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1 PRATICAMENTE PENSANDO La strada verso il tuo “glorioso porto” ! ovvero Perché vincerai solo nel lungo periodo Raffaele Iannuzzi

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PRATICAMENTE PENSANDO

La strada verso il tuo “glorioso porto” !

ovvero

Perché vincerai solo nel lungo periodo

Raffaele Iannuzzi

Perché vincerai solo nel lungo periodo

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L'errore di Keynes, ovvero il metodo è imposto dall'oggetto

Una celebre frase di Keynes, nel 1923: “Ma questo lungo termine è una guida fallace per gli affari correnti: nel lungo termine siamo tutti morti”.

Intanto, una precisazione: affermare che il “lungo termine” sia “una guida fallace per gli affari correnti”, poiché “nel lungo termine siamo tutti morti”, non equivale affatto a determinare come verità incontrovertibile che, all’opposto, il “breve termine” debba essere la guida veridica e veritiera, affidabile in assoluto.

Keynes non intende, in definitiva, celebrare lo “short-termism”, definito dal dizionario della finanza comportamentale come “un eccessivo focus sui risultati di breve termine a detrimento degli interessi di lungo periodo”: (http://lexicon.ft.com/Term?term=short_termism).

Il raffinato economista qui sottopone al vaglio le strategie più adeguate per un determinato contesto storico, che include l’azione di molti attori pubblici, e trae la conclusione che, “per gli affari correnti”, è bene passare da un ramo all’altro dell’albero, senza focalizzarsi eccessivamente sulla foresta. Incrementando i risultati con questo approccio più orientato ai tempi brevi, sarà poi possibile guardare al futuro con maggiore ampiezza di sguardo.

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E’ un caso di scuola per individuare una distinzione che aiuta molto a procedere nella conoscenza della verità delle cose e della realtà nel suo insieme: la sintetizziamo così, il metodo è imposto dall’oggetto.

Ciò significa che un uomo sano vuole innanzitutto sapere come un fatto sia realmente, come ciò che gli sta di fronte sia. Non si cimenta, dunque, nel proiettare sul fatto o sull’oggetto i suoi pensieri o le sue teorie. Nietzsche afferma che non esistano fatti, ma solo interpretazioni. Popper in parte lo segue sostenendo che ogni fatto è carico di teoria. Ma, in entrambi i casi, il rischio evidente è procedere con il metodo sbagliato di fronte all’oggetto sbagliato. Per dirla con il linguaggio della filosofia greca classica: la “cosa” si manifesta e, manifestandosi, si offre alla mia conoscenza. Più ampio, poi, è il raggio del significato della “cosa” e più ampio sarà il raggio delle azioni, inclusa l’azione di conoscere appunto la “cosa” stessa.

Questo non esclude una preferenza per l’oggetto, perché non c’è conoscenza senza interesse, naturalmente, ma in ogni caso rimane saldo e incontrovertibile che il metodo sia imposto dall’oggetto.

Riassumendo: io non entro in rapporto con i miei amici come entro in rapporto con la seconda legge della termodinamica. Perché, come ormai sappiamo, il metodo è imposto dall’oggetto, e dunque userò un metodo di approccio, ossia una modalità (questo significa, nel suo

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significato elementare, “metodo”) di approccio completamente diversa da quella che userò per conoscere la seconda legge della termodinamica.

Corollario di questa teoria: per conoscere un oggetto, una realtà, nel modo più estensivo e completo possibile, mi rivolgerò certamente a persone competenti sulla materia e non andrò a fare un sondaggio sui social fra gente che di ciò ne sa quanto me o meno di me. Acquisendo ulteriori elementi sull’oggetto da conoscere, potrò procedere ancora più speditamente ed efficacemente nella mia indagine.

Quindi, la famosa frase di Keynes, dalla quale abbiamo preso le mosse, ci serve soltanto come apertura del discorso: nel contesto indicato dall’economista, forse, ciò rimane vero, ma, per quel che andremo ad affrontare ora, non è vero affatto.

