La subalternità in Assia Djebar: de-costruire la …...La letteratura comparata si è rivelata una...

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1 UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CAGLIARI Facoltà di Studi Umanistici Corso di laurea in Filologie e Letterature Classiche e Moderne La subalternità in Assia Djebar: de-costruire la condizione femminile nel contesto postcoloniale algerino ______ Relatore: Tesi di Laurea di: Prof. Mauro Pala Elisa Mocci Secondo relatore: Dott. Fiorenzo Iuliano _______________________ A.A. 2016/2017

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CAGLIARI

Facoltà di Studi Umanistici

Corso di laurea in Filologie e Letterature Classiche e Moderne

La subalternità in Assia Djebar:

de-costruire la condizione femminile

nel contesto postcoloniale algerino

______

Relatore: Tesi di Laurea di:

Prof. Mauro Pala Elisa Mocci

Secondo relatore:

Dott. Fiorenzo Iuliano

_______________________

A.A. 2016/2017

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Indice

Introduzione ................................................................................................. 5

Capitolo I. Noi e l’Altro ............................................................................... 9

1.1 I Postcolonial Studies come nuovo settore disciplinare della letteratura

comparata ................................................................................................ 9

1.2 Capire il post-colonialismo e la decolonizzazione ............................ 17

1.3 Il «Terzo Spazio»: ibridazione e multiculturalismo .......................... 25

Capitolo II. La subalternità coloniale e postcoloniale ................................. 33

2.1 Gayatri Chakravorty Spivak e i Subaltern Studies ............................ 33

2.2 Leggere la subalternità con la decostruzione di Jacques Derrida ...... 51

Capitolo III. La subalterna: da Oggetto a Soggetto ..................................... 65

3.1 La subalternità femminile in Assia Djebar: il Soggetto, lo Spazio e il

Tempo ..................................................................................................... 65

3.2 De-costruire il contesto postcoloniale algerino ................................ 79

3.3 Scrivere per non dimenticare ............................................................ 93

3.3.1 Ces voix qui m’assiègent: silenzio e memoria ........................... 93

3.3.2 Il Corpo femminile e la Scrittura:

l’Assenza diventa Presenza .............................................................. 111

Conclusioni ............................................................................................... 131

Bibliografia .............................................................................................. 141

Sitografia .................................................................................................. 147

Filmografia ............................................................................................... 147

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Introduzione

La letteratura comparata si è rivelata una disciplina ampia e complessa, soprattutto

nei campi di studio più recenti relativi alle rappresentazioni del Sé e dell’Altro, in

particolare quando si realizza un significativo contatto culturale. I problemi sorti

con il processo di de-colonizzazione hanno conferito agli studi comparati

un’impostazione più aperta alle novità culturali extraeuropee; Armando Gnisci

intitola una delle sezioni del manuale di Letteratura comparata in questo modo:

«Bisogna de-colonizzare noialtri europei da noi stessi, ma non da soli» perché è

possibile considerare «la letteratura comparata come disciplina della reciprocità»1.

Per questa ragione, la letteratura comparata si è mossa in direzione “planetaria”,

con l’obiettivo di comprendere la complessità dei settori disciplinari nel momento

in cui lo studio si focalizza su una realtà sempre più ibrida e multiculturale.

Nello specifico questo lavoro concentra l’attenzione su un aspetto incluso negli

studi postcoloniali, quello della “reciprocità culturale”, ovvero un modo diverso di

considerare le altre culture che non coincida più con il pregiudizio, ma con la

tolleranza e la lettura di Sé tramite l’Altro; cose che ancora oggi faticano ad

affermarsi. In questo tipo di studi l’interesse principale si focalizza su un momento

storico specifico, il post-colonialismo, ovvero l’oggetto di studio degli Studi

postcoloniali. Questo recente campo di studi possiede un carattere interdisciplinare,

che consente di leggere da molteplici punti di vista il fenomeno coloniale e

postcoloniale. Infatti gli studi postcoloniali definiscono il post-colonialismo prima

di tutto con le coordinate spazio-temporali, ma è necessario considerare molti altri

aspetti, che presi parallelamente e legati tra loro, ampliano le ricerche ideologiche,

linguistiche, psicologiche, razziali, sociali, di genere e tutto ciò che entra in gioco

quando si cerca di rappresentare se stessi e gli altri in forma identitaria. Di fatto gli

Studi postcoloniali nascono dalla natura ibrida delle identità culturali all’indomani

della decolonizzazione e tale caratteristica conferisce dinamicità, instabilità e

variabilità, facendo emergere l’impossibile definizione di confini e limiti tra le

1 ARMANDO GNISCI, FRANCA SINOPOLI, Letteratura comparata. Storia e testi, Sovera, Roma, 1995,

p. 205.

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culture che entrano in contatto. Anzi, il lungo cammino verso l’emancipazione, di

tipo politico, sociale o di genere, ha rafforzato le identità che sono state emarginate

durante la storia coloniale, dando agli Studi postcoloniali un importante spunto di

riflessione.

Così il presente lavoro intende offrire, prima di tutto, una panoramica del contesto

coloniale e postcoloniale chiarendone i significati, attraverso i lavori dei maggiori

studiosi degli Studi postcoloniali, primi fra tutti Edward Said, Homi Bhabha e

Gayatri Spivak, anche e soprattutto per capire come ciascuno abbia apportato alla

disciplina delle importanti novità di riflessione per descrivere la transnazionalità

culturale. Il primo punto da analizzare è l’opposizione binaria tra Oriente e

Occidente o quella tra Nord e Sud del mondo, che hanno generato l’opposizione tra

colonizzato e colonizzatore o quella tra ricchi e poveri. In questo scambio culturale

non c’è stato, dunque, un livello egualitario ma sempre un livello impari, prodotto

dalle necessità di una parte di contrastare l’altra. La cultura e l’ideologia sono stati

degli strumenti molto forti per giustificare l’azione coloniale, dando un’impronta

fissa e statica della situazione di contatto identitario.

La svolta e, dunque, la messa in discussione di questo scenario avviene quando le

forze anti-coloniali non accettano più il dominio coloniale e hanno il desiderio di

emanciparsi, dando inizio a un lungo processo di de-colonizzazione. Questo

procedimento è stato facilitato dalla letteratura postcoloniale, infatti, una volta

ottenuta l’indipendenza politica dagli imperialismi coloniali, era necessario

costruire una storia nazionale, ma era impossibile non tenere conto di tutto ciò che

la cultura dominante aveva offerto alla colonia; per questo si parla di Terzo Spazio

o di realtà ibrida.

Entrando nel dettaglio della questione coloniale uno studio molto interessante è

stato sviluppato dall’intellettuale bengalese Spivak, relativo alla subalternità

all’interno del contesto indiano. La subalternità è un concetto gramsciano ma,

applicato a contesti e con sfumature di significato diversi, assume forme e contenuti

lontani dal significato iniziale. Spivak si serve della chiave di lettura

decostruzionista per smontare le rappresentazioni binarie, prima fra tutte quella tra

Oriente e Occidente, e che include molti problemi nel discorso egemonico

dell’Occidente sull’Oriente. La subalternità dapprima viene analizzata nel rapporto

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tra colonizzato e colonizzatore, ma poi si sposta, e questo è l’aspetto che più

interessa a Spivak, verso la subalternità femminile. La subalterna “senza voce”

viene contestualizzata in un quadro culturale preciso, il rito della Sati, su cui si

concentra la riflessione spivakiana. La donna non può parlare e non è Soggetto, è

soltanto Oggetto dei discorsi maschili e Oggetto della combinazione di

imperialismo coloniale e tradizione patriarcale. Spivak parte dalla struttura

coloniale per parlare dell’assenza del corpo femminile, causata dalla condizione di

subalternità afona; dunque la subalterna non può davvero parlare?

Nel terzo capitolo si tenta di dare una soluzione a questo quesito, attraverso

un’analisi dettagliata del problema della subalternità femminile aperto da Spivak,

spostando l’asse spazio-temporale dall’India all’Algeria. L’analisi si concentra su

Assia Djebar, un’autrice algerina di origine berbera, che ha scelto di scrivere in

francese, la lingua del “padrone” coloniale: la testualità, dunque la testimonianza

scritta è il punto di partenza dell’analisi sulla subalternità femminile durante e oltre

il colonialismo francese. Si vedrà come il testo scritto venga affiancato da altre

forme di scrittura, che si traducono l’una con l’altra. Il problema della condizione

femminile algerina si unisce così ai problemi linguistici, nazionali, psicologici,

corporali, sociali per dare della subalternità un quadro eterogeneo e ricco di

riflessioni. Il testo rappresenta lo strumento grazie al quale la stessa autrice sviluppa

un’auto-analisi di Sé come facente parte del popolo algerino, di Sé come donna e

di Sé come persona al di là del genere.

Stavolta l’analisi è rovesciata rispetto al passato: mentre durante il processo

coloniale era l’europeo occidentale ad autorappresentarsi mediante il colonizzato,

stavolta il ruolo di autorappresentazione spetta al nativo o, per meglio dire, alla

nativa che tenta di descrivere se stessa mediante la figura del colonizzatore. Nel

passaggio da oggetto passivo a soggetto attivo, l’analisi del testo di Assia Djebar,

Ces voix qui m’assiègent, permette di sottolineare una doppia subalternità, non solo

quella aderente al colonialismo ma anche e soprattutto quella aderente al genere,

alla sessualità e all’essere donna.

Allora il fattore identitario include la transnazionalità e la possibilità di oltrepassare

i confini geografici, politici e ideologici: ciò è realizzabile grazie alla letteratura.

Come scrive Radhouan Ben Amara «il faut aussi dénationaliser la littérature, ce qui

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signifie représenter une lecture qui lutte contre la violence et les exclusions des

littératures mineurs. Dénationaliser ne veut pas dire abolir les différences, mais

abolir le mythe de l’identité»2.

2 RADHOUAN BEN AMARA, “Les Frontières du Comparatisme” de Anne Tomiche in MARINA

GUGLIELMI, MAURO PALA (a cura di), Frontiere Confini Limiti, Armando, Roma, 2011, p. 187.

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Capitolo I. Noi e l’Altro

1.1 I Postcolonial Studies come nuovo settore disciplinare della letteratura

comparata

Gli Studi postcoloniali rappresentano un campo di studi specifico della letteratura

comparata: disciplina, quest’ultima, che a partire dagli anni ʻ70 mira a studiare la

letteratura al di là dei confini nazionali e in modo interdisciplinare.

Secondo la definizione di Susan Bassnett:

Post-colonial comparative literature is also a voyage of discovery, only this time,

instead of the European setting off in search of riches and new lands to conquer,

equipped with maps and charts to aid him, this voyage is one towards selfs-

awareness, towards recognition of responsability, guilt, complicity and collusion in

the creation of the labyrinthine world of contemporary writing. Europeans are no

longer embarking on that voyage from the centre of the world either, for centres and

peripheries have been redefined3.

Franca Sinopoli scrive infatti che ci sono state due importanti innovazioni nello

studio comparato della letteratura-mondo4 o della Weltliteratur goethiana: prima di

tutto la letteratura studiata non è unicamente quella occidentale, ma si estende oltre

i confini offrendone un’immagine multiforme e consapevole; in secondo luogo il

contatto tra la letteratura comparata occidentale e le teorie postcoloniali si realizza

con un decentramento dalla letteratura europea5.

La caratteristica fondamentale di questo orientamento di studi è identificabile

nell’interculturalità: il contatto tra più culture è stato il nuovo punto di riferimento

della letteratura comparata.

Riporto una seconda citazione di Susan Bassnett che sintetizza il rinnovamento di

questi studi:

The post-colonial world is one in which destructive cultural encounter is changing

into an acceptance of difference on equal terms. Both literary theorists and cultural

historians are beginning to recognize cross-culturality as the potential termination

point of an apparently endless human history of conquest and annihilation […] the

3 Cit. in ARMANDO GNISCI, FRANCA SINOPOLI (a cura di), 1995, p. 40. 4 Cit. di CAMILLA MIGLIO, “Letteratura mondo. Oriente/Occidente”, in FRANCESCO DE CRISTOFARO

(a cura di), Letterature comparate, Carocci, Roma, 2014, p. 198. 5 ARMANDO GNISCI, FRANCA SINOPOLI (a cura di), 1995, p. 40.

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strength of post-colonial theory may well lie in its inherently comparative

metodology and the hybridized and syncretic view of the modern world which this

implies6.

Per capire i nuovi percorsi di studio della letteratura comparata è bene citare il titolo

di un testo del critico palestinese Edward Said, Orientalismo, uscito nel 1978, che

ha fornito un’aggiornata impostazione agli Studi Postcoloniali. Edward W. Said,

Homi K. Bhabha e Gayatri C. Spivak7 sono considerati le tre figure fondamentali

per la base degli studi sul colonialismo e post-colonialismo.

“Orientalismo”, termine coniato dallo stesso Said, rappresenta l’insieme delle

strategie politico-ideologiche usate dagli imperi coloniali per fissare il modo

deformante di vedere e rappresentare l’Altro: in questo caso l’Oriente. La

contrapposizione binaria tra Est e Ovest vedeva l’orientale «irrazionale, decaduto

(o peggio, degenerato), infantile e diverso», e l’europeo occidentale «razionale,

virtuoso, maturo, normale»8. Secondo Said, l’Occidente avrebbe perciò costruito

dei «“contenitori” geoculturali, caratterizzati ora da elementi d’irrazionalismo, ora

da violenza, ora da poteri seduttivi, o invece distruttivi»9.

Lo scopo degli studi postcoloniali consiste nell’oltrepassare il concetto di

orientalismo e studiare le forme di rappresentazione dell’Occidente sull’Oriente e

dell’Oriente sull’Occidente; dove «“Oriente” e “Occidente” sono il prodotto delle

energie materiali e intellettuali dell’uomo»10. Mellino scrive che queste forme di

rappresentazione, create dall’uomo stesso, potevano reggersi solo sul sistema

gerarchico politico-ideologico costruito nel corso del colonialismo.

Le rappresentazioni generatesi dal sistema coloniale finirono per stereotipare le

identità, cosicché la superiorità e il dominio potessero essere prodotti da un’unica

direttiva, quella occidentale. Dato che la strategia coloniale prevedeva che

l’Occidente si servisse della rappresentazione dell’Oriente per affermare la propria

identità, ciò si svolgeva anche a livello culturale e non solo a livello politico. Ad

esempio Gayatri Chakravorty Spivak ritiene che lo studio della letteratura

6 Ivi, p. 41. 7 MIGUEL MELLINO, La critica postcoloniale. Decolonizzazione, capitalismo e cosmopolitismo nei

postcolonial studies, Meltemi, Roma, 2005, pp. 32-33. 8 EDWARD W. SAID, Orientalismo, Bollati Boringhieri, Torino, 1991, p. 42. 9 Cit. di CAMILLA MIGLIO, “Letteratura mondo. Oriente/Occidente”, in FRANCESCO DE CRISTOFARO,

2014, p. 199. 10 MIGUEL MELLINO, 2005, p. 43.

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britannica non possa essere considerato separatamente dal buon funzionamento del

colonialismo, perché anche la letteratura rappresentò uno strumento di

discriminazione. Tanto è vero che lo stesso termine “postcoloniale” non riguarda

limitatamente il momento successivo alla fine del colonialismo e l’inizio della

decolonizzazione, ma in modo più esteso il fenomeno considerato su più livelli,

primo fra tutti quello linguistico-culturale. Stereotipare a livello culturale

significava semplificare attraverso una costruzione artificiale occidentale che

oggettivava le informazioni sui nativi e quelle sugli europei. La polisemia del

termine “cultura”, delineata da Giulio Iacoli, illustra quanto sia variegata la sua

descrizione, sintetizzabile con la definizione di Raymond Williams di «coltivazione

attiva della mente»11. Così se alla cultura venivano associate la politica e

l’ideologia, il rapporto squilibrato tra il nativo e il colonizzatore era giustificato da

più fattori; Said sostiene infatti che «la cultura è una specie di teatro nel quale le

varie cause, politiche e ideologiche, entrano in rapporto le une con le altre»12.

Secondo Homi Bhabha, il limite dell’analisi di Said è stato quello di soffermarsi

troppo sul punto di vista occidentale e poco su quello orientale, declinando la

possibilità di un’apertura della parte esclusa. Di conseguenza è venuta a mancare

una possibile interpretazione dell’Oriente che andasse oltre il potere coloniale e le

sue strategie ideologiche; ciò ha comportato la chiusura a forme più libere e

soggettive del mondo orientale. A tal proposito Bhabha si è concentrato

maggiormente sulle contraddizioni della strategia coloniale, tendente da un lato a

marcare la differenza razziale, dall’altro a celarla tramite l’adattamento ai costumi

occidentali. Secondo l’analisi di Bhabha, è necessario che venga messa in

discussione la «modalità di rappresentazione dell’alterità» ed è fondamentale capire

qual è stata la ricezione dell’Oriente di fronte alla cultura occidentale, prendendo

un classico esempio, quello dei testi sacri. Egli ha infatti studiato l’assimilazione

della Bibbia nell’India coloniale, analizzando e definendo un atteggiamento

specifico dei nativi messi direttamente a contatto con le tradizioni occidentali. Il

processo che si delinea nel contatto tra Oriente e Occidente è quello del mimicry,

l’imitazione dei comportamenti del colonizzatore che sfocia in una sorta di

11 GIULIO IACOLI, “La dimensione culturale dei testi”, in FRANCESCO DE CRISTOFARO, 2014, p. 258. 12 EDWARD W. SAID, Cultura e imperialismo. Letteratura e consenso nel progetto coloniale

dell'Occidente, Gamberetti, Roma, 1998, p. 9.

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«parodia» o una «brutta copia dell’originale»13; ciò vuol dire che non ci può essere

un totale adeguamento all’essere occidentali, anzi la resistenza al sistema coloniale

risiede proprio in questa mancata uniformità. Il mimicry fa in modo che la fissità

degli stereotipi tenda a discriminare l’essere nativo e l’imitazione dell’Altro miri ad

accentuare le differenze culturali, storiche e razziali, finendo per dare un’immagine

ambivalente del sistema coloniale, ordinata e nel contempo disordinata.

Il colonialismo occidentale aveva il chiaro obiettivo di giustificare le proprie azioni

dando un’immagine artefatta del colonizzato, un’immagine non corrispondente alla

realtà ma che fosse in grado di lasciare il potere ideologico nelle mani dei

colonizzatori. Lo stereotipo era ambivalente perché prevedeva che il nativo fosse

simile all’europeo ma al contempo diverso, atteggiamenti che confluivano nella

strategia discriminatoria. L’imitazione, così delineata da Bhabha, diventa un

«compromesso ironico»: «il mimetismo coloniale è il desiderio di un Altro

riformato, riconoscibile come soggetto di una differenza che è quasi la stessa, ma

non esattamente»14.

La certezza dell’«identità naturale», quella rappresentata dal colore della pelle, si

sgretola diventando strumento del colonizzatore per discriminare l’Altro e per

allontanarlo dall’essenza pura e originaria di Sé. L’essere simili nella diversità

equivaleva a essere considerati dei «tipi degenerati in base alle origini razziali» per

«giustificare la conquista e fondare dei sistemi di amministrazione ed istruzione»15.

Il nativo era costretto a integrarsi mediante un «processo di identificazione», così

illustrato da Fanon, consistente in un crescente desiderio di affermarsi sfruttando

l’alterità. Prima di tutto l’imposizione di un’altra identità si attuava nell’incontro e

nello scambio tra il nativo e il colonizzatore, con la definizione dei ruoli delle due

parti; poi con l’identificazione del luogo, in cui questo incontro avveniva, per

tratteggiare le rispettive identità, sempre e solo dal punto di vista del bianco; infine

la descrizione del rapporto gerarchico tra il bianco e il nero, in quanto l’identità del

nativo veniva espressa tramite l’identità del colonizzatore, cioè «l’essere per un

Altro»16. L’identità marginale del nativo oscilla, perciò, tra l’assenza e la presenza

13 MIGUEL MELLINO, 2005, p. 76. 14 HOMI K. BHABHA, I luoghi della cultura, Meltemi, Roma, 2001, p. 124. 15 Ivi, p. 103. 16 Ivi, pp. 66-67.

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e tra la rappresentazione e la ripetizione, ovvero «l’illusione di una presenza, e per

questa stessa ragione una metonimia, un segno della sua assenza e perdita»17.

La strategia coloniale ebbe una buona riuscita perché gli stereotipi, costruiti dagli

europei e attribuiti ai nativi, erano notevolmente realistici; come sostiene Said,

quindi da un punto di vista filosofico, il modo di pensare ed esprimersi, la visione

d’insieme che ho chiamato “orientalismo” costituisce una forma di realismo radicale;

chiunque ricorra all’orientalismo come prospettiva dalla quale esaminare e valutare

questioni, oggetti, qualità e luoghi etichettati come “orientali”, caratterizzerà ciò di

cui parla, o su cui riflette, con parole e frasi considerate realistiche, o addirittura

equiparate alla “realtà” pura e semplice […] I verbi sono al presente, un eterno

presente senza tempo; le ripetizioni danno un senso di forza, di indiscutibilità. In tutti

i casi si ricorre alla semplice copula è18.

Lo stereotipo plasmato dall’Occidente produce fissità e staticità e può essere

sintetizzato nel titolo di un libro di Fanon, Pelle nera, maschere bianche, testo in

cui lo scrittore sottolinea la rassegnazione all’idea che «ovunque vada, il negro resta

un negro»19. Lo stereotipo sfruttato dagli europei per descrivere i nativi si basava

sul fattore estetico, cioè quello più evidente e visibile dove il colore è «inteso come

segno culturale/politico di inferiorità o degenerazione, la pelle come “identità”

naturale»20.

Gli studiosi del postcoloniale mirano a scardinare la visione occidentale

sull’Oriente, garantendo un ribaltamento dei ruoli: da oggetto l’Oriente diventa

soggetto, predisponendo le basi per una lettura nuova e decentrata del colonialismo.

Ciò non significa che si debba studiare il colonialismo e il post-colonialismo in

modo discontinuo, poiché l’obiettivo è proprio quello di conservare la memoria

dell’esperienza coloniale per comprenderne le strategie, il funzionamento21 e le sue

ripercussioni durante la decolonizzazione. Come scrive Loomba, gli studiosi del

postcoloniale si sono applicati nel tentativo di smascherare il progetto ideologico

coloniale, infatti con “postcoloniale” si intende sia una rottura con la precedente

fase coloniale sia un conseguente superamento delle forme di rappresentazione

delle colonie. Anche Miguel Mellino spiega che “postcoloniale” può riferirsi a due

17 Ivi, p. 76. 18 Ivi, p. 104. 19 Ivi, p. 110. 20 Ivi, p. 116. 21 Cfr. MIGUEL MELLINO, 2005, p. 51.

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valori semantici, quello epistemologico e quello ontologico: nel primo caso si

tratterà di definire il momento storico, nel secondo caso si tratterà di ridefinire

l’identità repressa. In questo caso il recupero dell’identità non tende ad essere

statico e fisso, ma tenderà a cambiare in base al contesto nel quale l’identità

culturale esiste. Il recupero dell’identità, come sostiene Bhabha, è interpretabile

come un «terzo spazio», nel quale è difficile sciogliere il legame delle identità

entrate in contatto; lo spazio ibrido, in cui si muove il decolonizzato, permette che

emerga «il passato come forma proiettiva»22.

Questo discorso può essere ricollegato al concetto di “postmoderno” nato durante

gli anni Settanta con l’intento di descrivere i cambiamenti della realtà: il termine fu

usato per la prima volta da Jean François Lyotard, nel 1979, per esprimere la fase

successiva al “moderno”, non solo dal punto di vista temporale, ma soprattutto dal

punto di vista ideologico. Il postmoderno rappresenta il momento storico in cui

vengono meno le certezze delle grandi narrazioni e delle grandi filosofie occidentali

fino a quel momento approfondite per parlare della realtà, prima fra tutte quella

illuminista. La nuova realtà a cui bisogna rapportarsi è quella caratterizzata dalla

tecnologia, dai progressi scientifici, dai più recenti canali di comunicazione,

dall’aspetto consumistico, dal contatto culturale, appunto postmoderna. Tutto ciò

che riguarda la società automaticamente intacca anche altri aspetti della vita umana,

anche quello identitario.

Il postmoderno si rapporta al moderno come il postcoloniale si rapporta al coloniale,

ovvero in un confronto che non sia unicamente temporale ma che proceda a fondo

nelle questioni che le due fasi storiche mettono in luce. Nel caso del postmoderno

si tratta di dissertare le ambiguità del moderno, «con le sue ironie storiche, le sue

temporalità disgiuntive, i suoi paradossi del progresso, la sua contradditoria

rappresentazione»23. Nel caso del postcoloniale e del coloniale, il rapporto

oppositivo permette di dare voce a testimonianze nuove che possano mettere a

disposizione interpretazioni rovesciate del mondo. La critica postcoloniale ha avuto

come spunti di riflessione le voci del Terzo Mondo, dell’Oriente, del Sud del

mondo, cioè tutte quelle realtà geografiche escluse principalmente per motivi

22 HOMI K. BHABHA, 2001, p. 351. 23 Ivi, p. 242.

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razziali. Il postcoloniale, secondo la definizione di Jacques Derrida è «la

decolonizzazione della mente»24, perché la decolonizzazione mentale è molto più

complessa di quella politica, dal momento che modifica la visione del mondo e i

rapporti culturali che esistevano prima di questa fase storica. Sempre tenendo conto

della falsa discontinuità che contraddistingue la fase storica coloniale e quella della

decolonizzazione, lo scopo principale della critica postcoloniale consiste nel trattare

la decolonizzazione, prima di tutto, come emancipazione individuale/collettiva e

identitaria e, solo in un secondo momento, come emancipazione politica. Per capire

il primo tipo di emancipazione è necessario cambiare il punto di vista rispetto alla

storia, non più quello di colui che agisce, ma quello di colui che subisce; allora

l’affrancamento sarà prima di tutto dei subalterni, dei dominati, di chi ha dovuto

sottostare alla diaspora e all’esilio25. Ma cambiare il punto di vista non significa

mantenere le opposizioni binarie tra Occidente e Oriente, tra Primo e Terzo Mondo,

tra Nord e Sud del mondo, bensì superarle rendendole complementari.

Tornando al concetto di Weltliteratur goethiana, i rapporti binari devono essere

rovesciati e interpretati con il punto di vista della parte esclusa e con il superamento

della visione eurocentrica: «in che misura i frutti del nostro sapere sono appetibili

per gli altri; in che misura essi si appropriano dei risultati di essa; in che misura essi

usano le nostre forme estetiche; in che misura essi riutilizzano come tema ciò cui

noi abbiamo già dato forma»26. Nel rispondere a queste domande, come suggerisce

Bhabha, si tratta di oltrepassare l’antitesi tra «passato e presente» e tra «tradizione

e modernità» perché ci sarà sempre l’eco del passato nell’interpretazione del

presente che determina il relativismo culturale27.

La critica postcoloniale ha avuto la possibilità di ampliarsi anche grazie a ulteriori

riflessioni che hanno manifestato l’esigenza di ripensare la letteratura comparata.

Ad esempio Gayatri Chakravorty Spivak ha scritto un libro intitolato Death of a

Discipline che intende contestare l’impostazione degli studi comparati: accertata la

fine dell’impostazione eurocentrica, questi studi devono essere in grado di creare

24 SILVIA ALBERTAZZI, Lo sguardo dell’Altro. Le letterature postcoloniali, Carocci, Roma, 2000, p.

13. 25 Cfr. HOMI K. BHABHA, 2001, p. 238. 26 Cit. in CAMILLA MIGLIO, “Letteratura mondo. Oriente/Occidente”, in FRANCESCO DE

CRISTOFARO, 2014, p. 202. 27 HOMI K. BHABHA, 2001, p. 56.

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un ponte tra le discipline e non rimanere chiusi nel proprio settore di ricerca. In

questa direzione l’interdisciplinarità si presenta come lo strumento in grado di far

conoscere maggiormente una singola disciplina tramite altre discipline che abbiano

la facoltà di darne un’interpretazione diversa parallelamente agli eventi storici che

la riguardano. Il legame tra gli studi umanistici e gli studi sociali secondo Spivak è

possibile anche se molto complesso: ad esempio, questa studiosa ha applicato

strumenti di interpretazione diversi per spiegare il Sud del mondo, come la

decostruzione e la psicoanalisi, utili per capire i concetti di subalternità e di

subalternità femminile.

Con queste novità di studio applicate alla letteratura comparata, lo scambio

culturale potrà essere vivo, reciproco, benefico e gratificante e non più

unidirezionale e universale.

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1.2 Capire il post-colonialismo e la decolonizzazione

Per parlare di post-colonialismo, è bene definire dapprima il colonialismo, come

fase storica precedente, e cercare di capire quali sono stati i passaggi tra le fasi

storico-ideologiche del colonialismo, del post-colonialismo e della

decolonizzazione.

Etimologicamente “colonia” deriva dal latino colere, cioè abitare, coltivare, nel suo

significato generico; secondo la definizione dell’Oxford Dictionary, suggerita da

Ania Loomba, la colonia è «un insediamento in una nuova terra […] un gruppo di

persone che si insedia in una località nuova e costituisce una comunità che si è così

formata e che consiste dei coloni originari, dei loro discendenti e successori fino a

quando questi mantengono un legame con la terra d’origine»28. Questa definizione

escluderebbe dunque qualunque rapporto di sottomissione e di dominio nei

confronti dei popoli originari dei territori colonizzati, aspetto che invece l’Europa

occidentale ha fatto proprio per agire su molteplici livelli di conquista, di tipo

geografico, politico-economico e linguistico-culturale. La strategia coloniale,

includente tutti questi livelli, è rappresentata dal potere egemonico e dalla

ideologia; per esempio, Said ha dato a uno dei suoi più importanti lavori il titolo di

Cultura e imperialismo: un nesso concettuale che ha reso possibile la

giustificazione del progetto europeo coloniale e imperiale. Said ha messo comunque

in rilievo l’importanza dell’esperienza coloniale per i nativi, ai quali la storia portò

non solo violenze e rapporti brutali, ma anche «idee liberali, una coscienza

nazionale, i frutti della tecnologia»29. Lo studioso palestinese fa inoltre notare che

le riflessioni sul post-colonialismo sono fondamentali per capire anche il presente

e il futuro di molti paesi che hanno avuto problemi successivi all’indipendenza

politica.

Storicamente il colonialismo ha origine da un evento di notevole importanza, la

scoperta dell’America, avvenuta nel 1492, anno dal quale, convenzionalmente, ha

inizio l’età moderna. Rispetto alla colonizzazione, il colonialismo si configura

28 Cit. in ANIA LOOMBA, Colonialismo/Postcolonialismo, Meltemi, Roma, 2000, p. 18. 29 EDWARD W. SAID, 1998, p. 43.

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come desiderio incessante di conquistare e di far tacere la parte nativa, sottomessa

e ignorata, per lasciare spazio alla cultura dominante dei colonizzatori europei. La

distinzione tra gli europei e i nativi si realizzava ancora prima del loro incontro,

ovvero gli occidentali giungevano nei territori coloniali con pregiudizi e immagini

precostituite dei popoli con cui sarebbero entrati in contatto. Il preconcetto

dell’Altro segnava la prima tappa del potere europeo sul territorio per

l’insediamento, per il commercio e per l’educazione religiosa e militare; cambiava,

inoltre, la modalità di intervento nelle colonie. Mentre, all’inizio dell’età moderna,

l’espansione europea era indirizzata all’America e al desiderio di trasferire l’aspetto

linguistico-culturale nel territorio coloniale del Nuovo Mondo, successivamente la

lingua e la cultura europea furono trasposte, in particolare verso l’Africa e l’Asia,

con vere e proprie imposizioni. Così il nativo era obbligato ad accettare una diversa

realtà culturale ed economica, mentre l’europeo pretendeva il dominio sulle materie

prime del territorio coloniale per mantenere vivo il capitalismo industriale. Il

colonialismo ebbe successo perché gli europei furono capaci di ottenere il consenso

dei nativi, cosa che avveniva in parte volontariamente, in parte con la violenza.

Il sistema coloniale andava sostenuto e difeso da idee specifiche, tanto che il

pensiero illuminista venne preso come modello per spiegare il rapporto tra il nativo

e il colonizzatore, dove «è unanimemente accettato l’assioma “bianco = luce; nero

= buio”, con tutte le implicazioni ideologiche, politiche e morali che ne derivano»30.

Aime Césaire riteneva che un sistema coloniale basato su questa mentalità

evidenziasse facilmente il ruolo che veniva concesso al nativo: da soggetto egli

diventava oggetto, cioè strumento per il benessere dell’Altro31 e riteneva anche che

il colonialismo fosse una forma di sfruttamento e di disumanizzazione.

La strategia dello stereotipo fu sfruttata in particolare dalla letteratura occidentale,

ad esempio quella di viaggio, per dare un’immagine dell’Oriente discorde dalla

realtà all’interno del contesto coloniale, ma che si diffuse notevolmente

condizionando le idee del pubblico. Ciò comportò che la letteratura locale fosse

svalutata o dimenticata e che le stesse popolazioni locali facessero uso della

letteratura occidentale finendo per dare il consenso agli europei anche sotto

30 SILVIA ALBERTAZZI, 2000, p. 25. 31 Ivi, p. 26.

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l’aspetto culturale. Inoltre, le discipline scientifiche fecero da supporto alle

gerarchie del sistema coloniale negli anni in cui si discuteva sul colore della pelle,

ovvero ci si chiedeva se il colore scuro fosse dovuto a fattori ambientali o se invece

fosse segno del peccato e dell’inferiorità. La stessa cosa accadde a proposito della

forma dei volti neri, molto diversa da quella dei bianchi: i tratti fisici delineavano

anche i tratti psicologici e sociali32. Il tema della selezione naturale, teorizzata da

Charles Darwin, si diffuse grazie a L’origine delle specie, un lavoro del 1859. Con

questo testo la selezione naturale veniva trasposta in selezione sociale, come

ulteriore dimostrazione del giusto operato nelle colonie e come garanzia di una

superiorità razziale: il razzismo diventava il meccanismo propulsore dei rapporti

sociali e il fulcro ideologico. Ma il razzismo fu sfruttato anche come motivo

anticoloniale: lo scrittore francese Frantz Fanon denunciò l’attività portata avanti

dagli imperialismi coloniali. Egli sosteneva che «la linea demarcatoria tra ricco e

povero coincideva con quella tra bianco e nero» e che «era l’appartenenza razziale

a determinare la posizione dei soggetti nelle gerarchie del sistema economico

mondiale»33: la distinzione razziale finiva per essere anche distinzione di classe.

Una delle conseguenze più sconcertanti del darwinismo sociale fu caratterizzata

dalla tratta degli schiavi, in quanto il nativo dalla pelle nera veniva considerato e

sfruttato come forza-lavoro, strappato dal territorio di origine e costretto a lavorare

per il colonizzatore europeo, anche altrove. Ciò fu dovuto a un fattore

fondamentale, il capitalismo, che indirizzò l’economia europea verso forme di

scambio, materiali e umane, che rivoluzionarono i rapporti tra i colonizzatori e i

popoli d’origine. Un esempio furono le piantagioni di zucchero nelle Americhe, la

cui forza-lavoro era rappresentata dai popoli africani, o ancora la lavorazione del

cotone che veniva importato in Inghilterra dall’India per essere trasportato già

lavorato di nuovo nel territorio indiano. In questo modo l’economia locale era

totalmente regolata dall’economia della madrepatria: Frantz Fanon scrive che

«l’Europa è letteralmente la creazione del Terzo Mondo. Le ricchezze che la

soffocano sono quelle che sono state rubate ai popoli sottosviluppati»34. Si trattava

di togliere agli altri per avere di più e in questo rapporto c’era una possibilità ridotta

32 ANIA LOOMBA, 2000, p. 122. 33 MIGUEL MELLINO, 2005, p. 53. 34 Cit. in SILVIA ALBERTAZZI, 2000, p. 27.

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di scambio; anzi, nell’incontro tra le due culture, quella nativa veniva accantonata

e cancellata e rimodellata su quella europea. I popoli nativi, nell’ottica capitalista,

erano beni materiali e oggetti di proprietà e furono resi inermi di fronte agli squilibri

che l’economia, prima di tutto, realizzava nei rapporti sociali. Oltre a questi fattori,

la discriminazione razziale era dettata da ragioni morali, dove il bianco veniva

considerato il giusto e quindi normale, mentre il nero veniva considerato l’errore e

quindi fuori dalla normalità del bianco.

Loomba spiega che la fase economica all’apice del colonialismo fosse da

individuare nell’imperialismo, un sistema globale che estendeva l’economia al di là

della madrepatria e che ne consentiva l’arricchimento pur non avendo una diretta

gestione politica. I maggiori imperi coloniali furono quello inglese e quello francese

che ebbero il controllo su ampi territori d’oltremare, «Canada, Australia, Nuova

Zelanda, le colonie nel Nord e nel Sud America, nei Caraibi, vaste estensioni

dell’Africa, il Medioriente, l’Estremo Oriente e l’intero subcontinente indiano»,

seguiti dall’impero spagnolo, portoghese, olandese, tedesco, italiano, statunitense e

russo35. L’imperialismo non fu una semplice direzione economica, dal momento

che il controllo ideologico fu una base notevole per il soffocamento delle libertà

individuali e collettive del popolo nativo.

Il dominio coloniale rese evidenti le differenze interne alle colonie, ma ancora più

importante fu la capacità di risaltare le differenze tra la madrepatria e le colonie,

creando a livello globale delle categorie nazionali in base alla ricchezza. Dopo la

seconda guerra mondiale, il cosiddetto Terzo Mondo doveva risanare la propria

libertà identitaria per mezzo dell’indipendenza politica, anche se questa fu spesso

caratterizzata da forte instabilità, dato che la mentalità del colonizzatore era molto

radicata nel nativo. La mente andava decolonizzata, cioè era necessario recuperare

tutte le forme identitarie d’origine che, durante il colonialismo, si erano combinate

con altre trasposte dalla madrepatria alla colonia. La decolonizzazione non realizzò

nell’immediato un benessere nazionale, in quanto la fine del colonialismo

incrementò ulteriormente i problemi sociali ed economici del popolo nativo, il quale

era stato costretto a convivere a lungo con un’altra cultura.

L’ibridità culturale faceva parte della strategia coloniale ma allo stesso tempo ne

35 EDWARD W. SAID, 1998, pp. 31, 35.

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rivelava le contraddizioni e l’instabilità, mentre i movimenti anti-coloniali

sfruttavano la cultura dominante per denunciare il dominio coloniale. Accadde da

parte nativa ciò che gli europei attuarono durante il colonialismo, ovvero servirsi

dell’Altro per affermare se stessi e per mantenere le differenze tra le due parti. Ania

Loomba spiega che il concetto di colore della pelle è stato usato in maniera diversa

dai nativi: un riferimento importante di questo nuovo modo di autorappresentarsi è

il movimento africano della négritude, di cui Aime Césaire si distingue tra i

maggiori fondatori. La Negritudine si identificava come una rivendicazione nei

confronti del colonizzatore basata sull’esteriorità, di cui il colonialismo aveva

abusato per risaltare le differenze razziali: la differenza, con la teoria della

Negritudine, diventava una forma di riscatto e di autodifesa. Il colonialismo

europeo aveva demolito le identità culturali locali e la vera lotta anti-coloniale

aveva come primo obiettivo proprio quello di liberarsi da questo tipo di violenza.

Se le lotte anti-coloniali si configuravano come forme di difesa politica, è

importante sottolineare che si trattò, prima di tutto, di forme nazionaliste di

«costruzione culturale»36.

Il postcolonialismo rappresentava allora un fenomeno in grado di scardinare,

bloccare ed eliminare le forme di dominio per molto tempo imposte nelle colonie.

Il processo postcoloniale permise di mettere in luce anche l’importanza del

fenomeno migratorio e tutti gli effetti ad esso connessi, quali la creolizzazione e il

meticciato. In questo discorso la posizione di Jorge de Alva suggerisce di andare

oltre la continuità temporale tra il coloniale e il postcoloniale e dare più spazio alla

molteplicità delle storie che provengono dai territori colonizzati, ovvero

considerare più forme di soggettività e non un’unica forma che riduca il fenomeno

a universale. Ogni territorio ha vissuto la storia coloniale con caratteristiche

individuali, differentemente da altri territori, dunque è anche importante non

generalizzare il fenomeno ma individuarne le sfumature.

Il passaggio dal coloniale al postcoloniale è caratterizzato da molteplici fattori:

«dall’indipendenza dal governo coloniale diretto, dalla formazione di nuovi stati

nazionali, da forme di sviluppo economico dominate dalla crescita del capitale

locale e dai rapporti di dipendenza neo-coloniale dal mondo capitalista sviluppato,

36 ANIA LOOMBA, 2000, p. 188.

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come pure dalle politiche che sorgono con l’emergere di potenti élites locali che

controllano i contraddittori effetti del sottosviluppo»37. È fondamentale tenere

conto anche della dislocazione delle conseguenze coloniali, che si sono mosse dal

binomio antitetico nativo/europeo per giungere all’assimilazione e

all’interiorizzazione individuale e collettiva nei decolonizzati38.

