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La sicurezza energetica nel XXI secolo: prospettive dall’Italia e dal Mondo

Informazioni della Difesa Supplemento al n. 6/2013

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La sicurezza energetica nel

XXI secolo: prospettive

dall'Italia e dal Mondo

Coordinamento scientifico: Costantino Moretti Pier Vittorio Romano

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Informazioni della Difesa Supplemento al n. 6/2013

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Indice

Prefazione Amm. Luigi Binelli Mantelli……………………………………………….5 La sicurezza energetica: lo stato dell’arte Pier Vittorio Romano..……………………………………………….……10 Evoluzione storica del concetto di sicurezza energetica Gianluca Carmine Ansalone…………………………………………….17

Sezione I La visione nazionale

Per un’energia sicura, sostenibile e conveniente: il ruolo della diplomazia italiana nei fori multilaterali Luigi Efisio Marras…………………………………………………………..24 La sicurezza delle rotte marittime italiane nell'estero vicino Paolo Quercia………………………………………………………………….34

Sezione II La visione europea

Verso un ruolo più attivo della PESC / PSDC nella sicurezza energetica Mihnea Constantinescu…………………………………………………..41 Gli aspetti della sicurezza energetica nell’Unione Europea: prospettive dalla Grecia Themistoklis Demiris……………………………………………………...49 Sfide, azioni e progetti relativi alla politica energetica nel contesto della sicurezza energetica in Polonia Wojciech Ponikiewski………………………………………………………56 La sicurezza energetica oggi: il punto di vista estone Urmas Paet……………………………………………………………………..61

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La Sicurezza energetica nella Repubblica Ceca Petr Burianek………………………………………………………………….70 Fonti rinnovabili di energia (FER) per la produzione di elettricità: quadro della situazione in Slovenia Iztok Mirosic e Boris Antolic…………………………………………..79 La sicurezza energetica della Serbia Ana Hrustanovic e Rade Berbakov……………………………....85 Nuovi Scenari Energetici: un’occasione per l’Europa Carlos Pascual………………………………………………………………..94 Unione Europea e “shale gas revolution”: implicazioni sulla condizione di sicurezza energetica Fabio Indeo………………………………………………………………....101 Sicurezza alimentare vs sicurezza energetica: conflittualità e criticità in ambito UE Silvia Bolognini……………………………………………………………..108

Sezione III La visione internazionale

L’energia canadese: sicura, affidabile, responsabile Joe Oliver……………………………………………………………….…….119 Energia, Sicurezza, Sviluppo - I B.R.I.C.S. nel Mediterraneo Marco Ricceri………………………………………………………………..125 Le dimensioni strategiche della rivoluzione dello Shale Gas : le visioni condivise dalla NATO e dai Paesi del Golfo Giuseppe Morabito……………………………………………….……….141 Instabilità in Medio Oriente e Sicurezza Energetica Nicola Pedde………………………………………………….………….….147 Sicurezza energetica eurasiatica e cooperazione regionale Alessandra Russo………………………………………………………….156

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Sicurezza ed indipendenza energetica: energia idroelettrica, fattore di sviluppo locale e di tensione regionale. Il caso dell’Asia Centrale Lorena Di Placido………………………………………………………….165 Risorse energetiche ed equilibri geostrategici in Afghanistan Cristiana Era………………………………………………………………….172 Aspetti della sicurezza energetica in India Costantino Moretti………………………………………………………..181 Il concetto di sicurezza energetica in Cina e Taiwan Rodolfo Bastianelli………………………………………………………..191 Australia e sicurezza energetica: commercio e investimenti David Ritchie…………………………………………………………………199 Africa Nord-Occidentale, idrocarburi tradizionali, non convenzionali e altri asset strategici Eleno Triva e Pier Vittorio Romano………………………………207 La sicurezza energetica in Africa Marco Cochi………………………………………………………………….215 L’interazione fra sicurezza energetica e cambiamenti climatici in Africa Marco Massoni………………………………………………………………222 Sicurezza e sviluppi energetici: il futuro è dell’Artico Lucio Martino……………………………………………………..…….….234 Sicurezza energetica e biocarburanti: dinamiche e rischi globali Alessandro Politi…………………………………………………….…….242 Efficienza energetica per le Forze Armate Claudio Catalano…………………………………………………….……254 Pentagono: Sicurezza e risparmio energetico Lucio Martino…………………………………………………………..……266

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Prefazione Ammiraglio Luigi Binelli Mantelli – Capo di Stato Maggiore della Difesa

Il tema della sicurezza energetica e, più in generale, quello

della geopolitica dell’energia, hanno dominato le prime pagine

dei giornali per oltre un secolo. Dal tempo delle prime

concessioni in Arabia Saudita e in Persia, e soprattutto dalla

filiera industriale e tecnologica di quello che fu l’avvento degli

idrocarburi, sono passati poco più di cent’anni, che hanno

tuttavia profondamente rivoluzionato non solo le tecnologie di

propulsione e di produzione dell’energia, ma anche e

soprattutto hanno mutato il corso dell’economia e delle

relazioni politiche tra gli Stati. Dal carbone si è passati al

petrolio e poi al nucleare. Il Medio Oriente ha quindi assunto un

ruolo centrale nello sviluppo del mercato energetico,

diventando in pochi anni un prezioso contenitore di “oro nero”,

avviando una nuova fase storica e favorendo lo sviluppo

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dell’odierno processo di globalizzazione. Riguardo l’energia, il

petrolio in particolare, tanto è stato scritto ma spesso le

informazioni divulgate dalla stampa sono state condizionate

dall’emotività e da una vera e propria serie di “leggende

metropolitane” che hanno in tal modo orientato l’immaginario

collettivo sul tema della sicurezza energetica ed hanno portato

talvolta ad allarmismi ingiustificati.

Grossolane semplificazioni fanno nascere l’idea di un prossimo

esaurimento delle risorse e di una pressoché esclusiva loro

localizzazione nelle sole aree del Medio Oriente, alimentando in

tal modo speculazioni politiche e soprattutto economiche. Il

moderno sistema della finanza ha velocemente trasformato il

petrolio in una commodity, attribuendogli un valore

progressivamente sempre più disancorato dall’effettiva

disponibilità reale del bene ed al contrario connesso alla

percezione della difficoltà del suo reperimento. Si sono ribaltati

in tal modo i fondamentali dell’economia ed aperta la strada

alle selvagge fasi di speculazione dello scorso decennio. Una

più attuale e serena lettura delle dinamiche del settore

energetico, al contrario, spinge oggi a riflettere in modo

decisamente più sereno e meno allarmistico sulla gestione della

sicurezza dell’energia e degli approvvigionamenti. La

diversificazione delle sorgenti di approvvigionamento è stata

radicalmente rivista nella concezione della pianificazione e nella

gestione del rischio sino a diventare una sorta di vantaggio per

il consumatore che, attraverso una pluralità di controparti

diverse tra loro, non solo opera sulla leva dei prezzi in un sano

rapporto di libero mercato, ma riesce in tal modo anche a

mitigare il rischio derivante dall’interruzione totale o parziale

della produzione da parte di un singolo fornitore. Questa

strategia, peraltro, ha costituito il fulcro della politica di

gestione degli approvvigionamenti energetici nazionali italiani,

pionieri sin dagli anni Sessanta della diversificazione non solo

sul piano geografico delle forniture, ma anche su quello

qualitativo, alimentando tra i primi il mercato del gas naturale.

Sono quindi ben lieto di introdurre questo interessante ed

importante volume sull’energia e la sua moderna concezione

politica ed economica. L’Italia ha svolto in passato e svolge

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oggi un ruolo di assoluto primato nel settore dello sviluppo

delle fonti di energia. Realtà industriali di primo livello, come

l’ENI e l’EDISON costituiscono eccellenze tecnologiche nazionali.

Prospettive più preoccupanti si hanno invece analizzando il

quadro geostrategico dei prossimi anni e gli sviluppi del

cosiddetto “risveglio” o “primavera Araba” evidenziano una

nuova “Guerra Fredda” in atto che contrappone non più due

diverse civiltà e ideologie, ma diverse matrici e correnti

religiose in seno all’Islam, profondamente divise tra loro.

Fazioni e conflittualità che fanno tuttavia capo a Paesi di

grande rilevanza e potenzialità, che sono a cavallo del Golfo

Arabico, una delle maggiori “autostrade” del nostro

rifornimento energetico via mare. Una guerra solo in teoria

“fredda” ma in realtà molto più destabilizzante e spregiudicata,

in quanto molto meno condizionata e quindi “raffreddata” dal

deterrente militare e dal “terrore” nucleare che caratterizzava

la precedente. I suoi effetti sono evidenti nelle aree di fermento

e di grande instabilità che oggi circondano il sud Europa,

dall’Egitto, alla Siria, al Libano, alla Somalia, alla Libia, al Mali e

Centro-Africa, fino al Golfo di Guinea ecc.. In parallelo, stanno

rapidamente crescendo conflittualità e tensioni più o meno

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latenti, per ora legate a dispute territoriali e marittime, tra

molti Paesi dell’area dell’Oceano Indiano e Pacifico, tra cui

alcuni “BRICS”, ma che verosimilmente si accentueranno in

futuro, soprattutto in relazione alle esigenze energetiche e di

approvvigionamento di materie prime.

Non a caso il Presidente Obama, nel suo recente discorso alla

Nazione, ha toccato a più riprese il tema delle risorse

energetiche, ma nel suo caso in senso positivo perché nel giro

di pochi anni gli Stati Uniti saranno indipendenti e autonomi

sotto questo profilo e anzi inizieranno ad esportare energia in

surplus. Uno scenario complesso ed articolato quindi, nel quale,

a fronte di conflittualità e tensioni regionali si vanno già

delineando, nel medio-lungo termine, crisi di più ampio respiro

che, in un contesto globalizzato, rischiano pericolose escalation.

In tali possibili scenari la tutela degli interessi nazionali e la

libertà di scambi economici costituiscono una priorità per il

sistema Paese Italia. Alla luce dell’importanza strategica che

rivestono per il nostro Paese sia i flussi commerciali o le linee di

rifornimento energetico (gasdotti inclusi), la garanzia del libero

e sicuro utilizzo delle linee di comunicazione marittime, aeree e

terrestri nella regione Mediterranea e nelle aree adiacenti

(Oceano Atlantico Settentrionale, Oceano Indiano Occidentale

ed in prospettiva Oceano Pacifico) costituisce un’esigenza vitale

per l’Italia in termini di sviluppo della dimensione import-export

e fabbisogno energetico nazionale. Da ciò nasce l’esigenza di

essere presenti a vasto raggio soprattutto in aree marittime

lontane e di nostro interesse strategico per poter far fronte non

solo a minacce asimmetriche ma anche a crisi di elevata

conflittualità da fronteggiare con uno strumento militare

flessibile, pronto ed integrabile in dispositivi multinazionali.

Questo studio di settore, pubblicato sulla rivista “Informazioni

della Difesa” con l’apporto determinante del Centro Militare di

Studi Strategici (CeMiSS), nasce proprio dall’esigenza di offrire

un contributo all’informazione dei quadri, così come a tutti i

lettori sul tema della sicurezza energetica. Lo studio, oltre a

trattare l’argomento dal punto di vista nazionale con un

approccio di tipo comparato, ha cercato di rappresentare il

quadro, più completo possibile, della posizione dei Paesi

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produttori e di quelli consumatori. Le prospettive affrontate,

tutte d’attualità ed interesse, offrono una preziosa occasione di

riflessione.

Ritengo, quindi, che questo volume si inserirà proficuamente

nel solco di una lunga e consolidata tradizione sullo studio del

fenomeno anche grazie al contributo determinante fornito da

alcune Ambasciate estere, che ringrazio per la preziosa

collaborazione. Nel sostenere una costante produzione

scientifica, che unisce il mondo militare a quello civile della

ricerca, si consolida un rapporto ormai affermato e ben

sperimentato, i cui frutti tangibili hanno permesso e

permettono ogni giorno di integrare il sistema militare

nazionale con quello dell’intero sistema Paese.

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La sicurezza energetica: lo stato dell’arte Pier Vittorio Romano – Direttore Responsabile di “Informazioni della Difesa”

Specialmente negli ultimi anni è cresciuto il numero delle aree

interessate da profonde crisi geopolitiche che, sebbene

abbiamo fondamento politico, finiscono inevitabilmente per

avere ripercussioni anche a livello economico e, in particolare,

sugli aspetti di natura energetica. Ci attende quindi un futuro

all’insegna dell’incertezza e dell’imprevedibilità, in un contesto

di estrema e crescente complessità con il quale dovremo

confrontarci. Siamo di fronte ad un quadro internazionale

caratterizzato da un crescente grado di instabilità e da rischi

associati a minacce multiformi. A fronte di un ridotto numero di

conflitti tra Stati, si riscontrano numerose crisi interne ai singoli

Paesi, connotate da elevata articolazione tra i contendenti, con

potenziale contagio e destabilizzazione di intere regioni a noi

vicine. L’Italia è proprio al centro di questa grande area di crisi

che coincide con il “Mediterraneo Allargato” e che si distende

da Dakar a Kandahar, comprendendo contesti regionali

fortemente instabili quali il Nord Africa, il Medio Oriente, il

Corno d’Africa, nonché le regioni limitrofe del Sahel, del

Caucaso, del Centro Asia ed i Balcani, dove permane una

latente ostilità capace di riaccendere conflitti e dove necessita

ancora la presenza della comunità internazionale per le

conseguenti azioni di normalizzazione. Questa crescente

incertezza a livello internazionale, che ha caratterizzato tutto il

2013, non solo provoca tensioni ma anche effetti negativi

sull’approvvigionamento energetico sia perché queste crisi si

concentrano prevalentemente sui Paesi produttori, incidendo

quindi sulla stabilità dell’offerta, sia riguardo quelli consumatori,

sul fronte della domanda. Tra i più rilevanti l’Iraq, dalla cui

stabilità nel medio e lungo periodo dipende il mercato

petrolifero mondiale, la situazione in Egitto che, pur non

essendo un grande produttore, controlla il Canale di Suez, dal

quale transita il 7% del traffico petrolifero mondiale ed il 13%

di GNL, senza considerare il flusso commerciale. Vi è stato un

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rallentamento anche nella crescita dei paesi emergenti. La Cina,

specialmente nel primo semestre, ha rallentato la crescita nella

produzione industriale e nelle esportazioni, sebbene la

domanda abbia rappresentato il principale fattore di aumento

dei consumi energetici mondiali. Per i paesi europei risulta

necessario sostenere il funzionamento dei mercati, favorendo la

più ampia partecipazione di tutti i grandi consumatori mondiali.

Un utilizzo più intensivo della cooperazione a livello

multilaterale, a partire dall’Agenzia internazionale per l’energia,

risulterebbe uno strumento efficace per la sostenibilità dei

mercati.

L’Italia, dal canto suo, sostenendo le azioni messe in atto

dall’ONU, dall’Unione Europea, dalla NATO e dagli altri

Organismi internazionali, è chiamata a mantenere

costantemente elevato il suo impegno per la gestione delle crisi

con interventi anche di lunga durata e assai articolati. È chiaro

che il concetto di “sicurezza” comprende accezioni quali quello

della difesa e salvaguardia degli interessi nazionali. Ne

consegue una sempre maggiore assunzione di responsabilità da

parte degli organismi e alleanze cui l’Italia fa parte,

impegnando tutto il comparto della Difesa che dovrà

confrontarsi con realtà sempre più complesse anche nel

prossimo futuro.

Se la difesa dello Stato, nella più ampia accezione di difesa

degli interessi nazionali, è la “missione” di riferimento delle

Forze Armate, i molteplici elementi d’imprevedibilità e

indeterminatezza dell’attuale quadro geostrategico non fanno

escludere che, nel prossimo futuro, si ripresenti la necessità di

una disponibilità immediata di “assetti” idonei anche in scenari

ad elevata conflittualità. Al riguardo basti pensare alla rapidità

con cui si sono manifestate ed evolute le crisi del cosiddetto

“Risveglio arabo” in un’area, quella mediterranea, che pure

ritenevamo sufficientemente stabile: Tunisia, Egitto e Libia.

Questi sono tutti Paesi legati alla sponda nord del Mediterraneo

da intense relazioni economiche e attività di cooperazione civile

e militare. A tal proposito, alcuni indicatori della NATO fanno

ritenere che, entro 15 anni, la dipendenza dell’Europa

dall’importazione di risorse energetiche passerà dall’attuale 60

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all’80%e, al contempo, quella dei Paesi asiatici dal 40 al 65%.

È evidente, dunque, che aumenterà la competizione per

l’approvvigionamento di tali risorse, con i conseguenti rischi

politico-militari ed economici, in particolare in un’area, come

quella dell’Oceano Indiano e del Golfo Persico, fortemente

legate al nostro import-export e già oggi teatro di notevoli

tensioni, non solo e non principalmente legate al fenomeno

della pirateria, che è peraltro in via di riduzione. Segnali

positivi sono giunti per i consumi europei anche dagli investitori,

ad esempio, a livello infrastrutturale, dall’entrata in funzione

del nuovo rigassificatore OLT in Toscana e dai progressi del

rigassificatore polacco di Świnoujście. Anche da parte russa,

nonostante la sovrabbondanza di capacità di esportazione,

sono arrivati nuovi segnali per la realizzazione, entro il

decennio, di nuove infrastrutture, rimarcando così la fiducia

nelle prospettive di medio e lungo periodo dei mercati europei.

