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1 1 La sinistra tra nazionalismo, internazionalismo e cosmopolitismo PICCOLA PREMESSA Oggi ha un vasto successo l’idea che “destra” e “sinistra” siano distinzioni superate. Penso che questa sia un’idea di destra. Naturalmente, parlando del passato quanto del presente, l’identificazione dei soggetti, dei campi e degli eventi riferibili a “sinistra” è affidata alla fatica della ricerca e della interpretazione storica. Di che cosa parliamo, esattamente, quando diciamo “sinistra”? Certamente, nei secoli XIX e XX -dopo la frattura determinata nel secolo XVIII dalla Rivoluzione Francese, con il suo annuncio epocale: libertè, égalitè, fraternitè- parliamo dei movimenti politici comunisti e socialisti, dei movimenti mutualistici e sindacali che hanno organizzato il lavoro salariato, delle culture teorie dottrine ad essi collegate. Ma in Europa non si può prescindere dall’anarchismo, né dai vasti mondi del liberalismo democratico, del radicalismo, dell’azionismo. E tantomeno dagli impulsi umanitari, solidaristici e sociali di origine religiosa. E negli Stati Uniti? Il Partito democratico non è propriamente “sinistra”, ma ciò non impedisce per esempio che gli States possano essere stati tappezzati recentemente da manifesti tipo: “Obama marxist”, “Obama socialist”, “Obama communist”, quando il Presidente in carica ha tentato di realizzare politiche di temperamento delle diseguaglianze sociali, né impedisce che dalle ali liberal e radical nordamericane venga un flusso intenso di cultura critica verso la società e l’economia capitalista. Certamente appartengono a pieno titolo alla storia politica della sinistra, se si tiene lo sguardo sul mondo, soggetti come il brasiliano Partito dei lavoratorio l’African national congress di Mandela. E certamente hanno avuto una impronta di sinistra una parte importante dei movimenti di liberazione nazionale che hanno chiuso nel secolo scorso l’età coloniale, lasciandosi tuttavia dietro una lunga scia di incertezza che ha trasformato molte delle aree decolonizzate in epicentri di crisi e di instabilità: pensiamo all’Africa e al Medio Oriente. E il “Partito comunista cinese”, protagonista di uno dei più importanti eventi del ‘900, oggi alla testa della potenza nazionale ad economia capitalista che contende l’egemonia mondiale agli Usa? Già la prima parola del titolo della relazione assegnatami meriterebbe dunque una relazione interpretativa. Dovendo però parlare della sinistra in un tempo ragionevole, proverò a ritagliare la mia riflessione nello spazio italiano ed europeo,

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La sinistra tra nazionalismo, internazionalismo e cosmopolitismo

PICCOLA PREMESSA

Oggi ha un vasto successo l’idea che “destra” e “sinistra” siano distinzioni

superate. Penso che questa sia un’idea di destra. Naturalmente, parlando del

passato quanto del presente, l’identificazione dei soggetti, dei campi e degli eventi

riferibili a “sinistra” è affidata alla fatica della ricerca e della interpretazione storica.

Di che cosa parliamo, esattamente, quando diciamo “sinistra”? Certamente, nei

secoli XIX e XX -dopo la frattura determinata nel secolo XVIII dalla Rivoluzione

Francese, con il suo annuncio epocale: libertè, égalitè, fraternitè- parliamo dei

movimenti politici comunisti e socialisti, dei movimenti mutualistici e sindacali che

hanno organizzato il lavoro salariato, delle culture teorie dottrine ad essi collegate.

Ma in Europa non si può prescindere dall’anarchismo, né dai vasti mondi del

liberalismo democratico, del radicalismo, dell’azionismo. E tantomeno dagli impulsi

umanitari, solidaristici e sociali di origine religiosa. E negli Stati Uniti? Il Partito

democratico non è propriamente “sinistra”, ma ciò non impedisce per esempio che

gli States possano essere stati tappezzati recentemente da manifesti tipo: “Obama

marxist”, “Obama socialist”, “Obama communist”, quando il Presidente in carica ha

tentato di realizzare politiche di temperamento delle diseguaglianze sociali, né

impedisce che dalle ali liberal e radical nordamericane venga un flusso intenso di

cultura critica verso la società e l’economia capitalista. Certamente appartengono a

pieno titolo alla storia politica della sinistra, se si tiene lo sguardo sul mondo,

soggetti come il brasiliano “Partito dei lavoratori” o l’African national congress di