Le coordinate spazio-temporali sono fondamentali per questo discorso,

comprendente anche la distinzione in blocco tra Oriente e Occidente che, come

scrive Laura Chrisman, non permette di capire a fondo «alcune specificità

africane»39. È così che si è affermata la definizione di “Terzo Mondo”.

Il fenomeno postcoloniale non può e non deve essere analizzato esclusivamente dal

punto di vista cronologico, ma anche e soprattutto dal punto di vista epistemologico.

Stuart Hall sostiene che in questo modo possono essere oltrepassati i binomi

antitetici tra la parte nativa e la parte colonizzatrice e afferma che

il post-coloniale ri-legge la “colonizzazione” come parte di un processo “globale”

essenzialmente transnazionale e transculturale – e produce una riscrittura decentrata,

diasporica o “globale” delle grandi narrative imperiali precedenti, centrate invece

sulla nazione. Perciò il suo valore teoretico risiede precisamente nel rifiuto di questa

ottica del “qui” e “là”, “allora” e “ora”, “patria” e “estero”. “Globale” qui non

significa universale, ma non sta neppure ad indicare una specificità nazionale o di

una determinata società. Riguarda il modo in cui le inter-relazioni laterali o

trasversali […] integrano e allo stesso tempo dis-locano il binomio centro-periferia,

il modo in cui il globale e il locale si riorganizzano e rimodellano reciprocamente40.

Stuart Hall ribadisce più volte che il prefisso “post” identifica parallelamente

l’aspetto cronologico e l’aspetto epistemico: esso delinea ciò che viene dopo ma

anche ciò che viene oltrepassato, due concetti analizzabili «in termini di ri-

configurazione di un campo, piuttosto che come movimento di trascendenza lineare

tra due condizioni che si escludono a vicenda»41. Ancora Ella Shohat definisce con

“post” la chiusura con il passato e dunque un suo superamento: ciò non significa

che il passato non debba essere preso in considerazione nel discorso postcoloniale,

37 STUART HALL, “Quando è stato il post-coloniale? Pensando al limite” in IAIN CHAMBERS E LIDIA

CURTI (a cura di), La questione postcoloniale. Cieli comuni, orizzonti divisi, Liguori, Napoli,

1997, p. 303. 38 Ibidem. 39 ANIA LOOMBA, 2000, p. 32. 40 STUART HALL, “Quando è stato il post-coloniale? Pensando al limite”, in IAIN CHAMBERS E LIDIA

CURTI (a cura di), 1997, pp. 302-303. 41 Ivi, p. 313.

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ma che l’epoca storica in cui viviamo ci offre la possibilità di eliminare le

opposizioni binarie del colonialismo e di non ripetere gli stessi errori. In secondo

luogo il passato è fondamentale per leggere il presente o per ri-leggere lo stesso

passato da altri punti di vista che non siano quelli eurocentrici dell’epoca coloniale.

Il “post” non può dividere due epoche storiche, ma permette che vengano sviluppate

delle riflessioni sulla realtà del presente attraverso il ricordo di cosa è stato il

passato. Ad esempio, Bhabha parla di «processo di sostituzione, slittamento o

proiezione»42 attuato dal recupero identitario e di «DissemiNazione»43. Ciò

consente di riunire più popoli, più individui e più idee in uno spazio nazionale

allargato in cui viene meno l’esistenza mentale dei confini nazionali e dei concetti

di Primo e Terzo Mondo. La letteratura postcoloniale rappresenta allora un

concepibile espediente per mettere a disposizione una «narrativa alternativa,

evidenziando congiunture chiave diverse da quelle incastonate nella narrativa

classica della modernità»44. E riportando le parole di Iain Chambers, «riconoscere

questo volto “altro”, e rinnegato, della modernità vuol dire abbandonare l’angusta

tirannia dei parametri di “sviluppo” e “progresso”. Vuol dire rifiutare la

«capitalizzazione del silenzio», ed accogliere le svariate istanze dell’eterotopico»45.

Chambers inoltre sottolinea che sta al nativo ristabilire i ruoli: il silenzio viene

risanato dalla libertà della sua parola, la quale può fornire una versione diversa della

realtà coloniale descritta dagli europei occidentali, che, stavolta, si trovano ad

essere giudicati da chi avevano giudicato. Nel contempo chi scrive questa

letteratura non può fare a meno di sentirsi parte di una «DissemiNazione» e la stessa

cosa accade per chi invece la legge e ne fa comunque parte.

Salman Rushdie parla di instabilità tra le due parti interessate nell’ambito

postcoloniale perché, se da un lato si manifesta la tragicità del passato, dall’altro si

palesa la ricchezza vicendevole del contatto culturale46, mentre i ruoli si scambiano

tramite lo sguardo. Stavolta è il nativo che guarda il colonizzatore e nello sguardo

42 HOMI K. BHABHA, 2001, p. 226. 43 Ivi, p. 195. 44 STUART HALL, “Quando è stato il post-coloniale? Pensando al limite”, in IAIN CHAMBERS E LIDIA

CURTI (a cura di), 1997, p. 306. 45 IAIN CHAMBERS, “Segni di silenzio, linee di ascolto”, in IAIN CHAMBERS e LIDIA CURTI (a cura

di), 1997, p. 26. 46 STEFANO MANFERLOTTI, “Gli scrittori dell’altrove” in IAIN CHAMBERS e LIDIA CURTI (a cura di),

1997, p. 221.

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reciproco l’europeo vede riflessa l’immagine di sé con tutte le connotazioni violente

che egli aveva, a suo tempo, riflesso nel nativo. L’immagine riflessa rende

consapevoli entrambe le figure perché sono costrette a indagare sulla propria

identità. In questo caso il vero protagonista diventa il nativo, il quale può mostrarsi

all’Altro, interrogarsi e interrogare l’Altro e infine ricostruirsi tramite la propria

storia culturale47. Ricercare se stessi è un’azione individuale e interiorizzata che va

al di là del processo esterno della colonizzazione e del colonialismo e che dovrebbe

realizzarsi nel tentativo di relazionarsi con l’Altro, dunque indagare i legami, non

le opposizioni48. Infine l’identità non deve essere considerata come aspetto politico

ma, prima di tutto, come aspetto spaziale che tenga conto del livello globale e del

livello locale in cui avviene la ricerca del Sé.

47 IAIN CHAMBERS, “Segni di silenzio, linee di ascolto”, in IAIN CHAMBERS e LIDIA CURTI (a cura

di), 1997, pp. 27-28. 48 CATHERINE HALL, “De-colonizzare il sapere. Il caso dell’Impero britannico”, in IAIN CHAMBERS

e LIDIA CURTI (a cura di), 1997, p. 100.

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1.3 Il «Terzo Spazio»: ibridazione e multiculturalismo

Inserisco una breve introduzione per comprendere il concetto di contaminazione

culturale, aspetto trattato dalla letteratura comparata interdisciplinare per tentare di

spiegare il Sé con il confronto con l’Altro. Per confronto non si intenda più il

rapporto gerarchico tra Sé e l’Altro ma un rapporto parallelo, in cui venga espressa

la particolarità delle identità e ci sia la consapevolezza che la propria identità e

quella altrui siano forme di ricchezza culturale.

Nel 1993 è uscito un film-documentario, Latcho Drom, diretto dal regista francese

Tony Gatlif, traducibile come “Buon viaggio” per descrivere il percorso geografico

che dall’India alla Spagna hanno dovuto affrontare i popoli rom attraverso

molteplici confini. Il film fa riferimento a un arco temporale di circa 1000 anni, in

cui, insieme allo spostamento di individui, c’è stato anche lo spostamento di idee,

tradizioni, culture. La particolarità di questo film risiede nella condivisione e

fusione identitaria nella transizione da uno spazio all’altro, grazie alla musica. Il

processo di contaminazione è stato facilitato dal nomadismo, tratto tipico del

gruppo etnico Rom parlante la lingua Romani e proveniente dall’India

settentrionale. Il nomadismo esprimeva infatti la prima forma di contatto e

condivisione tra le genti.

Il film di Gatlif presenta un gruppo nomade che, partendo probabilmente dal

Rajastan, percorre l’antica Persia, la Turchia, i Balcani, l’Europa settentrionale, la

Francia e la Spagna. La musica è il filo conduttore del documentario e accompagna

i personaggi, specialmente le donne, in un repertorio di danze che variano a seconda

degli spazi ma che sfumano l’una nell’altra, lasciando tracce di sé e familiarità.

Allora, mettendo sullo stesso piano Noi e l’Altro, è possibile oltrepassare i confini

nazionali dal punto di vista geografico e anche i confini disciplinari nella critica

postcoloniale. Claudio Magris scrive che «i confini muoiono e risorgono, si

spostano, si cancellano e riappaiono inaspettati»49 ed è ciò che è accaduto nel corso

della storia e ciò che accadrà grazie al costante spostamento di corpi e menti.

49 Cit. in PIERO ZANINI, Significati del confine. I limiti naturali, storici, mentali, Mondadori, Milano,

1997, p. XIV.

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Viene a mancare l’idea di uno spazio chiuso e delimitato contro le intenzioni

nazionali, che cercano di mantenere intatto e conservativo il modo di essere di un

popolo, senza la consapevolezza che essere se stessi significa esserlo, non solo per

mezzo di se stessi, ma anche grazie all’alterità e alla differenza di altre identità50.

Perciò il concetto di “confine” non può slegarsi dal concetto di “identità”, «nozione

che interessa e coinvolge tutti i campi dell’essere e della riflessione sull’essere»51.

Delimitando i confini, gli spazi si esauriscono in un territorio chiuso e poco

comunicante, in cui viene data più importanza ai limiti e alla divisione culturale per

rendere più evidenti le differenze e per farci capire «quando e dove una cosa finisce

e l’altra comincia»52.

Nel momento in cui il confine viene oltrepassato per occupare un territorio, si crea

un meccanismo di forzatura da una parte e di difesa dall’altra53, come nel processo

coloniale, in cui a determinate identità è stato imposto un rapporto gerarchico con

le identità colonizzatrici, ovvero quelle occidentali. In tal modo si è realizzato un

tentativo di uniformità culturale che ha mascherato la ricchezza della diversità:

questa, a partire dagli eventi di decolonizzazione, è stata coinvolta nel processo di

recupero delle identità insieme allo scardinamento del concetto di eurocentrismo,

su cui si è espresso Edward Said. Infatti Said, spostando l’attenzione dai centri alle

periferie mondiali, si è posto l’obiettivo di abbattere una visione occidentale

totalmente basata sulla superiorità e sull’imposizione del proprio modello. Se da

una parte le differenze culturali hanno reso lontani l’Oriente e l’Occidente, dall’altra

questo incontro ha favorito un avvicinamento, tanto che anche la stessa Gayatri

Chakravorty Spivak si descrive facente parte di entrambe le tradizioni, quella

indiana e quella occidentale.

Inoltre Said sostiene che

uno dei risultati raggiunti dall’imperialismo è stato quello di avvicinare i diversi

mondi e, sebbene nel corso di tale processo si sia avuta una separazione ingannevole

e fondamentalmente ingiusta tra gli europei e gli indigeni, la maggior parte di noi

dovrebbe considerare l’esperienza storica dell’impero come un’esperienza comune.

50 SILVIA ALBERTAZZI, ROBERTO VECCHI (a cura di), Abbecedario postcoloniale. Dieci voci per un

lessico della postcolonialità, Biblioteca di letterature omeoglotte Quodlibet, Macerata, 2001, p.

45. 51 Ibidem. 52 PIERO ZANINI, 1997, p. 51. 53 Ivi, p. 31.

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È nostro compito quindi descriverla come appartenente a indiani e inglesi, ad algerini

e francesi, a occidentali e ad africani, ad asiatici, latino-americani e australiani,

nonostante gli orrori, gli spargimenti di sangue e il desiderio di vendetta54.

Le imposizioni europee sul nativo hanno attivato un meccanismo di accettazione

forzata non solo della lingua, ma anche della mentalità dell’Altro, finendo per

cancellare le identità e gli stili di vita radicati nel proprio territorio. Il recupero della

memoria delle proprie tradizioni è stato molto complesso dal punto di vista spazio-

temporale, in quanto la continuità di una tradizione identitaria è stata messa in crisi

dalla discontinuità del colonialismo: risanare l’autorappresentazione significa

anche dare una lettura nuova dell’Altro, rispetto al quale ci si sente affrancati e liberi

di potersi esprimere dopo tanto tempo.

Dopo la decolonizzazione, esprimere di nuovo il proprio essere equivaleva a

ridefinire i concetti di identità e alterità in termini anacronistici, non solo a livello

collettivo ma anche a livello individuale. In questo senso l’anticolonialismo fu

indispensabile per lottare contro la violenza fisica e mentale attuata dagli europei

sui territori colonizzati. La discriminazione era infatti uno dei punti cardine da

debellare con i movimenti anti-coloniali, perché questi avrebbero messo in

discussione ciò che gli europei avevano per lungo tempo imposto come unica realtà.

L’ostilità dei nativi esisteva dal primo contatto con gli europei, ma, mentre durante

il colonialismo, la voce nativa era stata costretta a tacere, nel processo di

decolonizzazione poté essere espressa non solo con la parola ma anche attraverso

l’azione. La voce nativa poteva finalmente offrire un giudizio sul dominatore e

un’apertura della mente, che fino a quel momento era stata confinata in stereotipi

ideologici55. Come spiega Guglielmo Guglielmi, «appunto a questa ostilità,

originaria e via via aggravatasi in alcuni casi, sopravvenuta ed essa pure, sebbene

in grado minore, successivamente aggravatasi in altri, si deve far risalire la estrema

difficoltà dello stabilimento di un rapporto sostitutivo di quello coloniale»56. Non

fu un passaggio storico facile perché l’interazione con altre culture creava e crea,

oggi anche di più, forme di appartenenza multidentitarie che non consentono un

disegno stabile di confini. Si realizzava e si realizza tuttora una situazione antitetica

54 EDWARD W. SAID, 1998, p. 18. 55 GUGLIELMO GUGLIELMI, Discorso sul colonialismo, Pietro Cairoli, Como, 1969, p. 140. 56 Ivi, p. 151.

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perché, da una parte, riflette l’esigenza di far parlare l’identità originaria e,

dall’altra, l’esigenza di far parte di un mondo che non tenga conto dei limiti

nazionali.

I popoli, successivamente alla decolonizzazione, scelgono di riappropriarsi della

lingua materna, mentre altri continuano a usare la lingua degli ex-colonizzatori per

una maggior comprensione e diffusione delle proprie idee sul periodo coloniale e

postcoloniale. Questo è il caso della scrittrice Assia Djebar che, pur essendo di

origini algerine, ha scelto di scrivere in francese ovvero nella lingua del popolo

colonizzatore; scelta molto vicina a quella sostenuta da Salman Rushdie che si serve

dell’inglese come forma di lotta linguistica:

[…] apparteniamo almeno parzialmente all’Occidente. Abbiamo un’identità allo

stesso tempo plurale e parziale. A volte ci sembra di cavalcare due culture; altre volte

ci pare di cadere fra due sedie. Ma […] se la letteratura consiste, almeno in parte,

nella ricerca di nuove angolature dalle quali penetrare nella realtà, allora nuovamente

la nostra distanza, la nostra lunga prospettiva geografica è in grado di fornirci tali

angolature57.

Rushdie è uno degli esempi più aderenti al discorso di Homi Bhabha sul concetto

di identità postcoloniale: essere immigrato significa perdere e ricomporre

un’identità, che non sarà mai uguale a quella d’origine. Il recupero dell’identità non

avrà così dei tratti distintivi fissi e immutabili, perché questi tenderanno sempre a

cambiare in base al contesto in cui l’identità si realizza, sempre a contatto con altre

identità. Bhabha suggerisce che «la rappresentazione della differenza non deve

essere letta come il riflesso di tratti etnici o culturali già dati e fissati nelle tavole

della tradizione; al contrario l’articolazione sociale della differenza, dal punto di

vista della minoranza, è una negoziazione complessa e continua che punta a

conferire autorità a ibridi culturali nati in momenti di trasformazione storica»58.

Risulta evidente come venga portato a compimento il tentativo di Said di

superamento della visione eurocentrica: da ciò deriva una «periferia mescolata» in

cui il binomio centro/periferia è messo in crisi da uno «spazio privilegiato per

abitare al contempo il proprio e l’improprio, il medesimo e l’altro, la ragione e il

57 SALMAN RUSHDIE, Patrie immaginarie, Mondadori, Milano, 1991, p. 20. 58 HOMI K. BHABHA, 2001, p. 13.

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corpo, la periferia e il centro»59. Emerge quello che Homi Bhabha definisce «terzo

spazio», non solo spazio geografico ma anche spazio astratto e mentale, nel quale

si dovrebbero annullare le forme di intolleranza e accettare le particolarità e le

diversità identitarie. Un esempio di questo processo è rappresentato da ciò che viene

omesso durante la fase coloniale e poi reintegrato nel processo di decolonizzazione.

La condizione ibrida delle culture contiene però un limite, consistente nella

difficoltà di ritornare ad una «purezza culturale» che sfocia nello status di «soggetto

tradotto». Contraddittoriamente, la critica postcoloniale percepisce questo aspetto

identitario fortemente gratificante, in quanto solo con il processo storico è possibile

delineare la situazione relativa delle identità. L’assolutismo identitario non permette

infatti l’apertura alle novità e alla consapevolezza del mutamento culturale, tanto

che gli studiosi postcoloniali ne danno un giudizio negativo e pericoloso. Anzi,

proprio la globalizzazione porta allo scoperto quelle «identità deboli» che altrimenti

non avrebbero voce; ciò comporta, come sostiene Anthony McGrew, degli

andamenti antitetici60:

• universalizzazione/particolarizzazione

• omogeneizzazione/differenziazione

• integrazione/frammentazione

• centralizzazione/decentramento

• giustapposizione/sincretizzazione

Questi binomi possono essere sintetizzati nei concetti di “globale” e “locale”:

Lawrence Grossberg scrive che

da un lato c’è il modello dell’interamente locale, o secondo la definizione di Abu-

Lughod, del mondo cloisonné (diviso in riquadri di diverso colore). Si tratta di una

costruzione del tutto immaginaria del mondo visto come luogo senza relazioni tra le

diverse parti e senza attraversamenti dello spazio. Dall’altro lato c’è il modello della

globalità totalizzante. Questa è una costruzione altrettanto immaginaria del mondo,

visto come posto unitario in cui si distribuiscono in maniera istantanea e uniforme

tutti i prodotti (culturali), come se non esistesse uno spazio da attraversare61.

59 SILVIA ALBERTAZZI, ROBERTO VECCHI (a cura di), 2001, p. 105. 60 MIGUEL MELLINO, 2005, pp. 141-144. 61 LAWRENCE GROSSBERG, “Lo spazio della cultura. Il potere dello spazio”, in IAIN CHAMBERS e

LIDIA CURTI (a cura di), 1997, p. 196.

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Ciò significa che il compromesso da ricercare consiste nella via di mezzo tra le due

forme, cioè uno spazio che non sia né globale né locale o, per meglio dire, che sia

globale e locale ma concepito in maniera transnazionale. Se da una parte il globale

tende all’uniformità degli spazi62, il locale tende all’eterogeneità dei luoghi63, fattori

che non possono non essere presenti nel processo identitario postcoloniale64: in

questo si realizza un meccanismo che muove i punti di vista, procedendo dal

generale al particolare e dal particolare al generale e favorendo uno slittamento

semantico, che consente di non conferire una volta per tutte il concetto di “identità”.

Nel contesto postcoloniale il contatto antitetico tra globale e locale diventa un

dialogo tra «passato e presente», «tradizione e modernità» dove, scrive Bhabha,

«qualcosa finisce per essere ripetuto, ri-collocato e tradotto nel nome della

tradizione, sotto forma di una “essenza del passato” che non è necessariamente un

segno di fedeltà alla memoria storica ma una strategia di rappresentazione

dell’autorità con i mezzi dell’artificio o dell’arcaico»65.

Il Terzo Spazio di Homi Bhabha rappresenta anche apertura alle novità e

all’integrazione, in quanto i simboli identitari acquisiscono un significato nuovo e

vengono ri-contestualizzati: «parlare dello spazio dovrà allora divenire

spazializzare il reale quale prodotto della singolarità dell’altro»66.

Dal carattere dinamico del multiculturalismo «l’identità si forma in movimento»67,

ma sempre all’interno di contesti specifici: ad esempio la Negritudine ha avuto voce

perché ha preso «nutrimento dall’alienazione e dalla rabbia dei colonizzati»68.

Col processo di decolonizzazione fu inevitabile scoprire una forma identitaria

ibrida: ciò che Édouard Glissant interpreta come un «pensare per tracce» e ciò che

Rushdie individua come «alcuni frammenti […] ormai irrimediabilmente

perduti»69. La ricerca della forma autentica, quella delle origini che non fa più parte

del nativo nella sua essenza completa, è fondamentale per un ritorno all’arcaico e

62 Ibidem: «il vuoto tra luoghi in cui non avviene nulla all’infuori di movimenti da un luogo

all’altro». 63 Ivi, p. 201: «luoghi di pienezza, l’identità, il “dentro” e l’attività umana». 64 Ivi, pp. 191-197. 65 HOMI K. BHABHA, 2001, p. 56. 66 LAWRENCE GROSSBERG, in IAIN CHAMBERS e LIDIA CURTI (a cura di), 1997, p. 208. 67 IAIN CHAMBERS, Paesaggi migratori. Culture e identità nell’epoca postcoloniale, Meltemi, Roma,

2003, p. 38. 68 ANIA LOOMBA, 2000, p. 180. 69 SILVIA ALBERTAZZI, 2000, p. 84.

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all’incontaminato, come difesa dall’occidentalizzazione culturale. Come scrive

Francesco Remotti, la ricerca dell’identità prevede due tipi di azione, una di

separazione e una di assimilazione: nel primo caso si tratterà di mirare al particolare

facendo prevalere le differenze identitarie, nel secondo caso si tratterà di mirare al

generale facendo prevalere le somiglianze identitarie. In entrambi i casi, l’identità

non può fare a meno di confrontarsi con l’alterità, che non può essere eliminata

totalmente perché diventa strumento di paragone per affermare la propria identità:

«l’identità respinge; ma l’alterità riaffiora»70. Lo stesso discorso è sintetizzato da

Loomba, il quale ritiene che sia impossibile che i nativi riescano a tornare

semplicemente alla fase pre-coloniale, ovvero a quel passato dimenticato, perché i

contesti in cui avviene il recupero della memoria è cambiato ed è necessario che ci

si adatti ai cambiamenti. Come conclude Loomba, ciò significa che «il punto allora

non è solo quello di legare i temi della migrazione, dell’esilio e dell’ibridità con la

valorizzazione delle radici, della nazionalità e dell’autenticità, ma di sistemare e

valutare le loro valenze ideologiche, politiche ed emotive, ma anche le loro

intersezioni nelle molteplici storie del colonialismo e del postcolonialismo»71.

Il nativo tenterà a volte di negare l’alterità, a volte tenterà di marginalizzarla: nel

primo caso ne negherà l’esistenza, nel secondo caso ne ammetterà l’esistenza; un

terzo caso consiste nell’«inevitabilità» dell’alterità, cioè quel fattore che l’individuo

non può fare a meno di considerare nel momento in cui tenta di esprimere la propria

identità. Infine Remotti individua anche un quarto caso, quello in cui «l’identità è

fatta anche di alterità», cioè l’alterità è parte costituente dell’identità. Nel momento

in cui l’identità rifiuta di trovare un compromesso con l’alterità, si crea isolamento

e una contrapposizione tra i due concetti di identità e alterità: l’identità è da

costruire, l’alterità è da offrire nelle sue molteplici forme.

70 FRANCESCO REMOTTI, Contro l’identità, Laterza, Roma-Bari, 1996, p. 61. 71 ANIA LOOMBA, 2000, pp. 180, 182.

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Capitolo II. La subalternità coloniale e postcoloniale

2.1 Gayatri Chakravorty Spivak e i Subaltern Studies

Gayatri Chakravorty Spivak è considerata una delle più autorevoli attiviste di teoria

postcoloniale e di letteratura comparata: di origini bengalesi, nasce a Calcutta nel

ʻ42, si laurea in Letteratura inglese nel 1959 per poi trasferirsi negli Stati Uniti negli

anni Sessanta; attualmente è docente di Letteratura comparata alla Columbia

University di New York. Nel 1976 traduce in inglese De la grammatologie di

Jacques Derrida, testo che divulgherà la conoscenza del decostruzionismo anche in

America.

Spivak viene ritenuta una delle fondatrici degli studi postcoloniali insieme a Said e

Bhabha, ma ci sono altri aspetti di questa studiosa che l’allontanano almeno in parte

da questo settore disciplinare. Infatti, come scrive Iuliano, l’indagine spivakiana

riflette, in particolare, sul momento intermedio tra il coloniale e il postcoloniale,

cercando di capire quali sono state le cause di questo passaggio storico e perché

esso ha determinato una discontinuità nella modernità.

La subalternità dell’Oriente rispetto all’Occidente è uno dei temi su cui verte lo

studio postcoloniale di Gayatri Spivak, la quale circoscrive il proprio campo di

indagine e riassume la natura del rapporto tra il nativo e il colonizzatore con una

domanda che fa da titolo a un saggio della stessa Spivak pubblicato nel 1988, Can

the Subaltern speak?. La subalternità è un concetto tratto dai Quaderni gramsciani

per indicare il progetto politico di classi proletarie subalterne che desiderano

sconvolgere il processo egemonico realizzato dalle élites politiche. Storicamente il

concetto risale al marxismo e alle lotte operaie svoltesi tra l’Ottocento e il

Novecento a causa dell’eccessiva disparità tra i capitalisti e la forza lavoro, per

giungere poi ai divari connessi alla razza, all’etnia e al territorio e infine ai divari

di genere72. Le riflessioni di Spivak partono dunque dal pensiero di Marx, ma da

questo se ne distacca perché, in base alle sue riflessioni, il passaggio dalla fase pre-

capitalista alla fase capitalista non genererebbe una lotta di classe, bensì

72 IAIN CHAMBERS (a cura di), Esercizi di potere. Gramsci, Said e il postcoloniale, Meltemi, Roma,

2006, p. 21.

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rappresenterebbe un impedimento per i subalterni che non appartengono al mondo

occidentale.

Gramsci è stato il secondo punto di riferimento per Spivak, ma anche per Said:

infatti l’aver messo in primo piano il Sud d’Italia rispetto al Nord, con le

problematiche relative al lavoro contadino e al sottosviluppo, richiama le stesse

questioni relative al rapporto tra Occidente e Oriente. Tanto che la citazione di

Gramsci, «i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari

o dei barbari completi»73, ricorda molto la citazione di Said sullo stereotipo

attribuito dall’occidentale all’orientale: «irrazionale, decaduto (o peggio,

degenerato), infantile e diverso»74, identificabili entrambe come testimonianze del

darwinismo sociale. La specificità degli studi di Spivak riguarda il dislocamento

semantico della subalternità, nel passaggio dall’aspetto politico all’aspetto sociale,

per «spostare l’accento dall’idea di lavoro a quella di razza»75, ma anche per

«interrogarsi – come fece Gramsci – sulla funzione degli intellettuali in un’epoca

di evidente transnazionalismo»76 e per «aiutare il nuovo a entrare nel mondo»77.

La subalternità gramsciana è utile per trattare il «tema dello sfruttamento delle classi

rurali indiane, del ruolo degli intellettuali, e soprattutto del potenziale

rivoluzionario delle popolazioni subalterne»78, ma è una ripresa concettuale solo

parziale: «per Spivak, al contrario che in Gramsci, il proletariato neanche può essere

definito un gruppo sociale subalterno poiché si è storicamente dimostrato capace di

“prendere la parola” e di darsi una organizzazione politica»79. Inoltre il concetto di

subalternità gramsciana venne considerato unicamente nella sua accezione

culturale, dimenticando la sua valenza economica, la divisione in classi e la

sopraffazione di classe iniziali. Un tratto comune tra Gramsci e gli studiosi dei

Subaltern Studies è l’aspetto marginale della subalternità, dato che Gramsci intitola

73 Ivi, pp. 22-23. 74 EDWARD W. SAID, 1991, p. 42. 75 SILVIA ALBERTAZZI, “Scrivere nell’interregno. L’ombra di Gramsci sulla letteratura

postcoloniale”, in MAURO PALA (a cura di), Narrazioni egemoniche. Gramsci, letteratura e società

civile, Il Mulino, Bologna, 2014, p. 129. 76 Ivi, p. 130. 77 Ivi, p. 135. 78 FIORENZO IULIANO, Altri mondi, altre parole. Gayatri Chakravorty Spivak tra decostruzione e

impegno militante, OmbreCorte, Verona, 2012, p. 17. 79 Cit. in GUIDO LIGUORI, “Tre accezioni di «subalterno» in Gramsci”, in laboratorio culturale,

https://criticamarxistaonline.files.wordpress.com/2013/06/6_2011liguori.pdf, 2013, p. 34.

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il Quaderno 25 del 1934 “Ai margini della storia (Storia dei gruppi sociali

subalterni)”, per parlare della situazione italiana80.

Il concetto di “margine” ricorre spesso, nello specifico in relazione al colonialismo,

durante il quale il pretesto degli occidentali risiedeva nella «definizione di

civilizzazione e di barbarie»81 ancor prima che avesse inizio la storia coloniale e

questo binomio veniva rafforzato dal dominio ideologico e culturale sulle colonie.

La subalternità rappresenta il tema centrale dei Subaltern Studies e in questi è

automaticamente incluso anche il rapporto che sussiste tra egemone e subalterno.

Si tratta di un campo di studi nato durante gli anni Ottanta, a partire dalle questioni

sollevate da Ranajit Guha sulla possibilità di interpretare diversamente la storia e la

storiografia indiana, stavolta dal punto di vista della popolazione locale e delle loro

ribellioni82. Fu infatti pubblicato un saggio di Guha, dal titolo On Some Aspects of

the Historiography of Colonial India, che lanciava come accusa quella di «lasciar

fuori le classi e i gruppi subalterni che costituivano la massa della popolazione

lavoratrice e gli strati intermedi in città e in campagna, cioè il popolo»83. I subalterni

erano coloro che non facevano parte dell’élite, cioè dei «gruppi dominanti, stranieri

e indigeni»84: la situazione in questo modo si allargava dal rapporto tra coloniale e

anti-coloniale al rapporto tra élite e subalterni. La subalternità analizzata da Spivak

risulta molto più estesa perché si sviluppa in direzione femminista, evidenziando

che «if the peasant insurgent was the victim and the unsung hero of the first wave

of resistance against territorial imperialism in India, it is well known that, for

reasons of collusions between pre-existing structures of patriarchy and transnational

capitalism, it is the urban sub-proletarian female who is the paradigmatic subject of

the current configuration of the International Division of Labor»85. Infatti Spivak

tende ad allontanarsi dalla linea di studi di Guha, per spostare maggiormente

l’attenzione sulla rivendicazione da parte subalterna contro una situazione statica

che non permette l’azione; ritenendo, inoltre, che il limite di Guha consista

80 Cfr. GUIDO LIGUORI, 2013, p. 35. 81 ANIA LOOMBA, 2000, p. 69. 82 FIORENZO IULIANO, 2012, p. 16. 83 ANIA LOOMBA, 2000, p. 196. 84 Ibidem. 85 GAYATRI C. SPIVAK, In other worlds. Essays in cultural politics, Routledge, New York & London,

1988a, p. 218.

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nell’impostazione dei suoi studi, come anche di molti altri intellettuali, riguardanti

la figura femminile, che si fossilizza su «storie di Altri, siano essi il Patriarcato

locale o l’Imperialismo britannico»86. Nel primo caso si tratta di evidenziare i

problemi relativi al rapporto uomo-donna in una società circoscritta che prevede

generalmente l’esclusione delle donne e il potere e l’autorità maschili all’interno

della famiglia, ma che si configura in maniera diversa a seconda del contesto spazio-

temporale analizzato. Nel secondo caso si tratta di prendere in considerazione le

questioni relative al rapporto tra colonizzatore e nativo e al rapporto tra nativa e

nativo, mediati dalla relazione del colonizzatore e del nativo rispetto alla nativa.

Come sostiene Marcus E. Green, è importante che, grazie a questi studi, si giunga

alla consapevolezza dell’essere subalterni e, soprattutto, che la subalternità venga

rappresentata fuori dal discorso egemonico per coglierne anche il problema

culturale. Said, come Spivak, mette in primo piano l’assenza verbale dei subalterni

dato che «il silenzio coloniale ha continuato a rappresentare un problema per molti

storici postcoloniali successivi come qualcosa che in quanto tale non poteva essere

semplicemente colmato o animato, ma piuttosto recuperato o indicato

diacriticamente attraverso una decostruzione»87. Ma per Spivak è necessario anche

distinguere le forme di rappresentazione utilizzate, tra una «rappresentazione nel

senso di “parlare per”» e «rappresentazione nel senso di ri-presentazione» affinché

l’una non influenzi l’altra88.

Prima di trattare la subalternità femminile, Spivak riflette in maniera più generale

sul contesto indiano e sull’uso del colore della pelle per giustificare il razzismo di

matrice occidentale. La studiosa bengalese, in Critica della ragione postcoloniale,

fa un esempio riguardante il colore del nativo contrapposto al non-colore del bianco,

antitesi razziale e razzista presente in un documento della Compagnia delle Indie

Orientali, che riguarda l’inclusione di indiani nell’amministrazione inglese. Spivak

spiega che il lavoro degli indiani nella macchina amministrativa inglese da diritto

86 PAMELA DE LUCIA, “Immagini in dissolvenza. Lettura "interessata" di Can The Subaltern Speak?

di Gayatri Chakravorty Spivak”, DEP. Deportate, esuli, profughe. Rivista telematica di studi sulla

memoria femminile, n. 21, 2013, http://www.unive.it/media/allegato/dep/n21_2013/Ricerche/6_De-

Lucia-rev.pdf, p. 99. 87 EDWARD W. SAID, 2008, p. 577. 88 MARCUS E.GREEN, “Gramsci non può parlare: presentazioni e interpretazioni del concetto

gramsciano di subalterno”, in MAURO PALA (a cura di), Americanismi. Sulla ricezione del pensiero

di Gramsci negli Stati Uniti, CUEC, Cagliari, 2009, pp. 93-94.

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finiva per diventare una costrizione, esattamente come il nativo da soggetto finiva

per diventare oggetto: questa situazione comportava che gli indiani fossero esclusi

dalle cariche più alte. Nonostante, nel 1857, fosse stata sciolta la Compagnia in

seguito alla rivolta dei sepoys, le unità militari indiane che servivano gli inglesi,

l’India, nel 1947, divenne un possedimento inglese dominato da un viceré, in cui

persisteva la differenza di classe tra nativi e inglesi89 e nel 1950 divenne infine una

repubblica indipendente.

Loomba spiega che molto prima dell’indipendenza politica si realizzò «la

trasformazione di uno stereotipo coloniale già esistente, quello del “mite indù”, in

uno nuovo, quello del selvaggio violentatore delle donne inglesi», mentre

precedentemente a questo episodio non si erano verificati fatti di violenza e di stupri

perché gli indiani erano sempre stati descritti come «miti e pronti a ricevere

l’educazione coloniale»90. A tal proposito in un esempio letterario come quello di A

Passage to India, libro di E. M. Forster pubblicato nel 1924, viene mossa proprio a

un indiano l’accusa ingiusta di aver commesso violenza contro una donna inglese:

«naturalmente il colpevole è un indiano, su questo non ci sono dubbi»91. Il

pregiudizio era dunque molto forte e Forster si è dimostrato un autore molto

attinente al discorso sulla subalternità in passi come: «un branco di subalterni

brulicava come tante scimmie sui sedili della carrozza»92; «l’Oriente e l’Occidente.

Una gran fonte di malintesi»93.

Nel contesto indiano si realizzava quello che Spivak chiama othering,

alterizzazione, cioè l’intenzionale presenza dell’Occidente come Soggetto e

differenziazione dell’Altro come Oggetto, per dare di quest’ultimo una

rappresentazione stereotipata. Infatti nel 1858, una volta stabilito il ruolo dell’India

come dominio della corona inglese, ci si interessò a divulgare la lingua e la

letteratura inglesi, conferendo all’India un’impronta culturale occidentale.

The Subaltern Studies group seems to me to be revising this general definition and

its theorization by proposing at least two things: first, that the moment(s) of change

be pluralized and plotted as confrontations rather than transition (they would thus be

89 Enciclopedia “La Biblioteca di Repubblica”, La Storia, De Agostini, Novara, 2004, vl. 12, p. 23. 90 ANIA LOOMBA, 2000, pp. 89-90. 91 EDWARD M. FORSTER, Passaggio in India, Mondadori, Milano, 1985, p. 255. 92 Ivi, p. 135. 93 Ivi, pp. 287-288.

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seen in relation to histories of domination and exploitation rather than within the

great modes-of-production narrative) and, secondly, that such changes are signalled

or marked by a functional change in sign-systems94.

La prima domanda che si pone Spivak è dunque “Chi è il nativo?” nel momento in

cui il nativo si deve confrontare con il “padrone”:

sono interessata alla strategia della rappresentazione pianificata del padrone e del

nativo […] Il padrone/maestro è il soggetto della scienza o del sapere. La scienza in

questione qui è la scienza “interessata” della guerra piuttosto che il sapere

“disinteressato” in quanto tale. La manipolazione della pedagogia di questa scienza

avviene anche nell’“interesse” della creazione di ciò che giungerà a essere percepito

come una differenza “naturale” tra il “padrone” e il “nativo” - una differenza nella

materia umana o razziale95.

In un secondo momento la subalternità, questo è il caso di Spivak, viene usata anche

per approfondire i problemi di genere: i Subaltern Studies vengono orientati verso

la subalternità femminile per ricercare i tratti comuni esistenti nel rapporto parallelo

tra il popolo nativo e il colonialismo da una parte, e il rapporto tra la donna e la

società patriarcale nella quale vive, dall’altra.

La posizione di Spivak si inserisce nel discorso di Judith Butler, almeno per quanto

riguarda il rapporto tra uomo e donna; Butler riporta una citazione di Fraire:

«costruire e de-costruire, fare e dis-fare, tessere e sfilare, montare e smontare sono

alcuni dei modi attraverso i quali indichiamo due operazioni che, solo se prese in

coppia, imprimono all’esperienza umana il movimento che ne rivela l’intima

vitalità»96. La decostruzione viene utilizzata come strumento indispensabile per

parlare di genere: si inizia a parlare di gender a metà dagli anni Settanta, nel

momento in cui Gayle Rubin fa una distinzione fondamentale tra sex e gender: nel

primo caso si parla del fattore biologico, nel secondo caso si parla del fattore

culturale della sessualità97. La costruzione sociale che l’uomo applica sulla donna

può essere messa in discussione, dunque «il gender, la norma che costruisce i

soggetti socialmente e culturalmente come maschile o femminile, è anche l’ambito

d’azione in cui è possibile contestare la fissità, la normalità, la permanenza, la

94 GAYATRI C. SPIVAK, 1988a, p. 197. 95 GAYATRI C. SPIVAK, Critica della ragione postcoloniale, Biblioteca Meltemi, Roma, 2004, p. 230. 96 JUDITH BUTLER, FEDERICO ZAPPINO (a cura di), Fare e disfare il genere, Mimesis, Milano, 2014,

p. 9. 97 Ivi, p. 13.

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stabilità di quelle categorie, di quei pannelli divisori che idealmente dividono

l’umanità in due»98. All’interno degli studi coloniali e postcoloniali, questo discorso

si ricollega prima di tutto alla struttura binaria e razzista di colonizzatore e nativo

relativa al concetto di “umano”: «il fatto che questa categoria (come ogni categoria)

si sia formata nel tempo e abbia operato attraverso l’esclusione di un ampio spettro

di minoranze, significa anche che questa sua articolazione assisterà a un nuovo

inizio nel preciso istante in cui coloro che ne sono stati esclusi cominceranno a

parlare a questa categoria, e da questa categoria»99. In secondo luogo il discorso si

fa sempre più circoscritto nel momento in cui vengono analizzati i rapporti tra uomo

e donna all’interno di questo tipo di studi per attuare ciò che Butler definisce

«trasformazione sociale»100. Una trasformazione sociale ci deve essere anche

all’interno della stessa categoria “donna”, perché è necessario evidenziare che le

donne del Primo Mondo hanno una condizione diversa dalle donne del Terzo

Mondo, dunque il soggetto è frammentato101, in base alla definizione di Spivak.

Perciò si tratta di avviare una trasformazione sociale a partire dalla voce di chi ha

vissuto i problemi inerenti al colonialismo e al postcolonialismo e introdurre questi

problemi anche in ambito accademico. Ad esempio Spivak si è occupata di tradurre

l’opera della narratrice Mahasweta Devi:

Devi scrive come una donna tribale, per e sulle donne tribali, ma il “tribale” è

esattamente ciò che diventa complesso da identificare nel corso della sua scrittura.