Lo sviluppo più significativo, però, riguarda la decisione per la

realizzazione del gasdotto Trans Adriatic Pipeline (TAP),

destinato a trasportare il gas azerbaigiano di Shah Deniz dal

confine turco-greco fino alle coste della Puglia. Il TAP costituirà

il tratto finale del corridoio meridionale del gas, inserito anche

tra i corridoi prioritari indicati dal regolamento comunitario

347/2013 approvato lo scorso aprile. Tale opera permetterà la

diversificazione per l’approvvigionamento di gas, in particolare

per limitare la quota di mercato russa. Sebbene l’infrastruttura

comporti un rilevante aumento della sicurezza

dell’approvvigionamento per l’Italia, in prospettiva europea la

capacità annua del nuovo gasdotto è sostanzialmente

marginale, contando 10 miliardi di metri cubi (Gmc) a fronte di

consumi superiori a 450 Gmc. La sua rilevanza potrebbe anche

aumentare con l’eventuale raddoppio a 20 Gmc annui, previsto

come opzione per il prossimo decennio, ma si tratta di una

prospettiva di lungo periodo e in ogni caso non in grado di

rivoluzionare il mercato europeo, anche se per quest’ultimo la

realizzazione di TAP rappresenta un importante elemento di

dinamismo. Il consorzio che lo realizzerà prevede infatti la

partecipazione di sette operatori di nazionalità diversa

interessati a una prospettiva più ampia rispetto al solo mercato

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italiano. La realizzazione del progetto rappresenterà dunque un

importante banco di prova del processo d’integrazione dei

mercati europei. Nel panorama energetico italiano la scelta di

realizzare il gasdotto TAP, per portare il gas azerbaigiano sui

mercati europei, è stata la principale evoluzione.

Il sistema infrastrutturale italiano con indice di sicurezza infrastrutturale pari a 88 (alto)

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L’infrastruttura è destinata a far crescere sensibilmente la

capacità d’importazione, aumentando inoltre in misura

significativa il livello di diversificazione dell’approvvigionamento

di gas naturale e dunque la sicurezza energetica nazionale.

La diversificazione sarà innanzitutto rispetto al paese fornitore,

consentendo infatti l’arrivo ai consumatori italiani del gas

azerbaigiano, mai giunto finora sui mercati dell’Europa

occidentale. La realizzazione del TAP consentirà inoltre di

diversificare i tracciati di transito del gas, evitando sia il

transito sul territorio russo, sia quello sul territorio di paesi

nordafricani. Infine, il gasdotto diversificherà ulteriormente i

punti d’ingresso sulla rete nazionale, aumentandone la

resilienza e consentendo per la prima volta l’afflusso di

approvvigionamenti internazionali direttamente nell’Italia

meridionale peninsulare. L’importanza del gasdotto per la

sicurezza energetica nazionale è poi evidente se si considera la

sua capacità di trasporto rispetto ai consumi nazionali: 10

miliardi di metri cubi (Gmc) all’anno a fronte di un consumo

medio previsto per la fine del decennio intorno agli 80 Gmc

all’anno. L’aumento di capacità d’importazione è dunque

particolarmente rilevante, paragonabile per dimensioni

all’impatto di un gasdotto da 60 Gmc a livello europeo. Inoltre,

un ulteriore impatto positivo sulla concorrenzialità del mercato

finale arriverà con l’aumento della capacità d’importazione

garantita dal TAP poiché è destinato ad aumentare la pressione

concorrenziale sugli operatori già attivi, generando benefici di

prezzo sui consumatori.

La quantificazione dell’impatto resta tuttavia al momento non

definibile con chiarezza, a causa delle incerte dinamiche di

mercato, attribuibili sia all’andamento dell’economia, sia

soprattutto all’evoluzione del complesso quadro regolamentare

esistente.

La rete infrastrutturale italiana si è anche dotata del nuovo

terminale di OLT Offshore, che è stato traghettato di fronte alle

coste toscane. Il terminale è costituto da una nave metaniera

riconvertita ancorata al fondale, 22 km al largo di Livorno. Il

gas scaricato dalle metaniere è trasferito direttamente alla rete

nazionale a terra attraverso una condotta posata sotto il

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fondale marino. La capacità del rigassificatore è di 3,75 miliardi

di metri cubi all’anno e, sebbene il quantitativo sia limitato

rispetto al consumo nazionale, dà un contributo alla

diversificazione soprattutto perché i flussi di gas naturale

liquefatto (GNL) possono giungere al terminale da una

molteplicità di terminali di liquefazione anziché lungo un solo

tracciato, come il gasdotto. L’impatto positivo del terminale non

si limita solo agli aspetti di sicurezza. Gli attuali prezzi

internazionali del GNL sono inferiori ai prezzi del gas importato

via gasdotto con contratti di lungo periodo. Questo permetterà

in teoria di portare sul mercato forniture a prezzi competitivi,

aumentando la concorrenzialità dell’offerta.

Un aspetto di difficile valutazione, con un impatto

potenzialmente molto grande sulla sicurezza energetica

nazionale ed europea, è quello del rischio di attacchi informatici

alle infrastrutture critiche energetiche. L’esistenza del rischio è

già stata messa in evidenza dagli attacchi subiti da alcuni

grandi operatori internazionali e nel corso del 2013 numerose

infrastrutture statunitensi sono state oggetto di sistematici

tentativi di violazione. Al momento tali attacchi non hanno

creato particolari disagi alla popolazione, ma hanno innalzato

l’attenzione degli organi politici e delle agenzie federali al

riguardo. A livello europeo, in seguito agli attentati di Madrid

del 2004, l’attenzione si è focalizzata sulla prevenzione,

gestione e risposta in caso di attentati terroristici a danno di

strutture il cui danneggiamento potesse comportare un “effetto

domino” in tutta l’Unione Europea. Per questo motivo il

Consiglio Europeo, nel dicembre 2008, ha emanato la Direttiva

2008/114/CE relativa all’individuazione e alla designazione

delle Infrastrutture Critiche europee, nonché alla valutazione

della necessità di migliorarne la protezione, limitandola, per il

momento, ai settori dell’Energia e dei Trasporti per i quali

recentemente, a livello nazionale, sono stati approvati i criteri

intersettoriali. La Presidenza del Consiglio dei Ministri (PCM) –

Segreteria Nucleo Interministeriale Situazione e Pianificazione

(NISP) aveva redatto la bozza finale della “Direttiva”,

concernente le procedure interministeriali per l’individuazione

delle Infrastrutture critiche Nazionali, che è stata presentata e

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approvata durante la riunione del NISP in data 31 ottobre 2013.

In sintesi la bozza riguardava l’individuazione e la designazione

delle infrastrutture critiche nazionali (ICN) per esigenze

esclusivamente nazionali e di sicurezza e, pur essendo

normativamente indipendente sia dalla Direttiva Europea

114/2008, sia dal suo recepimento nazionale (D.L. 11/4/2011

nr. 61) ne integra, di fatto, i contenuti. Dopo la successiva

verifica sulla sussistenza di appropriati fondamenti giuridici,

l’ipotesi dell’emanazione di tale "Direttiva" è, al momento,

tramontata ma la Presidenza del Consiglio dei Ministri sta

operando al fine di trovare una valida soluzione normativa alla

problematica, probabilmente attraverso un D.P.R. che

dovrebbe ricalcare il contenuto della sopra citata "Direttiva".

Comunque, la sicurezza dell’approvvigionamento italiano è

destinata ad aumentare in futuro grazie al maggior livello

d’integrazione delle reti a livello europeo, favorita anche da un

quadro regolamentare uniforme e da misure in grado di

spingere gli operatori ad agire in una prospettiva continentale.

Fonte:

Focus “Sicurezza Energetica” Osservatorio di Politica Internazionale.

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Evoluzione storica del concetto di sicurezza energetica Gianluca Carmine Ansalone – Analista indipendente

Oggi, sia in ambito accademico che politico, si dà quasi per

scontato che esista una stretta correlazione tra energia e

sicurezza.

Senza energia non c’è sviluppo. Rendere meno vulnerabili le

linee di approvvigionamento energetico è alla base delle

strategie di sicurezza di molti governi. L’energia è stata anche

motivo di conflitti epocali nella storia anche recente.

Ma non è sempre stato così. Innanzitutto perché il petrolio è

una scoperta relativamente recente, almeno nelle quantità

necessarie a farne un mezzo efficiente per illuminare le case e

le strade, alimentare le fabbriche, far correre un motore.

In passato, ritroviamo tracce di alcuni derivati degli oli

combustibili addirittura nelle cronache di Plinio il Vecchio, che

ad essi attribuiva portentose proprietà mediche e curative. Ma

è il mondo nuovo della Rivoluzione industriale e della rapida

urbanizzazione Ottocentesca a rendere il petrolio una necessità.

Da quel momento, la disponibilità immediata e “naturale” non

basterà più. Bisognerà andare a cercare il petrolio in giro per il

mondo e a profondità fino ad allora impensabili. Da questa

necessità hanno origine le grandi epopee dei primi esploratori e

dei primi pozzi petroliferi, aperto a Baku, nell’odierno

Azerbaijan, nel 1847.

Già dai primi passi della commercializzazione del petrolio i

margini di ricavo cominciano ad essere notevoli. La prima volta

nella storia in cui un barile di petrolio ha toccato il valore

equivalente di 100 dollari non è stato nel 2008 ma nel 1863.

All’inizio del XX secolo il mondo si divide sostanzialmente in tre

grandi aree sotto il profilo petrolifero: quella ricca di idrocarburi

ma che non ha ancora motivo per ricercarlo ed impiegarlo (il

Medio Oriente); quella ricca di petrolio e che ne sta facendo

abbondante uso per la crescita e la prosperità (gli Stati Uniti);

e quella geologicamente povera di petrolio ma che ha intuito

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che la sua disponibilità sarà sempre più importante in futuro

(l’Europa).

In quel periodo la Russia degli Zar si alimenta sostanzialmente

grazie al petrolio di Baku; l’America vive il suo momento d’oro

e in alcune aree come la Pennsylvania si contano più trivelle e

pozzi che abitanti. L’Europa ha una produzione modesta,

concentrata soprattutto in Polonia e Romania. Nel nostro

Continente si brucia a quel tempo soprattutto carbone, che

aveva fatto ricche le casse del Kaiser tedesco e di Sua Maestà

in Inghilterra.

Questo equilibrio però era destinato a non reggere a lungo. La

storia si avvicinava infatti ad uno dei suoi tornanti più

importanti e drammatici. I grandi Imperi europei arriveranno

infatti ben presto allo scontro militare più feroce e sanguinario

che l’umanità abbia mai conosciuto.

Nei primi anni del Novecento la Germania avvia un massiccio

programma di riarmo, basato soprattutto sul rafforzamento

della flotta navale e sui primi impieghi delle tecnologie

sottomarine. E’ l’industria pesante, alimentata dal carbone, a

sostenere le mire egemoniche della Germania.

L’Inghilterra, che basava la sua forza proprio sul presidio dei

mari e sul controllo delle rotte commerciali verso le Indie,

cominciava a vedere erose quelle che oggi si definirebbero le

proprie quote di mercato. La Germania era un competitor

aggressivo, capace di esprimere un’innovazione militare

poderosa per i tempi.

Winston Churchill, allora Primo Lord dell’Ammiragliato, decise

che il carbone da solo non bastava a rendere le navi inglesi più

veloci di quelle tedesche. Bisognava affidarsi al petrolio. Nel

1912 la decisione di abbandonare la propulsione a carbone per

quella a nafta divenne irreversibile. Di petrolio però in

Inghilterra non ce n’era, almeno a quel tempo e per le

tecnologie allora disponibili. Bisognava quindi procurarselo in

giro per il mondo ed importarlo in maniera rapida e sicura. Da

quel momento l’energia diventa una questione di sicurezza

nazionale.

Il mercato al tempo era composto da due soli “venditori”: da

un lato l’americana Standard Oil, difficile da ingaggiare visti i

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rapporti tra la ex colonia e la ex madrepatria; e dall’altro una

compagnia frutto dell’unione tra una compagnia olandese, la

Royal Dutch, ed un armatore, fortemente internazionalizzata e

animata da scopi puramente lucrativi e speculativi.

Fu ben presto chiaro quindi che non bastava avere soldi per

comprare petrolio; sarebbe stato più conveniente e sicuro

andarlo ad estrarre direttamente. Churchill approfittò con

astuzia di una situazione contingente: nel 1901 un ricco

imprenditore inglese si era fatto concedere diritti di

esplorazione petrolifera sulla quasi totalità della Persia

dell’allora Scià Mozaffar. In cambio a Teheran sarebbe andato il

16% di qualsiasi futuro profitto. Realizzate le prime scoperte in

quell’area, il petrolio andava in qualche modo trasportato. Ci

vollero anni per costruire il primo oleodotto che trasportava

petrolio fino alla foce dello Shatt-al-Arab, opera della Anglo

Persian Oil Company, l’antenata della BP. I soldi non bastarono

più per completare l’opera e Churchill, nel 1914, portò in

Parlamento una proposta di legge per l’acquisto del 51% della

APOC. La Marina di Sua Maestà avrebbe avuto un diritto di

prelazione per la fornitura ventennale di petrolio per alimentare

le sue navi.

Sei giorni dopo il voto favorevole della Camera dei Comuni,

Germania e Inghilterra si dichiarano ufficialmente guerra.

Da quel momento e per diversi decenni il petrolio e la sicurezza

energetica resteranno sostanzialmente un affare anglo-

americano. Gli USA ne hanno a disposizione una quantità pari a

tutto quello prodotto nel resto del mondo, circostanza che

risulta particolarmente favorevole alla grande rivoluzione

fordista in corso in quegli anni. Dalle catene di montaggio

escono infatti 15 milioni di autovetture l’anno, tutte alimentate

a petrolio. In Europa, nello stesso periodo, se ne contano a

malapena un milione in circolazione.

Churchill, che aveva intuito come sarebbe stato impossibile

vincere le guerre senza petrolio, ordinò alle truppe inglesi, nelle

ultime settimane della Prima Guerra Mondiale, di marciare in

Iraq fino a Mosul, un’area abitata in prevalenza da Curdi e dove

si prospettavano scoperte petrolifere particolarmente

interessanti.

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La Russia, in quegli anni, era impegnata nella Rivoluzione

d’Ottobre e nella gestione delle sue conseguenze, mentre in

Medio Oriente il precedente iraniano faceva ben sperare ma

servivano ingenti investimenti in esplorazione e perforazione,

fuori dalla portata della casse dissestate dell’Impero Ottomano.

Con questo spirito e con queste ambizioni si giunse, alla fine

del conflitto, alla firma dei celebri accordi Sykes – Picot. Gli

Inglesi vollero garantirsi l’amministrazione di quei territori che

promettevano meglio in termini di giacimenti petroliferi; a

Londra, sulla base di quegli accordi, andranno i territori

dell’Iraq e alla Francia il Levante mediterraneo, con Siria e

Libano.

Gli Stati Uniti non restarono certo a guardare, ma la

sovrabbondanza di petrolio che producevano non rendevano

impellente una decisione geopolitica netta o un impegno

militare diretto in Medio Oriente.

Fu solo alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale che anche a

Washington si cominciò a temere che gli enormi costi del

conflitto imminente avrebbero superato la disponibilità

autoctona di petrolio americano. Inoltre, proprio in quegli anni,

i primi studi dell’Agenzia geologica USA, cominciavano ad

ipotizzare un rapido deterioramento delle riserve e il

progressivo ma inesorabile esaurimento del petrolio.

L’Amministrazione americana decise di seguire le orme di

Londra e puntò decisamente verso quelle aree mediorientali

che erano rimaste fuori dalla “linea rossa” tracciata dagli

accordi Sykes-Picot. Presto i primi tecnici delle compagnie

petrolifere americane misero piede in Arabia Saudita, Kuwait e

Bahrein.

La stretta di mano sulla nave militare Quincy, al largo del

Canale di Suez, tra il Presidente americano Roosevelt e il re

saudita bin-Saud sancì un accordo che passerà alla storia come

uno dei momenti più significativi della geopolitica del petrolio.

Da allora, il legame tra sicurezza ed energia diventa

imprescindibile nelle relazioni internazionali.

Forti del ruolo di preminenza guadagnato con la Seconda

Guerra Mondiale, gli USA guadagnano anche concessioni

petrolifere in Iraq e Iran. E’ in quel momento che cambia

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ulteriormente il paradigma della geopolitica contemporanea:

dalle guerre vinte grazie al petrolio si passa alle guerre

combattute per il petrolio.

È il caso di quanto accadrà di lì a poco a Suez. A metà degli

anni ’50 passano dal Canale di Suez i due terzi del traffico di

petrolio che alimenta l’Europa. Il 26 luglio 1956 il Presidente

egiziano Nasser annuncia la nazionalizzazione del Canale.

Poche settimane dopo truppe israeliane, francesi ed inglesi

occupano la Penisola del Sinai. Un’azione che provoca

l’irritazione dell’Arabia Saudita, che sospende le forniture di

greggio a tutto l’Occidente. Con il Canale di Suez bloccato è

impossibile far arrivare petrolio in Europa per affrontare

l’inverno. L’unica rotta alternativa per il Vecchio Continente

sono gli Stati Uniti. Washington detta le sue condizioni politiche:

ritiro immediato dei soldati anglo-francesi e solo dopo il ritiro

dell’ultimo militare dall’area avrebbe iniziato a rifornire il resto

d’Europa.

La geopolitica dell’energia non è più un “ballo a due”. C’è un

solo protagonista al comando, l’America, che intende esercitare

il proprio ruolo in casa e in quello che ormai considera il suo

cortile energetico, il Medio Oriente.

Da questo momento, dal momento in cui cioè gli USA hanno

necessità di importare petrolio in abbondanza per mantenere

inalterato il proprio primato strategico e militare, il mondo

inizia a dividersi nettamente tra produttori e importatori di

petrolio.

Con l’ingresso sulla scena dei nuovi produttori – le monarchie

del Golfo, ma ben presto anche la Russia, la Libia e l’Egitto – il

mondo viene letteralmente inondato di petrolio. Gli stessi Stati

Uniti, con il Presidente Eisenhower, per evitare che l’industria

energetica nazionale venisse penalizzata dalle mutate

condizioni di mercato, imposero leggi ultra-protezionistiche,

con dazi pesanti sulle importazioni di molti prodotti raffinati. La

conseguenza fu la necessità per i Paesi produttori di

riappropriarsi delle risorse, per poter agire sui prezzi che nel

frattempo erano crollati ai minimi storici.