E cosa vogliamo affrontare? Qual è la “cosa” che ci preme conoscere e approcciare? Di che si tratta?

L’oggetto è qualcosa che ormai è diventato un vero e proprio genere letterario, una formula retorica buona per tutte le stagioni, e rilanciata soprattutto alla fine di ogni anno: gli “obiettivi” da realizzare nel corso del nuovo anno.

E’ una vera e propria “scienza” che si autoalimenta, una “pseudoscienza”, in realtà, una retorica di massa, cioè una procedura e un metodo di cui non si conoscono più i

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fondamenti. Perché proprio i fatti falsificano radicalmente la veridicità di questo castello di carte del cosiddetto “sviluppo personale”: basta arrivare alla fine del mese di gennaio per saggiare la debolezza di questa pseudoscienza.

Statisticamente parlando, nessuno riesce a centrare neanche uno degli “obiettivi” fissati, sull’onda dell’entusiasmo, dal pomeriggio del 30 alla notte di Capodanno del 31 gennaio dell’anno in corso. Niente di ciò che vale nella vita può essere affrontato sulle ali di un istantaneo rapimento delle emozioni, ciò che davvero vale, il valore da realizzare, richiede lavoro, fatica, amore e dedizione all’ideale, instancabile fame di sapere e una non comune riserva di perseveranza. Tutto ciò che fuoriesce da questi criteri è destinato a perire, a sparire dall’orizzonte dell’esistenza, dalla sera alla mattina.

Dalla violenza della volontà alla necessità del destino: l’itinerario che porta al risveglio

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“Dura è la lotta contro il desiderio: ché ciò che vuole lo compra a prezzo dell’anima.” (Eraclito)

Ma vediamo ora più nel dettaglio le ragioni di questa debâcle annunciata.

Una prima ragione di questo fallimento preannunciato (una profezia che si auto-avvera, di fatto) consiste nella mancata distinzione tra “desideri” e “obiettivi”.

Vediamo più da vicino il significato della parola, abusata e usurata ma spesso non compresa in tutta la sua potenza semantica, “desiderio”.

Riprendiamo il verbo, l’azione che sta alla radice del sostantivo: desiderare.

La radice di questo verbo sposta il campo dell’azione umana dalla terra al cielo, il che, già nella cultura antica, sia greca che latina, ha una valenza imponente: “de-siderare” significa “volgere attentamente lo sguardo alle stelle (sidera)”. A partire da un luogo (“de”, particella che indica il punto dal quale si muove e origina un’azione), puntuale, specifico e concreto: sono io, che guardo le stelle. De-siderare, dunque, significa spostare l’asse di riferimento, avere le proprie radici o le proprie ancore, nel cielo, prendendo in prestito una geniale e suggestiva

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immagine del filosofo Rémi Brague. Dante descrive questa posizione in versi eterni:

“Se tu segui tua stella, non puoi fallire a glorioso porto” (Inferno, Canto XV, vv. 55-56).

Sono le parole del maestro di Dante, il poeta e politico Brunetto Latini, che il Sommo Poeta colloca all’inferno, per i suoi peccati, pur ammirandone il genio. Brunetto prefigura la strada che toccherà in sorte a Dante: segui tua stella, amico mio, e non fallirai a glorioso porto. In altre parole: segui il tuo talento, il fuoco che brucia dentro di te, e diventerai una leggenda. E’ il mito della leggenda personale, che possiamo ritrovare attraverso popoli e culture anche molto distanti fra di loro.

Ecco, questa visione aperta, vasta e metafisica delinea l’idea e l’azione del de-siderare: elevare lo sguardo alle stelle rende l’uomo degno del suo destino.

La necessità del destino è inscritta in questo motivo dominante, il de-siderare come intenzionalità profonda dell’anima.

