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laboratorio culturale SUBALTERNITÀ E PROGRESSIVITÀ: UNA RILETTURA DEL CONCETTO GRAMSCIANO DI RIVOLUZIONE PASSIVA Massimo Modonesi Nel concetto di rivoluzione passiva appare la questione della forma rivoluzionaria, che si connette al tema della soggettività. Passività e subalternità, termini correlati. Dispositivi di passivizzazione: cesarismo e trasformismo. Rivoluzioni passive progressive e/o regressive. In questo breve articolo presento due ipotesi articolate che permettono, a mio avviso, di sviluppare e, allo stes- so tempo, precisare la portata analitica del concetto gramsciano di rivoluzione passiva 1 . La prima sostiene che, nelle letture e interpretazioni del concetto di rivo- luzione passiva, la dimensione o, meglio, il criterio del- la passività è fondamentale ma non è stato debitamen- te messo in rilievo dagli studi gramsciani e, in certa mi- sura, dallo stesso Gramsci, che non sviluppa né chiari- sce il suo significato, sebbene sullo sfondo della sua ela- borazione soggiaccia l’attenzione e la preoccupazione per la subalternità come condizione e situazione socia- le e politica. La seconda afferma che è possibile e perti- nente applicare la distinzione progressivo-regressivo – utilizzata da Gramsci per differenziare i cesarismi – per discernere tra rivoluzioni passive di diverso tipo. In sintesi, sosterrò una rilettura del concetto di rivoluzione passiva in cui la passività, intesa come aspetto della subalternità, acquisisce peso e centra- lità nella configurazione e portata del concetto; serve come chiave di volta dell’articolazione con i dispositi- vi correlati di trasformismo e di cesarismo; e – consi- derando che la nozione di progresso di Gramsci è an- che o soprattutto politica e soggettiva – apre la porta alla possibile distinzione tra rivoluzioni passive pro- gressive e regressive. Oltre la modernizzazione conservatrice Il concetto di rivoluzione passiva formulato da Gram- sci nei Quaderni del carcere è stato oggetto di diversi studi che soppesano e mettono in risalto il suo valore e la sua portata all’interno dell’impalcatura concet- tuale gramsciana e la sua applicazione alla storia del Risorgimento o in riferimento al fascismo (Buci- Glucksmann 1976 e 1979; De Felice 1988; Kanoussi- Mena 1985; Voza 2004; Burgio 2007 e 2014). 1) Uno sviluppo che rientra nella logica di ampliazione della nozione portata avanti nei Quaderni: dal XIX al XX secolo, da de- finizione puntuale a canone di interpretazione «di ogni epoca com- plessa di rivolgimenti storici» (Q 15, 62, 1827. Il riferimento intro- dotto da Q, seguita da numeri indicanti quaderno, paragrafo e pa- gina, qui e avanti, è a Gramsci 1975). Luisa Mangoni sosteneva che Gramsci muoveva in questa direzione: «non più rivoluzione passiva solo come modello di interpretazione storica, e neanche solo come criterio generale di scienza politica, ma come strumen- to di comprensione dei processi in atto» (Mangoni 1987: 579).

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SUBALTERNITÀ E PROGRESSIVITÀ:UNA RILETTURA DEL CONCETTO

GRAMSCIANO DI RIVOLUZIONE PASSIVAMassimo Modonesi

Nel concetto di rivoluzione passiva appare la questione della forma rivoluzionaria, che si connette al tema della soggettività.Passività e subalternità, termini correlati.

Dispositivi di passivizzazione: cesarismo e trasformismo.Rivoluzioni passive progressive e/o regressive.

In questo breve articolo presento due ipotesi articolateche permettono, a mio avviso, di sviluppare e, allo stes-so tempo, precisare la portata analitica del concettogramsciano di rivoluzione passiva1. La prima sostieneche, nelle letture e interpretazioni del concetto di rivo-luzione passiva, la dimensione o, meglio, il criterio del-la passività è fondamentale ma non è stato debitamen-te messo in rilievo dagli studi gramsciani e, in certa mi-sura, dallo stesso Gramsci, che non sviluppa né chiari-sce il suo significato, sebbene sullo sfondo della sua ela-borazione soggiaccia l’attenzione e la preoccupazioneper la subalternità come condizione e situazione socia-le e politica. La seconda afferma che è possibile e perti-nente applicare la distinzione progressivo-regressivo –utilizzata da Gramsci per differenziare i cesarismi – perdiscernere tra rivoluzioni passive di diverso tipo.

In sintesi, sosterrò una rilettura del concetto dirivoluzione passiva in cui la passività, intesa comeaspetto della subalternità, acquisisce peso e centra-

lità nella configurazione e portata del concetto; servecome chiave di volta dell’articolazione con i dispositi-vi correlati di trasformismo e di cesarismo; e – consi-derando che la nozione di progresso di Gramsci è an-che o soprattutto politica e soggettiva – apre la portaalla possibile distinzione tra rivoluzioni passive pro-gressive e regressive.

Oltre la modernizzazione conservatrice

Il concetto di rivoluzione passiva formulato da Gram-sci nei Quaderni del carcere è stato oggetto di diversistudi che soppesano e mettono in risalto il suo valoree la sua portata all’interno dell’impalcatura concet-tuale gramsciana e la sua applicazione alla storia delRisorgimento o in riferimento al fascismo (Buci-Glucksmann 1976 e 1979; De Felice 1988; Kanoussi-Mena 1985; Voza 2004; Burgio 2007 e 2014).