Mandela. E certamente hanno avuto una impronta di sinistra una parte importante

dei movimenti di liberazione nazionale che hanno chiuso nel secolo scorso l’età

coloniale, lasciandosi tuttavia dietro una lunga scia di incertezza che ha trasformato

molte delle aree decolonizzate in epicentri di crisi e di instabilità: pensiamo

all’Africa e al Medio Oriente. E il “Partito comunista cinese”, protagonista di uno dei

più importanti eventi del ‘900, oggi alla testa della potenza nazionale ad economia

capitalista che contende l’egemonia mondiale agli Usa?

Già la prima parola del titolo della relazione assegnatami meriterebbe dunque

una relazione interpretativa. Dovendo però parlare della sinistra in un tempo

ragionevole, proverò a ritagliare la mia riflessione nello spazio italiano ed europeo,

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per mettere infine in luce le questioni essenziali che, alla fine di un lungo percorso

storico, stanno di fronte alla sinistra di oggi.

Aggiungo che, se la prima è problematica, le altre tre parole –Nazionalismo,

Internazionalismo, Cosmopolitismo- sono analiticamente insufficienti. Bisogna

aggiungerne una quarta: Globalizzazione. Viene affrontata in altri momenti di questo

corso, dedicato alla “Crisi degli Stati nazionali”, ma qui parola e concetto mi sono

assolutamente essenziali.

Vorrei infatti sostenere due tesi:

1. Con la pace di Westfalia del 1648 (quasi cent’anni dopo la pace di Augusta ,

dove si era stabilito il principio del cuius regio eius religio), che chiuse la

Guerra dei Trent’anni, com’è noto venne a definirsi in Europa il quadro

fondamentale (salvo l’Italia…) degli Stati nazionali sovrani. Con la

globalizzazione moderna si è perso l’aggettivo sbagliato: “sovrani”.

L’economia oggi domina il mondo in assenza di un potere politico –nazionale

e sovranazionale- di pari potenza.

2. La bruciante accelerazione realizzatasi, al culmine di due secoli di capitalismo,

nell’ultimo quarto del ‘900, e chiamata appunto “globalizzazione”, ha gettato

uno sguardo di Medusa sulla sinistra europea, tanto più su quella italiana, e

l’ha impietrita. Tale pietrificazione non è irreversibile, ma rappresenta uno dei

principali problemi strategici dei tempi nostri.

RIVOLUZIONI E GUERRE

L’dea cosmopolita nasce nella Grecia classica, prima di Cristo. Cosmopolita è

certamente il cristianesimo delle origini, che imprime un tratto indelebile in tutta la

cultura successiva. Civis totius mundi si dichiarerà Erasmo da Rotterdam, quando

rifiuterà la cittadinanza onoraria offertagli dalla città di Zurigo. Ma il secolo del

“cosmopolitismo” è il ‘700, l’età dei Lumi che precede la Rivoluzione Francese. Per

Voltaire la “patria” è là dove “c’è la libertà”, là dove “si vive felici”. L’Illuminismo è

cosmopolita (naturalmente un cosmopolitismo che si appoggia su una fortissima

base nazionale); il romanticismo elabora all’opposto l’idea di patria e di Nazione. Ed

è esattamente tra Settecento ed Ottocento che prende forma il capitalismo, con il

macchinismo e la Prima rivoluzione industriale, e la cosmogonia di idee politiche

dell’età moderna. La complessità sale di livello: questa è l’età che fa da incubatore

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alle “tre società” (“economica”, “politica” e “civile”), strutture fondamentali

(compresi i partiti politici) entro le quali si accenderà la lotta da cui scaturirà il

mondo attuale.

Dopo la Rivoluzione francese e la Restaurazione, passaggio cruciale è il 1848,

anno di rivolte e tentate rivoluzioni in tutta Europa. L’anno in cui viene pubblicato il

documento che avrà una profondissima influenza su tutta la storia successiva della

sinistra, europea e mondiale: il “Manifesto del partito comunista” di K.Marx e F.

