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Titoli originali delle edizioni in lingua inglese: Lord Of The Wolfyn Lord Of The Abyss Harlequin Nocturne

© 2011 Dr. Jessica S. Andersen © 2011 Nalini Singh

Traduzione di Licia Reggi e Andrea Lorenzini

Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma.

Questa edizione è pubblicata per accordo con Harlequin Enterprises II B.V. / S.à.r.l Luxembourg.

Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale.

© 2012 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano

Prima edizione Bluenocturne ottobre 2012

Questo volume è stato stampato nel settembre 2012

da Grafica Veneta S.p.A. - Trebaseleghe (Pd)

BLUENOCTURNE ISSN 2035 - 486X

Periodico quindicinale n. 74 del 26/10/2012 Direttore responsabile: Alessandra Bazardi

Registrazione Tribunale di Milano n. 118 del 16/03/2009 Spedizione in abbonamento postale a tariffa editoriale Aut. n. 21470/2LL del 30/10/1981 DIRPOSTEL VERONA

Distributore per l'Italia e per l'Estero: Press-Di Distribuzione Stampa & Multimedia S.r.l. - 20090 Segrate (MI)

Gli arretrati possono essere richiesti contattando il Servizio Arretrati al numero: 199 162171

Harlequin Mondadori S.p.A.

Via Marco D'Aviano 2 - 20131 Milano

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Signore dei lupi

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Signore dell'Abisso

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Signore dei lupi

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Prologo

C'era una volta, in una terra incantata, uno stregone oscuro che bramava l'unico potere che gli venisse negato: il diritto di gover-nare. Perciò, alla testa del suo esercito, attaccò ferocemente il Castello Reale di Elden, giurando di spazzare via la famiglia reale e impadronirsi del trono. Ma non aveva fatto i conti con l'amore che il re e la regina provavano per i loro figli, in particolare per il ribelle, caparbio Principe Dayn... I rami degli alberi pungevano il volto di Dayn e le frasche sfer-zavano lo stallone sauro su cui cavalcava, ma nessuno dei due esitò. Erano stati addestrati per quello, per quello erano nati. Dayn era il secondogenito del re, Hart un cavallo reale che di-scendeva da generazioni di destrieri da guerra. E assieme erano a guardia dell'Isola del Castello e dei villaggi che circondavano il Lago di Sangue, e tenevano gli orribili mostri generati dalla stre-goneria intrappolati nella Foresta Morta. Si trattava di un nobile ruolo, di una vocazione pericolosa... e di un'attività incredibil-mente frenetica. Perlomeno, di solito lo era. Quella sera, tuttavia, Dayn cavalcava con furia, nel pugno ser-rato teneva le redini e nell'altra mano la balestra con un dardo incoccato, il cervello concentrato non sul proteggere il castello o gli abitanti della campagna, ma sull'atto di uccidere. Avvolto nell'umore del padrone, Hart sbuffò, strattonò il morso coi denti e superò con un balzo un intrico di rovi che normalmente avrebbe aggirato mentre il principe lanciava un grido e si aggrappava alla criniera fluente. Atterrarono assie-me e schizzarono via, visto che riuscivano a vedere chiara-

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mente il mostro che stavano inseguendo. Quella creatura grigia e pelosa, delle dimensioni di un pony, poteva essere uno dei lupi giganti che cacciavano negli altipiani oltre Elden, se non fosse stato per la pelliccia rossastra che spun-tava dalla nuca poderosa e per la striscia dorata che gli correva lungo la spina dorsale. Con quelle caratteristiche era chiaro che si trattava di qualcosa di radicalmente differente: un wolfyn. I cacciatori più anziani raccontavano dei wolfyn in grado di assumere forma umana e sedurre le fanciulle più belle, per poi ucciderle e mangiarle. Si trattava soltanto di storie e la trasfor-mazione leggendaria era un modo per spiegare perché, quando si era deciso di sterminarle, quelle bestie fameliche avevano rea-gito con rappresaglie attaccando i villaggi e assalendo diretta-mente i guerrieri più forti e le loro incantevoli mogli, come se fossero state in guerra, e non a caccia. Quei giorni appartenevano al passato, e ora i wolfyn erano stati quasi spazzati via. Eppure, i pochi che rimanevano in circo-lazione erano letali, dunque era necessario ucciderli, per il bene di tutta la comunità. Per il momento, Dayn era concentrato solo sul cavalcare ab-bastanza veloce da riuscire a lasciarsi ogni altra cosa alle spalle, la rabbia di suo padre, il disappunto di sua madre... e l'espressio-ne sul volto di Twilla quando lui aveva rotto il fidanzamento. Le parole del re gli echeggiavano nella testa. Devi sposare una vera principessa. Sei il guardiano della foresta reale e la mano destra di tuo fratello. E agli dei era chiaro che al seducente Nico-lai nessuna avrebbe messo le briglie nel giro di poco tempo, così il re e la regina – e i loro consiglieri – avevano riversato ogni spe-ranza di stringere alleanze proficue su di lui e su sua sorella Bre-ena. Il solo pensarci – e pensare al diverbio che aveva appena avuto coi genitori – spingeva il principe a cavalcare con vigore per allontanarsi dal castello e dai suoi intrighi politici. Aveva ventisei anni, e quelli della sua specie vivevano per centinaia, talvolta per migliaia, di anni. Ciononostante, i suoi ge-nitori volevano svendere la sua vita alla casata reale che si fosse rivelata la migliore offerente. Per gli dei e per l'Abisso, quanto a-vrebbe desiderato essere di origini comuni... Continuò a spronare il cavallo finché il vento non gli sferzò le guance e il terreno divenne indistinto sotto gli zoccoli di Hart.

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Il suo uomo d'armi, Malachai, un tempo suo tutore, che sta-va cavalcando parecchio indietro sul solido cavallo castrato dal pelo grigio, gridò: «Maledizione, aspetta!». E qualcos'altro, che si perse fra gli sbuffi di Hart, mentre la macchia d'alberi si diradava. Dayn riuscì a scorgere nuovamente il wolfyn, che si voltò in-dietro a osservarli con occhi d'ambra fin troppo intelligenti. Strinse le ginocchia e sollevò la balestra, a mano a mano che la distanza diminuiva. Gli alberi gli si aprirono attorno, mentre lui si concentrava sulla parte rossiccia, splendido bersaglio per un col-po mortale. Il wolfyn si contrasse per prepararsi a un'ultima accelerata e-splosiva e... Un messaggio telepatico echeggiò all'improvviso nel cranio di Dayn, riempiendolo di emozioni pulsanti che non erano sue: rabbia, sfida, paura, tradimento. Prima che potesse prodursi in qualcosa che non fosse sobbalzare per la sorpresa, una raffica di vento gli vorticò attorno, stringendolo in un gigantesco pugno di energia magica, strappandolo dalla sella e risucchiandolo in un mulinello d'aria che si stava rapidamente formando e che saliva verso l'alto. «Imboscata!» gridò Malachai, la voce che svaniva rapidamen-te, mentre il ciclone risucchiava Dayn al suo interno e l'aria gli sibilava attorno. Lui lottò contro la potente forza fisica, che ruggiva e che poi si quietò, echeggiando nella sua anima, appena lui raggiunse l'occhio calmo al centro. Là, giacque sospeso, senza vedere nul-la che non fosse il muro semovente di colore grigiobruno che lo circondava, senza sentire nulla che non fosse la magia. Il suo battito pulsava martellante e i muscoli gli intimavano di combat-tere o darsi alla fuga. Ma non c'era nulla contro cui combattere e nessuna direzione da prendere per sfuggire. Per gli dei. Cosa sta-va accadendo? I messaggi telepatici di solito non erano altro che pensieri condivisi fra bevitori di sangue imparentati fra loro. Lui e suo padre condividevano il legame più forte, sebbene il re ne a-vesse uno altrettanto potente con Nicolai. Ma in quel caso si trattava di qualcosa di radicalmente differente. «C'è nessuno?» gridò. «Padre? Sei tu a farmi questo?» Forse desiderava punirlo per essersi rifiutato di... Il caos dei rumori di battaglia d'improvviso gli rimbombò