1) Uno sviluppo che rientra nella logica di ampliazione dellanozione portata avanti nei Quaderni: dal XIX al XX secolo, da de-finizione puntuale a canone di interpretazione «di ogni epoca com-plessa di rivolgimenti storici» (Q 15, 62, 1827. Il riferimento intro-dotto da Q, seguita da numeri indicanti quaderno, paragrafo e pa-

gina, qui e avanti, è a Gramsci 1975). Luisa Mangoni sostenevache Gramsci muoveva in questa direzione: «non più rivoluzionepassiva solo come modello di interpretazione storica, e neanchesolo come criterio generale di scienza politica, ma come strumen-to di comprensione dei processi in atto» (Mangoni 1987: 579).

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L’espressione «rivoluzione passiva» apparecome sinonimo di «rivoluzione senza rivoluzione» (Q1, 44, 41)2, il che sottolinea chiaramente il punto diambiguità che costituisce il midollo del concetto e sta-bilisce la sua gittata descrittiva e analitica. In effet-ti, la nozione di rivoluzione passiva vuole rendere con-to di una combinazione – diseguale e dialettica – didue tendenze: restaurazione e rinnovamento, preser-vazione e trasformazione o, con parole di Gramsci,«conservazione-innovazione». A livello metodologico,Gramsci procede su due piani di lettura: nel primo as-sume la coesistenza e simultaneità di entrambe letendenze, il che non esclude che, nel secondo, si pos-sa distinguere, all’interno della combinazione, qualetendenza risulta determinante e caratterizza, in ulti-ma istanza, il processo3. In un passaggio cruciale deiQuaderni, Gramsci enuncia le componenti fondamen-tali del concetto:

È da vedere se la formula del Quinet può essere av-vicinata a quella di «rivoluzione passiva» del Cuoco;esse forse esprimono il fatto storico dell’assenza diuna iniziativa popolare unitaria nello svolgimentodella storia italiana e l’altro fatto che lo svolgimentosi è verificato come reazione delle classi dominanti alsovversivismo sporadico, elementare, disorganicodelle masse popolari con «restaurazioni» che hannoaccolto una qualche parte delle esigenze dal basso,quindi «restaurazioni progressive» o «rivoluzioni-re-staurazioni» o anche «rivoluzioni passive» (Q 10, 41,1324-1325)4.

Le equivalenze possono essere lette, più che come si-nonimi, come sfumature di distinzione nella misurain cui introducono, oltre alla antinomia rivoluzione-restaurazione, il criterio di progressività che ritrove-remo, in forma più esplicita, quando Gramsci lo useràper distinguere i cesarismi. È significativo che, dopoquesta primo esercizio di approssimazione concettua-

le per mezzo di sinonimi e equivalenze, Gramsci fi-nalmente adotta e adatta la formula di rivoluzionepassiva, ereditata da Cuoco. Sceglie coscientementeun’espressione dove rivoluzione è il sostantivo – contutta la polisemia e la carica polemica che racchiudequesta parola, assumendone una accezione descritti-va e storica e non ideologica o strategica. Il sostanti-vo rivoluzione si riferisce fondamentalmente al con-tenuto e alla portata della trasformazione, come si in-ferisce dalla formula «rivoluzione senza rivoluzione»:trasformazione rivoluzionaria senza irruzione rivolu-zionaria, senza rivoluzione sociale, senza protagoni-smo delle classi subalterne. Per sintetizzare questacontraddizione Gramsci opta per passiva come agget-tivo qualificativo che distingue una modalità specifi-ca di rivoluzione non realizzata attraverso un effica-ce movimento sovversivo delle classi subalterne ma,al contrario, operata dall’alto come contromossa del-le classi dominanti che promuovono tatticamente uninsieme di trasformazioni che introducono una di-scontinuità significativa ma limitata, essenzialmen-te e strategicamente orientata a garantire la stabilitàdei rapporti di dominio di fondo.

Non mi soffermo, come ho fatto altrove (Modo-nesi 2016), sulla questione della combinazione di dosidi rinnovamento e conservazione che caratterizzanola trasformazione strutturale, questione che ha occu-pato il centro del dibattito attorno al concetto, al pun-to di collocarlo spesso sullo stesso piano delle nozionidi modernizzazione conservatrice o via junker5.

Nella sua dinamica e forma politica, la moder-nizzazione conservatrice contenuta in una rivoluzio-ne passiva è, segnala Gramsci, condotta dall’alto.L’alto è riferito tanto al livello soggettivo dell’inizia-tiva delle classi dominanti come al suo esercizio stru-mentale, per mezzo delle istituzioni statali, poiché illuogo o momento statale è volto a compensare la de-

2) Nel Quaderno 1 l’espressione è aggiunta da Gramsci «in epo-ca posteriore» – segnala in nota Gerratana –, è nel Q 4 (57, 504)che il concetto appare per prima volta.

3) «Si tratta di vedere se nella dialettica “rivoluzione-restaura-zione” è l’elemento rivoluzione o quello restaurazione che prevale,poiché è certo che nel movimento storico non si torna mai indietroe non esistono restaurazioni “in toto”» (Q 13, 27, 1619).

4) Rispetto alla prima stesura (Q 8, 25, 957) Gramsci sostitui-sce «progresso» con «svolgimento», «popolari» con «dal basso» e ag-giunge gli aggettivi «unitaria» e «elementare».