In quegli anni i Paesi produttori avevano un’arma in più da far

valere: il diritto internazionale. La Risoluzione 1803 delle

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Nazioni Unite (1962) riaffermava la sovranità dei popoli e delle

Nazioni sulle proprie risorse naturali, nonché la possibilità di

esproprio per ragioni di sicurezza e utilità pubblica e comunque

di interesse nazionale.

Inizia da qui la grande epoca delle nazionalizzazioni petrolifere

e il paradigma energetico cambia nuovamente. Non è più il

possesso del pozzo o la proprietà della concessione a

determinare la divisione geopolitica e strategica, quanto la

sempre più cruciale sicurezza degli approvvigionamenti, ovvero

dei mezzi e delle rotte attraverso cui il petrolio passa. Non

importa più di chi è il petrolio; l’importante è che affluisca

senza intralci e che non venga usato dai produttori come arma

di ricatto. È invece quest’ultima condizione poche volte verrà

esaudita.

In mezzo secolo di storia il Medio Oriente ha conosciuto cinque

guerre: quella di Suez, di cui si è già scritto; quella dei Sei

Giorni, con l’embargo imposto dai Paesi produttori verso Stati

Uniti e Inghilterra; quella del Kippur, con l’ennesimo embargo,

questa volta verso USA e Olanda e con un prezzo del barile che

supera i 12 dollari; e infine la Prima Guerra del Golfo (1990),

con l’embargo imposto questa volta dalla coalizione

internazionale contro l’export petrolifero iracheno.

Nel mezzo ci sono altri due eventi di enorme portata in

quell’area e i cui effetti sono stati planetari: la Rivoluzione

khomeinista in Iran del 1979 e la Guerra Iran – Iraq (1980-

1988).

In tutti questi casi il barile di petrolio agisce da amplificatore

delle tensioni o da leva per sollecitare reazioni internazionali.

La parentesi delle nazionalizzazioni volgeva così rapidamente al

termine, per lasciare spazio all’era dell’interdipendenza tra

produttori e consumatori. I consumatori hanno bisogno del

petrolio che non hanno per crescere. Sono disponibili a pagarlo,

anche profumatamente, purché sia sempre tenuta sgombera

da intralci – fisici o geopolitici – la linea di approvvigionamento,

sia essa un tratto di mare, un oleodotto o una nave.

I produttori hanno bisogno di vendere e, se possibile, al prezzo

più alto.

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Ad incidere su quest’ultimo ci sono molti fattori. Quello

principale, da manuale di economia politica, ovvero il semplice

incrocio tra domanda e offerta, è diventato nel corso del tempo

quasi marginale, surclassato da aspetti quali le tensioni

geopolitiche, la qualità del petrolio – e di conseguenza la

difficoltà per la sua estrazione – , la speculazione finanziaria.

Ad unire produttori e consumatori c’è comunque un unico

interesse: fare in modo che il petrolio arrivi dove è necessario,

quando è necessario. Mettere in guardia dal pericolo che

qualcuno voglia chiudere i rubinetti di petrolio e gas è spesso

un esercizio accademico. I consumatori vogliono energia; ma

anche i produttori vogliono venderla. Anzi, sempre di più

devono venderla per sostenere la propria economia nazionale e

la solidità delle leadership politiche che in alcune aree del

mondo si basa sulle rendite e sulle relazioni. Senza questo

reciproco e implicito scambio non ci sarebbe una buona parte

della realtà così come la conosciamo oggi.

Certo, alcuni consumatori – tra cui l’Italia – hanno dovuto

prendere qualche precauzione in più. Il nostro ruolo di frontiera

strategica nella Guerra Fredda ci rendeva particolarmente

vulnerabili anche agli shock energetici e, sapientemente, la

nostra industria petrolifera di Stato ha dovuto diversificare il

più possibile e blindare gli approvvigionamenti con contratti

magari più onerosi ma con molte più garanzie in termini di

forniture. Sottoscrivere accordi di lungo termine – i cosiddetti

take-or-pay – ha permesso ai consumatori a corto di risorse di

avere la certezza delle forniture, pagando un po’ di più quella

che potremmo definire una polizza contro il rischio geopolitico.

Oggi, il tema dell’interdipendenza vale ancora; ma sta mutando

nuovamente il paradigma strategico di riferimento del mondo

dell’energia, con l’avvento sulla scena delle risorse non

convenzionali e un rapporto tra energia e sicurezza che sarà

presto da riscrivere.

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Sezione I La visione nazionale

Per un’energia sicura, sostenibile e conveniente: il ruolo della diplomazia italiana nei fori multilaterali

Luigi Efisio Marras – Direttore Generale per la mondializzazione e le questioni globali – Ministero Affari Esteri

L’Italia ha sempre guardato con attenzione all’aspetto della

sicurezza energetica. Tale atteggiamento è comprensibile alla

luce delle ben note necessità di approvvigionamento di materie

prime energetiche: paese sostanzialmente povero di idrocarburi,

l’Italia e le sue principali imprese di comparto hanno

costantemente cercato di assicurarsi oltre confine flussi stabili e

certi di fonti combustibili (petrolio, gas metano, gas liquefatto),

trovandosi spesso a dover negoziare delicati contratti di

fornitura con le controparti. La diplomazia italiana ha

storicamente assecondato questo essenziale aspetto della

politica industriale ed energetica, favorendo contatti tra le parti,

agendo da tramite con le istituzioni e i governi stranieri,

preparando l’imprescindibile terreno politico, smussando le fasi

talora spigolose di una negoziazione dagli esiti incerti con

interlocutori differenti per storia, cultura, economia e finanche

ideologia. Oggi, in un quadro mondiale per alcuni rispetti

ancora simile al passato, ma che risulta invece profondamente

mutato per altri essenziali tratti, il ruolo della politica estera è,

se possibile, ancora più importante. Esiste infatti oggi un

embrione di governance globale dell’energia, fatto di agenzie e

enti internazionali, che pur non sostituendosi al momento

“bilaterale”, lo affianca ed accompagna, fornendo esperienze

condivise, migliori pratiche, dati statistici e documenti, un

quadro di riferimento comune. Il moltiplicarsi degli organismi

internazionali settoriali impone al paese una presenza attiva e

non episodica, il cui fine ultimo è, e non può che essere,

l’interesse nazionale. Ecco che allora l’aspetto dell’energia

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viene calato in questa realtà multilaterale e sempre più globale,

in cui matura una fruttuosa riflessione, di cui anche l’Italia è

parte, che nel corso degli anni va declinando il tema

dell’energia secondo tre dimensioni fortemente interconnesse e

seguendo la rigida geometria di un triangolo equilatero ai cui

vertici stanno i concetti di sicurezza, di sostenibilità e di

convenienza. I tre concetti sono di per sé sufficientemente

chiari da non richiedere un’esplicazione aggiuntiva. Merita solo

rilevare come, pur nella loro intima compenetrazione, ognuno

di essi acquisti speciale prominenza con il mutare delle

condizioni storiche, economiche e politiche. Se la sicurezza

energetica, come abbiamo accennato, è sempre stata al centro

delle preoccupazioni dei Governi, il concetto di affordability dei

prezzi dell’energia è tornato in primo piano, dopo le fasi

storiche del 1973 e del 1980 caratterizzate dall’impennata dei

prezzi petroliferi, con la recente crisi economica, mentre il

concetto di sostenibilità (ambientale, ma anche sociale) è più

recente e nasce dal fertile humus del movimento ambientalista

e dai sempre più preoccupanti dati scientifici. Cercherò di

evidenziare il ruolo della diplomazia italiana in alcuni specifici

ambiti multilaterali settoriali: nell’alveo delle Nazioni Unite, in

ambito europeo, nei fori quali il G8 e il G20, in sede AIE ed

IRENA. In chiusura potrà essere utile un riferimento, a titolo di

esempio, ad un recente di negoziato bilaterale, quello del

progetto TAP, in cui l’interesse nazionale si esplica con

particolare evidenza.

Dei tre concetti sopra menzionati, quello di energia sostenibile

è, come si è detto, il più recente; ha ricevuto una nuova,

decisiva spinta in ambito negoziale e diplomatico multilaterale,

nel 2010 allorché il Segretario Generale delle Nazioni Unite,

Ban Ki-moon, inserendosi nell’alveo del processo che nel 2012

avrebbe portato alla Conferenza sullo Sviluppo Sostenibile di

Rio de Janeiro (“Rio + 20”), ha lanciato l'iniziativa “Sustainable

Energy for All (SE4All)”, con il precipuo scopo di promuovere la

sostenibilità energetica. L’Assemblea Generale dell'Onu ha

conseguentemente adottato la risoluzione 65/151 che ha

proclamato il 2012 "International Year for Sustainable Energy

for All" e a fine 2012 ha dichiarato il decennio 2014-2024 quale

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la decade dell’“energia sostenibile per tutti”. In particolare,

l’iniziativa si propone tre obiettivi specifici da raggiungere entro

il 2030:

- assicurare l’accesso universale ai servizi energetici

tecnologicamente moderni;

- raddoppiare il tasso di efficienza energetica;

- raddoppiare la percentuale di energia rinnovabile all’interno

del mix energetico globale.

Le considerazioni che hanno spinto il Segretario Generale e la

stessa Assemblea Generale a promuovere questa iniziativa si

basano sulla constatazione che l'energia è di fondamentale

importanza in ogni società e ad ogni latitudine per assicurare

uno sviluppo economico e sociale che sia equilibrato e

sostenibile. L'accesso all'energia sostenibile per tutti,

specialmente nei paesi in via di sviluppo e nelle zone oggi non

coperte da un sufficiente dispacciamento energetico, è

essenziale per rafforzare le economie, tutelare l’ambiente e in

ultima analisi raggiungere l'equità e la stabilità sociale. In

questo senso, al fine di assicurare che l’utilizzo di fonti

energetiche non impatti in maniera invasiva sull’ambiente,

sono da privilegiare le fonti rinnovabili e a maggior efficienza.

Fonti di energia come l'eolico, il solare, il geotermico e gli

impianti a biomasse sono in grado di fornire energia con minori

conseguenze per l'ambiente, e, grazie anche alla loro alta

versatilità di utilizzo, permettono di raggiungere le aree rurali e

più sperdute, specialmente se abbinate alla messa in opera di

mini-reti di distribuzione elettrica. L’iniziativa portata avanti da

Ban Ki-moon si collega ad un altro rilevante processo, cui

partecipa tutta la membership ONU, volto ad individuare precisi

Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, che integrino in una maniera

coerente le tre dimensioni dello sviluppo (economica, sociale e

ambientale) in una prospettiva di superamento degli Obiettivi

di Sviluppo del Millennio fissati nel 2000, con un orizzonte di

attuazione al 2015. L’accesso all’energia sostenibile sarà uno di

tali obiettivi.

Rimanendo in ambito multilaterale, l’Italia è membro fondatore

dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE). Agenzia semi-

indipendente dell’OCSE, composta da 28 membri, l’AIE è nata

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con l’obiettivo di monitorare l’evoluzione del mercato mondiale

del petrolio, del gas, delle rinnovabili e delle altre fonti di

energia, gestire un sistema di informazione e di studio delle

dinamiche degli idrocarburi, promuovere politiche energetiche

sostenibili e sicure nei paesi membri al fine di favorire la

stabilità degli approvvigionamenti energetici. L’AIE ha nel corso

degli anni sempre più preso a considerare anche la dimensione

ambientale, con una specifica attenzione ai temi dello sviluppo

sostenibile, delle energie rinnovabili e della riduzione delle

emissioni di gas serra prodotta dall’utilizzo di idrocarburi. Come

si vede, anche in questo ambito il trinomio sicurezza-

convenienza dei prezzi-sostenibilità riceve da parte dell’Agenzia

la giusta attenzione. Da segnalare in questo senso la recente

pubblicazione dello Special Report del World Energy Outlook

2013 “Redrawing the Energy-Climate Map” 1 , presentato in

Italia lo scorso luglio presso il Ministero degli Affari Esteri alla

presenza della stessa Direttore Esecutivo dell’AIE, Maria van

der Hoeven. Con questo rapporto speciale dedicato al nesso

clima-energia, l’AIE ha inteso contribuire a rilanciare il dibattito

globale sui cambiamenti climatici, fornendo indicazioni

operative sul contributo centrale che le misure in campo

energetico possono dare alla riduzione delle emissioni. Il

rapporto evidenzia come gli sforzi per limitare la crescita della

temperatura media del pianeta non siano sufficientemente

ambiziosi: le emissioni globali di CO2 nel 2012 sono aumentate

dell’1,4% e con l’attuale trend si rischia un aumento

complessivo tra i 3,6 e i 5,3 gradi. L’AIE individua e propone

quattro azioni – a costo netto zero, senza impatto recessivo e

basate su tecnologie ampiamente disponibili – che potrebbero

ridurre le emissioni dell’8% rispetto allo scenario ‘Business as

Usual': maggiore efficienza energetica nell'edilizia,

nell'industria e nel trasporto; limitazione nella costruzione e

nell'utilizzo degli impianti a carbone più obsoleti e meno

1 L’abstract in italiano del rapporto è reperibile al seguente indirizzo:

http://www.iea.org/media/translations/weo/Redrawing_Energy_Climate_Map_Italian_WEB.pdf.

L’intero documento in inglese è reperibile al seguente indirizzo: http://www.iea.org/publications/freepublications/publication/RedrawingEnergyClimateMap_2506.pdf.

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efficienti; dimezzamento del metano rilasciato nell'atmosfera

dai giacimenti di gas e petrolio; parziale eliminazione dei

sussidi al consumo di combustibili fossili. Con un’attenzione

sempre maggiore alla sostenibilità delle fonti energetiche e alle

potenzialità di creazione di nuovi posti di lavoro ‘verdi’ (green

growth) l’Italia ha fortemente voluto essere parte anche di una

agenzia istituita di recente ma con prospettive già molto

promettenti: l’Agenzia Internazionale per le Energie

Rinnovabili (IRENA). La nostra diplomazia ha seguito IRENA sin

dai primi passi e ne abbiamo negoziato lo statuto, ratificandolo

poi nel 2012. In questo caso il focus è esclusivamente sulle

energie rinnovabili, con l’obiettivo di raggiungere una maggiore

diversificazione energetica attraverso una serie di tecnologie

energetiche sostenibili che forniscano per il futuro energia

pulita, sicura e a prezzi ridotti. A chiudere in un certo senso il

cerchio e a sottolineare che tutte queste iniziative non sono

avulse l’una dall’altra, IRENA è stata individuata dal Segretario

Generale delle Nazioni Unite quale hub tecnologico nell’ambito

dell’iniziativa “SE4ALL”, che ha avviato un programma specifico

chiamato REMAP 2030, una roadmap globale per identificare

politiche e migliori pratiche al fine di raddoppiare la quota di

energie rinnovabili da qui al 2030.

I tre aspetti fondamentali del concetto di energia tornano

anche, inevitabilmente, in ambito europeo. Anche in questo

caso sono eventi esogeni (la crisi economica, le incrementate

preoccupazioni ambientali) ad aver portato gli Stati membri

della UE ad una rinnovata riflessione in ambito energetico.

Tanto per limitarci alla più alta e recente espressione in questo

senso, un passo importante è stato fatto dal Consiglio Europeo

del 22 maggio 20132, che ha evidenziato come l’Europa abbia

bisogno, per sostenere la propria economia, di un

approvvigionamento energetico che sia sicuro, a prezzi

accessibili e sostenibile. In quella occasione sono stati adottati

una serie di orientamenti in quattro settori che, negli auspici

dei Capi di Stato e di Governo, “dovrebbero consentire all'UE di

2 Il testo delle conclusioni è reperibile al seguente indirizzo: http://www.consilium.europa.eu/uedocs/cms_data/docs/pressdata/it/ec/137219.pdf.

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favorire la sua competitività e rispondere alla sfida dei prezzi e

costi elevati: l'urgente completamento di un mercato interno

dell'energia pienamente funzionante e interconnesso,

l'agevolazione dei necessari investimenti nel settore energetico,

la diversificazione degli approvvigionamenti dell'Europa e una

maggiore efficienza energetica”. Il documento di conclusioni

continua ribadendo il legame non dissolubile con il clima:

“Diventa quindi ancor più importante disporre di un mercato

del carbonio che funzioni correttamente e di un quadro di

politica climatica ed energetica post 2020 prevedibile che sia

propizio alla mobilitazione di capitali privati e alla contrazione

dei costi degli investimenti nel settore energetico. Il Consiglio

europeo accoglie con favore il Libro verde della Commissione

intitolato "Un quadro per le politiche dell'energia e del clima

all'orizzonte 2030" e tornerà su questo tema nel marzo 2014,

dopo che la Commissione avrà presentato proposte più

concrete, per discutere opzioni politiche in materia, tenendo

presenti gli obiettivi stabiliti per la Conferenza delle Parti della

Convenzione sui Cambiamenti Climatici (CoP 21) nel 2015.

L’Italia partecipa con impegno alla predisposizione delle

politiche europee in materia di energia e clima, avendo bene in

mente sia le proprie priorità nazionali sia le pressanti esigenze

regionali e globali. In tal senso, l’impegno italiano nel recepire

(e, in un caso, superare) gli obiettivi posti dal “pacchetto 20-

20-20” è stato a ragione messo nel più giusto risalto anche

dalla Strategia Energetica Nazionale. Guardando ad una

latitudine più ampia, l’orizzonte al 2030, che stiamo

negoziando in questi mesi con i partner europei, dovrà ribadire

la volontà di ridurre le emissioni di gas a effetto serra,

assicurare la sicurezza dell’approvvigionamento energetico, e

aiutare in maniera determinante la crescita e la competitività

anche al fine di diminuire il differenziale di prezzo rispetto agli

Stati Uniti.