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chiaramente dentro la testa: terribili urla, ruggiti da fare accappo-nare la pelle e che non riusciva a localizzare, il cozzare dell'ac-ciaio su altro acciaio, il suono delle corde degli archi che scocca-vano, l'infuriare di ordini di battaglia. Il sangue gli si gelò nelle vene, quando realizzò che non si trattava di una punizione. Era un avvertimento. «Alvina!» sentì gridare suo padre, in direzione di sua madre. «Torna indietro, maledizione!» Poi vi fu una scossa stridente di magia e Dayn si trovò dentro la testa di suo padre, in grado di vedere ciò che lui vedeva, percepire quel che lui percepiva. Orrore e cupa determinazione pulsavano con un tonfo sordo nelle vene di Aelfric, impegnato a uccidere la creatura che gli si parava davanti, sui gradini della stretta scalinata. Non aveva i-dea di come lo Stregone del Sangue fosse riuscito a far arrivare il suo esercito sull'isola senza venire scoperto, ma il castello era preso. Mostruose creature a forma di scorpione riempivano il salone grande sotto la scalinata curva, tramortivano i soldati della guardia scelta con le code velenose e facevano a pezzi le arma-ture con artigli affilati come rasoi. Il sangue scorreva, gli uomini gridavano e morivano. Il re lanciò un dardo magico per respingere gli ettin, enormi orchi a tre teste, che stavano cercando di raggiungere il piano superiore: riuscì a confonderli ma solo per un poco. Ruotò su se stesso, per attaccare, e si trovò alle spalle della moglie. La cosa non lo sorprese, dato che l'amata Alvina era una combattente, fiera e potente, tanto in amore quanto in guerra. Quel che lo sorprese fu il dolore pieno di panico che percepì alla vista di lei che si affrettava su per i gradini di pietra. Quell'intimo sussurro che gli diceva: Per favore, dei, no. Non sono pronto per tutto questo. Il peggio fu che notò le stesse emozioni riflesse negli occhi della regina, quando lei chinò il capo e si nascose in un'alcova poco distante dalle loro stanze, e si girò verso di lui, tendendogli le mani. «Dobbiamo agire in fretta» mormorò mentre le pietre tre-mavano sotto i loro piedi per il vigore della battaglia. «Possiamo ancora riuscire a salvare i bambini.»

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Aelfric avrebbe voluto discuterne, ma in cuor suo sapeva che si sarebbe trattato solo di una perdita di tempo. Stringendole le mani, le si avvicinò e le appoggiò una guancia sulla fronte. «Ah, mia regina, amore mio. Mi dispiace.» Per avere atteso troppo a lungo, prima di andare a scovare lo Stregone del Sangue. Per non avere alcuna speranza da offrirle. Per essere passati così bruscamente dai discorsi sul quinto compleanno del piccolo Mi-cah a quello. Il respiro successivo che lei trasse fu un singhiozzo. «Dobbia-mo sbrigarci» mormorò solo. Il re si allontanò col corpo, continuando a tenerle le mani, che tremavano dentro le sue. «Dimmi cosa devo fare.» «No!» gridò Dayn, il dolore che gli incendiava il petto. «Dei, no!» Mentre la visione svaniva, sentiva ancora il tipico ronzio che gli confermava che si trattava di un ricordo, che quel che lui aveva visto era già accaduto. Lottò contro la forza invisibile che lo tratteneva al centro del mulinello, vi si scagliò contro, maledi-cendola. «Malachai!» gridò. «Al castello!» Non vi fu risposta e la foresta all'improvviso parve molto lontana. Dayn. Sentì quella parola pronunciata nella sua testa da una voce bassa e tonante, familiare. «Padre?» La speranza esplose in lui. «Grazie agli dei. Fammi u-scire da qui. Posso radunare gli abitanti del villaggio e...» È troppo tardi. Il castello è caduto, e noi con loro. «Non dire così.» La voce gli uscì spezzata, il respiro mozzato. «Tieni duro. Resisti. Troverò Nicolai. Se ci mettiamo insieme...» L'incantesimo è lanciato, il nostro sangue vitale è andato. Non so neppure quanto a lungo riuscirò a comunicare con te, perciò ascoltami. «No!» Dayn scosse la testa selvaggiamente per negare sia quelle parole sia il sussurro che gli diceva che suo padre era pas-sato nello spazio fra la vita e la morte. «Padre... Madre... Dei...» Non provò vergogna a singhiozzare, mentre un terribile senso di colpa lo travolgeva. «Non avrei dovuto perdere le staffe, schizza-re via al galoppo. Se fossi stato presente...» Tregua!, gli intimò Aelfric, più o meno come era solito fare con i suoi uomini in battaglia. Il principe tornò a prestare attenzione, ma la sua voce era

