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LA STAMPA CLANDESTINA A TRIESTE DAL 1943 AL 1945 I La stampa clandestina dal luglio 1943 al 1 maggio 1945 1. Caratteri generali. - Lo studio della stampa clandestina pre- senta un aspetto, purtroppo, lacunoso, dovuto principalmente al ca- rattere d’eccezionaiità ambientale e storica del periodo trattato, per cui si rese allora inevitabile — non appena avevano assolto al pro- prio impegno di diffusione delle idee — la distruzione della maggior parte dei giornali stampati, dei fogli ciclostilati, dei manifesti e dei manifestini, dei fogli dattiloscritti in più copie e persino di quelli scritti a mano in copia unica (che in questa sede, date le circostanze anormali del periodo considerato, acquistano tutti valore e signi- ficato di « stampa »). Tra i partiti di opposizione raggruppati nel C.L.N. giuliano, soltanto il partito d’Azione e il partito Comunista curarono, con un criterio di relativa periodicità, la propaganda scritta, basata preva- lentemente, più che su un’opera costante e diretta di polemica con la stampa avversaria, sull’enunciazione e sulla spiegazione dei prin- cipali postulati — sia politici sia economico-sociali — delle loro ideologie, prospettandone di volta in volta le formule salienti di pratica attuazione sul piano regionale e su quello locale. Per un certo periodo di tempo (dall’inizio della cospirazione sino alla metà del 1944) vi fu tra questi due partiti una certa unità di intenti e di opinioni rispetto alla questione dell’appartenenza statale della Venezia Giulia o, per meglio dire, non vi fu un’asso- luta disparità o antitesi di vedute; poi, con l’assorbimento del par- tito Comunista locale nelle file dell’O. F. e con l’adesione che esso diede alle tesi annessionistiche di quest’ultima, avvenne lo sfalda- mento del fronte unitario italiano antifascista. La stampa clandesti- na riproduce fedelmente le diverse aspirazioni e gli stati d’animo di questi due periodi sostanziali.

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L A ST A M P A C L A N D E ST IN A A T R IE S T E D A L 1943 A L 1945

I

La stampa clandestina dal luglio 1943 al 1 maggio 1945

1. Caratteri generali. - Lo studio della stampa clandestina pre- senta un aspetto, purtroppo, lacunoso, dovuto principalmente al ca­rattere d’eccezionaiità ambientale e storica del periodo trattato, per cui si rese allora inevitabile — non appena avevano assolto al pro­prio impegno di diffusione delle idee — la distruzione della maggior parte dei giornali stampati, dei fogli ciclostilati, dei manifesti e dei manifestini, dei fogli dattiloscritti in più copie e persino di quelli scritti a mano in copia unica (che in questa sede, date le circostanze anormali del periodo considerato, acquistano tutti valore e signi­ficato di « stampa »).

Tra i partiti di opposizione raggruppati nel C .L.N . giuliano, soltanto il partito d’Azione e il partito Comunista curarono, con un criterio di relativa periodicità, la propaganda scritta, basata preva­lentemente, più che su un’opera costante e diretta di polemica con la stampa avversaria, sull’enunciazione e sulla spiegazione dei prin­cipali postulati — sia politici sia economico-sociali — delle loro ideologie, prospettandone di volta in volta le formule salienti di pratica attuazione sul piano regionale e su quello locale.

Per un certo periodo di tempo (dall’inizio della cospirazione sino alla metà del 1944) vi fu tra questi due partiti una certa unità di intenti e di opinioni rispetto alla questione dell’appartenenza statale della Venezia Giulia o, per meglio dire, non vi fu un’asso­luta disparità o antitesi di vedute; poi, con l’assorbimento del par­tito Comunista locale nelle file dell’O. F. e con l’adesione che esso diede alle tesi annessionistiche di quest’ultima, avvenne lo sfalda­mento del fronte unitario italiano antifascista. La stampa clandesti­na riproduce fedelmente le diverse aspirazioni e gli stati d’animo di questi due periodi sostanziali.

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Fare un elenco in sede preventiva dei vari giornali, opuscoli e manifesti, sarebbe, oltre che inutile, impossibile. In questo capi' tolo si è ritenuto preferibile attenersi al criterio di analizzare sepa­ratamente i vari documenti, passando in rassegna in primo luogo quelli del P. d’A. e del C.L.N . del primo periodo e poi quelli della stampa comunista successivi aH’allontanamento di quel movimento politico dal Comitato giuliano.

E ’ doveroso aggiungere che la documentazione sulla stampa comunista è più scarsa di qualsiasi altra, non solo per le cause cui si è accennato sopra, ma anche per un motivo ad essa specifico: e cioè per l’evoluzione del pensiero ufficiale di quel partito in merito al parallelo svolgimento della questione giuliana — sul piano mili­tare e politico durante la guerra, su quello politico e diplomatico dopo — evoluzione che ha determinato tanti e tali cambiamenti (scissioni interne di gruppi, occupazioni militari di sedi, requisi­zioni d’immobili, perquisizioni e trafugamento di documenti) che anche quel poco materiale archivistico che si era potuto salvare alla conclusione del conflitto armato è andato quasi completamente di­strutto o è scomparso in qualche altra maniera. Pertanto, senza avere la pretesa di esaurire con ciò l’argomento, sarà indispensabile sof­fermarsi con particolare attenzione sopra i singoli fogli che è stato possibile reperire, data la difficoltà di valutarne obbiettivamente il grado d’importanza.

2. I primi documenti del partito d’Azione e del partito Co' munista nella stampa clandestina del C .L .N . del 1943. - Il primo documento importante che permette di riconoscere gli orientamenti ed i punti programmatici del C .L.N . giuliano è un opuscolo datti­loscritto redatto da Gabriele Foschiatti, intitolato « Orientamenti repubblicani e del partito d’Azione », firmato dal P. d’A. e recante la data del 1 luglio 1943.

Per comprendere appieno la portata dello scritto è necessario porre attenzione ad alcuni fattori d’ importanza, crediamo, fonda- mentale; considerare, cioè, la funzione che il partito d’Azione si era attribuita nell’ambito del C .L.N . giuliano, funzione di prevalenza e di guida al tempo stesso rispetto agli altri gruppi facenti parte del Comitato; e vedere, contemporaneamente, quali erano le relazioni, in sede ideologica e nei riflessi pratici, tra la sezione locale del par­tito e la direzione italiana di esso. Sarà indispensabile, a tal fine, analizzare sommariamente la genesi di quel raggruppamento poli­

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tico ed inquadrarlo nel multiforme momento storico che il Paese stava attraversando.

Le origini del partito d’Azione sono legate ad un movimento della vita sociale ed intellettuale italiana, coincidente, nel tempo, con l’avvento del regime fascista e soprattutto col suo consolidarsi all’interno della nazione, verso il 1925-1928 . A questo movimento confluivano persone di diverse tendenze e di ideali talora divergen­ti, unite dal desiderio di giungere ad un rinnovamento della società nazionale — nelle sue manifestazioni fondamentali — vista non solo sotto il profilo della formula ufficiale del tempo, ma anche, ed in special modo, sotto quella dell’Italia prefascista, cioè dello Stato liberistico-parlamentare che con tutte le sue insufficienze al fasci­smo aveva potuto condurre. Su codesta base potevano incontrarsi, e riconoscersi, ed avviare i contatti per un’azione concreta, degli uomini che in altri tempi ed in altro ambiente non avrebbero pro­babilmente trovato il modo di porsi su una piattaforma comune: democratici, liberali, radicali, gobettiani, repubblicani, socialdemo­cratici, ex comunisti, liberalsocialisti, crociani, e perfino cattolici osservanti.

L ’insofferenza si manifestò dapprima sul piano intellettuale (con le pubblicazioni « Il Caffè », « La Rivoluzione Liberale », « Il Quarto Stato », « Critica Sociale ») per passare poi sul piano pratico dell’opposizione attraverso la creazione dei vari gruppi di intesa i quali, dopo il 1928 e dopo l’espatrio del Rosselli a Parigi, assume­vano la denominazione definitiva di « Giustizia e Libertà » e tenta­vano di determinarsi ideologicamente al lume delle esperienze or­mai acquisite.

