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La sinistra tra nazionalismo, internazionalismo e cosmopolitismo
PICCOLA PREMESSA
Oggi ha un vasto successo l’idea che “destra” e “sinistra” siano distinzioni
superate. Penso che questa sia un’idea di destra. Naturalmente, parlando del
passato quanto del presente, l’identificazione dei soggetti, dei campi e degli eventi
riferibili a “sinistra” è affidata alla fatica della ricerca e della interpretazione storica.
Di che cosa parliamo, esattamente, quando diciamo “sinistra”? Certamente, nei
secoli XIX e XX -dopo la frattura determinata nel secolo XVIII dalla Rivoluzione
Francese, con il suo annuncio epocale: libertè, égalitè, fraternitè- parliamo dei
movimenti politici comunisti e socialisti, dei movimenti mutualistici e sindacali che
hanno organizzato il lavoro salariato, delle culture teorie dottrine ad essi collegate.
Ma in Europa non si può prescindere dall’anarchismo, né dai vasti mondi del
liberalismo democratico, del radicalismo, dell’azionismo. E tantomeno dagli impulsi
umanitari, solidaristici e sociali di origine religiosa. E negli Stati Uniti? Il Partito
democratico non è propriamente “sinistra”, ma ciò non impedisce per esempio che
gli States possano essere stati tappezzati recentemente da manifesti tipo: “Obama
marxist”, “Obama socialist”, “Obama communist”, quando il Presidente in carica ha
tentato di realizzare politiche di temperamento delle diseguaglianze sociali, né
impedisce che dalle ali liberal e radical nordamericane venga un flusso intenso di
cultura critica verso la società e l’economia capitalista. Certamente appartengono a
pieno titolo alla storia politica della sinistra, se si tiene lo sguardo sul mondo,
soggetti come il brasiliano “Partito dei lavoratori” o l’African national congress di
Mandela. E certamente hanno avuto una impronta di sinistra una parte importante
dei movimenti di liberazione nazionale che hanno chiuso nel secolo scorso l’età
coloniale, lasciandosi tuttavia dietro una lunga scia di incertezza che ha trasformato
molte delle aree decolonizzate in epicentri di crisi e di instabilità: pensiamo
all’Africa e al Medio Oriente. E il “Partito comunista cinese”, protagonista di uno dei
più importanti eventi del ‘900, oggi alla testa della potenza nazionale ad economia
capitalista che contende l’egemonia mondiale agli Usa?
Già la prima parola del titolo della relazione assegnatami meriterebbe dunque
una relazione interpretativa. Dovendo però parlare della sinistra in un tempo
ragionevole, proverò a ritagliare la mia riflessione nello spazio italiano ed europeo,
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per mettere infine in luce le questioni essenziali che, alla fine di un lungo percorso
storico, stanno di fronte alla sinistra di oggi.
Aggiungo che, se la prima è problematica, le altre tre parole –Nazionalismo,
Internazionalismo, Cosmopolitismo- sono analiticamente insufficienti. Bisogna
aggiungerne una quarta: Globalizzazione. Viene affrontata in altri momenti di questo
corso, dedicato alla “Crisi degli Stati nazionali”, ma qui parola e concetto mi sono
assolutamente essenziali.
Vorrei infatti sostenere due tesi:
1. Con la pace di Westfalia del 1648 (quasi cent’anni dopo la pace di Augusta ,
dove si era stabilito il principio del cuius regio eius religio), che chiuse la
Guerra dei Trent’anni, com’è noto venne a definirsi in Europa il quadro
fondamentale (salvo l’Italia…) degli Stati nazionali sovrani. Con la
globalizzazione moderna si è perso l’aggettivo sbagliato: “sovrani”.
L’economia oggi domina il mondo in assenza di un potere politico –nazionale
e sovranazionale- di pari potenza.
2. La bruciante accelerazione realizzatasi, al culmine di due secoli di capitalismo,
nell’ultimo quarto del ‘900, e chiamata appunto “globalizzazione”, ha gettato
uno sguardo di Medusa sulla sinistra europea, tanto più su quella italiana, e
l’ha impietrita. Tale pietrificazione non è irreversibile, ma rappresenta uno dei
principali problemi strategici dei tempi nostri.
