra; e le sue zampe scompaiono sotto l’enorme criniera di peli duri che gli copre la faccia. Grasso, melanconico, selvatico, me ne sto continuamente a sentire sotto il mio ventre il calore del fango. Il mio cranio è così pesante che mi è impossibile reggerlo. Lo rotolo lentamente intorno a me; e, la mascella socchiusa, strappo con la lingua le erbe velenose irrorate dal mio fiato. Una volta, mi sono divorato le zampe senza accorgermene. Nessuno, Antonio, ha mai visto i miei occhi, o quelli che li han veduti sono morti. Se sollevassi le mie palpebre – le mie palpebre rosee e gonfie – immediatamente, tu moriresti.

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ANTONIO Oh, costui!...a… a… Se ne avessi voglia?...La sua stupidità mi attira. No, no! Non voglio! Guarda per terra fissamente. Ma le erbe si incendiano, e nelle torsioni delle fiamme si drizza IL BASILISCO grande serpente violetto dalla cresta trilobata, con due denti, uno sopra e uno sotto. Attento, stai per cadere nelle mie fauci! Io bevo fuoco. Sono io il fuoco; e ne aspiro dappertutto: dalle nuvole, dai sassi, dagli alberi morti, dal pelo degli animali, dalla superficie delle paludi. La mia temperatura mantiene i vulcani; io causo lo splendore delle pietre preziose e il colore dei metalli. IL GRIFONE leone dal becco di avvoltoio, con le ali bianche, le zampe rosse e il collo blu. Io sono il signore degli splendori profondi. Io conosco il segreto delle tombe ove dormono i vecchi re. Una catena, che esce dal muro, tiene loro la testa diritta. Vicino ad essi, entro vasche di porfido, le loro amanti d’un tempo galleggiano su liquidi neri. I loro tesori sono disposti entro sale, a losanghe, a monticelli, a piramidi; e più in basso, ben al di sotto delle tombe, dopo un lungo cammino in mezzo a tenebre opprimenti, vi sono fiumi d’oro con foreste di diamanti, praterie di carbonchi, laghi di mercurio. Addossato alla porta del sotterraneo con gli artigli in aria, io spio con le mie pupille fiammeggianti quelli che vorrebbero entrare. La pianura sconfinata, fino in fondo all’orizzonte è tutta spoglia e imbiancata dagli scheletri dei viaggiatori. Per te i battenti di bronzo si apriranno, e tu aspirerai il vapore delle miniere, tu discenderai nelle caverne… Presto, presto! Egli scava la terra con le sue zampe, urlando come un gallo. Gli rispondono mille voci. La foresta trema. E appare ogni sorta di bestie spaventosa: il Tragelafo, per metà cervo e per metà bue; il Mirmecoleo, leone davanti e formica dietro, che ha i genitali a rovescio; il pitone Aksar, lungo sessanta cubiti, che spaventò Mosè; la grande donnola Pastinaca, che uccide gli alberi con il suo odore; il Prestero che rende imbecilli col suo contatto; la Mirag, lepre cornuta, che abita le isole del mare. Il leopardo Falmant fa scoppiare il suo ventre a forza di urlare; il Senad, orso a tre teste, sbrana i suoi piccoli con la lingua; il cane Cepo versa sulle rocce il latte blu delle sue mammelle. Delle zanzare si mettono a ronzare, dei rospi a saltare, dei serpenti a soffiare. Brillano lampi. Cade la grandine. Arrivano raffiche piene di meravigliose anatomie. Vi sono teste di alligatori su piedi di capriolo, gufi con la coda di serpente, maiali col muso di tigre, capre con la schiena d’asino, rane pelose come orsi, camaleonti grandi come ippopotami, vitelli con due teste delle quali l’una piange e l’altra muggisce, feti quadrupli che si tengono per l’ombelico e danzano come trottole, ventri alati che volteggiano come moscerini. Ne piovono dal cielo, ne escono dalla terra, ne colano dalle rocce. Ovunque fiammeggiano pupille, ruggiscono fauci; i petti si gonfiano, gli artigli si allungano, i denti stridono, le carni tremolano. Ve n’è che partoriscono, altre copulano, oppure si divorano a vicenda in un sol boccone. Si soffocano per il gran numero, si moltiplicano per contatto, si arrampicano gli uni sugli altri; e tutti si agitano attorno ad Antonio con un dondolio regolare, come se il suolo fosse il ponte di una nave. Egli sente contro i suoi polpacci la stria delle lumache, sulle sue mani il freddo delle vipere; e dei ragni filando la loro tela lo imprigionano nella loro rete. Ma il cerchio dei mostri si apre, il cielo all’improvviso si fa blu, e IL LIOCORNO appare. Al galoppo, al galoppo!