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scossa, quando disse: «Attendo i vostri ordini». Aveva pronun-ciato quelle parole molte volte, in precedenza, anche se molto spesso, negli ultimi tempi, con risentimento. Ora assumevano un nuovo, più nitido significato, perché lui non aveva idea di quale dovesse essere il suo passo successivo. Trovare Nicolai? Radunare un esercito? Sferrare un attacco magico? Battere in riti-rata? Neppure nei suoi sogni più travagliati si era immaginato il castello espugnato, i genitori morti. Non poteva sprecare quel poco tempo che restava a suo padre nell'intermezzo, perciò soggiunse: «Parlate, padre. Farò ciò che mi chiedete». Ottimo, allora ascoltami attentamente. A causa delle nostre ferite e del potere dello stregone, l'incantesimo è stato distorto, mentre veniva lanciato da me e da tua madre. La magia ha spedito te, i tuoi fratelli e tua sorella in un luogo lontano, vi ha vincolati al castello ed è cominciato un conto alla rovescia. Quando questo conto raggiungerà le sue ultime quattro notti – e non prima – voi quattro dovrete ritornare sull'isola, ripren-dervi il castello e uccidere lo Stregone del Sangue. Se non lo fa-rete, morirete, e Elden sarà perduta. Ma dovete aspettare il momento giusto. Il fiato di Dayn gli raschiò i polmoni; la mente vorticò. «Come farò a saperlo?» Dei, ma stava accadendo davvero? Verrà una donna a guidarti verso casa. Il conto alla rovescia comincerà a partire dal suo arrivo e terminerà la quarta notte. Dovrai lasciare che lei ti guidi, ma ricorda: rimani fedele a te stesso e riconosci le tue priorità. Promettimelo. Un singhiozzo gli chiuse la gola. «Lo prometto. Dei, Padre...» Fu interrotto dal vortice, che improvvisamente accelerò, mug-ghiante. Pochi secondi dopo, lui stava volando lontano dalla calma al centro. «No!» ululò, mentre il vento lo afferrava, sca-gliandolo in avanti. In un attimo, stava rotolando su se stesso più e più volte, mentre gridava: «Mi dispiace di non essere stato lì a combattere!». Un tuono squassò il cielo e un guizzo di energia scoppiò nel corpo di Dayn, bruciandogli la carne viva e lasciandolo senza fia-to. Il dolore lo consumava, in spasmi, mentre il corpo desiderava lacerarsi: carne e muscoli si strappavano, i tendini si spezzavano, le ossa gli si incurvavano. Ci fu una scossa netta, un'agonia che lo attraversò da parte a parte, così terribile che lui gridò e i sensi

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gli si annebbiarono. Poi, tra un attimo e quello successivo, l'ulu-lato cessò e il vento scomparve, andandosene come se non ci fosse mai stato. Dayn restò per un secondo a mezz'aria, a faccia in giù, a due metri e mezzo, forse tre, da una radura d'erba circondata da stra-ni pilastri di pietra. Poi il suo peso tornò e lui precipitò verso ter-ra. «Figlio di...» Colpì il suolo duramente, con un boom che echeggiò nell'a-ria. L'impatto fu notevole: gli annebbiò la vista, gli fece rimbom-bare le orecchie e girare la testa. Di certo quello spiegava perché, mentre faticava per rimettersi in piedi usando mani e ginocchia, il mondo attorno a lui sembrava troppo luminoso, il cielo troppo pallido, gli alberi troppo alti. Ma nessun colpo alla testa poteva spiegare il freddo che gli penetrò nella tunica o il fatto che po-tesse vedere il suo stesso fiato nell'aria. O perché le pietre in cer-chio e gli alberi snelli, alti, non somigliassero a nulla che avesse visto in precedenza. Dove si trovava? Forse l'incantesimo lo aveva spedito negli Alti Limiti? O ancora più distante? Per gli dei, e se si trovava sper-duto nelle profondità delle Terre Desolate? Gli ci sarebbero voluti mesi per tornare a casa. Suo padre aveva menzionato il fatto che avrebbe dovuto attendere una donna–guida, e un conto alla ro-vescia della durata di quattro notti, che sarebbe cominciato con il suo arrivo, ma l'impazienza ribolliva già nelle sue vene al pen-siero. Cosa sarebbe accaduto se non avesse aspettato? Se fosse ritornato per conto proprio? Era un cacciatore, nella foresta si sentiva a proprio agio. Se qualcuno poteva essere in grado di at-traversare i regni da solo, rimanendo incolume, era lui. E se...? Sobbalzò, quando intravide un movimento con la coda del-l'occhio, e il battito gli accelerò bruscamente, mentre si girava, sperando di vedere la sua guida. Invece, due uomini uscirono dagli alberi. Uno era un ragazzo dinoccolato di quasi vent'anni, mentre l'altro pareva averne fra i venti e i trenta, o al massimo quaranta. Avevano entrambi lineamenti minacciosi e il naso lun-go, cosa che faceva pensare che fossero imparentati, e indossa-vano vestiti dai colori scintillanti, che non erano fatti di alcuna pelle o fibra tessile che Dayn avesse mai visto in precedenza. Quello strano tessuto si piegava come la pergamena, mentre lo-ro avanzavano.

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Si alzò, accorgendosi con un certo ritardo che la magia lo a-veva privato di tutto, eccetto degli abiti. Ma se si trovava in terri-torio ostile, quella poteva essere una fortuna. Doveva mantenere la sua vera identità nascosta finché non avesse compreso se era prudente per lui svelare di essere uno dei principi di Elden. «Ehi, laggiù» lo chiamò il più anziano. «Non avere paura. Siamo qui per aiutarti.» In disparte, domandò al più giovane: «Bene, test lampo. Cosa ne pensi di lui?». Dayn aggrottò le sopracciglia. Comprendeva l'accento duro, quasi gutturale, dell'uomo, ma cosa diavolo era un test lampo? «Be', l'abbigliamento ci dice che proviene dal reame.» I denti del ragazzo brillarono. «O forse da una fiera del Rinascimento degli umani. Ma propenderei per la prima ipotesi. Stoffa fatta in casa, nessun vezzo, nessuna arma? Probabilmente è un tizio qualunque che è finito in un vortice senza avere la minima idea di cosa gli sia capitato. Propongo di narcotizzarlo e rispedirlo a casa, senza trucco, senza inganno.» «Non ne sono sicuro. C'è qualcosa nei suoi occhi...» «Sai come sono molti di loro, quando varcano la soglia. Al diavolo, sono così scombussolati dal viaggio che non c'è nem-meno bisogno di drogarli. Ci scommetterei che è il suo caso. Voglio dire, gli abitanti di Elden non credono alla scienza, figu-riamoci ai reami o alla possibilità di teletrasportarsi fra i reami, per cui non è che abbia un punto di riferimento da cui comincia-re.» «Forse.» Il più anziano si fermò al limitare del cerchio di pie-tra. «Tu, laggiù. Qual è il tuo nome e chi è il tuo sovrano?» «Re...» A Dayn si spezzò la voce, la gola serrata per la consa-pevolezza che la risposta non era Aelfric, non più. Suo fratello maggiore era il legittimo re. Per gli dei, Nicolai, dove sei? Che co-sa è accaduto a tutti noi? «Lo vedi?» intervenne il giovane. «Non si ricorda una merda di pecora.» «Ehi, modera il linguaggio, giovanotto» lo interruppe l'altro. «Hai trascorso di nuovo troppo tempo con qualche ospite uma-no...» «Meglio prendere dagli umani che dagli abitanti dei regni. Quelli sono arretrati, la loro magia imprevedibile. E metà di loro sono governati da quei malefici parassiti succhiasangue.» Il ra-

