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97 La solitudine “Poco per volta comincio a vedere chiaro sul più universale difetto del nostro genere di formazione e di educazione: nessuno impara, nessuno tende, nessuno insegna − a sopportare la solitudine”. (Friedrich Nietzsche) I due più grandi doni che il Cielo possa fare a un’anima: silenzio e solitudine. (Marcel Jouhandeau) L e citazioni con le quali apro questo capitolo, rappresentano due differenti modi di guar- dare alla solitudine. Nella prima, il verbo sopportare lascia intendere che la solitudine è un male incurabile (e concordo sul fatto che nella nostra cultu- ra non esiste un’educazione atta a comprenderne gli a- spetti più profondi). Nella seconda, questo particolare stato d’animo è presentato come una benedizione. Avvicinandolo al si-

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“Poco per volta comincio a vedere chiaro sul più universale difetto del nostro genere di formazione e di educazione: nessuno impara,

nessuno tende, nessuno insegna − a sopportare la solitudine”.(Friedrich Nietzsche)

I due più grandi doni che il Cielo possa fare a un’anima: silenzio e solitudine.

(Marcel Jouhandeau)

Le citazioni con le quali apro questo capitolo, rappresentano due differenti modi di guar-dare alla solitudine. Nella prima, il verbo

sopportare lascia intendere che la solitudine è un male incurabile (e concordo sul fatto che nella nostra cultu-ra non esiste un’educazione atta a comprenderne gli a-spetti più profondi).

Nella seconda, questo particolare stato d’animo è presentato come una benedizione. Avvicinandolo al si-

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lenzio, l’autore ne sottende l’aspetto contemplativo ed e-levante per lo spirito umano. Due modi di vedere le co-se apparentemente inconciliabili ma che, in realtà, espri-mono in entrambi i casi realtà concrete; perché se è vero che esiste una solitudine consapevole e mistica è altret-tanto vero che esiste una solitudine disperata e subita.

Questo secondo aspetto della solitudine è una delle co-se più tristi che esistano, anche perché è in diretta op-posizione con la natura reale delle cose: noi non siamo mai soli.

Credo che nemmeno chiusi in una grotta, a seimi-la metri di altitudine, sia possibile sperimentare una so-litudine vera. Se ascoltiamo, se tendiamo l’orecchio in-teriore, percepiamo chiaramente il brulicare di una vita in fermento, tutt’attorno a noi.

Ma poi... solito inganno linguistico, cosa significa es-sere soli? Si può sentirsi tali anche se fisicamente si è sempre in compagnia; per contro, alcune persone vi-vono una sensazione di profonda unità e condivisione, pur essendo fisicamente isolate dal mondo esterno.

La solitudine è sostanzialmente uno stato di co-scienza e non un fatto tangibile e soppesabile. Come la paura, è una sensazione antica, comune a tutto il ge-nere umano. L’uomo cerca di combattere la solitudine prima ancora di comprenderne le origini e ritengo che

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queste origini siano invece l’elemento più importan-te per trasformare la paura di restare soli. Si teme co-sì tanto la solitudine proprio perché, inconsciamente, si percepisce l’esistenza di qualcosa di cui si è parte; co-me un immenso utero da cui l’uomo è nato, del quale non riesce più ad avere chiara memoria e al quale non sa consapevolmente ricongiungersi.

Ma questa vaga percezione è proprio la matrice del-la Possibilità. La paura di essere soli dimostra l’istinti-va conoscenza dell’esistenza di una stato opposto di co-munione.

Dall’unità primordiale alla separazione, sperimen-tando l’illusoria percezione della divisione. D’altro can-to, questo percorso è simbolicamente vissuto da ognu-no anche nel modo di venire al mondo: un lungo pe-riodo di completa simbiosi con la madre, per poi sepa-rarsi da essa e sviluppare nel tempo la percezione della propria individualità.

L’essere umano non sembra fatto per restare solo. Non ritengo che questo dipenda dalla necessità istintiva di proteggersi dall’ambiente; penso invece che sia l’effetto dell’inconscia percezione di un’unità profonda e invisi-bile che lega fra loro tutti i fenomeni e le vite esistenti.

Si usa dire che noi nasciamo e moriamo soli; for-se l’ho affermato anch’io, in alcune circostanze, ma e-sclusivamente per richiamare l’attenzione sulla necessi-

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tà di un’indipendente responsabilità nei confronti di se stessi, perché penso in realtà che veniamo al mondo (al buio e non alla luce, come si è abituati a dire) in com-pagnia e torniamo alla luce ancora in compagnia.