Quando questa intenzionalità impatta col mondo, inizia a “mangiare” la sua polvere e si trova sovente nella “selva oscura”, è l’irrompere del caos, questo, che non prevede soluzioni facili e scontate. Attraversare il caos è fisiologicamente necessario, appartiene al destino della necessità, è il tratto eroico, il vero e proprio “carattere” che

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si imprime sul sigillo della vita che diventa moneta aurea a preziosa, ma solo se forgiata al contatto col fuoco.

Il fuoco è l’elemento del contrasto, della difformità e del conflitto, che già l’antico filosofo Eraclito aveva posto al vertice dell’esperienza umana. Da qui dobbiamo dunque partire e ri-partire, ogni volta che vogliamo correlare il de-siderare alla vita, nel suo dispiegarsi quotidiano.

A questo livello, giunti sin qui, l’uomo, desiderando fino in fondo, cerca l’oggetto, la “cosa” da raggiungere, da catturare, si passa dalla figura del fuoco che brucia dentro al mito del Prometeo incatenato, alla forza divina dentro di noi, che bramando la liberazione e il completo dispiegamento, strappa le catene, come Prometeo.

Questo dinamismo generativo e vorticoso è tanto prezioso quanto necessario, ma va a sbattere con un ulteriore aspetto del caos circolante nella realtà: la volontà. La seconda ragione del fallimento.

La volontà ha, infatti, in sé una radice di violenza, anzi coincide con quella particolare e sottile forma di violenza che si fonda sul principio secondo il quale è lecito e bene che le cose diventino altro da ciò che sono. La volontà si regge perché lavora affinché le cose diventino altro, perché l’essere, la realtà così com’è, diventi non-essere, altro da sé. E’ il principio primo dell’alienazione e del fallimento di molti progetti umani e aziendali: si pensi a una categoria come quella di “brand”. Senza la

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connotazione ontologica, che si basa su ciò che un “prodotto”, che è una “res”, una “cosa”, è, il “brand”, l’immagine della “cosa”, non si dà, non c’è e, perciò, svanisce nel divenire dell’ economia-mondo.

La volontà di trasformare ciò che è in altro da sé è la radice della morte dell’essere e si chiama con una parola molto precisa e definita: nichilismo. L’essere diventa non-ente, ossia niente, e ciò lascia il passo al tramonto della “cosa”: un “prodotto” trasformato in altro da sé è un non-prodotto e, di conseguenza, un non-ente, un niente.

Trasferendo questo meccanismo nel combinato disposto dell’esistenza, abbiamo un soggetto che voglia diventare “altro” da sé, più “produttivo”, più “intelligente”, più “sicuro”, ciò che non è e non deve diventare a partire da un processo esterno alla sua realtà.

Il “cambiamento” deve avere un movimento interno-interiore che si rovescia, spontaneamente, all’esterno, senza filtri, mediazioni e azioni-pressioni esterne. Il soggetto è quella realtà fatta di corpo, anima e spirito in grado di “diventare” solo ciò che, da sempre, è. E’ quel destino che deve essere abbracciato e salutato come festa dell’essere, è il destino della necessità: è necessario, dunque, che tutto ciò avvenga.

La “crescita personale”, fondata sulla “volontà” così concepita è il dispositivo perfetto per non-essere e dunque per non-poter-crescere. Invece che aprire porte e

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finestre alla manifestazione di quel che uno è, dispiega la violenza della volontà sulla sua vita.

Il corollario immediato della volontà-violenza è la determinazione della “forza di volontà”, in altri termini, la violenza, insita nella volontà, liberata al grado massimo, con picchi esponenziali, a misura della percezione dell’opacità della realtà. Più gli ostacoli vengono percepiti come inquietanti appendici della realtà, più si eleva il livello di violenza tramite la leggendaria “forza di volontà”: volli, sempre volli, fortissimamente volli, fino alla…morte di quell’essere che io sono.