5) Nel caso latinoamericano generando confusioni e ostruendola possibilità di utilizzarla per interpretare fenomeni nazionali-po-polari e populisti, per un panorama critico degli usi latinoameri-cani del concetto cfr. Modonesi (2016b).

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bolezza relativa delle classi dominanti le quali ricor-rono a una serie di misure “difensive” che includonouna combinazione di coercizione e consenso, più con-senso che coercizione, più egemonia che dittatura, piùnel New Deal che nel fascismo. Se Gramsci stava ri-maneggiando un concetto originale testualmentecomposto dai termini rivoluzione e passiva dobbiamodedurne che non aveva intenzione di sottolineare unaspetto dittatoriale o particolarmente coercitivo mariconoscere o rimarcare i tratti egemonici di certi pro-cessi politici, anche se poneva in discussione la lorocapacità di “fare epoca”.

Passività e subalternità

Oltre al contenuto ambiguo e contraddittorio del pro-cesso a livello strutturale e della identificazione del-lo Stato come l’ambito superstrutturale per mezzo delquale si dava forza il processo, nel concetto di rivolu-zione passiva appare la questione della forma rivolu-zionaria, che si connette al tema della soggettività,della sovversione come atto e della condizione di su-bordinazione e della possibilità di insubordinazionedelle classi subalterne. A questo mira l’idea centralee ricorrente di passività delle classi subalterne, cheaccompagna la caratterizzazione del concetto di rivo-luzione passiva, e la sua contropartita: l’iniziativadelle classi dominanti e la loro capacità di riformarele strutture e i rapporti di dominio per puntellare lacontinuità di un ordine gerarchico.

In questo senso, appare il principio anticata-strofista e antieconomicista secondo il quale le clas-si dominanti possono risolvere situazioni di crisi,che hanno margini di azione politica per poter ricon-figurare l’egemonia temporalmente perduta, il cheovviamente obbliga a ripensare tattiche e strategierivoluzionarie. In effetti, nel Quaderno 15 Gramscipone in rapporto il concetto di rivoluzione passivacon quello di guerra di posizione fino a suggerire unaeventuale “identificazione” – il che ci porta a pen-sarla come una forma specifica di egemonia: una ri-voluzione passiva è l’espressione storica di una de-terminata correlazione di forze e, allo stesso tempo,

un suo cambiamento molecolare (cfr. Q 15, 11,1767).

In quest’ottica relazionale, se una rivoluzionepassiva è sempre un movimento di reazione dall’alto,un “contraccolpo”, esso implica – subordina e sussu-me – l’esistenza di una azione precedente dal basso,a un livello sintetico e molto più sfumato della se-quenza rivoluzione-restaurazione, poiché né l’azionedal basso raggiunge il livello di compiuta rivoluzione,né la reazione dall’alto è una piena restaurazione.

Questa tensione dialettica tra aspetto passivo easpetto attivo è, per altro, evidente visto che Gram-sci pensava alla rivoluzione passiva a partire dal pa-radigma della rivoluzione “radicale-giacobina”, atti-va o «anti-rivoluzione passiva» (Buci-Glucksmann1979), così come concepiva la guerra di posizione inantitesi alla guerra di movimento e alla rivoluzionepermanente. L’aggettivo passiva è descrittivo in rela-zione alla forma che acquisisce il processo ma ancheprescrittivo (per le forze conservatrici) rispetto all’as-senza di azione e alla finalità di un progetto di passi-vizzazione come condizione sine qua non per evitareuna rivoluzione attiva, una rivoluzione con rivoluzio-ne. Ciò corrisponde all’interesse-preoccupazione diGramsci riguardo della passività relativa delle classisubalterne nell’epoca della mobilitazione e politiciz-zazione posteriore alla prima guerra mondiale, inparticolare riguardo alla contraddizione tra l’attiva-zione delle masse e la sua posteriore riconduzione allapassività-subalternità negli anni Venti-Trenta.

Gramsci non definirà esplicitamente la nozionedi passività mentre, in forma diffusa ma constante,rifletterà sulla tensione-contraddizione tra aspetti at-tivi e passivi nel contesto della condizione di subal-ternità. In questo senso la nozione di rivoluzione pas-siva può essere intesa, in termini gramsciani, comeuna rivoluzione subalternizzante, di riconduzionealla condizione di subalternità. Sebbene i termini nonsi riferiscono a situazioni identiche, bisogna conside-rare che la subalternità include e combina un aspet-to passivo, di accettazione relativa della condizione disubordinazione e un altro attivo, legato alla resisten-za (Modonesi 2010: 37-39). Quindi l’evocazione dellapassività richiama la parte passiva della condizione

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subalterna, una dimensione che, en passant, costitui-sce il punto di partenza etimologico del concetto, cheesprime l’assoggettamento, malgrado si sia arricchi-to di proprietà soggettive attive, dalla formulazionegramsciana in avanti, fino a convertirsi, per alcunecorrenti di pensiero che denomino subalterniste, in unconcetto che esprime un soggetto pienamente attivo:il soggetto che, malgrado l’assoggettamento, resiste(Modonesi 2010).

D’altra parte, è evidente che si tratta di una pas-sività relativa o, predominante, poiché non esiste pas-sività assoluta, vi sono sempre elementi che operanoa controtendenza, e inoltre le rivoluzioni passive pun-tano a ottenere livelli di “consenso attivo” e non solopassivo. In effetti, può esistere una attività subalter-na diversa dalla resistenza, generata dall’alto, perprodurre un certo grado di “consenso attivo” con il cor-rispondente – limitato ma non irrilevante – impattoesperienziale in chiave di soggettivazione politica.