Non ho mai creduto nella solitudine se non come fat-tore psicologico e soggettivo.

Però, anche se questo può sembrare contraddit-torio, sono convinto che per comprendere la natura dell’unità e della condivisione sia utile passare dall’e-sperienza consapevole della solitudine.

Arthur Schopenhauer ha affermato che le persone che non sanno amare la solitudine non amano nem-meno la libertà, perché solo quando si è soli si è vera-mente liberi.

Pretendere di capire il pensiero di un uomo sul-la base di una singola affermazione è presuntuoso e su-perficiale, mi limito quindi a fare una considerazione sulla frase in sé: credo che nel momento in cui si rag-giunge la vera libertà si cessa di essere soli.

La solitudine rende liberi solo quando la interpre-tiamo come una forma di emancipazione dalle costri-zioni dei pensieri e dei sentimenti altrui.

Questo è un aspetto molto importante, secondo la mia opinione. L’uomo cerca la condivisione, l’accetta-zione e la compagnia, per non sentirsi solo e spaventa-to dalla vita; nel farlo, spesso rinuncia alla possibilità di

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sperimentare liberamente sentimenti e pensieri davvero propri, perché li baratta con quelli di coloro a cui chie-de protezione e accettazione.

Quindi è vero ciò che Schopenhauer afferma solo se lo interpretiamo in termini di consapevolezza e non sotto il profilo della solitudine fisica. Per essere liberi non dobbiamo temere la solitudine.

La solitudine in sé, però, non genera libertà (e non è segno di libertà raggiunta); ma la paura di rimanere soli produce sicuramente schiavitù. Per non rimanere sole le persone sono disposte a perdere loro stesse o... a non trovarsi mai.

Ogni essere umano è un mondo a sé e quando tale mondo non riesce o non può comunicare con gli altri sperimenta la solitudine. Quest’ultima non è un fatto concreto e oggettivo ma piuttosto un limite comunica-tivo e, quindi, soggettivo.

Noi siamo antenne aperte al finito e puntate in di-rezione dell’infinito. Siamo fatti per comunicare ma ri-durre la comunicazione ad un fattore puramente sen-soriale è un grave errore. Esistono spazi interiori scon-finati, tramite i quali possiamo comunicare con chi a-miamo ed entrare in contatto con realtà ancora scono-sciute.

Però, non possiamo sperimentare questi spazi se continuiamo a credere di essere separati da tutto ciò

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che non possiamo toccare con mano. Per me, che sin da giovane ho accostato il misticismo e la Meditazione, solitudine è una parola dal suono dolce e caldo.

È sempre esistita una grande differenza tra il mio modo di vivere e quello dei miei coetanei e questo mi ha portato spesso a sperimentare una sensazione di iso-lamento (non perché gli altri mi evitassero ma per una difficoltà nel comunicare il mio modo di sentire la vita e nell’essere compreso). Questa leggera “distanza” dagli altri, però, non mi ha mai portato a sperimentare una vera solitudine, ed esiste una ragione molto precisa per questo.

In un film del 1987, Predator, Arnold Schwarzenegger recita una battuta che io ho sempre trovato esilarante. Si è appena conclusa una battaglia concitata e un suo compagno d’armi, avvicinandosi a lui e notando una ferita abbastanza profonda sulla spalla, gli dice: «Stai sanguinando». In tutta risposta il mitico Arnold gli ri-sponde: «Non ho tempo per sanguinare!».

Beh... posso dire di aver vissuto qualcosa di simile e da questa similitudine nella mia vita deriva la mancata sperimentazione della solitudine come sentimento cu-po e negativo.

In effetti... non ho mai avuto il tempo per sen-tirmi solo, incompreso, non accettato e via dicendo. Benché ritenga di aver vissuto fino ad oggi un’esisten-

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za fortunata e privilegiata, ho logicamente sperimenta-to anch’io (come tutti) la sensazione di essere estraneo a qualcosa oppure di non essere accettato perché enun-ciavo un pensiero diverso dalla “norma”.

Eppure non avevo tempo per sanguinare; ero troppo impegnato a cercare di capire me stesso, gli altri e la vita.

Detto così, suona un po’ autocelebrativo, ma il fat-to è che l’ironica battuta di Schwarzenegger corrispon-de concretamente alla mia esperienza e ne parlo perché voglio sia chiaro che non enuncio concetti basati su teo rie intellettuali, ma forti dell’esperienza personale.