L’esito della “forza di volontà”, dunque, è il morire, passo dopo passo, movimento dopo movimento, del soggetto che, strappato dal proprio destino e dalla necessità di essere quel che è, si aliena, diventa altro da sé, trapassando in un puro divenire senza scopo, un movimento che, attuandosi, giustifica se stesso.

Per riuscire nella vita, non serve tanto la “forza di volontà”, quanto la chiarezza dell’essere, la chiarezza di pensiero e l’adesione al proprio destino, nella necessità pura che esso richiama: l’ “io sono” diventa “io devo essere ciò che sono”. La libertà non è la giostra dei percorsi della vita, ma l’abbraccio del destino ultimo, nella terra originaria della vita, oltre “la terra isolata dal destino” (Emanuele Severino). Esseri liberi significa abbracciare ciò che, da sempre, è il nostro essere, e non si tratta di un percorso pre-stabilito.

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Abbiamo già riflettuto sulla debolezza strutturale della “forza di volontà”, in un lungo articolo, al quale ci permettiamo di rimandare:

https://jesusmanager.wordpress.com/2017/09/10/elogio-delloutsider-essere-fuori-per-dominare-dentro/.

Dopo la parola-mantra “desiderio”, che, nella sua equivocata interpretazione, si lega alla violenza della volontà, e dunque al nichilismo del divenire alienante, giungiamo inesorabilmente all’altro mantra totalizzante e alienante, definito, anche in questo caso, con somma evidenza di equivoco, “obiettivo”.

Lavoriamo ancora una volta sulla “res”, sulla “cosa”, cioè sulla parola: “obiettivo”.

Ecco l’etimo del sostantivo “obiettivo”:

http://www.etimo.it/?term=obiettivo&find=Cerca

1) riguardante l’ “obietto”, un oggetto in sé, non tanto il soggetto: questo è il significato dell’aggettivo qualificativo, come nel caso: “io sono obiettivo nel giudicare le cose”, riferendosi ad una sorta di impersonalità nel giudicare e vagliare le cose (simile alla “terza posizione” di molte strategie psicoterapeutiche e psicologiche);

Ma, se allarghiamo l’ambito dei significati, troviamo la parola “Obietto”:

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http://www.etimo.it/?cmd=id&id=11794&md=43445a5b449c72e2499c555ebe6d7ed1

2) Obietto: ciò che mi sta di fronte e di cui posso anche farmi carico perché vi presto attenzione, miro ad esso, ne faccio il mio scopo: questo è il sostantivo usato quando parliamo di “obiettivi” da raggiungere;

Traiamo, a questo punto, qualche conseguenza da questa serie di elementi semantici.

• Un “obiettivo” è un objectum, un oggetto, una cosa, che può certamente penetrare nel mio campo di rappresentazione e di attenzione, nel mio spazio di esperienza, ma altrettanto certamente nasce da “altro” rispetto al soggetto, quindi è “alienante” nella sua tendenza fondamentale: il “mio” obiettivo non può essere una cosa che mi sta davanti e che proviene da un altrove, da un’altra realtà. Non a caso, la domanda-chiave di una parte della “crescita personale” riguarda proprio la presunta “autenticità” degli “obiettivi”: “Ma questo “obiettivo” è davvero il TUO obiettivo? O non deriva piuttosto da ciò che gli altri, a cominciare da chi ti è più vicino, vogliono, per te?”. Questa domanda avrebbe realmente significato, tuttavia, se l’ “obiettivo” avesse in sé caratteristiche non alienanti,

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ossia un’origine autenticamente scaturente dal destino della necessità, ma, in realtà, ogni “obiettivo” è l’imposizione di una cosa che si pone davanti a me e destinata a perire, a transitare “da-a”, ad annullarsi nel divenire e, dunque, nel puro nichilismo. Quindi, recuperare la purezza dell’obiettivo al di là della sua origine, così descritta, è una pia illusione, frutto della fede, fideisticamente vissuta, nella retorica degli “obiettivi”.