RIVOLUZIONI E GUERRE
L’dea cosmopolita nasce nella Grecia classica, prima di Cristo. Cosmopolita è
certamente il cristianesimo delle origini, che imprime un tratto indelebile in tutta la
cultura successiva. Civis totius mundi si dichiarerà Erasmo da Rotterdam, quando
rifiuterà la cittadinanza onoraria offertagli dalla città di Zurigo. Ma il secolo del
“cosmopolitismo” è il ‘700, l’età dei Lumi che precede la Rivoluzione Francese. Per
Voltaire la “patria” è là dove “c’è la libertà”, là dove “si vive felici”. L’Illuminismo è
cosmopolita (naturalmente un cosmopolitismo che si appoggia su una fortissima
base nazionale); il romanticismo elabora all’opposto l’idea di patria e di Nazione. Ed
è esattamente tra Settecento ed Ottocento che prende forma il capitalismo, con il
macchinismo e la Prima rivoluzione industriale, e la cosmogonia di idee politiche
dell’età moderna. La complessità sale di livello: questa è l’età che fa da incubatore
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alle “tre società” (“economica”, “politica” e “civile”), strutture fondamentali
(compresi i partiti politici) entro le quali si accenderà la lotta da cui scaturirà il
mondo attuale.
Dopo la Rivoluzione francese e la Restaurazione, passaggio cruciale è il 1848,
anno di rivolte e tentate rivoluzioni in tutta Europa. L’anno in cui viene pubblicato il
documento che avrà una profondissima influenza su tutta la storia successiva della
sinistra, europea e mondiale: il “Manifesto del partito comunista” di K.Marx e F.
Engels. Leggiamo un famoso passo: “Sfruttando il mercato mondiale la borghesia ha
reso cosmopolita la produzione e il consumo di tutti i paesi. Con gran dispiacere dei
reazionari, ha tolto alle industrie la base nazionale. Le antichissime industrie
nazionali sono state e vengono, di giorno in giorno, annichilite. Esse vengono
soppiantate da nuove industrie, la cui introduzione è questione di vita o di morte per
tutte le nazioni civili, industrie che non lavorano più materie prime indigene, bensì
materie prime provenienti dalle regioni più remote, e i cui prodotti non si consumano
soltanto nel paese, ma in tutte le parti del mondo. Al posto dei vecchi bisogni, a
soddisfare i quali bastavano i prodotti nazionali, subentrano bisogni nuovi, che per
essere soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani: In ogni luogo
all’antico isolamento locale e nazionale, per cui ogni paese bastava a se stesso,
subentra un traffico universale, una universale dipendenza delle nazioni l’una
dall’altra. E come nella produzione materiale, così anche spirituale. I prodotti
spirituali delle singole nazioni diventano patrimonio comune: L’unilateralità e la
ristrettezza nazionale diventano sempre più impossibili, e dalle molte letterature
nazionali e locali esce una letteratura mondiale”.
Ed ecco la conseguenza pratica e politica: “Proletari di tutto il mondo unitevi!”. Al
“cosmopolitismo” del capitale si contrappone l’”internazionalismo” del proletariato.
Il primo tentativo di concreta organizzazione continentale delle forze
rappresentative dei movimenti operai cresciuti su basi nazionali, fu l’Associazione
Internazionale dei Lavoratori (la Prima Internazionale), calderone ribollente, dove si
sedettero fianco a fianco, e per lo più si combatterono, Marx e Bakunin, Proudhon e
i mazziniani italiani. Nata nel 1864, fu sciolta nel 1876, dopo la sanguinosa
repressione della Comune di Parigi, ma soprattutto dopo l’imprevista piega che nella
seconda metà dell’’800 era venuto prendendo il “cosmopolitismo” del capitale.