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gazzo agitò una mano vicino al cuore, come per scacciare il ma-le. Dayn fu tutto a un tratto molto contento di non essere riusci-to a pronunciare il nome del suo re. Dove si trovava, perché i be-vitori di sangue godessero di una così cattiva fama? Prima che riuscisse a comprendere come poter formulare una simile domanda, una macchia sfuocata volò fuori dalla boscaglia e si diresse verso i due uomini: una creatura allampanata, con l'aspetto di un cucciolo e una pelliccia grigio lucido. Fu solo quando inchiodò bruscamente, agitando furiosamente la coda in segno di saluto, che Dayn intravide la parte rossiccia e l'accenno di striscia dorata. Non riuscì a mascherare l'istinto a ritrarsi di fronte a quella creatura, o un gemito quando il cucciolo di wolfyn si sollevò sulle zampe posteriori, che diventarono im-provvisamente fluide, mentre la sua figura si allungava verso l'al-to, si raddrizzava, e la pelliccia mandava bagliori. Quando la tra-sformazione fu conclusa, un tessuto azzurro scintillante, guanti e lucidi stivali neri e l'ovale pallido di un volto di bambino si ma-terializzarono davanti ai suoi occhi. Dayn osservò, sbalordito. Per gli dei, era vero. I wolfyn erano mutaforma. Quello implicava forse che anche le altre storie fos-sero vere? E quella era la loro patria? Gli occhi del piccolo brillavano di curiosità, i lineamenti erano una versione più giovanile di quelli degli altri due. «Ooh, mi so-no perso un vortice? Che fregatura. Da dove viene? Resta?» Il giovane gli scompigliò i capelli rossicci e lucidi. «Ci stiamo lavorando. Anche se penso si possa tranquillamente sostenere, dalla sua reazione, che proviene dai regni.» L'uomo più vecchio socchiuse gli occhi. «Il punto è se si trat-ta di uno di quei bastardi succhiasangue omicidi oppure no.» Quando i tre si avvicinarono, entrando nel cerchio tracciato dalle pietre erette, il cuore rimbombò nel petto di Dayn, che però non indietreggiò e fece scomparire coscientemente i suoi canini, in modo che nemmeno le punte potessero essere percepite, an-che nel caso di una ispezione. Se si fossero accorti di chi e che cosa lui in realtà fosse, non sarebbe sopravvissuto abbastanza a lungo da riuscire a tornare a casa.

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Vent'anni dopo, nella terra degli umani Reda Weston si fermò sul marciapiede, davanti al negozio di souvenir Nero Gatto, con la mano sulla porta e un nodo allo stomaco. La persona riflessa che la osservava con gli occhi sgranati da dietro il vetro colorato non era nessuno che lei conoscesse. Ep-pure, quell'estranea portava una coda di cavallo di capelli ondu-lati, con striature rosse, proprio come lei, e indossava i jeans lo-gori e la giacca di pelle consumata che aveva tirato fuori dall'ar-madio quel mattino, dato che non c'era motivo per cui si vestis-se come una poliziotta, in quel periodo. Eh, già, erano i suoi pro-fondi occhi azzurri, che comparivano sopra le occhiaie scure che avevano preso possesso del suo viso negli ultimi tempi. Ma, se quella era lei, cosa diavolo stava facendo? Di norma, non si sarebbe neppure lontanamente avvicinata a negozi che si occupavano di magia, di stregoneria e altre scioc-chezze del genere, così comuni sul lungomare di Salem, se non quando qualcuno chiamava la polizia... ma ecco che, di nuovo, quello che si poteva definire la norma era scomparso, sei setti-mane prima. E Reda aveva in effetti chiesto a MacEvoy, il titolare del Nero Gatto, di trovare un libro per lei. «Il libro è qui» recitava il messaggio telefonico. «E se ti è pia-ciuta l'immagine, ti piacerà da matti anche tutto il resto.» Piaciuta? Diamine, Reda aveva trascorso gli ultimi quattro giorni a fissare l'incisione, incastonata nella sua cornice di legno, di una foresta scura, inquietante, piena di alberi nodosi e contor-

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ti, con un accenno di occhi nascosti nell'ombra. Aveva fatto di peggio: aveva sognato quell'immagine... e raffigurazioni simili. Uno sferragliare la fece trasalire e istintivamente la mano cor-se alla pistola che in quel momento non portava. Sussultò quan-do si accorse che quel suono proveniva dalla porta, di cui lei sta-va girando la maniglia. Peggio: non avrebbe saputo dire da quanto tempo se ne stava lì impalata. «Non stupirti se avrai disturbi del sonno, attacchi di panico, cambi di comportamento, persino compulsioni» le aveva detto lo strizzacervelli del dipartimento. E li aveva già avuti tutti quei sintomi... tranne l'ultimo. Quella era la sua prima compulsione a pieno titolo. O, piuttosto, lo era stata lo strano impulso che du-rante i primi giorni di quella settimana l'aveva praticamente tra-scinata fino a quel negozietto piuttosto raccapricciante. E quella era la seconda. Molto, molto più forte. Non si tratta dello stesso libro, si disse. È solo una copia. Sal-vo che la sua maman le aveva detto che si trattava di un esem-plare unico. È solo un meccanismo di transfer, stai cercando di risolvere qualcosa di risolvibile, perché sai che le cose vere non lo sono. Era il suo lato pratico a parlare, eredità di suo padre. E all'improvviso vide il maggiore, nell'ombra di quegli occhi az-zurri che la guardavano e in quella postura rigida che la faceva sembrare più alta del suo metro e settanta scarso. Dentro di lei, tuttavia, la voce di sua madre sussurrò: Almeno dai un'occhiata. Cos'hai da perdere?. «La mia salute mentale» bofonchiò, ignorando il dolore che la colpiva come un pugno, sotto il cuore. Esitò per un altro istante, poi scosse la testa e spinse la porta, suscitando il suono di un campanellino in lontananza, sul retro di quel negozio stracolmo. Come in precedenza, il luogo odorava, in maniera inquietan-te, di polvere per i piedi, borotalco granuloso con una sfumatura dolciastra di sottofondo, che la faceva pensare ai funerali. Ac-canto all'entrata, una serie di scaffali di legno, con curve bizzar-re, sinuose, intagliate sui lati, e piccole tracce di scaglie e denti, era carica dei soliti sospetti: cartoline dalle pretese artistiche, libri sui processi alle streghe, copie di La casa dei sette abbaini di Hawthorne, roba del genere. Le pareti erano dipinte di nero, con qualche tonalità bianco–verdognolo che di sicuro scintillava al buio. La cornice perfetta, per il proprietario, sarebbe stata tirare