L’importanza crescente dei temi energetici si riscontra altresì

nei fori di alto livello come il G8 e il G20, cui l’Italia partecipa

con convinzione secondo quelle linee strategiche sopra

ricordate. Soprattutto in ambito G20 il tema energia ha assunto

una particolare quanto benvenuta rilevanza: è stato infatti

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costituito uno specifico Gruppo di lavoro, a cui l’Italia partecipa

con esperti del Ministero degli Esteri e del Ministero

dell’Economia e Finanze. Nel Comunicato Finale del Vertice di

San Pietroburgo del settembre scorso, i Leader delle 20

economie più sviluppate, che generano oltre l’80 per cento del

PIL mondiale, hanno riconosciuto che l’energia “is a key factor

to achieve better quality of life and to improve global economic

performance” ed hanno concordato sul comune interesse a

sviluppare fonti energetiche più pulite, efficienti ed affidabili,

oltre a mercati finanziari e fisici delle commodities energetiche

più trasparenti3. I G20 si sono inoltre impegnati ad aumentare

la cooperazione, a fornire dati di mercato più accurati e a

sostenere lo sviluppo di tecnologie più efficienti e rispettose

dell’ambiente, secondo una visione di sviluppo più sostenibile

nel tempo. Si tratta di precisi impegni politici, che, per quanto

non giuridicamente vincolanti, sono sottoposti ad un attento

scrutinio da parte della membership che verifica la loro

attuazione con periodici rapporti di verifica. La presenza nel

G20 delle più importanti economie emergenti e dei più grandi

consumatori energetici del pianeta (oltre ad alcuni importanti

produttori, a partire da Russia ed Arabia Saudita) rende tali

impegni particolarmente significativi.

Infine, sul piano più prettamente bilaterale, l’Italia conduce una

coerente politica di interesse nazionale mirante ad assicurarsi

uno stabile approvvigionamento energetico da una pluralità di

fonti, al fine di suddividere il rischio e quindi minimizzarlo nel

caso in cui una delle fonti di fornitura sospenda l’erogazione di

gas naturale o petrolio. Prima di illustrare un recente esempio

di successo della nostra diplomazia e della strategia energetica

italiana, conviene ricordare brevemente i cardini della politica

italiana dell’energia, come sono stati ben evidenziati dalla

Strategia Energetica Nazionale, approvata dal Governo lo

scorso marzo e in cui ritornano pienamente i tre concetti sopra

3 La “G20 Leaders’ Declaration” del vertice di San Pietroburgo del 5-6 settembre 2013 è reperibile all’indirizzo www.g20.org/load/782795034.

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ricordati4. La Strategia si articola su quattro macro obiettivi di

medio-lungo periodo al 2020:

- riduzione dei costi energetici;

- raggiungimento e superamento degli obiettivi del Pacchetto

europeo Clima-Energia 2020;

- sicurezza dell’approvvigionamento di fonti energetiche, in

particolare di gas naturale, e riduzione della dipendenza

dall’estero;

- sviluppo della filiera industriale dell’energia.

In quest’ottica, nel rispetto delle linee-guida UE e anticipando i

fondamentali concetti poi espressi dalla Strategia Energetica

Nazionale, l’Italia ha scelto di guardare con attenzione al

cosiddetto “corridoio sud”, in particolare al progetto di gasdotto

Trans-Adriatic Pipeline (TAP).

Tale progetto, riconosciuto dall’UE “progetto di comune

interesse”, prevede entro il 2019-20 la costruzione di un

gasdotto di circa 870 Km (di cui 117 sottomarini) per

trasportare il gas naturale dall’Azerbaigian al mercato europeo,

attraversando Turchia, Grecia e Albania. Ciò al fine, sopra più

volte ricordato, di differenziare, aumentandole, le fonti di

approvvigionamento di gas naturale. I progetti in competizione

per il trasporto di gas azero erano due: oltre al TAP, vi era il

progetto Nabucco West, che prevedeva di veicolare il gas azero

partendo dal confine turco per giungere in Austria passando

per Romania, Bulgaria e Ungheria. Il 28 giugno 2013 il TAP è

stato selezionato dal Consorzio Shah Deniz quale progetto

vincitore per la realizzazione del corridoio meridionale. La

vittoria del TAP, il cui consorzio era originariamente composto

dalle aziende E.ON (tedesca), Statoil (norvegese) e Axpo

(svizzera) e si è in seguito allargato a comprendere anche le

compagnie BP, Socar, Fluxys e Total, ha rappresentato un

esempio virtuoso di come l’azione di governo e la diplomazia

possano agire per l’interesse nazionale.

4 Il testo integrale della Strategia energetica Nazionale è reperibile

all’indirizzo www.sviluppoeconomico.gov.it/images/stories/normativa/20130314_Strategia_Energetica_Nazionale.pdf.

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Ripercorriamo brevemente le tappe salienti dei passi che hanno

portato il Governo ad appoggiare il progetto.

L’abbrivio dell’intero processo si è avuto con la missione a Baku,

nel luglio 2012, del Sottosegretario per gli Affari Esteri Marta

Dassù e il Sottosegretario per lo Sviluppo Economico Enrico De

Vincenti. Nel corso della missione sono state fornite le prime

assicurazioni sull’impegno del Governo italiano a favore del TAP

e sono stati avviati con Atene e Tirana i negoziati per la

conclusione di un primo accordo intergovernativo a tre.

Successivamente, il 27 settembre 2012, i Ministri degli Esteri di

Italia, Grecia e Albania hanno firmato un Memorandum quale

intesa preliminare al successivo accordo intergovernativo di

dettaglio. L’accordo, firmato il 13 febbraio 2013, specifica i

dettagli dell’intesa, prevedendo disposizioni che riconoscono

anzitutto la rilevanza strategica del gasdotto; definiscono i

principi di collaborazione fra le parti, l’ambito giuridico e il

regime fiscale applicabile nei tre Paesi; stabiliscono la necessità

di rispettare standard uniformi in materia di sicurezza,

ambiente, lavoro, istituiscono una commissione mista con

l’incarico di monitorare il progetto e il rispetto degli standard

sopra ricordati. Il 23 maggio scorso ha quindi avuto luogo a

Tirana la firma di un Memorandum di Intesa tra i Governi di

Albania, Croazia, Montenegro sui progetti di gasdotto TAP e IAP

(Ionian-Adriatic Pipeline), che ha ampliato il supporto politico al

progetto TAP. L’intesa ha formalizzato il sostegno ai due

progetti, ne ha evidenziato la complementarietà nel contribuire

alla sicurezza degli approvvigionamenti energetici della regione

e ha previsto la loro interconnessione. Il 28 giugno, come detto,

il progetto TAP è stato scelto dal Consorzio Shah Deniz quale

progetto vincitore per la realizzazione del tratto europeo del

corridoio meridionale. Il consorzio Shah Deniz ha usato criteri

oggettivi per arrivare alla scelta: prezzi di mercato e tariffe di

accesso alle reti, capacità nel realizzare le infrastrutture nei

tempi previsti dal cronoprogramma, espandibilità dei volumi

trasportati, disponibilità finanziaria, competenze

ingegneristiche, trasparenza e coinvolgimento delle comunità

locali. L’11 agosto 2013, durante una visita ufficiale del

Presidente del Consiglio Enrico Letta in Azerbaigian - la prima

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in 22 anni di indipendenza - l’energia e il TAP hanno

rappresentato il primo punto in agenda nei colloqui tra il

Presidente Aliyev e il Premier Letta. Italia e Arzerbaigian hanno

con l’occasione adottato una Dichiarazione Congiunta in

materia di cooperazione energetica che prevede la creazione di

un Gruppo di Lavoro con Albania, Grecia e Arzerbaigian per

monitorare i progressi nella realizzazione del TAP ed assicurare

il rispetto della tabella di marcia dei lavori. Infine, il 5 dicembre

2013 il Parlamento ha approvato in via definitiva la ratifica

dell'Accordo TAP.

In conclusione: in un panorama, quale quello energetico, che si

presenta estremamente variegato in senso sia tematico sia

geografico, e (più che mai come adesso) in repentina

trasformazione, l’azione della diplomazia italiana a supporto

della più ampia politica governativa deve anch’essa dotarsi di

strumenti concreti, immediatamente operativi, che sappiano

operare un raccordo funzionale con le altre amministrazioni

dello Stato, che permettano non solo di reagire rispetto alla

realtà che cambia, ma prevenire il cambiamento mediante

elementi conoscitivi e di analisi che siano all’altezza della sfida.

I trend energetici, la volatilità dei prezzi, l’andamento dei flussi

in entrata, l’approvvigionamento e la sua eventuale improvvisa

sospensione, la complessa gestione ambientale e sociale

dell’energia, il supporto alle aziende italiane: per fare tutto ciò

è indispensabile una politica estera adeguata al compito

assegnato e consapevole delle sfide poste dal XXI secolo.

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La sicurezza delle rotte marittime italiane nell'estero vicino

Paolo Quercia – Ricercatore Ce.Mi.S.S.

L’esplosione della pirateria nell’Oceano indiano tra il 2008 ed il

2011 ha riproposto, anche all’attenzione del grande pubblico, il

problema della sicurezza delle rotte marittime italiane. In Italia,

circa il 60% delle importazioni ed il 40% delle esportazioni

avvengono per mezzo di trasporti marittimi che rappresentano

il primo sistema di trasporto internazionale del nostro paese, di

gran lunga superiore a quello degli altri sistemi ferroviario e

stradale. Sono circa 500 milioni le tonnellate che ogni anno

attraversano i confini italiani via mare (su un totale europeo di

3,5 miliardi) ed il nostro paese, assieme a Gran Bretagna e

Paesi Bassi, è il primo movimentatore europeo di merci via

mare. All’interno di questo volume notevole di merci che

viaggiano lungo le rotte marittime da e per l’Italia, vi sono

anche i prodotti che possono essere definiti di utilizzo

strategico, come le materie prime necessarie ai processi

industriali e gli approvvigionamenti energetici, da cui l’Italia

dipende in maniera rilevante. Oltre a gas e petrolio, vanno

inclusi tra le materie prime strategiche anche alcuni minerali,

metalli, prodotti siderurgici oltre che gli altri semilavorati che

rivestono un ruolo cruciale per il nostro sistema industriale di

trasformazione.

L’Italia è dunque un paese dall’alto grado di dipendenza

energetica dall’estero e legato ad un numero ridotto di paesi

fornitori, con la conseguenza che il nostro paese ha uno dei

tassi di rischio per la sicurezza energetica (energy security risk

index) più alto tra tutti i paesi dell’area OCSE. Nessun paese

paragonabile all’Italia per dimensioni e ruolo nell’economia

mondiale si trova ad avere valori di rischio energetico così

elevati. Queste sono le basi di vulnerabilità del nostro sistema

di approvvigionamento energetico che ci portiamo dietro dagli

anni settanta e di cui la dimensione, marittima rappresenta una

quota rilevante.

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Allo stesso tempo l’Italia si trova in una posizione di prossimità

strategica alle risorse energetiche del Nord Africa, del Medio

Oriente e dell’Eurasia, ma nonostante questo, le rotte di

approvvigionamento energetico si snodano a cavallo di aree

geopolitiche tutt’altro che stabili e sicure. Non solo gas e

petrolio sono estratti in paesi dall’alto rischio politico, ma

buona parte delle rotte marittime di trasporto verso l’Italia

attraversano aree a rischio di conflitto, interessate da fenomeni

terroristici e di pirateria o da croniche forme di instabilità

politica che possono trasformarsi in rischi di transito. Dopo la

deriva d’instabilità presa da numerosi paesi interessati dalle

cosiddette rivolte della primavera araba, l’area d’insicurezza si

è ulteriormente estesa al Mare Mediterraneo e oramai prosegue,

senza soluzione di continuità, dalle coste meridionali del

Mediterraneo fino all’Oceano Indiano, interessando, pressoché

nella sua interezza, la rotta marittima tra Europa, Golfo Persico

e Asia. La presenza lungo tale direttrice di weak states e di

failed states, nonché di un ampia gamma di minacce

asimmetriche che vanno dalla pirateria, al terrorismo, ai traffici

criminali, alla proliferazione di armi leggere, alla moltiplicazione

dei mini-eserciti privati, rende sempre più insicure le rotte

marittime strategiche italiane. Tale insicurezza è accresciuta

dal fatto che molte di tali minacce sono di natura globale e

transnazionale, e spesso si manifestano al di fuori dei confini

nazionali degli Stati o nelle acque territoriali e lungo le coste di

Stati scarsamente capaci di esercitare la propria sovranità e

collaborare alla cooperazione marittima internazionale.

Di particolare sensibilità e rilevanza per l’Italia è ovviamente

l’area del Golfo di Aden, ove ogni giorno transitano 3,3 milioni

di barili di petrolio e attraverso cui passano anche le 26 milioni

di tonnellate di greggio annue dirette verso il nostro paese

provenienti da Arabia Saudita, Iran, Iraq e Kuwait; ma anche le

navi metaniere di LNG provenienti dal Qatar, per le quali si

prevede nei prossimi anni una crescita dei volumi di

importazione. L’Italia è dunque un attore importante della

geopolitica marittima internazionale, con la possibilità di

accrescere ulteriormente il suo ruolo di hub energetico europeo,

soprattutto in previsione della creazione di un vero ed integrato

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mercato europeo del gas. Le debolezze e le vulnerabilità degli

spazi marittimi da cui dipendono molte delle nostre rotte

dovrebbero spingere l’Italia a giocare un ruolo sempre più

attivo nella costruzione della sicurezza marittima internazionale,

sia con le necessarie missioni marittime internazionali, sia

attraverso la stabilizzazione, assistenza o ricostruzione di alcuni

paesi che svolgono un ruolo chiave di cerniera lungo le rotte

energetiche nazionali. Libia, Egitto e Somalia sono tre paesi che,

pur con diverse situazioni e modalità, dovrebbero vedere un

impegno rafforzato italiano nella stabilizzazione interna anche

ai fini di contribuire alla costruzione di una maggiore sicurezza

marittima.

E’ difatti chiaro che la protezione delle rotte marittime

energetiche nazionali non è una questione che riguarda la sola

sfera marittima né il solo strumento militare ma deve essere

posta come un più generale obiettivo di politica estera.

Obiettivo che, al tempo stesso, non può essere raggiunto con i

soli sforzi nazionali e, per via della natura sempre più globale

ed estesa delle minacce, necessita di un’azione coordinata

multilaterale assieme agli altri paesi interessati. È chiaro che la

capacità coordinata di gestione delle crisi e di proiezione delle

forze navali a supporto di altre misure militari o civili in questa

vasta area di crisi, rappresenta uno dei migliori strumenti di

risposta alle minacce alla sicurezza marittima che possono

nascere. L’esempio della pirateria somala, esplosa tra il 2008

ed il 2011 e faticosamente messa sotto controllo con un ampio

dispositivo di azioni sia in mare che sulla terra, rappresenta un

esempio importante sia del tipo di minacce che possono

nascere e svilupparsi sia delle modalità di contrasto. Le

tecniche di abbordaggio dei pirati e la vulnerabilità mostrate da

molte delle grandi navi da trasporto hanno mostrato al mondo

che con l’utilizzo di team di pochi uomini malamente armati si

può prendere il controllo di giganti del mare dal valore di

svariate decine di milioni di dollari. E non è detto che il

sequestro a fine di estorsione di un riscatto sia

necessariamente l’esito previsto per questo tipo di azioni

paramilitare, che potrebbero, con minimi accorgimenti,

trasformarsi in operazioni di carattere terroristico, volte a

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mettere in atto attacchi suicidi o abbordaggi con la presa di

ostaggi. Non si può che confermare quanto già sostenuto in

numerose altre sedi, ossia che oggi il concetto di sicurezza

marittima è sempre più portato ad espandersi ben oltre i limiti

classici della difesa navale tradizionale, dovendo includere il

contrasto e la prevenzione di quelle minacce asimmetriche o

atipiche che possono impedire i liberi commerci e, soprattutto,

mettere in pericolo l’approvvigionamento di risorse energetiche.

Nelle rotte marittime strategiche, specialmente in prossimità

dei choke points e lungo le coste dei failed states, la sicurezza

marittima necessiterebbe anche dello svolgimento di funzioni di

polizia marittima e costiera surrogate, nel caso in cui non vi

siano autorità statuali in grado o intenzionate ad operare che

nel mare proliferino numerose attività illegali. In particolare il

caso somalo dimostra che la criminalizzazione incontrollata e

incontrastata di alcuni spazi marittimi – che divengono zona

franca per traffici di uomini, di armi, di droga, di rifiuti tossici,

di armi di proliferazione di massa eccetera – crea quel

substrato da cui nascono e proliferano le minacce asimmetriche

lungo le rotte strategiche e che mettono a rischio la libertà di

movimento del naviglio e del flusso delle risorse strategiche.

Abbiamo abbandonato la terraferma somala venti anni fa

lasciandola in mano ai warlords e pensando che in mare i

pescatori illegali e i trafficanti di armi e di uomini non potessero

divenire un problema per gli interessi marittimi mondiali. Venti

anni dopo ci siamo dovuti accorgere che pescatori e trafficanti

sono divenuti pirati, sequestrano le navi, incassano riscatti di

milioni di dollari, e pagano il pizzo agli al-Shabaab legati ad al-

Qaeda che nel frattempo avevano preso il controllo della terra.

Abbiamo dovuto inviare le marine militari di mezzo mondo per

evitare che il traffico marittimo tra Asia ed Europa fosse

costretto a circumnavigare l’Africa, marginalizzando così anche

il Mediterraneo Orientale.

Può sembrare superfluo, ma è necessario ricordare che

l’esplosione di queste minacce è l’altra faccia degli effetti che la

cosiddetta globalizzazione ha prodotto su paesi a bassa

legittimità e bassa sovranità. La globalizzazione da un lato

intasa sempre più le rotte di traffico marittime mondiali (che

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La sicurezza energetica nel XXI secolo: prospettive dall’Italia e dal Mondo

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nel 2011 hanno raggiunto il valore di 8.700 milioni di tonnellate,

livello storicamente mai raggiunto, più 46% rispetto a dieci

anni fa) ma dall’altro erode pericolosamente le sovranità degli

stati più deboli, inclusi quelli che si affacciano lungo le rotte

chiave della globalizzazione. Nel vacuum creatosi negli spazi

marittimi, il più importante dei global commons della

globalizzazione, a cavallo tra acque territoriali scarsamente

presidiate e acque internazionali divenute la fragile vena

giugulare del sistema economico mondiale integrato, si

annidano i nuovi rischi asimmetrici per la sicurezza marittima.