La nuova piega deriva dai caratteri della Seconda rivoluzione industriale nella
seconda metà dell’’800. La Seconda rivoluzione industriale allarga rapidamente il
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mercato capitalista. Ma come il capitalismo della Prima era stato cosmopolita e
liberoscambista, il capitalismo della Seconda è nazionalista e protezionista. Per
competere su mercati sovranazionali sempre più affollati, le economie nazionali
puntano al rafforzamento dei mercati interni, sempre più trainati dalla
militarizzazione. Se provate a contare le guerre “locali” lungo le frontiere di Stati e
imperi (anche la nascita dello Stato unitario italiano si configura quale guerra alla
periferia dell’impero austro-ungarico), il periodo tra il 1850 e il 1914 appare come
una lunga preparazione alla guerra che, per la prima volta nella storia umana, sarà
definita come “mondiale”. Le ideologie, naturalmente, seguono. Lo sciovinismo
francese (che partorì il clamoroso e illuminante “Affare Dreyfus”), piuttosto che il
culto della “Preussentum” pangermanica, sempre più intrecciato al mito della razza,
furono al tempo stesso espressioni delle classi dirigenti e di quei processi che
George Mosse chiamò “nazionalizzazione delle masse”. Erano componenti essenziali
delle politiche coloniali e imperiali di tutte le maggiori potenze europee.
Naturalmente la formazione di una sempre più ampia classe di lavoratori
salariati, e l’andamento ciclico dell’economia capitalistica, con frequenti crisi da
sovrapproduzione (crisi, come quella del ’73, dai durissimi effetti sociali), ebbe vasti
effetti politici. Nascono, con il Movimento operaio, i partiti socialisti,
socialdemocratici e laburisti, tra i primi anni ’70 e la fine del secolo. Partiti che si
riuniscono nella Seconda internazionale, fondata a Parigi nel 1889.
Marx –morto nell’83- aveva fatto in tempo a vedere nascere il Partito
socialdemocratico tedesco, e ad esprimere il suo dissenso nella “Critica del
programma di Gotha” (unico testo, tra l’altro, in cui compare l’espressione
“dittatura del proletariato”). Ma, al momento della nascita, il movimento socialista è
comunque fortemente legato al marxismo: il principale tratto d’unione è
esattamente l’internazionalismo, che, all’avvicinarsi del giro di boa del ‘900, viene a
collidere sempre più con lo spirito dei tempi.
In Italia il Partito socialista nasce nel 1992. Il nazionalismo italiano
postrisorgimentale, covato nelle prime avventure coloniali nel corno d’Africa, si
manifesta politicamente nel 1910 con l’Associazione Nazionale Italiana di Corradini e
Federzoni, ed ha un ruolo molto importante nella guerra di Libia. Corradini è l’autore
cui più si deve una decisiva operazione di “spostamento”: “proletarie non sono più
le classi, ma le nazioni”. Con questo spostamento l’influenza del nazionalismo si
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allargò oltre i confini della destra storica. Ed ecco, per esempio, Giovanni Pascoli
commentare l’invasione italiana della Libia: “La Grande Proletaria si è mossa”…
Il nazionalismo di guerra, insomma, travolge l’internazionalismo ottocentesco. La
Prima internazionale si era sciolta nel 1876. La Seconda finisce nel 1914. Nell’agosto
1914 si votano in molti parlamenti nazionali gli stanziamenti di guerra: ebbene, gli
unici a votare contro sono due socialdemocratici in Serbia, e in Russia quattordici
socialdemocratici e undici laburisti del partito di Kerenskij.
In Italia, il grosso della sinistra parlamentare di allora si schiera su una linea
neutralista. Ma l’argine regge poco. Lo rompono i “sindacalisti rivoluzionari” e
Benito Mussolini, direttore dell’Avanti. Il nucleo (il ”fascio”: è allora che viene
coniata l’espressione) degli interventisti del ’15 sarà il nucleo dei fondatori del
fascismo.