La sua voce arriva a noi del primo mondo attraverso una traduzione, offerta da

Spivak, nelle quale ci viene chiesto, in quanto lettori, di rispondere. Spivak insiste

che questa scrittura, la scrittura tribale dell’Asia meridionale di Devi, non può essere

definita semplicemente “tribale” o come rappresentante del “tribale”, poiché in essa

è anche presente una visione dell’internazionalità attraverso gli occhi della tribalità

[…] A un’attenta lettura dei testi di Devi, risulta chiaro che essa opera delle

connessioni, delle connessioni viventi, tra il tribale e il globale, e che lei stessa, come

autrice, diviene il veicolo della loro intercomunicabilità102.

La traduzione da parte di Spivak è stata fondamentale per capire come si sviluppa

la subalternità a contatto diretto con i testi narrativi, in cui è di notevole importanza

98 Ivi, p. 17. 99 Ivi, p. 48. 100 Ivi, p. 299. 101 Ivi, p. 329. 102 Ivi, pp. 329-330.

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anche l’aspetto linguistico di chi scrive103. Si tratta di svolgere lo studio di una

testualità che vada anche in direzione pisicanalitica e femminista, «i suoi obiettivi

fondamentali, infatti, sarebbero una riabilitazione della scrittura femminile e una

ridefinizione del canone letterario e del testo sociale che consideri in modo

prioritario la problematica femminista e cerchi di integrare il femminismo

occidentale con quello del terzo mondo»104. La traduzione rappresenta per Spivak

uno strumento necessario per fare conoscere il bengali di Devi: «we translators from

the languages of the global South should prepare our texts as metropolitan teaching

texts because that, for better or for worse, is their destiny»105. Inoltre sin dai suoi

primi testi, Spivak sottolinea la lettura decostruzionista relativa al soggetto

femminile, manifestando la propria attenzione sulla subalternità femminile

all’interno dei Postcolonial Studies. Infatti, per Spivak, gli studi postcoloniali hanno

bisogno di un’impostazione nuova che vada oltre il concetto di globalizzazione:

«alla dimensione globale del presente, segnata dalle reti telematiche di

comunicazione e di flussi monetari, bisogna sostituire la ricerca di una dimensione

planetaria, che parta, letteralmente, dal luogo di massima alterità rispetto all’umano,

il pianeta. A partire da questa nuova cifra dell’alterità si può passare alla

ricognizione delle articolazioni, storicamente e linguisticamente determinate, delle

alterità che popolano il pianeta, sia pure in maniera temporanea»106. Spivak, come

è accaduto per altre figure intellettuali citate precedentemente, rientra a pieno nel

discorso postcoloniale anche perché è stata una migrante, ovvero si è spostata

dall’India verso gli Stati Uniti in seguito all’indipendenza indiana. Dunque le

tematiche affrontate sono anche quelle che provengono da un’esperienza diretta e

maggiormente sentite nella loro trattazione: è fondamentale «insistere sull’enfasi

che Spivak stessa pone sul dato autobiografico in quanto produttivo di sapere, e

capace di andare oltre i limiti del semplice vissuto individuale per essere riletto

come paradigma generazionale e, conseguentemente, storico e politico»107. È

necessario decostruire il territorio prima ancora di se stessi, ad esempio Spivak deve

dapprima parlare dell’India, a partire dalla «localizzazione del soggetto che parla e

103 Cfr. FIORENZO IULIANO, 2012, p. 16. 104 Ivi, p. 18. 105 Ivi, cit., p. 105. 106 Ivi, p. 27. 107 Ivi, p. 29.

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che scrive, la donna migrante, l’intellettuale espatriata, che lascia l’India negli anni

Sessanta per recarsi negli Stati Uniti»108.

Facendo un passo indietro, Spivak ha dato la sua definizione di “subalterno” nel

corso di un’intervista:

I like the word “subaltern” for one reason. It is truly situational. “Subaltern” began

as a description of a certain rank in the military. The word was used under

censorschip by Gramsci: he called Marxism “monism”, and was obliged to call the

proletarian “subaltern”. That word, used under duress, has been transformed into the

description of everything that doesn’t fall under a strict class analysis. I like that,

because it has no theoretical rigor109.

Il concetto di subalternità si ricollega al rapporto che esiste tra centro e periferie del

mondo, dove la percezione è sempre quella di rendere distanti le due entità, mentre

Spivak spiega: «that’s the way I think of the margin - as not simply opposed to the

center but as an accomplice of the center - because I find it very troubling that I

should be defined as a marginal»110.

Trovarsi al margine significa accettare le imposizioni provenienti dal centro e

dunque diventare complici del meccanismo messo in atto da una sola parte, ma

Spivak sposta il piano del discorso e fa del margine uno spunto di riflessione oltre

l’aspetto spaziale e ideologico. Scrive infatti: «I am beginning to think of the

concept-metaphor of margins more and more in terms of the history of margins: the

place for the argument, the place for the critical moment, the place of interests for

assertions rather than a shifting of the center»111.

Ciò non significa che subalterno equivalga a marginale:

il termine “subalterno”, che nel senso originario gramsciano indicava il proletario,

che non riesce a far sentire la sua voce, in quanto è strutturalmente situato al di fuori

della narrativa borghese-capitalistica, nel recupero postcoloniale del termine, come

mostra la lettura di Spivak, indica invece tutto ciò che ha accesso limitato, o nullo,

all’imperialismo culturale. La classe operaia, in tal senso, è certamente oppressa, ma

non subalterna112.

108 Ivi, p. 31. 109 “Negotiating the Structures of Violence” with Richard Dienst, Rosanne Kennedy, Joel Reed,

Henry Schwarz and Rashmi Bhatnagar, in SARAH HARASYM (edited by), The post-colonial critic.

Interviews, Strategies, Dialogues, Routledge, New York & London, 1990, p. 141. 110 “The New Historicism: Political Commitment and The Postmodern Critic” with Harold Veeser,

in SARAH HARASYM (edited by), 1990, p. 156. 111 Ivi, p. 156. 112 IAIN CHAMBERS (a cura di), 2006, p. 43.

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Soprattutto Spivak ritiene che «if the subaltern can speak then, thank God, the

subaltern is not a subaltern any more»113, ovvero, una volta che il subalterno può

parlare, non è più definibile subalterno perché è riuscito a superare le barriere del

silenzio imposte dall’imperialismo coloniale. Loomba approfondisce le questioni

sollevate da Spivak e le sviluppa con una serie di domande:

Con quali voci hanno parlato i colonizzati, la propria o con quella presa in prestito

dai padroni? Il progetto di recuperare le voci dei “subalterni” può essere realizzato

nella maniera migliore sottolineando ciò che le distingue dalla cultura dominante o

sottolineando come anche queste sono scolpite dai processi e dalle culture che le

hanno oppresse? E infine la voce dei subalterni può essere rappresentata

dall’intellettuale?114

Perciò il problema della subalternità va affrontata su più livelli perché di essa

esistono forme variegate che comprendono l’aspetto geografico, culturale,

linguistico, economico, istituzionale115. L’epistemic violence, così da lei

denominata, si manifesta come violenza contro tutte le forme di rappresentazione

dei paesi colonizzati, manipolate o cancellate per rappresentare se stessi e avere

potere di controllo sull’altro. «L’esempio più lampante di questa violenza

epistemica era il progetto, orchestrato da lontano, diffuso ed eterogeneo, di

costituzione del soggetto coloniale come Altro. Questo progetto era anche

l’obliterazione asimettrica della traccia di quell’Altro nella sua precaria Soggett-

ività»116.

Ciò che i Postcolonial Studies, e nello specifico i Subaltern Studies, tentano di

evidenziare sono i discorsi «ibridati, così che le identità fisse che il colonialismo

cerca di imporre sia sui padroni che sugli schiavi diventano instabili»117, anzi viene,

soprattutto, oltrepassata la concezione di Orientalismo di Said relativa

all’opposizione binaria di Oriente e Occidente. Entrambe le parti rientrano nello

scambio culturale reciproco, che ciascuna delle due parti interpreta in maniera

differente e propria. Nell’identificare il padrone come soggetto e il nativo come

oggetto, l’ideologia coloniale tende a generalizzare la distinzione tra un Occidente

113 “The New Historicism: Political Commitment and The Postmodern Critic” with Harold Veeser,

in SARAH HARASYM (edited by), 1990, p. 158. 114 ANIA LOOMBA, 2000, p. 225. 115 IAIN CHAMBERS (a cura di), 2006, p. 22. 116 GAYATRI C. SPIVAK, 2004, p. 278. 117 ANIA LOOMBA, 2000, p. 226.

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soggetto e un Oriente oggetto. In questo scambio, per Spivak, il punto centrale su

cui riflettere è caratterizzato dall’assenza di voce dei subalterni, ma è sulla

subalterna che cresce l’interesse:

la subalterna di Spivak è impossibilitata a parlare, afona, senza voce. Ma questo

“senza” non si dispiega attraverso il meccanismo della sottrazione di Guha, ma

nell’impossibilità ad esistere, ad essere presente, ad essere visibile, ad essere

riconosciuta nello spazio pubblico. Talmente invisibile che ogni tentativo di darle

voce è una finzione, una strumentalizzazione, perché sempre si parla di una donna

che non c’è, irreale, costruita118.

La subalternità della donna indiana è descritta da Spivak per mezzo del sati per

sottolineare che «gli effetti combinati del colonialismo e del patriarcato hanno reso

molto difficile per i subalterni articolare il proprio punto di vista», «inserendo la

“donna di colore” come categoria oppressa da entrambi»119, colonizzatori e

colonizzati. Il subalterno e la subalterna, abbiamo visto, sono fuori dall’élite e la

loro autorappresentazione è praticamente impossibile, perciò è necessario che siano

gli intellettuali a farlo per loro. «I subalterni non possono parlare. Non c’è alcuna

virtù nel comporre liste della spesa in cui per bontà d’animo si facciano figurare le

donne. Il modo di rappresentare le donne non è cambiato. Per questo le donne

intellettuali hanno un compito a cui non possono venir meno con facilità»120. La

cosa più grave, nella scelta della pratica del sati come esempio di subalternità

femminile, consiste nella «categoria concettuale e sociale che esiste solo nel

momento in cui il suo soggetto, la protagonista, muore. La sati in fieri è solo una

vedova; la sati è quindi per definizione un soggetto che tace»121.

Ma, sostiene Loomba, la conseguenza più preziosa di questo esempio è la

testimonianza delle vedove che sono riuscite ad evitare la morte e che hanno dunque

offerto la propria voce e la propria storia.

Un modo per affrontare la subalternità in prima persona è dato dal rapporto della

donna con la testualità: ciò permette, infatti, di riflettere sulla propria esperienza

coloniale, di tentare di risolvere i problemi coloniali e postcoloniali grazie

all’interdisciplinarità. «Spivak chiede, per esempio, alla letteratura, e alle storie

118 PAMELA DE LUCIA, 2013, p. 100. 119 ANIA LOOMBA, 2000, p. 227. 120 Ivi, p. 228. 121 Ivi, p. 229.

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raccontate dalla scrittura letteraria, di aiutare a colmare i buchi, le omissioni, i

silenzi e le dimenticanze della storia. Usare la letteratura per forzare le ragioni della

storia significa infatti ridare ritmo e respiro a una storia fatta di cancellazioni»122.

L’esempio di scrittrici femminili è il punto di partenza per un cambiamento della

disciplina femminista, ovvero oltrepassare la visione della figura maschile bianca

come modello universale e la visione della donna e dell’Altro non bianco come

diversi e sempre descritti in rapporto al bianco123.

La seconda domanda che Spivak si pone è se i subalterni possono parlare e in

particolare se le subalterne possono parlare.

La questione non è quella della partecipazione femminile alla rivolta, o quella delle

regole basilari della divisione sessuale del lavoro per le quali sussistono le “prove”.

È piuttosto che, sia come oggetto della storiografia colonialista sia come soggetto

rivolta, la costruzione ideologica del genere conserva la dominante maschile. Se nel

contesto della produzione coloniale il subalterno non ha storia e non può parlare, la

subalterna è calata in un’ombra ancor più fitta124.

La formula Can the Subaltern speak? svela il problema di fondo: l’assenza di voce

delle subalterne, la cui parola viene pronunciata da altri attenendosi ai due punti di

vista rappresentati, l’uno dalla società patriarcale nella quale la donna vive e l’altro

dalla superiorità, anche in questo caso maschile, imposta sulla donna dall’uomo

colonizzatore. Spivak scrive infatti: «I would say that for me the question of the

abject is very closely tied to the question of being aboriginal, rather than a

reinscription of the subject»125.

Per quanto riguarda la subalterna, Spivak fa l’esempio del Sati, un’usanza indiana

che rendeva la donna vedova prima come soggetto ed esempio della brava donna,

poi come oggetto delle pretese maschili, non solo della società patriarcale, ma anche

delle pretese ideologiche dell’impero britannico in India. Il Sati consisteva

nell’auto-immolazione della donna vedova indù nel rogo del marito, un rituale che

non era sempre praticato e non dipendeva dalla casta o dalla classe di appartenenza.

Nel momento in cui questo rito fu abolito dagli inglesi, si trattava di un caso del

122 IAIN CHAMBERS (a cura di), 2006, p. 43. 123 Cfr. GAYATRI C. SPIVAK, 2004, p. 162. 124 Ivi, p. 286. 125 “Criticism, Feminism, and The Institutionˮ with Elizabeth Grosz, in SARAH HARASYM (edited

by), 1990, p. 10.

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tipo «uomini bianchi stanno salvando donne scure da uomini scuri» difeso da una

frase come «le donne volevano morire», dove in entrambi i casi la voce delle donne

risultava comunque inaudibile, nonostante il Sati rappresentasse una continuità

delle origini. Spivak esprime il suo dissenso sempre con degli interrogativi: «perché

quello di “marito” diventa un nome appropriato per l’alterità radicale? Perché

“essere” equivale a “essere moglie”?»126. E ancora, scrive Spivak, «mi domando:

com’è possibile voler morire in un rogo, nel lutto rituale di un marito?»127.

L’essere donna comporta così una doppia subalternità: quella di essere nativa e non

occidentale, e quella di essere donna internamente a una cultura maschilista e

patriarcale: la base di questa riflessione parte dalla repressione commessa nei

confronti della donna, la quale è costretta a tacere ed è impossibilitata ad esprimersi

come vorrebbe, a causa dell’“assenza” del corpo, ancora prima dell’assenza della

voce. Allora «l’immagine dell’imperialismo (o della globalizzazione) come

fondatore di una buona società viene marcata dall’adesione all’idea della donna

come oggetto di protezione della sua stessa gente. Come si dovrebbe esaminare

questa dissimulazione della strategia patriarcale che, apparentemente, concede alla

donna la libera scelta in quanto soggetto?»128. Nella continuità della tradizione la

donna è strumento sessuale dell’imperialismo e del patriarcato, allora l’obiettivo di

Spivak consiste nel rendere discontinua quella continuità, affinché ci sia, per la

donna, uno svuotamento del suo significato come strumento129 e, per l’uomo, uno

svuotamento del suo significato di fallocentrismo. Per capire questo concetto

Spivak ha scelto di fare l’esempio, tratto dall’Anthropologie Structurale, degli studi

sull’organizzazione delle società indigene del Mato Grosso e dell’Amazzonia,

sviluppati da Claude Lévi-Strauss, grazie all’applicazione della linguistica

strutturale in ambito antropologico. Questo studio evidenziava che anche le società

umane avessero una struttura costante e immutabile, parallelamente allo studio sulla

lingua concepita come struttura.

L’osservazione antropologica e la conseguente teoria sulle strutture di parentela di

questi gruppi tribali è, per esempio, uno degli aspetti presi in considerazione dal

126 GAYATRI C. SPIVAK, 2004, p. 301. 127 Ivi, p. 294. 128 Ivi, p. 302. 129 GAYATRI C. SPIVAK, 1988a, p. 220.

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femminismo per sfatare il concetto di simbolico, in particolare relativo alla donna,

all’interno di questo tipo di strutture. Ad esempio, Lévi-Strauss individua che «il

tabù dell’incesto si fonda […] sulla necessità dell’esogamia, ovvero sullo scambio

delle donne quale fondamentale strutturazione della società attorno al nucleo

patriarcale ed eterosessuale»130. Lo psicanalista Lacan ha trovato, nello studio di

Lévi-Strauss, una conferma del concetto di “simbolico” «quale dimensione

atemporale e universale di strutturazione dell’esperienza umana»131, e spiega che

«un simbolo non è altro che un operatore di struttura, un mezzo per effettuare

opposizioni distintive, delle combinazioni necessarie all’esistenza di una struttura

significante. È essenzialmente un’espressione indiretta. La sua condizione è di non

essere ciò che rappresenta»132. La figura della Sati può rientrare allora, grazie al

linguaggio, nel simbolismo di tipo sociale e culturale dell’India, mentre per

l’Occidente si diffonde sotto forma di immaginario e produce delle identificazioni

utili per organizzare il sistema coloniale.

Nello specifico, il tratto che più interessa a Spivak è quello femminile; infatti, in

base a questi studi, le donne configuravano come strumenti della parentela, dato

che i regimi matrimoniali prevedevano che le donne dovessero circolare ed essere

oggetto di scambio fra diversi gruppi umani.

Alla luce di questi studi, Spivak analizza la figura femminile nel contesto indiano

e, a tal proposito, Lidia Curti scrive: «nella sua analisi del rito della sati, Spivak

aveva mostrato che la subalterna non può parlare, stretta, da un lato, tra le spire

della tradizione indù, che sin dalla mitologia più antica l’ha posta in condizione

subordinata, l’ha sottoposta alla prova del fuoco per dimostrare di essere sacra, e,

dall’altro, l’imperialismo britannico, che ha inteso salvarla dall’uomo di pelle scura

dall’alto della sua supposta missione civilizzatrice»133. «So we look at the female

subject, at the subject in the margins of the periphery, the subject where you find it

really, in terms of its place, of its constitution»134.

130 JUDITH BUTLER, 2014, p. 19. 131 Ibidem. 132 ANIKA RIFFLET-LEMAIRE, Introduzione a Jacques Lacan, Astrolabio, Roma, 1972, pp. 89-90. 133 LIDIA CURTI, “Percorsi di subalternità: Gramsci, Said, Spivak”, in IAIN CHAMBERS (a cura di),

2006, p. 25. 134 “Criticism, Feminism, and The Institutionˮ with Elizabeth Grosz, in SARAH HARASYM (edited

by), 1990, p. 28.

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Nonostante il Sati fosse stato abolito successivamente dall’amministrazione

inglese, inizialmente le intenzioni inglesi nei confronti di questo rito furono poco

chiare e non si capiva se fin da subito ci fosse una condanna da parte inglese; tanto

che gli inglesi, una volta abolita questa pratica nel 1829135, finirono per mettere in

contrasto gli indù che praticavano tale rito e gli indù che non lo praticavano affatto.

In entrambi i casi si distinguevano sempre l’uomo come agente e la donna come

vittima, la quale finché non si fosse immolata nel rogo del marito morto, non si

sarebbe liberata del proprio corpo: in tal senso avere un corpo femminile veniva

interpretato come una condanna136. L’equivoco del fenomeno risiede nel significato

della parola: sat va a identificare l’essenza andando oltre le definizioni di genere

umano e avvicinandosi all’essenza divina; sati, la corrispondente parola femminile

significa “brava moglie”, che è stata erroneamente trasposta linguisticamente dagli

inglesi con suttee per identificare “il rogo della sati”. Ciò significa che è stato

conferito alla sati il doppio significato di “brava moglie” e di “sacrificio” sul rogo

del marito defunto, interpretato sulla doppia base del patriarcato indù e

dell’imperialismo inglese. Come spiega anche Iuliano, l’imperialismo considerava

l’abolizione del sati grazie a «gli uomini bianchi salvano le donne di colore dagli

uomini di colore», il nativismo invece riteneva che «le donne volevano

effettivamente morire»137. A questo punto anche «il colore della pelle e il

comportamento femminile partecipano a stabilire una gerarchia culturale con gli

uomini bianchi al vertice e gli africani neri in basso»138. Loomba conclude che «la

barbarie degli uomini indigeni diventa una sicura giustificazione per il dominio

coloniale, richiede una politica coloniale e influenza i contatti coloniali diretti.

D’altro canto, l’interferenza degli uomini bianchi nella “loro” cultura catalizza

l’opposizione degli indigeni»139.

«To many of them sati became an important proof of their conformity to older

norms at a time when these norms had become shaky within»140.

135 FIORENZO IULIANO, 2012, p. 177. 136 GAYATRI C. SPIVAK, 2004, pp. 307-308, 310. 137 FIORENZO IULIANO, 2012, p. 177. 138 ANIA LOOMBA, 2000, p. 156. 139 Ibidem. 140 GAYATRI C. SPIVAK, Can the Subaltern speak?, 1988b, http://planetarities.web.unc.edu/fi-

les/2015/01/spivak-subaltern-speak.pdf, p. 94.

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Si trattava allora di

una manipolazione della formazione del soggetto femminile attraverso una

contronarrazione artefatta della coscienza della donna, e dunque dell’essere della

donna, e dunque dell’essere-brava della donna, e dunque il desiderio della brava

donna, e dunque il desiderio della donna: cosicché, dal momento che il Sati non era

la regola immutabile per le vedove, il suicidio sanzionato poteva paradossalmente

diventare il significante della donna come eccezione. [...] Tra la formazione

patriarcale del soggetto e la costituzione imperialista dell’oggetto, è lo spazio della

libera volontà, dell’agentività del soggetto sessuato come femminile a essere

efficacemente cancellata141.

«For the “figure” of woman, the relationship between woman and silence can be

plotted by women themselves; race and class differences are subsumed under that

charge. […] If, in the context of colonial production, the subaltern has no history

and cannot speak, the subaltern as female is even more deeply in shadow»142.

Soltanto alla donna era riservata la pratica dell’autoimmolazione sul rogo del marito

morto, e quei pochi esempi maschili, citati nell’antichità indù su questo tipo di rito,

si riferiscono sempre a una struttura gerarchica di dominio e sottomissione, in

quanto l’autoimmolazione avveniva sul rogo di un maestro o di una figura

superiore. Ma Spivak spiega che «this suicide that is not suicide may be read as a

simulacrum of both truth-knowledge and piety of place» e l’autoimmolazione

trasposta alla figura femminile consente che «the dead husband becomes the

exteriorized example and place of the extinguished subject and the widow becomes

the (non)agent who “acts it out”»143.

In questo modo, il pretesto della società patriarcale consiste nel rendere la donna

oggetto di protezione, causando l’instabilità del significante “donna”, la quale,

attraverso il sacrificio, conferisce al marito il potere esemplare di uomo e alla donna

il potere del coraggio: la donna è oggetto e possesso e «the man retains legal

property rights over the product of a woman’s body»144. L’opposizione tra uomo e

donna si riferisce anche allo stile di vita, pubblico e centrale per l’uomo, privato e

marginale per la donna145. Di conseguenza il linguaggio crea l’ideologia, come

141 GAYATRI C. SPIVAK, 2004, p. 248. 142 GAYATRI C. SPIVAK, 1988b, pp. 82-83. 143 Ivi, p. 96. 144 GAYATRI C. SPIVAK, 1988a, p.79. 145 Ivi, p. 103.

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infatti sostiene Michail Bachtin: «ideology as language is an effect that assumes a

subject for its cause, defining it within a certain convention of signification. […]

Language as ideology is the expression of a (group) subject who must constantly

assure us, and himself, that he is not merely of the group but also unique»146.

Nel sistema coloniale la struttura ideologica poteva essere costruita con il consenso

volontario o con la violenza, ma nel caso del rito del Sati, Spivak spiega che «all

through the mid and late-eighteenth century, in the spirit of the codification of the

law, the British in India collaborated and consulted with learned Brahmans to judge

whether suttee was legal by their homogenized version of Hindu law. The

collaboration was often idiosyncratic, as in the case of the significance of being

dissuaded»147. Ciò comportò che questo rito si diffondesse maggiormente,

soprattutto nel Bengala tra XVIII e XIX secolo, in cui l’usanza locale prevedeva

che le vedove potessero ereditare il patrimonio del marito e il rito fu un pretesto per

gli inglesi per combattere una battaglia ideologica contro i nativi. La donna poteva

sempre retrocedere dalla decisione di auto-immolazione ma questo ritiro veniva

interpretato come ribellione e disubbidienza, un caso che faceva emergere

l’ambiguità della posizione degli indigeni che vedevano nel rituale il simbolo «della

purezza, della forza e dell’amore di queste donne che si sacrificavano»148. Viene

anche sottolineato che «la gravità del sati consisteva nel fatto che fosse

ideologicamente investito come “ricompensa”, proprio come la gravità

dell’imperialismo consisteva nell’essere ideologicamente investito come “missione

sociale”»149.

In Can the Subaltern speak?, viene sollevato il problema del silenzio femminile

relativo al rituale del sati, infatti le donne non venivano prese in considerazione

nelle discussioni e questo silenzio veniva interpretato come «violenza combinata

del colonialismo e del patriarcato». Loomba sostiene dunque che «le donne non

sono soltanto uno spazio simbolico, ma veri bersagli dei discorsi colonialisti e

nazionalisti» e «i patriarcati coloniali e indigeni collaborarono spesso per “tenere le

donne al loro posto” […] Questo non per opporre il “simbolico” al “reale”, ma per

146 Ivi, p. 121. 147 GAYATRI C. SPIVAK, 1988b, p. 97. 148 GAYATRI C. SPIVAK, 2004, p. 306. 149 Ivi, pp. 306-307.

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ricordare che il simbolismo dà forma ai ruoli che le donne sono chiamate ad

assumere»150. Le donne sono così forcluse perché «the subaltern as female cannot

be heard or read»151.

Fondamentali furono allora i movimenti nazionalisti anche da parte delle donne

durante la fase gandhiana del non-collaborazionismo, consistenti in una forte

mobilità femminile, ma sempre molto ostacolati dalla tradizione patriarcale: le

donne potevano mobilitarsi ma «i loro ruoli erano visti come estensioni delle loro

identità domestiche».152 Dunque «between patriarchy and imperialism, subject-

constitution and object-formation, the figure of the woman disappears, not into a

pristine nothingness, but into a violent shuttling which is the displaced figuration

of the “third-world woman” caught between tradition and modernization»153.

Spivak sostiene che sono gli altri a imporci la nostra marginalità, per questo è

necessario posizionarsi al centro154, annullando il concetto di marginalità che viene

etichettato alla donna, non solo dal contesto coloniale ma anche da quello

patriarcale. La figura femminile è «gendered subaltern»155 e «her continuing

heterogeneity, her continuing subalternization and loneliness have defined the

subaltern subject for me»156. Lo spostamento della figura femminile dai margini al

centro comporta anche un decentramento strutturale del sistema egemonico, dunque

mettere in discussione i rapporti tra il centro e la periferia del sistema coloniale è lo

strumento grazie a cui può avere inizio la decostruzione. Si tratta prima di tutto di

una decostruzione interna al contesto postcoloniale per analizzare la fase coloniale

e la subalternità del colonizzato, in secondo luogo è la decostruzione interna al

contesto patriarcale per capire quali possono essere gli strumenti di emancipazione

dalla subalternità femminile.

150 ANIA LOOMBA, 2000, pp. 216-217. 151 Cit. in PAMELA DE LUCIA, 2013, p. 110. 152 Ivi, p. 218. 153 GAYATRI C. SPIVAK, 1988b, p. 102. 154 “Strategy, Identity, Writingˮ with John Hutnyk, Scott McQuire and Nikos Papastergiadis, in

SARAH HARASYM (edited by), 1990, p. 41. 155 GAYATRI C. SPIVAK, 1988b, p. 103. 156 Ibidem.

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2.2 Leggere la subalternità con la decostruzione di Jacques Derrida

Il metodo decostruzionista rappresenta per Spivak il mezzo più efficace per le

riflessioni sul postcolonialismo rivolte soprattutto al femminismo, dopo una

formazione filosofica che va da Kant ed Hegel al marxismo alla psicoanalisi di

Freud. La formazione orientale e nel contempo occidentale permette a questa

studiosa di creare un ponte tra Occidente e Oriente, ma anche di riflettere su come

questo rapporto agisce a livello collettivo e individuale:

Now my crituque of imperialism is not a principled production. I found as I was

working through my own disciplinary production, the influences that I was working

with, where Marxism itself must be included – I found that there was nothing else

that I could do. To an extent I want to say that I am caught within the desire of the

European consciousness to turn towards the East because that is my production. But

I am also trying to lever it off – once again this is a deconstructive project if you like

– to raise the lid of this desire to turn toward what is not the West, which in my case

could very easily be transformed into just wanting to be the “true native”. I could

easily construct, then, a sort of “pure East” as a “pure universal” or as a “pure

institution” so that I could then define myself as the Easterner, as the marginal or as

specific, or as the para-institutional. But I am trying to see how much in fact I am

caught within the European desire toturn towards the East; but how it has become

doubly displaced. I think my present work is to show in fact the limits of the theories

of interpretation that I am working with are revealed through the encounteur of what

can be defined as “non-Western material”157.

L’obiettivo è infatti quello di rendere gli studi postcoloniali aggiornati e con

maggior comunicazione interdisciplinare, perciò Spivak individua nell’intellettuale

un ruolo importantissimo perché è «colui/colei che si fa interprete delle strutture

epistemiche represse, marginalizzate o criminalizzate dalle strutture di potere»158.

Iuliano approfondisce questo indirizzo di studi spivakiani scrivendo che

l’intellettuale legge il testo obliterato della subalternità e prova a individuare i

raccordi possibili tra esso e la realtà storica del presente globalizzato. Per questo

motivo la decostruzione spivakiana diventa, specularmente, un gesto estremo di

militanza politica nel suo programmatico rifiuto di recuperare le origini, prendendo

così le distanze dalle seduzioni essenzializzanti dell’antropologia occidentale, e

invece cercando di collocare le pratiche culturali e politiche dei gruppi subalterni

157 “Criticism, Feminism, and The Institutionˮ with Elizabeth Grosz, in SARAH HARASYM (edited

by), 1990, p. 8. 158 FIORENZO IULIANO, 2012, p. 138.

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sull’orizzonte mobile della testualità, intesa nella sua più ampia accezione di

processo prodotto da, e produttivo di, differenze159.

Jacques Derrida è stato uno dei principali punti di riferimento per Spivak ed è stata

proprio quest’ultima ad aver tradotto nel 1976 il testo derridiano dal titolo De la

grammatologie, pubblicato nel 1967. Per Spivak «l’opera di Derrida ha una

immediata utilizzabilità pratica per rendere conto di quanto ci sia di vacillante nel

tentativo occidentale (tardo o post-coloniale) di rapportarsi all’alterità del sud del

mondo»160.

Il pensiero di Derrida parte dall’idea di “logocentrismo” o “fonocentrismo” per

indicare l’importanza del logos e della phoné nella cultura occidentale rispetto alla

parola scritta. La scrittura viene considerata da Derrida come una vera e propria

architettura, in cui è possibile individuare la presenza del segno, una testimonianza

che permetta la différance. Egli scrive che «la dif-ferenza è l’origine dell’esperienza

dello spazio e del tempo, questa scrittura della differenza, questo tessuto della

traccia permette alla differenza fra lo spazio e il tempo di articolarsi, di apparire

come tale nell’unità di un’esperienza»161. La scelta derridiana di utilizzare la parola

différance rispetto a différence deriva dal fatto che la prima indica «azione in corso

del differire», la seconda indica le differenze come «i prodotti o gli effetti costituiti»

del differire; dove per differire si intende, da una parte, «tener conto del tempo e

delle forze», dall’altra, «alterità» e «spaziatura». In secondo luogo la differenza è

ciò che permette una distanza e la re-présentation indica una rappresentazione e al

contempo una ripresentazione162.

Lo stereotipo costruito dall’occidentale per l’orientale rientra nel discorso

derridiano, nel momento in cui la différance diventa strumento per la re-

présentation: ciò significa che le differenze sono valide per rappresentare e per

ripresentare qualcosa che fino a quel momento era dato per certo e che «è piuttosto

una “tessitura” di similarità e differenze che rifiuta di scindersi in opposizioni

binarie definitive»163. Di conseguenza la decostruzione derridiana può fornire un

159 Ivi, pp. 138-139. 160 Ivi, p. 175. 161 JACQUES DERRIDA, Della grammatologia, Jaca Book, Milano, 1969, p. IX. 162 Ivi, p. XIII. 163 STUART HALL, Il soggetto e la differenza. Per un’archeologia degli studi culturali e postcoloniali,

Meltemi, Roma, 2006, p. 289.

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mezzo per parlare dei due aspetti linguistici, quello dell’oralità e quello della

scrittura, fondamentali per riflettere sul modo in cui il colonialismo ha influito nei

territori coloniali e nei confronti dei nativi stessi. Prendendo in esame anche

l’aspetto linguistico, l’epistemic violence di Spivak ha un ulteriore sostegno critico

perché la violenza si realizza anche verbalmente e tacitamente164, oltreché per

mezzo di stereotipi oppositivi all’interno del sistema coloniale. Ciò significa

mettere in discussione i significati definitivi e riconsiderarli in maniera dinamica,

ovvero facenti parte di un processo e non di un prodotto. Si tratta di un nuovo tipo

di “localismo” che entra nel mondo globalizzato come forma di resistenza e che

sposta gli spazi, portando «i margini al centro», tratto tipico del fenomeno della

migrazione umana.

Questo aspetto si riflette anche nella testualità e allora «la razionalità […] che

comanda la scrittura in tal modo estesa e radicalizzata, non è più uscita da un logos

e inaugura la distruzione, non la demolizione ma la de-sedimentazione, la de-

costruzione di tutte le significazioni che hanno la loro origine in quella di logos»165.

In questo modo la decostruzione ridefinisce il pensiero filosofico e letterario

attraverso un lavoro di smantellamento e di ricomposizione applicabile al contesto

postcoloniale dove:

Decostruire l’opposizione equivale allora, anzitutto, a rovesciare in un determinato

momento la gerarchia […] Bisogna quindi, mediante una struttura doppia,

stratificata, scalata e scalante, marcare lo scarto fra l’inversione che abbassa ciò che

sta in alto, decostruendone la gerarchia sublimante o idealizzante, e l’irrompente

emergenza di un nuovo «concetto», concetto di ciò che non si lascia più, né mai si è

lasciato, comprendere nel regime anteriore166.

La tecnica decostruttiva è utile agli studi postcoloniali per far crollare la

considerazione dell’informante nativo, il quale, secondo l’ideologia eurocentrica, si

deve adeguare al colonizzatore e allo stesso tempo essergli necessario per poter

sostenere e giustificare la distinzione tra il Sé e l’Altro. Perciò «“costruzione” non

deve essere inteso come un processo che esclude completamente le risposte e le

reazioni di quelli che venivano rappresentati. […] Le false rappresentazioni o

164 JACQUES DERRIDA, 1969, p. X. 165 Ivi, p. 14. 166 MAURIZIO FERRARIS, La svolta testuale. Il decostruzionismo in Derrida, Lyotard, gli «Yale

Critics», Edizioni Unicopli, Milano, 1984, p. 18.

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costruzioni devono essere spiegate, piuttosto che semplicemente attribuite a nozioni

senza tempo e immutabili del razzismo e dell’Orientalismo»167.

La differenza derridiana comporta una messa a confronto tra l’assenza e la presenza

e «senza la possibilità della dif-ferenza, il desiderio della presenza come tale non

troverebbe il suo respiro. Ciò vuol dire contemporaneamente che questo desiderio

porta in sé il destino della propria insaziabilità. La dif-ferenza produce ciò che

interdice, rende possibile ciò che rende impossibile»168. Se questa differenza viene

adattata al contesto coloniale, essa riesce a generare il desiderio di potere e dunque

di presenza dell’europeo colonizzatore, e a imporre il vincolo con l’assenza del

nativo che non può parlare. Perciò “decostruire” significa spostare l’attenzione dal

modello a lungo seguito all’anti-modello a lungo soppresso e silenziato e «mettere

in discussione l’autorità del soggetto della ricerca senza paralizzarlo, trasformando

continuamente le condizioni di impossibilità in possibilità»169.

Anche la parte nativa ha fatto uso della differenza concepita all’interno del sistema

coloniale e secondo Bhabha non bisogna confondere la «differenza culturale» con

la «diversità culturale», ma capire come «le trasmutazioni e traduzioni delle

tradizioni indigene nel loro tentativo di opporsi all’autorità coloniale evidenziano

come il desiderio del significante e l’indeterminatezza dell’intertestualità potessero

essere sfruttate a fondo nella lotta postcoloniale contro le relazioni egemoni di

potere e conoscenza»170. Inoltre il rapporto gerarchico tra le parti nella struttura

coloniale consente di comprendere i «processi di creazione della soggettività resi

possibili (e plausibili) dal discorso degli stereotipi». Infatti è proprio l’alterità «al

tempo stesso oggetto di desiderio e derisione, che dà vita a una differenza contenuta

tutta nell’immaginario sull’origine e l’identità» e «quest’interpretazione, inoltre,

rivela i confini del discorso coloniale, consentendo una trasgressione di quei limiti

proprio a partire dallo spazio di tale alterità»171.

Il rapporto ambivalente che esiste tra la parte colonizzata e la parte colonizzatrice

consiste nella reciproca volontà e, nel contempo, repulsione dell’altro; ad esempio,

seguendo il discorso di Fanon, Homi Bhabha sviluppa lo sconvolgimento psichico

167 ANIA LOOMBA, 2000, p. 117. 168 JACQUES DERRIDA, 1969, p. 165. 169 Cit. in PAMELA DE LUCIA, 2013, p. 100. 170 HOMI K. BHABHA, 2001, p. 53. 171 Ivi, p. 98.

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del colonizzato, che ha dovuto rinunciare a «diventare bianco, come gli è stato

insegnato di desiderare, o liberarsi dell’essere nero che ha imparato a

disprezzare»172. Bhabha ritiene che la definizione di Fanon, «pelle nera, maschere

bianche», non sia da separare perché svela «un’immagine duplice, di

dissimulazione: è essere nello stesso tempo almeno in due luoghi diversi [...] -

essere diverso da quanti sono diversi fa sì che tu resti sempre uguale a te stesso»173.

Ed è in questa dissimulazione che risulta difficile intravedere ciò che è vero da ciò

che non lo è, perché l’ambivalenza tra l’assenza e la presenza non consente di

distinguerle e dunque «ciò che è precluso al soggetto coloniale – tanto al

colonizzatore quanto al colonizzato – è quella forma di negazione che dà accesso al

riconoscimento della differenza»174. Si verifica ciò che in termini lacaniani è

definito come Immaginario, cioè «trasformazione che si verifica nel soggetto giunto

alla fase formativa dello specchio, quando riconosce un’immagine distinta che gli

consente di postulare una serie di equivalenze e relazioni di identità fra gli oggetti

del mondo circostante»175. Bhabha spiega che, in tale mutamento identitario, il

soggetto percepisce un’immagine di sé confusa, fuori posto e divergente, contro la

quale agiscono «il narcisismo e l’aggressività» del potere coloniale e dove «la

“pienezza” dello stereotipo – la sua immagine in quanto identità – è sempre

minacciata dalla “mancanza”»176. La costruzione dell’immaginario possiede il

grande potere di rendere lo stereotipo vero e saldo ma anche statico nella sua

architettura ideologica allo status di subalternità.

Creare stereotipi non vuol dire creare una falsa immagine atta a diventare capro

espiatorio delle pratiche discriminatorie; si tratta invece della creazione di un testo

ben più ambivalente, un testo di proiezione e introiezione che mette in opera strategie

metaforiche e metonimiche, rimozione, eccessiva determinazione, colpa,

aggressività; è il mascherare e lo scindersi di conoscenze “ufficiali” e fantastiche per

creare le varie posizioni ed opposizioni del discorso razzista177.

Il nativo acquisisce caratteristiche che lo rendono diverso dal colonizzatore ma

espresse in modo tale da desiderare il ruolo occidentale e, nel contempo,

172 ANIA LOOMBA, 2000, p. 175. 173 Ivi, p. 176. 174 HOMI K. BHABHA, 2001, p. 110. 175 Ivi, p. 112. 176 Ibidem. 177 Ivi, p. 119.

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disprezzarlo. Allora egli è «un selvaggio (cannibale), e tuttavia è il più ubbidiente e

onorato dei servitori (che recano cibo); è l’incarnazione della sessualità dilagante e

al tempo stesso innocente come un bambino; è mistico, primitivo, semplicione e

tuttavia è anche il più mondano e scaltro mentitore, in grado di manipolare le forze

sociali».178 La struttura coloniale viene allora giustificata per mezzo di questi

atteggiamenti della parte nativa che sono «causa ed effetto del sistema» e «la

mummificazione culturale conduce a una mummificazione del pensiero individuale

[…] quasi fosse impossibile per un uomo evolvere se non nel quadro di una cultura

che lo riconosce e che egli decide di accogliere»179. Perciò il nativo diventa

metonimia del sistema coloniale per mezzo di una dissimulazione che non consente

né la presenza né l’assenza o le consente entrambe contemporaneamente senza

distinzione. Come sostiene Derrida:

la rappresentazione è un processo ambivalente, che implica l’assenza di ciò che viene

reso nuovamente presente, e quest’assenza non può essere considerata come

meramente contingente. […] Il potere dell’immagine si estende al di là della

riproduzione dei dati sensoriali: l’immaginazione imitativa può trasformare le

strutture “interiori”, non sensoriali, dell’esperienza (sentimenti, emozioni, passioni)

in oggetti di percezione, e può perciò rappresentare come presenze reali e concrete

delle esperienze di coscienza prive di esistenza obiettiva180.