Rischi che obbligano anche alla militarizzazione delle navi

mercantili, una prassi ormai crescente e per certi versi

preoccupante, e al presidio continuo da parte di team militari di

molte piattaforme petrolifere. Se la pirateria somala ha

dimostrato la fragilità del sistema di trasporto marittimo

mondiale, altri possono raccogliere gli involontari insegnamenti

lasciati dai pirati dell’oceano indiano, esportandone il modus

operandi in altre regioni – Africa Occidentale in primis – o

traducendoli in una grammatica politica del terrore. Se i

meccanismi di mercato (assicurativi, finanziari e legali in primo

luogo) hanno consentito la gestione dei danni collaterali della

pirateria somala, essi sarebbero chiaramente impotenti nel

caso di un’escalation di atti terroristici in mare. Anche per

questo, il valore e gli interessi in gioco sta chiaramente

aprendo un ancora più ampio mercato globale per la sicurezza

marittima oceanica privata, tarata per proteggere contro le

minacce asimmetriche, pirateria e terrorismo in particolare.

Su questo fronte, anche l’Italia con il decreto 266 del 2012 –

fortemente voluto da Confitarma – e divenuto operativo anche

nella sua parte “privatistica” nel marzo 2013 dopo la crisi del

caso Marò, ha dato il via alla cornice normativa che consente

alle agenzie private di fornire personale per la protezione di

quelle navi battenti bandiera italiana, quantomeno

limitatamente all’attraversamento delle acque a “rischio

pirateria”. L’approccio normativo italiano sembra,

probabilmente a ragione, fortemente restrittivo ed orientato ad

una forte prudenza verso la privatizzazione delle scorte armate

a bordo delle navi battenti bandiera italiana, in controtendenza

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rispetto al mercato mondiale, sia anglosassone che dei paesi

emergenti o in via di sviluppo, (tra cui si registra anche un

proliferare di società private di servizi di sicurezza che si

spingono fino al punto di creare piccole flotte “paramilitari”

affittabili dai privati o armerie galleggianti nelle acque

internazionali dell’Oceano indiano dal dubbio status giuridico).

Per quanto riguarda l’Italia – al di là dei ritardi organizzativi

nella predisposizione dei corsi autorizzati di addestramento del

personale di vigilanza privato (che spingono molti armatori a

fare ricorso a scorte armate di società basate in altri paesi) e

l’esistenza di zone grigie nella nostra legislazione circa la

legalità del pagamento di eventuali riscatti – rappresenta

spunto di riflessione il fatto che il legislatore italiano non abbia

preso in considerazione nella legge 266, la tipologia di nave da

proteggere, la rilevanza strategica del carico o anche la rotta

stessa della nave, se diretta o meno verso il territorio nazionale.

Lo spirito della legge e dei decreti attuativi sembra più

orientato – sia nella sua componente forze armate che in quella

vigilanza privata – alla stretta tutela della beni patrimoniali

trasportati e degli equipaggi, indipendentemente da ogni

ulteriore considerazione di tipo politico – strategico.

Se l’Italia è dunque un attore della geopolitica marittima

internazionale, fortemente dipendente dagli

approvvigionamenti strategici via mare, esso è anche un paese

che ha deciso di conservare un’importante flotta mercantile di

bandiera, che rappresenta una industriale nazionale da tutelare

e proteggere. Duplice è dunque la natura dei motivi per cui la

protezione delle rotte marittime internazionali di accesso al

Mediterraneo da Gibuti e da Suez rientri a pieno titolo tra gli

interessi strategici nazionali e una delle dimensioni

fondamentali della nostra sicurezza energetica. L’Italia tuttavia,

non ha ancora sviluppato un modello virtuoso di monitoraggio e

prevenzione delle minacce marittime asimmetriche. Venendo

da un decennio che ha visto, proprio in un area chiave per il

nostro paese come quella del Golfo di Aden, svilupparsi sia gli

attentati terroristici contro obiettivi navali sia civili che militari

(quelli suicidi per mano di al-Qaeda nel Golfo di Aden conto

l’USS Cole del 2000 e quello contro la petroliera francese

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Limburg del 2002) che l’esplosione della pirateria somala (che

dal 2009 al 2012 ha visto oltre 120 navi, tra cui 4 italiane,

cadere in mano ad organizzazione criminali transnazionali) la

questione della tutela degli interessi nazionali marittimi

dovrebbe essere posta con grande attenzione nell’elaborazione

delle strategie di sicurezza italiane. Non vi sono motivi

particolarmente evidenti per escludere che il presente decennio

offrirà nuove evoluzioni delle minacce marittime asimmetriche

alle rotte strategiche italiane, con riguardo anche agli

approvvigionamenti energetici. Se ciò dovesse avvenire,

l’insicurezza ed i costi di protezione verrebbero

necessariamente a far lievitare la già elevatissima fattura

energetica che il nostro paese paga e che, nel 2011, ha

raggiunto il 3,9% del prodotto interno lordo nazionale. Nel

2011 abbiamo speso circa 62 miliardi di euro per importare 147

milioni di tonnellate equivalenti di petrolio. Nel 2000

spendevamo, per 153 tonnellate equivalenti di petrolio, un

valore, attualizzato ai prezzi del 2011, di circa la metà, ossia

36,6 miliardi di euro, pari al 2,4% del PIL. Questi dati sono

importanti per realizzare che non ci sono margini economici per

sottovalutare i rischi di sicurezza delle rotte di

approvvigionamento energetico di petrolio e GLN, visto che già

da alcuni anni siamo in una fase di alti prezzi dei prodotti

energetici che continua a far lievitare la fattura energetica del

paese anche con una riduzione delle nostre importazioni nette

di prodotti petroliferi. L’insicurezza potenziale delle rotte va

letta dunque in parallelo con l’altra grande “minaccia” per la

sicurezza energetica nazionale, quella dei prezzi crescenti,

dovuta in buona parte alla fortissima concorrenza della

domanda asiatica, di cui non si prevede la diminuzione nel

breve – medio termine. Gli investimenti sulla sicurezza delle

rotte strategiche marittime, sia in mare che in terra,

rappresentano una necessaria polizza assicurativa per evitare,

in un contesto di sicurezza sempre più globalizzato, ulteriori

aggravi della già insostenibile spesa nazionale per gli

approvvigionamenti energetici.

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Sezione II La visione europea

Verso un ruolo più attivo della PESC/PSDC nella sicurezza energetica

S.E. Mihnea Constantinescu – Ambasciatore incaricato per la Sicurezza Energetica di Romania

Quasi un decennio è passato dall'adozione della Strategia di

Sicurezza Europea (SSE). Questo quadro di base per l'azione

strategica ha bisogno oggi di un aggiornamento; nuovi passi

verso il suo consolidamento sono necessari in modo da

riflettere le nuove sfide sulla scena globale.

La Romania ha preparato e diffuso all'inizio di quest'anno un

documento di posizione, convergente con la comunicazione

adottata nel luglio scorso dalla Commissione Europea, che

tratta le modalità per migliorare l'efficienza del settore della

difesa e sicurezza. Uno dei settori specifici che sosteniamo

fortemente come una nuova dimensione dell'azione PSDC è la

sicurezza energetica.

I problemi connessi con la sicurezza energetica potrebbero

gravemente incidere sul funzionamento della nostra Unione

Europea, delle nostre economie e anche sulla stabilità globale

europea - e come tali sono al di là della capacità di ogni singolo

stato per essere risolte.

Io vengo da una regione in cui il nostro primo istinto è quello di

collegare la sicurezza energetica alle mappe geostrategiche

(“geostrategic mappinings”) delle risorse energetiche - il che

significa che, in qualche modo inevitabilmente, può implicare

un’agenda controversa.

Questo è solo un esempio dei preconcetti che circondano il

dibattito sul ruolo della PSDC nella sicurezza energetica. Fra

breve menzionerò altri tre.

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La sicurezza energetica nel XXI secolo: prospettive dall’Italia e dal Mondo

Informazioni della Difesa Supplemento al n. 6/2013

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Uno dei principali preconcetti qualifica il ruolo avanti della PSDC

nella sicurezza energetica come troppo prudente di fronte alle

sfide che dobbiamo affrontare oggi.

L'immediato, istintivo riferimento è quello all’aspettativa di

inverni difficili (“nervous winters"). Si è spesso sostenuto che

l'Unione Europea dovrebbe assumere una posizione più

coraggiosa per affrontare le interruzioni della fornitura di

energia, qualunque sia la causa. In realtà, un tale approccio

può solo scoraggiare l'emergere di una visione comune sulle

missioni PESC.

Un secondo preconcetto è che gli Stati Membri dell'UE hanno

un approccio diviso sulle questioni di sicurezza energetica.

Dobbiamo essere chiari su questo: la sicurezza energetica è

indivisibile allo stesso modo in cui la sicurezza dell'UE è

indivisibile.

La risposta naturale dell’UE a questo è quindi più integrazione e

un mercato energetico rafforzato. Investire per raggiungere

l'obiettivo di completare il mercato interno dell'energia dell'UE

entro il 2014 dovrebbe essere visto anche come un contributo

fondamentale a una PSDC sostenibile e dinamica. Dobbiamo

riflettere su questo in preparazione del progress report della

Presidenza lituana per il Consiglio dell’Energia di dicembre.

Il senso di solidarietà in una politica energetica dell'UE deve

quindi essere visto come un riflesso pratico della PSDC. Per

questo motivo penso che i corridoi prioritari trans-europei

proposti e le aree che coprono le reti di elettricità e gas,

infrastrutture petrolifere e le reti intelligenti (“smart grids”)

basate sulla Facility Connecting Europe si riveleranno un

compito gratificante.

La stessa solidarietà dovrebbe riflettersi nel piano Nord-Sud

per interconnessioni nell'Europa Centro-Orientale adottato

all'inizio di quest'anno. E speriamo che una coesione e

solidarietà simili si applichino nel dibattito in corso sulla

creazione di un Gas Market Optionality nel Sud-Est Europa.

Il terzo preconcetto è l'esistenza di un divario concettuale (a

conceptual gap) tra l'UE e la NATO quando si affronta la

sicurezza energetica.

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Un forte partenariato transatlantico e una più profonda

cooperazione tra la NATO e l'UE restano i principali pilastri della

sicurezza europea.

Le vulnerabilità sulla mappa globale di energia richiedono un

approccio europeo più risoluto e il coordinamento con la

capacità della NATO di valutare i rischi e la stabilità del

progetto.

L'UE può adottare standard e regolamentazioni giuridiche

uniformi e ambiziose per rafforzare la capacità dei governi

nazionali di promuovere la sicurezza energetica o combattere la

criminalità informatica. Questo sarebbe complementare alla

capacità operativa unica della NATO, soprattutto quando si

tratta di proteggere le comunicazioni, le attrezzature

informatiche e le infrastrutture.

Non dobbiamo dimenticare che, mentre noi continuiamo a

costruire un forte profilo globale, la maggior parte delle

minacce e delle opportunità che dobbiamo affrontare hanno

origine nelle nostre immediate vicinanze. Questo ci porta

direttamente ai legami comuni tra PESC / PSDC e il ruolo della

NATO a livello globale quando valutiamo le sfide della sicurezza

energetica.

I documenti più rilevanti adottati dal Consiglio Europeo e dalla

Commissione nel corso degli ultimi tre anni menzionano

giustamente alcune priorità comuni.

• L'UE deve avere le capacità di monitoraggio necessarie per

fornire l’early warning e per migliorare la propria azione per

rispondere alle sfide della sicurezza energetica. Stiamo anche

cercando di impostare condizioni simili all'interno dell'Alleanza.

• L’UE deve allargare il proprio mercato energetico ai suoi vicini

all'interno di una zona di regolamentazione comune con regole

di commercio, transito e ambientali condivise. Stiamo anche

cercando di coinvolgere i nostri partner di cooperazione con

l'Alleanza.

• L’UE deve sostenere la reciprocità in termini di apertura del

mercato e rispetto delle regole di mercato: i principi della Carta

dell'Energia, la non discriminazione, la concorrenza, la

trasparenza e l'enforcement. E non dobbiamo perdere la fiducia

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che prima o poi queste regole devono diventare presupposti

per partenariati forti con l’Alleanza Nord Atlantica.

Da un punto di vista più pratico, vorrei aggiungere qui la

necessità di promuovere scorte di riserva strategiche di

carburante e di incoraggiare azioni di stoccaggio comuni con i

paesi partner.

E' anche molto opportuno, in questi giorni, elaborare un piano

d'azione PSDC complementare con le valutazioni della NATO,

per individuare i settori più vulnerabili della catena di fornitura

e distribuzione.

Quando parliamo di sfide energetiche a livello dell’UE, nonché

nel quadro della NATO, ciò significa che: abbiamo bisogno di

consultazioni, abbiamo bisogno di elaborare una valutazione

strategica e dei piani di emergenza e abbiamo bisogno di

sviluppare le capacità per la protezione delle infrastrutture

energetiche critiche.

L’UE deve estendere il proprio sostegno alla creazione di solidi

competenze nazionali nella lotta al cyber-terrorismo - tenendo

presente la necessità di garantire la sicurezza dei sistemi di

trasmissione - i sistemi SCADA, le reti intelligenti, la grande

ENTSO - e interconnessioni, e le centrali nucleari attive sul

territorio dell'UE e nelle nostre vicinanze.

Cambiare il nostro modo di utilizzare e produrre energia, e la

lotta contro i cambiamenti climatici, sono questioni

fondamentali della nostra sicurezza. Sia l'Unione Europea che

l'Alleanza devono collaborare più strettamente per consentire il

necessario salto tecnologico che si tradurrà in un uso più pulito

e più efficiente dell'energia. Il modo in cui gestiamo le

ramificazioni dell’energia avrà anche effetti drammatici sulle

nostre capacità militari nel corso del 21° secolo.

Per questo motivo, la Romania sostiene il progetto dimostrativo

GREEN GO sul fotovoltaico per le forze armate europee. Questo

progetto va a dimostrare che la difesa, anche mentre compie la

sua missione, è in grado di fornire una forte attrazione per

l'innovazione e offrire un contributo lungimirante alla nostra

sicurezza energetica collettiva. Questo è il percorso per

garantire maggiore competitività: innovare, adattare, superare

ed emergere con successo dall'altra parte.

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In questo contesto, non posso non menzionare la necessità di

partnership intelligenti per ridurre il gap tecnologico nel settore

energetico tra le diverse parti d'Europa. Ci aspettiamo che il

piano UE SET contribuisca con maggiore ambizione al

raggiungimento di questo obiettivo.

L’investimento pubblico-privato a sostegno della ricerca e

dell'innovazione tecnologica sarà la soluzione logica per

alleviare questa lacuna, con risultati tangibili anche per

l'industria della difesa. Dovremmo anche chiedere che il

Consiglio energia UE-USA sia meno diffidente sull'aspetto della

sicurezza, invitando la NATO e l’EDA a fornire il loro contributo

a questa meritoria impresa.

Ma abbiamo bisogno di determinare il giusto equilibrio tra

incentivi e responsabilità corporativa, al fine di evitare un

trasferimento abusivo del peso finanziario delle nuove

tecnologie nei costi energetici operativi. In caso contrario, la

sicurezza energetica diventerà un paradosso per la sicurezza

stessa.

Nonostante la nostra tentazione di fare a volte un po’ di

connessioni artificiali tra la difesa e la sicurezza energetica

quando si affronta la PSDC, dovremmo iniziare ad esaminare

gli ingredienti più naturali per affrontare questi argomenti.

Gli sforzi collettivi all'interno dell'UE non possono essere un

sostituto per la responsabilità individuale di ogni Stato Membro

per il proprio settore energetico nazionale. Non riesco a

immaginare una PSDC sostenibile senza i solidi principi che

definiscono le politiche energetiche dell’UE: accessibilità,

convenienza ed accettabilità.

Aumentare gli investimenti in efficienza energetica, creare delle

nuove interconnessioni, sviluppare capacità di stoccaggio del

gas e l'impostazione di piani di emergenza per le carenze di

energia sono indispensabili per tutelare le famiglie, così come

la capacità di difesa. Ho dei dubbi che il consumo di gas o di

energia elettrica delle famiglie può avere un orientamento

ideologico o strategico. Ma è stato recentemente dimostrato

che questo può determinare sia le scelte politiche che di

orientamento strategico.

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Per tutte queste ragioni, la responsabilità nazionale deve

essere la risposta primaria a qualsiasi ambiguità che circonda il

ruolo della PSDC nella sicurezza energetica. Questo significa

buona governance - in realtà un pre-requisito per assumere

l'adesione all'UE. Significa politiche energetiche responsabili e

trasparenti a livello nazionale. E significa una capacità

nazionale affidabile per proteggere le infrastrutture energetiche

critiche (CEI).

Le possibili connessioni tra PESC / PSDC e la sicurezza

energetica sono molto rilevanti per la regione Sud-Orientale e

del Mar Nero allargata. L'impegno dell'UE per “Engaging with

Partners beyond Our Borders" è un ambizioso piano per la

cooperazione estera in materia di sicurezza energetica che

dovremmo continuare ad applicare nella nostra vicinanza.

L’energia nella regione del Mar Nero dovrebbe cessare di

essere vista solo come una fonte di argomenti controversi.

Deve diventare una fonte di collaborazione emergente,

prevedibilità e sicurezza per l'UE. Per noi è chiaro che stiamo

entrando in quello che sarà un nuovo, diverso percorso in

termini di diversità delle forniture di gas per l'Europa.

La sfida centrale nei prossimi mesi è quella di realizzare il

Corridoio meridionale del gas e che funzioni in modo flessibile,

rifletta la disponibilità di gas attuale, impedisca nuove linee di

divisione tra i mercati ed eviti la persistenza di un approccio a

somma zero.