Dalla Prima guerra mondiale escono una pace, la pace di Versailles (che creerà le
precondizioni dello scoppio della Seconda guerra mondiale), e una rivoluzione: la
Rivoluzione sovietica del ’17. Si tratta di una rivoluzione nazionale (promossa da
Lenin e da i “bolscevichi”, cioè l’ala di maggioranza del Partito Operaio
Socialdemocratico Russo), dotata di una potente ambizione globale. Nel 1918 i
bolscevichi danno vita al primo partito comunista. Nel marzo del ’19 nasce il
“Comintern” (Kommunistische Internationale, Internazionale Comunista: il tedesco
era la lingua ufficiale). Sulla sua scia, negli anni immediatamente successivi,
vengono fondati ovunque Partiti comunisti, prevalentemente da scissioni di partiti
socialisti, socialdemocratici e laburisti usciti malridotti dalla guerra. Ridotto in
cenere dai nazionalismi, rinasce a sinistra l’internazionalismo. L’aspettativa è quella
di una imminente Rivoluzione mondiale. Dunque la rottura con il parlamentarismo e
il “riformismo”. (Noto che la parola “riformismo” ha qui un significato pregnante,
diversamente dall’ossessivo e generico riferimento evocativo che se ne fa oggi).
Ma le cose andarono un po’ diversamente.
Da una parte il carattere assolutamente transnazionale del movimento comunista,
radicato in tutti i continenti e centralmente collegato, si presenta come il “primo
network politico- mondiale su scala globale” (S. Pons), dall’altro la deriva dispotica,
imperiale e nazionalista del regime sovietico lo trasformano precocemente in un
campo di forze intorno ad uno Stato. Nel frattempo, mentre ad oriente Stalin liquida
tutti gli avversari, cominciando da Trotzky, al termine di una aspra battaglia
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esattamente intorno all’orizzonte geopolitico di una rivoluzione di sistema
(nazionale o mondiale? Trozky, esiliato, fonderà nel 1938 una Quarta
Internazionale), ad Occidente la profondissima crisi economica, sociale e morale che
segue la guerra (solo dopo un’altra guerra, nel 1951, la produzione tornerà ai livelli
del ’13!) apre la strada ai regimi autoritari di massa di Italia e Germania. Dal melting
pot culturale del primo dopoguerra (con Mussolini parte del socialismo partecipa
attivamente alla edificazioni del fascismo; il movimento di Hitler si chiama nazional-
socialismo, e la svastica campeggia su campo rosso), fascismo e nazismo pescano gli
assi del nazionalismo, della xenofobia, del militarismo, del mito fondativo della
superiorità della razza. Tutto materiale non nuovo, ma ricombinato in una forma del
tutto inedita. E che, già a partire dagli anni ’20, prepara il peggio. (E non costituirà
certo un ostacolo alla marcia della guerra il platonico tentativo del presidente
americano Woodrow Wilson di prevenire i conflitti istituendo la “Società delle
Nazioni).
Come è stato possibile? E quali problemi, storici e politici, pone l’imprevista
novità? Sono le domande intorno alle quali ruotano i Quaderni del carcere di
Antonio Gramsci. L’Italia è stata Nazione molto prima di essere Stato. Nella carta
d’Europa che risulta dalla pace di Westfalia del 1648 si vedono distintamente quasi
tutte le nazioni attuali. La Germania è ancora una galassia nata dall’esplosione del
Palatinato. Ma l’Italia non c’è proprio. Ci vogliono più colori per identificare entro i
loro confini gli staterelli dello stivale di quanti non occorrano per il resto del
continente. La coscienza di Nazione è data essenzialmente dalla lingua colta comune
agli intellettuali (e incomprensibile al volgo), e dalla straordinaria eredità culturale
dei secoli precedenti (Galileo Galilei è morto da sei anni). Il Italia Illuminismo e
Rivoluzione francese, che cambiano la storia d’Europa, arrivano con la –breve e
rapidamente repressa- Rivoluzione napoletana del 1799, e con le armate
napoleoniche. Gramsci distingue intellettuali e popolo. Scrive nella “miscellanea” del
Quaderno 3 (1930): <Gli intellettuali italiani sono cosmopoliti, non nazionali (..)Un
altro elemento da esaminare è il così detto “internazionalismo” del popolo italiano.