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fuori la statua della morte, alta quasi un metro, che teneva chiu-sa in una teca di vetro dietro il registratore di cassa, sul retro del negozio, e che, Reda ci avrebbe scommesso un centone, era si-cura si potesse convertire in un enorme bong. Sì, lei era decisamente fuori posto. Meglio andarsene. «Signorina Weston!» MacEvoy emerse da una porta su cui era affisso il cartellino Privato, le mani tese verso di lei e gli oc-chietti venati di rosso carichi di un'espressione di piacere che a-vrebbe potuto essere simulata quanto sincera. Un uomo–cavalletta di peso ed età medi, tutto braccia e spi-goli dentro un vestito scuro e consunto, che lo faceva sembrare un impresario delle pompe funebri di epoca vittoriana e che pro-veniva probabilmente da uno dei ripiani della roba in liquida-zione del negozio Costumi di Corby, poche vetrine più avanti. Non essere maligna, si disse, stringendogli la mano. Non è certo stato lui a cercare te. E non era certo colpa sua, se Reda in quel luogo si sentiva completamente fuori posto. Il problema non era il luogo in sé, né MacEvoy. «Da questa parte.» La condusse verso il registratore di cassa, dove si trovava una vetrinetta in legno e vetro, che conteneva una collezione di gioielli d'argento e pietra di luna particolar-mente brutti, assieme a una rana d'argento, i cui occhi rosso granato pareva seguissero i movimenti di Reda. Ma era solo la sua immaginazione, giusto? Trattenendo un brivido, lei rammentò a se stessa che non credeva alla magia, una messinscena per turisti. Se l'atmosfera stava iniziando a darle alla testa, significava che MacEvoy era più bravo, nei suoi giochetti, di quanto avesse creduto. Dopo essere scomparso dietro la vetrinetta e avere rovistato in giro per qualche secondo, l'uomo si lasciò sfuggire un'escla-mazione soddisfatta. Quando si raddrizzò, stringeva una scatola nera di cartone, coi bordi in metallo, che sulla costa portava la scritta Classificatore a pH neutro. Il registratore di cassa mentale di Reda le suonò un cha–ching nella testa, e lei si domandò se non fosse meglio prodursi in un: «Grazie, ma ho cambiato idea» e prenotare un'altra seduta dallo strizzacervelli. Di certo mi costerebbe meno. O sarebbe po-tuta andare a casa, dove un sacco di scartoffie la aspettavano, ad esempio la domanda d'iscrizione al corso di Scienze Forensi a

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Colby e New Haven. Che non equivaleva a dire che se la stesse facendo sotto. Stava semplicemente valutando altre possibilità. Quei pensieri pragmatici le abbandonarono la mente nell'i-stante in cui MacEvoy appoggiò il classificatore sul banco e lo aprì... Un'ondata di calore la percorse, seguita da un brivido che la fece sentire all'improvviso sveglia, nonostante non avesse mai pensato di essere insonnolita. Il negoziante sorrise. «Vi piace?» «Oh, sì» ansimò lei. «Sì, mi piace.» Poiché non si trattava di un libro qualsiasi. Quello era il libro. Doveva esserlo. La copertina aveva un intarsio elaborato con una scena silve-stre, in cui una ragazza dolorosamente adorabile, in primo piano e al centro, correva lungo uno stretto sentiero. Indossava un lungo mantello, gettato sopra i vestiti da contadina, e si voltava indietro con un'espressione mista di terrore ed eccitazione. L'in-cisione non era firmata, c'era solo un titolo, leggermente in rilie-vo: Rutakoppchen. «Cappuccetto Rosso» sussurrò, udendo quelle parole come se fossero pronunciate dalla voce di sua madre. Non solo un e-semplare unico, le aveva detto la sua maman in quel com-pleanno di molti, molti anni prima, ma soltanto tuo. Questo libro mi è stato spedito, tesoro, affinché te lo dessi quando sarebbe giunto il momento. MacEvoy pareva sorpreso. «Conoscete questa lingua? I docu-menti dicono che è un oscuro dialetto dell'Europa Occidentale, non c'è nessuna garanzia che la traduzione sia corretta.» «Non mi serve la traduzione.» Conosceva quella storia a memoria. Col cuore che batteva forte, allungò le mani, ma il ne-goziante afferrò il classificatore con un dito sottile come uno stecco e lo tirò indietro. «Avete intenzione di comprarlo?» La carta di credito di Reda era sul bancone ancora prima che lei si fosse resa conto di avere preso la decisione. Non si tirò in-dietro nemmeno quando MacEvoy la prese con due dita, nono-stante la parte più sveglia del suo cervello la stesse sgridando per non aver nemmeno discusso sul prezzo. Non le importava. Doveva averlo, che si trattasse o meno del-lo stesso libro, e che fosse o meno un esemplare unico. Non per via dei sogni insoliti e frammentari che aveva avuto ogni notte, fin da quando si era portata a casa l'immagine – un cerchio di

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pietre come Stonehenge, sebbene non lo fosse, un senso d'ur-genza pulsante, un lampo d'occhi verdi che portavano calore e la lasciavano sola e dolorante al risveglio – ma perché era un tassello mancante del suo passato. E se si trattava di un transfer, o quel che diavolo fosse, be', non le fregava nulla, in quel mo-mento. Mentre MacEvoy strisciava la carta, sfregò i polpastrelli sulla copertina e fu percorsa da uno strano senso di eccitazione, men-tre da qualche parte nella sua testa risuonava la domanda: Per-ché ti stai comportando in questo modo?. «Ma è vero che il lupo non mangia subito Cappuccetto, in questa versione?» le chiese l'uomo, mentre aspettava la ricevuta. Guardò Reda di sottecchi, mentre un bagliore gli lampeggiava negli occhi cerchiati di rosso. «Nelle scartoffie si dice che lui prima la seduce, poi la rende schiava e gioca con lei finché la si-tuazione non gli viene a noia... e solo allora la divora.» «Qualcosa del genere» gli rispose. Moriva dalla voglia di sfo-gliare le pagine, ma non voleva farlo di fronte a lui, sebbene non sapesse il perché, proprio come non riusciva a spiegarsi l'im-provviso tumulto al cuore, le mani leggermente sudate, la sensa-zione di farfalle nel ventre. Tutto quel che sapeva per certo era che le mani le tremavano, mentre scribacchiava una firma sulla ricevuta e poi richiudeva il classificatore e se lo metteva sotto il braccio. «Grazie mille. Ci vediamo.» O anche no. «Aspettate» le urlò dietro il negoziante, mentre Reda si dirige-va verso l'uscita. «Volevo chiedervi... Non siete quella poliziot-ta? Quella che...» Lei abbassò la testa, strinse il contenitore e uscì dal negozio. Il breve tragitto fino a casa, alla periferia del distretto figo, lad-dove le vecchie abitazioni erano ancora in fase di ristrutturazio-ne, sembrò durare un'infinità di tempo, specie quando due vici-ni finsero di non vederla. Il senso di colpa la ferì, ma Reda si dis-se – come le aveva suggerito lo strizzacervelli – che non si com-portavano così perché pensavano che fosse colpa sua la morte del suo partner, in quella rapina finita male al negozio di liquori. Come molti fra i suoi amici e familiari, non sapevano semplice-mente cosa dire, visto che Benz era morto da mesi ormai, e Re-da ancora se ne andava in giro con un'aria spettrale, come una che abbia appena visto morire il suo migliore amico.