A lungo termine, le nuove scoperte di gas nel Mar Nero

potrebbero offrire la prospettiva di diventare un'altra fonte per

il Corridoio meridionale. La rivoluzione shale gas raggiungerà le

coste del Mar Nero e la regione circostante. Nuove

interconnessioni avranno un impatto sulla sicurezza energetica

e la convenienza. E prima o poi il rovescio globale dei flussi di

GNL raggiungerà anche le infrastrutture del gas in questa

regione.

Non da ultimo, la regione del Mar Nero potrebbe trarre

vantaggio da un modello più evoluto di sicurezza energetica -

tra cui i progressi tecnologici, l'efficienza energetica e la

prevenzione dei pericoli (hazards prevention) - invece di essere

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tenuti in ostaggio dalla logica delle pipeline e delle sfere di

influenza.

La sicurezza energetica nella regione del Mar Nero allargata

potrebbe così diventare la cartina di tornasole di un obiettivo

più ambizioso e strategico: creare un partenariato UE

intelligente con i nostri vicini della regione, sfruttando il

prezioso strumento della PESC, con tre obiettivi:

- impostazione di una capacità congiunta per i piani di

emergenza;

- impostazione di un sistema per condividere le procedure

complete di gestione delle crisi;

- sviluppo di programmi comuni per la ricerca e l'innovazione.

Una PESC intelligente nel Mar Nero potrebbe generare

un'alternativa alle obsolete hard power e vago soft power. Ad

esempio, i rischi ambientali posti dalle industrie, dal nucleare e

dalle attività di trasporto delle risorse nella regione del Mar

Nero, offrono anche l'occasione per fornire esperienza

scientifica attraverso PSDC ed i programmi di partenariato della

NATO. Non dobbiamo dimenticare che 170 milioni di persone

provenienti da 17 paesi vivono sui fiumi che alimentano il Mar

Nero, il che lo rende uno dei mari più inquinati del mondo.

Le migliori prassi possono essere condivise in tutta la zona al

confine con il Mare del Nord, il Mar Baltico e il Mar Nero,

attraverso il Centro lituano di Sicurezza Energetica. Il Centro

RACVIAC a Zagabria è anche pronto a includere la sicurezza

energetica come una nuova dimensione della sua missione nel

Sud Est Europa.

Quando si parla di partenariato intelligente, non possiamo

evitare di menzionare il caso convincente della situazione

energetica della Repubblica di Moldova. Uno dei modi migliori

per illustrare il significato della sicurezza energetica inclusiva è

quello di trovare i mezzi adeguati per investire nelle

interconnessioni energetiche della Repubblica di Moldova con

l'Europa. La Repubblica di Moldova si è coraggiosamente

impegnata come membro della Comunità dell'Energia. Sarebbe

una grave responsabilità dell'UE se il risultato fosse una nuova

carenza di gas invece di benefici attesi concreti e duraturi.

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Il Trattato della Comunità dell'Energia, la Politica Europea di

Vicinato, il Trattato sulla Carta dell'Energia, così come molti

altri forum internazionali, raffigurano l'obiettivo strategico

dell'UE per avviare ed ottenere dei benefici dall'attuazione di

una politica energetica dell'UE.

La Turchia è il nostro importante vicino, con cui condividiamo

una visione comune sulla sicurezza. Dobbiamo incoraggiare la

Turchia a fare pieno uso del suo potenziale per diventare un

importante centro di transito di energia (energy transit hub) e

in particolare di promuovere la sua integrazione rapida nel

Trattato della Comunità dell'Energia.

L’integrazione dell'Ucraina nel Trattato che istituisce la

Comunità dell'Energia è un altro risultato strategico ed è

nell'interesse della sicurezza dell'UE a sostenere gli sforzi

destinati a riabilitare il suo sistema di trasporto del gas,

migliorando nel contempo la trasparenza e il quadro giuridico.

Spostandoci più ad Est, dobbiamo utilizzare tutte le opportunità

per stabilire una cooperazione tripartita con la Russia e

l'Ucraina, per garantire l'approvvigionamento di gas stabile e

senza interruzioni attraverso il Corridoio Orientale.

In conclusione abbiamo una responsabilità europea per dare

un'occhiata più da vicino alle interconnessioni tra la sicurezza

energetica e la sicurezza europea in generale, e di portare un

contributo ardito a un futuro approccio inclusivo della PSDC.

Senza contestare il carattere strategico delle sfide che ci

troviamo di fronte, si potrebbe sostenere che la loro soluzione

risiede principalmente nella nostra azione a livello nazionale ed

europeo, come quello che dovrebbe essere visto come una

Politica di Sicurezza Energetica Comune comprendente.

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Gli aspetti della sicurezza energetica nell’Unione Europea: prospettive dalla Grecia

S.E. Themistoklis Demiris – Ambasciatore della Repubblica di Grecia

La questione della sicurezza energetica è di estrema

importanza, non solo per la Grecia e l’Italia, ma anche per tutta

l’Europa. Sebbene l’Unione Europea (UE) per molti anni abbia

legiferato in materia di politica energetica e si sia evoluta

rispetto alla Comunità europea del carbone e dell'acciaio, l’idea

di introdurre una politica energetica europea globale e

inderogabile è stata approvata solo in occasione della riunione

del Consiglio Europeo informale del 27 ottobre 2005 di

Hampton Court. Nel marzo del 2006 la Commissione europea

pubblicò il Libro Verde “Una strategia europea per un’energia

sostenibile, competitiva e sicura”, che incoraggiava

formalmente l’elaborazione da parte dell’UE di una politica

energetica esterna coerente. Inoltre, il Trattato di Lisbona del

2007 fornisce una base legale solida per la politica dell’UE volta

ad assicurare gli approvvigionamenti energetici. Prima del

Trattato di Lisbona, la normativa energetica dell’UE era basata

sull’autorità dell’Unione Europea in materia di mercato unico e

ambiente. Credo che per afferrarne l’importanza, dovremmo

prima di tutto avere una chiara idea di alcuni concetti e

parametri che compongono il quadro. Alcuni potranno apparire

semplici o ingenui, altri sono meno ovvi, ma credo che possa

essere utile guardare ad essi come ad uno stabile punto di

riferimento per ogni discussione sul tema dell’energia in Europa.

Alcuni fatti principali

L’energia è forse il settore più strategico non solo per

l’economia, ma per la vita dell’uomo: non si può

semplicemente farne a meno. È vitale per quasi tutte le nostre

attività, e gli standard di vita che abbiamo raggiunto richiedono

sempre maggior quantità di energia per un numero sempre

maggiore di persone. Molti conflitti che oppongono nazioni –

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come nella fantascienza molte guerre tra pianeti – sono

chiaramente legati alla necessità di energia.

L’Europa è il maggior consumatore di energia, e il secondo

maggior importatore mondiale, con i suoi Stati membri che

importano circa il 55% del loro approvvigionamento energetico

(approssimativamente l’84% di petrolio e il 64% di gas

naturale). Allo stato attuale, 15 Paesi membri dell’UE fanno

sempre maggiore affidamento sul gas naturale, soprattutto per

raggiungere obiettivi ambiziosi nelle riduzioni di diossido di

carbonio e nelle emissioni di gas a effetto serra.

Tutti noi sappiamo che il gas naturale è considerato il

combustibile moderno del XXI secolo, l’era della nuova energia.

Le sue preziose riserve sparse per il mondo costituiscono il

punto di partenza delle nuove vie energetiche e dei potenziali

geopolitici. Allo stesso tempo, la crescita del fabbisogno dei

Paesi, la deregolamentazione dei mercati europei e l’autonomia

rispetto alle forme di energia tradizionale, modificano

l’equilibrio delle forze, aprendo la strada a nuove opportunità di

concorrenza internazionale. Gli analisti notano inoltre che le

recenti decisioni politiche – l’annuncio del 2011 da parte della

Germania di diminuire gradualmente, entro il 2020, l’utilizzo

degli impianti di energia nucleare, e la più attenta

considerazione da parte di alcuni membri dell’UE in merito allo

sviluppo del gas non convenzionale – potrebbero implicare una

crescita più rapida nella dipendenza dell’Europa dalle

importazioni di gas naturale. È vero che il gas naturale non è

l’elemento principale nell’attuale mix energetico che viene

utilizzato in Europa, che impiega diverse risorse energetiche

(petrolio, combustibili fossili, fonti rinnovabili). Tuttavia, l’UE si

affida molto al gas naturale, che rappresenta il 24% di tutte le

risorse energetiche. Ci si aspetta che questa percentuale

aumenti almeno fino al 30% entro il 2030: la Commissione

Europea prevede che l’UE importerà più dell’80% del suo

fabbisogno di gas naturale entro il 2030.

Molti Stati principalmente consumano ed importano energia,

altri la producono e la esportano. Questo squilibrio piuttosto

inevitabile conduce all’utilizzo delle risorse energetiche come

arma economica, e dunque politica, per esercitare pressione.

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Mi riferisco nell’ordine, solo per citare le più recenti, alle crisi

che hanno interessato l’Europa negli anni 2006, 2009, 2010 e

2011: questi sono tipici esempi dell’utilizzo degli

approvvigionamenti energetici come metodi di pressione.

D’altro canto, anche il consumo e la domanda di energia

possono fungere da arma politica. Si pensi ad esempio al

recente embargo petrolifero nei confronti di uno Stato.

Uno specifico Stato, la Russia, è infatti il principale fornitore di

gas naturale dell’Europa, fornendo all’UE circa un quarto degli

approvvigionamenti di gas naturale. Ciò vuol dire che questa

nazione può spesso essere tentata di trarre dalla sua

condizione qualsiasi tipo di vantaggio, economico o politico.

D’altro canto, tale dipendenza non va in una sola direzione:

l’Europa è il mercato più importante per il gas naturale russo, e

immagino che ciò venga tenuto in considerazione da Mosca.

Un'altra questione è legata al fatto che molte regioni produttrici

di energia sono caratterizzate da un alto livello di instabilità:

regimi precari o in conflitto, popolazione sull’orlo della rivolta

etc. È dunque chiara la difficoltà nel distinguere la sicurezza

energetica dalla sicurezza in generale, e questa è la ragione

per la quale siamo praticamente di fronte ad una messa in

sicurezza del settore energetico.

Dovremmo inoltre tener conto del fatto che, contrariamente a

quanto sta accadendo per il mercato petrolifero, che è un

mercato globale, il mercato del gas naturale è un mercato

regionale, dominato da gasdotti che collegano un numero

limitato di Paesi all’interno di una concreta area geografica.

Di conseguenza, i gasdotti conducono ad un alto grado di

interdipendenza tra i Paesi coinvolti.

Nonostante gli sforzi dell’UE di creare una politica energetica

comune, l’influenza esercitata sulle politiche energetiche degli

Stati membri è stata minima. All’interno troviamo dunque un

mercato energetico piuttosto frammentato.

Lo stesso accade con le politiche energetiche esterne degli Stati

membri. Lo Stato membro preferisce trovare soluzioni ai propri

problemi principalmente attraverso accordi bilaterali.

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Una serie di sfide per l’Europa nel settore energetico

Alla luce di tutto ciò, è ovvio che l’UE sta affrontando una serie

di sfide nel settore energetico alle quali è necessario rispondere,

attraverso decisioni politiche adeguate, ma anche mediante

continui sforzi a livello nazionale e comunitario. Credo che i

punti più critici siano i seguenti:

- diminuire la dipendenza da uno o due fornitori importanti;

- costruire strutture che possano garantire una

diversificazione permanente delle risorse;

- non esporre a rischi le relazioni con la Russia;

- affrontare la richiesta globale in rapida ascesa e la

concorrenza in materia di risorse energetiche proveniente

da economie emergenti, come Cina e India;

- promuovere una strategia e una politica energetica comune

per l’Europa;

- trovare il modo, nei rapporti con Paesi terzi, di trarre

vantaggio dalla complessità istituzionale e strutturale

dell’UE, evitando di considerare tale complessità come

qualcosa che spinge gli Stati membri ad optare per accordi

bilaterali;

- combinare tutte le ben note misure e politiche per la

liberalizzazione del mercato con azioni volte a garantire la

sicurezza degli approvvigionamenti;

- alternare successivamente un approccio basato sul mercato

ad un approccio geopolitico;

- combinare l’autosufficienza energetica dell’UE con politiche

che tengano conto dei cambiamenti climatici;

- garantire ovviamente che tutti questi sforzi risultino essere

a beneficio del consumatore finale, del cittadino europeo.

Rispondere alle sfide sull’energia e sicurezza europea

Credo che i recenti sviluppi in merito al gas azero e al TAP

rappresentino mosse positive per fornire importanti risposte

alla maggioranza di queste sfide:

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- il progetto TAP implica maggiori volumi di gas e non

maggiori quantità, comunque significative, specialmente se

si parla di una base a lungo termine nei prossimi 10-20 anni;

- costituisce comunque una fonte aggiuntiva, che contribuisce

per l’Europa alla diversificazione delle fonti energetiche;

- sebbene sia stato progettato sulle basi di un approccio di

mercato con criteri tecnocratici, ha una chiara valenza

geopolitica, mutando esso gli equilibri tra produttori e

consumatori di energie diverse;

- crea collegamenti ulteriori tra l’UE e territori delicati

dell’Asia Centrale;

- mette da parte rapporti supplementari tra Turchia – Albania

– Grecia – Italia, il che vuol dire tra due Stati membri

dell’UE e due Paesi con chiare prospettive europeiste,

avvicinandoli entrambi all’infrastruttura dell’UE;

- incoraggia la politica di sicurezza energetica dell’UE, e

costituisce un importante parametro per il Corridoio Sud;

- contribuisce all’avvento di una nuova era di relazioni

energetiche, non solo moltiplicando i collegamenti con l’Asia

Centrale, ma fungendo da invito ad esplorare le ulteriori

possibilità emergenti nell’immediato dal Nord Africa, e più

avanti da Cipro, Israele, etc.;

- inserisce un elemento del mercato globale in un settore che

è principalmente caratterizzato dalla tipicità regionale;

- grazie a questa tecnologia che rispetta l’ambiente, si rende

più realizzabile l’obiettivo di un ambiente meno inquinato;

- sebbene inizialmente i costi potrebbero non avere una

diminuzione significativa, a lungo termine avrà un effetto

positivo per i consumatori.

Il gas azero, oltre ad agevolare l’UE nella diversificazione

energetica, nella politica esterna e nelle questioni di sicurezza,

porterà benefici anche al mio Paese, in un periodo in cui la

popolazione greca necessita davvero di credere in un futuro

migliore.

Il TAP, con un costo stimato di 1,5 miliardi di euro, è uno dei

maggiori investimenti diretti stranieri di sempre, che si pensa

creerà 2.000 posti di lavoro diretti e 10.000 indiretti.

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Costituisce un “voto di fiducia” per la Grecia ad un punto

cruciale della sua economia. Un “voto di fiducia” che riconosce

la stabilizzazione dell’economia greca e contribuisce al

miglioramento del clima economico.

Porterà al Paese il know-how in un settore molto dinamico e

fino ad ora assente, come quello dei gasdotti.

Alla Grecia, sinora fortemente dipendente dai singoli fornitori,

viene data l’opportunità di diversificare le sue fonti e di

potenziare la propria sicurezza energetica, a beneficio della

concorrenza sul mercato e, eventualmente, dei consumatori.

La capacità di flusso invertito del TAP potenzialmente permette

alla Grecia di avere accesso al gas da fonti come il Nord Africa,

aumentando la propria capacità di approvvigionamento in caso

di eventi inaspettati.

Il progetto TAP può inoltre contribuire alla creazione di una

nuova cultura di responsabilità, cooperazione e interdipendenza

con le società locali, mentre dall’altro lato, può incoraggiare

l’opinione pubblica greca ad accettare progetti imponenti,

anche di carattere ambientale.

Partecipando al progetto TAP – e dunque contribuendo alla

strategia europea per la creazione di un corridoio del gas

meridionale che diversificherebbe ancor di più le fonti

energetiche dell’Europa – la Grecia diventerebbe un attore di

rilievo all’interno dell’UE per quanto riguarda il settore

energetico.

Esistono inoltre ulteriori benefici, ben più ampi a livello

geopolitico: il progetto TAP migliora chiaramente l’impronta

della Grecia nella mappa energetica globale, incentivando

gradualmente la trasformazione del Paese in un corridoio di

transito del gas fondamentale, e nel fulcro energetico

dell’Europa sudorientale.

La Grecia trarrebbe inoltre numerosi vantaggi dall’aumento di

cooperazione e stabilità regionale al quale contribuirebbe il

gasdotto. Verrebbero infatti positivamente influenzati i rapporti

con Albania, Turchia e Azerbaijan, come con i Paesi della

regione che saranno collegati o auspicano un futuro

collegamento con questo progetto – attraverso i gasdotti IAP

(Ionian Adriatic Pipeline) e Interconnector Grecia-Bulgaria (IGB)

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– come Croazia, Montenegro, Bosnia-Erzegovina, Bulgaria e

anche Ex Repubblica Jugoslava di Macedonia.

Infine, dal momento che il progetto TAP riguarda una fonte

energetica che rispetta l’ambiente, è chiaro che esso agevolerà

la Grecia nel raggiungimento dei suoi obiettivi ambientali,

all’interno dell’azione europea contro i cambiamenti climatici.

Per concludere, e per bilanciare le impressioni, vorrei inoltre

aggiungere che, escludendo i già descritti benefici che le

politiche europee e la Grecia trarrebbero trasportando il gas

azero in Europa, questo rappresenterebbe un beneficio anche

per lo stesso Azerbaijan e per l’Asia Centrale. E io credo che ciò

abbia pari importanza: il TAP non è un progetto utile alla sola

Europa, e non deve essere concepito come un progetto a

scapito di qualcuno. Al contrario, è un progetto molto vicino a

ciò che generalmente viene chiamato “progetto win-win”.