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Ho gli zoccoli d’avorio, i denti d’acciaio, la testa color della porpora, il corpo color della neve, e il corno della mia fronte porta le screziature dell’arcobaleno. Io viaggio dalla Caldea al deserto tartaro, sulle rive del Gange e in Mesopotamia. Supero gli struzzi. Corro così veloce da trascinare il vento. Strofino la mia schiena contro le palme. Mi rotolo tra i bambù. Con un salto scavalco i fiumi. Alcune colombe volano sopra me. Solo una vergine può imbrigliarmi. Al galoppo, al galoppo! Antonio lo guarda fuggirsene via. E restando i suoi occhi sollevati, scorge tutti gli uccelli che si nutrono di vento: il Gouith, l’Ahuti, l’Alphalim, lo Iukneth delle montagne di Caff, gli Homai degli Arabi che sono le anime degli uomini assassinati. Ode i pappagalli proferire parole umane, poi i grandi palmipedi pelasgici che singhiozzano come bambini o sogghignano come vecchie. Un’aria salmastra lo colpisce alle narici. Ora davanti a lui v’è una spiaggia. In lontananza si levano getti d’acqua lanciati dalle balene; e dal fondo dell’orizzonte LE BESTIE DEL MARE rotonde come otri, piatte come lame, dentellate come seghe, avanzano trascinandosi sulla sabbia. Stai per venire con noi, nelle nostre immensità dove nessuno ancora è disceso! Popoli diversi abitano i paesi dell’Oceano. Alcuni vivono nella dimora delle tempeste; altri nuotano completamente immersi nella trasparenza delle onde fredde, pascolano come buoi le pianure di corallo, aspirano con la loro proboscide il riflusso delle maree, oppure portano sulle loro spalle il peso delle sorgenti del mare. Fosforescenze brillano sui baffi delle foche, sulle squame dei pesci. Ricci girano come ruote, corni d’Ammone si srotolano come canapi, ostriche fanno stridere le loro cerniere, polipi dispiegano i loro tentacoli, meduse fremono simili a bolle di cristallo, spugne galleggiano, anemoni sputano acqua; muschi, e varecchi vengono sospinti. E tutte le specie di piante si allargano in ramificazioni, si torcono a spirale, s’allungano a punta, si arrotondano a ventaglio. Vi sono zucche che paiono seni, liane che si annodano come serpenti. I Dedaim di Babilonia, che sono alberi, hanno per frutti teste umane; delle Mandragore cantano, la radice Baaras corre nell’erba. Ora i vegetali non si distinguono più dagli animali. Dei polipai, che assomigliano a sicomori, reggono braccia sui loro rami. Antonio crede di vedere un bruco tra due foglie; è una farfalla che vola via. Sta per calpestare un ciottolo; balza una cavalletta grigia. Insetti simili a petali di rose ornano un arbusto; residui di effimere formano sul suolo uno strato soffice come neve. E poi le piante si confondono con le pietre. Dei ciottoli assomigliano a cervelli, delle stalattiti a mammelle, dei fiori di ferro a tappezzerie ornate di figure. Entro frammenti di ghiaccio distingue efflorescenze , impronte di cespugli e di conchiglie – senza sapere se sono le impronte di quelle cose o le cose stesse. Diamanti brillano come occhi, minerali palpitano. E non ha più paura! Si distende ventre a terra, si appoggia sui gomiti; e trattenendo il respiro, guarda. Insetti che non hanno più stomaco continuano a mangiare; felci disseccate si rimettono a fiorire; membra che mancavano rispuntano. Infine, egli scorge delle piccole masse globulose, grosse come teste di spilli e tutt’intorno ornate di ciglia. Una vibrazione le agita. ANTONIO delirando: O felicità, felicità! Ho visto nascere la vita, ho visto cominciare il movimento. Il sangue delle mie vene batte tanto forte che sta per romperle. Ho voglia di volare, nuotare, abbaiare, muggire, urlare. Vorrei avere ali, un guscio, una corteccia, soffiare del fumo, reggere una proboscide, torcere il mio corpo, distribuirmi ovunque, essere in tutto, emanarmi con gli odori, svilupparmi come le piante, colare come l’acqua, vibrare come il suono, brillare come la luce, appiattirmi su tutte le forme, penetrare ogni atomo, scendere fino al fondo della materia – essere la materia!