Engels. Leggiamo un famoso passo: “Sfruttando il mercato mondiale la borghesia ha

reso cosmopolita la produzione e il consumo di tutti i paesi. Con gran dispiacere dei

reazionari, ha tolto alle industrie la base nazionale. Le antichissime industrie

nazionali sono state e vengono, di giorno in giorno, annichilite. Esse vengono

soppiantate da nuove industrie, la cui introduzione è questione di vita o di morte per

tutte le nazioni civili, industrie che non lavorano più materie prime indigene, bensì

materie prime provenienti dalle regioni più remote, e i cui prodotti non si consumano

soltanto nel paese, ma in tutte le parti del mondo. Al posto dei vecchi bisogni, a

soddisfare i quali bastavano i prodotti nazionali, subentrano bisogni nuovi, che per

essere soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani: In ogni luogo

all’antico isolamento locale e nazionale, per cui ogni paese bastava a se stesso,

subentra un traffico universale, una universale dipendenza delle nazioni l’una

dall’altra. E come nella produzione materiale, così anche spirituale. I prodotti

spirituali delle singole nazioni diventano patrimonio comune: L’unilateralità e la

ristrettezza nazionale diventano sempre più impossibili, e dalle molte letterature

nazionali e locali esce una letteratura mondiale”.

Ed ecco la conseguenza pratica e politica: “Proletari di tutto il mondo unitevi!”. Al

“cosmopolitismo” del capitale si contrappone l’”internazionalismo” del proletariato.

Il primo tentativo di concreta organizzazione continentale delle forze

rappresentative dei movimenti operai cresciuti su basi nazionali, fu l’Associazione

Internazionale dei Lavoratori (la Prima Internazionale), calderone ribollente, dove si

sedettero fianco a fianco, e per lo più si combatterono, Marx e Bakunin, Proudhon e

i mazziniani italiani. Nata nel 1864, fu sciolta nel 1876, dopo la sanguinosa

repressione della Comune di Parigi, ma soprattutto dopo l’imprevista piega che nella

seconda metà dell’’800 era venuto prendendo il “cosmopolitismo” del capitale.

La nuova piega deriva dai caratteri della Seconda rivoluzione industriale nella

seconda metà dell’’800. La Seconda rivoluzione industriale allarga rapidamente il

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mercato capitalista. Ma come il capitalismo della Prima era stato cosmopolita e

liberoscambista, il capitalismo della Seconda è nazionalista e protezionista. Per

competere su mercati sovranazionali sempre più affollati, le economie nazionali

puntano al rafforzamento dei mercati interni, sempre più trainati dalla

militarizzazione. Se provate a contare le guerre “locali” lungo le frontiere di Stati e

imperi (anche la nascita dello Stato unitario italiano si configura quale guerra alla

periferia dell’impero austro-ungarico), il periodo tra il 1850 e il 1914 appare come

una lunga preparazione alla guerra che, per la prima volta nella storia umana, sarà

definita come “mondiale”. Le ideologie, naturalmente, seguono. Lo sciovinismo

francese (che partorì il clamoroso e illuminante “Affare Dreyfus”), piuttosto che il

culto della “Preussentum” pangermanica, sempre più intrecciato al mito della razza,

furono al tempo stesso espressioni delle classi dirigenti e di quei processi che

George Mosse chiamò “nazionalizzazione delle masse”. Erano componenti essenziali

delle politiche coloniali e imperiali di tutte le maggiori potenze europee.

Naturalmente la formazione di una sempre più ampia classe di lavoratori

salariati, e l’andamento ciclico dell’economia capitalistica, con frequenti crisi da

sovrapproduzione (crisi, come quella del ’73, dai durissimi effetti sociali), ebbe vasti

effetti politici. Nascono, con il Movimento operaio, i partiti socialisti,

socialdemocratici e laburisti, tra i primi anni ’70 e la fine del secolo. Partiti che si

riuniscono nella Seconda internazionale, fondata a Parigi nel 1889.

Marx –morto nell’83- aveva fatto in tempo a vedere nascere il Partito

socialdemocratico tedesco, e ad esprimere il suo dissenso nella “Critica del

programma di Gotha” (unico testo, tra l’altro, in cui compare l’espressione

“dittatura del proletariato”). Ma, al momento della nascita, il movimento socialista è

comunque fortemente legato al marxismo: il principale tratto d’unione è

esattamente l’internazionalismo, che, all’avvicinarsi del giro di boa del ‘900, viene a

collidere sempre più con lo spirito dei tempi.