Quest’opera di chiarificazione, considerata necessaria per su­perare quelle che agli occhi dei più attenti apparivano le contraddi­zioni del nuovo movimento — la tendenza socialista da una parte, quella liberale dall’altra — fu svolta, per lunghi anni, dal Rosselli all’estero, ed in Italia da molti uomini di studio, come il Parri, il Venturi, il Salvatorelli, il Valgimigli, l’editore Einaudi, l’editore Laterza, il Croce, il Ragghianti. Si andava così maturando il pro­gramma concreto di quello che poi questi uomini decisero di deno­minare « Partito d’Azione », per meglio riassumerne il contenuto e, come scrive a proposito il Ragghianti, « il carattere attivo, volon­taristico, mentre richiamava al Risorgimento ed in esso alla forza politica che aveva fatto appello all’ iniziativa popolare e si era pro-

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posta di risolvere, senza settarismo o pregiudiziali dottrinarie, la questione dell’unità e della libertà italiana » (i).

Dal 1935, anno che viene considerato come la data di massimo sviluppo del regime fascista, fino al 1943, anno della crisi e dello sfacelo, non vi fu in Italia alcun’altra attività di partiti politici dif­ferenziati, a parte quella — logicamente sotterranea ma solidamen­te organizzata nei quadri — del partito Comunista.

Nel luglio 1942, in pieno periodo bellico, attuata la cosid­detta fase di convergenza delle varie correnti, fu alfine proposto ed approvato il testo programmatico del partito d’Azione, detto anche dei « sette punti ». Questi punti postulavano: 1) lo Stato repubbli­cano; 2) la riorganizzazione degli Enti locali su base decentrata;3) la nazionalizzazione dei grandi complessi industriali finanziari ed assicurativi; 4) una riforma agraria mirante ad immettere sempre più vaste masse di lavoratori al godimento diretto ed integrale del­la terra; 5) la partecipazione delle organizzazioni sindacali, restituite a libertà, al processo produttivo; 6) la libertà di credenza e di culto; 7) il massimo contributo alla formazione di una coscienza unitaria ed europea per la costituzione di una comunità giuridica di Stati.

Questi punti furono giudicati dagli studiosi del tempo come il programma più ardito che allora si potesse proporre e che si potesse tentare di attuare ai fini del rinnovamento auspicato, evitando di cadere negli schemi tradizionali, fossero quelli del socialismo, del liberalismo, od altri. Gli storici del partito d’Azione, da Riccardo Bauer a Francesco Fancello, sono concordi nell’affermare che il par­tito, nel campo economico e sociale, non aveva pregiudizi contro qualsiasi soluzione, anche quella considerata la più ardita e rivolu­zionaria, purché fosse salvaguardato il principio essenziale della libertà politica; Giuliano Pischel scrive che esso « costituiva, ad un tempo, un appello per le forze già pronte ed una possibile piatta­forma d’intesa con altre forze che al movimento avrebbero potuto confluire. D ’altra parte i « sette punti » costituivano una così fer­ma differenziazione da ogni altro movimento politico, da imprimere realmente fisionomia di partito alle forze che su esso s’impernia­vano » (2). Il suo programma mirava soprattutto alla impostazione ed alla risoluzione dei problemi concreti d’immediata attualità, se­guendo in ciò i principi enunciati dal Salvemini vent’anni addie-

(1) C arlo L . Ragghianti, Disegno della liberazione italiana, Pisa, 1954, p. 319.(2) Vedi C. L . Ragghianti, op. cit., p. 317 .

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tro. Questa tendenza £u una delle cause, forse la più importante, che permisero al partito d’Azione di raccogliere attorno a se, nei lunghi mesi dell’attività armata clandestina, una gran parte delle forze attive della Resistenza, paragonabile solo, quanto a propor­zione numerica, a quella del partito Comunista.

Abbiamo dato un certo rilievo al partito d’Azione in sede na­zionale e specialmente al suo programma dei « sette punti », per poter fare un raffronto immediato con i postulati che il partito d’Azione giuliano, per la penna e nell’ idea del Foschiatti, aveva enunciato. Sarà anche necessario osservare, per la comprensione di vari documenti che seguiranno in questo capitolo e per il carattere d’importanza che si attribuirà ad essi, che il partito d’Azione nella Venezia Giulia — sia dal punto di vista dell’attività politica, sia da quello della stampa clandestina — svolse, come appunto si di­ceva all’ inizio, una funzione di prevalenza rispetto agli altri gruppi del C .L .N .: Democrazia Cristiana, partito Socialista italiano, par­tito Liberale; il partito Comunista va considerato a parte, dati gli avvenimenti politici che lo portarono al distacco dal Comitato.

Gli « Orientamenti » si aprono con una aperta denuncia al « terrorismo fascista in queste terre, come oltraggio all’umanità ed un delitto di lesa patria »; si afferma che « la difesa della porta orien­tale dell’ Italia deve ricercarsi anche nel lealismo delle popolazioni slave... » le quali « avrebbero accettato, con i benefici di una poli­tica di libertà, l ’Italia come la loro patria morale fondata su un co­mune senso della giustizia ». Dopo questa premessa che implicita­mente vuol dimostrare come una politica diversa da quella prati­cata dal regime totalitario non avrebbe condotto aH’inasprimento dei rapporti tra i gruppi etnici della regione, e quindi non avrebbe riproposto il problema della sovranità italiana su queste terre, ven­gono gli « orientamenti » veri e propri, specie di punto di parten­za per un programma articolato, quale lo troveremo formulato con più compiutezza su un foglio clandestino dell’anno successivo.

Essi constano di nove punti, qui schematicamente riassunti:I - La fine della guerra deve segnare il crollo del dogma della

sovranità assoluta dello Stato. A ll’interno delle nazioni essa verrà limitata dalle « sovranità particolari », dei Comuni e delle regioni, in campo internazionale troverà un freno, od un equilibrio, nella « Federazione europea delle libere nazioni ».

II - Nella Venezia Giulia, dove oggi due nazionalità si urta­

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no, bisogna bandire ogni nazionalismo aggressivo (italiano o slavo) che, alimentato dall’odio, mira alla sopraffazione ed alla negazione dell’altrui nazionalità e rappresenta quindi un pericolo per la pace europea.

Ili - Agli slavi della Venezia Giulia deve essere assicurata resi­stenza nazionale, sulla base di una completa autonomia culturale.

IV - Solo un regime di libertà e di democrazia può porre le condizioni preliminari della civile convivenza delle due nazioni.

V - La protezione delle minoranze verrà posta sotto la salva- guardia della Federazione europea.

V I - La funzione di Trieste, come porto europeo, è inconci­liabile con il conformismo di un regime accentratore «monarchico».

VII e V ili - In questi punti viene ribadita la necessità di un’agile ed articolata ossatura federalistica dello Stato, parte, a sua volta, di una più vasta Federazione europea e ciò soprattutto in ri­ferimento agli interessi politici, economici, culturali e spirituali delle nazionalità commiste in determinate regioni di confine. In parti­colare, la Repubblica federale (italiana) permetterà che Trieste (ita­liana) aderisca, sul piano culturale, alle rispettive comunità cultu­rali della Slavia.

Il punto IX trae la conclusione dalle enunciazioni degli altri otto. V i sono sostanzialmente due problemi da risolvere: il primo riguarda la necessità di un accordo tra l ’avvenire economico e l’esi­stenza nazionale di Trieste, l’altro l’urgenza di una conciliazione tra le aspirazioni italiane e quelle slave, risolventisi in « tranquilla convivenza ». Si ribadisce che tali problemi trovano solo nel fede­ralismo la loro obiettiva soluzione.

Procedendo al raffronto del programma dei « sette punti » con codeste enunciazioni, si nota la preponderanza che in esse acquista il quesito nazionale, visto soprattutto nella preoccupazione di addi­venire ad una composizione permanente di ogni dissidio nazionali­stico. Tale composizione viene prospettata nella soluzione federali­stica del problema, che dalla visione europea — vagamente accen­nata — scende su un terreno di concretezza nelle questioni invero reali ed attuali che si agitano in una zona di confine tra le più con­tese d’Europa. Oltre al federalismo, solamente l’esigenza di un reg­gimento di tipo repubblicano viene ora ribadita e ciò identificando la monarchia con le caratteristiche di un tipo di regime economica­mente ed amministrativamente accentratore, senza ulteriormente

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specificare. Di tutta la complessa gamma di postulati e di richieste, con cui gli uomini del partito d’Azione d’ Italia intendevano rinno­vare lo Stato moderno (nazionalizzazione, riforma agraria, funzioni produttivistiche del sindacato, spirito laico e libertà religiose), non c’è traccia alcuna nel documento del Foschiatti, che va comunque considerato in un quadro essenzialmente regionale. Probabilmente si deve sottintendere che i problemi centrali restavano ovunque gli stessi, da regione a regione, e che erano ormai acquisiti e concet­tualmente risolti dalle programmazioni della sede centrale del par­tito; mentre la stampa regionale clandestina, di luogo in luogo, as­solveva meglio alla sua ragion d’essere nell’impostazione propagan­distica dei temi locali di maggior portata.