Si tratta di qualcosa che ho conquistato sul cam-po; ne vado abbastanza fiero e so di poterlo insegnare a mia volta.

La solitudine derivata dalla sensazione di non trovare “corrispondenza” da parte degli altri può essere com-battuta dall’impegno nel capire perché questo accade. Ritirarsi in un angolo, piagnucolando perché siamo in-compresi nella vita, è un atteggiamento debole e poco produttivo.

Occorre invece una buona dose di ottimismo e al-legria perché tutta l’esistenza è un insieme di cause ed effetti da studiare (con qualche spruzzata di casualità, che non guasta mai). Se ci sentiamo soli esistono delle motivazioni. Se siamo soli davvero... anche. È meglio allora concentrarsi per capire le ragioni di queste con-

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dizioni, piuttosto che chiudersi sempre più nelle pro-prie convinzioni.

“Questa sera mi sento solo come un cane! Lo so-no di fatto... vivo da solo. Oltre ad essere un single in-callito, ho pure litigato malamente con chi di solito mi riem piva la vita. Povero me!”.

Ok! Prendi ed esci di casa! Chiacchiera con il ben-zinaio, col barista, col vicino di casa! Ma attenzione... non importunarli, non gettargli addosso i tuoi pesi, non lamentarti! Cerca piuttosto di conoscerli, ascoltar-li, divertirli.

La miglior cura per la solitudine è: essere simpati-ci, leggeri e divertenti. Chi vuole trascinarsi dietro un mattone da ottanta chili?

È questo ciò che intendo per non avere il tempo di sanguinare: non piangerti addosso, non attendere che gli altri ti cerchino, ti desiderino, ti amino, ma piutto-sto muoviti tu stesso verso la vita.

Sono consigli semplici? Troppo semplici? Per nulla fi-losofici? È vero. È assolutamente vero! Nel tempo ho compreso che, alla fine di un lungo percorso di indagi-ne, si scopre che la semplicità nasconde spesso (anche se non sempre) le soluzioni più efficaci e vicine alla ve-rità delle cose.

La solitudine, o meglio il senso di solitudine, è sem-pre accompagnato da una montagna di considerazioni,

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pensieri, rimpianti, timori, giudizi. Tutte cose inutili: un fardello pesantissimo da cui liberarsi il prima pos-sibile.

Quando siamo impegnati a cercare di comprende-re il perché delle cose ci rimane davvero poco tempo da dedicare ai rimpianti, al giudizio e all’autocommisera-zione. La lapidazione degli altri e l’autolapidazione, so-no occupazioni per chi ha molto tempo a disposizione.

Ma... la solitudine come aspetto positivo? Come cura per l’anima? Come esercizio per la contemplazione del-la Verità? Benché io non abbia mai creduto nella ricer-ca del vero in termini di isolamento dal mondo, quella solitudine e quel silenzio di cui parla Marcel Jouhande-au (come dono del cielo), sono certamente una benedi-zione per chi è capace di sperimentarne la dolcezza le-nitiva.

Ho imparato questa lezione da ragazzo, perché ho avuto la fortuna di nascere in una famiglia con una modesta disponibilità economica; questo mi ha impe-dito di vivere alcune esperienze che avrei desiderato in-vece fare.

Con questa affermazione non voglio essere frainte-so; non sono fra coloro che ritengono che la privazione renda più uomini. Credo invece che i bambini dovreb-bero essere il più possibile liberi di navigare verso le ac-que che spontaneamente li attirano.

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Nel mio caso, desideravo tantissimo poter seguire quello che all’epoca era il mio maestro di Zen, il qua-le si recava spesso a Parigi per praticare dei ritiri di me-ditazione con Taisen Deshimaru; purtroppo, la mia di-sponibilità economica mi concesse di fare questa espe-rienza una sola volta.

Prima di quell’occasione, rimasi ripetutamente a casa, riempiendo la mia mente con l’immaginazione di come sarebbe stato bello e interessante essere in quei luoghi.

Posso ben capire che, in qualità di esempio sulla so-litudine, possa apparire per lo meno bizzarro; ma si de-ve tener presente che per me, da giovane, la pratica del-la Meditazione e la ricerca interiore erano la cosa più im-portante in assoluto.

Naturalmente non ero un “santo” (fortunatamente non lo sono diventato nemmeno in seguito) e quindi e-sistevano altre cose che mi attiravano, ad esempio il sesso e la pizza (anche se l’associazione non credo sia condivi-sibile su larga scala).