• Dal punto sopra delineato, deriva necessariamente che la volontà non serva, non sia utile, per sua natura, alla realizzazione di “obiettivi”, che sono, lo ribadiamo, strutturalmente alienanti. E ciò perché, ripetiamo anche questo passaggio, la volontà, nella sua violenza, vuole far diventare le cose altro da ciò che sono. Di conseguenza, essa nasce per alienare, rendere la cosa, ogni cosa, vita inclusa, altro da sé. Nell’ipotesi degli obiettivi, giungeremmo paradossalmente al risultato che, raggiunti certi “obiettivi”, usciremmo da noi stessi e, di conseguenza, finiremmo “alienati”. Fino ad abitare il cerchio disgregante del nichilismo.

Tradotto in altro linguaggio: giungeremmo ad un illusorio “glorioso porto”, ma non al nostro porto. Non saremmo nei panni di un Dante che, per diventare il Sommo Poeta, ha dovuto passare la stagione infernale dell’esilio e

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dell’umiliazione pubblica. Saremmo soltanto vittime della Follia secondo la quale è un bene che le cose, anche la vita, diventino altro da ciò che sono e ciò che devono essere. Mentre - e Dante è maestro e padre spirituale in ciò – è il destino della necessità che crea lo spazio della Gloria e della Gioia.

Il risveglio radicale è segnato dalla Gloria. E il sostantivo “Gloria” incorpora la radice indoeuropea KLU, che ha il senso originario di “udire, farsi udire”. La voce di chi vive nella Gloria non è la voce altisonante dell’arroganza e dell’invasione di campo dei destini altrui, non è “un cembalo che tintinna”, come nella descrizione di san Paolo. Perché questa voce nasce dalla pazienza del maturare, dalla percezione netta della verità ultima: “Cresce lungo il cammino il suo vigore” (Salmo 83, 8). E il testo conclude: “Finché compare davanti a Dio in Sion”: il luogo ultimo della Gloria, già presente su questa terra.

Chi vive in questa Gloria è un io potente, che sceglie e delibera senza introdurre contrasti interiori, senza sentirsi strappato e tirato di qua o di là da forze esterne. Il suo cammino è chiaro, di semplice fattura, anche se mai facile, come ogni percorso attraversato dalla verità.

La Gioia scaturisce dal percorso e, inesorabilmente, dalla Gloria. Il termine-concetto “Gioia” si lega a doppio filo alla parola latina declinata al plurale – JOCA, da JOCUS, gioco: c’è gioia solo nel gioco della vita e attraverso la vita, nell’attraversare la vita e il vivere come occasione di

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crescita e di eroismo creativo. Questa non è solo un’appendice della passione, come si usa dire oggi ogni volta che si ripete stancamente la parola d’ordine “vivere delle proprie passioni”, ma è l’esito del risveglio radicale dell’io che, rifiutando la violenza della trasformazione in altro da sé, tocca e guarda ogni cosa come fosse la prima volta. La meraviglia al grado zero, originario e radicale.

Dal risveglio al “glorioso porto”, passando per il deserto

“Chi ha un grande perché per vivere può sopportare quasi ogni come”.

Nietzsche

Il risveglio deve inoltre passare inevitabilmente per una diversa concezione del tempo. Infatti, l’ideologia degli “obiettivi” e dell’Inizio Sacro dell’Anno come Età dell’Oro – antico mito – da inverare, si fonda sullo stesso schema definito “get-rich-quick scheme”: diventa ricco, in tempi rapidissimi, perché non in un solo anno? Per estensione, quindi, si definiscono gli “obiettivi” esattamente con la stessa ingenuità ideologica con la quale si fa professione di fede – fideisticamente – nello schema del “ricco-e-subito”.