Esso è correlato al concetto di “sovversivismo”. Si tratta in verità di un vago
“cosmopolitismo” legato a elementi storici ben precisabili: al cosmopolitismo e
universalismo medievale e cattolico, che aveva la sua sede in Italia e che si è
conservato per l’assenza di una “storia politica e nazionale” italiana. Scarso spirito
nazionale e statale in senso moderno>. Gramsci fa risalire lo “sciovinismo” nostrano
a questo vizio d’origine. Il fascismo l’ha sfruttato al meglio. L’”internazionalismo”
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comunista e socialista, privo di solide basi nazionalpopolari, è stato sbaragliato.
Conclusione: cosa deve essere la rivoluzione italiana? Deve essere una riforma
intellettuale e morale, che postula una riforma economica. Cito estesamente
Gramsci non solo perché fu il primo segretario del PCd’I, ma perché è ancora oggi
l’autore italiano del ‘900 più tradotto e studiato nel mondo, e perché getta il primo
nucleo di una critica dello stalinismo (Stalin nei Quaderni è sempre citato con lo
pseudonimo de “Bessarione”, e pour cause, essendo Bessarione il cardinale che, nel
1438 a Firenze, fece l’ultimo tentativo, fallito, di riunificare la Chiesa d’Oriente e la
Chiesa d’Occidente).
La Seconda guerra mondiale si accese tra nazioni ad economia capitalista e regime
politico democratico, alleate dell’Urss (dove Stalin si era liberato di tutti gli avversari
e nel 1936 era passato alla fase del terrore interno), e nazioni ad economia
capitalista e regime politico totalitario. La sinistra socialista, comunista. azionista e
anarchica si ritrovò (non senza drammatici conflitti), prima nella partecipazione
internazionalista alla guerra civile spagnola, poi nei Fronti popolari e nella
Resistenza, in particolare in Italia e in Francia. Com’è noto nella Resistenza
convissero due anime: una internazionalista, orientata ad un radicale cambiamento
sociale, l’altra nazionale e patriottica. Il patriottismo partigiano non fu una variante,
ma un antidoto al nazionalismo di guerra.
DOPO LE GUERRE: NAZIONI, SOVRANAZIONI, GLOBALIZZAZIONE
La grande gelata della guerra fredda tornò a separare le componenti fondamentali
della sinistra in tutta Europa. Anno cruciale il ’56, l’invasione sovietica dell’Ungheria.
Ma il dopoguerra nascondeva molte sorprese. La prima è il boom economico
determinato da un nuovo compromesso tra capitale e lavoro. Da quella
straordinaria riforma di sistema che fu l’Welfare, lo Stato sociale. La preparazione
era stata lunga. Era cominciata, dopo la grande crisi del ’29, con le politiche
keynesiane e il new deal roosveltiano. Proseguita, ancora nell’anno più terribile della
guerra, il ’42, con il piano di lord Beveridge. Il piano prevedeva tre obiettivi: 1)un
sistema di previdenza sociale; 2)un sistema di previdenza sanitaria; 3)politiche attive
di riduzione della disoccupazione. Lo sviluppo dello Stato sociale avvenne su scala
nazionale, possedendo però una formidabile portata universalistica e cosmopolita.
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Borghesia liberaldemocratica, movimento operaio e sinistre politiche, proprio negli
anni della divisione del mondo in due campi radicalmente avversi, trovarono,
soprattutto in Europa, la strada di un cambiamento sociale e politico fondato al
tempo stesso sul mercato e sull’intervento pubblico dello Stato. Hobsbawn
attribuisce un merito speciale all’esistenza stessa di un blocco antagonistico
sovietico, cioè alla permanenza di un’onda internazionalista, altri –forse più a
ragione- al ruolo attivo della socialdemocrazia. Che nel 1951 aveva rifondato a
Francoforte l’Internazionale socialista: antisovietica e filo-occidentale, ma ancora
legata al marxismo delle origini (la cui maggior forza, la Spd, solo nel ’59, con il
congresso di Bad Godesberg, abbandonò espressamente il marxismo).