Devo dire però che il sesso non mi mancava e la piz-za... beh, forse non ne ero così passionalmente innamo-rato, perché l’astinenza da questa superba e semplice manifestazione di arte culinaria partenopea non mi ha mai prodotto un pronunciato senso di solitudine (for-se una lieve ma recuperabile disperazione emotiva). Co-munque, fu in una delle volte in cui rimasi a casa, una in

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cui il mio desiderio di andare era davvero forte, che spe-rimentai – a mio ricordo per la prima volta – la trasfor-mazione della solitudine e dell’abbandono in qualcosa di straordinariamente e intensamente dolce.

Per questo ritengo di esser stato fortunato nel non a-ver avuto la disponibilità economica per fare quell’espe-rienza; se fossi partito mi sarei privato di ciò che ancora oggi ricordo con vivida emozione.

Avevo acceso un incenso e mi ero seduto a gambe in-crociate per praticare zazen. Come sempre, dedicai alcu-ni minuti per centrare la posizione e prendere coscienza della respirazione naturale. Dopo qualche tempo, iniziai a focalizzarmi sulla corretta tecnica respiratoria.

Tragedia: non riuscivo a concentrarmi. Volevo colle-garmi interiormente al mio insegnante e al luogo in cui si trovava ma ero a mala pena in grado di mantenere la mente ferma, attenta al respiro e alla posizione.

Dopo circa quindici minuti decisi di smettere (non che fossi molto eroico nella pratica). Mi sedetti più co-modamente e cominciai a guardare il fumo dell’incen-so, immerso in pensieri poco edificanti, dovuti al fatto che non ero potuto partire. Rimasi così per circa dieci o quindici minuti e poi... accadde.

Un raggio di sole penetrò la finestra della mia stan-za e il fumo dell’incenso, salendo lentamente, si tra-sformò in una poesia di pacati riflessi.

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Osservai sorridendo e il sorriso sorse da sé. Dimen-ticai il ritiro a cui non ero potuto andare, la tensione e il senso di isolamento che avevo provato e fu come se le volute di fumo mi assorbissero in uno spazio di lu-ce delicata, in cui un profondo inspiro mi aprì il tora-ce e il cuore.

Inaspettatamente sentii esplodere internamente un’illogica felicità. La mia mente si mise in moto, chie-dendosi cosa stesse accadendo. Lo fece in modo calmo, curioso, indagatore. Non erano pensieri inopportuni.

La felicità immotivata andava crescendo e con essa una stranissima e forte sensazione di amore e unità. U-nità con cosa? Con Chi? Non saprei proprio dirlo.

Non esisteva nulla e nessuno a cui sentirmi unito, se non l’intero universo. Capisco bene che queste paro-le suonano uguali a migliaia di altre che si possono leg-gere in tanti libri; eppure questo è esattamente ciò che provai. Quella fu “la mia prima volta” e la sensazione divenne tanto intensa da sfociare in un pianto di gioia.

In seguito sperimentai molte altre volte tale vasto stato di unità. La Meditazione è la via più diretta per ottenere questa esperienza.

Sentirsi soli, quando tutta la vita attorno si sviluppa nella ricerca del rumore, del movimento e della com-pagnia, attuati per fuggire la sensazione della solitudi-ne, non è una cosa gradevole. Non lo è per nessuno.

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Siamo troppo abituati a correre e produrre suoni (non sempre armonici) per amare il silenzio e l’immobilità.

Non condivido le parole di Nietzsche, il quale af-ferma che dovrebbe esistere un’educazione mirante ad insegnare come sopportare la solitudine.

Ritengo invece che dovrebbe esistere un’educazio-ne che insegni ad amare la solitudine come un aspet-to della vita.

In alcuni momenti possiamo essere soli, in altri no; ma il concetto stesso di solitudine fa parte dell’esisten-za. In fondo, ogni volta che operiamo una scelta per-sonale, in maniera consapevole e non influenzati o so-spinti da pareri esterni, sperimentiamo un aspetto posi-tivo della solitudine.

La solitudine non è solo negativa; anzi, a dire il vero, non dovremmo considerarla negativa o positiva, ma semplicemente un’espressione pura della vita; come lo sono il giorno e la notte, il freddo e il caldo, il riposo e l’attività.

Se impariamo a non criticare e rifiutare ciò che spe-rimentiamo nel corso di un’esistenza possiamo arrivare a comprendere e amare le ragioni di molti stati d’ani-mo che la cultura popolare considera negativi, ma che sono semplici sfumature della realtà.

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