Con queste delimitazioni, leggere l’aggettivopassiva alla luce della caratterizzazione del subalter-no da parte di Gramsci permette di sviluppare e ar-ricchire la definizione, e quindi la portata analitica,del concetto di rivoluzione passiva. In effetti, malgra-do non sia stato oggetto di eguale attenzione da par-te proprio di Gramsci come dei posteriori studi gram-sciani, consideriamo che l’aggettivo passiva abbiaeguale importante – e meriti eguale attenzione – delsostantivo rivoluzione in quanto ne è il qualificativo.

Rispetto alla genesi dei fenomeni di rivoluzionepassiva, come si è visto, Gramsci segnala che si trat-ta di reazioni delle classi dominanti al «sovversivismosporadico, elementare e disorganico delle masse po-polari» che «hanno accolto qualche parte delle esigen-ze popolari». All’origine del processo vi è quindi un’a-zione dal basso – con i limiti segnalati – una sconfit-ta o la semplice inesistenza o inconsistenza di unaproposta rivoluzionaria, espressione dell’incapacitàdelle classi subalterne di proporre e sostenere un pro-getto rivoluzionario giacobino o dal basso ma capacidi abbozzare un movimento che risulti minaccioso oche apparentemente ponga in discussione l’ordine ge-rarchico instaurato dalla borghesia. In effetti, sebbe-ne la spinta dal basso non è sufficiente per una rottu-

ra rivoluzionaria, allo stesso tempo è in grado di pro-vocare o obbligare una reazione e per imporre – pervia indiretta – certi cambi sostanziali – oltre ad altriapparenti – in quanto appunto alcune delle rivendi-cazioni sono incorporate e soddisfatte dall’alto.

Alberto Burgio, lo studioso che maggiormente siè soffermato sulla questione in tempi recenti, si do-manda perché Gramsci chiamò rivoluzioni ciò che,nel XX secolo, si dovevano considerare, secondo lastessa logica gramsciana, semplici processi contro-ri-voluzionari o reazionari di stabilizzazione dell’ordineborghese, mentre solo le rivoluzioni passive del seco-lo XIX furono “vere” rivoluzioni, in quanto realizza-vano una transizione storica (Burgio 2014: 259). Si ri-sponde adducendo che Gramsci associò i processi infunzione del tratto comune della passività malgrado,secondo Burgio, fosse «di gran lunga più rilevante»l’altro interrogativo, quello della differenze degli ef-fetti macrostorici (Burgio 2014: 261). Sostengo, alcontrario, che – malgrado Gramsci non lo sviluppi asufficienza – il criterio della passività è assolutamen-te e egualmente rilevante poiché completa, arricchi-sce e precisa la formula, pone in rapporto diversi fat-tori, introducendo la dimensione soggettiva, evitandocosì una lettura storica di tipo strutturalista.

Burgio attribuisce l’aggettivo «passiva» al fattoche questo tipo di rivoluzione è «subita dai soggettiche in linea di principio dovrebbero attuarla, e diret-ta da quelli che invece dovrebbero avversarla» (Bur-gio 2014: 248). Per questo autore, passività è sinoni-mo, nell’opera di Gramsci di «arretratezza e debolez-za», il che deriva in una inefficacia nel terreno macro-storico (Burgio 2014: 254). L’analisi di Burgio è ostag-gio del breve e medio termine quando segnala che «iltratto che più [...] interessa [Gramsci] è la responsa-bilità delle forze di opposizione» (Burgio 2014: 261),in particolare le direzioni politiche e sindacali rifor-miste, la loro debolezza, che permette alla classi do-minanti di continuare a dirigere. Gramsci si riferiscein effetti alla «immaturità delle forze progressive» (Q13, 23, 1604) e manifesta la sua critica rispetto aigruppi dirigenti ma, allo stesso tempo, la sua idea didebolezza, essendo storica, è legata alla questione difondo della subalternità, alla traccia più ampia dei

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processi storici attraverso i quali si forgiano e si con-frontano le soggettività socio-politiche di classe. Seb-bene Gramsci non si sia soffermato a definire esplici-tamente la sua accezione della nozione di passività,come abbia già detto, essa deriva, si lega e intrecciaa quella subalterno. In effetti, è evidente che in Gram-sci la questione della passività non si riduce alla que-stione della guida della rivoluzione – anche se la in-clude – ma la riporta alle profondità politico-cultura-li del rapporto dominio-obbedienza, alla dimensioneegemonica in tutta la sua complessità, alla correlazio-ne di forze come lotta di classe, come dinamica inter-soggettiva. E in effetti, aggiunge correttamente l’auto-re, il dato determinante è «la carenza di conflittualità»(Burgio 2014: 251). Tuttavia, non la semplice conflit-tualità strategica, ma quella che è abitata soggettiva-mente, la conflittualità come polo attivo, come indica-tore di attivazione, di processi di soggettivazione poli-tica, anche se relegati nella subalternità, nei ristrettimargini resistenziali propri della condizione di subor-dinazione. Questa dimensione soggettiva è un sempli-ce dato nel contesto dell’analisi di congiuntura ma ac-quisisce status di costruzione storico-politica nellatemporalità più ampia nella quale si inseriscono i fe-nomeni di rivoluzione passiva.