Del federalista Gabriele Foschiatti (3) abbiamo altri due scrit­ti: uno, intitolato « Fede Unitaria » — compilato e diffuso alla macchia secondo la maniera degli « Orientamenti » — ribadisce la soluzione italiana del problema triestino; l’altro è l’articolo « Fol­klore triestino » pubblicato su un numero del periodico clandestino « Giustizia e libertà », dove l’autore, con una prosa vivida ed acu­tamente beffarda, affronta il fenomeno del collaborazionismo con gli occupatoci, di cui parecchie personalità e gruppi economici lo­cali della borghesia mercantile ed industriale davano prova, e lo giudica su un piano di rigorismo morale. Di Foschiatti, nel dopo­guerra, parlarono spesso i giornali, per commemorarne la morte e per metterne in evidenza il pensiero sociale e politico. Già nell’ot­tobre 1945 apparve sul periodico del partito d’Azione, « l ’Emanci­pazione », una rapida disamina degli « Orientamenti » accompa­gnata da un commento fortemente pessimistico in relazione agli avvenimenti; in essa si dimostrava come quegli ideali (del Foschiat­ti) fossero rimasti allo stato di concetti: la Federazione europea« sembra risolversi in una delusione; mentre un nazionalismo smo­dato e tracotante, inconciliabile con l’idea liberale, imperversa nel- l’ Istria, a Trieste, a Pola » (4).

A « Fede Unitaria » lo stesso periodico dedicava, in un numero successivo, un commento approfondito: « Per G. Foschiatti... l’uni-

{3) Gabriele Foschiatti fu uno dei più attivi animatori del movimento partigiano della Venezia Giulia, organizzatore dei primi nuclei locali di azione « Giustizia e libertà »; arrestato dalle autorità tedesche verso la fine del 1943, fu trasferito in Germania, nel campo di concentramento di Dachau, dove si spense il 20 novem­bre 1944.

{4) « Come Foschiatti prospettava la soluzione del problema giuliano » (L'Eman­cipazione, 20 ottobre 1945, p. 1).

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tarismo di Mazzini non era in contrasto col federalismo basato su quegli elementi naturali che sono i Comuni e le Regioni. In parti­colare per la Venezia Giulia, col suo problema della convivenza di diverse nazionalità e con quello relativo all’avvenire commerciale del porto di Trieste dipendente dal retroterra Centro-danubiano, egli era fautore di un’ampia autonomia nel senso che l’amministra­zione della regione e dei comuni spettasse al popolo giuliano diret­tamente interessato. Egli era contrario alle interferenze prefettizie, roccaforti del centralismo monarchico-fascista; invece, caldeggiava la creazione di un governo regionale popolare, capace di coordinare e disciplinare i divari nazionali, l’attività economica e finanziaria della regione, in modo che fosse sviluppata al massimo l’iniziativa locale » (5).

Dell’ideologia comunista, come fu interpretata dai suoi ade­renti locali, importa far rilevare il concetto della nazionalità (base di partenza e punto di arrivo di tutti gli studiosi della questione giuliana) e quello della libertà economica, che del marxismo appare il caposaldo teorico; ed interessa, in massimo grado, vedere se i due postulati si sono armonizzati, o se sono almeno giunti ad un com­promesso che non ne snaturasse l’essenza.

Rimane, come testimonianza del pensiero degli organi diret­tivi del partito comunista triestino intorno ai mesi di agosto-otto­bre 1943, una dichiarazione di Zeffirino Pisoni (6) intitolata « La soluzione del problema nazionale secondo gli interessi delle masse popolari »; essa fu dattiloscritta e diffusa come gli « Orientamenti », ai quali, sebbene sia priva della data, è sicuramente posteriore.

La riportiamo nei tratti salienti, là dove si addentra proprio in un esame del termine di libertà nazionale:

« ... per le masse popolari essa (la libertà nazionale) si risol­veva, nel migliore dei casi, nella libertà di vendere la loro forza- lavoro ad un prezzo fissato dall’ ingordigia del capitalista. ... La bor­ghesia aveva risolto il problema nazionale subordinando i reali in­teressi della nazione all’ interesse di un esiguo numero di grandi proprietari che persuasero di identificarsi con la nazione; ... e così la borghesia ha favorito il prodursi del fenomeno nazionalistico, cui

(5) « Purezza del sentimento patrio in un convinto internazionalista » (L’Eman­cipazione, 3 novembre 1945, p. 2).

(6) Zeffirino Pisoni, membro del C .L .N . per il partito Comunista, figura di pri­mo piano nelle file della Resistenza giuliana, fu arrestato dai tedeschi e morì nel campo di deportazione di Dachau, come il Foschiatti e molti altri partigiani triestini.

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ha affidato il compito di giustificare e di esaltare l’imperialismo e le guerre di sopraffazione, perchè il capitale, potenza sociale del particolare, non potrebbe adottare altri mezzi per imporre la sua tirannia alla nazione ». Fin qui viene svolto un assunto generale. Scendendo al caso in discussione si afferma che « ... gli uni voglio- no la ” grande Jugoslavia ” con l’inclusione delle popolazioni ita- liane della Venezia Giulia per poi snazionalizzarle, gli altri la ” grande Italia ” con l’inclusione, alle medesime condizioni, delle popolazioni serbo-croate. Questo nazionalismo, assumendo atteggia^ menti di liberatore dall’oppressione italiana e slava, è solo il difen­sore degli interessi materiali dei gruppi capitalistici della nostra re­gione, slavi o italiani poco importa. Ma le masse popolari devono diffidare del nazionalismo che li difende, anche se si presenti con intendimenti sociali o proclami la sua amicizia con la Russia sovie­tica. Il problema nazionale della nostra zona non può essere risolto che dalle masse popolari perchè solo esse, data la loro posizione so­ciale, sanno intuire il giusto e naturale rapporto di funzioni tra eco­nomia e nazione ».

Questo modo di risolvere il problema — si aggiunge — è un pericolo per lo Stato, ma per lo Stato borghese-capitalista, non per quello popolare-proletario « perchè per il primo l’unità statale, sempre coattiva, è in funzione di interessi particolaristici, per il se­condo, invece — libera espressione della volontà del popolo — è in funzione di interessi generali ».

Ed ecco la conclusione: « I tre gruppi nazionali che abitano la nostra regione abbiano dunque, per libera elezione di popolo, la loro indipendenza. Solo cosi potranno poi trovare il loro sbocco na­turale nella generale sistemazione dei popoli d’Europa ed iniziare, finalmente, un periodo di convivenza fraterna ».

Caratteristico è lo svolgimento fatto dal Pisoni della teoria na­zionalistica, in perfetta armonia con i principi del suo credo poli­tico, e che non viene confusa, ad un attento esame dello scritto, con il problema della nazionalità. Considerevole pure il proposito di mettere su un medesimo piano gli « imperialismi » in genere, an­che quando si presentano nel nome o con il simbolo dell’emancipa­zione delle classi lavoratrici. La conclusione invece non sembra chiara e si presta ad interpretazioni diverse. Si invoca l’indipenden­za assoluta dagli uni e dagli altri oppure — dato che solo le forze del lavoro percepiscono l’esatto rapporto tra economia e nazione — si propugna una soluzione « elettiva » nel senso di concedere a

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queste forze (a guerra conclusa) la facoltà di scelta tra le tesi in contrasto? L ’ipotesi dello Stato libero, indipendente, considerando l’ambiente ed il tempo nel quale il Pisoni scriveva, è forse la meno attendibile; e più verosimiglianza acquista una terza ipotesi, di carattere squisitamente propagandistico: un accantonamento tem­poraneo del problema di fondo, determinato dall’urgenza delazio­ne armata e dalla necessità di non disperdere in alcuna maniera le forze della resistenza, nè di togliere loro l’appoggio che esse pote­vano ricevere da parte delle più agguerrite formazioni comuniste jugoslave della regione. E solo in tal senso il documento, diretto soprattutto alle classi operaie per la determinazione dell’orienta­mento e della posizione esplicita che dovevano assumere, rivela lo scopo precipuo per il quale fu redatto.

Un foglietto che s’intitolava « Il Risorgimento » (7) contie­ne uno scritto — « Esperienza dell’occupazione partigiana del- l’ Istria » — dedicato ai fatti militari avvenuti nell’autunno di quel­l’anno nella penisola istriana, quando i partigiani sloveni e croati riuscirono ad occupare gran parte dell’ Istria e del Goriziano ed a mantenere il presidio e l’amministrazione di tali zone per parecchi giorni, sino alla reazione delle forze armate germaniche.