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La sicurezza energetica nel XXI secolo: prospettive dall’Italia e dal Mondo

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Sfide, azioni e progetti relativi alla politica energetica nel contesto della sicurezza energetica in Polonia

S.E. Wojciech Ponikiewski – Ambasciatore della Repubblica di Polonia in Italia

Le azioni e le attività intraprese nel campo dell’energia hanno

un significato elementare per lo sviluppo e la sicurezza del

Paese. Negli ultimi anni, una crescita dinamica di molte regioni

del mondo ha provocato un costante aumento della domanda di

fornitura dell’energia. Per colmare questa incessante “fame di

energia” vengono utilizzate fonti energetiche nazionali e

straniere il cui sfruttamento influisce notevolmente sulla

sicurezza energetica nazionale.

Il concetto della sicurezza energetica è un insieme dei fattori di

carattere politico, sociale ed economico. In Polonia, per la

sicurezza energetica si intende una stabile e costante fornitura

di carburante ed energia - garantita a livello nazionale ai prezzi

accettabili sia dall’economia sia dalla società, in grado di

soddisfare la domanda nazionale partendo dal presupposto di

un ottimale sfruttamento delle risorse energetiche nazionali -

applicando una diversificazione delle fonti e degli indirizzi di

fornitura del petrolio e dei carburanti liquidi e gassosi. Tuttavia,

la Polonia è anche consapevole del fatto che altri Paesi possono

elaborare e adottare un altro concetto della sicurezza

energetica, e così: i paesi senza l’accesso diretto alle fonti di

energia potrebbero semplicemente voler assicurarsi la fornitura

o tutelare le loro infrastrutture contro attacchi terroristici; i

paesi che dipendono dalle forniture estere dell’energia

sarebbero interessati alla diversificazione delle fonti; invece le

società industrializzate che pongono attenzione alle questioni

ecologiche potrebbero puntare sull’importanza della riduzione

di emissione dei gas serra e dell’impatto ambientale. La

sicurezza energetica dipende quindi sia dai fattori relativi

all’importazione dell’energia stessa e delle materie energetiche

sia dalla situazione interna di un singolo Stato.

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La Polonia, attraverso una politica energetica equilibrata che

prima di tutto è una derivata delle risorse nazionali di materie

prime e delle infrastrutture necessarie per produrre l’energia,

tende a costruire le basi di un sistema solido ed efficace

nell’ambito della sicurezza energetica raccogliendo le specifiche

direttive nel documento intitolato Polityka energetyczna Polski

do 2030 roku (La politica energetica della Polonia fino all’anno

2030), adottato verso la fine del 2009.

Tra le principali sfide che la politica energetica polacca deve

affrontare si possono elencare: il livello inadeguato dello

sviluppo di infrastrutture produttive e trasporto dei carburanti e

dell’energia, la forte dipendenza dalle forniture estere del gas

naturale e del petrolio, nonché gli impegni climatici. La risposta

a queste sfide disegna le priorità polacche nel campo

dell’energia tra le quali spiccano in particolare: l’incremento

della sicurezza di forniture dei carburanti e dell’energia, la

diversificazione della struttura di produzione dell’energia

elettrica attraverso l’introduzione di energia nucleare, lo

sviluppo e il maggiore utilizzo delle fonti rinnovabili, il

miglioramento dell’efficacia energetica e la riduzione

dell’impatto ambientale. I ricchi giacimenti di carbone fossile e

lignite costituiscono la base per produzione di energia elettrica

in Polonia. Nel 2012, oltre l’80% dell’energia ottenuta in

Polonia era prodotta da queste fonti naturali. Inoltre è in

continuo aumento l’utilizzo delle fonti rinnovabili nella

produzione dell’energia elettrica che rispecchiano le percentuali

raggiunte: l’8,0% nel 2011 e il 10,4% nel 2012 e del gas

naturale che dal 3,6% nel 2011 ha raggiunto il 3,9% nel 2012.

A causa degli scarsi giacimenti e delle esigue estrazioni del gas

naturale e del petrolio nel territorio nazionale, la Polonia è

costretta a importare queste materie. Nel 2012 intorno al 70%

(ca. 11 mld m3) del consumo di gas naturale in Polonia e quasi

l’intero consumo del petrolio (intorno al 98%, ossia ca. 25 mln

di tonnellate) si è basato proprio sull’importazione. Tra le

principali azioni volte a realizzare le priorità e a migliorare la

sicurezza energetica in Polonia si possono elencare: la ricerca

di idrocarburi nelle risorse non convenzionali, gli investimenti

infrastrutturali e le procedure preliminari per la costruzione di

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una centrale nucleare in Polonia. Nell’ottobre 2013 si contavano

105 aree convenzionate nelle quali si svolgevano le ricerche di

acquisizione del gas di scisto. Finora sono state realizzate 51

trivellazioni. Le prospettive riguardanti le risorse di gas non

convenzionali hanno incoraggiato gli imprenditori polacchi, ma

anche quelli stranieri - tra questi anche le grandi società - ad

investire in tutto il territorio nazionale. Grazie agli investimenti

nello sviluppo della base di risorse proprie, diminuisce in modo

considerevole la disposizione per le eventuali interruzioni di

fornitura estera. Oltre allo sviluppo delle risorse di giacimenti,

altrettanto importanti sono gli investimenti indirizzati alla

diversificazione delle forniture di energia, tra questi: la

costruzione del LNG Terminal, la creazione della rete di

collegamenti transfrontalieri e l’ampliamento dell’infrastruttura

industriale e distributiva nazionale. Il LNG Terminal a

Świnoujście, con la capacità di 5 mld Nm3 nella prima fase

della sua operatività, permetterà alla Polonia, a partire dal

2014 di ricevere il gas liquido da qualsiasi regione del mondo.

Il Terminal polacco sarà l’unico impianto di questo genere

nell’Europa Nord-Centro-Orientale e uno dei più grandi

dell’intero Continente. Gli investimenti nello sviluppo della rete

lungo i confini della Polonia, realizzati nel 2011, uniti alla

possibilità di utilizzare un servizio di inversione virtuale nel

gasdotto di Yamal, hanno creato le possibilità tecniche annue di

importazione in Polonia di oltre 3,3 mld m3 di gas proveniente

dalle nuove fonti (ca. 30% dell’importazione attualmente

realizzata). Entro l’anno 2014 si progetta la costruzione di circa

1000 km dei nuovi gasdotti di trasmissione, mentre nei piani

futuri si pensa alla realizzazione delle interconnessioni al

confine con la Lituania e la Slovacchia. La costruzione del

Terminal LNG a Świnoujście e l’ampliamento delle connessioni

chiave per il corridoio Nord-Sud - che si trovano ai confini della

Polonia - porteranno a un importante cambiamento geopolitico

dell’intera regione. Prima di tutto queste realizzazioni

diventeranno un importante fattore per l’integrazione dell’intera

regione, incrementando anche la possibilità di diversificazione

delle forniture di carburanti e, di conseguenza, diminuendo la

dipendenza dagli attuali partner. Un altro fattore importante

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per la sicurezza energetica della Polonia sono le azioni e le

attività indirizzate alla espansione delle capacità di stoccaggio.

Nel 2012 l’importo dei progetti che avevano tale obiettivo

superava il valore di 100 mln euro. Uno dei maggiori progetti

che incrementerà considerevolmente le future capacità di

produzione dell’energia e diversificherà il bilancio energetico in

Polonia, è la costruzione della centrale nucleare che dopo il

2015 dovrà fornire al sistema elettro-energetico circa 3000 MW

d’energia. Si tratta di un importante investimento nel contesto

del rinnovamento del sistema energetico produttivo già

esistente in Polonia il quale nella maggior parte (60%) era nato

oltre 30 anni fa. Questo investimento garantirà la continuità e

la stabilità della produzione di energia elettrica in Polonia per i

prossimi decenni. L’integrazione delle capacità ottenute dalla

produzione dell’energia dai carburanti fossili costituiscono gli

investimenti nelle fonti di energie rinnovabili (FER) che

annoverano un costante aumento. La partecipazione del FER

nel consumo lordo dell’energia è aumentato dal 7,1% nel 2005

al 10,9% nel 2011. Tra queste nuove fonti di energia le migliori

prospettive di sviluppo le hanno l’energia eolica e fotovoltaica

(solare). Le fonti rinnovabili favoriscono la diversificazione del

bilancio energetico, ma prima del loro maggiore utilizzo devono

affrontare una sfida di instabilità del sistema dovuto alla

mancanza di fornitura regolare e alla necessità di garantire

grandi capacità di riserva basate soprattutto sulle energia

gassosa. Inoltre lo sviluppo del FER significa un cambiamento

di rotta per la trasmissione di energia elettrica che a sua volta

richiede la necessità di grandi investimenti infrastrutturali. Nel

caso della Polonia, lo sviluppo del FER nel settore elettro-

energetico crea ulteriori sfide dovute alla necessità di garantire

le quantità indispensabili di gas naturale per integrare la

produzione della centrale elettrica. La metamorfosi del sistema

energetico va di pari passo con la profonda preoccupazione

dell’ambiente naturale. La Polonia intraprende molte azioni

volte a ridurre l’inquinamento ambientale e a migliorare

l’efficienza energetica. Simili azioni diminuiscono la domanda di

energia, anche quella importata. Il miglioramento dell’utilizzo di

energia in Polonia comprova la diminuzione dell’intensità

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energetica del PIL di oltre 25% negli anni 2000-2011 (dal

164,3 al 122,6 kWh/1000 PLN) nonché un intenso processo

dell’efficienza energetica delle costruzioni ottenuto grazie

all’introduzione di modernizzazione dei sistemi termici. Soltanto

nel 2012, seguendo un modello degli anni precedenti, grazie

alle sovvenzioni finanziarie nazionali e dell’UE (ca. 100 mln

euro) sono stati realizzati circa 3000 investimenti di

modernizzazioni dei sistemi termici.

La realizzazione di tutte queste azioni è motivata dalla volontà

di realizzare un moderno panorama energetico della Polonia, a

misura del XXI secolo in cui troveranno spazio sia la tradizione

energetica del nostro Paese sia le tecnologie innovative

europee e mondiali. Nonostante le sfide di fronte alle quali si è

trovato il settore energetico in Polonia siano importanti,

tuttavia, gli obiettivi della politica energetica sono realizzati in

modo armonioso, contribuendo a un regolare funzionamento

dell’economia e a una costante e stabile fornitura dell’energia

ai soggetti economici e agli utenti finali. Tutte le azioni e le

attività intraprese servono notevolmente per realizzare una

delle principali priorità, ovvero di cautelare la sicurezza

energetica. Tale sicurezza si traduce ai vantaggi economici di

tutti i fruitori del mercato energetico a partire dai produttori

dell’energia, attraverso i distributori e i fornitori, per finire

all’utente finale. Oggi il principale garante del miglioramento

della sicurezza energetica sono gli investimenti destinati alla

modernizzazione del settore di produzione e trasmissione

dell’energia, alle ricerche e allo sviluppo (R&S), e anche al

settore di estrazione e acquisizione di materie energetiche.

Basta ricordare che i soli investimenti indirizzati alla ricerca e

all’estrazione del gas di scisto, realizzati negli USA nel 2010,

secondo la società l’IHS CERA un’organizzazione del settore,

hanno provocato un aumento del PIL dell’economia americana

di circa 80 mld USD, creando ulteriori 600 000 posti di lavoro.

Considerando quindi tutti gli aspetti relativi alla questione della

sicurezza energetica, la Polonia, mantenendo un alto livello di

investimenti nel settore dell’energia, costruisce non soltanto le

solide fondamenta per la sicurezza energetica nazionale ma

anche per un armonioso sviluppo economico.

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La sicurezza energetica oggi: il punto di vista estone S.E. Urmas Paet – Ministro degli Affari Esteri della Repubblica d’Estonia

Cinque anni fa la sicurezza energetica era uno dei temi più

discussi in Europa. Oggi, con nuovi problemi economici e i

rischi cibernetici, questo campo è rimasto maggiormente in

secondo piano. La minore attenzione da parte dell’opinione

pubblica non implica che ci sia stata una svolta per il

miglioramento nell’ambito della sicurezza energetica. Si tratta

di un settore, dove sono coinvolti molti aspetti diversi –

sicurezza, tecnologia energetica, questioni ambientali, aspetti

socio-economici ed interessi politici, tra loro in contraddizione,

di Paesi diversi. La considerazione di tutto ciò significa anche

decidere quale sia il giusto equilibrio tra i vari campi, perché

spesso ottenere risultati in uno comporta grandi problemi in un

altro. Ogni decisione, presa nel settore energetico, comporta

dispendi economici ingenti spesso non compresi dall’opinione

pubblica, sensibile più al costo quotidiano della vita che ad una

politica lungimirante. Spesso i risultati di una decisione, presa o

non presa, si vedono dopo un periodo di tempo di 7 – 8 anni.

Purtroppo l’Europa per lungo tempo ha rinviato tante decisioni

importanti nel settore energetico, creando una situazione in cui

l’età media delle centrali elettriche e di altre infrastrutture

energetiche è chiaramente vetusta.

La prima causa è certamente la complicata situazione

economica nella quale l’avvio di grandi progetti è stato difficile.

La seconda causa, anch’essa rilevante, è l’assenza di chiare e

significative decisioni in campi affini, soprattutto nella politica

ambientale. Senza conoscere le future normative ambientali ed

il meccanismo per stabilire il prezzo per tonnellata di C02 nel

commercio delle emissioni, non è possibile valutare la

convenienza di possibili progetti e la capacità di concorrenza.

Inoltre, alcune questioni energetiche sono diventate temi

politici molto difficili, soprattutto per quanto riguarda lo

sviluppo dell'energia nucleare. In Estonia, per esempio, il

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carbone, la materia prima più importante per l’energia, è tema

di grandi discussioni in quanto, se da una parte fornisce

sicurezza energetica, dall’altra comporta pesanti effetti

ambientali. Sul significato di sicurezza energetica esistono

posizioni abbastanza simili. Generalmente, il sistema

energetico nazionale è sicuro quando è in grado di sostenere

permanentemente ed efficacemente i bisogni energetici. Tre

sono gli aspetti da considerare: l’economico, il tecnico e il

politico. L’aspetto economico riguarda soprattutto la reperibilità

dell'energia, e comprende la capacità di autoproduzione, la

dipendenza da fornitori esterni e i legami con altri paesi.

L’aspetto tecnico comprende la vulnerabilità dei diversi

componenti del sistema energetico, la capacità di rifornirsi con

le varie potenze produttive e i guasti delle infrastrutture.

L’ultimo, quello politico, si lega alla possibilità di influenze

dall'esterno sulla politica energetica nazionale e alle attività più

generali di intervento con le leve energetiche e la vulnerabilità

dello Stato. Inoltre, la sicurezza energetica comprende un

ambito più ampio di quello del singolo Stato. Dal punto di vista

Estone, essenziali sono soprattutto la collaborazione con gli

altri due Paesi baltici, con il Consiglio dei Paesi del Mar Baltico,

con l'Unione Europea e con la NATO. Poiché per alcuni aspetti

nel settore energetico l’Estonia, la Lettonia e la Lituania si

trovano in situazioni simili e legate tra loro. Le competenze

dell'Unione Europea in politica di sicurezza sono abbastanza

limitate, anche se il Consiglio Europeo degli Affari Esteri si è

occupato di aspetti esterni della politica energetica. Ma

naturalmente la parte prevalente dell’attività dell’UE in campo

energetico è quella di rafforzare la sicurezza energetica – per

esempio lo sviluppo dell'efficienza energetica, l'ampliamento

dei collegamenti ed altro. Per la NATO la sicurezza energetica

in senso generale non è nella lista degli incarichi ordinari, ma è

considerata nella valutazione generale dei rischi. Durante il

Vertice di Bucarest la NATO ha considerato la sicurezza

energetica come parte del suo ambito di sicurezza. La garanzia

del rifornimento, la difesa delle infrastrutture con importanza

critica, il supporto delle operazioni, inclusa l'efficienza dell'uso

dei combustibili nel campo militare rientrano nelle valutazioni

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della NATO. Allo stesso tempo, è chiaro che il ruolo e la

potenza della NATO è diverso in queste tematiche concrete.

Poiché le valutazioni individuali dei rischi dei paesi membri di

entrambe le organizzazioni sono abbastanza diverse, anche la

volontà di collaborare a livello internazionale mostra delle

oscillazioni. L’Estonia è nel gruppo di quegli Stati membri che

tengono sotto controllo la sicurezza energetica, soprattutto la

sicurezza dei rifornimenti, e l’energia come “arma” politica, e

allo stesso tempo ritengono che il rafforzamento della sicurezza

energetica degli stati membri e dei partner sia un contributo

importante per elevare la propria sicurezza come membro

dell’UE e della NATO. Parlando degli aspetti economici e sociali,

oggi si può considerare la sicurezza energetica estone nel suo

complesso forse addirittura più garantita rispetto alla media

Europea. Questo è possibile soprattutto grazie all’utilizzo del

carbone nella produzione di energia – dell'energia consumata in

Estonia una gran parte (55-60%) proviene da questa fonte,

inclusa la produzione di elettricità sia per uso domestico sia per

l’esportazione verso gli altri Paesi Baltici e la Finlandia. Secondo

i dati Eurostat, l’Estonia nel 2011 avendo importato solo il 10%

del proprio fabbisogno energetico totale si è posizionata, a

livello UE al secondo posto dopo la Danimarca, che è l'unico

esportatore netto. Ma se guardiamo più nel dettaglio, il che

vuol dire considerare i diversi fornitori di energia, il quadro è

molto più complicato. Tutto il nostro gas consumato viene dalla

Russia. Tutto il combustibile per gli autoveicoli viene importato.