D’altra parte, bisogna problematizzare ulterior-mente la questione della passività. È essa solo causa oanche conseguenza delle rivoluzioni passive? Come hogià segnalato, Gramsci dedica più spazio a rifletteresulla portata e i limiti del carattere rivoluzionario chealle forme di passivizzazione che precedono, accompa-gnano, producono e riproducono la subalternità, essen-do funzionali alla riconfigurazione dell’egemonia.Quindi, a livello testuale non appare l’idea della passi-vità come risultato o prodotto storico delle rivoluzionipassive. Eppure, le rivoluzioni passive nascono per evi-tare che le masse si mantengano attive e diventino pro-tagoniste, così come gli aspetti riformistici servono perindurre passività e il risultato conservatore si raggiun-ge grazie alla passività come condizione che accompa-

gna e sanziona la riuscita politica del processo. Questoè, in effetti, l’obbiettivo che sta a monte delle rivoluzio-ni passive, intese come processi – ma anche come pro-getti – di passivizzazione, ovvero di subalternizzazio-ne6. Il progetto-programma di rivoluzione passiva sirealizza come processo in quanto riesce a disattivare,passivizzare, subalternizzare.

Mentre l’attività delle masse o la minaccia diessa è sempre la causa che provoca la rivoluzione pas-siva, è altresì necessario un certo grado di passivitàche impedisca la realizzazione di una rivoluzione at-tiva e abiliti il cammino di una passiva, la quale sipresenta come progetto e processo di passivizzazione,sempre relativa ma predominante, anche se even-tualmente incorpora forme di mobilitazione control-lata. La passività-passivizzazione è, pertanto, l’ob-biettivo fondamentale del progetto, la causa e la con-dizione della realizzazione del processo e la sua con-seguenza più rilevante in termini della modificazio-ne della correlazione di forze in favore delle classi do-minanti, che è – in ultima istanza – il risultato co-struito e atteso.

Dispositivi di passivizzazione:cesarismo e trasformismo

Possiamo rinforzare questa prima approssimazionealla concettualizzazione della passività come criteriodefinitorio delle rivoluzioni passive introducendo lecategorie di trasformismo e di cesarismo in quantosono dispositivi o meccanismi che realizzano proces-si di passivizzazione che accompagnano e caratteriz-zano le rivoluzioni passive. Questi concetti sono sta-ti analizzati molto meno che quello di rivoluzione pas-siva7 probabilmente perché hanno una portata mino-re nell’opera di Gramsci e lui stesso non gli ha attri-buito lo status di “canone interpretativo”, o perché,come argomenteremo, gli sono sussidiari.

La categoria di rivoluzione passiva sembra in ef-

6) Gramsci chiarisce che l’idea di rivoluzione passiva è, per il marxismo,«un criterio di interpretazione» e non un «programma» (Q 15, 62, 1827) comelo può essere per la borghesia (e per i suoi intellettuali, Benedetto Croce in

primis). Ovvero ne riconosce esplicitamente la dimensione progettuale.7) Sul cesarismo in Gramsci cfr. Liguori e Voza, 2009: 123-125

e 860-862; Burgio 2007 e 2014; Antonini 2013 e 2016).

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fetti di ordine generale rispetto ai meccanismi parti-colari e specifici come il trasformismo e il cesarismo(Burgio 2007: 82). Entrambi dispositivi, a mio avvi-so, sussidiari al processo generale di rivoluzione pas-siva poiché volti a realizzare tanto il versante rivolu-zionario quanto la sua contropartita in termini dipassività.

Esiste consenso nell’assumere la nozione di tra-sformismo come complementare all’impalcatura teo-rica della rivoluzione passiva in quanto entrambi iconcetti sorgono e sono utilizzati da Gramsci per in-terpretare il Risorgimento. Con il neologismo trasfor-mismo, Gramsci designa un processo di slittamento“molecolare” che porta al rinforzamento del campodelle classi dominanti attraverso il progressivo dre-naggio (assorbimento) per mezzo della cooptazione edel transito volontario di forze e gruppi dirigenti dalcampo delle classi subalterne a quello delle classi do-minanti o, detto in altro modo, un indebolimento delcampo subalterno per via dell’abbandono o del tradi-mento di gruppi che trasformano opportunisticamen-te le loro convinzioni politiche e cambiano di campo.Il trasformismo appare dunque come una forma8 o undispositivo vincolato alla rivoluzione passiva in quan-to modifica la correlazione di forze in forma moleco-lare poiché trasferisce forze e potere a un progetto didominazione con la finalità di garantire la passivitàe di promuovere la smobilitazione delle classi subal-terne. Tutte le rivoluzioni passive si appoggiano in di-namiche trasformiste, anche se non a tutti i trasfor-mismi corrispondono rivoluzioni passive.

Più problematica e, allo stesso tempo, più fecon-da è l’associazione tra il concetto di rivoluzione passi-va e quello di cesarismo. Per mezzo della nozione dicesarismo, senza distinguerla da quella di bonaparti-smo, oltre a enfatizzare la dimensione carismatica,Gramsci ampia di fatto l’accezione corrente del con-cetto nell’introdurre una sfumatura importante at-traverso la distinzione esplicita tra modalità progres-sive e regressive. Gramsci assume – seguendo le in-tuizioni di Marx – che di fronte a un «equilibrio cata-

strofico» il cesarismo offre una «soluzione arbitrale»legata a una «grande personalità eroica» ma suggeri-sce che questa via di uscita transitoria «non ha sem-pre lo stesso significato storico».