Nel documento, dopo una cronistoria, resa a grandi linee, degli avvenimenti, si afferma che i partigiani — abbandonatisi ad ogni sorta di eccessi e di violenze, anche ai danni della popolazione slava — si sono con ciò dimostrati incapaci di far opera di armonia e di conciliazione e non si sono quindi comportati da comunisti, ma da nazionalisti slavi. Il rapporto riflette in maniera esplicita la preoccupazione degli uomini del C .L.N ., che vedevano in un fatto simile l’attuarsi dei loro timori e l’impossibilità materiale di mante­nere unito il fronte antifascista, e conclude con un’altra affermazio­ne del principio nazionale e federalistico: in un’Italia democratica e federalista la regione potrà trovare una pace duratura e le saranno garantiti i benefici di una larga autonomia, capace di eliminare ogni attrito fra i due diversi gruppi etnici.

Nel dicembre gli studenti facenti parte dei gruppi « giellisti »

(7) « Il Risorgimento », 2 novembre 1943, n. 12.Più che un articolo, esso contiene un rapporto del C .L .N . di Trieste, scritto da

E. Miani e trasmesso, oltre che al C .L .N . di Milano, anche ai nuclei di Gorizia e alle cittadine dell’Alta Istria. Se ne fecero molte copie distribuite clandestinamente. Fu aspramente criticato dagli esponenti del Comitato di liberazione slavo, l’ « O. F. » (« Osvobodilna Fronta »).

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stampavano un volantino, il « Manifesto Guglielmo Oberdan », in occasione del 6 i° anniversario della morte dell’agitatore ed irre­dentista giuliano. Il manifesto, che fu diffuso a Trieste specialmen­te nell’ambiente scolastico il 19 ed il 20 dicembre, vuole incitare la gioventù cittadina, nel nome e nel ricordo di Oberdan, all’azione patriottica; il suo linguaggio è sovente retorico, spesso privo di ar­gomentazioni convincenti e risente della esuberanza tipica dei gio­vani; esso acquista un senso di realtà solo là dove accenna — più che indicare esplicitamente — alle conseguenze psicologiche « de­leterie » determinate su certi strati della popolazione locale dal col­laborazionismo di certi uomini politici con le autorità naziste. Per questo motivo, e fatte le debite differenze, il manifesto può in certo qual modo collegarsi con il « Folklore Triestino » del Fo- schiatti.

3. La stampa del C .L .N . nel 1944 e nel 1945. - Nel febbraio del 1944 un pro-memoria sulla situazione locale concernente le ri­vendicazioni territoriali slave e dedicato al C .L.N .A .I. di Milano, fu riprodotto dal partito d’Azione in un manifesto perchè fosse co­nosciuto chiaramente il punto di vista degli organi direttivi della resistenza italiana nella Venezia Giulia (8).

Dopo aver affermato che « una annessione della Venezia Giu­lia alla Jugoslavia lederebbe, nella sua intima essenza, il principio di nazionalità e di democrazia, italiana essendo la regione, perlo­meno nella zona marittima, in molte borgate interne dell’Istria, ed in tutti i centri urbani... » si definisce « veramente consona ai fini dell’equità quella soluzione del problema giuliano che — muoven­do dalla premessa della sovranità italiana nell’ambito di una repub­blica e del riconoscimento dei diritti culturali e politici delle mino­ranze slave — assicuri, salvo logici ritocchi, l’unità economica della regione Giulia, dal Tagliamento alle isole istriane del Carnaro e nello stesso tempo sia capace di potenziare le funzioni di transito del traffico internazionale di Trieste, col mezzo dell’Istituto del Porto franco vero e proprio, messo a disposizione di tutte le ban­diere e governato da una azienda (o consorzio) nella quale abbiano congrua partecipazione la municipalità e gli enti pubblici interes­sati e della quale facciano viva e preminente parte le aziende uten-

(8) Fu redatto da E. Miani. E ’ riprodotto nel volume di GIOVANNI Paladin, La lotta clandestina di Trieste, Trieste, 1954.

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ti: armatoriali, commerciali, industriali, di spedizioni, ecc., nazio­nali e del retroterra estero ».

Qui, forse per la prima volta sulla stampa clandestina, appare trattato, accanto al problema politico, quello economico, che tanta parte ha avuto nel determinarlo. E per la prima volta si tenta di replicare alle tesi opposte portando la discussione sull’argomento economico caratteristico di questa regione, dove tutte le campagne propagandistiche hanno sempre avuto buon gioco: le funzioni del porto di Trieste.

Per il partito d’Azione queste funzioni, lungi dall’essere im­pedite dal ritorno della sovranità italiana, ne presuppongono la pre­senza; il principio della nazionalità porta a quello dell’unità econo­mica, ed è proprio il retroterra « naturale » della città che da questa non può essere scisso, senza pregiudizio per l’unità economica stessa. Le funzioni internazionali dell’emporio saranno salvaguardate me­diante uno strumento tecnico — il Porto franco — che non viene per ora meglio specificato, e alla cui realizzazione tutti gli enti cit­tadini variamente interessati potranno liberamente concorrere.

Dal febbraio al dicembre del 1944 il C .L.N . stampò altri nu­merosi manifesti e volantini, la maggior parte dei quali, com’è na­turale, andò distrutta. Contemporaneamente a questi, che avevano le intestazioni ed il formato alquanto diversi da volta a volta, ed il cui contenuto si riferiva sempre all’argomento di più urgente at­tualità, usciva, con periodicità piuttosto incerta, l ’organo regionale del partito d’Azione, « Giustizia e Libertà »; di esso, in questo pe­riodo, si è potuto salvare un numero solo.

Una specie di volantino fu preparato in occasione del com­pleanno del Führer, il 20 aprile. Le autorità avevano organizzato delle cerimonie per festeggiare la circostanza e ad esse avevano in­vitato molte personalità cittadine. L ’affluenza dell’elemento italia­no locale alla festa avrebbe avuto un indubbio significato propa­gandistico a favore dei germanici i quali, sui loro giornali, poneva­no in gran risalto l’avvenimento. Il C.L.N . sabotò l’ iniziativa, con i mezzi di cui disponeva, e stilò, appunto, una specie di « memo­randum » (che riportava il cosiddetto testamento politico di Gu­glielmo Oberdan) diffondendolo poi, per mezzo di veline, tra gli ex-combattenti ed i volontari giuliani della grande guerra invitati alla cerimonia. Qualche risultato fu raggiunto; molti parteciparono, alcuni si astennero.

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Un manifesto, dal titolo « Garibaldi » (9), fu lanciato a più riprese nei mesi di giugno e di luglio, quando a Milano, nella sede del C .L .N .A .I., si svolgevano le trattative tra italiani e sloveni deb l’O. F. — poi rivelatesi prive di risultato pratico — per disciplinare la lotta comune. Nell’esaltazione della libertà che tutto lo pervade, vi si legge tra le righe il timore delPaffermarsi violento di un nuovo nazionalismo, che si identifica con quello slavo: « ... Garibaldi sta a dimostrare contro tutti i falsi condottieri che la salvezza del po­polo italiano è nella tradizione di libertà, lontana da ogni egoismo nazionalista, da ogni isterismo imperialistico. Non sulle baionette rivolte di fuori e di dentro, non sui soprusi polizieschi può basarsi un popolo che ha espresso dal suo seno un Garibaldi ». Ed ancora più esplicita è un’affermazione successiva, invitante i giovani, nel prossimo riconquistato clima di libertà, a « dispiegare al vento le bandiere rosse, simbolo della redenzione sociale del popolo lavora­tore, assieme ai sacri tricolori della nostra patria ».

L ’insistenza sul concetto della patria e della soluzione unitaria del problema, vero punto fermo e postulato inderogabile degli uo­mini del partito d’Azione — i quali, per quanto concerneva le que­stioni sociali, si mostravano d’altra parte disposti anche ad esperi­menti di natura rivoluzionaria — doveva prima o poi determinare una reazione negli uomini del partito fascista repubblicano locale, che dello stesso concetto ritenevano un’idea ed un significato affatto contrari. I fascisti si autodefinivano « patriotti » per anto­nomasia ed unici depositari dell’ « unica giusta interpretazione » del termine di italianità; era quindi logico che non potessero permet­tere ad alcuno di toglier loro tale esclusività.