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Ed era proprio ciò che era accaduto. Per colpa sua. Non che avesse fatto qualcosa di sbagliato, era solo che non aveva fatto nulla. Era rimasta pietrificata. Immobile, mentre un drogato, reci-divo e in crisi d'astinenza, apriva il fuoco. I telegiornali avevano detto che era stata fortunata a scampar-la. Gli altri poliziotti non le avevano detto nulla. Proprio come i suoi vicini, che tacevano, mentre lei affrettava il passo. Per una volta, però, il battito irregolare del suo cuore non a-veva nulla a che fare con i sussurri della folla e gli sguardi di sot-tecchi, o con la consapevolezza che suo padre e i suoi fratelli avevano ragione, quando le dicevano che lei non era il tipo di donna–che–salva–il–mondo. Quel giorno, la pulsazione era causata dal peso consistente del classificatore che stringeva al petto, tanto stretto che le dita erano diventate quasi insensibili. Respirava così velocemente che quasi le girava la testa, quan-do entrò nel piccolo appartamento, dove c'era aria di casa. Nep-pure il tempo di sgusciare fuori dalla giacca di pelle... gettò la borsa poco oltre la soglia e attraversò la stanza, diretta alla picco-la, angusta, cucina. Il suono del classificatore, appena lo appog-giò sul piano in legno del bancone della cucina, le ricordò che non aveva nemmeno guardato la ricevuta della carta di credito, non aveva idea di quanto avesse tirato fuori per quell'oggetto. Non le importava. «E apri!» si disse, con parole che risuonarono a volume fin troppo alto, nell'aria che si era fatta immobile attorno a lei, come se il mondo intero stesse trattenendo il fiato. Be', quella che lo stava trattenendo era solo lei. Stava trasformando quell'affare in un caso di stato, qualcosa di molto più grande di quel che sareb-be dovuto essere. Eppure, le dita tremavano, mentre sollevava il coperchio e toccava la copertina in legno. Si disse che il lieve formicolio era dovuto soltanto alla sua immaginazione, proprio come i sogni bollenti delle notti precedenti non erano stati altro che ricordi delle sue adolescenziali fantasie, la cui temperatura si era alzata con l'alzarsi dell'età. Passò le dita sulle parole in rilievo. Rutakoppchen. Una ver-sione di Cappuccetto Rosso in cui il lupo era al tempo stesso peccatore e seduttore, mentre il taglialegna era l'eroe che salvava la ragazza e la portava via dalla sua vecchia vita verso un'esi-

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stenza nuova, migliore. Vedere quel libro, toccarlo, la fece senti-re più vicina a sua madre. Anche se si fosse scoperto che si trat-tava soltanto di una copia, valeva di sicuro qualunque cifra aves-se pagato. Ma doveva scoprirlo, perciò lo aprì. La copertina scricchiolò come una porta non oliata, la gola le diventò improvvisamente secca e stretta... e poi gli occhi le si riempirono, alla vista di una pagina bianca, con due righe di calligrafia elegante proprio nel mezzo, in inchiostro azzurro, sbiadito nel corso di due decenni. Per la mia piccola Alfreda, nel giorno del suo ottavo complean-no, con la promessa del resto della storia per quando ne compi-rai sedici Maman Il cuore fece tu–tum nel petto, mentre lei passava le dita su quell'ultima parola. Maman. I suoi fratelli maggiori l'avevano presa in giro per il fatto che si desse delle arie, l'avevano chiama-ta principessina e punzecchiata, perché non c'era nulla di nep-pure lontanamente regale riguardo a nessuno di loro. Erano figli di militari, e orgogliosi di esserlo. Non concluderai mai nulla, se continui a guardare indietro. La voce di suo padre, il maggiore, si fece all'improvviso tanto ni-tida che si sarebbe potuto trovare proprio alle sue spalle. Cosa impossibile, dato che in quel momento era oltreoceano. Quelle parole costituivano un ritornello estremamente familiare: spalle dritte; un piede davanti all'altro; sguardo rivolto in avanti, non indietro. Parole che dovevano essere uno stile di vita. «Hai ragione» disse Reda sottovoce. «Lo so che hai ragione.» Avrebbe dovuto rimettere il libro nel classificatore, lasciarlo da parte, forse persino chiuderlo nella cassaforte a prova di fuoco in cui teneva il passaporto, inutilizzato. Avrebbe dovuto provare una sensazione di conforto nel sapere che conservava un caro ri-cordo e poi si sarebbe dovuta concentrare su questioni più im-portanti, tipo riempire quelle domande d'iscrizione. Voltò lo stesso la pagina: non riusciva a non guardare l'im-magine della ragazzina innocente col suo cestino. E poi quella dell'enorme lupo – maman lo chiamava wolfyn – che la seguiva per il sentiero e la scrutava con occhi fin troppo umani, mentre

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entrava nella casetta della nonna, trovandola vuota. Le pagine successive mostravano il wolfyn e la ragazza insieme, poi l'e-norme bestia si trasformava in un uomo dai capelli arruffati e gli occhi bollenti, ferini. E la ragazzina lo fissava dal basso verso l'alto, il volto eccitato, come se stesse guardando un principe meraviglioso, non una bestia lasciva. Ma Reda notò qualcosa di nuovo: la ragazzina aveva un'espressione strana, sembrava qua-si che stesse sorridendo oltre il wolfyn, non a lui. Avvertì una fitta allo stomaco. Aveva visto quell'espressione sui volti delle vittime di droghe da stupro. Diede un'occhiata veloce alle tavole successive, rendendosi conto che maman doveva avere saltato alcune pagine. O lei le a-veva viste, da bambina, senza rendersi conto di cosa rappresen-tavano? Perché, osservandole da una prospettiva adulta – e da quella di una poliziotta che aveva lavorato a casi di stupro, an-che se, grazie al cielo, a molti meno di quelli che ci si sarebbe potuti aspettare in una città più grande e violenta – quella e-spressione assente, vitrea della ragazzina, quell'accondiscenden-za da bambola di pezza alle richieste del wolfyn, tarate per un pubblico bambino ma ricche di suggestioni, puzzava di droghe o di lavaggio del cervello. Per non dire di entrambi. Non era stata sedotta. Era stata costretta. Rabbrividì. «Non me la ricordavo proprio così, questa parte.» Era anche vero che la maggior parte delle fiabe nasceva come qualcosa di oscuro e violento, che non raggiungeva il tradiziona-le territorio pieno di gattini e di teneri animaletti di peluche fino a quando la Disney non ci metteva le grinfie sopra. Qualcosa ronzò, in un angolo della sua mente, un pensiero che, come un calabrone imprigionato, non si fermava abbastan-za a lungo da permetterle di coglierlo. «Povera ragazzina» mormorò, sfiorando la rappresentazione della giovane donna che giaceva, con le palpebre pesanti, vicino al focolare del capanno, dove ardeva un flebile fuoco. Il wolfyn si trovava a metà strada fra le forme di uomo e lupo, e stava guardando fuori dalla finestra con il pelo dritto sulla nuca, come se stesse scrutando fra le ombre alla ricerca del pericolo. Era diffi-cile dire se la stesse proteggendo o tenendo prigioniera. Forse entrambe le cose. Reda si scoprì fin troppo invischiata nella storia, il perso-