Ma l’assenza e la presenza sono due aspetti della stessa figura, quella del nativo,

che possono offrire degli spunti di riflessione per capire la storia coloniale,

individuabili nella testualità. Infatti, nella testualità, il linguaggio permette di

smontare i meccanismi che stanno alla base del discorso coloniale, mentre la

scrittura, insieme alla filosofia, può dissertare l’univocità dei testi e avvalorare la

pluralità dei significati. La scrittura diventa allora un modo per riportare alla luce

la voce taciuta, affinché anch’essa possa esprimere il proprio punto di vista sulla

realtà a più livelli, primo fra tutti quello linguistico.

Il silenzio delle voci native rientra in quello che Spivak chiama “forclusione”: il

termine lacaniano fa riferimento al processo messo in atto dal colonizzatore nei

confronti del nativo. La forclusione consiste nel parlare dell’oggetto (in questo caso,

178 Ivi, p. 120. 179 Ivi, pp. 113-114. 180 PAUL DE MAN, Cecità e visione. Linguaggio letterario e critica contemporanea, Liguori, Napoli,

1975, pp. 154-155.

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il nativo) per rafforzare il soggetto (in questo caso, il colonizzatore) e ciò avviene

in due fasi: prima con l’«introduzione nel soggetto» e poi con l’«espulsione dal

soggetto». Scrive Spivak: «penso all’“informante nativo” come nome per quel

marchio di espulsione dal nome di Uomo – un marchio che elide l’impossibilità

della relazione etica»181. Inoltre scrive che «qui possiamo vedere qualcosa che si

avvicina al progetto di produzione dell’immagine di un Padrone europeo come

super-io (paranoico-schizofrenico), una figura spaventosa in cui il desiderio e la

legge devono coincidere: il nostro desiderio è la tua legge se governi in nome

nostro, anche prima che il desiderio sia stato articolato come legge a cui

obbedire»182. Spivak utilizza il termine “informante nativo” per individuare «una

figura che nell’etnografia può soltanto fornire dati che devono essere interpretati

dal soggetto di conoscenza»183. L’informante nativo di cui parla Spivak non

rappresenta colui che in prima persona spiega se stesso e dunque informa l’Altro

sulla sua natura, ma colui che in terza persona viene rappresentato dall’Altro con

una natura che non gli appartiene. Spivak si interessa maggiormente a questo

aspetto che caratterizza la rappresentazione letteraria dell’uomo nero in confronto

all’uomo bianco e della donna in confronto all’uomo nero e all’uomo bianco.

Il silenzio come forma inespressa del nativo coincide con ciò che Rey Chow chiama

«intraducibilità del Terzo Mondo nel linguaggio del Primo Mondo», concetto che

può essere messo in discussione, grazie all’analisi di Assia Djebar sulla scrittura

francese.

La parola del nativo non è soltanto taciuta ma anche da giustificare:

Forse, allora, la traducibilità diviene una parola molto più preziosa nei suoi rimandi,

poiché non riguarda solo la delicata relazione tra sistemi culturali e linguistici

diversi, e sistemi del sapere diversi, ma l’intima riflessione sulla modernità come

complesso e intricatissimo gioco di inclusioni ed esclusioni dallo spazio e dal tempo

della ragione occidentale. La traducibilità ci conduce, dunque, inevitabilmente, a una

riflessione sull’ordine voluto per sistemare il mondo, e forse sugli ordini che

potrebbero essere possibili184.

La traducibilità riguarda il livello parlato e il livello scritto della lingua: il problema

181 GAYATRI C. SPIVAK, 2004, p. 31. 182 Ivi, pp. 230-231. 183 Ivi, p. 70. 184 IAIN CHAMBERS (a cura di), 2006, p. 44.

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linguistico si è così verificato anche nella trasmissione dei testi, la cui traduzione

europea ha impedito che ci fosse uno scambio linguistico tra le due parti, quella del

colonizzatore e quella del nativo. Il rapporto gerarchico si manifesta come un

dovere di adeguamento alla cultura altrui, ma nel contempo fa risaltare la differenza

di grado tra l’Europa e le colonie. «Così la scrittura per Derrida è proprio ciò che

nel presentarsi manifesta una assenza, quella della voce vivente di cui lo scritto

viene considerato una traduzione, o del “referente” di cui si suppone che il segno

grafico sia la traccia»185. Ma è grazie alla scrittura che l’assenza diventa presenza,

perché il silenzio della parola, che da Foucault viene associata alla follia, può

finalmente avere una voce in un testo scritto. La follia del potere consiste in questo:

«ogni nostro linguaggio europeo, il linguaggio di tutto ciò che ha partecipato, da

vicino e da lontano, all’avventura della ragione occidentale, è l’immensa

delegazione del progetto che Foucault definisce sotto la specie della cattura o

dell’oggettivazione della follia»186.

La follia, il potere, la superiorità europea rappresentano la base per applicare la

tecnica decostruttiva all’interno degli studi postcoloniali: l’Altro è diventato un

interessante oggetto di studio perché rappresenta la figura che è sempre stata

lasciata in sospeso e che non ha avuto modo di esprimere, non solo una prospettiva

diversa da quella canonica, ma anche la realtà delle circostanze. Affinché ciò

avvenga, Spivak propone di superare l’eurocentrismo e i confini nazionali per

giungere all’idea di «planetarietà» e, in un’intervista rilasciata a Elizabeth Grosz,

ha spiegato il suo grande interesse per la filosofia decostruzionista:

When I first read Derrida I didn’t know who he was, I was very interested to see that

he was actually dismantling the philosophical tradition from inside rather than from

outside, because of course we were brought up in an education system in India where

the name of the hero of that philosophical system was the universal human being,

and we were taught that if we could begin to approach an internalization of that

universal human being, then we would be human. When I saw that in France

someone was actually trying to dismantle the tradition which had told us what would

make us human, that seemed rather interesting too187.

185 MAURIZIO FERRARIS, 1984, p. 57. 186 JACQUES DERRIDA, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino, 1971, p. 45. 187 “Criticism, Feminism, and The Institutionˮ with Elizabeth Grosz, in SARAH HARASYM (edited

by), 1990, p. 7.

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Derrida è considerato un post-strutturalista, dove per strutturalismo si intende una

corrente filosofico-antropologica che, a partire dagli anni Sessanta, concepisce la

realtà umana dall’esterno come una struttura, fatta di elementi interconnessi e

interagenti. Un classico esempio è lo strutturalismo saussuriano in riferimento alla

lingua, che viene rappresentata con una sua struttura e con delle funzioni specifiche.

Il post-strutturalismo mette in discussione le certezze dello strutturalismo,

ricercando e analizzando, in questo caso nell’ambito degli studi postcoloniali, le

strutture esterne e, soprattutto, interne del sistema costruito dai colonizzatori

europei nelle colonie. Il post-strutturalismo concede al linguaggio un ruolo molto

importante perché «il linguaggio, che peraltro esiste prima dell’utente, rende

possibile la formazione di un soggetto. Il soggetto è dunque vuoto, senza contenuto

e totalmente dipendente dal linguaggio che determina ciò che si presenterà a lui.

Contrariamente a ciò che generalmente si accetta, il linguaggio non è un mezzo

tramite il quale il soggetto si esprime, ma diventa la condizione sine qua non per

poter parlare di un soggetto»188.

Il sistema coloniale può infatti essere considerato proprio come una struttura, il cui

funzionamento avviene su molteplici livelli in grado di soddisfare le intenzioni

dell’europeo nei confronti del nativo. Un sistema di questo tipo è in grado di

funzionare grazie alle interpretazioni che vengono date ai soggetti coloniali

coinvolti, perciò «“ideology springs from and in turn influences systems of belief

and human practice”»189. Loomba scrive che «la figura centrale dei discorsi

occidentali dell’Umanesimo e dell’Illuminismo, il soggetto conoscente, si rivela

oggi in quanto colonialista maschio e bianco. L’analisi del discorso coloniale

aggiunge questa potente nuova dimensione alla convinzione post-strutturalista che

il significato è sempre contestuale e mutabile»190. Infatti la struttura permette che ci

sia un unico centro dal quale partono tutte le direttive e che si trovi «dentro la

struttura e fuori della struttura» in modo che «la sua matrice formale sarebbe […]

la determinazione dell’essere come presenza in tutti i sensi della parola»:

Da questo punto in poi si è dovuto pensare la legge che dominava in qualche modo

il desiderio del centro nella costituzione della struttura, e il procedimento della

188 ANN VAN SEVENANT, La decostruzione e Derrida, Aesthetica, Palermo, 1992, p. 26. 189 Cit. in GAYATRI C. SPIVAK, 1988a, p. 121. 190 ANIA LOOMBA, 2000, p. 77.

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significazione che prescriveva i suoi spostamenti e le sue sostituzioni a quella legge

della presenza centrale; ma di una presenza centrale che non è mai stata se stessa,

che è sempre stata già trasferita fuori di sé nel suo sostituto. Il sostituto non si

sostituisce a qualcosa che, in qualche modo, gli sia pre-esistito. Da quel punto si è

dovuto cominciare a pensare che non c’era centro, che il centro non poteva essere

pensato nella forma di un essente-presente, che il centro non aveva un posto naturale,

che non era un posto fisso bensì una funzione, una specie di non-luogo nel quale si

producevano senza fine sostituzioni di segni191.

Mettere in discussione il centro significa decentrare l’intera struttura, ma, come

scrive Derrida «contrairement à l’apparence, “deconstruction” n’est pas une

métaphore architecturale. Le mot devrait, il devra nommer une pensée de

l’architecture, une pensée à l’oeuvre»192. Infatti la decostruzione non deve essere

associata alla distruzione, come erroneamente si è pensato, perché «agisce a partire

da costruzioni già esistenti», in questo caso la “costruzione” della struttura

coloniale.

Se il post-strutturalismo agisce sulla lingua e sulla cultura, esso agisce anche sulla

letteratura: ciò è avvenuto infatti anche con la crisi delle grandi narrazioni

occidentali, problema sollevato da Lyotard con la definizione di postmoderno. Il

postmoderno ha infatti messo in discussione le certezze delle filosofie del passato

e della letteratura che aveva queste come base di discorso.

A tal proposito Spivak sostiene:

I think if one can lump Derrida and Lyotard together in this way, I think what they

are noticing is that we cannot but narrate. So it’s not a question of waging war on

narratives, but they’re realising that the impulse to narrate is not necessarily a

solution to problems in the world. So what they’re interested in is looking at the

limits of narration, looking at narrativity, making up stories that tell us, “This is

history”, or making up stories that tell us, “This is the programme to bring about

social justice”193.

Internamente al post-strutturalismo, la decostruzione assume un’impronta più

specifica di scardinamento del meccanismo: de-costruire significa smontare la

costruzione per studiarla e analizzarla in tutte le sue parti, capire quali sono stati gli

errori e ricostruirla con una struttura che dia la giusta importanza alle parti

191 JACQUES DERRIDA, 1971, p. 361. 192 ANN VAN SEVENANT, 1992, p. 69. 193 “The Post-modern Condition: The End of Politics?” with Geoffrey Hawthorn, Ron Aronson, and

John Dunn, in SARAH HARASYM (edited by), 1990, p. 19.

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coinvolte. La ri-costruzione non può essere definitiva perché si cala in un contesto

molto diverso da quello coloniale e sempre soggettivo e individuale: la

ricostruzione della realtà postcoloniale avviene in un momento storico fatto di

contatti culturali che non definiscono cosa è giusto e cosa è sbagliato, ma

definiscono cosa una certa cultura può offrire ad un’altra cultura e viceversa. In

un’intervista, Spivak ha sostenuto che «Derrida is interested in how truth is

constructed rather than in exposing error»194 e soprattutto che è fondamentale che

la subalternità venga analizzata in base al contesto di riferimento per abbattere i

limiti del discorso occidentale195.

La tecnica decostruttiva può essere applicata a partire dalla critica al razzismo

mossa dai neri contro i bianchi, dovuta all’acquisizione del diritto, per i neri, di

vivere dove un tempo i bianchi avevano imposto diritti e doveri. A tal proposito

Spivak distingue forclusione ed esclusione e, nello specifico parla di forclusione

della violenza epistemica, del cromatismo e della forclusione della divisione

internazionale del lavoro esercitata dal soggetto coloniale (il colonizzatore)

sull’oggetto coloniale (il nativo); e scrive: «I was using it to mean the interested

denial of something»196.

L’importanza data alla testualità dell’Altro, per Spivak, consiste nel fatto che

gran parte della letteratura sull’incontro culturale, invece di esplorare i particolari

dell’alterità finisce per riaffermare i propri assunti etnocentrici; invece di raffigurare

lo spazio esterno alla “civiltà”, semplicemente codifica e preserva le strutture della

propria mentalità. Mentre la superficie di ogni testo coloniale persegue la

rappresentazione oggettiva degli incontri con tipi specifici di alterità, il “sottotesto”

valorizza la superiorità delle culture europee, del processo collettivo che ha mediato

tale rappresentazione. Questa letteratura è essenzialmente speculativa: invece di

considerare il nativo come un ponte verso il sincretismo, lo utilizza soltanto come

specchio per riflettere la propria immagine colonialista197.

Per questa studiosa, l’interesse principale è rappresentato dalle forme di violenza e

di oltraggio, commesse nel corso della storia dell’imperialismo, piuttosto che dalla

194 “Interview with Radical Philosophy” with Peter Osborne and Jonathan Ree, in SARAH HARASYM

(edited by), 1990, p. 135. 195 Cfr. GAYATRI C. SPIVAK, 1988a, p 209. 196 “The Intervention Interview” with Terry Threadgold and Frances Bartkowski in SARAH

HARASYM (edited by), 1990, p. 125. 197 MIGUEL MELLINO, 2005, p. 71.

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ricerca di un’identità nazionale intatta e pura198. Perciò, applicando un uso specifico

della decostruzione, è possibile mettere in discussione le rappresentazioni binarie

antitetiche, costruite dagli studiosi occidentali. Il metodo decostruzionista ha infatti

il merito di smantellare le idee occidentali a livello letterario e a livello storico e

conseguentemente anche a livello ideologico. Ciò è possibile grazie al ribaltamento

dei ruoli delle due parti in opposizione e al superamento della visione illuminista

del processo coloniale. Relativamente allo scambio dei ruoli, Iuliano riporta una

citazione di Dunn:

L’illuminismo sognava un universo dato dall’equilibrio della ragione, dall’equilibrio

morale di ragione e desiderio, e dall’equilibrio estetico e linguistico di realtà e

rappresentazione. Queste versioni idealizzate dell’autorità testuale e dell’unità del

soggetto, proprie dell’illuminismo, sono particolarmente instabili, e presuppongono

un processo di mediazione continuamente inclusivo. La decostruzione è parte di una

tradizione post-illuministica che cerca di pensare al di là dei limiti dei valori e delle

identità mediate dalla ragione199.

Alla luce del cambiamento di lettura del mondo coloniale e postcoloniale, Spivak

interpreta in questo modo la subalternità: «a functional change in a sign-system is

a violent event»200.

Facendo riferimento alla linguistica saussuriana, il segno linguistico, definito dal

rapporto tra significante e significato ed espresso in modo arbitrario, non deve

essere sottovalutato. Infatti, l’arbitrarietà del segno linguistico permette che ci sia

un legame convenzionale tra il significante e il significato, e non un legame

naturale. Se il discorso della linguistica strutturale saussuriana viene applicato al

colonialismo, si capisce come anche il sistema coloniale si affidi ad una struttura

convenzionale appunto, che riflette le esigenze e gli obiettivi dei colonizzatori. In

questo caso, l’abilità dell’Occidente è stata quella di spostare il significato della

struttura coloniale dal livello convenzionale al livello naturale, tenendo conto,

dunque, delle questioni relative al darwinismo sociale e razziale. Si capisce allora

come la decostruzione possa essere un ottimo metodo per abbattere questa struttura

costruita a tavolino e per ricostruirla con gli stessi elementi ma con ingranaggi

198 “The Intervention Interview” with Terry Threadgold and Frances Bartkowski in SARAH

HARASYM (edited by), 1990, p. 137. 199 Cit. in FIORENZO IULIANO, 2012, p. 15. 200 GAYATRI C. SPIVAK, 1988a, p. 197.

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diversi. La decostruzione deve partire da chi è stato coinvolto nella violenza

epistemica, pertanto la testualità letteraria può rappresentare un importante

esempio: la scrittura svela tutte le questioni irrisolte dall’epoca coloniale e diventa

un mezzo di autoanalisi per capire se stessi e il proprio ruolo nel contesto coloniale

e postcoloniale.

L’informante nativo è nella letteratura postcoloniale un punto di riferimento

prezioso perché ha fornito delle importanti testimonianze e letture nuove rispetto al

mondo culturale ibrido, tra tradizione e modernità. Tra gli informanti nativi che

hanno dato inizio alla letteratura del dépaysement, bisogna citare Salman Rushdie

che, come illustra Marfè, «è poi diventato il portavoce di una generazione di

scrittori di origine extraeuropea che ha messo in luce le contraddizioni e le illusioni

dell’eurocentrismo»201. Rushdie, autore di Midnight’s Children e Imaginary

Homelands, ha il merito di «disancorare la categoria di identità da ogni riferimento

geografico univoco»202.

Altre testimonianze importanti provengono da scrittori di origine asiatica, come V.

S. Naipaul, Amitav Ghosh, Hanif Kureishi, Dipesh Chakrabarty, che hanno messo

in discussione la letteratura occidentale e che «hanno infatti posto fine al

pregiudizio che per secoli ha associato lo status di viaggiatore agli occidentali e

quello di nativo agli abitanti del resto del mondo»203. Ad esempio, Naipaul ha dato

alla letteratura postcoloniale un’impronta cosmopolita e di contaminazione

culturale: è nato, infatti, nei Caraibi da una famiglia indiana e poi ha scelto di

spostarsi in Gran Bretagna, mentre Kureishi ha illustrato una realtà multietnica nel

contesto metropolitano contemporaneo204. Amitav Ghosh ha invece dato il suo

contributo di «mediazione interculturale» come nel libro In an Antique Land che

mette in relazione due culture, quella egiziana e quella indiana, che riescono a

dialogare senza la mediazione occidentale205.

Conclude Spivak, accogliendo così le parole di Foucault, «rendere visibile

l’invisibile può anche significare un cambio di livello, indirizzarsi ad uno strato di

201 LUIGI MARFÈ, “Imaginary Homelands. Rappresentazioni incrociate di Oriente e Occidente nella

letteratura di viaggio contemporanea”, in Between, Novembre 2011, vl. 1, n. 2, p. 1. 202 Ivi, p. 7. 203 Ivi, p. 5. 204 Ivi, pp. 5, 7. 205 Ivi, p. 8.

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materiale che fino a quel momento non aveva alcuna pertinenza per la storia e a cui

non era stato riconosciuto alcun valore morale, estetico o storico»206.

206 ANIA LOOMBA, 2000, p. 91.

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Capitolo III. La subalterna: da Oggetto a Soggetto

3.1 La subalternità femminile in Assia Djebar: il Soggetto, lo Spazio e il

Tempo

Assia Djebar, pseudonimo di Fatima-Zohra Imalayène, nasce a Cherchell nel 1936,

non lontano da Algeri, e la sua formazione scolastica avviene nell’ambito culturale

francese. La Francia aveva infatti assorbito l’Algeria tra le sue colonie a partire

dall’Ottocento e l’insegnamento scolastico della lingua araba era vietato o era a

vantaggio dei soli colonizzatori, ovvero la formazione culturale ebbe come

argomento la Francia, mentre l’Algeria sottostava a una sua progressiva

discriminazione all’interno delle scuole207.

Da una parte Assia viene educata alla lingua scritta francese, dall’altra mantiene

viva la lingua orale berbera grazie alla tradizione familiare materna: la sua scrittura

è effettivamente caratterizzata dal risalto della memoria storica collettiva e della

memoria autobiografica genealogica. Tra gli anni Sessanta e Novanta, si divide tra

l’Algeria e la Francia, definendosi femme en marche208 e sostenendo sempre, anche

da lontano, la compresenza di più culture all’interno del suo paese di origine, ma

percependo «un crescente disagio di fronte alla strisciante maschilizzazione dello

spazio pubblico nel suo paese»209. Il dilemma linguistico accompagnerà la sua

scrittura, tra il desiderio di usare la lingua araba, lingua ricca ed espressiva, e la

scelta di usare la lingua francese, la lingua del “padrone”, seppur unita a elementi

d’origine berbera e di arabo dialettale.

Le sue scelte linguistiche vengono influenzate dal contesto familiare, dato che il

padre, da insegnante, la indirizza verso la formazione francese sin da piccola,

mentre la madre le trasmette la dedizione alla tradizione della tribù berbera, infine

la nazione la direziona verso la lingua araba. Considerate insieme queste tre lingue

vengono sintetizzate nella definizione di “triangolo linguistico”, diventando esse

stesse dei fattori di introspezione personale. In Assia Djebar l’elemento linguistico

207 Cfr. ALISTAR HORNE, La guerra d’Algeria, Milano, Rizzoli, 2007, pp. 59-60. 208 RENATE SIEBERT, Voci e silenzi postcoloniali. Frantz Fanon, Assia Djebar e noi, Carocci, Roma,

2012, p. 42. 209 Ivi, p. 43.

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è fondamentale per capire il tipo di violenza progettato dalla Francia fin dai primi

decenni dell’Ottocento, quando l’occupazione dell’Algeria avvenne con una

conquista militare e una serie di soprusi che si sarebbero concretizzati

maggiormente con la creazione della colonia.

L’Algeria fu concepita dai francesi come un importante sbocco commerciale sin dal

XVI secolo, ma fu dal 1830 che venne occupata Algeri e il dominio francese si

estese, nonostante fossero molto forti le reazioni antifrancesi da parte delle

popolazioni arabe e berbere. La guerra tra i francesi e gli indigeni portò alla totale

sottomissione degli algerini nel 1879 e alla riorganizzazione amministrativa della

colonia. Come avvenne nell’India di Spivak, anche in Algeria i diritti tra forze

colonizzanti e forze colonizzate erano diversificati, in particolare con la privazione

violenta delle terre e delle abitazioni agli indigeni, oltre alla gestione europea del

sughero e delle miniere del territorio algerino. Said riporta le parole di Fanon a

proposito della parte colonizzata:

Per il popolo colonizzato il valore primordiale, perché il più concreto, è innanzitutto

la terra: la terra che deve assicurare il pane e, naturalmente, la dignità. Ma tale dignità

non ha niente a che vedere con la dignità della “persona umana”. Di questa persona

umana ideale egli non ha mai sentito parlare. Quel che il colonizzato ha visto sulla

sua terra, è che potevano impunemente arrestarlo, picchiarlo, affamarlo: e nessun

professore di morale mai, nessun prete mai, è venuto a ricevere i colpi al suo posto

né a dividere il suo pane con lui. Per il colonizzato, essere moralista è, molto

concretamente, far tacere la boria del colono, spezzare la sua ostentata violenza, in

una parola espellerlo direttamente dal panorama210.

Ci fu l’allontanamento degli indigeni dall’Algeria e il ripopolamento di europei che

permise lo sviluppo dell’economia occidentale mentre l’economia locale subiva una

grave perdita211. La violenza attuata in Algeria venne messa per iscritto sin dal 1833

dalla Commissione d’inchiesta per l’Africa, che confermò lo strapotere francese in

Algeria: «abbiamo sorpassato in barbarie i barbari che eravamo venuti a

civilizzare»212.

Contro la forza coloniale gli algerini organizzarono dei movimenti nazionalisti, in

particolare tra i XIX e il XX secolo, per evidenziare la condizione di malcontento

210 EDWARD W. SAID, Nel segno dell’esilio. Riflessioni, letture e altri saggi, Feltrinelli, Milano, 2008,

p. 498. 211 EDWARD W. SAID, 1998, pp. 197-198. 212 ROMAIN RAINERO, Storia dell’Algeria, Sansoni, Firenze, 1959, p. 84.

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generatasi dal dominio francese. Le intenzioni di questi movimenti vennero prese

poco in considerazione, anzi l’imperialismo francese tese a celare ancora di più il

problema della privazione delle terre e dell’insoddisfazione generale algerina.

L’insofferenza diffusa in Algeria riflette ciò che anche Assia Djebar scrive nel suo

libro Ces voix qui m’assiègent, ovvero per gli indigeni si trattava di forme di

rivendicazione dei propri diritti, obiettivo difficile da raggiungere per la presenza

dominante francese, che causò il parziale abbandono della tradizione araba e

algerina. Una delle principali richieste del popolo algerino, dopo l’instaurazione

della colonia, consisteva nel diritto alla cittadinanza francese, obiettivo che non si

concretizzò perché fu sempre osteggiato dai francesi; infatti «per costoro

l’inferiorità dei musulmani doveva peraltro essere eterna: ammettere una qualsiasi

evoluzione equivaleva ad affermare la possibilità di vedere un giorno dominatori e

dominati allo stesso livello»213. Il desiderio di assimilazione da parte del nativo si

può sintetizzare nella definizione di «quasi lo stesso ma non bianco»214 di Bhabha,

il quale insiste sul processo di imitazione che finisce per essere la «metonimia della

presenza»215. La Francia si dimostrò molto rigida nell’uso della lingua all’interno

della colonia, tanto che gli algerini furono obbligati a «parlare la lingua francese

con tutte le conseguenze che ne derivano, divieto dei giornali, dei libri, delle scuole,

degli scritti arabi o ebraici; divieto nelle chiese, templi, sinagoghe, moschee di

servirsi di una lingua diversa da quella francese»216. La situazione linguistica fu

così grave che la lingua araba in Algeria venne definita «una lingua straniera»217,

mentre il mondo musulmano veniva considerato la sintesi di «poligamia, esclusione

delle donne, assenza di ogni vita politica, governi tirannici e onnipresenti che

costringono gli uomini a nascondersi e a ricercare ogni soddisfazione solo

all’interno della vita familiare»218. Con la prima guerra mondiale il rapporto tra la

madrepatria francese e la colonia algerina non migliorò, anzi gli indigeni furono

sfruttati come manodopera e ripiego per la guerra.

La volontà di un cambiamento ci fu con la creazione di un Fronte di Liberazione

213 Ivi, p. 114. 214 Ivi, p. 129. 215 Ibidem. 216 Ivi, p. 116. 217 EDWARD W. SAID, 1998, p. 206. 218 Ivi, p. 209.

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Nazionale algerino che a metà anni ʻ50 aveva come obiettivi: «1) una dichiarazione

del governo francese che riconosca l’indipendenza dell’Algeria; 2) la liberazione

dei detenuti politici e il ritorno degli esiliati, la cessazione di ogni operazione

militare; 3) la costituzione di un governo provvisorio algerino, che dovrebbe

precedere la cessazione dei combattimenti, con cui negoziare la tregua»219. Ci fu

anche un secondo importante movimento nazionalista, detto Movimento nazionale

algerino che mirava a «1) la cessazione immediata della guerra; 2) la sospensione

di ogni sentenza capitale; 3) l’apertura di negoziati diretti o sotto gli auspici

dell’O.N.U. tra la Francia e rappresentanti liberamente eletti dal popolo algerino

sulla base dell’autodecisione»220.

Dietro questi movimenti c’era una resistenza armata ma anche e soprattutto una

resistenza ideologica, infatti si tentava di far rinascere «una comunità frantumata,

proteggendo o ricostituendo il senso e la realtà comunitari contro tutte le pressioni

del sistema coloniale»221. L’episodio più cruento della storia coloniale algerina fu

senza dubbio la guerra tra i francesi e le forze di resistenza algerina, la guerra «che

i francesi dicono “d’Algeria” e gli algerini “di liberazione”»222 e che dal 1954 si

prolungò fino al 1962, anno della proclamazione dell’indipendenza algerina.

L’inizio della guerra fu preannunciata da un momento molto violento di pre-

insurrezione negli anni 1952 e 1953, che, come illustra Fanon, è «caratterizzato da

scontri armati, da imboscate e da attentati, la colpevolezza che con tanta generosità

viene fatta ricadere sui responsabili ufficiali, tende a spostarsi. La repressione viene

condotta a fondo, si riorganizza, si differenzia. Compaiono le camere di tortura. Su

tutto il territorio algerino si assassinano decine e centinaia di patrioti»223.

L’intolleranza per il colonialismo francese nasceva dal tipo di rapporto che si

instaurava tra le due parti, perciò «l’algerino patisce in blocco il colonialismo

francese, non per schematismo o per xenofobia, ma perché, in realtà, ogni francese

in Algeria ha con l’autoctono dei rapporti basati sulla forza»224, inoltre «la nazione

219 ROMAIN RAINERO, 1959, p. 191. 220 Ivi, p. 192. 221 EDWARD W. SAID, 1998, p. 236. 222 ASSIA DJEBAR, Queste voci che mi assediano. Scrivere nella lingua dell’Altro, Il Saggiatore,

Milano, 2004, p. 144. 223 GIOVANNI PIRELLI, Opere scelte di Frantz Fanon. Decolonizzazione e indipendenza. Violenza,

spontaneità, coscienza nazionale, Einaudi, Torino, 1971, vl. 2, p. 13. 224 Ivi, p. 20.

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francese tramite i suoi cittadini impedisce all’Algeria di esistere come nazione»225.

Al momento dello scoppio della guerra di liberazione, Assia Djebar si trova in

Francia e «partecipa allo sciopero generale degli studenti algerini nel 1956»226:

questi sono gli anni in cui ha inizio la sua carriera da scrittrice. Renate Siebert spiega

che lo pseudonimo utilizzato dall’autrice, «Djebar in arabo classico significa

l’intransigente e Assia, in dialetto, è colei che consola, riconcilia, accompagna con

la sua presenza»227. In tutte le sue forme di scrittura, compare l’eco violento di una

delle pagine più drammatiche della storia dell’Algeria, la Battaglia d’Algeri del

1957, quando i civili e la città si trovarono coinvolti in una serie di uccisioni violente

e di atti di terrorismo e tortura228. «La guerra algerina fu concretamente

“internazionalizzata” tra il ʻ57 e il ʻ58»229 e divenne dunque un episodio dalla

gravità cosciente, ma la Francia non fermò il suo dominio nella colonia, che si

intensificò anche grazie alla «scoperta del petrolio sotto le sabbie del Sahara»230.

La questione algerina rappresentava il più urgente tra i problemi della Francia, le

proteste furono molto tumultuose ma spesso predisposte a un cambiamento sereno.

Da parte dei movimenti nazionalisti vennero pronunciate parole come queste:

«l’Algeria non è la Francia. Il popolo algerino non è francese» per indicare il fatto

che i francesi identificavano gli algerini come una loro proprietà e un loro possesso;

«radicati nelle loro strutture imperialiste e razziste, i colonialisti francesi alimentano

i miti del passato e, servendosi della guerra di Algeria, vogliono perpetuare il

crimine del 1830 e assicurarsi la perennità della dominazione»; e ancora «il popolo

algerino non è nemico del popolo francese. Esso è nemico soltanto del

colonialismo. Ma si può concepire, l’amicizia tra i popoli soltanto nel rispetto della

libertà e della sovranità di ciascuno di essi», perché «in Algeria vennero proclamati,

fin dall’inizio, dei rapporti di identità»231. Inoltre «la Repubblica algerina non farà

alcuna distinzione basata sulla razza o sulla confessione tra coloro che vogliono

rimanere suoi figli»; «d’altra parte l’indipendenza dell’Algeria non costituisce

225 Ibidem. 226 RENATE SIEBERT, 2012, p. 41. 227 Ibidem. 228 ALISTAIR HORNE, 2007, pp. 199, 212. 229 Ivi, p. 253. 230 Ivi, p. 264. 231 GIOVANNI PIRELLI, 1971, p. 22.

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affatto un ostacolo alla creazione di nuovi rapporti tra la Francia e l’Algeria. Questi

rapporti saranno tanto più fruttuosi se saranno fondati sul rispetto della sovranità di

ciascuno dei due paesi. Inoltre, soltanto l’indipendenza può offrire prospettive di

cooperazione con tutti gli altri paesi»232.

Durante la guerra di liberazione, gli algerini volevano portare avanti «lo sforzo

grandioso di un popolo, che era stato mummificato, per ritrovare il suo genio,

riprendere in mano la sua storia e ricostituirsi sovrano»233, ma bisognava fare i conti

con l’obiettivo dell’indipendenza. Horne spiega che negli ultimi anni della guerra

di liberazione ci fu un grande fenomeno di migrazione verso la Spagna, il Canada,

Israele e l’Argentina, ma soprattutto verso la Francia. Nel 1962 l’Algeria ottenne

l’indipendenza e il processo di decolonizzazione fu comunque un «fenomeno

violento»234 e fu «molto semplicemente la sostituzione d’una “specie” di uomini

con un’altra “specie” di uomini»235, mentre «le strade di Orano e di Algeri si

trasformarono in una marea di bandiere bianche, verdi e rosse, agitate da una folla

musulmana sfrenatamente giubilante»236.

Fanon esprime con chiarezza cosa accade durante questo fenomeno che fa

dell’Oggetto finalmente un Soggetto:

La decolonizzazione non passa mai inosservata poiché poggia sull’essere, modifica

fondamentalmente l’essere, trasforma spettatori colpiti d’inessenzialità in attori

privilegiati, colti in modo quasi grandioso dal fascio della storia. Introduce

nell’essere un ritmo suo, portato dai nuovi uomini, un nuovo linguaggio, una nuova

umanità. La decolonizzazione è veramente creazione di uomini nuovi. Ma tale

creazione non riceve legittimazione da alcuna potenza soprannaturale: la «cosa»

colonizzata diventa uomo nel processo stesso con il quale essa si libera237.

Assia Djebar da migrante, ha dato una lettura della storia postcoloniale algerina

dall’esterno, infatti l’allontanamento dall’Algeria in direzione della Francia le ha

permesso di capire il proprio spazio, quello algerino, in un altro spazio, quello

francese, tanto che può rientrare nella dicitura di «writers from elsewhere»238.

232 EDWARD W. SAID, 1998, pp. 211-213. 233 GIOVANNI PIRELLI, 1971, p. 21. 234 Ivi, p. 79. 235 Ibidem. 236 ALISTAIR HORNE, 2007, p. 599. 237 GIOVANNI PIRELLI, 1971, p. 80. 238 STEFANO MANFERLOTTI, “Gli scrittori dell’altrove”, in IAIN CHAMBERS e LIDIA CURTI (a cura

di), 1997, p. 219.

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Questa definizione comprende, secondo Rushdie, tutti quegli scrittori che hanno

scelto di scrivere in una lingua che non è di loro appartenenza, mentre Manferlotti

individua l’aspetto drammatico che scaturisce dall’incontro tra culture che non può

rendere indifferente il contatto. Ma da questo incontro, come scrive Barbara Kruger,

«si cresce più rigogliosi nell’identità sbagliata» e lo sguardo, attraverso il quale

osservare la propria identità ricostruita, non si trova «Dentro (nella psiche) né Fuori

(nel campo del sociale). L’identità è un atto intersoggettivo e performativo che

rifiuta ogni divisione tra pubblico e privato, tra psiche e società». La condizione

drammatica del postcoloniale si trasforma in apertura alle novità, evitando di

rimanere confinata alla propria cultura; e come scrive Bhabha:

l’intellettuale nativo che identifica il popolo con la vera cultura nazionale sarà

deluso: il popolo è ora il principio stesso di “riorganizzazione dialettica”, e costruisce

la propria cultura muovendo dal testo nazionale tradotto nelle forme occidentali

moderne della tecnologia informatica, della lingua, dell’abbigliamento. Il

mutamento del luogo politico e storico dell’enunciazione trasforma i significati

dell’eredità coloniale nei segni liberatori di un popolo libero e volto al futuro239.

La capacità di trovarsi a cavallo tra più culture rappresenta un elemento astratto,

ma, se si tiene conto dei mutamenti temporali e spaziali dalla fase coloniale alla

fase postcoloniale, è possibile rendere concreto il concetto di Terzo Spazio.

E lo stato d’eccezione è anche e sempre uno stato di emersione, in cui qualcosa viene

alla luce: la lotta contro l’oppressione coloniale perciò non solo cambia

l’orientamento della storia occidentale, ma mette in discussione la sua stessa idea

storicista del tempo come totalità progressiva e ordinata; quanto all’analisi della

depersonalizzazione coloniale, essa non si limita a rifiutare l’idea illuminista di

“Uomo” ma mette in dubbio la stessa trasparenza della realtà sociale intesa come

immagine già-data della conoscenza umana240.

Il limite dello studio spazio-temporale nel contesto postcoloniale consiste nell’aver

interpretato la storia come una linea continua, mentre sono maggiori gli elementi di

discontinuità che tendono a spezzarla e frammentarla. Infatti l’analisi del fenomeno

coloniale è sempre stata avviata dal punto di vista occidentale, che non poteva

permettersi di dare un’interpretazione disomogenea nelle colonie e nei rapporti con

i colonizzati, altrimenti sarebbe crollata la struttura coloniale. Lyotard spiega che

239 HOMI K. BHABHA, 2001, pp. 59-60. 240 Ivi, p. 63.

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l’Occidente tende a «dimenticare il tempo e conservare, accumulare contenuti,

trasformarli in tutto ciò che chiamiamo storia e pensare di sé che progredisce perché

accumula. Al contrario, nel caso delle tradizioni popolari […] non viene accumulato

nulla: le narrazioni cioè debbono essere ogni volta ripetute perché sono ogni volta

dimenticate»241.

Di conseguenza, è necessario spostare la correlazione soggetto-oggetto al di là

dell’Europa: «l’intero progetto di Fanon consiste prima di tutto nell’illuminare e

poi animare la separazione tra colonizzatore e colonizzato (soggetto e oggetto) in

modo da portare alla luce tutto ciò che è falso, brutale e storicamente determinato

per poi stimolare l’azione, e portare allo smantellamento del colonialismo

stesso»242. Non si tratta soltanto della caratteristica esteriore della pelle, ma di una

vera e propria «internalizzazione del sé – come – altro»243. Frantz Fanon, psichiatra

originario della Martinica francese, ha analizzato l’aspetto psicologico del

colonizzato ritenendo che «la colonizzazione non è mai soltanto l’espressione di

processi esterni e dell’oppressione da sfruttamento, ma riguarda principalmente i

modi in cui i soggetti colonizzati si scontrano internamente con l’immagine di sé

prodotta dal colonizzatore»244. Jacques Derrida ha sottolineato l’importanza

dell’elemento psicanalitico preso in considerazione da Fanon nel passaggio dalla

fase coloniale alla fase postcoloniale, avendo vissuto in prima persona questa svolta

storica. Egli stesso entrò in contatto con i problemi di «alienazione coloniale,

estremizzata dalla vicinanza psichica dei suoi pazienti»245, da cui nasce «l’utopia

sognatrice di un futuro incerto, mossa dalla speranza di un’altra relazione fra gli

uomini»246. Questo aspetto di auto-analisi piscologica è presente anche in Assia

Djebar, nella cui scrittura fatica ad esserci una continuità discorsiva del fenomeno

coloniale e postcoloniale, proprio perché, stavolta, il punto di vista dal quale viene

studiato il colonialismo è quello di una nativa. Nonostante la letteratura di Assia

Djebar relativa all’Algeria sia fatta di violenze e silenzi, questi elementi della

241 Ivi, p. 84. 242 IAIN CHAMBERS, 2006, pp. 94-95. 243 STUART HALL, 2006, p. 235. 244 CATHERINE HALL, “De-colonizzare il sapere. Il caso dell’impero britannico”, in IAIN CHAMBERS

e LIDIA CURTI (a cura di), 1997, p. 100. 245 RENATE SIEBERT, 2012, p. 26. 246 Ivi, p. 27.