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Infine appare il giorno; e come le cortine d’un tabernacolo che si sollevano, nuvole d’oro, avvolgendosi in ampie volute, scoprono il cielo. Proprio nel mezzo, nel disco stesso del sole, sfavilla il volto di Gesù Cristo. Antonio fa il segno della croce e si rimette in preghiera.

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MORTE DEL CRISTO IN UNA CITTÀ MODERNA ( Questo episodio doveva intervenire alla fine della sfilata degli Dei, parte V dopo: “ Allora si fece un silenzio

enorme ” )

Antonio non ode più nulla. A misura che ascolta, il silenzio gli sembra aumentare e le tenebre sono talmente oscure che si stupisce, aprendo le braccia, di non sentire la loro resistenza. Tuttavia esse lo soffocano come marmo nero che fosse fuso sulla sua persona. Ben presto si socchiudono, formando come due muraglie; e sul fondo, in una lontananza incalcolabile appare una città. Del fumo sfugge dalle case, lingue di fuoco si attorcigliano nella bruma. Ponti di ferro passano sopra fiumi di immondizie; auto, chiuse come bare, ingombrano delle lunghe strade tutte diritte; qua e là, donne protendono i loro volti sotto il riflesso delle taverne dove, all’interno, brillano grandi specchi. Uomini in abiti orrendi e d’una magrezza o d’una obesità grottesca corrono come se fossero inseguiti, il mento basso, lo sguardo sfuggente, tutti con l’aria di nascondere qualcosa. Ed ecco che fra loro sant’Antonio scorge GESÙ. Da tanto tempo che cammina, la sua figura si è incurvata; i suoi capelli sono incanutiti, e la sua croce forma, piegandosi, uno smisurato arco sulla sua spalla. È troppo pesante. Chiede aiuto; non accorre nessuno. Bussa alle porte. Restano chiuse. Continua a camminare, implorando uno sguardo, una premura. Nessuno ha tempo di ascoltarlo. La sua voce si perde nel chiasso. Vacilla e cade sulle ginocchia. Il rumore della sua caduta raduna degli uomini di tutte le nazioni, dai Germani fino ai negri – e nel delirio della loro vendetta, essi urlano al suo orecchio: “ Per te si son versati diluvi di sangue umano, foggiati bavagli con la tua croce, nascosto tutte le ipocrisie sotto la tua veste, assolto tutti i crimini in nome della tua clemenza! Moloch dal pelo d’agnello, è ormai troppo tempo che dura la tua agonia; muori infine! E non risuscitare!” Poi gli altri, coloro che l’amavano, con ancora le tracce delle lacrime sulle loro gote, gli dicono: “ Abbiamo pregato abbastanza, pianto, sperato! Tu sia maledetto per la nostra lunga attesa, per il nostro cuore inappagato! ” Un monarca lo colpisce col suo scettro accusandolo di aver esaltato i deboli; e il popolo lo strazia con le unghie rimproverandogli di aver sostenuto i re. Alcuni si prosternano per derisione. Altri gli sputano in faccia, senza collera, per abitudine. Dei mercanti vogliono farlo sedere nelle loro botteghe. I Farisei sostengono che ingombra la strada; i dottori, avendo indagato le sue piaghe, affermano che non bisogna credervi e i filosofi aggiungono: “ Non è altro che un fantasma.” Non lo si guarda neppure più; lo si ignora. Resta steso nel fango, e i raggi di un sole invernale colpiscono i suoi occhi moribondi. La vita del mondo continua intorno a lui. I carri lo inzaccherano. Le prostitute lo sfiorano. L’idiota passando gli getta il suo riso, l’assassino il suo crimine, l’ubriaco il suo vomito, il poeta la sua canzone. La moltitudine lo calpesta, lo fa a pezzi, e alla fine, quando non resta altro sul selciato che il suo grande cuore tutto rosso, i cui battiti poco a poco si affievoliscono, non si ode, come sul Calvario, un grido terribile, ma appena un sospiro, un’esalazione. Le tenebre si richiudono. ANTONIO Orrore! Non ho visto niente! Vero, mio Dio? Che resterebbe altrimenti?

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