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naggio che all'improvviso era diventato l'avatar di tutte le vitti-me con cui aveva lavorato. Così, quando girò pagina e vide il ta-glialegna che la osservava, rimase impalata e ricambiò lo sguardo per alcuni istanti, poi mormorò: «Eccoti qua». Frase ridicola, poi-ché, proprio come la ragazzina, anche il taglialegna non era altro che un'illustrazione in un libro di fiabe. Eccetto il fatto che lui era ben più di un disegno. Era l'eroe. In piedi, sulla soglia del capanno, con un'ascia dal manico lungo incrociata, in diagonale, davanti al corpo, sarebbe dovuto assomigliare al prototipo del boscaiolo. Invece, aveva un'aria che pareva insolitamente fuori posto, come se un cavaliere errante fosse stato scaraventato in quella fiaba e in realtà provenisse da un'altra. Gli avambracci, che spuntavano sotto le maniche arro-tolate, vibravano di tensione, che si propagava dalla sua stretta vigorosa al manico dell'arma e percorreva tutto il resto del gran-de corpo slanciato, fino al volto, su cui erano impressi ribrezzo e determinazione di fronte alla scena del capanno. Reda si concentrò sui capelli scuri, scarmigliati, che domina-vano la nobile fronte, e gli ampi zigomi, il naso aristocratico, dal setto stretto, le labbra carnose e la mascella squadrata. E gli oc-chi... Oh, Dio, quegli occhi. Fuoriuscivano dalla pagina e la tra-figgevano, sembravano vivi, nonostante si trattasse solo di un'il-lustrazione, e in bianco e nero per giunta. Eppure Reda conosceva quegli occhi. «Verdi» sussurrò, con un improvviso anelito che non aveva alcun senso visto che quel-l'uomo non esisteva davvero. «Ha gli occhi verdi.» Aiutalo. Quel pensiero arrivò come una voce, che le risuonò dentro, come se il suo stesso respiro si fosse trasformato in paro-le che non le appartenevano. Un fremito le percorse il corpo. «Fantastico, ora ti immagini le cose anche da sveglia» disse a voce alta, cercando di usare le parole per scacciare il crepitio im-provviso che aveva avvolto l'aria. Non funzionò. L'aria rimase pesante e un tuono rimbombò, mozzandole il fiato. Stavolta fu il fischio del vento che si levava fuori, che le disse: Aiutalo. Salvalo. Il suo cuore perse un battito, quando guardò fuori dalla fine-stra dell'appartamento e vide che il cielo era limpido e chiaro co-me nel momento in cui era uscita dal negozio di MacEvoy. Ep-

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pure un tuono risuonò ancora, vibrandole attraverso le suole de-gli stivali, risalendo su per il corpo, facendola sentire all'improv-viso vuota e sola. Anche lui è solo. Aiutalo. Era il suono del vento, anche se gli alberi del vicinato erano fermi e nubi morbide, leggere si crogio-lavano immobili nel cielo. Un mugolio trovò posto in fondo alla sua gola, un debole ru-more che non emerse, ma il panico che si era generato rimase, riportandole un ricordo sepolto così in profondità che lei stessa neppure pensava di averlo, fino a quando lo trovò lì, in bella vi-sta, nella mente. «Perciò cosa pensa che sia... pazza?» stava chiedendo suo padre al medico. Reda riusciva a vederli entrambi, dalla sala d'attesa, attra-verso la porta socchiusa, li poteva sentire chiaramente, nono-stante sussurrassero. «Non usiamo questo genere di etichette» aveva replicato il dottore dal volto austero, ma quella frase aveva fatto annuire il maggiore, come se avesse ottenuto la risposta che aspettava. «Guardi, il cervello possiede una sorta di struttura, di cornice, che utilizza per gestire i traumi e il senso di perdita, un modo per razionalizzare gli avvenimenti. In questo caso, il cervello di Reda ha scelto una struttura atipica, una in cui lei crede che sua madre non sia morta, ma che si trovi imprigionata in una terra magica diversa dalla nostra. Cose del genere possono succede-re, in seguito alla morte di un genitore, soprattutto in bambini della sua età. Di solito scompaiono da sole.» «Dopo quanto?» «Mesi, a volte durano più a lungo. Ma è fondamentalmente una situazione innocua.» «E lei pensa che camminare nel sonno, uscire dalla porta sul retro e gironzolare per i boschi sia innocuo? E se si fosse persa? O, peggio, l'avesse ritrovata diciamo... il genere di persona sba-gliata?» La voce del maggiore era aumentata di volume sul fini-re, poi il suo sguardo si era rivolto alla figlia e aveva riabbassa-to il tono. «Mi aiuti, dottore. Bisogna che questa cosa finisca. I ragazzi hanno bisogno che smetta. Abbiamo tutti bisogno di la-sciarci questa esperienza alle spalle.»

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Il medico non rispose, e il cuore di Reda fece tu–tum, al pen-siero che stesse per raccontare al maggiore che lei aveva ragio-ne, che i regni esistevano davvero e che talvolta dei visitatori ac-cidentalmente superavano i cancelli di confine. Di fronte a quel-l'improvvisa eccitazione, si sporse in avanti sulla sedia. «Ci sono alcuni tentativi che potremmo fare» disse il dottore, dopo una pausa. «La prima cosa che raccomanderei è di sba-razzarsi di quel libro.» Il ricordo tremolò fino a disintegrarsi, ma il mal di testa rimase ad accompagnare, dentro la testa di Reda, quella sorda sorpresa nel ricordare come era accaduto. Non perché il maggiore avesse cercato di farle credere qualcosa di non vero, ma perché i mesi di terapia che erano seguiti l'avevano addestrata a non pensare al libro, alla magia o ai mostri. A dire il vero, neppure a sua madre. Lo psicologo della polizia aveva voluto parlare con lei della morte di sua madre, ovviamente, ma Reda aveva scrollato le spalle e risposto: «È stato molto tempo fa». E sarebbe finita co-sì... se non avesse ritrovato il libro. O, piuttosto, se il libro non avesse ritrovato lei. Un tuono echeggiò, più vicino adesso, nonostante il sole splendesse ancora. D'istinto, i suoi occhi cercarono l'illustrazio-ne in cui il taglialegna stava sulla soglia e la guardava dalla pagi-na, accendendola di desiderio. «Ricordi rimossi» si disse piano. «È tutta qui la questione, vero?» La morte di Benz aveva aperto una crepa nella diga, e quella bizzarra coincidenza cosmica, dovuta al fatto che lei aveva scor-to le incisioni nel negozio di MacEvoy, aveva investito i suoi pi-lastri di sostegno, il che significava che ora l'intera costruzione di cemento era destinata a crollarle addosso. Strano che non le importasse, considerando quanto lei andava fiera del proprio au-tocontrollo e della propria autodisciplina. Fin dalla sparatoria si era sentita come se stesse correndo pur restando ferma sul po-sto, o forse accovacciata, nascosta dentro se stessa, come se si trovasse in attesa di qualcosa. E quel qualcosa era accaduto. Lo era davvero? O stava tutto accadendo soltanto nella sua testa? Cos'avrebbe fatto, in quel caso? La parte di lei logica, razionale le suggerì di chiamare lo psico-