Per Gramsci «è progressivo il cesarismo, quan-do il suo intervento aiuta la forza progressiva a trion-fare sia pure con certi compromessi e temperamentilimitativi della vittoria; è regressivo quando il suo in-tervento aiuta a trionfare la forza regressiva» (Q 13,27, 1619).

Il vincolo tra i concetti di rivoluzione passiva ecesarismo è visibile in vari punti. È stato sostenutoche si tratta di categorie “gemelle” la cui differenzafondamentale è che il secondo non include la caratte-rizzazione dei processi di modernizzazione e il primonon si basa sul rapporto tra capo e massa (Burgio2014: 267). Mi sembra piuttosto, come argomenteròpiù avanti, che si tratta di concetti che designano fe-nomeni o processi di ordine diverso: il primo più ge-nerale, il secondo strumentale, possibile meccanismo,dispositivo o forma del primo. Comunque si tratta diconcetti nei quali si incrociano le stesse variabili cherispondono al fondo delle preoccupazioni politiche eteoriche di Gramsci, come riflesso del suo marxismocritico, in cui struttura e azione son due campi intrec-ciati dai quali fioriscono varie linee analitiche che siincrociano in forma non lineare in diversi momentidel suo pensiero ma confluiscono, sfociano e culmina-no in una riflessione strategica, orientata verso il sog-getto e la sua azione politica. Sebbene Gramsci simuova su diversi livelli di concettualizzazione – sto-rica, politologica e politica – strategica, le distinzioniformali tra i concetti non devono far perdere di vistache l’intenzione è totalizzante, ovvero articolante o, perusare una nozione gramsciana, orientata alla tradu-zione. Cosicché, sebbene il concetto di rivoluzione pas-siva nasca nel terreno storiografico, quello di cesarismonasce dalla scienza politica e la guerra di posizione daun linguaggio politico-strategico, la questione dell’ege-monia è il filo conduttore che li unisce, una connessio-ne interpretativa rispetto al passato e al presente sto-

8) Scrive Gramsci: «una delle forme storiche» della rivoluzionepassiva (Q 8, 36, 962); «Il trasformismo come una forma della ri-

voluzione passiva nel periodo dal 1870 in poi» (Q 10, 13, 1238).

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rici e politici che Gramsci assume come il suo orizzon-te di visibilità e di riflessione in termini di filosofiadella prassi. Gramsci segnala esplicitamente chequella di cesarismo è una nozione più generale (per-ché “formale”9), che vale per diverse epoche, legataalla teorizzazione della correlazione di forze e all’ipo-tesi dell’equilibrio catastrofico che, apparentemente,non suppone come necessaria l’esistenza di una for-ma di egemonia, a differenza del caso delle rivoluzio-ni passive. Sebbene la storicizzazione del concetto dirivoluzione passiva la allontana apparentemente dalteoricismo del concetto di cesarismo, allo stesso tem-po, in quanto il primo si generalizza nei Quaderni, di-venta più astratto e più teorico, finisce per avvicinar-si formalmente al secondo.

Tornando al criterio della passività, un elementosignificativo di caratterizzazione del cesarismo è invo-cato direttamente da Gramsci quando segnala che un«equilibrio catastrofico» può essere il risultato dei limi-ti organici insuperabili all’interno della classe domi-nante per semplici ragioni politiche momentanee, cheproducono una crisi del dominio, e non per maturità orinforzamento delle classi subalterne (Q 13, 27, 1621)il che invoca e si connette logicamente con il carattere«sporadico, elementare e disorganico» (Q 10, 41, 1325)delle lotte popolari come elemento fondamentale cheprecede la nascita di una rivoluzione passiva.

D’altra parte, la nozione di cesarismo allude in-direttamente alla passività poiché la comparsa e lacentralità di una figura carismatica – «grande perso-nalità eroica», dice Gramsci – che compie una funzio-ne specifica in un contesto di equilibrio catastroficoed è suscettibile di determinare una rivoluzione pas-siva operando come fattore di equilibrio tra le classi,tra tendenze conservatrici e rinnovatrici e come fat-tore di passivizzazione, in particolare canalizzando ledomande popolari, e assumendo – per delega – nomi-nalmente e demagogicamente la rappresentazionedegli interessi delle classi subalterne. Il cesarismo

opera occupando un vuoto di egemonia e sostituendoforze e classi capaci di dare impulso a un processo dimodernizzazione che, per le sue caratteristiche ibri-de, finisce per coincidere con l’ambiguità dei contenu-ti di conservazione-trasformazione (modernizzazioneconservatrice) della rivoluzione passiva e, in quantoalle forme, passivizza per mezzo della delega e dellarappresentazione distorta propria del fenomeno cari-smatico.

In sintesi, il criterio della passività nominal-mente espresso nella formula rivoluzione passiva èimplicitamente contenuto nella logica della delega ca-rismatica nel caso del cesarismo.

Passando dall’altra parte della formula, la con-nessione tra il concetto di rivoluzione passiva e quel-lo di cesarismo è evidente e esplicita quando Gram-sci, cercando di chiarire la distinzione progressivo-re-gressivo, evoca il criterio della «dialettica “rivoluzio-ne-restaurazione”», stesso identico criterio di caratte-rizzazione dell’ambiguità tipica delle rivoluzione pas-siva. In questo senso, progressivo sta a rivoluzionecome regressivo a restaurazione. Il riferimento alladialettica allude al procedimento metodologico – giàanteriormente menzionato – che implica il riconosci-mento della combinazione diseguale di elementi pro-gressivi e regressivi, all’interno delle quali è possibi-le distinguere proporzioni e misure e concludere as-segnando a un elemento il carattere determinante odominante. Tutti i cesarismi sarebbero, quindi, si-multaneamente progressivi e regressivi – e in effettiGramsci menziona di passaggio la possibilità di for-me “intermedie” – anche se un elemento tendenzial-mente prevale e può servire per etichettare nominal-mente il fenomeno10.