In Italia il Partito socialista nasce nel 1992. Il nazionalismo italiano

postrisorgimentale, covato nelle prime avventure coloniali nel corno d’Africa, si

manifesta politicamente nel 1910 con l’Associazione Nazionale Italiana di Corradini e

Federzoni, ed ha un ruolo molto importante nella guerra di Libia. Corradini è l’autore

cui più si deve una decisiva operazione di “spostamento”: “proletarie non sono più

le classi, ma le nazioni”. Con questo spostamento l’influenza del nazionalismo si

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allargò oltre i confini della destra storica. Ed ecco, per esempio, Giovanni Pascoli

commentare l’invasione italiana della Libia: “La Grande Proletaria si è mossa”…

Il nazionalismo di guerra, insomma, travolge l’internazionalismo ottocentesco. La

Prima internazionale si era sciolta nel 1876. La Seconda finisce nel 1914. Nell’agosto

1914 si votano in molti parlamenti nazionali gli stanziamenti di guerra: ebbene, gli

unici a votare contro sono due socialdemocratici in Serbia, e in Russia quattordici

socialdemocratici e undici laburisti del partito di Kerenskij.

In Italia, il grosso della sinistra parlamentare di allora si schiera su una linea

neutralista. Ma l’argine regge poco. Lo rompono i “sindacalisti rivoluzionari” e

Benito Mussolini, direttore dell’Avanti. Il nucleo (il ”fascio”: è allora che viene

coniata l’espressione) degli interventisti del ’15 sarà il nucleo dei fondatori del

fascismo.

Dalla Prima guerra mondiale escono una pace, la pace di Versailles (che creerà le

precondizioni dello scoppio della Seconda guerra mondiale), e una rivoluzione: la

Rivoluzione sovietica del ’17. Si tratta di una rivoluzione nazionale (promossa da

Lenin e da i “bolscevichi”, cioè l’ala di maggioranza del Partito Operaio

Socialdemocratico Russo), dotata di una potente ambizione globale. Nel 1918 i

bolscevichi danno vita al primo partito comunista. Nel marzo del ’19 nasce il

“Comintern” (Kommunistische Internationale, Internazionale Comunista: il tedesco

era la lingua ufficiale). Sulla sua scia, negli anni immediatamente successivi,

vengono fondati ovunque Partiti comunisti, prevalentemente da scissioni di partiti

socialisti, socialdemocratici e laburisti usciti malridotti dalla guerra. Ridotto in

cenere dai nazionalismi, rinasce a sinistra l’internazionalismo. L’aspettativa è quella

di una imminente Rivoluzione mondiale. Dunque la rottura con il parlamentarismo e

il “riformismo”. (Noto che la parola “riformismo” ha qui un significato pregnante,

diversamente dall’ossessivo e generico riferimento evocativo che se ne fa oggi).

Ma le cose andarono un po’ diversamente.

Da una parte il carattere assolutamente transnazionale del movimento comunista,

radicato in tutti i continenti e centralmente collegato, si presenta come il “primo

network politico- mondiale su scala globale” (S. Pons), dall’altro la deriva dispotica,

imperiale e nazionalista del regime sovietico lo trasformano precocemente in un

campo di forze intorno ad uno Stato. Nel frattempo, mentre ad oriente Stalin liquida

tutti gli avversari, cominciando da Trotzky, al termine di una aspra battaglia

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esattamente intorno all’orizzonte geopolitico di una rivoluzione di sistema

(nazionale o mondiale? Trozky, esiliato, fonderà nel 1938 una Quarta

Internazionale), ad Occidente la profondissima crisi economica, sociale e morale che

segue la guerra (solo dopo un’altra guerra, nel 1951, la produzione tornerà ai livelli

del ’13!) apre la strada ai regimi autoritari di massa di Italia e Germania. Dal melting

pot culturale del primo dopoguerra (con Mussolini parte del socialismo partecipa

attivamente alla edificazioni del fascismo; il movimento di Hitler si chiama nazional-

socialismo, e la svastica campeggia su campo rosso), fascismo e nazismo pescano gli

assi del nazionalismo, della xenofobia, del militarismo, del mito fondativo della

superiorità della razza. Tutto materiale non nuovo, ma ricombinato in una forma del

tutto inedita. E che, già a partire dagli anni ’20, prepara il peggio. (E non costituirà

certo un ostacolo alla marcia della guerra il platonico tentativo del presidente

americano Woodrow Wilson di prevenire i conflitti istituendo la “Società delle

Nazioni).