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Ecco allora che la “cosa” che abbiamo davanti a noi non è la vita, nelle sue immense vastità e complessità, ma l’urgenza del soddisfacimento di un bisogno, che dovrebbe dettare le sacre regole del futuro, in primo luogo, l’imperativo categorico del diventare ricchi, schema tutto-e-subito. Lo “short-termism” elevato a ideologia e retorica di massa, fallimento garantito, per le ragioni di cui sopra. Un fallimento dovuto essenzialmente a ciò che Paul Watzlawick definiva “ipersoluzioni”:

“Esistono soluzioni per le quali non abbiamo ancora trovato una denominazione appropriata, e che si potrebbero forse chiamare ipersoluzioni. Il termine definisce un modo di affrontare i problemi che, pur essendo fondato sulle migliori intenzioni, finisce sempre con l’avere effetti controproducenti, più o meno nel significato espresso dal famoso bon mot dei medici: operazione perfettamente riuscita, paziente deceduto” (Di bene in peggio. Istruzioni per un successo catastrofico, Feltrinelli, Milano, 2014 (prima ediz. 1987), p. 7).

Lo schema della ricchezza alla velocità della luce, “chiavi in mano”, al pari degli obiettivi da realizzare, in ogni dettaglio, nel corso dell’anno, sono delle “ipersoluzioni”. Chi vuol intendere, intenda.

Il tempo, dunque. Ecco la variabile fondamentale. Perché la vita è il percorso del tempo fondato sugli eterni, ossia su ciò che insiste, sta, rimane sempre, è stabilmente presente nel mio percorso, tutti elementi che si rivelano nel porsi e

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nello sviluppo dell’esistenza. Certo non è questione né di un anno, né di cinque anni. La categoria di “obiettivo” è inadeguata per camminare nel dinamismo imprevisto dell’esistenza. Un “obiettivo” minimo può anche essere contemplato, legato a qualche urgenza, ma si deve sapere che la strada contro-intuitiva per arrivare al “glorioso porto” non può che passare, inevitabilmente, per almeno venti-venticinque anni di esistenza. Nel lungo periodo, non solo non saremo tutti morti, ma saremo sempre più autenticamente e radicalmente vivi.

E se, per qualche ragione, il nostro ambiente non fosse adatto, allora, in questo caso, dovremmo sentirci semplicemente chiamati a crearne un altro all’altezza dello scopo della nostra esistenza. Facendo come se dovessimo partire dalla fine (Stephen Covey, Robin Sharma).

La soglia della morte, essendo l’uomo un “essere-per-la-morte” (Martin Heidegger), deve diventare, ad un tempo, la soglia e il pungolo. Tutti moriremo, il punto non è questo, nascendo quel batuffolo di carne che esce dal grembo della madre già lo sa, il punto è, invece, un altro: che cosa lasceremo? Quale sarà la nostra eredità? Quale traccia sarà scritta e documentata da noi, attraverso la vita, su questa terra, che è la terra degli “abitatori del tempo” (Emanuele Severino).

Vediamo ora come creare l’ambiente interiore e culturale adeguato al percorso verso il “glorioso porto”: affinando la percezione della nostra condizione di creature mortali,

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fatte, però, per abbracciare l’eterno attraverso il percorso nella storia. La vita è questo: una spirale che si avvita per poi ricongiungere l’istante con l’eterno che reclama spazio (https://jesusmanager.wordpress.com/2017/12/13/leternita-che-abbraccia-la-storia-un-nuovo-sguardo-sul-tempo/).

• Paradosso: la tua vita può cambiare molto in un anno – pensa a cosa può significare un grave lutto nella tua famiglia – e risulta del tutto astratto, inefficace e automanipolatorio fissare degli obiettivi da realizzare in questo lasso di tempo. La questione grave e significativa non è l’arrivo al rush finale, per poi riallinearsi ai blocchi di partenza un’altra volta e riprendere il solito schema fallimentare.