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logo per farsi visitare. Invece, allungò la mano, che all'improvvi-so non tremava più, e toccò la pagina, posando le dita sul petto del taglialegna. Non le ci volle alcuno sforzo, in quel momento, per ricordare le parole magiche che maman le aveva insegnato. Loro due era-no solite sedersi su un argine ricoperto di muschio, giù al laghet-to delle anatre, a gambe incrociate, le ginocchia che si toc-cavano. «Concentrati» le diceva lei, più e più volte, sebbene in qualche modo non sembrasse mai una lezione, mai un lavoro. «Chiudi gli occhi, visualizza il portale, pronuncia l'incantesimo. E quando riaprirai gli occhi, ti troverai dove dovevi essere.» Le parole non erano magiche, ovviamente, non evocavano un qualche strano passaggio verso un luogo magico. Ma erano proprio ciò di cui la sua mente aveva bisogno per spazzare via la diga, una volta per tutte. Dunque Reda pensò: Al diavolo, e pronunciò le parole. Crack! Un fulmine crepitò attorno a lei e incredibilmente il vento le passò attraverso, come una frusta, nonostante si trovas-se all'interno del proprio appartamento. Restò immobile, paraliz-zata per la paura, mentre il cuore le pulsava nelle orecchie. Cercò di gridare aiuto, ma non vi riuscì, tentò di allontanare a forza gli occhi dal libro, senza successo. Stava uscendo di sen-no, perdendo il controllo. Urlò, ma non emise alcun suono, lot-tò ma non si mosse. Gli occhi del taglialegna si fecero sempre più grandi nella sua visuale, finché Reda non vide più nulla se non un nero scuro come l'inchiostro, e non udì più nulla se non il vento, e non sentì... Niente. A Elden Moragh uscì di colpo dalla sua trance, poiché la divinazione era stata interrotta da una magia di un altro tipo – un potere col-legato per legami di sangue, simile a quelli di cui non aveva avu-to esperienza per molti anni. «Il principe!» sibilò, con l'eccitazione che le si accendeva nel-le vene, nello stesso momento in cui riconosceva la sorgente del segnale. Finalmente dopo tutto quel tempo riusciva a percepire l'incantesimo che le aveva sottratto la preda. Ancora meglio, riu-

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sciva a seguirlo. Anche dopo che la prima ondata di energia ma-gica si fu quietata, il collegamento rimase vivo dentro di lei, pul-sando come un battito cardiaco. Un battito che le diceva: Da questa parte. Ti posso condurre da lui. L'incantesimo si era riat-tivato. Sia reso grazie ai signori oscuri. Le labbra di Moragh si incurvarono in un sorriso che lo spec-chio da divinazione, decorato da una cornice d'oro, mostrò co-me ferino, con la punta di un canino che scintillava dietro le lab-bra di quella fredda brunetta, splendida, di poco più di quaran-t'anni. Era sopravvissuta all'ira dello Stregone del Sangue, dopo che aveva fallito il suo primo tentativo di uccidere il Principe Dayn, ed era infine riuscita a riguadagnarsi la sua benevolenza. Non era mai riuscita a digerire quel fallimento, però. E ora... «Riscatto» si disse, e il suono di quella parola echeggiò per le fredde pareti di pietra delle stanze superiori del castello. Vicino al focolare, il suo servo Nasri rialzò gli occhi dalle mansioni di pulizia in cui era impegnato. Quel vecchio gnomo dalle dita adunche – soltanto sette, dopo che era stato recente-mente sorpreso a sgraffignare un tortino di carne che avrebbe potuto tranquillamente comprare – stava ripulendo la pietra dalle macchie di sangue rimaste dalla sera precedente. L'acqua nel secchio aveva assunto un colore scuro, lo spazzolone grigio era intriso di sangue rappreso. «Padrona?» «Manda un messo al bestiario. Voglio i due ettin più grandi pronti a partire entro un'ora.» Quei giganti a tre teste erano ira allo stato puro, avvolta in una brama famelica, macchine omici-de che bastava puntare sul bersaglio. «E di' al domatore di rinfor-zare i collari e gli incantesimi di controllo. Me ne occuperò per-sonalmente, e tu mi darai una mano.» Lo gnomo si rannicchiò e piagnucolò, la voce bassa che pro-veniva dal fondo della gola: «Non preferirebbe...?». «Vai!» gridò Moragh, con abbastanza impeto da farlo strillare e sfrecciare come una saetta oltre la porta. Dopo che se ne fu andato, tornò a sorridere, nello specchio deformato. «Per la mia vita e il mio stesso sangue, questa volta non la scamperà.» Aveva già fallito una volta. Non sarebbe successo di nuovo.

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Oltre la notte MAGGIE SHAYNE

Oscura tentazione JESSICA ANDERSEN - NALINI SINGH

Da quando James Willem Poe lo ha risvegliato dalla morte vivente a cui era stato condannato, Utanapishtim, il primo degli Immortali, ha un solo obiettivo: ripulire il mondo dai vampiri. L'unica che può fermarlo è Brigit, la gemella di Ja-mes. Ma quando si ritrovano faccia a faccia, la passione che esplode tra loro li pone di fronte a una verità sorprendente...

Catapultato nel regno dei wolfyn, Dayn aspetta da vent'anni la donna che gli permetterà di tornare a Elden. Ma Reda sembra restia ad aiutarlo malgrado l'attrazione che divampa tra loro. Intanto il più giovane degli eredi perduti, Micah, pri-vato della memoria, è diventato il guardiano dell'Abisso. E Li-liana, che lo ama disperatamente, deve aiutarlo a ricordare...

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Profumo di tenebre RHYANNON BYRD

Blood Bound - Legame di sangue RACHEL VINCENT

Per Olivia, i sensuali occhi ambrati di Aiden Shrader sono pericolosi quasi quanto il nemico che le dà la caccia. E tutta-via quel possente Guardiano, capace di trasformarsi in una temibile tigre, è anche la sua unica speranza di salvezza. Finché la passione che vibra tra loro non esplode con prepo-tenza, rivelando la vera natura della timida maestra d'asilo.

Quando un'amica le chiede aiuto per ritrovare la figlia scom-parsa, Liv accetta senza sapere che dovrà collaborare con Cam, l'uomo che ama e che non può avere. La loro è una corsa contro il tempo e contro un desiderio travolgente, in una città dove insidie e pericoli si annidano oltre ogni angolo, ogni carezza, ogni bacio. E prima che finisca...

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