Il pretesto per una polemica del genere fu fornito proprio da un manifesto del partito d’Azione, l’ « Appello agli Istriani » (io), che prendeva lo spunto dalla distruzione del monumento a Nazario Sauro, perpetrata dai partigiani slavi a Capodistria, per accusare indistintamente tutti i fenomeni nazionalistici della zona, da chiun­que fossero provocati ed alimentati. « L ’Appello » diceva che lo scopo dei tedeschi era di snazionalizzare ed opprimere le popola-

(9) Redatto dallo scrittore triestino Giani Stuparich e da E. Miani. E ’ firmato dal partito d’Azione e reca la data del 2 giugno 1944.

Vedi G. Paladin, op. cit.(10) Concepito da E. Miani e scritto dallo stesso e da Giano Stuparich. Datato

25 giugno 1944 e diffuso nei mesi di luglio ed agosto. Vedi G. Paladin, op. cit.

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zioni giuliane e che l’idea rappresentata dai fascisti, « al tedesco vendutisi », non era quella della patria. Il manifesto ebbe una dif­fusione rilevantissima, di molto superiore al livello normale della stampa clandestina d’allora, e venne divulgato nelle più importanti cittadine della costa istriana e dell’interno (Muggia, Capodistria, Isola, Pisino, Umago, Cittanova e Parenzo).

I fascisti, presa visione del documento, prepararono una ri­sposta, con un articolo che avrebbe dovuto comparire sul loro or­gano settimanale, l’ « Italia Repubblicana ». Ma la replica non ven­ne perchè le autorità tedesche, per loro ragioni tattiche di oppor­tunità, impedirono la pubblicazione dello scritto, e posero il veto proprio all’ultimo momento, quando già il giornale stava per an­dare in macchina. Una bozza fu però trafugata da un tipografo « giellista » che riuscì a trasmetterla al C .L.N .

L ’articolo avrebbe dovuto intitolarsi « Smarrimento ed oppio » ed era redatto nella forma apparentemente perentoria, ma in so­stanza enfatica, seguita per consuetudine dalla gran parte dei pub­blicisti di quella tendenza. Esso criticava aspramente i sistemi degli avversari, che sempre, diceva, « sono gli stessi: trovare il mezzo per aumentare lo smarrimento della coscienza ed impedire che l’uo­mo trovi se stesso, il cittadino si ritrovi nella comunità, l ’italiano nella Patria »; difendeva i tedeschi, i quali « non vogliono, perchè hanno troppo alto il senso dei valori nazionali, seppellire il carat­tere italiano dell’Istria. ... La Germania non può che vedere con soddisfazione risorgere la grande Italia come l’aveva costruita Mus­solini e come è nel cuore di tutti gli italiani »; rivendicava, infine, al proprio partito la difesa integrale di tutti i valori nazionali: « Chi, se non il Fascio istriano, si è battuto allo sbaraglio per riani­mare l’italianità dell’ Istria, per difenderla dalla travolgente massa slavo-comunista, che tutto voleva livellare e distruggere? Chi, se non quel Fascio, ha innalzato, dopo l’8 settembre, alta, immacolata, in tutti i Comuni istriani, la bandiera italiana? » (n ).

(il) La bozza si trova nell’archivio della « Deputazione per la storia del movi­mento di liberazione italiano nella Venezia Giulia ». E ’ un documento di singolare importanza, appunto perchè — considerata la sua natura — non vide mai la luce. Questa caratteristica serve a lumeggiare il contenuto forse meglio di qualsiasi me­todo critico d ’indagine. La censura sulla stampa in tempo di pace e in tempo di guerra dimostra, già con la sua esistenza, i limiti imposti dalle Istituzioni all’opera di propaganda e di influenzamento svolta dai giornali. Nel caso in esame, poi, la censura è esercitata da un’Autorità verso un organo di stampa che palesemente tale Autorità appoggia e la cui azione afferma, in tutto e per tutto, di rendere propria; l’organo fascista vuole sostenere che i tedeschi tutelano l ’ italianità della regione, ed

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Un opuscolo dattiloscritto interamente dedicato al problema economico portuale £u diffuso, specialmente negli ambienti mer- cantili e portuali, durante i mesi invernali del 1944-1945: « Il por­to di Trieste nel recente passato e nell’avvenire ». Scritto da E. Miani (e firmato M. Villa), esso ebbe una diffusione rilevantissima, anche perchè rappresentava per gli uomini del C .L.N . il tentativo più importante, attuato sino a quel momento, di propagandare la soluzione italiana sostenendola da un punto di vista esclusivamente economico e tecnico (12).

L ’opuscolo si divideva in due parti. Nella prima era analizzato e commentato il movimento commerciale del periodo 1920-1938, raffrontando le tabelle statistiche del 1938 con quelle relative del 19 13 ; la lieve differenza negativa che ne risultava in cifre veniva fatta risalire ad una molteplicità di fattori che avevano agito si­multaneamente sull’economia generale del porto, alcuni di carat­tere nazionale ed altri di natura internazionale: industrializzazione della città, influsso della crisi internazionale sui traffici, concorren­za dei porti nordici, inversione della legge della libera selezione nel fattore « umano » dovuta in gran parte alla politica fascista.

La seconda parte passava in rassegna le soluzioni possibili del problema, con particolare risalto alla soluzione in senso jugoslavo e a quella italiana. Per la prima si metteva in rilievo la tradizional­mente modesta partecipazione jugoslava ai traffici triestini ed in genere agli scambi internazionali. La soluzione italiana veniva pro­spettata secondo lo schema consueto del partito d’Azione (decen­tramento politico dello Stato, autonomia regionale ed istituto loca­le del Porto franco) seguito da un’analisi approfondita del problema generale della marina mercantile; questa soluzione era definita la « meno imperfetta ».

Di « Giustizia e Libertà », come già abbiamo accennato, è reperibile, del 1944, un numero solo, dedicato per intero al pro-

i tedeschi stessi la tutelano così bene da non permettere che ciò si scriva. La limi­tazione che i tedeschi impongono consente così di constatare le loro effettive inten­zioni e la diffìcile situazione in cui i fascisti devono operare. Ciò non sarebbe tanto evidente qualora l’ articolo fosse stato pubblicato. Ma questo, nella stampa, è pure un caso limite, e non perchè la censura operi di rado, ma per il fatto che raramente l ’oggetto della sua opera riesce a sopravvivere, come appunto nel caso in questione; ed anche perchè è estremamente limitata per lo studioso la facoltà di comprendere l’ indirizzo propagandistico di un giornale, non da un suo scritto, ma — al di fuori d’ogni paradosso — dalla forzata assenza dello stesso.

(12) Lo studio del Miani fu raccolto in volumetto e stampato dall’editore trie­stino Smolars nell’agosto del 1945.

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gramma ufficiale del partito d’Azione e diviso in due parti distin- te (13). La sua importanza deriva dal fatto di essere l’unico docu- mento rimasto che esponga con abbondanza di dettagli tutti i postu- lati di quel movimento, nel campo politico, economico ed interna­zionale. A ll’inizio del capitolo sono stati esaminati gli « Orienta­menti » del Foschiatti e si è constatato come essi limitassero le af­fermazioni programmatiche all’aspetto meramente nazionale del problema; ora, a più di un anno di distanza, è possibile riempirne le lacune.

Nella prima parte del giornale ritornano i noti principi della Repubblica federale, retta politicamente da una democrazia socia­lista, organizzata amministrativamente secondo la formula del de­centramento e dell’autonomia regionale e tendente, nei rapporti con l’estero, ad una federazione degli Stati europei. Nel settore so­ciale il testo ripete le enunciazioni contenute nei « sette punti », con, in aggiunta, un’interessante appendice che chiarifica il conte­nuto del termine socializzazione; dice testualmente: « Il partito è convinto che il socialismo si possa realizzare solo nell’atmosfera del­la libertà; perciò è contrario alla collettivizzazione integrale e fau­tore del principio che la gestione dell’economia socializzata debba svolgersi in forma cooperativa e autonomistica e non nella forma statalizzata perchè un superstate collettivista soffocherebbe l’auto- nomia delle iniziative e significherebbe la sostituzione all’oppres­sione della classe capitalistica di quella di una casta politica che su­bordinerebbe l’ interesse di tutti all’interesse di pochi ». Si tratta di un netto rifiuto delle teorie comuniste bolsceviche.