• Per arrivare alla fine dell’anno, anche nel caso di un buon anno, c’è sempre tempo, così vien fatto di pensare, e l’uomo è naturalmente portato a procrastinare, ossia non fare oggi ciò che deve essere fatto, perché, ovviamente, c’è sempre…domani. E’ il dominio delle sensazioni, degli stati d’animo e dell’entropia, del caos che si autoalimenta. Lo “short-termism” è micidiale, da questo punto di vista, e toglie il fiato, non c’è più il respiro giusto per fare il passo adeguato, quando arriva il suo tempo.

• Procedendo in questo senso, sei sotto il tallone di ferro della “forza di volontà”, che, come abbiamo già visto, è la variante popolare della volontà, a sua volta pura violenza: vorresti diventare “altro” da ciò che sei (dai soldi alla forma fisica), ma, proprio per questo,

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sei bloccato da questa immagine di te stesso, e non vai avanti. Non hai il tempo per elaborare un percorso di vita capace di consolidare pienamente il tuo essere reale, la verità che porti dentro di te, la vocazione che devi esprimere, per servire gli altri e realizzare te stesso.

• Devi pensare “altrimenti”, in maniera differente: pensare, nello stesso tempo, più in grande e più in piccolo.

• Più in grande: fissa traguardi ambiziosi e significativi per i prossimi 25 anni, se sei già cinquantenne, come chi scrive, almeno per 20 anni, non di meno. Questo ti permetterà, da un lato, di avere una grande visione, di vedere fino in fondo la foresta, senza aver paura della caduta di qualche albero, che potrebbe abbattersi su di te. Il dettaglio di un fallimento di breve durata è niente rispetto al lungo percorso, riesci così a incorniciarlo nella reale dimensione, senza perdere di vista lo scopo e l’orizzonte globale. Questo approccio deriva dall’esperienza di un vero e proprio pensatore strategico e imprenditore come l’americano Dan Sullivan. C’è dietro una filosofia concepita come “orientamento attivo verso il mondo” (Giulio Preti). Efficacia massima nella massima verità: le due cose insieme stanno o insieme cadono.

• Più in piccolo: ogni 90 giorni – dunque, ogni 3 mesi – farai la revisione e la verifica dei risultati raggiunti. E’ solo l’1% dell’intero percorso e ti permette di lavorare per segmenti ben gestibili, avendo sempre di fronte a

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te la visione generale. Se le cose non funzionano, puoi sempre fare la revisione entro i successivi 90 giorni, trovando il tempo per riflettere, lavorare e studiare un altro piano. Acquisirai così un profondo senso di sano controllo – non maniacale e/o ossessivo-compulsivo – della rotta che hai scelto e della tua vita.

• Last but not least, anziché concentrarsi ossessivamente sui traguardi, meglio pensare a creare l’ambiente giusto per raggiungerli, un complesso di fattori interni ed esterni in grado di definire la cornice più adeguata a tal fine. Investire nella massimizzazione delle energie, al fine di lavorare meglio e di vivere al meglio durante l’intero percorso. Aggiustamenti anche minimi possono produrre grandi effetti. Tutto ciò serve anche per meglio allinearsi con la parte più profonda di noi stessi, senza lasciare per strada una quantità enorme di energie sprecate a fare cose non solo inutili, ma, nel tempo, controproducenti. La migliore terapia contro l’autosabotaggio. Più sei dis-allineato, più energie dissipi, senza alcun ritorno sull’investimento, per così dire. E’ fondamentale imparare a dire molti “no” per poter dire tutti i “sì” necessari alla realizzazione non dettata dalla “volontà” (spesso altrui), ma dalla verità che abita dentro di noi. Questa è la vera traccia ontologica della prosperità e dell’abbondanza, proprio come il Vangelo di Giovanni ce la presenta: “Sono venuto perché

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abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10).

Caminante, no hay camino, se hace camino al andar.

Antonio Machado