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memoria individuale permettono alla scrittrice di recuperare tradizioni culturali che

in altro modo risulterebbero assenti. La scrittura in francese acquisisce importanza

nel momento in cui la lingua è fonte di insicurezze e di spaesamento, perché fu solo

dopo il 1962 che il Fronte di Liberazione Nazionale algerino utilizzò l’arabo come

lingua ufficiale, realizzando delle iniziative relative alla formazione e

all’educazione arabo-islamica e non più francese247. In Algeria i problemi si

aggravarono nel momento in cui la politica non manifestava più la democrazia ma

potere elitario e fondamentalismo islamico, ruoli di potere trasposti dall’europeo

all’algerino. Fanon ha analizzato, soprattutto in I dannati della terra, le

«disavventure della coscienza nazionale»248 che non erano soltanto politiche ma

anche sociali, perché emerge finalmente la figura «del nativo rivoluzionario, stanco

di una logica che lo soggioga, di una geografia che lo segrega, di una ontologia che

lo disumanizza, di un’epistemologia che lo spoglia fino a ridurlo a un’essenza senza

speranza»249. Invece il problema linguistico è stato definito come «estraneità al

domestico», dove, però, l’essere lontani da casa non significa non avere una casa250

e questo ce lo spiega Djebar a proposito del francese: «questa lingua mi appare

ormai casa che abito e che cerco di contraddistinguere ogni giorno, pur sapendo di

non avere diritto, di primo acchito, al suolo che la sostiene. Ma pur non

rivendicando alcun ius soli almeno, a rischio di un facile gioco di parole, posso

guadagnarmi il diritto, se non al suolo, al sole!»251. Nel rapporto tra la lingua e lo

spazio in cui essa viene pronunciata o scritta, si esprime anche la drammatica

condizione del colonizzato che ha degli spazi diversi rispetto a quelli del colono,

«non c’è conciliazione possibile, uno dei due termini è di troppo»:

La città del colono è una città di cemento, tutta di pietra e di ferro. […] È una città

illuminata, asfaltata, in cui i secchi della spazzatura traboccano sempre di avanzi

sconosciuti, mai visti, nemmeno sognati. […] La città del colono è una città ben

pasciuta, pigra, il suo ventre è pieno di cose buone in permanenza. La città del colono

è una città di bianchi, di stranieri. […] La città del colonizzato, o almeno la città

indigena, il quartiere negro, la medina, la riserva, è un luogo malfamato, popolato di

uomini malfamati. Vi si nasce in qualunque posto, in qualunque modo. Vi si muore

in qualunque posto, di qualunque cosa. È un mondo senza interstizi, gli uomini ci

247 EDWARD W. SAID, 1998, p. 295. 248 Ibidem. 249 Ivi, p. 296. 250 HOMI K. BHABHA, 2001, p. 22. 251 ASSIA DJEBAR, 2004, pp. 44-45.

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stanno ammonticchiati, le capanne ammonticchiate. La città del colonizzato è una

città affamata, affamata di pane, di carne, di scarpe, di carbone, di luce. La città del

colonizzato è una città accovacciata, una città in ginocchio, una città a testa in giù252.

Le descrizioni che l’europeo costruisce per parlare dell’indigeno tendono a mettere

in luce gli aspetti negativi del colonizzato e a lasciare nell’ombra gli aspetti negativi

del colonizzatore; e questo si è verificato molto spesso con la letteratura coloniale,

fatta di riferimenti bestiali e di «linguaggio zoologico»253. Lo spazio è stato uno

strumento discriminatorio e razzista, indispensabile per il colonizzatore francese in

Algeria, che però non doveva e non poteva negare il colonizzato, altrimenti non

avrebbe più avuto senso la figura del padrone colonizzatore254. In particolare, Fanon

illustra che «durante gli anni 1956-57, il colonialismo francese aveva proibito certe

zone, e la circolazione delle persone in quelle regioni era strettamente

regolamentata»255.

Bisogna anche tenere conto del fatto che anche altri spazi subivano discriminazioni,

non direttamente a causa del colonizzatore; ad esempio lo spazio della famiglia

algerina rappresentava «il bastione sacrosanto e impenetrabile della vita musulmana

ultraconservatrice» e «a causa della sua vita appartata all’interno della casa e al

riparo dal tradizionale haik256, la musulmana era rimasta estranea alla cultura e alla

penetrazione sociale francese molto più della controparte maschile, sicché,

scoppiata la rivolta, in molte famiglie fu essa a costituire il nucleo più duro della

militanza anticolonialista»257. Questo perché «la femme est le coeur de cette

identité. Elle l’est comme support des alliances. Par elle la societé va tenter de

conserver ses structures traditionnelles, malgré la destruction des tribus, malgré les

lois qui menacent la proprieté collective de la terre»258.

La drammaticità della condizione femminile è il tema conduttore delle opere della

Djebar, in cui «la distinzione tra la sfera pubblica e quella privata […] corrisponde

alla distinzione fra cose che dovrebbero essere mostrate e cose che dovrebbero

252 GIOVANNI PIRELLI, 1971, pp. 82-83. 253 Ivi, p. 85. 254 RENATE SIEBERT, 2012, p. 65. 255 GIOVANNI PIRELLI, 1971, p. 207. 256 Veste bianca di lana o di cotone, lunga e ampia, tipica delle popolazioni berbere. 257 ALISTAIR HORNE, 2007, p. 450. 258 MONIQUE GADANT, Le nationalism algérien et les femmes, L’Harmattan, Paris, 1995, p. 118.

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essere nascoste»259. Da scrittrice scelse di usare uno pseudonimo perché la donna

nella società algerina non poteva esporsi pubblicamente con la scrittura per dar voce

ai limiti della sua libertà, nonostante fosse stato il padre ad averla guidata verso la

formazione francese. Quest’esposizione è anche l’esordio della sua scrittura

romanzesca: nel 1957 esce La Soif, in cui applica «la stratégie d’intrusion

transgressive féminine dans l’espace viril […] non seulement à l’assaut de l’espace,

mais aussi de la pensée, ainsi que sa métamorphose qui la fait passer d’objet

représenté à sujet à l’oeuvre, imposant au cours de la fiction son propre

imaginaire»260. In questo primo romanzo, l’autrice usa «quel topos, poi ricorrente,

della maschera, così come del velo, filtro con l’esterno e insieme zona di

contatto»261, col quale la donna sceglie di parlare e di esporsi: «il femminismo ne

svela la natura patriarcale e di genere e turba la simmetria fra privato e pubblico che

ora appare sfumata, o misteriosamente sdoppiata, nella differenza di generi che non

si sovrappone esattamente alla distinzione fra privato e pubblico ma si aggiunge ad

essa quale ulteriore fonte di turbamento»262.

Al di là del discorso spaziale,

sebbene, all’inizio della guerra, la poligamia si facesse ormai rara in Algeria, i diritti

della donna permanevano, in genere, deplorevolmente medievali. Per la giovane

algerina, la vita tendeva a riassumersi in due stadi: infanzia e pubertà (dove la

seconda significava, di norma, matrimonio poco dopo i dieci anni di età). Il

matrimonio veniva combinato dalle famiglie, sicché non era raro che la coppia

s’incontrasse solo il giorno delle nozze. Essendo arduo per la ragazza trovare altra

sistemazione dal matrimonio, quanto più a lungo rimaneva nubile, tanto maggior

imbarazzo economico causava alla famiglia. Il divorzio o “ripudio” era facile,

brutale, e totale – per il maschio263.

Fanon spiega inoltre che «l’abito maschile consente un margine di scelta, un

minimo di eterogeneità. La donna, avvolta nel suo velo bianco, rende omogenea

l’immagine della società femminile algerina»264.

259 HOMI K. BHABHA, 2001, p. 23. 260 BEÏDA CHIKHI, Maghreb en textes. Écriture, histoire, savoirs et symboliques, L’Harmattan, Paris,

1996, p. 128. 261 MAURO PALA, “Another language, another world: Assia Djebar e la critica postcoloniale

anglofona” in Actes du Colloque international, Université de Cagliari, Cagliari, 5-6 février 2016, p.

141. 262 HOMI K. BHABHA, 2001, p. 24. 263 ALISTAIR HORNE, 2007, p. 451. 264 FRANTZ FANON, Scritti politici. L’anno V della rivoluzione algerina, DeriveApprodi, Roma,

2007, vl. II, p. 39.

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L’amministrazione coloniale condusse la difesa della donna algerina contro la

segregazione della donna compiuta dall’uomo algerino, ma con degli obiettivi

discordi dalla verità perché

dopo aver stabilito che la donna costituisce il perno della società algerina, si fa ogni

sforzo per assicurarsene il controllo. L’algerino, è cosa certa, non si smuoverà,

resisterà all’opera di distruzione culturale svolta dall’occupante, si opporrà

all’assimilazione, finché sua moglie non avrà capovolto la situazione. Nel

programma colonialista tocca alla donna la missione storica di scuotere l’uomo

algerino. Conquistarla, convertirla ai valori stranieri, strapparla alla sua condizione,

è insieme impadronirsi di un potere reale sull’uomo e possedere i mezzi pratici,

efficaci, per minare la struttura della cultura algerina265.

La violenza e la resistenza francesi si spostarono sulla donna algerina perché

«togliere il velo a questa donna è scoprirne la bellezza, metterne a nudo il segreto,

spezzarne la resistenza, renderla disponibile all’avventura. […] Volontà di poter

disporre di questa donna, di farne un eventuale oggetto di possesso»266. Infatti «ogni

donna velata, ogni algerina, diventa sospetta. Non si fanno discriminazioni. È il

periodo nel quale uomini, donne bambini, tutto il popolo algerino sperimenta

insieme la sua unità, la sua vocazione nazionale e la ricostruzione della nuova

società algerina». Il velo della donna diventa lo strumento di guerra tra la parte

francese e la parte algerina e soprattutto simbolo dell’identità algerina che si

rafforza contro l’opposizione della resistenza francese. Inoltre Fanon spiega che

all’inizio il velo è meccanismo di resistenza, ma il suo valore per il gruppo sociale

rimane altissimo. Ci si vela per tradizione, per separazione rigida dei sessi, ma anche

perché l’occupante vuole strappare il velo all’Algeria. In un secondo tempo, il

mutamento avviene in occasione della rivoluzione e in circostanze precise. Nel corso

dell’azione rivoluzionaria il velo viene abbandonato. Ciò che era usato per dare

scacco alle offensive psicologiche o politiche dell’occupante diventa mezzo,

strumento. Il velo aiuta l’algerina a rispondere alle nuove esigenze della lotta267.

All’interno del contesto familiare «in una società sottosviluppata, e in particolar

modo in Algeria, la donna è sempre una minore, e la figura maschile (fratello, zio

o marito) rappresenta innanzitutto un tutore. La ragazza impara a evitare le

265 Ivi, pp. 41-42. 266 Ivi, p. 45. 267 Ivi, p. 61.

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discussioni con l’uomo, a non “provocarlo”»268. Invece durante la rivoluzione

algerina, la donna senza velo conquista una personalità e si sente partecipe della

storia algerina, passa all’azione e parla269; lo stesso cambiamento avviene con la

radio: dopo il 1956 «così come il velo […] era divenuto uno strumento di estrema

importanza per la resistenza dei combattenti, la radio assunse le sembianze di un

collante sociale»270.

Molto più complesso risulta allora il ruolo della donna nel sistema di opposizioni

binarie spaziali che riguardano parallelamente il colonialismo, la società e la

famiglia, e, grazie alla testimonianza di Assia Djebar, si può provare a de-costruire

l’immagine della figura femminile, che da figura simbolica costruita dall’uomo

diventa figura reale e concreta costruita da sé. Contro le forme di possesso

provenienti dalla famiglia e dal colonialismo, è compito della différance letteraria

femminile cambiare i significati, facendo in modo che le rappresentazioni assumano

un’altra valenza, quella del Terzo Spazio.

Nel caso di Assia Djebar, il Terzo Spazio va al di là del processo culturale perché

«la donna migrante può sovvertire la perversa soddisfazione dello sguardo razzista

e maschilista che ripudia la sua presenza presentandocelo attraverso un’inquietante

assenza, un contro-sguardo in grado di rivolgere su di sé l’occhiata di

discriminazione con la quale neghiamo la sua differenza culturale e sessuale»271.

Questa scoperta da parte della donna subalterna la sollecita a cambiare le cose

perché «se, infatti, la mia vita ha lo stesso peso di quella del colono, il suo sguardo

non mi fulmina più, non mi immobilizza più, la sua voce non mi impietrisce più.

Non mi turbo più in sua presenza»272. La donna capisce finalmente che al di là dei

problemi susseguitisi o nati dalla decolonizzazione, c’è una volontà individuale e

collettiva che aspira a una vera e propria svolta, in cui vengono sovvertite tutte le

certezze sostenute dalla struttura coloniale, per mezzo di molteplici livelli di

interpretazione. La lettura femminile di questi eventi si allontana dalla reazione

anti-coloniale della resistenza algerina, ovvero dalla violenza come reazione alla

violenza: la reazione violenta del colonizzato, illustrata da Fanon, è dettata dal

268 Ivi, p. 93. 269 Ivi, p. 94. 270 Ivi, p. 179. 271 HOMI K. BHABHA, 2001, p. 70. 272 GIOVANNI PIRELLI, 1971, p. 88.

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desiderio spontaneo di libertà, ma rischia di compromettere fin dall’inizio la

«costruzione di una società nuova, all’altezza dell’Uomo»273.

Invece, la costruzione di Assia Djebar intende agire a partire dalla voce, dalla parola

e dalla scrittura femminili come reazioni alla violenza, cioè come “intellettuale

militante” spivakiana. Perciò «il subalterno o il metonimico non sono né vuoto né

pieno, né parte né tutto: i loro processi di compensazione e sostituzione tuttavia

sono uno sprone alla traduzione sociale, alla produzione di qualcos’altro accanto al

quale sta non solo la cesura o l’assenza del soggetto, ma anche l’intreccio fra luoghi

sociali e discipline»274. Per comprendere come Assia Djebar sia stata importante

per dare all’Oggetto subalterno una Soggettività è bene citare Siebert che fa

riferimento a un pensiero di Spivak a riguardo: c’è «il desiderio di un’autobiografia

differente, che sposta il passato nel futuro, cambiando la dimensione temporale in

dimensione spaziale. Animare gli attori della Storia per immaginare non solo

possibili passati, ma possibili futuri, “senza occultare la presenza femminile”»275.

273 RENATE SIEBERT, 2012, p. 35. 274 HOMI K. BHABHA, 2001, p. 95. 275 RENATE SIEBERT, 2012, p. 230.

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3.2 De-costruire il contesto postcoloniale algerino

Ferraris scrive che «il decostruzionismo tenta di fornire una immagine straniata e

frammentaria di quanto siamo abituati a considerare come ovvio»276 e questo

discorso può essere illustrato iniziando dallo smantellamento della struttura

coloniale. Partendo dal paragone teatrale, il sistema coloniale è stato paragonato più

volte a una messa in scena che fa emergere la grande tragedia umana, dove tutto

diventa una drammatica esibizione277. Il “pubblico” di fronte all’ingannevole

rappresentazione della realtà viene facilmente abbindolato: «nell’atto di ripudio e

fissazione, il soggetto coloniale viene risospinto al narcisismo dell’Immaginario

che identifica un ego ideale bianco e totalizzante: la scena originaria infatti illustra

che guardare/ ascoltare/ interpretare qualcosa come luogo di creazione del soggetto

nel discorso coloniale è prova dell’importanza dell’immaginario visivo e uditivo

per le storie della società»278.

Allora le parole di Fanon suonano così: «perché non cercare semplicemente di

toccare l’Altro, di sentire l’Altro, di rivelare l’Altro? […] Alla fine di quest’opera

ci piacerebbe che si sentisse come noi l’aperta dimensione di ogni coscienza»279.

Mettere in discussione la tragedia coloniale significa, secondo Said, individuare tre

questioni: prima di tutto è necessario re-interpretare la storia individuale e collettiva

dei nativi, partendo dal problema della lingua nazionale, che non può esistere senza

l’azione culturale. Questa prima fase fa riemergere fatti nascosti, legati al passato e

alle storie reali o leggendarie e soprattutto fa riemergere le autobiografie, le storie

locali e tutte le memorie native legate alla fase coloniale. In secondo luogo le forme

di resistenza anticoloniali rappresentano un modo diverso di rapportarsi agli eventi

storici perché se da un lato tentano di opporsi al potere coloniale, dall’altro

abbattono il muro del confine tra le culture280. La definizione riportata da Said

afferma che «il termine “nazionalismo” ancor oggi assume significati assai diversi,

276 MAURIZIO FERRARIS, 1984, p. 59. 277 EDWARD W. SAID, 1998, p. 111. 278 HOMI K. BHABHA, 2001, p. 111. 279 Ivi, p. 91. 280 EDWARD W. SAID, 1998, pp. 242-243.

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ma in questo caso ci serve per identificare quella forza che fece coagulare un

movimento di resistenza composto da persone accomunate da una medesima storia,

religione, lingua che si batterono contro un impero straniero invasore»281. Ma «quei

movimenti […] se da una parte riuscivano a far scendere la gente nelle strade per

manifestare contro il padrone bianco, dall’altra erano guidati da avvocati, medici e

scrittori formatisi in parte, ed entro certi limiti addirittura prodotti, dalle stesse

potenze coloniali»282. In terzo luogo i movimenti nazionalisti non devono essere

presi nella loro valenza isolata, ma in quella complementare per facilitare i contatti

e le integrazioni culturali283, ovvero in ciò che è stato chiamato “DissemiNazione”.

Il concetto di disseminazione è stato più volte usato da Bhabha ed è una nozione

che fa parte anche della realtà migratoria, tanto che può riferirsi alla «doppia-

scrittura»284 di Assia Djebar: ciò significa che c’è anche un doppio spazio e una

doppia temporalità, ovvero essere qui e altrove.

La decostruzione del contesto coloniale avviene in direzione temporale e in

direzione spaziale: il tempo continua per il colonizzatore ma per il colonizzato si

ferma, lo spazio si espande per il colonizzatore ma si riduce per il colonizzato; nel

contesto postcoloniale gli spazi cambiano e il concetto di confine non è lo stesso,

ma tende ad assumere una fisionomia soggettiva e sempre in movimento. Anche la

scrittura nativa cambia: mentre prima si manifestava in modo riduttivo, solo con la

letteratura postcoloniale può davvero emergere con libertà; allora il processo

attraverso cui avviene questo tipo di scrittura è di tipo psicoanalitico, infatti

riflettere su se stessi e sul proprio ruolo nella società e nella cultura è anche una

forma di auto-analisi che fa emergere i tratti più forti e più deboli di una personalità.

Seguendo il discorso di Lacan, il segno ha perso la soggettività e fa parte di quello

che egli definisce «intersoggettivo»: la soggettività viene interdetta ma nel

momento in cui «il segno privo di soggetto – l’intersoggettività – ritorna sotto forma

di soggettività volta alla riscoperta della verità, allora diviene possibile una

(ri)organizzazione dei simboli nella sfera del sociale. Quando il segno interrompe

il flusso sincrono del simbolo, allora assume anche il potere di elaborare – durante

281 Ivi, p. 250. 282 Ibidem. 283 Ivi, p. 243. 284 HOMI K. BHABHA, 2001, p. 209.

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e attraverso il ritardo temporale – nuove e ibride azioni e sviluppi: è questo il

momento delle revisioni»285. La ricerca della propria identità rappresenta un

processo intersoggettivo perché è necessario fare riferimento all’alterità e dunque a

un’altra identità per capirsi e per essere consapevoli della propria identità,

indipendente e libera, cioè «la libertà non è l’indipendenza nell’assenza dell’alterità

ma l’indipendenza nell’alterità, nella totale esposizione all’altro»286.

«Cosa sembrano sottendere queste parole è l’assenza di un’origine, di un luogo o

di un’identità verso cui ri-venire. Ma allo stesso tempo esse articolano la capacità

del soggetto di “abitare” una nuova casa: scrittura come spazio sospeso del ri-

venire, dell’incontro dialogico del soggetto con la sua alterità; scrittura come

territorio della perdita e della memoria, come luogo di un ritornare immaginario e

impossibile»287.

Le tracce poetiche degli impossibili ritorni sono solcate da distanze interne ed esterne

e determinano cammini; esplorare l’idea della scrittura poetica come lo spazio

lacerato della lontananza dell’io, dell’esilio e della migrazione significa inoltrarsi in

quella complessa dimensione temporale, nonché spaziale, tra la memoria del “là” e

il tempo del “qui”. Significa percorrere il disperato e sofferto sentiero tracciato da

esistenze segnate dalla precarietà, un passaggio percorso da identità in esilio e in

perenne movimento, né totalmente staccate dal loro passato, né completamente parte

della realtà che le attende288.

La scrittura postcoloniale può accostarsi all’idea di un «lamento» che fa risaltare la

sofferenza e la violenza subite della fase coloniale e l’idea è quella di trovarsi in

una condizione culturale ambivalente, una volta entrati nella fase postcoloniale. I

ricordi della storia coloniale sono frammenti che vengono recuperati con la scrittura

che, a sua volta, rafforza la memoria e ricompone la molteplicità identitaria. La

parola poetica risulta ancora più forte nel momento in cui il soggetto che scrive apre

«la possibilità di sopravvivere, di abitare e di affrancarsi sul confine tra

appartenenza e esclusione»289.

Il ricordo della sofferenza si riaffaccia quando la scrittura analizza pezzo per pezzo

285 Ivi, p. 266. 286 RENATE SIEBERT, 2012, p. 175. 287 DEMETRIO YOCUM, “Ritorni impossibili”, in IAIN CHAMBERS e LIDIA CURTI (a cura di), 1997, p.

263. 288 Ivi, pp. 264-265. 289 Ivi, p. 265.

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la storia coloniale e la storia postcoloniale: «non c’è un vero ritorno a “casa”,

nessuna posizione definita e costante, ma un tornare indietro per andare avanti:

articolare l’assenza per ri-venire a sé»290. Riconquistare lo spazio è dunque la prima

tappa conseguita dal nativo, condizione riacquisita con la realtà e nel contempo con

l’immaginazione; solo in questo modo lo spazio non sarà più dello straniero ma il

proprio, inoltre non sarà più guardato con lo sguardo straniero ma con lo sguardo

d’origine.

Secondo la terminologia di Deleuze si tratta dell’«idea di un soggetto de-centrato,

fluido, frammentato e provvisorio che quindi interroga e scardina la nozione della

formazione unitaria di un soggetto omogeneo e universale»291. Questa condizione

è quella che Said pensa «come se si fosse in esilio senza esserlo fisicamente»292,

allora la decostruzione derridiana permette di ri-pensare la storia coloniale al di là

delle opposizioni binarie, per dare invece spazio alle relazioni e alle connessioni

negli incontri tra alterità diverse. Si tratta infatti di prendere in considerazione le

realtà postcoloniali che accolgono il globale e il locale, il centro e la periferia, la

tradizione e la modernità, ovvero tutto ciò che può essere incluso nell’«apparente

disordine del quotidiano»293. La scrittura di Assia Djebar rientra in un contesto

postcoloniale che ha generato migrazioni e che ha trasformato le città: la città

postcoloniale è fatta di voci, rumori e polvere, dove «neanche la scrittura può

diventare una forma di residenza o di accomodamento»294. Stuart Hall precisa però

che «i soggetti sono “dislocati” o “decentrati”, ma non certo “sradicati”, sono

sempre storicamente (sur)determinati, posizionati, situati: “tutti parliamo sempre da

un luogo specifico, da una storia, un’esperienza e una cultura particolari”. Possono

pensarsi “unicamente all’interno di una tradizione”, a patto però che considerino il

loro rapporto “a quel passato come una ricezione critica” e non come qualcosa di

“irriflessivo” o di “dato per scontato”»295. Mellino insiste sul punto di vista di Hall,

ribadendo che le trasmissioni culturali debbano essere considerate al di là di una

290 Ivi, p. 269. 291 IAIN CHAMBERS (a cura di), 2006, p. 96. 292 Ivi, p. 97. 293 ALESSANDRO TRIULZI, “La città postcoloniale come testo”, in IAIN CHAMBERS e LIDIA CURTI (a

cura di), 1997, p. 115. 294 IAIN CHAMBERS, (a cura di), 2006, p. 97. 295 STUART HALL, 2006, p. 23.

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struttura chiusa e definita, per far risaltare invece gli aspetti dinamici e mutevoli dei

significati della tradizione. In tutto ciò è il soggetto subalterno che deve avere la

volontà di cambiare i significati, di riempire i vuoti della storia coloniale, ma

sempre con la consapevolezza e la comprensione di vivere nella diversità, ovvero

secondo il senso trasmesso dalla différance derridiana296.

Per uscire dalla subalternità, è necessario parlare, infatti Spivak dice che «if the

subaltern can speak then, thank God, the subaltern is not a subaltern any more»297,

allora si realizza ciò che Hall definisce la «rivoluzione del soggetto»298. Da oggetto

il subalterno diventa soggetto e questo passaggio si può realizzare con la

consapevolezza di Sé e dell’Altro. Dal concetto di Orientalismo di Said il tentativo

è stato quello di scardinare il binarismo degli stereotipi; ad esempio l’esito di alcuni

studi che hanno avuto come protagoniste le donne, in primo piano Assia Djebar, ha

messo in evidenza che «ces écrivaines “orientales” parlant de l’“Orient” sont tout

autant “occidentales”; pour elles, la binarité Orient/Occident n’est plus adéquate ni

suffisante. Elles substituent à une polarité contrastée des zones indécises,

ambivalentes, composites, faites de heurts, de négociations, de mixages. […]

L’orientalisme n’est pas le seul champ de leur créativité, il est aussi celui du vécu

et d’un positionnement social»299.

Quella di Assia Djebar è una rivoluzione prima di tutto linguistica che sovverte i

rapporti binari solo dopo aver riflettuto a lungo sul suo rapporto con la scrittura, che

è dapprima confuso, non ha solidità perché molti concetti che lei esprime in arabo

non possono essere resi con la scrittura francese; è una scrittura che si spezza, che

è frantumata e oscillante: la sua scrittura è come il suo corpo di donna, velato. A

partire dalla scrittura Assia Djebar ha intenzione di de-costruire l’immagine del sé

individuale e del sé delle donne collettivo; ciò significa tenere conto di diversi

aspetti, quello di genere, di classe e di razza perché «in una società razzista, infatti,

sarebbe del tutto inadeguato discutere le immagini di donne e uomini non-bianchi

296 Ivi, p. 26. 297 “The New Historicism: Political Commitment and The Postmodern Critic” with Harold Veeser,

in SARAH HARASYM (edited by), 1990, p. 158. 298 STUART HALL, 2006, p. 125. 299 STEFANIA CUBEDDU-PROUX, “Orientalisme entre peinture et écriture: une relecture d’Assia

Djebar” in Actes du Colloque international, 2016, p. 340.

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senza considerare le idee sulla razza»300. Al di là del problema delle

rappresentazioni realizzate durante il colonialismo, bisogna tenere conto anche

dell’aspetto spaziale, per il fatto che un individuo può essere rappresentato in

riferimento allo spazio che occupa. Riflettere sul colonialismo significa anche

riflettere sugli spazi e sui tempi in cui il colonizzatore ha agito e allora scrivere,

come ha fatto Assia Djebar, significa anche parlare dello spazio-tempo in maniera

originale e diversa dallo stereotipo occidentale tramandato dalla storia e dalla

letteratura coloniali.

Lo spazio ha rappresentato la prima forma di potere per l’occidentale perché è nello

spazio che si è espresso il perfetto nesso di Potere e Sapere301: la differenza tra chi

colonizza e chi subisce la colonizzazione si ri-definisce in différance, concetto che

indica come è cambiato il modo di rapportarsi all’Altro in un contesto successivo

alla fase coloniale. Ad esempio, Assia Djebar, pur rendendosi conto delle difficoltà

linguistiche della scelta della lingua francese, non può fare a meno di riferirsi al

francese. Il francese è la lingua della violenza ma è anche lingua di affrancamento

e di potere con la parola libera femminile. Allora il legame tra Potere e Sapere che

esisteva durante il colonialismo continua nel postcolonialismo con un significato

diverso, dove il Potere è rappresentato dalla forza verbale di chi ha dovuto tacere e

il Sapere è rappresentato da ciò che la forza verbale è in grado di diffondere, ovvero

la voce di chi sa come si è sviluppata realmente l’esperienza coloniale per

conoscenza diretta. E come sottolinea Gramsci, si tratta di «un processo che altera

il ruolo degli elementi della vecchia ideologia […] ciò che era secondario o anche

incidentale diventa di primaria importanza, diventa il nucleo di un nuovo insieme

dottrinale e ideologico. La vecchia volontà collettiva si disintegra, dividendosi nei

suoi elementi contraddittori, cosicché gli elementi che sono stati finora subordinati

possono evolversi socialmente»302.

Anche lo spazio, insieme al soggetto, tende a cambiare e si parla allora di uno spazio

definibile in-between, dove l’unione di globale e locale non produce qualcosa di

300 VRON WARE, “‘Razza’, genere e memorie imperiali”, in IAIN CHAMBERS e LIDIA CURTI (a cura

di), 1997, p. 158. 301 MARINA DE CHIARA, “Se la tribù si chiama Europa”, in IAIN CHAMBERS e LIDIA CURTI (a cura

di), 1997, p. 279. 302 Cit. in STUART HALL, “Quando è sato il ‘postcoloniale’? Pensando al limite”, in IAIN CHAMBERS

e LIDIA CURTI (a cura di), 1997, p. 312.

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definito ma qualcosa in divenire, infatti «la spazializzazione dell’essere comporta

un’articolazione spaziale ed il ricorso alla nozione di trasformazione: spazio come

luogo del divenire, un evento scalare»303.

Lo spazio e il tempo vengono rappresentati in modo frammentario e discontinuo

nella fase postcoloniale: ciò che manteneva in piedi l’aspetto spazio-temporale era

infatti la struttura del costrutto occidentale, solido e saldato da giustificazioni

razziali. Il livello spazio-temporale è relativo: non poteva, cioè, essere confinato

nella struttura postcoloniale e Assia Djebar è riuscita a scardinare l’assolutezza di

questa struttura per fornirne un’interpretazione relativa e soggettiva. La relatività

richiede anche apertura mentale che Djebar ha dimostrato di possedere nella sua

lunga analisi sulle lingue da lei conosciute, utilizzate però in contesti diversi. La

pluralità linguistica consente di tessere una propria storia che sia utile per dare

un’immagine variegata ed eterogenea della propria identità culturale e, nel

contempo, un’immagine solida e amalgamata.

Una messa all’opera di questo tipo consente di rendere ancora più chiaro il concetto

di «planetarietà» di Spivak, infatti la letteratura è un espediente esemplare per

illustrare le dinamiche sviluppatesi dall’età coloniale all’età postcoloniale. Con la

scrittura in francese, Assia Djebar “traduce” i significati e «la traduzione diventa

uno strumento di analisi semiotica della dinamica dei processi storici, oltre che

strumento linguistico-retorico che si rapporta all’orizzonte della testualità mediante

la produzione di un meccanismo differenziale, e quindi decostruttivo, della pratica

di significazione»304. La traduzione, spiega Spivak, è infatti già di per sé una tecnica

decostruttiva, ma, nel caso di Assia Djebar, il processo traduttivo va al di là del suo

significato generale, effettivamente si tratta di una traduzione riferita sempre al

contesto extratestuale: la scrittrice traduce ciò che ha vissuto in prima persona,

dando al processo traduttivo una connotazione molto più ampia e personale. La

traduzione in francese di un’esperienza innesca un meccanismo complesso, fatto di

contraddizioni, di mutamenti e trasposizione dei significati; inoltre essa consiste in

un’apertura consapevole e inconsapevole dei propri pensieri, che frammentari

compongono un testo sempre eterogeneo. Riprendendo le parole di Spivak, ciò che

303 LAWRENCE GROSSBERG, “Lo spazio della cultura, il potere dello spazio”, in IAIN CHAMBERS e

LIDIA CURTI (a cura di), 1997, p. 208. 304 FIORENZO IULIANO, 2012, p. 83.

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emerge è la donna come militante dal punto di vista personale, politico e sociale305.

In tale processo, «queste riflessioni richiamano la famosa affermazione di

Heidegger secondo cui non è l’uomo a possedere il linguaggio ma viceversa, dal

momento che il linguaggio diventa il luogo privilegiato che permette di cogliere la

dimensione essenziale dell’essere senza correre il rischio di ridurla a semplice

presenza»306. Lei stessa scrive:

le molteplici voci che mi assediano – le voci dei miei personaggi nei testi di narrativa

– le odo perlopiù in arabo, un arabo dialettale, o anche un berbero che capisco male,

ma la cui rauca respirazione e il cui afflato mi abitano in maniera immemore. È

possibile che, per molto tempo, mi sia sentita portare più spesso da voci non francesi

– voci che mi assillano e si dà il caso fossero sovente voci nemiche del francese, che

fu così a lungo lingua dell’occupante – per riportarle in vita proprio iscrivendole, e

dovevo, oscuramente costretta, trovarne l’equivalenza, senza deformarle, ma senza

affrettatamente tradurle.

Sì, ricondurre le voci non francofone (gutturali, inselvatichite, ribelli) a un testo

francese che diventa finalmente mio. […]

Sì, far riaffiorare le culture tradizionali messe al bando, maltrattate, a lungo

disprezzate, iscriverle in un testo nuovo, in una grafia che diventa il “mio”

francese307.

Acquisire una lingua diversa dalla propria è stato un processo lungo ma anche di

riscatto personale: Assia Djebar si sente “fra due lingue”, «l’arabo, lingua materna,

con il suo latte, la sua tenerezza, la sua esuberanza, ma anche la sua diglossia, e il

francese, lingua matrigna come l’ho chiamata, o lingua avversa per dire l’avversità,

queste due lingue si intrecciano o competono, si fronteggiano o si accoppiano ma

sullo sfondo di questa terza: lingua dell’immemorabile memoria berbera, lingua non

civilizzata, non padroneggiata, ridivenuta giumenta selvaggia»308.

Questa condizione linguistica è la stessa che si ritrova in Spivak: la studiosa di

origini bengalesi concepisce il bengali come lingua nativa e dunque in grado di

cogliere le sfumature del significato di being at home, in particolare con la

connotazione di luogo in cui ci si sente protetti e liberi e sicuri che niente di male

accade309, mentre l’inglese è la lingua acquisita. Lei sostiene di avere due madri: la

prima madre è Calcutta; la seconda madre, da lei definita matrigna, sono gli Stati

305 Ivi, p. 100. 306 Ivi, p. 90. 307 ASSIA DJEBAR, 2004, pp. 30-31. 308 Ivi, p. 35. 309 FIORENZO IULIANO, 2012, p. 89.

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Uniti ma le identifica entrambe come due madri brutte criticando due posti

contemporaneamente. «I am bicultural, but my biculturality is that I’m not at home

in either of the places»310. Inoltre Spivak spiega cosa significa per lei trovarsi fra

due culture:

As far as I can tell, one is always on the run, and it seems I haven’t really had a home

base - and this may have been good for me.. I think it’s important for people not to

feel rooted in one place. So wherever I am, I feel I’m on the run in some way. But

with this is combined the fact that I write with greaty difficulty in both English and

Bengali. This relationship between languages compels me to recognize that neither

is natural or an artificial language. I’m devoted to my native language, but I cannot

think it as natural, because, to an extent, one is never natural... one is never at home.

one needs to be vigilant against simple notions of identity which overlap neatly with

language or location. I’m diply suspicious of any determinist or positivist definition

of identity, and this is echoed in my attitude to writing styles. I don’t think one can

pretend to imitate adequately that to which one is bound. So, our problem, and our

solution, is that we do pretend this imitation when we write, but then must do

something about the fact that one knows this imitation is not OK anymore 311.

La struttura del sistema coloniale ha imposto il suo meccanismo binario prima di

tutto a livello linguistico, e la scrittura di Assia Djebar tenta di scardinarla; la

decostruzione in tal senso avviene soprattutto a livello formale perché i contenuti si

modificano di conseguenza, adattandosi alla nuova struttura.

Come sostiene Spivak, è importante tenere conto di due livelli interpretativi, quello

testuale e quello extratestuale: il livello testuale riguarda la struttura interna del

testo, mentre il livello extratestuale è relativo al contesto esterno nel quale il testo

si colloca e a cui si ricollega312. Il primo livello consente di scoprire la costruzione

del testo, come si sviluppa attraverso la scrittura e quali problemi fa emergere, il

secondo livello manifesta il rapporto tra la scrittura e diversi fattori: temporali,

spaziali, personali. Infatti «alla base dello studio della letteratura c’è un principio

necessitante e contingente, il fatto, cioè, che il testo letterario garantisce una visione

completa, allo stesso tempo unitaria e frammentata, dettagliata e generalizzata,

concreta e astratta, dei processi extraletterari, del modo in cui la realtà storico-

politica viene interpretata e costruita dalle forze attive nel determinare i processi

310 “Postmarked Calcutta, India” with Angela Ingram, in SARAH HARASYM (edited by), 1990, p. 83. 311 SILVIA ALBERTAZZI, 2000, pp. 37-38. 312 FIORENZO IULIANO, 2012, p. 43.

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storici»313.

Il testo è un mezzo determinante per comprendere la différance, effettivamente la

scrittura si sviluppa con un costante lavoro di ridefinizione dei significati che si

concretizza anche come uno studio psicoanalitico su se stessi: la testualità ha

dunque un effetto pedagogico. Questo tipo di auto-analisi consente di manifestare

le proprie contraddizioni relative alle questioni della rappresentazione e alle

conseguenze epistemiche ed etiche314.

Per gli europei colonizzatori i testi rappresentavano un punto di forza del sistema

coloniale e altrettanto lo sono stati i testi scritti dai colonizzati; ma, mentre per gli

occidentali si trattava di costruire una struttura ideologica che non permettesse

confusione tra chi deteneva il potere e chi era costretto alla condizione subalterna,

per i nativi si tratta di de-costruire quella struttura per evidenziare gli aspetti

multiculturali, anche se saturi di drammaticità. La scrittura segna un’importante

svolta per coloro che sono stati costretti a tacere a lungo e «Gayatri Spivak approva

il suggerimento di Foucault secondo il quale “rendere visibile l’invisibile può anche

significare un cambio di livello, indirizzarsi ad uno strato di materiale che fino a

quel momento non aveva alcuna pertinenza per la storia e a cui non era stato

riconosciuto alcun valore morale, estetico o storico”»315. Inoltre, scoprire ciò che

era stato celato dal colonialismo è utile per cogliere il passaggio dall’oggettivazione

alla soggettivazione del nativo. Questo aspetto, caratterizzato da un evidente

disorientamento, fu descritto spesso da Fanon per sottolineare che «l’esperienza

coloniale annulla quindi il senso del sé del colonizzato, lo congela in una forma di

oggettività e questo è il motivo per cui “non è un uomo”»316. Perciò la scrittura è

utile per recuperare quella soggettività persa o che altrimenti non potrebbe essere

recuperata: la scrittura di Assia Djebar è la testimonianza secondo cui, con la

memoria, possono riaffiorare i ricordi violenti dell’esperienza coloniale, ma che

possono diventare il punto forte del recupero soggettivo. È importante anche

rimarcare il fatto che la scrittura aziona un meccanismo formativo della

soggettività, ovvero il soggetto si sviluppa come soggetto col progredire della

313 Ivi, p. 46. 314 Ivi, p. 49. 315 ANIA LOOMBA, 2000, p. 91. 316 Ivi, p. 146.

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scrittura. Nel caso di Assia Djebar la formazione del soggetto avviene in due

progressioni parallele: quella che riguarda se stessa come soggetto parlante e non

come oggetto di cui si parla, e quella che riguarda se stessa come soggetto

femminile parlante e non come oggetto femminile di cui si parla. La differenza è

molto sottile ma è necessaria per capire come il punto di vista femminile non sia

meno importante di quello maschile, che è sempre stato quello dominante

all’interno dei discorsi coloniali. Spesso le rappresentazioni del mondo femminile

sono state enfatizzate da preconcetti, così ben spiegati da Loomba:

se l’America e l’Africa quindi sono solitamente rappresentate come donne selvagge,

le immagini dell’“Oriente” si focalizzano sulle ricchezze, lo splendore e

l’abbondanza. Come ci possiamo aspettare, le donne vicine alla casa regnante, sia le

regine che le fanciulle dell’harem, diventano i simboli di questo mondo. La donna

asiatica velata diventa una fantasia coloniale ricorrente, come anche la figura della

regina orientale, la cui ricchezza testimonia delle ricchezze dell’“Oriente” e il cui

essere donna rende le ricchezze vulnerabili per il sé europeo. La storia biblica di

Sheba che arriva coperta d’oro alla corte di Salomone e che è pronta a cedere la sua

enorme ricchezza in cambio di una gratificazione sessuale ha dato l’avvio a una serie

di storie in cui il desiderio della donna indigena per l’europeo era una codificazione

della sottomissione dei popoli colonizzati. […] Un’altra figura molto amata nelle

rappresentazioni coloniali è quella della sati, la vedova che si immola tra le fiamme

alla morte del marito: quasi tutti i commentatori del XVI e XVII secolo si soffermano

su quell’immagine della barbarie orientale e di donne tanto indifese e devote317.

Per l’europeo «la figura dell’“altra donna” infesta l’immaginazione coloniale in

modi ambivalenti e spesso contraddittori: è un esempio di barbarie, ma rappresenta

anche le fantasie coloniali del comportamento femminile perfetto»318. Infatti per il

bianco il preconcetto della donna scura consisteva nell’immoralità, nella

promiscuità, nella libidine e nell’attrazione319. Loomba spiega che «la sessualità dei

neri e in particolare quella delle donne “diventa un’icona della sessualità deviata in

generale”»320 e il concetto di “donna” rimane statico in questa passività e

immutabilità.