Sebbene ogni rivoluzione passiva passa per ilsetaccio della tensione progressivo-regressivo, nontutte ricorrono alla forma cesaristica, essendo questoun dispositivo, un ricorso possibile anche se, bisognariconoscerlo, così ricorrente e frequente che finiscono

9) «Del resto il cesarismo è una formula polemica-ideologica enon un canone di interpretazione storica» (Q 13, 27, 1619).

10) L’idea di cesarismo come coalizione (Q 13, 27, 1620) permettedi rinforzare la connessione concettuale con la rivoluzione passiva poi-ché nella forma coalizione o alleanza si esprimono gli incroci tra ten-

denze progressive e regressive «rivoluzione-conservazione», etc.) nelquale una prevale e pone il suo marchio. La coalizione sintetizza la con-traddizione e la risolve apparentemente e temporalmente per mezzodi una soluzione di “compromesso” come dimostra la tendenziale ap-parizione di una figura carismatica che svolge un ruolo arbitrale.

per sovrapporsi ripetutamente. Tuttavia non tutte lerivoluzioni passive sorgono da un “equilibrio catastro-fico” – la situazione tipica del sorgimento del cesari-smo – anche se è evidente che sono tentativi di risol-vere una impasse nel rapporto di dominio, di frenarel’azione delle classi subalterne, anche quando essa sipresenta in forma «sporadico, elementare e disorga-nico» e, pertanto, sono tentativi di spareggiare, risol-vere, evitare e prevenire una situazione di equilibrio.

La sfumatura di distinzione possiamo trovarloin un passaggio dei Quaderni (Q 13, 23, 1603-1604)in cui sostiene che di fronte a una crisi di egemoniasorta dall’alto o dal basso, dove vaste masse si attiva-no e pongono rivendicazioni potenzialmente rivolu-zionarie, le classi dirigenti cambiano personale e pro-grammi, fanno sacrifici e promesse demagogiche mache, se non si trova questa “soluzione organica” mauna tipo “capo carismatico”, sussiste un “equilibriostatico” in cui nessuno prevale. Detto in altro modo,la rivoluzione passiva è una soluzione egemonica (or-ganica) che spareggia mentre il bonapartismo-cesari-smo è un dispositivo di una soluzione transitoria, chesorge da un pareggio e lo riproduce transitoriamente.

In questo senso, per la sua natura strumentale,può esserci cesarismo senza rivoluzione passiva, su-perando il perimetro esterno della versione regressi-va, un cesarismo controriformista o, detto in altromodo, contro-rivoluzionario o reazionario.

Rivoluzioni passiveprogressive e/o regressive

È diffusa l’opinione che il concetto di rivoluzione pas-siva, a causa di una certa sua ambiguità, si presta aun uso eccessivamente ampio e elastico per analizza-re fenomeni molto diversi tra di loro, il che contribui-sce a generare confusione e porre in discussione il va-lore del concetto stesso.

Una forma di porre rimedio parziale a questoproblema che tende a disabilitare usi rigorosi del con-cetto, è procedere a delimitarne il perimetro e preci-sare l’ampiezza del territorio socio-politico che rico-pre. In primo luogo, come abbiamo visto, va stabilito

che, in un senso generale, la nozione di rivoluzionepassiva non caratterizza tutti i processi di riconfigu-razione della dominazione borghese, ma quelli che,orientati a riconfigurare l’egemonia, introducono ele-menti progressivi attraverso riforme, con la finalitàdi trasformare termini e forme secondarie del rappor-to comando-obbedienza tra classi dominanti e classisubalterne, per conservarne l’essenza gerarchica e ilcontenuto capitalista.

D’altra parte, nella terminologia di Gramsci ap-paiono due frontiere o limiti: il già menzionato limitesinistro della rivoluzione attiva e il limite destro del-la restaurazione o, come segnala Coutinho (2007),della controriforma – una nozione che Gramsci usaoccasionalmente –, dove forma e contenuto del pro-cesso-progetto son inequivocabilmente regressivi oreazionari (parole che Gramsci usa frequentementecome sinonimo). Detto in altro modo, la controrifor-ma e la restaurazione si collocano all’estrema destradella rivoluzione passiva così come la rivoluzione ra-dicale-giacobina sta alla sua estrema sinistra. In en-trambi i casi non vi è ricostruzione dell’egemonia, siaperché si impone la coercizione o perché trionfa un’al-ternativa egemonica.

In questo modo la rivoluzione passiva, in una ti-pologia di ipotesi e scenari storico-politici, apparecome una alternativa progressista alla via reaziona-ria e un antidoto conservatore alla via rivoluzionariadal basso, di fronte alla spinta – insufficiente ma si-gnificativa – delle classi subalterne.