Come è stato possibile? E quali problemi, storici e politici, pone l’imprevista

novità? Sono le domande intorno alle quali ruotano i Quaderni del carcere di

Antonio Gramsci. L’Italia è stata Nazione molto prima di essere Stato. Nella carta

d’Europa che risulta dalla pace di Westfalia del 1648 si vedono distintamente quasi

tutte le nazioni attuali. La Germania è ancora una galassia nata dall’esplosione del

Palatinato. Ma l’Italia non c’è proprio. Ci vogliono più colori per identificare entro i

loro confini gli staterelli dello stivale di quanti non occorrano per il resto del

continente. La coscienza di Nazione è data essenzialmente dalla lingua colta comune

agli intellettuali (e incomprensibile al volgo), e dalla straordinaria eredità culturale

dei secoli precedenti (Galileo Galilei è morto da sei anni). Il Italia Illuminismo e

Rivoluzione francese, che cambiano la storia d’Europa, arrivano con la –breve e

rapidamente repressa- Rivoluzione napoletana del 1799, e con le armate

napoleoniche. Gramsci distingue intellettuali e popolo. Scrive nella “miscellanea” del

Quaderno 3 (1930): <Gli intellettuali italiani sono cosmopoliti, non nazionali (..)Un

altro elemento da esaminare è il così detto “internazionalismo” del popolo italiano.

Esso è correlato al concetto di “sovversivismo”. Si tratta in verità di un vago

“cosmopolitismo” legato a elementi storici ben precisabili: al cosmopolitismo e

universalismo medievale e cattolico, che aveva la sua sede in Italia e che si è

conservato per l’assenza di una “storia politica e nazionale” italiana. Scarso spirito

nazionale e statale in senso moderno>. Gramsci fa risalire lo “sciovinismo” nostrano

a questo vizio d’origine. Il fascismo l’ha sfruttato al meglio. L’”internazionalismo”

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comunista e socialista, privo di solide basi nazionalpopolari, è stato sbaragliato.

Conclusione: cosa deve essere la rivoluzione italiana? Deve essere una riforma

intellettuale e morale, che postula una riforma economica. Cito estesamente

Gramsci non solo perché fu il primo segretario del PCd’I, ma perché è ancora oggi

l’autore italiano del ‘900 più tradotto e studiato nel mondo, e perché getta il primo

nucleo di una critica dello stalinismo (Stalin nei Quaderni è sempre citato con lo

pseudonimo de “Bessarione”, e pour cause, essendo Bessarione il cardinale che, nel

1438 a Firenze, fece l’ultimo tentativo, fallito, di riunificare la Chiesa d’Oriente e la

Chiesa d’Occidente).

La Seconda guerra mondiale si accese tra nazioni ad economia capitalista e regime

politico democratico, alleate dell’Urss (dove Stalin si era liberato di tutti gli avversari

e nel 1936 era passato alla fase del terrore interno), e nazioni ad economia

capitalista e regime politico totalitario. La sinistra socialista, comunista. azionista e

anarchica si ritrovò (non senza drammatici conflitti), prima nella partecipazione

internazionalista alla guerra civile spagnola, poi nei Fronti popolari e nella

Resistenza, in particolare in Italia e in Francia. Com’è noto nella Resistenza

convissero due anime: una internazionalista, orientata ad un radicale cambiamento

sociale, l’altra nazionale e patriottica. Il patriottismo partigiano non fu una variante,

ma un antidoto al nazionalismo di guerra.

DOPO LE GUERRE: NAZIONI, SOVRANAZIONI, GLOBALIZZAZIONE

La grande gelata della guerra fredda tornò a separare le componenti fondamentali

della sinistra in tutta Europa. Anno cruciale il ’56, l’invasione sovietica dell’Ungheria.

Ma il dopoguerra nascondeva molte sorprese. La prima è il boom economico

determinato da un nuovo compromesso tra capitale e lavoro. Da quella

straordinaria riforma di sistema che fu l’Welfare, lo Stato sociale. La preparazione

era stata lunga. Era cominciata, dopo la grande crisi del ’29, con le politiche

keynesiane e il new deal roosveltiano. Proseguita, ancora nell’anno più terribile della

guerra, il ’42, con il piano di lord Beveridge. Il piano prevedeva tre obiettivi: 1)un

sistema di previdenza sociale; 2)un sistema di previdenza sanitaria; 3)politiche attive

di riduzione della disoccupazione. Lo sviluppo dello Stato sociale avvenne su scala

nazionale, possedendo però una formidabile portata universalistica e cosmopolita.