La scrittura di Assia Djebar vuole rovesciare questi preconcetti sulla donna presenti

anche dopo l’indipendenza dell’Algeria, ma in questo caso a causa della tradizione

patriarcale. Infatti «le statut de la femme se trouve prisonnier d’une représentation

317 Ivi, p. 155. 318 Ivi, p. 159. 319 Ivi, p. 160. 320 Ivi, p. 161.

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religieuse, conservatrice et inégalitaire, et d’autre part d’une conception selon

laquelle le mérite est, pour les femmes, attaché au droit, les mettant constamment

devant l’obligation de faire la preuve de leur patriotisme, donc de leur propre refus

de l’occidentalisation»321. La conservazione della tradizione patriarcale appariva

come un atto patriottico e il rapporto della donna con l’uomo nel matrimonio, nella

famiglia e nella società era una vera e propria sottomissione che diventava per

l’uomo una difesa nazionale322. Anche la formazione scolastica femminile veniva

vista dall’algerino come un’apertura al nemico francese e allo spazio pubblico.

Inoltre la mancanza di comunicazione tra uomo e donna tra le mura domestiche non

facilitò l’emancipazione femminile, anche perché i movimenti femministi venivano

interpretati come forme di occidentalizzazione delle donne algerine: «le féminisme

est “occidental”; les femmes ne doivent pas faire ceci ou cela, ou ne doivent pas

revendiquer ceci ou cela, ou bien elles revendiquent cela parce qu’elles sont

“occidentalisées”»323.

Il femminismo di Assia Djebar ha una valenza specifica e personalizzata; per lei

«“feminisme”, en milieu arabo-musulman, c’est comment retrouver une tradition

ancienne, une tradition perdue»324, perciò questo aspetto mette in evidenza i

contrasti tra la staticità della tradizione familiare e la dinamicità della modernità.

La sua scrittura si pone, infatti, contro le due forme di strumentalizzazione della

donna: il colonialismo, per la sua difesa della donna, da salvare dalle tradizioni

rigide della società algerina, e il patriarcato, per la sua stasi e chiusura culturale alle

novità. L’autrice applica la propria personale de-costruzione di queste strutture

grazie al francese, lingua che, pur identificata da Assia Djebar come un padre, è in

realtà l’unico strumento grazie al quale, lei stessa, come donna, può emanciparsi

dallo sguardo e dal giudizio maschili. Come scrive Giovanni Dotoli, «la langue est

le corps centrale de l’architecture du texte. Elle narre l’ipséité et l’étrangeté,

l’identité et l’autre, le désire et le corps, l’échange et le croisement. Permanence de

la langue. Langue-quête»325.

321 MONIQUE GADANT, 1995, p. 136. 322 Ivi, p. 217. 323 Ivi, p. 219. 324 Ivi, p. 282. 325 GIOVANNI DOTOLI, “«Écrire est une route à ouvrir». La voix de la francophonie d’après Assia

Djebar”, in Actes du Colloque international, 2016, p. 25.

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Scrivere è per la scrittrice algerina una ricerca linguistica, così come viene spiegato

da Derrida:

ciò che io dico, quello che io dico, quell’io di cui parlo in una parola, è qualcuno, me

ne ricordo appena, a cui l’accesso a ogni lingua non francese dell’Algeria (arabo

dialettale o letterario, berbero ecc.) è stato interdetto. Ma questo stesso io è anche

qualcuno a cui l’accesso al francese, in altro modo, apparentemente indiretto e

perverso, è stato anch’esso interdetto. In altro modo, certo, ma comunque interdetto.

Con un’interdiziome che interdice di colpo l’accesso alle identificazioni che

permettono l’autobiografia pacificata, le “memorie” in senso classico. In quale lingua scrivere delle memorie, dato che non c’è stata una lingua materna

autorizzata? Come dire un “mi ricordo” che abbia valore, quando bisogna inventare

sia la propria lingua sia il proprio io, inventarli allo stesso tempo, al di là del dilagare

[déferlement]326 di amnesia scatenato dal doppio interdetto?327

In questa ambivalenza la soluzione della re-invenzione consente di plasmare la

lingua, «di darle finalmente una forma (innanzitutto deformarla, riformarla,

trasformarla), facendole così pagare il tributo dell’interdetto o – ed è indubbiamente

lo stesso – sdebitandosi con essa del prezzo dell’interdetto»328. L’interdizione, in

questo caso, riguarda la lingua materna berbera o araba della scrittrice, che non

veniva insegnata a scuola durante la fase coloniale francese. Derrida ha saputo

cogliere, così come ha fatto la Djebar, la contraddizione riguardante la lingua

durante l’imperialismo coloniale francese; infatti «date tutte le censure coloniali

[…], date le barriere sociali, i razzismi, una xenofobia dal volto quasi conviviale o

gioioso, data la scomparsa in corso dell’arabo come lingua ufficiale, quotidiana e

amministrativa, la sola risorsa era ancora la scuola; e a scuola l’apprendimento

dell’arabo, ma a titolo di lingua straniera; di quella strana sorta di lingua straniera

come lingua dell’altro, certo, benché, ecco la cosa strana e inquietante, dell’altro

come il prossimo più prossimo»329. Ciò significava che «la lingua sottratta – l’arabo

o il berbero, per cominciare – diveniva indubbiamente la più straniera» e, come

sottolinea Derrida, lingua straniera ed estranea330. Questo problema nella

326 JACQUES DERRIDA, Il monolinguismo dell’altro, Raffaello Cortina, Milano, 2004, pp. 38-39:

«Derrida ricorre qui a un termine del linguaggio marinaresco, che indica lo spiegare le vele,

sciogliendo gli imbrogli, per liberarle al vento […] È altrettanto difficile riprodurre la ricchezza del

termine déferlement, che si è scelto di tradurre con “dilagare”, per rendere insieme l’azione dello

svolgersi e la violenza di tale espansione». 327 Ivi, p. 38. 328 Ivi, pp. 40-41. 329 Ivi, p. 43. 330 Ivi, p. 49.

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formazione scolastica non riguardò unicamente l’insegnamento linguistico, infatti

interessò anche l’aspetto storico-geografico e letterario dell’Algeria che a scuola

veniva tralasciato o addirittura cancellato. Anche la radio è stata uno strumento di

notevole divulgazione dei valori del sistema coloniale francese, infatti «prima del

1954 la radio è, nel campo psicopatologico, un oggetto cattivo, ansiogeno e

maledetto»331 e «girare la manopola della radio è come dare asilo alla parola

dell’occupante, è come permettere al linguaggio del colonizzatore di infiltrarsi nel

cuore stesso della casa»332.

L’obiettivo del colonizzato, all’indomani della decolonizzazione, consiste nel

debellare la verità che ha immobilizzato la storia nazionale della colonia, perché

il colono fa la storia e sa di farla. E siccome si riferisce costantemente alla storia

della sua metropoli, mostra chiaramente di essere qui il prolungamento di quella

metropoli. La storia che scrive non è dunque la storia del paese che egli spoglia, ma

la storia della sua nazione in quanto essa rapina, violenta e affama. L’immobilità a

cui il colonizzato è condannato non può essere rimessa in discussione che se il

colonizzato decide di mettere fine alla storia della colonizzazione, alla storia del

saccheggio, per far esistere la storia della nazione, la storia della

decolonizzazione333.

Di conseguenza la storia nazionale, durante la fase coloniale, viene dapprima

analizzata in tutte le sue parti per capire cosa può essere salvato dal passato e cosa

può essere ricostruito per il presente del paese. Infatti bisogna tenere conto del fatto

che, una volta completato il processo di decolonizzazione, i contesti del presente

postcoloniale risultano diversi da quelli del passato coloniale, perciò è importante

che venga sviluppata dagli indigeni una vera e propria ricerca storica334.

La ricerca storica è anche ricerca d’identità dove «le présent s’entrecroise au passé,

en une sorte de récapitulation où le présent retrouve sa place dans la dimension

historique»335.

331 FRANTZ FANON, 2007, p. 80. 332 Ivi, p. 83. 333 GIOVANNI PIRELLI, 1971, p. 93. 334 Cfr. JEANNE-MARIE CLERC, Assia Djebar. Écrire, Transgresser, Résister, L’Harmattan, Paris,

1997, p. 83. 335 Ivi, p. 98.

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3.3 Scrivere per non dimenticare

3.3.1 Ces voix qui m’assiègent: silenzio e memoria

La scrittura di Assia Djebar è scrittura di emancipazione multiforme, prima di tutto

delle donne e poi in nome del popolo algerino; i suoi scritti trattano della guerra che

ha interessato l’Algeria tra il 1954 e il 1962, inclusa nel contesto più ampio della

colonizzazione, del colonialismo e della decolonizzazione, ma anche della guerra

civile e dei problemi nati all’interno della stessa società algerina, dopo la

decolonizzazione fino ai tempi recenti.

Chikhi osserva che «Assia Djebar […] depuis 1962, soucieuse de marquer son

engagement, elle est soumise à une double polarité: d’une part, l’incitation

taraudante de l’histoire qui reclame son dû sous la forme d’une idéologie de la

référence, d’autre part, un appel du dedans quasi-charnel qui s’exprime dans la

quête éperdue d’un univers de formes esthétiques dissimulant la véritable raison

d’être de l’écriture, la nécessité de l’image de soi»336. E nello specifico, la novità di

Assia Djebar sta nel punto di osservazione degli eventi citati, non più quello del

colonizzatore ma quello del colonizzato, non più quello dell’uomo ma quello della

donna. L’autobiografia è dunque molto forte in questa scrittrice, che ha provato a

trasmettere le contraddizioni di un paese che ha più volte ostacolato la libertà,

soprattutto quella delle donne. In questo contesto, di grande rilevanza sono le poesie

scritte dalla Djebar durante gli anni della guerra, anche se pubblicate solo nel 1969

nella raccolta Poèmes pour l’Algérie heureuse, che «oltre a non seguire un ordine

cronologico preciso, sembrano proporre dei flash, delle istantanee impresse sul

bianco illibato delle pagine del “manoscritto” della Storia recente del suo paese,

scatti lirici su alcuni scorci delle tormentate vicissitudini dell’Algeria, del prima e

del dopo, che se da un lato affondano le proprie radici nel tessuto della guerra,

dall’altro sembrano allontanarsi dalla furia degli scontri, privilegiando il tempo

presente e quello futuro»337. In questa raccolta, come in tutti gli scritti della Djebar,

336 BEÏDA CHIKHI, Littérature algérienne. Désir d’histoire et esthétique, L’Harmattan, Paris, 1997,

p. 133. 337 MARIO SELVAGGIO, SUSANNA SEONI, “Per non dimenticare l’orrore: memoria e identità in

Poèmes pour l’Algerie heureuse di Assia Djebar”, in Actes du Colloque international, 2016, p. 164.

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si percepisce la forza di unire due culture tanto distanti, che si esprimono nella

libertà di parola della lingua francese e nella musicalità di “sensibilità algerina”. Si

tratta infatti della «“recherche de la musique maternelle contenue dans toute

langue” di cui parla Beïda Chikhi, con quell’universo materno che alberga in ogni

individuo e che “prolonge le cri personnel, à la fois singulier et universel”»338. C’è

una vera e propria polifonia negli scritti di Assia Djebar, anche perché «dietro il

patriarcato visibile, manifesto, viene affermata l’esistenza, più profonda, di un

matriarcato di base. La funzione della madre algerina, quelle della nonna, della zia

della «vecchia» sono catalogate e precisate»339 e i ricordi della scrittrice si

soffermano spesso su queste figure basilari della famiglia. Si tratta di «espace

mnémonique, fait de durée, chargé d’images et de sensations, doublement

anaphorique, visité et revisité, il porte les stigmates des paradis perdus de

l’enfance»340.

D’altra parte il problema linguistico fa parte delle opere di Assia Djebar e in Ces

voix qui m’assiègent viene sviluppata un’auto-analisi linguistica, storica, sociale e

di genere, in cui Djebar riflette sul proprio ruolo di scrittrice e sugli eventi storici

che hanno interessato l’Algeria nella fase coloniale e postcoloniale. Il testo è stato

suddiviso in parti, ognuna delle quali affronta una questione che è sempre connessa

alle altre, mentre fa da cornice l’argomento linguistico. La scelta di scrivere in

lingua francese apre una serie di problemi che consentono all’autrice di ragionare

sul proprio percorso formativo, nel quale, come vedremo, è caratterizzato da diversi

tipi di scrittura, che sono stati fondamentali per ampliare le proprie riflessioni sul

concetto di francofonia.

Ma la cosa più importante, come sostiene la stessa autrice, «si j’écris en français,

c’est parce que je l’ai choisi et non parce que je suis une colonisée»341. La

francofonia non può esaurirsi in una definizione perché è sempre in movimento e,

come lei stessa dice, «Sì, la mia scrittura in francese è veramente un cammino,

anche impercettibile»342. La lingua francese come lingua della scrittura è stata una

scelta complessa e difficile per un’autrice che ha sempre cercato di difendere la

338 Ivi, p. 168. 339 FRANTZ FANON, 2007, pp. 40-41. 340 BEÏDA CHIKHI, 1997, p. 159. 341 Ivi, p. 175. 342 ASSIA DJEBAR, 2004, p. 9.

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propria cultura algerina, ma da questa scelta ne scaturisce una forte personalità che

non ha mai dimenticato le origini.

Il libro si apre con un’introduzione dal titolo “Un percorso francofono 1957-1997”,

che contiene una serie di poesie e pensieri che fanno da presentazione a ciò che il

lettore si aspetterà nelle pagine seguenti. Il sottotitolo compreso in questa sezione

del libro si chiama “Fra corpo e voce” ed è utile per iniziare a delineare la base delle

riflessioni di Assia Djebar. Il corpo e la voce sono infatti le prime due cose di cui la

donna può fruire in seguito alla de-colonizzazione e le prime due forme di libertà e

di scelta tutta al femminile. Nel corso del libro si nota come il corpo e la voce di

una donna non sono altro che una metafora per esprimere l’importanza della

scrittura, e, precisamente il corpo della scrittura femminile che finalmente può

parlare; concetto ben espresso da Derrida, «quando diciamo corpo, nominiamo

tanto il corpo della lingua e della scrittura quanto ciò che ne fa una cosa del

corpo»343. Per capire l’esordio del libro di Assia Djebar, è necessario citare uno dei

pensieri più forti e più intensi riportato dalla scrittrice in questa sezione:

“Già da gran tempo ormai:

sempre fra corpo e voce”

- non è anzitutto una pulsione di scrittura portata

da un corpo di donna che si muove fuori

che vuol vedere fuori,

ovvero gli altri

corpo che non si pone

ma, senza saperlo, si espone...

e questo corpo mobile, esitante, quasi uscito dall’ombra,

non potrebbe andare lontano

non saprebbe fissare l’orizzonte,

anzi tutti gli orizzonti,

senza rischiare d’obliare l’ombra e la notte dietro,

là, dietro, contro le sue spalle

sì, questo corpo portato a un tratto sempre più intensamente

in cerchi che si svolgono plurimi

insieme nella speranza e nel muto ritegno

corpo senz’ancoraggio

il corpo mio o quello della mia scrittura?

Questo corpo vaga sul cammino

per i sentieri del caso

343 JACQUES DERRIDA, 2004, p. 34.

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ed è allora la voce

la voce di questo corpo navigante

muto fin qui, a occhi sgranati

la voce delle ombre sororali anche

foglie al vento

questa voce doppia che sussurra

mormora

gorgheggia

e scorre

liquida, languida, non s’inaridisce

la voce senza forza

o con corpo e grida

la voce urlante

o appena veemente

infaticabile certo

inalterabile

un flusso senza alcuna sorgente

di me delle altre

delle donne morte

della mia sorellina vicinissima

voce di mia figlia vacillante

o così forte

la mia voce molteplice

che solleva questo corpo

lo porta in alto

lo invade, lo sospinge, lo trascina,

lo colma

fra corpo e voce

va così, circondata, accerchiata, eppure va

la mia scrittura344.

La voce di Assia Djebar si fa più intensa con la scrittura in francese, la lingua che

ha dato inizio alla sua emancipazione femminile, voluta dall’autorità paterna che ha

indirizzato la scrittrice alla lingua francese e l’ha «déculpabilisée»345. La sua voce

non è però guidata da quest’unica lingua, ma da quattro lingue346: «quella della

roccia, la più antica […] si chiamava questa berbera perlopiù ribelle e selvaggia»,

«quella del Libro e delle preghiere cinque volte al dì […] la lingua araba dunque

che, per me, bambina, si dava arie da preziosa, sfoggiava, per noi un tempo, le sue

maniere altere», «la lingua dei padroni di ieri, finalmente partiti, ma lasciandoci la

344 ASSIA DJEBAR, 2004, pp. 13-15. 345 GIULIVA MILÒ, “Les langues d’une Algérie plurielle: entre espoir et désillusion”, in Actes du

Colloque international, 2016, p. 315. 346 ASSIA DJEBAR, 2004, pp. 15-16.

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loro ombra, il loro rimorso, certo un po’ della loro memoria a rovescio/ o della loro

pelle che si squama,/ diciamo la “lingua franca”»; «tre lingue cui s’accoppia un

quarto linguaggio: quello del corpo con le sue danze, le sue ipnosi, i suoi

soffocamenti,/ talora la sua asfissia,/ e il suo delirio/ il suo brancolare da mendicante

ebbro/ il suo folle slancio/ da infermo, all’improvviso». Accade che il

“beccheggiare” di Assia Djebar è stare «”fra due mondi/ fra due culture”»347 e

«scrivere è una strada da aprire/ scrivere è un lungo silenzio che ascolta/ un silenzio

di tutta una vita»348.

La scrittura di Assia Djebar è da contestualizzare in un momento storico molto

violento per l’Algeria, la guerra, durante la quale l’autrice si è dedicata a cinque

romanzi, definiti da lei «architetture verbali». La sua è dunque una scrittura contro

la violenza, «individuando proprio nella parola da cui la donna è stata esclusa,

l’unica via di salvezza, in quanto permette all’io di diventare un NOI e di

moltiplicarsi così all’infinito, agendo sulle mentalità di donne e uomini»349.

La prima cosa che emerge nella volontà dell’atto di scrittura è lo spazio, ovvero

l’aspetto spaziale è determinante per essere fisicamente presenti e per essere

mentalmente introdotti nella quotidianità. Lei stessa dice «“Seduta sul ciglio della

strada, nella polvere...”/ È così che avrei voluto iniziare: evocare in che momento

ho sentito che potevo, come testimone, o sguardo, o scrivente, essere fuori,

veramente unita ai miei, alle tribù, alle frazioni, generazioni morte e vive, della mia

terra laggiù (insomma la “mia nazione”, piuttosto la mia comunità d’origine); sì,

unita, perduta fra loro e immaginare di lasciar traccia... per loro, per noi»350.

Lo spazio viene prima di tutto presentato attraverso lo sguardo, che non riguarda

soltanto l’organo della vista ma anche il punto di vista mentale dal quale l’autrice

può vedere le cose. Lo spazio rappresenta uno degli elementi fondamentali della

scrittura di Assia Djebar perché è connesso all’esperienza da cineasta nei suoi

territori d’origine, che rivisitò all’età di quarant’anni, dopo una vita vissuta in

Francia. La cosa che più la colpì in questo ritorno fu la gente che era seduta a gambe

incrociate tra la polvere, in attesa di qualcosa, e, come lei stessa scrive «“Seduta

347 Ivi, p. 16. 348 Ivi, p. 18. 349 GIOVANNA CALTAGIRONE, “Quando la critica d’arte diventa lotta politica. Femmes d’Alger dans

leur appartement, in Actes du Colloque international, 2016, pp. 113-114. 350 ASSIA DJEBAR, 2004, pp. 19-20.

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dunque sulla strada” per terra, credo d’aver vissuto la mia ebbrezza più rara:

guardare in maniera anonima; anche in jeans, alzare un ginocchio, appoggiare il

gomito sulla gamba come loro e dimenticare il tempo contemplando la sfilata dei

passanti, dei fellah351, dei conducenti di muli, e di qualche bicicletta...»352.

Occupare lo spazio, farne parte ed entrare in contatto con le persone che occupano

lo stesso spazio, per l’autrice, si trattava di una conquista perché, come lei scrive,

«mi sentivo ammessa subito […] fra i seduti della strada […] e per qualche ora, mi

sentivo simile a quelle vecchiette tradizionali che, in tarda età, godevano di tutte le

libertà, a cominciare da quella dello spazio»353. Ma “seduta sul ciglio della strada”

significa anche ricordare ciò che è accaduto in Algeria e in quei ricordi «sfilano

uomini che reggono tra le mani la testa mozzata, donne, giovani stavolta e qualcuna

adolescente, che cercano d’impedire ai fiotti di sangue di sgorgare troppo dalla loro

nuca, dai loro occhi... Sull’altro lato della strada – perché io guardo, sì, continuo a

guardare – giovani, ragazzi e qualche uomo fatto, tutti armati, alcuni, con il volto

completamente mascherato di nero, sorvegliano l’interminabile processione,

uomini in armi pietrificati; terribili ma pietrificati...»354.

Questa memoria è possibile grazie alla lingua straniera, la lingua francese, che è

l’unica, per Djebar, in grado di far parlare, tanto che alla domanda «Ma perché lei

scrive?» posta durante un’intervista, lei rispose «Scrivo a forza di tacere!»355. La

prima parte del libro si intitola proprio “Francofonia?”, con il punto di domanda,

per evidenziare il fatto che Assia Djebar non si sente una voce francofona; ricevette

una formazione educativa francese durante il colonialismo in Algeria, anche se la

sua cultura d’origine è arabo-berbera. Infatti l’autrice fruisce della lingua francese

con una “sensibilità algerina”, e la definizione di “francofonia” è per lei troppo

limitante dato che si sente una voce ai margini del francese. Inoltre questo concetto

viene connesso a un momento storico e politico, quello coloniale, che non esiste

più; per lei è meglio parlare di franco-graphie: «Je pense en arabe et J’écris en

français»356.

351 Contadini. 352 ASSIA DJEBAR, 2004, p. 21. 353 Ibidem. 354 Ivi, p. 22. 355 Ivi, p. 27. 356 MONIQUE GADANT, 1995, p. 281.

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Il concetto di francofonia è affrontato in maniera molto simile al concetto di

“planetarietà” di Spivak, effettivamente l’idea di Djebar è quella di oltrepassare i

confini geografici per obiettare il concetto stesso di francofonia, nel quale la

scrittrice si dispone ai margini. Si tratta dunque di una subalternità linguistica

consapevole, ed è da questa posizione che la scrittrice può sottolineare come lei si

percepisca intricata «nel viluppo delle lingue aggrovigliate»357. Questo intreccio

linguistico si è verificato a causa del silenzio, che per lungo tempo ha generato una

serie di preconcetti sulla donna orientale: è il silenzio della propria persona e il

silenzio femminile, non solo il proprio, ma quello di tutte le donne algerine.

In Assia Djebar il silenzio ha riguardato anche la sua carriera da scrittrice, infatti i

suoi quattro romanzi vennero pubblicati tra il 1957 e il 1967, poi ci fu la scelta di

allontanarsi dalla scrittura per dieci anni e di uscire dal silenzio nel 1979 con Donne

d’Algeri nei loro appartamenti. Questa pausa non fu priva di scrittura, dato che

Assia Djebar si dedicò ad altri tipi di scritture, «teatro, indagini sociologiche sul

campo in merito all’agricoltura algerina, riprese cinematografiche»358, ma le

servirono anche per riappropriarsi della lingua francese in maniera nuova,

consapevole e personale.

Frutto di queste nuove scritture è anche un lungometraggio, da lei stessa diretto dal

1975 al 1977, intitolato La Nouba des femmes du Mont Chenoua, che «ottiene nel

1979 il Premio della critica internazionale alla Biennale del Cinema di Venezia»359.

Grazie alle testimonianze delle donne originarie del monte Chenoua, la memoria

linguistica berbera e araba si fa più forte e tenace con l’ascolto sonoro della parola

femminile, «dal sussurro al grido, al monologo, al dialogo, al clamore, alle

stridulazioni»360. Durante quelle riprese, l’autrice si accorse che il velo della donna

maghrebina venne da lei valutato come una vera e propria copertura del corpo della

donna, le sue parole furono queste: «contemplai, dunque, a posteriori, l’immagine

alla moviola, e solo in quel momento fui colta da uno choc, senza dubbio il primo

choc visivo della mia vita, di fronte al mondo dei miei. La giovane donna velata,

esile e flessuosa, avanzava sul sentiero: i lembi del candido velo svolazzavano,

357 ASSIA DJEBAR, 2004, p. 23. 358 Ivi, p. 37. 359 RENATE SIEBERT, 2012, p. 44. 360 ASSIA DJEBAR, 2004, p. 40.

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lasciando scoperti soltanto gli occhi, ma in lei un unico occhio era visibile. Turbata,

esclamai: “È un fantasma!”»361.

La scrittura cinematografica consentì all’autrice di riflettere sul ruolo femminile

anche da altri punti di vista, ovvero attraverso le immagini e i suoni, che davano

forza maggiore a ciò che è stato espresso solo con la parola scritta. I luoghi delle

riprese vennero scelti in base alla propria storia familiare e per lei era «come se,

filmando gli “esterni” noti, riconosciuti, ritrovati dopo il periodo della guerra e gli

inizi dell’indipendenza, ritrovassi sia la mia memoria originaria sia i miei contatti

di pelle e parole»362. Quei luoghi si salvarono durante la guerra algerina ma, con le

riprese del passaggio delle donne e delle loro voci, fanno riemergere un passato

difficile e violento per l’Algeria. La violenza autobiografica della scrittrice risalta

con un libro scritto da lei all’età di quarant’anni, L’Amour, la fantasia, nel quale ai

personaggi affidò parti della sua vita, con lo sfondo della guerra. Questo ha

rappresentato per l’autrice il primo libro autobiografico e il primo libro di vera auto-

analisi: «c’è una parola splendida in lingua araba, che lascia trasparire lo sforzo

interiore e anche, di questo sforzo, il ritmo, il tormento, ed è la parola iǧtiḥād.

Significa “ricerca”, ardente ricerca su di sé, indagine interiore e intellettuale, e

morale; ecco perché questa parola si trova sia al centro del pensiero religioso,

quand’esso commenta un testo sacro, sia in ogni campo della creazione umana»363.

In seguito al periodo cinematografico, la scrittrice si rese conto che la lingua

francese per la letteratura poteva essere, per lei, l’unica in grado di comprendere le

«altre lingue materne […] senza scriverle»364 e la sintesi migliore per descriversi è

questa: «“Sono donna arabo-berbera”, e in più di “scrittura francese”»365 per

sottolineare che un’identità si forma anche sull’aspetto linguistico. Allora «la

langue est une voix plurielle, traversière, murmurant le multilingue, le rythme du

temps d’hier et d’aujourd’hui»366.

Nel cinema, un altro importante aspetto a cui Assia Djebar concede molta

361 Ivi, p. 93. 362 Ivi, p. 94. 363 Ivi, p. 106. 364 Ivi, p. 41. 365 Ivi, p. 43. 366 GIOVANNI DOTOLI, “«Écrire est une route à ouvrir». La voix de la francophonie d’après Assia

Djebar”, in Actes du Colloque international, 2016, p. 26.

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importanza è quello del canto, riferito alla lingua orale berbera; nel canto viene

individuato da lei un lamento che è in grado di riportare un tono malinconico antico

ma anche la forza espressiva delle donne, è ciò che l’autrice definisce “il canto della

fenice”, da una citazione di André Breton. In questo senso il canto è un mezzo di

rinascita e una “culla” del dolore. Nel secondo lungometraggio realizzato nel 1982,

La Zerda ou les chants de l’oubli, è protagonista un «anonimo canto di dolore», ciò

che avrebbe dovuto sintetizzare la storia maghrebina della prima metà del

Novecento. Come sostiene Adriana Cavarero: «femminilizzato per principio,

l’aspetto vocalico della parola e, tanto più, il canto compaiono come elementi

antagonisti di una sfera razionale maschile che si incentra, invece, sull’elemento

semantico. Per dirla con una formula: la donna canta, l’uomo pensa»367. La donna

de-costruisce la propria immagine a partire dal canto, peculiarità che la fa sentire

affrancata al di là dei preconcetti di genere: secondo Said, l’aspetto musicale è un

importante fattore di rilettura culturale da parte dei subalterni, i quali fanno della

musica una forma espressiva propria e dunque maggiormente sentita.

Viene inoltre rovesciata la «prospettiva dello sguardo del colonizzatore sulle

popolazioni maghrebine, utilizzandone gli stessi strumenti, cioè i filmati d’epoca,

che ne documentavano le usanze e le cerimonie»368. Con questo lungometraggio

emerge ciò che durante il colonialismo francese rimase nascosto, ovvero le

tradizioni locali e l’atmosfera di festa, aspetti ben difesi dal mondo contadino.

Assia Djebar lo descrive così: «immagini mute, da cui ho tagliato in precedenza i

rumori, il borbottio», mentre nel primo lungometraggio, La Nouba des femmes du

mont Chenoua, che è stato realizzato in arabo e in francese, era forte l’inclinazione

poetica che ruotava attorno alla parola makhdoucha369. Infatti bisogna tener conto

anche di un altro fattore delle scritture di Assia Djebar, la musica, che non è solo

riferita alla voce e al canto ma anche agli spazi sonori. Ad esempio, La Nouba des

femmes du mont Chenoua inizia con

un rumore di sorgente (semplice getto o gioco d’acqua sempre più torrentizio), a

questo rumore-musica collegato ai titoli di testa, al titolo sotto l’albero (l’albero di

tutti i cominciamenti), rumore d’acqua che non è soltanto mormorio dei fossati di

367 IAIN CHAMBERS (a cura di), 2006, p. 75. 368 RENATE SIEBERT, 2012, p. 45. 369 ASSIA DJEBAR, 2004, p. 142: straziata.

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questa regione di agrumi e ortaggi ai piedi del Chenoua (fertilità certo, frescura

ombrosa, accanto agli aranci), che non è soltanto voce delle fontane lungo le strade,

e dei bidoni percossi posti in mezzo agli schiamazzi dei bambini (infaticabile

affaccendarsi delle ragazzine, la loro corvée d’acqua dopo la scuola, prime faccende

femminili che l’avvenire non eviterà loro).

Rumore d’acqua che diventa per me quello della memoria: risalire sempre più nel

tempo, grazie all’acqua o nonostante l’acqua ritrovare gli altri rumori: gli scalpiccii,

la polvere da sparo, i gridi e i rantoli. Tutto il dramma risvegliato che i volti delle

donne chiuse nelle grotte ascoltano in silenzio, no, che guardano, è a questo che

pensavo disponendole fisse, immobili non a causa del terrore, ma della distanza: gli

uomini fuori guerreggiano, non caracollano più, combattono […] Memoria

dell’acqua, memoria delle sabbie piuttosto, silenzio. Scomparso l’albero, inghiottito

il rumore d’acqua, comincia il film. Parlano le altre donne370.

Perciò la scrittura cinematografica può essere definita come una forma di traduzione

intersemiotica, in base alla terminologia jakobsoniana, in cui le immagini e i suoni

dei protagonisti svolgono una funzione di traslazione dei significati presenti nella

lingua scritta francese di Assia Djebar. Mentre la scrittura in francese è quella

straniera, “scrittura dell’espatrio” che prova ad esprimere qualcosa in una lingua

che non è la propria, il cinema è la scrittura delle proprie origini, in francese o in

arabo, attraverso lo sguardo e l’ascolto. Accogliere i racconti delle altre donne

amplia le testimonianze femminili sul passato coloniale e sul presente algerino,

sulla resistenza femminile di fronte alla guerra. Francesco Asole spiega che «il film

è strutturato come una sorta di “nouba”, composizione strumentale e vocale di

origine arabo andalusa, molto fiorente in Andalusia durante il dominio arabo, dove

venne introdotta intorno all’VIII secolo, fu poi esportata nel Maghreb da musicisti

che fuggivano dalla Spagna all’epoca della cacciata dei mori»371. Il termine

«“nouba” significa “aspettare il proprio turno” (di esibirsi), quindi, esibirsi a turno.

Perciò il film della Djebar è suddiviso in parti, corrispondenti a quelle di una

“nouba”, il cui inizio è indicato da una didascalia. Figure centrali dell’opera sono

le donne»372.

A riguardo, fondamentale è il discorso sull’esilio trattato da Said, infatti la

decostruzione può avvenire anche a partire da questa forma di allontanamento,

mentre il caso di Assia Djebar è quello dell’espatrio. La definizione di Said è questa:

370 Ivi, pp. 147-148. 371 FRANCESCO ASOLE, “Il cinema di Assia Djebar”, in Actes du Colloque international, 2016, p.

118. 372 Ibidem.

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«l’esilio è qualcosa di singolarmente avvincente a pensarsi, ma di terribile a viversi.

È una crepa incolmabile, perlopiù imposta con forza, che si insinua tra un essere

umano e il posto in cui è nato, tra il sé e la sua casa nel mondo»373. Certe forme di

esilio possono anche essere incluse in movimenti nazionalisti, ad esempio il caso

dell’Algeria era caratterizzato da tipologie di nazionalismo isolate: «i nazionalismi

parlano sempre una lingua plurale, di gruppo, laddove l’esilio rappresenta il senso

lancinante di quella solitudine assoluta che si può sentire solo quando si è fuori da

ogni gruppo: la deprivazione che si prova nel non poter condividere con altri una

casa comune»374. Said parla principalmente del suo caso, quello palestinese, che

viene descritto dallo studioso come l’«essere stati esiliati da esiliati», infatti egli

spiega che «durante l’estate del 1982 tutti i palestinesi si chiedevano quale

misteriosa furia spingesse Israele, che già li aveva dispersi nel 1948, ad accanirsi

senza tregua contro di loro, scacciandoli anche dai campi e dalle case in cui avevano

trovato rifugio in Libano»375. A questo punto Said vede l’esilio come una

liberazione dalle forme di potere radicatesi nel territorio da cui ci si allontana376.

L’esilio di Assia Djebar diventa espatrio perché «l’esule, cioè, sente pressante il

bisogno di ricomporre la propria esistenza spezzata, e per questo sceglie spesso di

identificarsi in un’ideologia trionfante piuttosto che in un popolo riacquisito e

accogliente»377. Quella di Assia Djebar è scrittura del dépaysement378 e Said

definisce la sottile differenza tra chi è esiliato e chi è espatriato: «gli espatriati

vivono in un altro paese per scelta volontaria, dovuta perlopiù a motivi personali o

astrattamente sociali […] Gli espatriati possono cioè condividere la solitudine e

l’estraneità che definisce l’esilio, ma non soffriranno mai le dure proscrizioni da cui

l’esilio scaturisce»379.

Lo strumento della scrittura, qualunque esso sia, è guardare indietro verso il passato

per non tralasciare niente e per fare in modo che mantenga nella memoria tutto ciò

che scaturisce dai ricordi. Si tratta non di «una scrittura di fuga», ma «di

373 EDWARD W. SAID, 2008, p. 216. 374 Ivi, p. 220. 375 Ivi, p. 222. 376 Cfr. LUIGI MARFÈ, Oltre la “fine dei viaggi”. I resoconti dell’altrove nella letteratura

contemporanea, Olschki, Firenze, 2009, p. 107. 377 EDWARD W. SAID, 2008, p. 221. 378 Cfr. LUIGI MARFÈ, 2009, p. 100 e sgg. 379 EDWARD W. SAID, 2008, p. 225.

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sopravvivenza» secondo le parole dell’autrice, ovvero una scrittura che corre decisa

ed è sempre in movimento, mai statica e definita. In particolare il suo obiettivo è

«inventare l’ossigeno da liberare, lo spazio nuovo da distendere, la navigazione né

folle né selvaggia, soltanto sicura»380. È una scrittura che realizza un’anamnesi

personale, infatti la paura della scrittrice consiste nel fatto che la scrittura francese

possa non rendere a pieno l’espressività della parola orale d’origine, «insomma, non

appena tante narrazioni ombrose – giumente fuggitive che si avventano e

indietreggiano -, tanto movimento disordinato all’incessante ricerca di un esito,

fossero scritte in lingua francese, sotto le mie dita, si irrigidirebbero? Si

pietrificherebbero? Si immobilizzerebbero per assumere una posa, per l’effetto

estetico, per l’ascolto degli altri, anch’essi immobilizzati?»381. Il dubbio che si pone

la scrittrice contiene la tragicità della scelta, infatti per Assia Djebar scegliere il

francese risulterebbe, da una parte, seguire la strada del padre e, dall’altra, essere

complici e alleati con l’assassino francese382. L’ambivalenza si risolve in una

sintesi: «malgrado dunque questa lingua divenuta “paterna”, il movimento dei miei

personaggi – loro, gli esseri della mia genealogia e le loro donne che, in un certo

senso, mi guardano, mi sfidano, si aspettano anche da me che li spinga, che li faccia

entrare, mio malgrado, loro malgrado, nella casa di questa lingua straniera – questo

movimento diviene il mio unico padrone, che mi conferisce slancio»383. Questa

scelta è frutto di una relazione, come spiega Derrida, perché «non c’è mai

appropriazione o riappropriazione assoluta»384. Il francese è la lingua che guarda

indietro e davanti a sé in un processo lento perché, come spiega l’autrice, prima di

tutto è necessario che fuoriesca la parola, senza sedimentarsi nella pagina come

parola scritta: questo primo momento serve per sentirsi ospiti e per ospitare la lingua

acquisita. In un secondo momento la lingua acquisita diventa un ponte, non solo tra

un passato e un futuro, ma anche tra due culture, «fra due rive del Mediterraneo, fra

due territori, fra due lingue; nonché fra due memorie»385.

380 ASSIA DJEBAR, 2004, p. 130. 381 Ivi, p. 137. 382 Ivi, p. 138. 383 Ivi, p. 139. 384 JACQUES DERRIDA, 2004, p. 30. 385 ASSIA DJEBAR, 2004, p. 191.

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«La langue de la liberté - la langue française - mêle les cultures de part et d’autre»386

ed è “scrittura dell’espatrio”, quella che tenta di superare la tragedia della guerra

algerina per diventare «testarda traccia di sopravvivenza»387, per «cercare di fissare,

sognare, conservare un cielo di memoria»388, con la lingua dell’Altro. Questa

tensione linguistica si avverte in ciò che Derrida dice a proposito del

monolinguismo: «c’è, dunque, nella traduzione, l’esperienza di una perdita, di un

impoverimento di senso, a cui si può supplire solo, e comunque in parte, con giri di

parole, con aggiunte, come parentesi o note a piè di pagina, che richiamano il

termine francese oppure soffrono spiegazioni linguistiche. Ciò che l’originale dice

senza esplicitare, in una risonanza, deve essere argomentato, chiarito, con un

appesantimento del testo»389. Ma ciò significa che «niente è intraducibile in un certo

senso»390, affermazione che va contro l’opinione di Rey Chow per la definizione di

«intraducibilità del Terzo Mondo nel linguaggio del Primo Mondo». Assia Djebar

mette in pratica ciò che sostiene Derrida sulla lingua materna, ovvero questa non

può mai essere veramente materna se non ci si allontana, come succede nel rapporto

tra madre e figlio, in cui il distacco è necessario per una crescita personale. La stessa

cosa accade con la lingua materna, ci si allontana per non renderla una prigione, ma

per sentirla una casa in cui si abita, da cui ci si allontana e si può fare ritorno, ma

con un doveroso distacco391. L’ambivalenza linguistica permette di considerare la

lingua materna da un punto di vista diverso, è infatti attraverso la traduzione che il

contesto linguistico non materno diventa «luogo di un’esposizione»392; esporsi è

anche la svolta delle donne algerine di Assia Djebar, transgresser con lo sguardo,

con la voce e con il corpo. «Ainsi, il y a nécessité, dans le «cinématographe» digne

de ce nom, de montrer et de masquer, de déplorer et de ne pas pleurer, de se durcir

au contraire pour que se nidifie la tendresse perdue, en somme recevoir et refuser

la violence par un regard qui se blesse et par la voix qui se dresse»393.

386 GIOVANNI DOTOLI, “«Écrire est une route à ouvrir». La voix de la francophonie d’après Assia

Djebar”, in Actes du Colloque international, 2016, p. 32. 387 ASSIA DJEBAR, 2004, p. 194. 388 Ibidem. 389 JACQUES DERRIDA, 2004, p. X. 390 Ibidem. 391 Ivi, p. XI. 392 Ivi, p. XVII. 393 FETTOUMA QUINTIN, “L’Algérie: l’éternelle déchirure, l’obsession d’une plume!”, in Actes du

Colloque international, 2016, p. 236.