Continuarono così a lungo a fronteggiarsi due internazionalismi: quello
cominternista e quello socialista. Ma per i partiti della sinistra italiana –che avevano
dato un contributo decisivo alla stesura della Costituzione , dunque alla nascita in
Italia della democrazia moderna, contributo che li aveva indissolubilmente legati alla
storia nazionale postfascista- le cose furono alquanto più complicate.
Da una parte il Psi di Nenni tardò ad aderire alla Internazionale socialista.
Dall’altra il Pci andò delineando, già con Togliatti, una “via nazionale”. Fino al ’68
cecoslovacco il legame con Mosca non fu mai in discussione. Dopo, la “via nazionale
italiana” diventò, nel quadro del movimento comunista internazionale, una vera e
propria “eresia”. Berlinguer portò all’estremo limite l’autonomia del Pci (la
“democrazia valore universale”, “la fine della spinta propulsiva delle società
dell’est”, “l’ombrello della Nato”, la candidatura di Altiero Spinelli, l’autore del
Manifesto di Ventotene nel quale già negli anni ’40 si immaginavano gli “Stati uniti
d’Europa etc.). Ma ci volle l’89. La caduta del muro di Berlino, il collasso dell’Urss e
del suo blocco, la fine del Movimento comunista internazionale, lo scioglimento del
Pci, perché il Pds, con il consenso infine di Bettino Craxi, aderisse nel 1992
all’Internazionale socialista.
Nel frattempo stava succedendo qualcosa di fondamentale per noi
contemporanei: il capitale “cosmopolita” stava diventando globale. E “globale” non
ha solo il significato di una inedita estensione territoriale: è il codice del formidabile
salto di complessità del sistema.
L’epicentro della accelerazione sono due nazioni: Stati Uniti e Gran Bretagna.
Reagan e Thatcher, la destra liberista al potere: “Il governo non è la soluzione, il
governo è il problema”; “La società non esiste, esistono gli individui”… Sarebbe
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sommamente sbagliato pensare alla globalizzazione come ad un
neocosmopoliltismo particolarmente intraprendente. Si tratta di una catena di
concretissime decisioni politiche che , nell’arco di un quindicennio, determinano la
finanziarizzazione dell’economia. E che, partite da destra, coinvolgono la
responsabilità prima dei democratici americani, poi della sinistra europea, a metà
degli anni ’90 al governo di tredici degli allora quindici Paesi dell’Unione europea.
Travolti gli accordi di Bretton Woods (1944), si comincia con l’incondizionata
apertura delle frontiere ai capitali e si finisce con la “banca universale”, cioè con la
decisione di Clinton (decisione la cui critica era stata uno dei cavalli di battaglia nella
campagna elettorale di Obama) di abolire la distinzione tra banche di risparmio e
banche di affari. Acceso il motore, il capitale finanziario –assolutamente tax free- è
entrato in regime di “autodichia”: si è fatto le sue leggi da sé, riducendo d’un colpo
la sovranità delle nazioni e l’autonomia della politica.
( Ci fu persino chi, con sguardo lunghissimo, aveva visto in anni lontanissimi certe
tendenze: per esempio Rudolph Hilferding, socialdemocratico tedesco, con il suo Il
capitale finanziario, che è del 1910. Ai tempi nostri, tra i pochi che hanno capito che
cosa stava accadendo sono, a partire dalla manifestazione di Seattle in occasione del
vertice del WTO nel 1999, i movimenti “No Global”, al cui centro è stata la richiesta
della introduzione della Tobin tax).