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Borghesia liberaldemocratica, movimento operaio e sinistre politiche, proprio negli

anni della divisione del mondo in due campi radicalmente avversi, trovarono,

soprattutto in Europa, la strada di un cambiamento sociale e politico fondato al

tempo stesso sul mercato e sull’intervento pubblico dello Stato. Hobsbawn

attribuisce un merito speciale all’esistenza stessa di un blocco antagonistico

sovietico, cioè alla permanenza di un’onda internazionalista, altri –forse più a

ragione- al ruolo attivo della socialdemocrazia. Che nel 1951 aveva rifondato a

Francoforte l’Internazionale socialista: antisovietica e filo-occidentale, ma ancora

legata al marxismo delle origini (la cui maggior forza, la Spd, solo nel ’59, con il

congresso di Bad Godesberg, abbandonò espressamente il marxismo).

Continuarono così a lungo a fronteggiarsi due internazionalismi: quello

cominternista e quello socialista. Ma per i partiti della sinistra italiana –che avevano

dato un contributo decisivo alla stesura della Costituzione , dunque alla nascita in

Italia della democrazia moderna, contributo che li aveva indissolubilmente legati alla

storia nazionale postfascista- le cose furono alquanto più complicate.

Da una parte il Psi di Nenni tardò ad aderire alla Internazionale socialista.

Dall’altra il Pci andò delineando, già con Togliatti, una “via nazionale”. Fino al ’68

cecoslovacco il legame con Mosca non fu mai in discussione. Dopo, la “via nazionale

italiana” diventò, nel quadro del movimento comunista internazionale, una vera e

propria “eresia”. Berlinguer portò all’estremo limite l’autonomia del Pci (la

“democrazia valore universale”, “la fine della spinta propulsiva delle società

dell’est”, “l’ombrello della Nato”, la candidatura di Altiero Spinelli, l’autore del

Manifesto di Ventotene nel quale già negli anni ’40 si immaginavano gli “Stati uniti

d’Europa etc.). Ma ci volle l’89. La caduta del muro di Berlino, il collasso dell’Urss e

del suo blocco, la fine del Movimento comunista internazionale, lo scioglimento del

Pci, perché il Pds, con il consenso infine di Bettino Craxi, aderisse nel 1992

all’Internazionale socialista.

Nel frattempo stava succedendo qualcosa di fondamentale per noi

contemporanei: il capitale “cosmopolita” stava diventando globale. E “globale” non

ha solo il significato di una inedita estensione territoriale: è il codice del formidabile

salto di complessità del sistema.

L’epicentro della accelerazione sono due nazioni: Stati Uniti e Gran Bretagna.

Reagan e Thatcher, la destra liberista al potere: “Il governo non è la soluzione, il

governo è il problema”; “La società non esiste, esistono gli individui”… Sarebbe

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sommamente sbagliato pensare alla globalizzazione come ad un

neocosmopoliltismo particolarmente intraprendente. Si tratta di una catena di

concretissime decisioni politiche che , nell’arco di un quindicennio, determinano la

finanziarizzazione dell’economia. E che, partite da destra, coinvolgono la

responsabilità prima dei democratici americani, poi della sinistra europea, a metà

degli anni ’90 al governo di tredici degli allora quindici Paesi dell’Unione europea.

Travolti gli accordi di Bretton Woods (1944), si comincia con l’incondizionata

apertura delle frontiere ai capitali e si finisce con la “banca universale”, cioè con la

decisione di Clinton (decisione la cui critica era stata uno dei cavalli di battaglia nella

campagna elettorale di Obama) di abolire la distinzione tra banche di risparmio e

banche di affari. Acceso il motore, il capitale finanziario –assolutamente tax free- è

entrato in regime di “autodichia”: si è fatto le sue leggi da sé, riducendo d’un colpo

la sovranità delle nazioni e l’autonomia della politica.