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Traslare i significati può aiutare a comprendere positivamente questo distacco

«perché demeurer, prima che “dimorare”, nel senso di “risiedere”, “abitare”,

significa “rimanere”, “restare”. Ed è forse proprio una rimanenza, o un resto, più

che una perdita, il tratto che caratterizza il gesto stesso del tradurre; e che lo avvicina

all’abitare»394. Come precisa Graziella Berto nell’introduzione al libro Il

monolinguismo dell’altro di Jacques Derrida,

questo non significa che l’altro, la sua venuta, costituisca a sua volta una soluzione,

una liberazione sicura dalla violenza dell’identità: l’altro è sempre, effettivamente,

anche una minaccia. E non solo per una dimora che voglia occultare la sua

inadeguatezza, la sconnessione che la costituisce. L’estraneo, nella sua

incalcolabilità, può sempre rivelarsi come colui che tradisce l’ospitalità, si

impadronisce della nostra casa, impone la propria legge e la propria lingua, cancella

lo spazio della traduzione, per irrigidirsi ancora in un medesimo. Ma è proprio a

questo sottrarsi di ogni garanzia, di ogni certezza o di ogni salvezza che il pensiero

della decostruzione ci conduce, mostrandoci in questo luogo arido ed esposto, quasi

inabitabile, la dimensione stessa del pensiero, senza specificazioni.

Assia Djebar e Jacques Derrida si trovano sullo stesso piano nel discorso relativo

all’uso della lingua dell’altro, per la scrittrice si tratta di essere “ai margini della

lingua” e per il filosofo si tratta di trovarsi «sul bordo del francese»395. A ciò si

ricollega il concetto di “ospitalità” a cui Derrida dedica un libro, infatti questo

spazio linguistico sospeso fra due lingue «ci porta a pensare la lingua materna come

una metafora della “casa propria in casa altrui” – un luogo senza luogo aperto

all’ospitalità – e che in quanto tale evoca l’essenza dell’ospitalità»396. Derrida offre

un’immagine molto bella di questa ospitalità:

in effetti cosa nomina la lingua, la lingua detta materna, quella che portiamo via con

noi, e che a sua volta ci accompagna dalla nascita alla morte? Non incarna forse

quella dimensione privata che non ci lascia mai? Il proprio e la proprietà, o

perlomeno il fantasma della proprietà, che, a eccezione del nostro corpo – e ci

ritorneremo sempre – darebbe luogo al luogo più inalienabile, una sorta di dimora

mobile, un vestito o una tenda? La cosiddetta lingua materna non sarebbe insomma

una specie di seconda pelle che portiamo addosso, una casa mobile? Ma anche una

casa inamovibile, visto che si sposta insieme a noi397.

394 JACQUES DERRIDA, 2004, p. XIV. 395 Ivi, p. 6. 396 JACQUES DERRIDA, ANNE DUFOURMANTEKKE (a cura di), L’ospitalità. Le riflessioni di uno dei

massimi filosofi contemporanei sulle società multietniche, Baldini&Castoldi, Milano, 2002, p. 26. 397 Ivi, p. 92.

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L’ospitalità riferita al colonialismo può realizzarsi in due direzioni: una parte dalla

figura del padrone europeo nei confronti del nativo e l’altra parte dal nativo nei

confronti del padrone europeo. Ma i due ruoli sono molto diversi perché, mentre

l’europeo si comporta come se l’ospitalità gli fosse dovuta e dunque impone al

nativo la sua presenza, il nativo accoglie la novità con la forza o si allontana per poi

scegliere spontaneamente quella novità: quest’ultimo è il caso di Assia Djebar.

Derrida spiega che «si tratta di un modello coniugale, paterno e fallogocentrico. È

il despota della famiglia, il padre, il marito e il padrone, il capo di casa a fare le

leggi dell’ospitalità. Le rappresenta e vi si piega per piegare anche gli altri nella

violenza del potere d’ospitalità, nella potenza dell’ipseità» e «il problema

dell’ospitalità è sovrapponibile al problema etico» perché «si tratta sempre di

rispondere d’una dimora, della sua identità, del suo spazio, dei suoi limiti, dell’ethos

in quanto soggiorno, abitazione, casa, focolare, famiglia, privacy»398.

L’ospitalità della lingua paterna si muove verso significati anche più astratti perché

è con quell’ospitalità che

le français sera dès lors la langue de la liberté créatrice, la langue de la réflexion et

du raisonnement, celle aussi de la mémoire et du souvenir. Ainsi «la langue adverse»,

celle qui a permis à l’écrivaine de sortir du silence et de la claustration va lui donner

la faculté d’accomplir une mission importante dont elle se sent investie: témoigner

du passé colonial de son pays pour lever le voile sur tous les non-dits de l’Histoire

et rendre ainsi justice aux morts en s’acquittant finalement de la dette qui leur est

due399.

L’ospitalità della lingua francese da parte della scrittrice si scontra con le ultime

vicissitudini dell’Algeria, in cui mentre la lingua berbera ha faticato a diventare

lingua nazionale solo nel 2002, il francese è comunque rimasto come lingua dell’ex

dominio coloniale ma ne ha perso il privilegio dopo la concessione

dell’indipendenza algerina; e infine l’arabo che ha assunto il controllo

linguistico400.

Secondo la fonte di Giuliva Milò, «dans la majeure partie des pays arabes

l’hégémonie linguistique est surtout dictée par l’islam qui impose la langue du

398 Ivi, p. 128. 399 GIULIVA MILÒ, “Les langues d’une Algérie plurielle: entre espoir et désillusion”, in Actes du

Colloque international, 2016, p. 316. 400 Ivi, pp. 318-319.

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Coran, langue officielle incontestée puisque de droit divin, avec laquelle aucune

autre langue n’est donc en mesure de rivaliser»401. Assia Djebar ha sottolineato

quest’aspetto della cultura islamica perché lei stessa, «en historienne, avait perçu

les dangers que comportait l’arabisation de l’histoire et l’importance de la religion

car, sous le couvert de l’islam, pouvaient être légitimés l’obscurantisme et

l’arbitraire des pouvoirs totalitaires en place»402. Inoltre «elle était consciente de

l’importance des enjeux qu’auraient supposée les réformes fondamentales

susceptibles de garantir le droit à la liberté et à la dignité de la personne»403.

Si tratta infatti di fare i conti con i problemi di coesistenza della tradizione islamica

con la modernità democratica, risolvibili con quello che Assia Djebar ha tentato di

realizzare con la sua scrittura, ovvero conciliare due aspetti culturali molto diversi

e dare loro un equilibrio. In La Disparition de la langue française, Assia Djebar

comunica con paura e con distacco il problema linguistico dell’Algeria dopo la

decolonizzazione; «la barbarie vient entacher la pureté et la musicalité de la belle

langue du Coran: “je ne reconnais pas cet arabe d’ici” - dit Nadja - «“c’est une

langue convulsive, dérangée et qui me semble déviée!” à l’instar de la pensée du

Prophète instrumentalisée par les fous de Dieu sans crainte du sacrilège»404.

La guerra civile che ha interessato l’Algeria tra gli anni Ottanta e Novanta si è

evoluta in «anni di sanguinosi attacchi terroristici alla popolazione civile, di

assassinii di intellettuali, scrittori, artisti, stranieri e di tante donne»405. Sono gli anni

in cui si fa strada il fondamentalismo islamico e l’odio nei confronti delle figure

intellettuali, durante i quali Assia Djebar si divide tra Francia e Stati Uniti e lavora

a due libri, Le Blanc d’Algerie del 1996 e Oran, langue morte del 1997, testi che

contengono la disperazione, il lutto e il dolore delle persone coinvolte nelle

vicissitudini della guerra civile. Per questo Assia Djebar sceglie di scrivere fuori

dall’Algeria, dove può davvero esporsi in libertà con la parola scritta, pur

trattandosi di «un esilio nell’esilio»406. Infatti, Siebert spiega che

questo patrimonio pluriculturale e plurilingue, nell’Algeria indipendente, è stato

401 Ivi, p. 319. 402 Ibidem. 403 Ibidem. 404 Ivi, p. 323. 405 RENATE SIEBERT, 2012, p. 47. 406 Ivi, p. 48.

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distrutto da una politica di arabizzazione forzata (“questo monolinguismo

sterilizzante”), imposta da un regime che via via ha introdotto un sistema autocratico

(partito unico, religione unica, memoria unica, lingua unica); un regime duramente

messo alla prova dalla guerra civile degli anni novanta. La stessa Djebar, durante

questo processo, è stata espulsa dall’insegnamento universitario: docente di Storia

all’Università di Algeri, avrebbe dovuto, da un giorno all’altro, insegnare in arabo407.

407 Ivi, p. 204.

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3.3.2 Il Corpo femminile e la Scrittura: l’Assenza diventa Presenza

Nel romanzo L’Amour, la fantasia (1985), Assia Djebar parla dello sviluppo della

scrittura come un corpo, sintetizzato nella formula «l’écriture de la résistance,

résistance de l’écriture»408. In questo romanzo il problema è «come narrare l’amore

in bilico tra i tabù della lingua materna e l’impossibilità di nominarlo nella lingua

dell’Altro?»409.

Da questo punto di ri-partenza, dopo un silenzio dell’autrice durato dieci anni, la

scrittura diventa corpo e forma di resistenza, grazie all’ospitalità della lingua

francese, che comunque non è indenne dalla contraddizione, in particolare se messa

in stretta connessione con l’uso che la donna fa della lingua, sospesa tra il senso di

appartenenza e il senso di esclusione, come i concetti di “casa” e “prigione”. Tania

Manca commenta, «le son est prisonnier puisque le corps duquel il jaillit l’est

aussi»410, un passo della Djebar: «Voilez le corps de la fille nubile, Rendez-la

invisible. Transformez- la en l’être plus aveugle que l’aveugle […]. Si elle sait

écrire? […] les mots écrits sont mobiles, […] Si la jouvencelle écrit? Sa voix, en

dépit du silence circule»411.

Le difficoltà di uno svelamento per la donna sono tante perché «le dévoilement ne

se fait pas toujours sans souffrance, sans difficulté, car plusieurs obstacles sont à

franchir, outre ceux qui ont été évoqués il y en a un à l’importance pas moindre,

celui de la mémoire, génératrice de paroles et d’images»412. Assia Djebar scrive

infatti, «silencieuse, coupée des mots de ma mère par une mutilation de la mémoire,

j’ai parcouru les eaux sombres du corridor en miraculée, sans deviner les murailles.

Choc des premiers mots révélés: la vérité a surgi d’une fracture de ma parole

balbutiante»413. E continua: «le son, le mot, sorti de l’ombre, d’une caverne, quasi

aveugle, par sa volonté de liberté naît comme une révélation, l’accouchement de la

408 BEÏDA CHIKHI, “Vivre le roman de la source à la jouissance”, in Actes du Colloque international,

2016, p. 16. 409 RENATE SIEBERT, 2012, p. 45. 410 TANIA MANCA, “Dévoiler l’histoire, révéler les images. Le regard intime d’Assia Djebar”, in

Actes du Colloque international, 2016, p. 359. 411 Ibidem. 412 Ivi, p. 360. 413 Ibidem.

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parole étouffée est une parole balbutiante, vectrice de vérité»414.

La donna algerina viene connotata «come colei che si nasconde dietro il velo»415 e

di conseguenza, il velo non rappresenta soltanto un elemento fisico ma anche

simbolico416, con il quale è la donna, e non più l’uomo, a creare delle simbologie

su se stessa. Si percepisce la forza espressiva di tutto ciò che apparentemente è

assenza, come il corpo velato della donna, e di tutto ciò che sostanzialmente è

presenza, come la voce della donna. Citando una frase di Assia Djebar, «Je désire

donc je suis»417, la conquista del “Je” segna un momento di svolta per la donna

perché

parler de soi, parler en public (écrire) en termes personnels est, pour une femme, une

double transgression: en tant qu’individu abstrait alors qu’elle est en réalité l’objet

même de tous les interdits, celle dont on ne doit pas parler, celle qu’on ne doit pas

voir, celle qu’on n’est pas censé connaître, qui doit passer inaperçue. Aussi la femme

qui parle d’elle-même parle du privé, du monde secret que l’homme ne doit pas

dévoiler. La femme est celle qui n’a pas la parole et qui n’a pas de nom, celle que les

hommes ne doivent pas évoquer en public autrement que par l’impersonnel:

“Comment va ta maison?”. Si elle s’empare de l’écrit, elle s’emparera de la parole,

et menacera la règle de la séparation des sexes, condition d’existence de la société.

Elle violera la Loi que les hommes eux-mêmes doivent respecter. Il est donc interdit

deux fois à la femme de parler (d’elle)418.

Tra il corpo e la voce della donna c’è il silenzio che, se non fa “rumore” subito con

la scrittura, può comunicare attraverso lo sguardo e la gestualità, mentre la scrittura

è difficile perché «écrire, c’est vivre doublement»419, cioè vivere la vita algerina e

la vita straniera nei suoi tratti negativi e positivi. Scrivere è uscire dallo spazio

privato e presentarsi pubblicamente.

Nella seconda parte di Ces voix qui m’assiègent, Assia Djebar riflette sul significato

del sostantivo femminile écrivaine, che contiene écrit come «il neutro dello scritto,

l’asessuato della scrittura, il suo vuoto, la sua trasparenza» e vaine che indica

«vanità, leggerezza, […] ostentazione» e che fa percepire con maggior forza il

414 Ibidem. 415 FRANTZ FANON, 2007, p. 40. 416 TANIA MANCA, “Dévoiler l’histoire, révéler les images. Le regard intime d’Assia Djebar”, in

Actes du Colloque international, 2016, p. 361. 417 GIOVANNI DOTOLI, CLAUDIA CANU-FAUTRÉ, MARIO SELVAGGIO, “Introduction” in Actes du

Colloque international, 2016, p. 11. 418 MONIQUE GADANT, 1995, p. 271. 419 BEÏDA CHIKHI, “Vivre le roman de la source à la jouissance”, in Actes du Colloque international,

2016, p. 16.

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femminile rispetto al corrispondente maschile écrivain. Per la scrittrice algerina in

écrit si avvertono anche i cris, ovvero «il grido-magma di tutti i gridi: il dolore

dunque»420. Assia Djebar insiste sul significato di vaine perché è ciò che

rappresenta la scrittura femminile, che è una scrittura debole e transitoria perché «la

scrittura è effimera: che il testo scritto sia stampato in mille o centomila copie, che

importanza ha? Diventa polvere altrettanto presto, la parola fulminante o il verbo,

la frase trovata dopo ore di ricerca»421. Ma poi la scrittrice precisa: «solo

un’osservazione riguardo al femminile: e se l’unica differenza della “scrittura

vana”, rispetto allo scritto del Signor scrittore, stesse… nella sua leggerezza, oh non

ho mica detto: nella sua inconsistenza, certo che no! Insomma, per una donna,

scrivere sommessamente… cioè senza far rumore?»422.

La figura femminile protagonista degli scritti di Assia Djebar ha una personalità

scissa, compresa in un contesto coloniale che non accetta la libertà dei nativi e in

un contesto patriarcale che non accetta la libertà delle donne, o per meglio dire «la

sua pretesa clausura, il suo essere messa radicalmente da parte, la sua umiltà, la sua

esistenza silenziosa prossima a un’assenza»423. L’Io femminile può recuperare la

propria presenza nei due contesti con un terzo sguardo e «al posto di quest’“io” […]

appare la sfida di vedere quel che è invisibile, lo sguardo che non può “vedermi”,

un problema particolare dell’oggetto dello sguardo»424.

Nascondere e far tacere la donna significa far emergere la donna solo in modo

parziale cosicché

l’accesso all’immagine di identità è possibile solo e sempre tramite la negazione di

qualunque senso di originalità o pienezza: il processo di dislocamento e

differenziazione (assenza/presenza, rappresentazione/ripetizione) lo trasforma infatti

in una realtà marginale. L’immagine allora diviene al tempo stesso una sostituzione

metaforica, l’illusione di una presenza, e per questa stessa ragione una metonimia,

un segno della sua assenza e perdita425.

L’oggettivazione della donna, come per il nativo in generale, è infatti un modo per

rendere visibili soltanto alcuni aspetti, mentre altri restano invisibili agli occhi di

420 ASSIA DJEBAR, 2004, p. 59. 421 Ivi, p. 61. 422 Ibidem. 423 FRANTZ FANON, 2007, p. 63. 424 HOMI K. BHABHA, 2001, pp. 70-71. 425 Ivi, p. 76.

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tutti, se la donna non è in grado di parlare e di svelarli. Infatti la visibilità che emerge

dal discorso coloniale e patriarcale è sempre quella superficiale: ricordando il rito

della Sati, analizzato approfonditamente da Spivak, succede esattamente questo. La

donna è descritta simbolicamente solo ed esclusivamente dall’uomo, sia bianco o

nero, per rendere visibili solo i tratti che consentano di giustificare la superiorità

maschile. Si tratta della stessa distinzione della forma e del contenuto, infatti la

donna è, agli occhi dell’uomo, un simbolo e un’astrazione e non si può permettere

di far capire agli altri chi è oltre la superficie ideologica. Colonialismo e patriarcato

agirono insieme perché, come spiega Loomba, se gli europei riuscirono a imporsi

attraverso le proprie leggi, agli indigeni venne lasciata libertà per le questioni

religiose, e una di queste riguardava proprio la figura della Sati426. Ma questa

“libertà” concessa all’indigeno era in realtà un pretesto per difendere le donne dalla

brutalità del maschio indigeno: ciò non accadeva solo in India, ma anche in Algeria.

Infatti i francesi volevano agire sull’uso del velo femminile e allora «la lotta

coloniale diventa una sorta di guerra dei veli perché “all’offensiva colonialista

contro il velo, i colonizzati oppongono un culto del velo”. L’identificazione della

donna con l’Algeria quindi “ha avuto l’effetto di rafforzare i modelli tradizionali di

comportamento”»427. La donna aveva una doppia identità, quella richiesta

dall’uomo indigeno e quella richiesta dall’uomo colonizzatore: i movimenti anti-

coloniali usarono la donna contro il potere coloniale francese. Alle donne veniva

richiesto di indossare e di non indossare il velo a seconda dei contesti in cui loro si

trovavano, tanto che «la donna algerina senza velo doveva abituare il suo corpo ad

essere “nudo” e scrutato, si doveva muovere “come un pesce nelle acque

occidentali”, mentre “portava pistole, granate, centinaia di carte di identità false o

bombe”»428. Quando però i francesi intuirono che una parte delle donne stava con i

nazionalisti, venne loro richiesto di riportare il velo, mentre i movimenti

nazionalisti vedevano la donna come il simbolo dello stato-nazione, cioè colei che

incarna i simboli della casa e della famiglia429. Questi simboli rappresentano

tradizioni antiche perché «indossare il velo, la recisione della clitoride, la

426 Cfr. ANIA LOOMBA, 2000, p. 169. 427 Ivi, p. 191. 428 Ibidem. 429 Ivi, pp. 191, 210-211.

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poligamia, l’immolazione delle vedove, la matrilinearità o le relazioni omosessuali

sono interpretate come simboli di un’essenza culturale intraducibile di culture

particolari. Mantenere o attaccare queste pratiche o le relazioni sociali che queste

significano diventa così centrale per le lotte coloniali, spesso contaminandole con

sfumature estremamente patriarcali»430.

La forza dei simboli consentiva che la donna venisse sfruttata sia per la sua forza

che per la sua debolezza, infatti veniva vista, da una parte, come colei che, da

simbolo nazionale, tutela i suoi connazionali dal potere spropositato del

colonialismo e, dall’altra, come colei che, abusata dal potere coloniale, aveva

bisogno del sostegno dei suoi connazionali431. Ad esempio, gli europei erano

intenzionati ad educare le donne delle colonie per offrire loro anche una condizione

di genere diversa da quella in cui si trovavano, ma i nazionalisti opponevano

resistenza, sostenendo che loro stessi avrebbero provveduto all’educazione

femminile per evitare che la cultura d’origine venisse abbandonata. Citando il caso

bengalese, che è quello riguardante la cultura d’origine di Spivak, ci sono state varie

testimonianze di donne che hanno parlato della frustrazione femminile all’interno

della tradizione patriarcale, rafforzatasi come forma di resistenza anti-coloniale.

Tuttavia le testimonianze femminili erano molto scarse e si tendeva a far parlare

l’uomo sulle questioni riguardanti il mondo femminile, sia dalla parte coloniale, sia

dalla parte nazionalista432.

Emerge in questo modo la contraddizione tra la visibilità e l’invisibilità del corpo

della donna: la donna è presente perché vive ma è assente perché è in casa, la donna

è forma perché si distingue dall’uomo ma non è contenuto perché non ha libertà, la

donna è descritta solo in superficie, mai in profondità. L’identità femminile ha

sempre una parte mancante che non permette che l’essere donna si manifesti oltre

la metonimia: la donna è visibile per le ragioni dell’uomo, ma invisibile per le

proprie ragioni.

Nella scelta libera e spontanea di una lingua scritta, «la scrittura della donna si

elabora sempre più, e inevitabilmente, contro il proprio corpo»433: è la scrittura che

430 Ivi, p. 213. 431 Ibidem. 432 Ivi, pp. 214-216. 433 ASSIA DJEBAR, 2004, p. 62.

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porta affrancamento nella donna, come il corpo si libera finalmente del velo e non

è più stretto in uno spazio privato, ma si apre allo spazio pubblico. Anche la lingua

è donna e rivendica il suo spazio femminile: «la femme-langue jette linge et linceul,

ne chante plus uniquement la mort […] et la mélancolie, mais désormais chante la

vie. Elle n’est plus expulsée de l’écriture»434.

Come riportato sopra, l’ambivalenza del corpo della donna viene spiegata

all’interno di un saggio di Fanon, “L’Algeria svelata”, con le parole di Bhabha:

il tentativo del colonizzatore di togliere il velo alla donna algerina non tramuta

soltanto il velo in un simbolo di resistenza ma ne fa una tecnica di camuffamento, un

mezzo di lotta – il velo nasconde bombe. Quel velo che un tempo assicurava

l’inviolabilità del confine del domestico – i confini della donna – adesso maschera

la donna nella sua attività rivoluzionaria unendo assieme la città araba ed il quartiere

francese, trasgredendo il confine familiare e coloniale. Non appena il velo è libero

di fare il suo ingresso nella sfera pubblica, di circolare fra le norme e gli spazi sociali

superandoli, diviene oggetto di sorveglianza e di interrogativi paranoici: ogni donna

velata, scrive Fanon, diventa sospetta. E quando il velo è lasciato cadere per spingersi

più innanzi nel quartiere europeo, la polizia coloniale vede tutto e nulla: dopotutto,

una donna algerina è soltanto una donna. Ma la fidai algerina è un arsenale, e nella

sua borsa porta le bombe a mano435.

Essere donna significa sentirsi estranea, esattamente come avviene nel contatto con

lingue estranee: secondo Benjamin «il trasferimento di significato non può mai

essere totale né fra diversi sistemi di significazione né all’interno di un sistema,

perché “la lingua della traduzione avvolge il suo contenuto come un mantello regale

in ampie pieghe. Poiché essa significa una lingua superiore a quello che essa è, e

resta quindi inadeguata rispetto al suo contenuto, possente ed estranea”»436.

L’importante è che l’assenza del Sé venga recuperata con una presenza di un Altro

ma che si concretizza «in quell’“atmosfera di sicura incertezza” che circonda il

corpo, dando conferma della sua esistenza proprio mentre lo minaccia di

smembramento»437. L’assenza diventa presenza quando finalmente ciò che non si

possiede dalle origini diventa una cosa personale per necessità, ovvero la lingua

scritta francese ha determinato una copertura letterale del corpo femminile e una

434 GIOVANNI DOTOLI, “«Écrire est une route à ouvrir». La voix de la francophonie d’après Assia

Djebar”, Actes du Colloque international, 2016, p. 42. 435 HOMI K. BHABHA, 2001, p. 93. 436 Ivi, p. 227. 437 Ivi, p. 68.

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copertura metaforica della voce femminile: «ho fin qui utilizzato la lingua francese

come velo. Velo sulla mia persona individuale, velo sul mio corpo di donna; potrei

quasi dire velo sulla mia propria voce»438. La stessa parola “velo” ha una grande

forza espressiva che racchiude molteplici questioni: «le mot foulard banalise: ce

n’est qu’un morceau de tissu, le mot tchador ayatollise. Le mot hidjeb maghrébise,

voire folklorise. Le mot voile religionnise et induit une prohibition visant la

femme»439.

Il velo nasconde ma nel contempo suscita ambiguità e desiderio maschile e la lingua

francese provoca le medesime sensazioni nella scrittrice, che, come dice lei stessa,

cerca di schivare dall’esterno ma non se ne separa, anzi nel francese trova

l’ospitalità e la libertà. In questo modo la donna smette di essere un fantasma e

diventa presenza con la sua voce e la sua scrittura come forme di “provocazione”

perché in lei c’è una doppia riappropriazione, quella della lingua, sia orale che

scritta440, e quella del corpo.

La lingua francese come velo rappresenta una casa che non può essere abitata per

sempre, ma segna un’importante emancipazione: la possibilità di scegliere una

lingua, liberamente e spontaneamente, senza le imposizioni provenienti

dall’imperialismo coloniale francese. Il suono materno riesce a colmare i vuoti della

storia coloniale algerina e a far emergere «le voci invisibili»441 che vengono riscritte

in una nuova lingua, con cui si possa dare la giusta importanza alla memoria antica.

Senza la scrittura delle memorie familiari morirebbe la ricchezza culturale d’origine

e quello che Natalia Ginzburg definisce «il lessico familiare»442, e questa scrittura

è in francese, perché? Perché la lingua francese è in grado, non quanto la lingua

araba, di restituire l’equivalente vissuto di sofferenza, dunque scrivere in francese

significa tradurre in una lingua più vera, quella del pianto e del sangue443: Assia

Djebar «ne se situe pas “entre” deux cultures mais au point de rencontre entre le

438 ASSIA DJEBAR, 2004, p. 43. 439 SALAH AIT CHALLAL, “Tabous et totem ou comment se dé(construit) la loi du père dans Nulle

part dans la maison de mon père d’Assia Djebar”, in Actes du Colloque international, 2016, p. 310. 440 Cfr. GIOVANNI DOTOLI, “«Écrire est une route à ouvrir». La voix de la francophonie d’après Assia

Djebar”, in Actes du Colloque international, 2016, p. 43. 441 ASSIA DJEBAR, 2004, p. 49. 442 Ibidem. 443 Cfr. JEANNE-MARIE CLERC, 1997, p. 113.

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signe abstrait et son enracinement référentiel, entre le mot et la réalité»444.

La scrittura francofona è stata applicata da Assia Djebar per trent’anni come un

velo: il velo rappresenta un indumento tipico della donna maghrebina ma ogni

donna lo maneggia in modo diverso e personalizzato. Nei ricordi d’infanzia della

scrittrice il velo è di «seta bianca marezzata» e come lei stessa scrive, «se infatti

scrivere è esporsi, farsi notare dallo sguardo altrui, velarmi anche scrivendo fu, per

me, un modo naturale. “Velarmi” non significava veramente travestirmi,

mascherarmi per nascondermi, come direbbe subito un osservatore estraneo al

mondo culturale delle piccole città del Maghreb settentrionale»445.

La scrittura francese fu dunque un velo, ma nel contempo era la lingua che poteva

essere in grado di esprimere ciò che con le lingue d’origine è sempre stato taciuto;

la scrittura cinematografica invece fu la “Scrittura dello sguardo”, in base al titolo

dato da Assia Djebar alla quinta parte di Ces voix qui m’assiègent. Lo sguardo

femminile, che le algerine erano costrette a ritrarre, con il cinema può esistere ed è

uno sguardo reale che non è solo “dell’altro”, ma anche “sull’altro”. La ripresa

cinematografica consente infatti di avere un doppio sguardo: lo sguardo di chi viene

ripreso che, nel caso del film La Nouba des femmes du mont Chenoua, era quello

di un uomo che guardava una donna, e lo sguardo della stessa autrice cineasta e dei

tecnici che guardano quello sguardo.

Questo tipo di sguardo viene ricollegato allo sguardo dipinto, «come le Veneri

indifferenti, assenti, o sognanti, della pittura italiana del Rinascimento. Come se

ogni cominciamento dell’arte (il cinema in un paese arabo si ritrova oggettivamente

in una situazione analoga a quella dei pittori fiorentini o veneziani del

Quattrocento!) passasse attraverso questa esperienza originaria: come l’altro guarda

la donna nel suo abbandono e come, a nostra volta, noi lo guardiamo guardare»446.

La scelta di riprendere per 1 minuto e 30 quello sguardo aveva per l’autrice un

significato ben preciso da trovare e che lei stessa spiega:

che cos’è lo sguardo dell’altro sulla donna in una cultura nella quale l’occhio

anzitutto è stato, per secoli, sottoposto a sorveglianza, poiché esisteva un unico

occhio, quello del padrone del serraglio che proibiva ogni altra rappresentazione e

invocava il tabù religioso per confortare il proprio potere? Sì, ogni sguardo dell’altro,

444 Ibidem. 445 ASSIA DJEBAR, 2004, p. 92. 446 Ivi, p. 151.

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se rifiuta di essere voyeur (sguardo d’effrazione o aggressività), coglie solo

l’inafferrabile, e l’immagine femminile diventa miraggio avvolto di poesia o

malinconia447.

Questo lungometraggio è incentrato sullo sguardo femminile, che per la prima volta

smette di essere basso e si ribella di fronte allo sguardo dell’uomo, anzi rifiuta lo

sguardo maschile, pronunciando queste parole: «Non voglio che tu mi veda!»448:

così la donna desidera parlare senza essere guardata. Questo desiderio nasce

dall’inconsapevolezza che la donna parli davanti a uno schermo, «come se, per le

donne, “girare” al cinema fosse girare a occhi chiusi ma in una mobilità della voce

e del corpo, del corpo non guardato, dunque non assoggettato, che ritrova

autonomia e innocenza. Così la voce prende il volo, la voce danza, davvero. Solo

dopo gli occhi si aprono. L’Altro, per sé, guarda. Finalmente!»449.

Lo sguardo viene utilizzato da Djebar come strumento di osservazione che viene

interiorizzato nel momento in cui il discorso femminile passa dal livello esteriore a

quello più astratto, assumendo «una chiara connotazione anti-colonialista e anti-

sessista allo stesso tempo»450. Inoltre, scrive Chikhi, lo sguardo ricopre due

funzioni, una rappresenta il passato dalla storia algerina al vissuto sociale, l’altra si

esprime attraverso descrizioni o linguaggi del corpo451, dunque per mezzo di sistemi

di segni linguistici e non linguistici. Quella di Assia Djebar diventa una sorta di

ricerca del tempo perduto proustiana, tanto che molte citazioni di Proust vengono

riprese dall’autrice per parlare della propria esperienza: «la vraie vie est ce qui se

cache et n’apparaît que dans la production des formes»452; «le langage artistique

devient l’instrument qui permet de voir ce qui autrement ne serait pas perçu»453; «la

seule histoire possible sera celle des oeuvres d’art à dire des discontinuités»454.

Assia Djebar esprime in maniera partecipe ciò che accade nel film:

In La Nouba des femmes du mont Chenoua, la giovane architetta torna nella regione

della sua infanzia, si mette certo a parlare, ma esce anche. Va e viene nei paesaggi

447 Ivi, p. 153. 448 Ivi, p. 155. 449 Ivi, pp. 155-156. 450 MAURO PALA, “Another language, another world: Assia Djebar e la critica postcoloniale

anglofona”, in Actes du Colloque international, 2016, p. 150. 451 Cfr. BEÏDA CHIKHI, 1997, p. 165. 452 Ivi, p. 167. 453 Ibidem. 454 Ibidem.

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ritrovati. Mentre cammina, il suo sguardo cerca: i luoghi, le case, i fiumi anche se

prosciugati, le foreste anche se bruciate. Incontra le altre donne che la guardano a

loro volta. E in questo incrociarsi di sguardi spesso lenti, a volte furtivi, o

semplicemente banali, nella banalità dell’attesa si avvia il dialogo: sul presente, sul

passato. Tutt’intorno, i bambini, tanti, sfaccendati, rumorosi, ridenti, accompagnano

con la loro presenza diffusa, con i loro cori incerti, quelle donne fra loro. Seguendo

la protagonista, guardo le altre. O, piuttosto, guardo lei, la giovane donna

indipendente, che sta sperimentando di nuovo la propria rinascita. La guardo mentre

scopre le altre donne. Il suo sguardo posato sulle contadine diventa così avvio di

parola, parola fino ad allora impedita: parola femminile sulla banalità quotidiana, sul

passato ancora vivo, sui dolori-brace malgrado l’oblio455.

Asole spiega che

con questo film l’autrice crea uno spazio metaforico in cui le donne possono circolare

ed esprimersi liberamente, non più sottomesse alla censura dello sguardo maschile.

È un ribaltamento dei consueti rapporti di forza fra uomini e donne che dominano

nella realtà. Assia Djebar, con la macchina da presa, diviene “l’occhio delle donne”,

portando alla luce tutto ciò che l’universo femminile taceva nell’ombra, negli spazi

chiusi in cui il potere maschile lo costringeva, facendone emergere storia e

memoria456.

La cineasta ha scelto di far parlare la protagonista e di far tacere l’uomo, invertendo

così i ruoli, femminile e maschile, della cultura algerina, rispettivamente con la

parola e il silenzio, con lo spazio aperto e lo spazio chiuso, con l’autonomia e la

dipendenza. L’effetto che scaturisce dal film è l’assenza e il mutismo degli uomini,

mentre le donne hanno libertà di movimento, di parola sul passato e sul presente, di

raccontarsi con la lingua berbera, che viene spiegata e assorbita dalla voce in

francese della protagonista, alter ego di Assia Djebar. La regione del Chenoua in

cui è ambientato il film è il luogo d’origine della famiglia dell’autrice e i dialoghi

tra le donne di quella regione rappresentano la memoria della guerra ma anche della

famiglia. Il passaggio dall’immagine alla scrittura solleva il problema della lingua,

dato che scrivere in francese significa rischiare di allontanarsi dalle proprie origini

e «parler de soi-même hors de la langue des aïeules, c’est se dévoiler, certes, mais

pas seulement pour sortir de l’enfance, pour s’en exiler définitivement»457. La scelta

della lingua francese è però solo il passo successivo alla conquista della libertà

verbale femminile, perché la parola affidata alle donne vuole essere una prima

455 ASSIA DJEBAR, 2004, p. 156. 456 FRANCESCO ASOLE, “Il cinema di Assia Djebar” in Actes du Colloque international, 2016, p. 118. 457 JEANNE-MARIE CLERC, 1997, p. 17.

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forma di rivendicazione all’interno dei contesti sociali e religiosi del mondo arabo-

musulmano «où la femme est menacée jusque dans sa liberté la plus

individuelle»458, aspetto ben sviluppato nel romanzo Ombre sultane. In questo testo

«la perspective féministe qui dénonce l’enfermement sous toutes ses formes et se

confond dans une vision intimiste et biographique. Par ailleurs, il ne serait pas

anodin de s’attarder sur l’écriture du corps et sur celle de la sensualité féminine qui

guide la narration et détermine la structure de l’œuvre»459. Ombre sultane, che vede

protagoniste due donne, una moglie e una co-sposa ferite dalla poligamia e coscienti

di essere coinvolte nella stessa sorte460, è stato descritto come il romanzo che

scardina completamente la concezione della donne contenuta nella raccolta di

racconti, Les Mille et Une Nuits:

à partir de la duplication des situations, de l’œil et de l’ouïe, le roman nous rappelle

comment Shéhérazade a occupé la place du roi en renversant, par “enchantement”,

l’ordre patriarcal. Par “enchantement”, c’est-à-dire par substitution de scènes et

redoublement de la parole et de l’écoute, mais aussi par le truchement de l’éveil et

de la nuit blanche, ce temps qui active le désir de vivre doublement à travers

l’histoire461.

In riferimento a questo romanzo, in particolare, c’è un aspetto del discorso

derridiano che Djebar riprende sulla scia spivakiana, ed è quello relativo al

confronto tra la scrittura e il corpo della donna: si tratta, infatti, di un notevole

spunto di riflessione per gli studi sulla subalternità femminile, «nel tentativo di

leggere la realtà del corpo femminile etnico come ultima e problematica istanza di

rappresentazione, oltre che luogo di sfruttamento, del potere occidentale e

capitalista»462. Infatti, la filosofia, come metodo di analisi del contesto coloniale e

postcoloniale, mira alla «decostruzione tropologica dell’universalismo

maschilista»463. Perciò la scrittura e il corpo femminile si rapportano nel punto di

frattura delle rappresentazioni stereotipate: il corpo femminile diventa displacement

458 WESSAL MALVAL, “Engagement et identité féminine dans Ombre sultane d’Assia Djebar”, in

Actes du Colloque international, 2016, p. 247. 459 Ivi, p. 248. 460 Cfr. RENATE SIEBERT, 2012, pp. 183-184. 461 BEÏDA CHIKHI, “Vivre le romane de la source à la jouissance”, in Actes du Colloque international,

2016, pp. 17-18. 462 FIORENZO IULIANO, 2012, p. 19. 463 GAYATRI C. SPIVAK, 2004, p. 183.

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rispetto alla sua tradizionale raffigurazione464. Ad esempio Ombre sultane è un

romanzo che fa ribellare le donne a partire dallo scontro con le forme di potere

maschili, perché è con un’opposizione alla poligamia che la donna può realmente

esprimersi, prima con la forma orale e poi con la forma scritta della lingua, in modo

tale da poter concretizzare il passaggio «de l’ombre au soleil, du silence au mot, de

la nuit au nu de la vérité»465.

I due aspetti della lingua, oralità e scrittura, sono compresenti per dare autenticità

ai fatti raccontati: la lingua francese emancipa il pensiero femminile e la lingua

materna personalizza la libertà d’espressione della donna, grazie a proverbi e

sermoni466. Il legame tra voce francofona e voce non francofona allora si riassume

così: «il faut “les ramener en les inscrivant”, “en trouver l’équivalence sans les

déformer, mais sans hâtivement les traduire”»467. Si tratta di una scrittura in

cammino, ad esempio «Françoise Lionnet montre que cette association de l’écriture

et de la marche est une des caractéristiques de la modernité européenne, mais

qu’elle prend chez Assia Djebar une dimension politique forte puisque la marche,

la déambulation à l’extérieur, la mobilité du corps ne vont pas de soi quand il s’agit

d’une femme»468. La lingua si sposta e non mantiene mai lo stesso corpo, si de-

costruisce e si ri-costruisce costantemente a contatto con gli spazi raccontati, con le

voci e con i corpi femminili. Effettivamente la lingua si comporta come un corpo

che avanza, che ripete i passi tornando indietro, che inciampa nei vuoti o negli

ostacoli ma che si rialza sempre: «la douleur se dit dans ce mouvement de

bégaiement de la voix et dans la répétition obsessionnelle. La voix répète ou bégaie

mimant le mouvement de l’écriture qui fait retour»469.

La traslazione dei significati non avviene solo a livello linguistico, ma anche a

livello concettuale: con la tradizione patriarcale e con il colonialismo francese, il

displacement si realizzò come slittamento semantico dell’essere donna: il

significante non corrispondeva al suo significato denotativo, finendo per essere

464 FIORENZO IULIANO, 2012, p. 58. 465 JEANNE-MARIE CLERC, 1997, p. 130. 466 Cfr. WESSAL MALVAL, “Engagement et identité féminine dans Ombre sultane d’Assia Djebar”,

in Actes du Colloque international, 2016, p. 254. 467 MAHAUT RABATÉ, “Assia Djebar: de l’écriture comme voix”, in Actes du Colloque international,

2016, p. 329. 468 Ivi, p. 332. 469 Ivi, p. 333.

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sottoposto ad una manipolazione per mezzo di una connotazione che non gli

apparteneva. Questo è uno dei problemi connessi, ad esempio, con la pratica indiana

del Sati, citata precedentemente: Spivak scrive che «faced with the dialectically

interlocking sentences that are constructible as “White men are saving brown

women from brown men” and “The women wanted to die”, the postcolonial woman

intellectual asks the question of simple semiosis What does this mean? - and begins

to plot a history»470.

Quel displacement realizzato da soli uomini in Assia Djebar si realizza come

displacement realizzato dalla donna e dalle donne e ciò implica una struttura dei

significati completamente diversa da quella precedente. La donna smette di essere

una terza persona e assume in prima persona un altro significato; e uno degli

strumenti, suggerito da Assia Djebar, grazie al quale è possibile un nuovo

displacement è lo sguardo femminile:

L’elisione dell’occhio, rappresentata in una narrazione di negazione e ripetizione

[…] riafferma che la frase dell’identità non può essere pronunciata, se non mettendo

l’occhio/Io in una insostenibile posizione di enunciazione: vedere una persona

mancante o guardare l’Invisibilità significa sottolineare la richiesta transitiva del

soggetto in cerca di un oggetto diretto in cui auto-riflettersi, una presenza

momentanea che mantiene in vita la sua posizione privilegiata in quanto soggetto.

Vedere una persona mancante, allora, significa proprio trasgredire questa richiesta:

l’“Io” nella posizione di dominio è, al tempo stesso, il luogo della sua assenza, la sua

ri-presentazione (re-presentation). Siamo così testimoni dell’alienazione dell’occhio

attraverso il suono del significante, un’alienazione raggiunta in quel preciso istante

in cui il desiderio finale (guardare/essere guardati) appare ed è subito cancellato nella

finzione della scrittura471.