I caratteri fondamentali del Finanzcapitalismus sono la velocità e la liquidità. La
Velocità è data dalla piena assunzione delle tecnologie informatiche: l’web. Le
transazioni si vanno riducendo a intervalli di cinque millesimi di secondo. La liquidità
è data dalla possibilità di finanziare il capitale con i risparmi dei cittadini del mondo
intero e dalla estrazione di plusvalore da tre miliardi di lavoratori salariati: l’unico
campo in cui la concorrenza agisce illimitatamente è quello del lavoro. Ogni giorno
viene scambiata una quantità di denaro equivalente a dieci volte la ricchezza
prodotta. Lo stock dei derivati in circolazione –dopo la crisi del 2007 provocata dalla
bolla immobiliare americana, affrontata con forti incrementi dei debiti sovrani negli
Usa e in Europa- è pari a dodici volte la ricchezza prodotta ogni anno dall’intera
umanità.
E’ vero che una parte dell’umanità è uscita dalla povertà assoluta, in Asia, in
America Latina ed anche in Africa. Ma i principali effetti di questo processo sono
due: 1) Il primo è economico-sociale: una crescita della diseguaglianza senza
precedenti. Nel mondo lo 0,5% della popolazione detiene secondo le stime più
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recenti 69 trilioni di dollari; il 68% detiene 8 trilioni. Tanto che, per esempio, W.
Reich, che è stato ministro del governo Clinton, ritiene inadeguata l’espressione
“diseguaglianza”, e propone una più adeguata “secessione dei ricchi dal resto
dell’umanità”. 2) Il secondo effetto è politico: la potenza economica sovrasta i
poteri delle politiche nazionali. Non c’è stato alcun processo di integrazione politica
sovranazionale parallelo al costituirsi del potere economico-finanziario trans-
nazionale. Nemmeno in Europa, dove l’Unione è restata un mercato, una moneta,
una concertazione intergovernativa. Così, la democrazia stessa, figlia di due secoli di
storia, rischia il rapido deterioramento e il declino. Sostituita spesso da tecniche di
manipolazione dell’opinione pubblica, da reti di poteri extraistituzionali, dal
populismo.
In Europa, la sinistra ha subito o condiviso questa globalizzazione. Decisiva è
stata, anche per i recenti sviluppi della sinistra italiana, la spinta venuta dal Labour di
Blair e dalla Spd di Scroeder negli anni ’90: la “Terza via”, la Left of center, la sinistra
come Neue Mitte. Valga per tutte, per capire gli effetti della presa egemonica del
capitale finanziario, una citazione di Tony Blair del 2008, tratta da una intervista a El
Paìs: “Il ventunesimo secolo è un ‘era nuova, di grandi cambiamenti, e richiede una
nuova politica, destra e sinistra sono concetti vecchi, non ci dovrebbero più essere,
la differenza sta nella apertura o nella chiusura alla globalizzazione”.
Si chiude così il cerchio di una sinistra che nacque nazionale e internazionalista,
che nel ‘900 si affermò come rappresentante del lavoro e portabandiera dello Stato
sociale, e che agli albori del ventunesimo secolo si trova in grave difetto di analisi, di
teoria, di rappresentanza sociale, di politica.
E’ evidente quello di cui ci sarebbe bisogno, per una sinistra del ventunesimo
secolo: tornare a rappresentare il lavoro, pur così radicalmente trasformato;
puntare sulla conoscenza; ricostruire nelle condizioni nuove un network mondiale;
riaffermare il primato della politica rifondando il discorso democratico; avanzare
una proposta organica di riforma del sistema finanziario globale; riformare e
difendere il modello sociale europeo; spingere verso cessioni di sovranità nazionale,
non all’economia, ma ad istituzioni politiche, cominciando a riprendere il filo del
discorso sugli Stati Uniti d’Europa.
Ma un’altra e più grande questione è venuta nel frattempo a sfidare la razionalità
umana.