( Ci fu persino chi, con sguardo lunghissimo, aveva visto in anni lontanissimi certe

tendenze: per esempio Rudolph Hilferding, socialdemocratico tedesco, con il suo Il

capitale finanziario, che è del 1910. Ai tempi nostri, tra i pochi che hanno capito che

cosa stava accadendo sono, a partire dalla manifestazione di Seattle in occasione del

vertice del WTO nel 1999, i movimenti “No Global”, al cui centro è stata la richiesta

della introduzione della Tobin tax).

I caratteri fondamentali del Finanzcapitalismus sono la velocità e la liquidità. La

Velocità è data dalla piena assunzione delle tecnologie informatiche: l’web. Le

transazioni si vanno riducendo a intervalli di cinque millesimi di secondo. La liquidità

è data dalla possibilità di finanziare il capitale con i risparmi dei cittadini del mondo

intero e dalla estrazione di plusvalore da tre miliardi di lavoratori salariati: l’unico

campo in cui la concorrenza agisce illimitatamente è quello del lavoro. Ogni giorno

viene scambiata una quantità di denaro equivalente a dieci volte la ricchezza

prodotta. Lo stock dei derivati in circolazione –dopo la crisi del 2007 provocata dalla

bolla immobiliare americana, affrontata con forti incrementi dei debiti sovrani negli

Usa e in Europa- è pari a dodici volte la ricchezza prodotta ogni anno dall’intera

umanità.

E’ vero che una parte dell’umanità è uscita dalla povertà assoluta, in Asia, in

America Latina ed anche in Africa. Ma i principali effetti di questo processo sono

due: 1) Il primo è economico-sociale: una crescita della diseguaglianza senza

precedenti. Nel mondo lo 0,5% della popolazione detiene secondo le stime più

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recenti 69 trilioni di dollari; il 68% detiene 8 trilioni. Tanto che, per esempio, W.

Reich, che è stato ministro del governo Clinton, ritiene inadeguata l’espressione

“diseguaglianza”, e propone una più adeguata “secessione dei ricchi dal resto

dell’umanità”. 2) Il secondo effetto è politico: la potenza economica sovrasta i

poteri delle politiche nazionali. Non c’è stato alcun processo di integrazione politica

sovranazionale parallelo al costituirsi del potere economico-finanziario trans-

nazionale. Nemmeno in Europa, dove l’Unione è restata un mercato, una moneta,

una concertazione intergovernativa. Così, la democrazia stessa, figlia di due secoli di

storia, rischia il rapido deterioramento e il declino. Sostituita spesso da tecniche di

manipolazione dell’opinione pubblica, da reti di poteri extraistituzionali, dal

populismo.

In Europa, la sinistra ha subito o condiviso questa globalizzazione. Decisiva è

stata, anche per i recenti sviluppi della sinistra italiana, la spinta venuta dal Labour di

Blair e dalla Spd di Scroeder negli anni ’90: la “Terza via”, la Left of center, la sinistra

come Neue Mitte. Valga per tutte, per capire gli effetti della presa egemonica del

capitale finanziario, una citazione di Tony Blair del 2008, tratta da una intervista a El

Paìs: “Il ventunesimo secolo è un ‘era nuova, di grandi cambiamenti, e richiede una

nuova politica, destra e sinistra sono concetti vecchi, non ci dovrebbero più essere,

la differenza sta nella apertura o nella chiusura alla globalizzazione”.

Si chiude così il cerchio di una sinistra che nacque nazionale e internazionalista,

che nel ‘900 si affermò come rappresentante del lavoro e portabandiera dello Stato

sociale, e che agli albori del ventunesimo secolo si trova in grave difetto di analisi, di

teoria, di rappresentanza sociale, di politica.

E’ evidente quello di cui ci sarebbe bisogno, per una sinistra del ventunesimo

secolo: tornare a rappresentare il lavoro, pur così radicalmente trasformato;

puntare sulla conoscenza; ricostruire nelle condizioni nuove un network mondiale;

riaffermare il primato della politica rifondando il discorso democratico; avanzare

una proposta organica di riforma del sistema finanziario globale; riformare e

difendere il modello sociale europeo; spingere verso cessioni di sovranità nazionale,

non all’economia, ma ad istituzioni politiche, cominciando a riprendere il filo del

discorso sugli Stati Uniti d’Europa.

Ma un’altra e più grande questione è venuta nel frattempo a sfidare la razionalità

umana.