La seconda parte reca il titolo « Problemi nazionali ed eco­nomici della Venezia Giulia » e può essere considerata come un’in­tegrazione degli « Orientamenti », in tutti i loro aspetti caratteri­stici. Mentre il Foschiatti parlava soltanto di soluzione unitaria, qui il partito d’Azione, che continua a considerare « sacro ed inviola­bile il principio dell’unità d’Italia raggiunto in queste terre » non esclude però che vi possano essere « rettifiche di confini, onde ren­dere più omogenea l’organicità etnica degli stati interessati ». Il partito si rende ancora una volta fautore di una politica generale dove siano riconosciute ed attuate: l’amministrazione autonoma regionale, la parità giuridica, culturale ed economica per i cittadini

(13) « Giustizia e Libertà », organo giuliano del partito d’Azione, ottobre 1944, n. i i .

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delle due nazionalità, la cooperazione e la convivenza dei due grup- pi etnici in un ordinamento locale e cantonale che « ignori ogni questione di minoranza, ed in cui ogni gruppo consideri l’altro gruppo, nei riguardi del trattamento, non come minore ma come eguale ».

Come conclusione del documento, la tesi della libertà econo- mica e del Porto franco di Trieste veniva delineata e chiarita nel senso di una « gestione commerciale governata da un Ente Por­tuale nel quale abbiano una congrua partecipazione la municipali­tà e gli enti pubblici interessati »; in tale maniera, e con questo istituto, sarebbe stato assicurato « a ciascun popolo interessato al­l’utenza del porto stesso, l ’esercizio libero di navigazione, d’indu­stria e di commercio entro l’emporio ».

A ll’inizio del gennaio 1945 un manifesto riproducente un messaggio diretto dagli operai di Milano a quelli di Trieste fu lan­ciato dagli uomini del C .L .N ., i quali vedevano in esso un efficace argomento contro le aspirazioni degli esponenti dell’O. F., la cui propaganda era prevalentemente rivolta al proletariato locale (14).

La classe operaia triestina aveva risentito gli aspetti negativi del fascismo in misura maggiore della media e della piccola bor­ghesia cittadina, mantenutesi —- nei riguardi del regime illibera­le — su un piano che si può definire di « conformismo » e di « a- gnosticismo politico ». Con mentalità opposta, il proletariato, so­cialista sin dal tempo dell’amministrazione austriaca, si era mante­nuto costantemente e nella sua quasi totalità antifascista durante l’ intero ventennio ed era. rimasto estraneo alle idee sociali del cor­porativismo, che l’attuazione pratica gli presentava non come la conciliazione o l’ammorbidimento dei conflitti di classe, ma piut­tosto come la prevalenza e lo strapotere di alcune classi singole (so­prattutto quella burocratica e quella capitalistica) a danno di tutte le altre.

Ma un altro mito aveva creato il fascismo, e questo era più difficile dell’altro ad essere individuato: l’identità concettuale e persino pratica di regime e nazione, fra spirito di parte e difesa dell’italianità. L ’italianità era stata « difesa » su due fronti, con­temporaneamente; snazionalizzando in ogni maniera le zone abi­tate da popolazioni non italiane, e perseguendo con atti di estrema

(14) « Gli operai milanesi ai lavoratori triestini », manifesto del C .L .N . datato Milano, dicembre 1944. Vedi G . Paladin, op. cit.

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violenza i lavoratori giuliani di ideologia socialista o comunista, in tutte le loro istituzioni a carattere autonomo (sindacati, Camere del lavoro, sedi di circoli culturali e sportivi, giornali). Era perciò na- turale che l’identificazione fra sentimento patriottico e fascismo, da quest’ultimo affermata e voluta, fosse alla fine accolta — oltre che dai lavoratori slavi — anche da quella parte di operai di na­zionalità italiana meno suscettibili ad operare delle distinzioni men­tali, che la loro semplicità e l’esperienza acquisita rendevano di difficile attuazione. Inoltre, la tendenza internazionalistica dei la­voratori e la natura stessa dell’esperimento jugoslavo allora in atto, che si presentava come un autentico tentativo rivoluzionario di edificare una società socialista secondo i principi della lotta di classe, davano un’ulteriore spinta alle loro simpatie e toglievano gli ultimi dubbi nella scelta che essi dovevano compiere.

Per il C .L .N ., tuttavia, restava il compito di trarre a se gli incerti e i fluttuanti, che non erano pochi; ed impostare un’opera di propaganda ove al fattore sociale fosse attribuito il massimo gra­do di interesse e di serietà, nello sforzo di dimostrare che i partiti italiani della resistenza non sottovalutavano il problema dell’eman­cipazione del lavoro, ma lo ponevano anzi al vertice delle loro aspi­razioni politiche. Il manifesto in questione parla, appunto, questo linguaggio ed esprime una fiducia incondizionata (quanto indimo­strata) negli sviluppi avvenire delle masse lavoratrici: « Dopo ven­ti anni di stasi politica, dovuta alla tirannia fascista, il nostro movi­mento (che aveva raggiunto le più alte vette sognate dal sociali­smo internazionale con l’occupazione delle fabbriche) ha ripreso la sua marcia rapidissima e punta diritto alla realizzazione dei massimi postulati classisti: la socializzazione immediata delle grandi impre­se economiche d’interesse collettivo e il riscatto integrale del lavoro dal giogo capitalista e nazionalista ».

Su questa linea viene condotta la stampa, dal gennaio fino a tutto il mese di aprile. E via via che la guerra si avvicina alla con­clusione, sempre più si accendono gli animi e si acuiscono le pas­sioni di parte. Le masse popolari — aveva detto quasi due anni prima il comunista Zeffirino Pisoni — sono le uniche, data la loro funzione, ad avere chiaramente delineato il rapporto tra economia e nazione, e ad esse perciò dovrà spettare ogni decisione ultima. Tale affermazione appare ora quasi una profezia, concretata però solo a metà; perchè proprio nelle masse popolari sembra rivolgersi e

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scatenarsi l’azione accaparratrice e quasi sempre demagogica dei gruppi in lotta.

Più facile è il compito delle forze della resistenza slava, soste­nute dalla sempre più massiccia presenza delle proprie aliquote mi­litari inquadrate nell’esercito di Tito, che sta ormai irrompendo verso il cuore del territorio istriano; mentre il C .L.N . locale, a sua volta, si vede costretto ad impostare, accanto a quella antifascista, una polemica anti-jugoslava, non rovesciando del tutto le posizioni preesistenti, ma dovendo per forza maggiore limitare i tentativi di quel « dialogo » che in tanti mesi di cospirazione e in tanti scritti su carta stampata aveva dimostrato di auspicare.

Un manifesto del gennaio — « Operai italiani in guar­dia » (15) — dopo aver esordito con le solite premesse sull’antifa­scismo e sull’unione dei popoli, afferma testualmente: « ... ma ecco che l’esecrato imperialismo nazionalista fa di nuovo capolino e si assiste oggi, specie nei cantieri triestini, ad un’ipocrita propaganda che vorrebbe persuadere gli italiani della Venezia Giulia a rinne­gare la Madrepatria italiana per consegnarsi a una federazione jugoslava ».

Il manifesto « Triestini », privo della data, ma diffuso presu­mibilmente nei mesi di febbraio e di marzo, vuole poi sostenere che è infondata l’asserzione che l'Italia abbia condotto alla rovina eco­nomica della città: « Basterà che ricordiamo come già all’ inizio del­l’attuale conflitto ben 20.000 operai fossero occupati presso i Can­tieri Riuniti dell’Adriatico; ciò significa che quasi centomila perso­ne nella zona ricavano i mezzi di sostentamento dal complesso in­dustriale cui l ’Italia aveva dato vita. Ci accorgeremo ancora che, dove gli interessi di Trieste non furono fatti, fu perchè essi non coincidevano, non col bene supremo della Patria, ma col vantaggio personale di pochi gerarchi, incompetenti e voraci, cui il regime fascista aveva consegnato nelle mani, oltre alla condotta politica, anche il complesso economico di tutto il Paese ».

Un manifestino dell’aprile, indirizzato ai triestini ed al popolo giuliano, afferma che l’ Italia concederà a tutta la Venezia Giulia, Friuli compreso, l’autonomia amministrativa e la franchigia doga­nale « secolare privilegio che l’Austria strappò a Trieste — fino al­lora città franca — nel 189 1... » e « pertanto tutta la regione, nella sua unità, diverrà zona franca commerciale ».

(15) E ’ firmato dal C .L .N . e porta la data del gennaio 1945.

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Un altro manifesto — « Lavoratori triestini » (16) — sostiene la tesi per cui la rovina dell’emporio deriverebbe dalla soluzione ju­goslava: « Perciò abbiamo il coraggio di affermare che l’incorpora­zione di una città italiana quale Trieste in uno stato jugoslavo co­stituirebbe in definitiva la riduzione in schiavitù economica e so­ciale dei triestini, i quali si vedrebbero cacciati e posposti nelle aziende, nelle fabbriche, negli uffici e sulle navi ».