«Guardare senza essere vista»472: è questo il problema che la figura femminile si

pone perché significherebbe smontare la struttura simbolica che l’uomo ha costruito

per parlare della donna. Assia Djebar scrive che lo sguardo delle algerine era

costretto ad essere ritratto, soprattutto davanti allo sguardo degli uomini, ma poi ci

fu la svolta: «come se di colpo il francese avesse occhi e me li desse per vedere

nella libertà, come se il francese accecasse i maschi sospettosi della famiglia e solo

così io potessi circolare, correre veloce in ogni strada, conquistare l’esterno anche

470 GAYATRI C. SPIVAK, 1988b, p. 93. 471 HOMI K. BHABHA, 2001, p. 71. 472 Ibidem.

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per le mie compagne segregate, per le mie antenate morte ben prima di morire»473.

Queste le date: 1832, a due anni dall’occupazione coloniale francese, il pittore

Eugène Delacroix ha l’opportunità di violare il rigido divieto che, nelle case,

preclude l’ingresso nelle stanze riservate alle donne. Ne segue la conturbante visione

delle donne recluse, rappresentata poi nel quadro che dà il titolo al saggio. La

seconda data segna lo “svelamento” e la circolazione delle donne negli spazi esterni

alla casa e coincide, all’incirca, con gli anni della lotta di liberazione e

dell’indipendenza algerine: 1954-1962. La terza è il 1979-1980: anni della

pubblicazione dell’Ouverture che, con le dubitanti parole, appena citate, scritte nel

momento pure trionfante e liberatorio delle rivolte femminili in Occidente, si proietta

drammaticamente nel nostro presente e, nel 2016, la rinnovata presenza di

movimenti integralisti nel mondo intero, fa sentire come una avverata profezia la

ritornante ambiguità della condizione femminile nell’Islam come nel mondo

occidentale474.

Lo sguardo libero di Assia Djebar vuole essere una ri-presentazione del Sé

femminile, grazie a cui la donna possa guardarsi attorno e soprattutto parlare a se

stessa e agli altri. Si tratta di mettere in discussione il fatto che «al posto della

coscienza simbolica che conferisce al segno di identità la sua integrità e unità, cioè

la sua profondità, ci troviamo davanti ad una dimensione di duplicazione: una

spazializzazione del soggetto, chiuso nell’illusoria prospettiva di quella che ho

chiamato la “terza dimensione” della cornice mimetica o dell’immagine visiva

dell’identità»475.

Lo strumento visivo non riguarda soltanto l’attività cinematografica ma anche

l’interesse per la pittura del tempo coloniale, infatti Assia Djebar intitola uno dei

suoi lavori Femmes d’Alger dans leur appartements che è anche il titolo di un

famoso dipinto di Eugène Delacroix del 1834; infatti il pittore riuscì ad entrare in

una casa per poter vedere direttamente le donne e per poter prendere spunto per i

suoi dipinti. Il pittore è riuscito a cogliere l’assenza femminile dentro l’abitazione,

stretta nella «claustration visuelle et sonore qui caractérisait l’existence de la femme

arabe au XIXe siècle»476. Il legame tra l’arte della scrittura e l’arte visiva rafforza

infatti l’espressività femminile, il suo corpo, la sua presenza e questo dipinto del

passato è, per l’autrice, un ottimo espediente per riflettere sul presente femminile in

473 ASSIA DJEBAR, 2004, p. 79. 474 GIOVANNA CALTAGIRONE, “Quando la critica d’arte diventa lotta politica. Femmes d’Alger dans

leur appartement di Assia Djebar”, in Actes du Colloque international, 2016, p. 106. 475 HOMI K. BHABHA, 2001, p. 74. 476 JEANNE-MARIE CLERC, 1997, p. 53.

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Algeria. «Ce livre est le regard volé d’un peintre femme qui décrit avec son pinceau

littéraire le monde intime et très mythifié de la femme arabe, qui subit depuis des

siècles le poids de l’invisibilité et de l’enfermement»477.

Partendo dallo sguardo, la rivendicazione delle donne di Assia Djebar è prima di

tutto corporale contro l’uomo colonizzatore e l’uomo di casa, contro il

fallocentrismo; si tratta allora di mettere in primo piano i bisogni della donna, e,

come scrive Spivak, si tratta di anteporre «all’invidia del pene l’invidia dell’utero,

luogo produttivo e di creazione che sostituisce la consueta associazione della

sessualità femminile e dei genitali femminili al concetto di mancanza e di vuoto»478.

Il fallocentrismo ha accentuato la subalternità femminile e ha relegato la donna a

un oggetto, come è stato più volte ribadito con la pratica del Sati approfondito da

Spivak. Anche Loomba, seguendo Fanon, analizza il rapporto che esiste tra la

tradizione patriarcale e il potere coloniale quando si parla della donna, infatti spiega

che «nella società patriarcale, le donne sono soggetti divisi che guardano se stesse

essere guardate dagli uomini. Si trasformano in oggetti perché la stessa femminilità

è definita dall’essere guardati dagli uomini»479. E Loomba approfondisce dicendo

che

il velo, la segregazione o l’istituzione della famiglia estesa strutturano la sessualità e

le relazioni fra i sessi in modi molto specifici e hanno anche dato forma all’impatto

del dominio coloniale sulle relazioni esistenti fra i sessi. Infine, la classe è molto

importante per analizzare come la razza e il sesso si sono storicamente dati forma a

vicenda: le pratiche coloniali non sarebbero state nulla se non fossero state

consapevoli delle gerarchie indigene fra classi, sessi, caste e regioni, che

manipolarono, trasformarono e fortificarono480.

La società patriarcale e il potere coloniale hanno agito insieme per la

subordinazione delle donne e si sono reciprocamente influenzati fino a rendere le

donne incapaci di reagire, anzi «il colonialismo intensificò le relazioni patriarcali

nei paesi colonizzati, spesso perché gli indigeni, sempre più deresponsabilizzati ed

allontanati dalla sfera pubblica, diventarono più tirannici nelle mura domestiche.

477 ÀNGELS SANTA, “Les traductions catalanes d’Assia Djebar: Femmes d’Alger dans leur

appartement, Ombre sultane et Les nuits de Strasbourg. L’art, la ville”, in Actes du Colloque

international, 2016, p. 211. 478 FIORENZO IULIANO, 2012, p. 57. 479 ANIA LOOMBA, 2000, p. 163. 480 Ivi, p. 167.

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Essi afferrarono la casa e la donna come emblemi della loro cultura e nazionalità.

Il mondo esterno poteva essere occidentalizzato, ma non tutto era perduto se lo

spazio domestico manteneva la sua purezza culturale»481. Ciò comportava una

riduzione della riduzione dello spazio, dove gli europei restringevano gli spazi agli

indigeni e gli indigeni restringevano gli spazi alle donne. Allora i

luoghi riservati alle donne che, parallelamente alla sottrazione dei territori inflitta a

un intero popolo dal dominio coloniale, divengono sempre più ristretti spazialmente,

simbolicamente concentrati intorno alla figura della madre, certo custode e alimento

di una storia e di una voce collettive […] ma, insieme, il miglior baluardo per

preservare la «quasi totale incomunicabilità dei sessi» e per annullare «l’immagine

archetipa del corpo femminile», divenuto ostaggio-rivincita del vinto, a ulteriore

inasprimento della condizione delle donne, passate dalla rassegnazione

all’amarezza: con una sospetta nostalgia, un dolente interrogativo si insinua nelle

pieghe della scrittura482.

Di conseguenza «la descrizione, giocata sulla dialettica osservatore/osservato,

oltrepassa agilmente il dato estetico per entrare in quello storico ed etico, innestando

e facendo coincidere la tradizionale attribuzione dello sguardo rubato dallo

straniero e padrone coloniale con la generalizzata percezione maschile autoctona

della donna/madre/utero, sempre più affermatasi in parallelo col rafforzamento

degli stati nazionali»483.

Lo slittamento del punto di vista genera un nesso molto forte «fra esilio (ovvero

dislocazione) e racconto (rimedio all’alienazione da racconto)»484: «l’énonciation

infatti - in francese già nel testo della Spivak - a determinare il posizionamento del

soggetto, e, simultaneamente, a guidare la nostra comprensione della prospettiva

che assume la costruzione dell’io, quell’affermazione del «je» non assolutizzato,

non feticizzato, ma piuttosto vettore di condivisione»485.

Prima di questa svolta femminista, la parola della donna poteva esistere soltanto

all’interno delle mura domestiche e si trattava di una parola collettiva, relativa agli

aspetti della famiglia e della religione; la donna islamica è allora «ospite, ossia di

481 Ivi, pp. 168-169. 482 GIOVANNA CALTAGIRONE, “Quando la critica d’arte diventa lotta politica. Femmes d’Alger dans

leur appartement di Assia Djebar”, in Actes du Colloque international, 2016, p. 107. 483 Ivi, pp. 110. 484 MAURO PALA, “Another language, another world: Assia Djebar e la critica postcoloniale

anglofona”, in Actes du Colloque international, 2016, p. 141. 485 Ivi, p. 145.

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passaggio; rischiando, in ogni istante, il ripudio unilaterale, essa non può realmente

aspirare a un luogo di permanenza»486: la donna è migrante anche in casa propria.

Pur trattandosi di una condizione linguistica di passaggio, la donna che scrive e usa

la lingua per esprimere ciò che col silenzio andrebbe perso, è presente; infatti, la

pronuncia di una lingua avviene comunque in un contesto spaziale che consente di

affermare una presenza fisica. Assia Djebar ha intitolato proprio così una sezione

del suo libro, “La lingua nello spazio o lo spazio nella lingua”: la lingua e lo spazio

sono in stretta connessione, la prima determina una forma identitaria, il secondo

un’appartenenza territoriale.

Analizzando il caso di Assia Djebar, una lingua comprende le altre e dunque è unica

ma nel contempo plurima con tutte le sfumature che derivano dalla considerazione

della lingua scritta, come il francese, o della lingua orale, come l’arabo o il berbero.

Dunque la forma identitaria è apparentemente unica, invece, in verità, contiene una

diversificazione culturale che amplifica la forza delle lingue interessate in questo

processo di memoria e di ri-acquisizione. Pertanto nemmeno lo spazio in cui le

lingue agiscono potrà essere unico, anzi l’aspetto spaziale emerge nella sua

molteplicità geografica ed è un’ulteriore dimostrazione del concetto spivakiano di

“planetarietà” degli studi comparati. Assia Djebar definisce la propria situazione

come «un andirivieni tra Francia e Algeria e viceversa, senza sapere in definitiva

dov’è l’andare, verso dove andare, verso quale lingua, verso quale sorgente, verso

quali retrovie, e senza sapere neppure dove si situi il ritorno, ritorno certo

impossibile e mitico dell’emigrata, ma anche ritorno verso un passato originario,

verso la lingua, origine di una madre resa sorda e muta. No: un ritorno a venire, un

ritorno-orizzonte che di nuovo ti espelle»487. Accade che ciò che la scrittrice è

impossibilitata ad esprimere con la lingua parlata delle origini, viene reso dinamico

e vitale nella lingua scritta francese: è proprio il francese che da “mezzo di

comunicazione” diventa “mezzo di trasformazione” e «risorsa»488, «un’azione, ma

solo nella misura in cui lui/lei pratica la scrittura come avventura, come ricerca del

sé e del mondo»489. La possibilità di scrivere per la donna è infatti un’esposizione

486 ASSIA DJEBAR, 2004, p. 49. 487 Ivi, p. 51. 488 RENATE SIEBERT, 2012, p. 197. 489 ASSIA DJEBAR, 2004, p. 65.

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di corpo e voce, come spiega Assia Djebar: «uscita dall’harem, all’inizio degli anni

cinquanta – per centinaia, o alcune migliaia, di maghrebine come me – grazie allo

studio del francese, considerato un’opportunità. “Esce” diceva la madre della

propria figlia felice o perplessa di quella fortuna orfana “esce perché legge!” Cioè,

traducendo dall’arabo dialettale, perché “studia”»490. Prima di quel momento

storico la libertà femminile non veniva vista come una cosa comune, dato che la

donna era costretta a seguire la tradizione familiare e, per la donna, esporsi con il

corpo e la voce, le due forme espressive che Assia Djebar sottolinea come elementi

di liberazione femminile dopo il lungo silenzio, era un pericolo per la simbologia

che gli uomini attribuivano alle donne.

In questa svolta storica e apertura mentale della società algerina, la lingua francese

viene definita dalla scrittrice «come bottino, cioè che porta con sé tutto il campo (e

il canto) della guerra interiore in ogni istante della fuga dall’harem»491, la vera

lingua espressa pubblicamente. Assia Djebar spiega che la disparità tra uomini e

donne, secondo la rigida educazione araba, rappresentava la disparità degli spazi:

«le donne dentro, separate dagli uomini fuori, il “pubblico” maschile contrapposto

all’intimo e al familiare, il monotono discorso degli ambienti maschili, diverso dalla

polifonia femminile, fatta di mormorii e sussurri o, al contrario, di urla delle società

di donne». Oltre a questa divisione sessuale e sociale, la scrittrice insiste sulla

divisione linguistica «fra una parlata arabofona […] e una pratica precoce, perché

inizialmente scolastica, della lingua francese»492. La scrittrice parla infatti di «casa

e prigione» per esprimere gli spazi che occupa fisicamente e mentalmente e scrive

a partire dalla sua famiglia, la sua autobiografia.

La scrittura di Assia Djebar è anche una forma di riscatto spaziale, ovvero la donna

ha bisogno di conquistare uno spazio che nemmeno con l’indipendenza dell’Algeria

ottenne; infatti anche con la de-colonizzazione ci furono i problemi della divisione

sessuale e linguistica.

Per quanto riguarda la lingua araba, essa «perdeva il proprio ossigeno, la propria

carne, il proprio ritmo profondo». Allora la scelta della lingua berbera materna nel

cinema poteva rappresentare una soluzione a questi problemi, anche perché il

490 Ivi, p. 66. 491 Ivi, p. 67. 492 Ivi, p. 68.

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rapporto lavorativo che l’autrice instaurò durante le riprese consisteva nell’entrare

a far parte del gruppo sociale protagonista del film, fare attenzione alle loro parole

e al modo in cui venivano pronunciate e alla loro gestualità e al modo in cui veniva

eseguita. Il rapporto stretto che esiste tra il corpo femminile e il corpo testuale è ben

spiegato da Wessal Malval:

L’œuvre d’Assia Djebar se présente donc comme un espace pluriel où le discours

corporel se distingue comme partie prenante dans l’expérience de l’altérité culturelle

et sexuée. La mise en écriture du corps montre que l’amour s’impose comme un lieu

privilégié de la rencontre entre l’homme et la femme mais aussi de celle qui se

construit entre la culture algérienne et la culture française. La narratrice refuse une

sexualité féminine discrète et conventionnelle et décrit le corps féminin dans ses

potentialités en le mettant en lumière. La quête du langage et la fondation du texte

se font à travers la construction du corps dans l’écriture. Ainsi, la parole qui surgit

du corps ne peut que se propager dans l’écriture. Elle devient le pouvoir d’une

création libre et assumée à travers l’imagination qui s’accomplit dans le

cheminement corporel493.

Il corpo della scrittura è sintetizzato in un’immagine molto bella che Mario

Domenichelli riprende da Jacques Lacan:

Si tratta del textus che il ragno fila dal suo ventre, la ragnatela, mirabolante funzione

davvero poiché in essa vediamo profilarsi, nella superficie che geometrizza il vuoto,

una sottile architettura che esce da un punto opaco di quella strana creatura che è il

ragno; quel sistema di tracce è dunque la scrittura, e noi attraverso quella geometria

possiamo cogliere limiti, impasse e vicoli ciechi; in essa si mostra il reale nel suo

accedere al simbolico, ciò può compiersi solo attraverso il filtro dell’immaginario494.

Allora è la testualità che può essere interpretata come la cura per la subalterna

nativa, la quale con la parola scritta può far emergere un mondo interiore in cui si

sono accumulati paura, violenza, problemi linguistici e sociali. Allora la letteratura

diventa lo strumento dell’analisi del proprio essere perché la nativa possa

interrogarsi su se stessa, smantellare la tradizione occidentale del colonizzatore sul

territorio e la tradizione patriarcale della società in cui vive, e infine ricostruire,

secondo il proprio punto di vista, la storia mancante e dare voce ai propri silenzi.

L’oralità e la scrittura insieme colmano i vuoti perché «ce que l’on souhaiterait

493 WESSAL MALVAL, “Engagement et identité féminine dans Ombre sultane d’Assia Djebar”, in

Actes du Colloque international, 2016, p. 258. 494 MARIO DOMENICHELLI, “Del reale, dell’immaginario, delle rappresentazioni come forma

dell’esperienza. Response a Silvano Tagliagambe”, in MARINA GUGLIELMI, MAURO PALA (a cura

di), Frontiere Confini Limiti, Armando, Roma, 2011, p. 245.

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mettre en relief est le fait qu’à partir du moment où la voix apparaît nettement dans

son sens spécifique (comme qualité sonore de la parole prononcée), elle devient

paradigmatique de l’écriture. Initialement liée à l’oralité, la voix finit par être

totalement inséparable de l’écriture»495. Chikhi spiega che la scrittura della Djebar

ha come obiettivo «exiler l’exil» perché «l’exil ne peut s’inscrire sur les corps;

l’écriture dit des rêves de plénitude et non d’extranéité. La perte est avant l’écriture,

non à son bout. L’imaginaire de la navigation scriptuaire féminine chez Assia

Djebar se fonde sur une énergie, qui formalise un cheminement corporel, charnel,

sensuel. Le corp n’accepte aucune mautilation. Il passe du “Non à l’interdit” au

“Oui à la vie”»496.

Ed è l’immaginario che consolida la parola orale con la parola scritta perché la

finzione romanzesca consente, con forme e contenuti diversi, di creare un contesto

e un discorso che diano al soggetto la possibilità di collocarsi tra il vero e la

parvenza.

Inoltre

malgré l’indépendance conquise, la volonté de sortir à la lumière du jour dans une

lumière aveuglante pour qui a toujours vécu dans l’ombre, Assia Djebar n’a cessé de

rappeler ce dévoilement, en passant à travers ces différentes phases, en décrivant

l’histoire par la libération de la parole étouffée. Seulement une fois le voile retiré pourra se faire la révélation des images-écriture,

d’images, des tableaux, de la musique, de l’écriture. Le regard intime qu’Assia

Djebar sait poser sur le monde est un regard introspectif de soi-même, des autres, de

la société, de l’Histoire, caractérisé par une écriture rare, pudique, délicate497.

495 MAHAUT RABATÉ, “Assia Djebar: de l’écriture comme voix”, in Actes du Colloque international,

2016, pp. 326-327. 496 BEÏDA CHIKHI, 1996, p. 81. 497 TANIA MANCA, “Dévoiler l’histoire, révéler les images. Le regard intime d’Assia Djebar”, in

Actes du Colloque international, 2016, pp. 366-367.

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Conclusioni

Nel corso di questo lavoro è stata più volte sottolineata l’importanza della scrittura

e dei testi come strumenti indispensabili per divulgare la parola, in particolare la

parola femminile, che esponendosi ha dato un contributo prezioso agli studi

postcoloniali. La decostruzione derridiana è stata utile per capire le traslazioni dei

significati nel passaggio dal discorso coloniale al discorso postcoloniale;

Christopher Norris ritiene che il senso della différance derridiana

rimane sospeso tra i due verbi “to differ” (differire) e “to defer” (posporre). Entrambi

questi verbi contribuiscono alla sua forza testuale, ma nessuno dei due può catturare

completamente il suo significato. Come ha mostrato Saussure, il linguaggio dipende

dalla differenza […] dalla struttura delle opposizioni caratteristiche che produce la

sua economia di base. Derrida apre un nuovo terreno […] laddove “differ” sfuma in

“defer” […] nell’idea che il significato possa venire sempre “differito” dal gioco

della significazione, forse fino al punto di un’incessante supplementarità498.

L’obiettivo sarà allora bloccare ciò che Hall definisce «la proliferazione subalterna

della differenza» per mettere in luce gli aspetti similari e diversi nella relazione

interculturale piuttosto che gli aspetti che producono solo ed eclusivamente le

differenze e gli isolamenti interculturali. Pensando alla struttura coloniale, questa

viene rivalutata per mezzo della différance derridiana, in cui non si realizzano le

opposizioni binarie tra le culture ma i nessi e i legami dei significati e dei concetti

che tale struttura ricostruita vuole esprimere. Abbiamo visto che i significati, finché

si realizzano gli spostamenti umani, non potranno mai essere definiti una volta per

tutte, in quanto la soggettività del contesto presente è molto più forte

dell’oggettività del contesto passato. La struttura decostruita assume una

ricostruzione molto diversa perché «il suo valore politico non può essere

essenzializzato ma soltanto determinato relazionalmente»499. Inoltre la différance

agisce nei vuoti e nelle cancellature della storia, che rappresentano le zone di

resistenza e di novità rispetto a ciò che è sempre stato trasmesso come assoluto e

definito dall’età coloniale. Le parti mancanti sono anche le più complesse da

498 STUART HALL, 2006, pp. 251-252. 499 Ivi, p. 289.

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colmare perché non basta colmarle con la tradizione, dato che questa viene messa

sempre in discussione dal fenomeno migratorio. Hall precisa infatti che «le identità

non affermano un qualche primordialismo, ma piuttosto una scelta posizionale del

gruppo a cui desiderano essere associate»500.

Al di là di una rinnovata identità, nel postcoloniale si fa strada anche uno

smantellamento dei problemi razziali che sono stati il grande punto di forza

dell’intera fase coloniale e anche di quella successiva. Questa scomposizione

ideologica ha portato all’ibridità culturale, conseguenza inevitabile con la diaspora,

l’esilio e la migrazione. La nuova fisionomia che il mondo assume in modo

mutevole ha facilitato la risoluzione di alcune questioni, come quella

precedentemente analizzata, ovvero la ribellione femminile contro una tradizione

patriarcale che non rispetta la donna nel suo essere e nel suo ruolo sociale.

«Alla globalità, come essenza e maschera ideologica dell’ideologia nazionalista

adottata dagli stati postcoloniali, Spivak sostituisce ancora una volta il concetto di

planetarietà, che passa per il recupero critico e consapevole (e, quindi, non

essenzializzato o feticistico) delle realtà marginali»501.

Anche Assia Djebar segue la via di Spivak: «Spivak sostituisce alla violenza

epistemica, il primato dell’immaginazione, inteso come “un modo di farsi altro,

alterarsi, in una relazione non più pregiudicata dal circolo della precomprensione e

del giudizio, ma che sia piuttosto accoglimento dell’altro e trasformazione di sé, in

un movimento simultaneo”»502. Infatti:

l’immaginazione è movimento, nasce nello stesso atto di metter all’opera la

decostruzione e, come quest’ultima, è un processo infinito. Se la rappresentazione è

quel cannibalismo epistemico che genera immagini speculari di sé, stereotipi, oggetti

silenziosi ed indivisibili, l’immaginazione svela, recupera, crea la possibilità di un

incontro con l’Altra/o che parla e produce i propri segni, a sua volta immaginandoci.

Nell’immaginazione non c’è spazio per la neutralità, c’è sempre e solo la

particolarità con le sue sfumature di soggettività503.

In questo modo la donna riacquisisce una personalità grazie alla quale può parlare,

«et dire la vérité c’est raconter, réécrire l’histoire de ces femmes, dans le

500 Ivi, p. 296. 501 FIORENZO IULIANO, 2012, p. 103. 502 PAMELA DE LUCIA, 2013, p. 112. 503 Ivi, p. 113.

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rétablissement des faits historiques, de la participation à l’histoire de l’Algérie de

ces femmes qui se sont battues à côté et comme les homme»504.

Il rapporto che la scrittura di Assia Djebar ha con le altre arti espone la donna ad

interpretarsi su molteplici livelli che ritornano tutti ad un unico filo conduttore, il

corpo femminile. È una esposizione di Sé come Donna e che avviene per mezzo

dello Sguardo: è infatti proprio lo sguardo che definisce i movimenti del corpo, sia

quello della donna, sia quello della scrittura femminile. Le altre arti, come la pittura,

il cinema, la musica, amplificano lo sguardo femminile e lo rafforzano con altri

mezzi: gli spazi sonori, i colori, il canto, le voci. «Ainsi, en démultipliant les voiles

qui s’opposent à la lecture du corps de l’œuvre comme de son objet, l’écriture

semble-t-elle nous inviter à l’opération de son indéfini dévoilement»505.

Ciò significa che la de-costruzione riguarda anche il concetto stesso di lingua, che

da lingua del Potere maschile e lingua dell’Uomo diventa lingua della Libertà

femminile e lingua della Donna. Di conseguenza quel velamento, che veniva

imposto, come veste, dal padrone maschile della tradizione familiare e, come

lingua, dal padrone maschile della struttura coloniale, passa a un disvelamento di

passaggio che è di beneficio per la donna per analizzare a fondo le ragioni di quel

velamento: vuol dire esporsi e scoprirsi, nel doppio significato di “togliersi il velo”

e di “leggersi e capirsi”. Infine il terzo passaggio è quello del rivelamento, cioè

“farsi conoscere” con un “velo” diverso da quello iniziale e che la donna fa proprio

per manifestare se stessa e per ri-presentarsi.

La langue, orale ou écrite, française ou arabe, arabe populaire ou féminin, symbole

de liberté est un son prisonnier qu’il faut délivrer afin de pouvoir procéder à la

narration. C’est le choix conscient entre les différents codes et les différents registres,

ainsi que la prise de conscience du narrateur de l’état d’étouffement de cette langue

voilée qui lui permettra de se libérer, de sortir à la lumière du jour. Dévoiler la langue

d’abord afin de pouvoir, à travers elle, dévoiler le monde506.

Dalla subalternità femminile di Spivak, si può passare a una lettura nuova rispetto

all’affermazione spivakiana «the subaltern cannot speak», così esposta da Lata

504 STEFANIA CUBEDDU-PROUX, “Orientalisme entre peinture et écriture: une relecture d’Assia

Djebar”, in Actes du Colloque international, 2016, p. 355. 505 Ivi, p. 356. 506 TANIA MANCA, “Dévoiler l’histoire, révéler les images. Le regard intime d’Assia Djebar”, in

Actes du Colloque international, 2016, p. 359.

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Mani:

La domanda “I subalterni possono parlare?” dovrebbe forse essere trasformata in una

serie di interrogativi: quale gruppo costituisce i subalterni in un testo dato? Qual è la

loro relazione vicendevole? Come si può riconoscere, in un determinato insieme di

materiali, se essi stiano parlando o invece tacciano? E con quale effetto? Riformulare

queste domande così ci permette di utilizzare l’intuizione di Spivak a riguardo della

posizione delle donne nel discorso coloniale, senza concedere al discorso coloniale

ciò che in realtà non ha mai ottenuto: la cancellazione delle donne507.

La cancellazione delle donne non c’è stata perché «le relazioni fra noi e i

“subalterni” che cerchiamo di portare alla luce si basano anche sul fatto che le storie

del passato continuano a dare forma al mondo in cui viviamo»508. Ma allora «si

tratta di cogliere le sfumature della voce, di ascoltare più il come del che cosa viene

narrato»509.

La capacità di legare assieme scritture e traduzioni diverse fa di Assia Djebar una

scrittrice poliedrica e multiforme, grazie all’utilizzo versatile delle lingue, per il suo

interesse a capire i problemi femminili da molteplici punti di vista e con strumenti

eterogenei, per la sua testimonianza interculturale e interdisciplinare. Come

sostiene Khadidja Benammar, «le cinéma, la peinture et la musique ont joué un rôle

fondateur dans l’écriture des récits [d’Assia Djebar]. Le septième art cependant,

reste prédominant»510 e «chaque ouvrage suppose […] la performance de diverses

compétences dont doit rendre compte une certaine “interdiscursivité”»511.

La versatilità della scrittura di Assia Djebar è riconosciuta anche da Chikhi, che la

definisce

ecrivain-femme porte-parole des femmes séquestrées, écrivain-témoin d’une époque

historique, écrivain stimulant la mémoire des aïeules et secouant les archives,

écrivain parcourant son corps et surprenant le couple, Assia Djebar est aussi écrivain-

architecte qui éprouve les structures, confectionne des objets linguistiques, et qui,

tout en restant profondément ancré dans une idéologie de la représentation, évolue

vers une recherche sémiologique et une réflexion sur le processus de création512.

507 ANIA LOOMBA, 2000, pp. 237-238. 508 Ivi, p. 237. 509 RENATE SIEBERT, 2012, p. 221. 510 STEFANIA CUBEDDU-PROUX, “Orientalisme entre peinture et écriture: une relecture d’Assia

Djebar”, in Actes du Colloque international, 2016, p. 343. 511 Ivi, p. 344. 512 BEÏDA CHIKHI, 1997, p. 172.

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La rappresentazione della donna algerina diventa una ri-presentazione perché

sotto la diversità delle parole di lingue diverse, sotto la diversità dei contesti o dei

sistemi sintattici, lo stesso senso o lo stesso referente, lo stesso contenuto

rappresentativo manterrebbero la propria identità inintaccabile. Il linguaggio, ogni

linguaggio sarebbe rappresentativo, sistema di rappresentazioni/rappresentanti, ma

il contenuto rappresentato, il rappresentato di questa rappresentazione (senso, cosa,

ecc.) sarebbe una presenza e non una rappresentazione. […] Nella ri-presentazione,

il presente, la presentazione di ciò che si presenta riviene, fa ritorno come doppio,

immagine, copia, idea nel senso di quadro della cosa ormai disponibile, in assenza

della cosa, disposta e predisposta per, da e nel soggetto513.

Anche il cinema ritrae e concretizza delle storie ed «è visto qui non come uno

specchio di secondo ordine che riflette unicamente ciò che già esiste, ma come una

forma di rappresentazione capace di costituirci come nuovi tipi di soggetto, che ci

consente quindi di scoprire luoghi da cui parlare»514.

La particolarità di Assia Djebar consiste nel legame culturale che attua con la

scrittura: la sua scelta è la scrittura in lingua francese ma il contenuto è algerino,

quello del suo passato o del suo presente; in seguito i contenuti della scrittura si

ampliano anche ad altri territori europei, verso ciò che l’autrice definisce

“avventura”. L’avventura della scrittura consiste nel creare delle situazioni

romanzesche, nelle quali possano agire delle presenze; significa «abitare, popolare

o ripopolare un luogo, una città, a partire dai fantasmi di quel posto, ma anche dalle

vostre ossessioni. Queste riemergono vostro malgrado, proprio perché vi sentite

davvero straniera in libertà!»515. Questo meccanismo rovesciato scombina

totalmente la linea letteraria dell’età coloniale: in quella fase storica si trattava di

parlare di sé e dell’altro in riferimento all’orientalismo, mentre l’“avventura” di

Assia Djebar vuole essere «una tentazione occidentalista»516.

Gayatri Spivak e Assia Djebar rappresentano due figure che conferiscono alla

letteratura un ruolo pedagogico517: in entrambi i casi il fattore linguistico è stato

basilare, in Spivak nel rapporto tra il bengalese e l’inglese, in Djebar nel rapporto

tra il berbero o l’arabo e il francese. La risposta che diede Spivak alla domanda Can

513 JACQUES DERRIDA, Psyché. Invenzioni dell’altro, Jaca Book, Milano, 2008, vol. 1, pp. 125, 130. 514 STUART HALL, 2006, p. 261. 515 ASSIA DJEBAR, 2004, p. 218. 516 Ibidem. 517 FIORENZO IULIANO, 2012, pp. 134, 136.

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the Subaltern Speak? fu «the subaltern cannot speak», ma, spostando l’analisi al

caso di Assia Djebar, la subalterna-soggetto può parlare ed essendo soggetto che

parla è anche colei che si è finalmente affrancata dalla condizione di subalternità.

La différence della condizione di subalternità si è tramutata in différance.

Questa funzione di porta-parola, o piuttosto di porta-memoria, occulta in realtà la

segregazione delle donne nello spazio (la tendenza a immobilizzarle e, insieme, o in

alternativa, a sigillarle, camuffarle, seppellirle con un pezzo di stoffa o un sudario).

Questa tendenza all’asfissia del corpo approda all’unica traslazione possibile:

sostenere la propria vita con il canto, il lamento, l’incanto con la voce, unica liberata.

Sì, fare della voce che si slancia potente, aspra, vendicativa, straziante o

semplicemente nuda, l’unica consolazione immediata518.

In Assia Djebar la parola ha più di un significato: «quando dico parola, non dico

solo lingua ma anche musica, rumore»519, allora l’autrice si chiede:

sarà un caso che la maggior parte delle opere cinematografiche, di cui sono autrici

le donne, conferiscano un rilievo importante quanto l’immagine stessa al sonoro, alla

musica, al timbro delle voci prese e sorprese? Come se fosse necessario avvicinarsi

lentamente allo schermo, che andava popolato, se occorreva, partendo anche da uno

sguardo miope, anche sfocato, ma sostenuto da una voce piena, pienamente presente,

dura come la pietra, fragile e ricca come il cuore umano520.

Sguardo e voce sono gli elementi della presenza femminile e della sua ri-

presentazione:

«costruire un viso come si innalza una casa» dice lo scrittore Tahar Ben Jelloun, e

come una casa il viso protegge, lascia aperti solo piccoli varchi per guardare dentro

e fuori, porta addosso le ferite del tempo, racconta la sua storia e quella di chi lo

“abita”. Spesso lo trucchiamo, ogni tanto lo trasformiamo; le donne musulmane lo

velano e ciò che a noi pare una limitazione della dignità della persona può essere

vissuto a volte come un segno di autonomia, come una scelta individuale. Insomma,

come la possibilità di crearsi un proprio ambito all’interno della società521.

La ri-presentazione avviene attraverso la traduzione che, come ha dimostrato Assia

Djebar, realizza molteplici possibilità di analisi;

forse, allora, la traducibilità diviene una parola molto più preziosa nei suoi rimandi,

poiché non riguarda solo la delicata relazione tra sistemi culturali e linguistici

518 ASSIA DJEBAR, 2004, p. 70. 519 Ivi, p. 171. 520 Ivi, pp. 156-157. 521 PIERO ZANINI, 1997, pp. 49-50.

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diversi, e sistemi del sapere diversi, ma l’intima riflessione sulla modernità come

complesso e intricatissimo gioco di inclusioni ed esclusioni dallo spazio e dal tempo

della ragione occidentale. La traducibilità ci conduce, dunque, inevitabilmente, a una

riflessione sull’ordine voluto per sistemare il mondo, e forse sugli ordini che

potrebbero essere possibili522.

Assia Djebar insiste sulla ricchezza della scrittura, in grado di «far emergere la vita,

il dolore forse ma la vita, l’inguaribile malinconia ma la vita!»523, perché

significherebbe «dinanzi alle cruente tracce e minacce, dinanzi all’orrido scarlatto

della quotidianità algerina, restituire soprattutto la tavolozza del bianco, dei grigi,

delle sfumature dei marroni, dei grigioverdi, dell’azzurro cenere, tutta la gamma

del cielo prima dell’alba»524.

Il problema identitario è risolvibile allora in ciò che Derrida chiama

«identificazione. Non l’identità, a essere precisi. Un’identità non è mai data,

ricevuta o raggiunta, no, si patisce soltanto il processo interminabile,

indefinitamente fantasmatico, dell’identificazione»525. La cosa fondamentale è che

niente si fermi, ovvero la dinamicità di questi processi mette in primo piano la forza

della parola, perché «così va la corsa, il tempo di un romanzo, o di un racconto, o

di una breve novella. Scrivere o correre. Scrivere per correre. Scrivere e ricordare.

Avanti, indietro, che differenza fa?»526.

Per concludere, Assia Djebar completa l’excursus del suo libro Ces voix qui

m’assiègent con una riflessione sul futuro; questa sezione si intitola “Tutto deve

sparire?” e inizia così:

Una mattina guardavo sulla vetrina di un negozio la scritta a lettere maiuscole:

TUTTO DEVE SPARIRE. Era lo slogan che annunciava una liquidazione

commerciale.

Ho colto al volo lo slogan, e su quella scia tante idee febbrili mi hanno assalito. Come

sempre, vivendo a Parigi da una decina d’anni, è all’Algeria di oggi che la mia mente

pensa, è là che un misto di sogni e nostalgia torna, e fermenta, e si acuisce.

“Tutto deve sparire nell’Algeria attuale?” mi sono chiesta, piena d’angoscia: è

proprio lo slogan per un rischio d’imminente liquidazione. Il rischio di scomparsa,

la sua immanenza, e, per alcuni, la sua quasi necessità (“tutto deve”), riguardava, per

me evidentemente, la cultura algerina, e più precisamente la sua letteratura.

Questa, insomma la sua anima, è uno scritto multilingue (francese, arabo, berbero)

522 IAIN CHAMBERS (a cura di), 2006, p. 44. 523 ASSIA DJEBAR, 2004, pp. 161-162. 524 Ibidem. 525 JACQUES DERRIDA, 2004, p. 35. 526 ASSIA DJEBAR, 2004, p. 140.

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che, senza dubbio qui più che altrove, fluttua e si abbevera al fermento orale: parola

fatta di umorismo e disperazione, di rabbiosa allegria che a sprazzi squarcia molli

strati di malinconia e di un ancestrale male di vivere, espressa dalla musica algerina,

vibrante nei suoi modi tradizionali, ma anche nelle sue nuove forme sincretiche;

penso al rai, eredità di un’unica città, Orano, con i suoi adolescenti sfaccendati, ma

soprattutto le sue donne, affabulatrici, poetesse popolari, dalla reputazione spesso

licenziosa, divenute il simbolo stesso della dissidenza, della sua pericolosa libertà!527

Con questo messaggio, la scrittrice valuta la situazione nazionale algerina

all’indomani dell’indipendenza del 1962, quando, anche dopo quarant’anni, la

libertà di parola è stata ostacolata con persecuzioni e uccisioni di scrittori,

giornalisti. L’autrice si chiede cosa deve sparire, «tutto? S’intende: la cultura, la

creazione, la contestazione, la penna che vuol essere individuale, che imbocca

strade aleatorie, che traccia il proprio pensiero in modo beffardo, ironico o iroso»528.

Anche la tradizione familiare vuole che la scrittura di una donna non prosegua, è

proprio questo il titolo dell’ultima sezione del libro, “Scrivere, senza alcuna

eredità”, perché la donna eredita solo il silenzio e non la possibilità di parola. Ma

come scrive l’autrice,

la mia scrittura non si nutre di rottura, la colma; né di esilio, lo nega. Soprattutto,

aborre desolazione e consolazione. Benché sia assente in me l’eredità del canto

profondo, essa sgorga, gratuita; come un inizio. In questo mio isolamento, avverto

finalmente la fortuna della mia non-eredità.

Se già, per scrivere, siete state spogliate della lingua materna, se il linguaggio

vernacolare vi serve solo per soffrire, ah no, non emetterete più gli yu yu nel cuore

della festa o nell’altera esplosione del lutto. No, non direte “noi”, non vi nasconderete, voi donna singolare, dietro la “Donna”;

non sarete mai, né all’inizio né alla fine, “porta-parola”, le vostre parole d’altronde

non portano lontano, non aspirano all’orizzonte delle cantanti capaci di cullare.

No, direte “io” (mi metto in gioco per voi tutta sola), canterete, danzerete ed è proprio

questo che desidererete iscrivere, anche in pieno disastro, a causa del naufragio

stesso,

la vostra gioia della luce

la vostra scoperta di camminare fuori

di non sentire più legami529.

Si può infine dire che la scrittura di Assia Djebar abbia realizzato un’architettura

nuova della storia algerina, del popolo algerino, della società algerina e, soprattutto,

527 Ivi, pp. 227-228. 528 Ivi, p. 228. 529 Ivi, p. 244.

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della donna algerina; architettura variegata contenente scrittura, poesia530,

immagini, suoni, sguardi, voci e contatti culturali, cioè disseminazione. E come

sintetizza Giuliva Milò, Assia Djebar,

ressentant le choix de la langue comme un choix identitaire quasi irréversible, elle

semble trouver son apaisement intérieur en acceptant une identité linguistique

plurielle: dans une réconciliation harmonieuse de toutes les langues d’Algérie, elle

assigne à chacune d’elle la place qui lui revient. Elle se résigne enfin à faire le deuil

de l’arabe classique en tant qu’écrivaine: la langue du Coran, langue sublime, est

ressentie comme figée dans un passé glorieux et dans le mystère du sacré; tout en

arabesques, elle semble répondre plus à un désir d’esthétique qu’à la libre expression

de la subjectivité. L’arabe ramène la romancière vers le domaine sécurisant de la

tradition des femmes, il entretient la nostalgie du patrimoine culturel du passé dont

elle se sent dépossédée531.

530 JACQUES DERRIDA, La disseminazione, Jaca Book, Milano, 1989, p. 15: «La poesia è il luogo

privilegiato in cui è dato di esperire il carattere proprio del linguaggio, il suo carattere mostrante, in

cui è dato di esperire, nella sua purezza, ciò che dà». 531 GIULIVA MILÒ, “Les langues d’une Algérie plurielle: entre espoir et désillusion”, in Actes du

Colloque international, 2016, p. 315.

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