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IL TERRIBILE SECONDO PRINCIPIO

Il secondo principio della termodinamica dice: “In un sistema isolato l’entropia è

una funzione non decrescente nel tempo”. La Terra è un sistema isolato. L’entropia

è la tendenza dell’energia al disordine. Può essere maggiore o minore, ma la freccia

del tempo è irreversibile. Con l’industrialismo capitalistico dell’età moderna

l’incremento di entropia ha subito una fortissima accelerazione. La crescita

esponenziale del consumo di materia ed energia ha inciso sulla composizione

chimico-fisica della biosfera del Pianeta, alterando progressivamente le condizioni di

produzione e riproduzione della vita. Insomma, si è sollevata come un gigante la

questione ecologica, che non abbandonerà mai più la nostra specie, e che cambia

radicalmente i paradigmi politici, economici e sociali. Ponendo l’esigenza di un

pensiero globale non subalterno al capitale finanziario. Di fronte al quale il

nazionalismo sembra un bizzarro reperto archeologico.(Quando si dice

premonizioni… Ci fu un aristocratico scienziato emigrato in Francia, Sergej

Podolinskij, che scrisse una lettera a Marx sollevando l’interrogativo sulla

conciliazione tra la sua teoria dello “sviluppo delle forze produttive” ed il secondo

principio della termodinamica formalizzato da Carnot nel 1824; Marx era indaffarato

e la fece leggere a Engels che non la reputò interessante…).

Siamo già oltre i limiti, per alcuni indicatori fondamentali quali il ciclo dell’azoto,

del carbonio e il numero di specie per milione estinte ogni anno. E, ammesso che

nella forchetta di previsione dell’aumento della temperatura -2/10 gradi nei

prossimi 200/300anni-, si realizzasse l’ipotesi ottimistica, si tratterebbe comunque di

una variazione subita dalla Terra, in precedenti ere, in migliaia o milioni di anni.

Potenzialmente catastrofica.

Le conoscenze scientifiche su questi fenomeni (per quanto basate, oltre che su

dati di fatto accertati, su previsioni probabilistiche), costituiscono ormai una

sterminata letteratura. Nonostante decenni di tentati accordi mondiali, per esempio

sui gas ad effetto serra, i risultati sono scarsi, ed in drammatico ritardo rispetto

all’evolversi della situazione. Ma è del tutto evidente che ci troviamo di fronte al

problema di una riforma di sistema più grande di quella che, tra guerre e rivoluzioni,

seguì la Grande Crisi del ’29.

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Anche la sinistra storica è arrivata tardi, per quanto siano venute da sinistra le

valutazioni più serie ed appropriate. A cominciare dal rapporto firmato dalla

socialista norvegese Brundland sullo “sviluppo sostenibile” (Il futuro di noi tutti,

1987), fino al “Libro bianco” di Jacques Delors del ’93, in cui si delineava in Europa

“la prima economia fondata sulla conoscenza del mondo” volta ad uno “sviluppo

sostenibile”. In Italia, il documento più interessante, prima che la questione

ambientale si imponesse con la forza di oggi all’opinione pubblica, è forse il discorso

di Enrico Berlinguer sull’”Austerità”, del 1978. Il fatto che nella attuale crisi di

sistema quasi tutto il mondo economico e politico, a destra e a sinistra, invochi la

“crescita”, pronunciando la parola senza aggettivi, è il sintomo di una miseria

intellettuale imperdonabile.

Ecco così che l’esigenza di un nuovo programma di regolazione dell’economia e

della società, di restituzione ai poteri pubblici e alla politica l’autorità perduta, e ai

cittadini il potere della conoscenza e della partecipazione democratica, torna a

legarsi al destino dell’umanità. “Terra-Madre” è un’espressione molto usata. Nel suo

ultimo libro (appena uscito: La via), E. Morin propone di usare piuttosto “Terra-

Patria”.

Cosmopolitismo e internazionalismo, dunque, sono strumenti del passato. Ma il

nazionalismo è un ferro vecchio (per quanto ancora pericolosissimo, agitato com’è

in tutto il mondo, e spesso in nome di Dio, dalle élites al potere).

Penso che la sinistra politica abbia un futuro nel mondo nuovo. Di più: che la

risposta ai dilemmi della nostra epoca, aperta al futuro più prossimo e più lontano,

non possa venire che da sinistra. Di una cosa però sono anche sicuro: per agire

globalmente, bisogna innanzitutto pensare autonomamente.

Fabio Mussi

Milano, Marzo 2012

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