Altri volantini dal tenore quasi identico furono stampati e diffusi in quegli ultimi giorni di guerra. Ma nessuna propaganda valse ormai a frenare il corso degli eventi. A ll’alba del T maggio le prime avanguardie militari dell’esercito jugoslavo entravano a Trieste. Per la stampa del C .L.N . cominciava un altro periodo di clandestinità.

4. La stampa comunista e dell'O. F. - La propaganda a stam­pa dei comunisti e dei gruppi facenti capo all’O. F. fu di un’atti­vità rilevante dal gennaio 1944 e si intensificò durante i mesi estivi e soprattutto nelle successive stagioni autunnale ed invernale, dopo l’affiancamento del partito comunista alle tesi annessionistiche slave.

Parecchi erano i giornali di lingua italiana, parte composti a stampa e parte col sistema del ciclostile; a stampa usciva « Il La­voratore », il vecchio organo socialista fondato nel 1893, poi dive­nuto comunista e soppresso successivamente dal regime autorita­rio (17), « Il Nostro Avvenire», settimanale dei gruppi di mon­tagna uscito nell’ottobre 1944 e il « Corriere Partigiano », pure esso settimanale dall’ottobre 1944, organo delle formazioni parti- giane italiane inquadrate nell’esercito jugoslavo della Slovenia. A ciclostile venivano redatti l’ « Unità Operaia », « La Donna », ri­vista mensile dell’U .D .A.I.S. (Unione donne antifasciste italo-slo- vene) e « Gioventù », organo del Fronte della Gioventù della Bri­gata Garibaldi Triestina, divenuto nel febbraio 1945 portavoce regionale delle organizzazioni giovanili.

Tra i fogli di lingua slovena i più diffusi furono il « Parti-

(16) Firmato dal partito d’Azione e datato 24 aprile 1945.(17) « Il Lavoratore » uscì saltuariamente alla macchia durante il ventennio fa­

scista e riprese quasi regolarmente le pubblicazioni in forma clandestina nel 1943. A Trieste veniva stampato prima nella falegnameria Rumich e poi nella sartoria Toljak. I coniugi Rumich, che ne curavano la pubblicazione, furono scoperti dalle autorità e per tale attività vennero torturati ed uccisi. Il giornale rivide la luce nella legalità nel maggio 1945.

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zanski Dnevnik » poi divenuto « Primorski Dnevnik » (Giornale del Litorale), la « Delavska Enotnost » (Unità Operaia) e il « Glas Mladih » (Voce dei Giovani); questi due ultimi erano le edizioni slovene degli omonimi periodici di lingua italiana (18).

Nella zona affluivano inoltre varie altre pubblicazioni italiane e slovene. Dall’Italia giungevano dopo l'8 settembre P« Unità » e « La Nostra Lotta », organi del P. C. I.; « l’Avanti! », del P. S. L; « Il Combattente » del Comando dei Garibaldini e « La Riscossa », del Fronte della Gioventù. Dalla Slovenia pervenivano lo « Slo- venski Porocevalec » (Informatore Sloveno) e il « Deio » (Lavo­ro) (19)-

La maggior parte di questi periodici, molti dei quali cessa­rono le pubblicazioni alla fine della guerra, è andata distrutta ed il materiale rimasto — come si è spiegato all’inizio di questo capito­lo — è difficilmente reperibile. Si può però cercare di comprenderne l’indirizzo analizzando il contenuto di alcuni documenti che furono divulgati nella regione sotto forma di dattiloscritti verso la fine del 1944 e che furono ripresi e favorevolmente commentati dalla stam­pa di questa tendenza. Questi documenti, disposti in ordine crono­logico, sono: un articolo di Josip Smodlaka, un discorso del Mare­sciallo Tito ed una « lettera aperta » del cap. Gino Marovic; i primi due vennero tradotti in italiano dalla stesura originale slava. Sono importanti perchè rappresentano le prime testimonianze, da fonti ufficiali e qualificate, delle aspirazioni jugoslave su Trieste e sull’intera Venezia Giulia.

L ’articolo di Josip Smodlaka, ministro degli Esteri nel Comi­tato nazionale di liberazione della Jugoslavia, era stato pubblicato nel numero 7-10 della rivista di problemi politici e sociali « Nuova Jugoslavia » (settembre 1944), rivista edita in lingua italiana dalla Sezione Propaganda del Comitato Popolare di liberazione per l’ Istria, e s’intitolava: « Sulla delimitazione dei confini tra la Jugo­slavia e l’ Italia ».

In esso l’autore riepilogava la storia dei rapporti fra i due Stati, dal Patto di Londra del 19 15 al Trattato di Rapallo del 1920 ed al Trattato di Roma del 1924, per dimostrare come la politica attuata dall’Italia prefascista avesse determinato una soluzione antidemocra-

(18) Vedi l’articolo « A proposito di precedenze » sul « Lavoratore » del 4 mar­zo 1947, p. 1.

(19) Vedi l ’articolo di Mario Pacor « Epopea eroica del giornalismo antifascista durante la guerra » sul « Lavoratore » del 1 novembre 1947, p. 3.

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tica e contraria al principio dell'autodecisione dei popoli, soluzione per cui circa « 650.000 slavi meridionali » erano forzatamente pas­sati sotto la sovranità italiana. Lo Smodlaka proseguiva polemiz­zando vivacemente con le teorie del conte Sforza (il quale proprio in quei mesi aveva sostenuto l’opinione che il Trattato di Rapallo offrisse ancora una concreta base di discussione per addivenire ad un accomodamento pacifico della controversia) affermando che per lo statista italiano erano trascorsi invano « 25 anni nelle relazioni tra l ’Italia e gli slavi meridionali » : « E ’ addirittura cieco chi non vede che in Europa le condizioni sono completamente mutate dal tempo in cui la Jugoslavia, sotto il dettato delle Potenze più forti, dovette acconsentire all’amputazione del suo corpo nazionale. La delimitazione dei confini tra noi e l’ Italia si attuerà in condizioni del tutto nuove... L ’ Italia non è più vincitrice... L ’ Italia esce invece come colpevole e debitrice dinanzi al tribunale della giustizia mon­diale... essa ha perduto nel corso della guerra questa provincia per­chè il suo esercito è stato costretto ad evacuarla... se volesse ricon­quistarla ciò sarebbe possibile solo con una nuova guerra... ». L ’au­tore proseguiva esponendo le opinioni di un altro uomo politico ita­liano, il « socialdemocratico » Gaetano Salvemini, che in quegli ultimi anni d’esilio aveva scritto un libro sul problema dei confini orientali dell’ Italia, « What to do with Italy »; di esso il ministro jugoslavo citava alcune righe, là dove il Salvemini riconosceva la presenza di una « compatta popolazione di circa 250.000 slavi » « a oriente di Gorizia e Trieste e a oriente dell’ Istria » e concedeva a questa popolazione il « diritto a distaccarsi dall’ Italia e ad unirsi alla Jugoslavia ».

Secondo lo Smodlaka neppure la linea di confine prospettata in tale maniera, ed in misura approssimativa, dal Salvemini, corrispon­deva ad un principio di assoluta equità « giacche nel territorio da Gorizia al Monte Maggiore, che rimarrebbe in discussione tra la Jugoslavia e l’ Italia, gli slavi meridionali hanno la maggioranza della popolazione... Perciò, se anche tutti gli italiani di queste re­gioni avessero la volontà di rimanere sotto la sovranità dell’Italia (il che è molto dubbio) tuttavia, poiché essi sono la minoranza della popolazione, dal punto di vista democratico del diritto di autodeci­sione dei popoli non si potrebbe giustificare la tesi del Salvemini che questa regione dovrebbe appartenere all’ Italia ».

Proseguendo tale ragionamento, l’articolista concludeva soste­nendo la legittimità delle pretese jugoslave su tutto il territorio del­

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la Venezia Giulia. Rimaneva ancora da trattare il problema di T rie ' ste, città alla quale non veniva disconosciuto il carattere prevaler temente italiano: « Oltre alla lingua e alla cultura, che ha in co­mune con l’Italia, Trieste appartiene sotto ogni riguardo alla parte jugoslava dell’Adriatico: tanto per la sua posizione geografica e per i legami di traffico col retroterra, quanto per le tradizioni ma- rittimo'commerciali... Trieste è uno sbocco marittimo naturale per la Jugoslavia settentrionale e occidentale, come per l’intero bacino danubiano, con il quale può avere legame ancora solamente attira- verso la Jugoslavia... L ’ Italia con l’annessione di Trieste accontentò momentaneamente i sentimenti nazionalistici italiani; ma successe rapidamente la disillusione con l’amministrazione italiana. Motivo principale di codesto scontento era il regresso economico della città... La Jugoslavia porterà alla città una nuova fioritura commerciale. Essa però allo stesso tempo si guarderà dal provocare lo scontento dei triestini su altra linea. Bisogna che gli italiani di Trieste — neh la loro città autonoma sotto la sovranità della Jugoslavia — si sen­tano nazionalmente altrettanto soddisfatti e garantiti come se v i­vessero in un proprio stato indipendente » (20).