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IL TERRIBILE SECONDO PRINCIPIO
Il secondo principio della termodinamica dice: “In un sistema isolato l’entropia è
una funzione non decrescente nel tempo”. La Terra è un sistema isolato. L’entropia
è la tendenza dell’energia al disordine. Può essere maggiore o minore, ma la freccia
del tempo è irreversibile. Con l’industrialismo capitalistico dell’età moderna
l’incremento di entropia ha subito una fortissima accelerazione. La crescita
esponenziale del consumo di materia ed energia ha inciso sulla composizione
chimico-fisica della biosfera del Pianeta, alterando progressivamente le condizioni di
produzione e riproduzione della vita. Insomma, si è sollevata come un gigante la
questione ecologica, che non abbandonerà mai più la nostra specie, e che cambia
radicalmente i paradigmi politici, economici e sociali. Ponendo l’esigenza di un
pensiero globale non subalterno al capitale finanziario. Di fronte al quale il
nazionalismo sembra un bizzarro reperto archeologico.(Quando si dice
premonizioni… Ci fu un aristocratico scienziato emigrato in Francia, Sergej
Podolinskij, che scrisse una lettera a Marx sollevando l’interrogativo sulla
conciliazione tra la sua teoria dello “sviluppo delle forze produttive” ed il secondo
principio della termodinamica formalizzato da Carnot nel 1824; Marx era indaffarato
e la fece leggere a Engels che non la reputò interessante…).
Siamo già oltre i limiti, per alcuni indicatori fondamentali quali il ciclo dell’azoto,
del carbonio e il numero di specie per milione estinte ogni anno. E, ammesso che
nella forchetta di previsione dell’aumento della temperatura -2/10 gradi nei
prossimi 200/300anni-, si realizzasse l’ipotesi ottimistica, si tratterebbe comunque di
una variazione subita dalla Terra, in precedenti ere, in migliaia o milioni di anni.
Potenzialmente catastrofica.
Le conoscenze scientifiche su questi fenomeni (per quanto basate, oltre che su
dati di fatto accertati, su previsioni probabilistiche), costituiscono ormai una
sterminata letteratura. Nonostante decenni di tentati accordi mondiali, per esempio
sui gas ad effetto serra, i risultati sono scarsi, ed in drammatico ritardo rispetto
all’evolversi della situazione. Ma è del tutto evidente che ci troviamo di fronte al
problema di una riforma di sistema più grande di quella che, tra guerre e rivoluzioni,
seguì la Grande Crisi del ’29.
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Anche la sinistra storica è arrivata tardi, per quanto siano venute da sinistra le
valutazioni più serie ed appropriate. A cominciare dal rapporto firmato dalla
socialista norvegese Brundland sullo “sviluppo sostenibile” (Il futuro di noi tutti,
1987), fino al “Libro bianco” di Jacques Delors del ’93, in cui si delineava in Europa
“la prima economia fondata sulla conoscenza del mondo” volta ad uno “sviluppo
sostenibile”. In Italia, il documento più interessante, prima che la questione
ambientale si imponesse con la forza di oggi all’opinione pubblica, è forse il discorso
di Enrico Berlinguer sull’”Austerità”, del 1978. Il fatto che nella attuale crisi di
sistema quasi tutto il mondo economico e politico, a destra e a sinistra, invochi la
“crescita”, pronunciando la parola senza aggettivi, è il sintomo di una miseria
intellettuale imperdonabile.
Ecco così che l’esigenza di un nuovo programma di regolazione dell’economia e
della società, di restituzione ai poteri pubblici e alla politica l’autorità perduta, e ai
cittadini il potere della conoscenza e della partecipazione democratica, torna a
legarsi al destino dell’umanità. “Terra-Madre” è un’espressione molto usata. Nel suo
ultimo libro (appena uscito: La via), E. Morin propone di usare piuttosto “Terra-
Patria”.
Cosmopolitismo e internazionalismo, dunque, sono strumenti del passato. Ma il
nazionalismo è un ferro vecchio (per quanto ancora pericolosissimo, agitato com’è
in tutto il mondo, e spesso in nome di Dio, dalle élites al potere).
Penso che la sinistra politica abbia un futuro nel mondo nuovo. Di più: che la
risposta ai dilemmi della nostra epoca, aperta al futuro più prossimo e più lontano,
non possa venire che da sinistra. Di una cosa però sono anche sicuro: per agire
globalmente, bisogna innanzitutto pensare autonomamente.
Fabio Mussi
Milano, Marzo 2012