Questa delimitazione lascia una scala di toni digrigio che può essere considerata ancora troppo am-pia. Una soluzione gramsciana a questo problema èintrodurre la distinzione tra progressivo e regressivocome criterio per distinguere due tipi di rivoluzionipassive. In questa direzione si muove Burgio quandosostiene che il cesarismo «può essere regressivo o pro-gressivo, proprio come una rivoluzione passiva» e fariferimento a una possibile “comparazione” tra rivo-luzioni passive regressive e progressive (Burgio 2014:264, 276). Tuttavia Burgio non sviluppa queste intui-zioni su un punto così delicato del ragionamento diGramsci e fecondo in rapporto con la sua applicazio-ne, forse perché considera che le rivoluzioni passive

88Massimo Modonesi

89 laboratorio culturale

post-1870 sono sempre regressive, quindi la questio-ne perde rilevanza analitica.

Per Gramsci, la progressività può essere valu-tata pienamente solo in retrospettiva, quando si puòesaminare se è avanzata o meno nella direzione delprogresso, progresso riferito non tanto allo sviluppodelle forze produttive ma piuttosto a un “divenire”, alcammino verso la vittoria definitiva delle classi su-balterne, secondo un’accezione socio-politica e sogget-tiva della progressività11. Per questa qualità retro-spettiva del concetto, a differenza delle conclusionialle quali giunge rispetto al XIX secolo, dubita dellaportata storica e del carattere rivoluzionario-passivodel fascismo o dell’americanismo, in quanto non puòdare una risposta definitiva sull’epoca in corso e, per-tanto, valutarne definitivamente il carattere progres-sivo o regressivo. Per questo Gramsci si domanda sel’americanismo riuscirà a marcare una epoca, ovverosvilupparsi come rivoluzione passiva (Q 22, 1, 2140)così come si domanda se il fascismo sarà la forma del-la rivoluzione passiva del XX secolo come il liberali-smo lo è stato nel XIX (Q 8, 236, 1089).

Il criterio della progressività consiste quindi nelvalutare la direzione, l’orientazione, il “senso storico”,di una rivoluzione passiva che aiuti, favorisca o sfa-vorisca una soluzione o un’altra, una forza socio-poli-tica o altra, permetta o faciliti un passo verso la co-struzione di una egemonia, il che, nell’ottica delleclassi subalterne, non equivale strettamente a unavittoria politica immediata, la rottura definitiva del“farsi Stato”, ma può o deve includere accumulazionipiù o meno molecolari di medio e lungo termine.

Un riformismo smobilitante, una rivoluzionepassiva, cerca di neutralizzare il potenziale rivoluzio-nario attivo, opera una ri-subalternizzazione che im-plica una regressione. Allo stesso tempo, nella misurain cui le riforme includono rivendicazioni dal basso ein quanto, come segnala Gramsci, l’antagonismo di-venta irriducibile dal 1870, si tratta di un processo chesposta in avanti il conflitto. E questo spostamento è og-gettivamente progressivo in quanto implica nuovi sce-nari storici nei quali, non solo non si dissolve l’antago-

nismo, ma si forgiano soggettività politiche corrispon-denti e all’altezza delle sfide dell’epoca.

Partendo dalla logica della guerra di posizione,non per stabilire definizioni ma sostenere l’argomen-to, potremmo semplificare la questione in questomodo: ha un carattere progressivo o progressista unprocesso o progetto di riformismo sociale che ampia imargini di accumulazione di forza politica delle clas-si subalterne e non implica misure profondamentereazionarie sul piano delle libertà politiche che li ri-duce, mentre sono regressivi progetti o processi checombinano riforme con alti livelli di repressione o che,per mezzo delle riforme, cercano e riescono a inter-rompere il processo verso l’autonomia integrale deisubalterni.

In questa ottica, sarebbe possibile distinguereeventuali momenti o passaggi in cui prevale l’elemen-to progressivo o regressivo e viceversa, che dipenden-do dalla contesa rispetto alla definizione del progetto eil suo orientamento tra settori e interessi progressistie conservatori che convivono e si confrontano all’inter-no dei blocchi e alleanze politiche e sociali che sosten-gono e sospingono i progetti-processi di rivoluzionepassiva. In questo senso, progressivo e regressivo sonotendenze sempre presenti che si combinano in configu-razioni e passaggi di diverso segno e orientamento chemarcano dinamiche diverse e cambianti.

In ogni caso, sul terreno dei rapporti di forze, laquestione della conformazione della soggettività po-litica e il protagonismo delle classi subalterne diven-ta la variabile centrale e discriminante in ultimaistanza, spostando in secondo piano il tema delleriforme socio-economiche che appare piuttosto comecostante, una costante che, in effetti, attraversa espe-rienze socio-politicamente diverse come il New Deale il fascismo e tante altre dei decenni successivi finoai giorni nostri.

In conclusione, per Gramsci la progressività èlegata alla vittoria politica e non allo sviluppo delleforze produttive, alla diminuzione della distanza traclassi subalterne ed egemonia, una distanza che sipuò coprire solo con una costruzione soggettiva, di at-

11) Gramsci problematizza in effetti l’idea di progresso in sensoumanista ricorrendo al concetto di divenire (Q 10, 48, 1335-1338).

90Massimo Modonesi

tivazione di massa, che sorge nella subalternità, pas-sa per l’antagonismo e l’autonomia. La misura ulti-ma è dunque soggettiva, legata all’azione politica, an-titetica alla passività e alla subalternità. Una costan-te che attraversa l’opera di Gramsci, segna il concet-to di rivoluzione passiva e, pertanto, dovrebbe preci-sarne la portata e orientarne l’uso.

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