Di qualche giorno posteriore allo scritto dello Smodlaka è il discorso che il Maresciallo Tito aveva tenuto nella ricorrenza del secondo anniversario di fondazione di una brigata partigiana. Que­sto discorso ripete, in forma più semplice e meno dettagliata, i con­cetti espressi dal Ministro degli Esteri jugoslavo. Dopo una pre­messa relativa allo sviluppo immediato delle operazioni belliche ed ai successi conseguiti dalle sue truppe nella lotta contro l’occupante tedesco, il Maresciallo Tito diceva testualmente: « Ci avviciniamo al momento in cui sarà necessario parlare di confini della nostra pa­tria. Durante questa lotta non abbiamo mai parlato di ciò. Oggi però debbo dire qualche parola in proposito. La nostra Nazione ha lottato e lotta ancora per la libertà e l’indipendenza, ma lotta an-

(20) A ll’articolo dello Smodlaka, che è uno dei più importanti documenti della propaganda slava dell’epoca, replicava — oltre al già citato opuscolo del Miani sul porto di Trieste — un altro esponente della Resistenza italiana nella regione, Gio­vanni Paladin, con un articolo pubblicato nel febbraio 1945 dalla rivista milanese « 'Lo Stato moderno ». Il Paladin rispondeva allo Smodlaka punto per punto, citando le statistiche dei traffici portuali triestini, analizzando i risultati dei censimenti fatti nella regione in epoche anteriori all’avvento del fascismo, sostenendo la teoria del­l’interdipendenza economica delle varie nazioni europee e rilevando soprattutto (in relazione al benessere futuro del porto adriatico) la preponderante influenza dei Paesi della Mediaeuropa rispetto a quella dei Paesi della penisola balcanica. L ’articolo del Paladin è riprodotto integralmente nel suo volume La lotta clandestina d i Trieste.

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che per la liberazione di quei nostri fratelli che per decine d’anni vivevano sotto il giogo fascista. Questi sono i nostri fratelli del- l’ Istria, del Litorale Sloveno e della Carinzia... Questo è il nostro desiderio ed è anche il desiderio di loro stessi. Non vogliamo nulla di ciò che è straniero, ma non rinunciamo a ciò che è nostro ». Il documento è firmato A .A .N .J. (Associazione degli Amici della Nuova Jugoslavia) e porta la data del 30 settembre 1944.

Di valore inferiore, per quanto riguarda il carattere di « uffi- cialità », ma indubbiamente importante dal punto di vista propa- gandistico, è il terzo documento che qui esaminiamo, la « lettera aperta del cap. Gino Marovic agli amici e conoscenti di Trieste ». Il Marovic, un agente commerciale e marittimo triestino, si era re- cato in territorio occupato dai reparti partigiani jugoslavi, presso la sede del Governo provvisorio della Slovenia, che gli aveva affidato delle mansioni corrispondenti alla sua qualità di esperto marittimo. Quest’uomo intendeva svolgere una funzione mediatrice — o piut­tosto chiarificatrice — tra le aspirazioni ufficiali jugoslave e quelli che egli riteneva fossero gli effettivi interessi economici di Trieste. La sua « lettera aperta », notevole anche dal punto di vista psico­logico, era sostanzialmente indirizzata — al di là della genericità del titolo — ai gruppi della borghesia mercantile ed industriale lo­cale, e tendeva a dissipare i loro sospetti e le loro diffidenze (invero di non recente data) nei confronti di un regime che si presentava sotto forme economiche e sociali del tutto nuove e che la propa­ganda avversaria da anni identificava con il « pericolo rosso », con il « bolscevismo totalitario ed ateo », con il « materialismo dissol­vi tore della civiltà cristiana ed occidentale ».

Nel documento il Marovic smentiva vigorosamente tutto ciò; secondo la sua diretta esperienza, gli jugoslavi avevano instaurato un sistema politico di autentica democrazia, accompagnato ad un sistema economico dove l’iniziativa privata trovava il più ampio sviluppo ed il comuniSmo — inteso nelle formule del marxismo or­todosso — era praticamente inesistente: « ...le mie più ottimistiche previsioni sono state sorpassate...; la libertà del pensiero, della pa­rola, dell'azione, l’assoluto rispetto della proprietà, dalla più grande alla più piccola, sono cose sulle quali non si discute nemmeno...; l’iniziativa privata viene incoraggiata ed aiutata in tutti i modi ». Giustificava poi la tesi jugoslava con i motivi di carattere geografico, etnico ed economico che già si sono visti ampliamente trattati dagli scritti dello Smodlaka e del Maresciallo Tito. Trieste — continua­

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va — « potè assurgere alla sua grandezza e prosperità solo in fun- zione di organizzato blocco marittimo del suo naturale retroterra. La parte più importante e più naturale di questo retroterra sarà domani la nuova Jugoslavia... la prosperità della città ed il benes- sere di tutti i cittadini dipendono esclusivamente da noi che dete­niamo il suo immediato retroterra, attraverso il quale Trieste può comunicare con l’Europa »; perciò si diceva convinto che la Jugo­slavia avrebbe dato tutte le possibili facilitazioni al transito con le tariffe portuali e marittime ed avrebbe ripristinato le massime auto­nomie e libertà alle borse valori e merci.

Per quanto concerneva l’italianità di Trieste, il Marovic di­stingueva tra l’ « italianità imposta » a Trieste nei precedenti ven­ticinque anni, « che non merita davvero di rimpiangere », e l’ « ita­lianità autentica triestina », per la quale diceva non esservi peri­colo alcuno; « Qui tutti sono d’accordo sulla necessità di creare a Trieste un modo di convivenza sulla base dell’assoluto rispetto re­ciproco, in modo che venga finalmente posto fine all’ insensata ed inutile lotta nazionale ».

La lettera del Marovic, che porta anch’essa la data del settem­bre 1944, venne probabilmente diffusa in concomitanza col testo del discorso di Tito, o in periodo immediatamente successivo.

A ll’inizio di questo paragrafo abbiamo dichiarato che ci sa­remmo soffermati con particolare attenzione sugli scritti dello Sino- dlaka, del Maresciallo Tito e del cap. Marovic, perchè li riteneva­mo atti a far comprendere l’indirizzo della stampa comunista del tempo, integrandone così in parte le lacune dovute alla pressoché totale scomparsa della relativa documentazione.

Questa ipotesi è avvalorata da uno dei rari manifesti comu­nisti di cui sia stato possibile rintracciare il contenuto; esso dimostra con chiarezza l’ influenza che i tre documenti sin qui esaminati ave­vano avuto nel determinare la diversione del movimento marxista regionale verso la Jugoslavia, e nell’ improntare quindi del medesi­mo spirito e delle medesime opinioni i suoi giornali clandestini.

Il manifesto, che reca la data del 17 ottobre 1944, sosteneva la possibilità, per le forze partigiane jugoslave, di procedere in breve tempo all’occupazione di tutta la Venezia Giulia, e così si espri­meva in proposito : « Noi salutiamo questa eventualità come una grande fortuna per il nostro Paese ed un grande passo sulla via del­la liberazione... Noi dobbiamo accogliere i soldati di Tito, non solo

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corne dei liberatori allo stesso titolo con cui sono stati accolti nel­l’Italia liberata i soldati angloamericani, ma come i fratelli maggiori che ci hanno indicato la via della rivolta e della vittoria... Essi ven­gono come fratelli perchè non solo i territori slavi da essi liberati, ma anche quelli italiani non saranno sottoposti al regime di armi­stizio, ma considerati come territori liberi, con un proprio autogo­verno rappresentato dagli organismi del movimento di liberazione, nel quale i diritti e le aspirazioni di ogni popolo e di ogni gruppo nazionale trovano immediata e sicura espressione democratica in uno spirito di fraterna solidarietà » (21).

(icontinua)

F r a n c o V e n t u r a

(21) Vedi l’articolo « Il voltafaccia dei comunisti triestini » suH’ « Emancipazione » del 1 maggio 1947, p. 1 . In esso è riprodotto il testo del manifesto.