Nello stesso tempo, l’Estonia esporta l’energia elettrica, il

petrolio prodotto dal carbone, la legna da ardere e la torba per

un totale di c.a. il 10% del PIL (2011). La dipendenza dell'UE

dalle importazioni dei fornitori energetici sta crescendo. Nello

stesso tempo sappiamo che in tanti stati Europei esistono

combustibili che potrebbero aiutare a cambiare questo trend

preoccupante. Preferire l’importazione dell’energia all'uso di

combustibili domestici è una comodità, che va ad incidere sul

conto della sicurezza Energetica dell’Europa. In Estonia, come

in tutta l’Unione Europea, i principali metodi seguiti per

diminuire la dipendenza dall'importazione energetica sono stati

l'aumento dell’efficienza dell’uso dell’energia e lo sviluppo della

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produzione di energia rinnovabile ed alternativa. Nella quantità

di produzione di energia rinnovabile siamo arrivati al livello del

25%, con il quale l’Estonia supera gli impegni presi in EU per

l’anno 2020. Le principali direzioni di lavoro in questo settore

sono l'utilizzo della legna e dell’energia eolica. Senza dubbio,

molto importante è anche sviluppare l’infrastruttura che

permette di utilizzare fornitori diversi ed in questo campo nei

Paesi Baltici ci sono dei cambiamenti in atto. I problemi

dell'energia dei Paesi Baltici sono stati dibattuti seriamente sul

tavolo dell’Europa ed alcuni dei temi in discussione sono stati

considerati in vari progetti. Nel 2009 gli otto stati membri

dell’UE che si affacciano sul Mar Baltico e la Commissione

europea hanno firmato il memorandum di intesa BEMIP (Baltic

Energy Market Interconnection Plan). In questo documento e

nell'allegato piano d’azione vengono dichiarati i metodi sia per

organizzare il mercato dell'elettricità e del gas sia per lo

sviluppo delle reti d’interconnessione tra i paesi. Molti obiettivi

del BEMIP sono stati raggiunti. Il secondo elettrodotto tra

l’Estonia e la Finlandia, Estlink-2, è stato costruito e si ritiene

che, una volta ultimati i test, inizi il funzionamento dall'inizio

del 2014. La potenza assorbita in Estonia nell’ora di picco è

oggi pari a 1400-1600 MW, mentre la potenza congiunta

dell’Estlink-1 in funzione dal 2007 e dell’Estlink-2 è di 1000 MW.

L’operatività di entrambi dovrebbe favorire la parità tendenziale

dei prezzi dell’elettricità in Estonia e Finlandia. Si presume che

per la fine del 2015 sarà pronto l'elettrodotto tra Lituania e

Svezia. Lituania e Polonia stanno lavorando al progetto per

creare una propria via di connessione elettrica. Dunque, per

quanto riguarda l’elettricità, i Paesi Baltici sull'orizzonte

temporale del 2016 stanno uscendo dalla situazione che è stata

definita come “isola di energia”. Nello stesso tempo, nei Paesi

Baltici ancora permangono collegamenti con potenza non

sufficiente e soprattutto è necessario un terzo collegamento tra

Estonia e Lettonia; gli esperti considerano che per la sua

realizzazione ci vorranno ancora 5-7 anni. Nel frattempo i nuovi

collegamenti esterni dei Paesi Baltici non forniscono ancora una

utilità pienamente sufficiente. La produzione di elettricità in

Estonia, Lettonia e Lituania era basata su materie prime

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diverse – in Estonia prevaletemene sul carbone, in Lettonia in

gran parte sull'idroenergia e in Lituania, fino alla chiusura della

centrale nucleare di Ignalina nel 2009, sull'energia nucleare.

Purtroppo, al carbone sono legati molti aspetti ambientali, per

le centrali idroenergetiche in Lettonia non si prevedono

ampliamenti e in Lituania dopo la chiusura della centrale

nucleare non esiste nessuna grande produzione di elettricità. In

totale, c’è un deficit di potenza produttiva di elettricità nei

Paesi Baltici. Dopo la chiusura della centrale nucleare di

Ignalina, avvenuta su richiesta dell’UE, è stato considerato per

una decade in Lituania un progetto in comune con i tre Paesi

baltici e probabilmente con la Polonia di costruirne una nuova.

Nel 2006 i primi ministri dei tre Paesi baltici hanno deciso di

avviare lo studio di questo progetto. Purtroppo i negoziati non

sono stati facili. Nel referendum del 2012 il popolo Lituano ha

votato contro la centrale nucleare. In ogni caso, il dibattito in

Lituania continua. Per l’Estonia è di primaria importanza che

questa centrale, qualora si realizzasse, porti profitto. Questo

vuol dire che, cercando l’equilibrio fra la sicurezza energetica e

l'efficienza economica, non ci sarebbe la volontà estone di

continuare a finanziare un progetto in perdita in ragione della

sola sicurezza energetica. Nella situazione energetica attuale

dell'Europa è molto difficile trovare nuovi progetti proficui in

modo chiaro. Il problema principale deriva dalla scarsa

chiarezza delle questioni dell'ambiente (lo sviluppo delle tasse

di emissioni) e dall'approccio critico verso le centrali nucleari

dopo il disastro in Giappone. Ora una notevole parte del

fabbisogno energetico della Lituania e della Lettonia è coperto

dall'elettricità importata dalla Russia, che viene prodotta con

standard ambientali e non solo, più bassi che in UE. Nel campo

energetico un elemento importante è la gestione del mercato.

Dall'estate del 2013 dopo l’entrata della Lettonia tutti e tre i

Paesi Baltici hanno partecipato all'attività della borsa elettrica

dei Paesi nordici Nord Pool Spot. Tuttavia, la borsa non è

ancora diventata completamente formatore di mercato in tutti

Paesi baltici. Per arrivare a questo traguardo, oltre ai metodi

diversi della gestione del mercato è necessario rafforzare i

collegamenti tra i paesi, tra i quali quello tra l'Estonia e la

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Lettonia. Un mercato dell’elettricità ben funzionante aiuta

notevolmente a garantire la sicurezza, poiché aiuta –

differentemente della gestione del mercato basato sulle

relazioni dirette tra produttori e consumatori - in modo efficace

a risolvere i vari problemi causati dalla mancante trasparenza e

flessibilità. Per quanto riguarda il gas, la realizzazione del piano

dei lavori previsti nel BEMIP è stata molto più lenta. In tal

modo l’infrastruttura del gas dei Paesi baltici per lungo tempo

non è stata ampliata, ed ora a causa della insufficienza

infrastrutturale, per la mancanza di punti di fornitura

supplementari e per la diversità della regolazione del mercato,

non esiste il mercato regionale del gas. La Lituania ha

intenzione di aprire per la fine del 2014 un terminal LNG nel

porto di Klaipeda. Contemporaneamente, Lituania e Polonia

lavorano per collegare i gasdotti tra i due paesi. La

Commissione Europea sta decidendo per un LNG terminal

regionale nella zona del baltico e, presumibilmente, sceglierà

un luogo in Estonia o in Finlandia. La costruzione di questo

impianto e il raggiungimento della sicurezza di rifornimento

comporta sicuramente la necessità di costruire tra Estonia e

Finlandia il gasdotto Baltic Connector nel mare. In Lettonia ci

sono piani per ingrandire notevolmente i depositi di gas

sotterranei, per i quali si deve aumentare la portata dei

gasdotti nei Paesi Baltici. Quindi, ci sono in atto vari processi

simultanei e gli esperti devono fare un serio lavoro per

pianificare il futuro rifornimento del mercato Baltico ora c.a 4,5

miliardi di metri cubi. Il mercato del gas Europeo viene

influenzato dagli LNG e anche dall' arrivo di gas da argille sul

mercato dell'energia mondiale. In Estonia per il momento il gas

non viene prodotto. In Lituania sono iniziati i lavori per studiare

le possibilità di produzione di gas da argille, ma attualmente è

ancora presto per parlare dei risultati e dell’impatto sulla

sicurezza energetica. Gli aspetti tecnici della sicurezza

energetica si legano all’affidabilità della potenza di produzione,

alla complessità della rete dei collegamenti e alla possibilità di

usare diverse linee di rifornimento. In generale, grazie alle

centrali a vari blocchi che funzionano con combustibile solido si

può considerare positiva la stabilità della produzione

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dell'energia elettrica in Estonia. Allo stesso tempo, le due

grandi centrali elettriche estoni a carbone sono vicine al confine

di stato e utilizzano una comune sorgente di acqua di

raffreddamento, e questo crea in sé dei rischi. Nelle centrali

funzionano impianti con età diverse, ed un blocco di energia

che è attualmente in costruzione, sicuramente innalza la

sicurezza per il prossimo periodo, e si spera di testarlo

nell’estate del 2014. Allo stesso tempo, la rete elettrica in

Estonia e nei tre Paesi baltici in totale non è cosi grande, in

modo tale che sia tecnicamente facile garantire la frequenza e

questo si può solo raggiungere tramite la collaborazione con la

rete elettrica russa. Nel futuro si considera già, con i

collegamenti Lituania-Polonia, la sincronizzazione con la rete

continentale di UE. Le risorse di gas estoni vengono tenute nei

depositi sotterranei in Lettonia e i combustibili liquidi in vari

posti, compresi i Paesi nordici. Nello stesso tempo, i

collegamenti con la Lettonia sono abbastanza limitati ed è

necessario rafforzarli. Il Baltic Connector e la costruzione del

terminale LNG regionale richiedono questo già di per sé. Il

rifornimento dell’Estonia e di altri Paesi Baltici con combustibili

liquidi non è molto sicuro, perché intorno al Mar Baltico sono

poche le raffinerie di petrolio e queste funzionano già a pieno

ritmo. Il mancato funzionamento di una o più raffinerie, oppure

l'interruzione del loro rifornimento per diverse cause, può

causare problemi di rifornimento energetico. Ciò considerato,

mantenere le riserve nazionali è una via certa per garantire la

sicurezza e l’Estonia ha lavorato seriamente su questa

questione. Purtroppo sia in Estonia sia altrove è abbastanza

difficile convincere il pubblico su alcune azioni importanti dal

punto di vista della sicurezza energetica, per esempio la

creazione di potenze di riserva e di riserve di gas, anche se ciò

comporta l’aumento dei prezzi. L'usura della infrastruttura

energetica in Europa e la diminuzione della costruzione di

nuove potenze causano problemi tecnici in futuro. Allo stesso

tempo, l’aumento dell’efficienza dell'uso dell’energia, il

progresso dell’energia rinnovabile e alcune diminuzioni della

popolazione abbassano in qualche misura il peso degli

investimenti in futuro. Gli aspetti politici della sicurezza

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La sicurezza energetica nel XXI secolo: prospettive dall’Italia e dal Mondo

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energetica sono per l’Estonia e gli altri Paesi baltici importanti e

provengono soprattutto dalla nostra posizione geografica. Le

reti energetiche dei Paesi baltici sono state realizzate in grande

parte con schemi del periodo dell’occupazione Sovietica e sono

collegate con la Russia e non tanto tra di loro. A questi

collegamenti si deve attribuire il fatto che la Russia ha fatto

pressioni sull'energia nelle relazioni con i vicini (per esempio

con l’Ucraina). Per questo, per i Paesi baltici l'obiettivo

principale è quello di creare collegamenti supplementari e

variare i fornitori, senza però rinunciare alla vasta

collaborazione energetica con la Russia, che è geograficamente

vicina ed è un fornitore importante per tutta l’Europa. Per

garantire la sicurezza energetica si prevede la gestione

intelligente delle dipendenze esterne per eliminare i rischi

eccessivi. I tre Paesi baltici, pur mettendosi insieme, sono una

forza molto piccola nel mercato internazionale dell’energia e

perciò è ovvio che l’Estonia abbia fortemente sostenuto le varie

proposte, indirizzate a rafforzare il ruolo dell’Unione Europea

come ente unico nelle relazioni esterne in campo energetico.

Tali questioni sono state discusse ripetutamente nell’UE,

tuttavia senza un significativo progresso. Lo scambio

d'informazione sugli accordi con i paesi terzi dovrebbe secondo

noi portare in futuro alla nascita dell’UE come partner unico o

almeno un partner con gli stessi principi. Durante la presidenza

Lituana, l’Estonia ha appoggiato prioritarie le misure esterne

dell'energia e la realizzazione delle decisioni del Vertice del

maggio 2013. Oggi per esempio si può vedere nei prezzi del

gas la cosiddetta “componente politica” e questo è sicuramente

un problema economico e politico. Fondamentale è anche

sistemare il mercato energetico dell'UE. L’Estonia sta

realizzando volta per volta il Terzo Pacchetto Energetico UE,

inclusa la separazione sostanziale tra produttori/fornitori di gas

e gestori della rete. Questo processo è stato molto difficile in

tutta Europa, ed è così anche nei Paesi baltici, dove ogni Stato

sta prendendo strade diverse. Senza dubbio l’UE deve fare

qualcosa per quanto riguarda l’importazione dell’energia

elettrica, la cui mancata regolazione comporta nella nostra area

ovviamente la fuga del carbonio. Purtroppo l’UE finora non è

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stata capace di applicare metodi unici per quello che riguarda

l’importazione dell’energia elettrica da paesi con standard

ambientali, sociali e altro più bassi, e questo è un fattore

importante che crea una situazione nella quale costruire nuovi

impianti produttivi di energia nei Paesi baltici è diventato

economicamente problematico. Proprio qui vediamo in modo

molto chiaro la necessità di cercare l’equilibrio tra i diversi

ambienti della vita - l'importazione del 100% dell’elettricità in

uno dei Paesi baltici dalla vicina Russia potrebbe essere

economicamente la soluzione migliore, ma questa porterebbe

conseguenze di sicurezza politica importanti e avrebbe

ripercussioni sull'ambiente globale. In Estonia dobbiamo

considerare anche l’aspetto sociale – l'estrazione di carbone e il

conseguente utilizzo per la produzione dell’energia elettrica

danno lavoro a decine di migliaia di persone in modo

concentrato in una regione dell’Estonia, e tale produzione ha

inoltre permesso all’Estonia di avere il prezzo dell’elettricità tra

i più bassi in UE.

Il dibattito sulla sicurezza energetica continua, talvolta

intensamente. Coloro che sono attivi nella politica della

sicurezza devono mostrare le proprie preoccupazioni in modo

articolato al pubblico, così che nel processo democratico possa

crescere un approccio pratico e sostenibile per avere continuità

a lungo termine.

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La sicurezza energetica nel XXI secolo: prospettive dall’Italia e dal Mondo

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La Sicurezza energetica nella Repubblica Ceca S.E. Petr Burianek – Ambasciatore della Repubblica Ceca in Italia

Per la sua prima Presidenza UE nel primo semestre 2009 la

Repubblica Ceca ha indicato l’energia tra i temi prioritari. In

coincidenza con tale presidenza è scoppiata la crisi del gas tra

Ucraina e Russia che ha interessato molti paesi UE a causa

dell’interruzione delle forniture di gas. Altra coincidenza sembra

il fatto che il primo ministro italiano Letta ha, all’inizio

Settembre, annunciato che l’energia sarà una delle priorità

della prossima presidenza UE italiana del secondo semestre

2014. Il seguente testo ha come riferimento principale

l’aggiornamento della Dottrina nazionale energetica della

Repubblica Ceca approvata e pubblicata nel novembre 2012.

Nella prima parte analizzeremo l’attuale composizione del mix

energetico nella Repubblica ceca. Nella seconda parte

delineeremo i principali obiettivi cechi nel comparto della

sicurezza energetica.

L’attuale situazione energetica e le principali tendenze per i prossimi decenni

L’OCSE ha, recentemente, apprezzato i passi avanti realizzati

dalla Repubblica ceca sulla politica energetica, sulla politica di

protezione clima, sulla sicurezza degli approvvigionamenti di

greggio e gas e sulla liberalizzazione del mercato dell’elettricità.

L’OCSE, tuttavia, ha proposto ulteriori provvedimenti nel

settore dell’efficienza energetica.

La rete di distribuzione elettrica con i paesi vicini è ben

sviluppata e i nuovi collegamenti hanno contribuito ad un

ulteriore sviluppo del mercato dell’energia elettrica della

regione Centro europea. La capacità della rete disponibile per

la trasmissione di elettricità per le esportazioni e le

importazioni equivale rispettivamente al 35% e al 30 % del

caricamento della rete nelle ore di picco.

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Il carbone resta la principale fonte energetica nella Repubblica

Ceca, sia per quanto riguarda la produzione di elettricità, con

una quota pari a circa il 54,7% del totale, sia per quanto

riguarda il riscaldamento degli edifici tanto dalle centrali

termiche quanto dagli impianti indipendenti privati. Per quanto

riguarda la provenienza delle fonti energetiche, la Repubblica

Ceca importa, conteggiando anche le forniture di combustibili

per le centrali nucleari, una quota inferiore al 50% del proprio

fabbisogno interno. La relativamente bassa dipendenza

dall’estero, tenuto conto che la media UE è di circa il 60%, è

uno dei principali punti di forza del settore energetico del Paese.

La Repubblica Ceca riesce a coprire l’intera domanda di

elettricità e del calore per riscaldamento. La struttura delle

fonti energetiche resta stabile. Negli ultimi decenni il

cambiamento più notevole ha riguardato la costruzione della

centrale nucleare Temelin.

Recentemente, il Governo ha avviato dei programmi di

sostegno per lo sviluppo delle fonti rinnovabili. Tuttavia,

l’aumento della quota prodotta dalle rinnovabili non è ancora

sufficiente a fornire un sostanziale contributo alla riduzione del

ricorso ai combustibili fossili.

È previsto che l’incidenza del carbone per la produzione di

elettricità e per il riscaldamento decresca progressivamente

soprattutto a causa dell’esaurirsi dei bacini carboniferi. La

Repubblica Ceca, se dovesse permanere l’attuale modesto

apporto delle fonti rinnovabili, sarà costretta a colmare il

proprio fabbisogno energetico aumentando le importazioni.

L’obiettivo del Paese è quello di non superare, prima del 2030,

la soglia del 65% di energia prodotta da fonti d’importazione, e

la soglia del 70% prima del 2040.

La seconda più importante fonte di energia è il nucleare. Nelle

due centrali attualmente operative si produce il 33% del

fabbisogno elettrico nazionale. Tale percentuale è prevista in

aumento. Infatti, è stato deciso l’ampliamento della centrale

Temelin con la costruzione di due nuovi reattori. Nel caso di

ulteriore sviluppo del nucleare la produzione di elettricità

potrebbe coprire il 50% della domanda. È anche auspicabile

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che il calore prodotto dalle centrali nucleari venga sempre più

utilizzato per riscaldare gli edifici delle grandi città.

Altra fonte energetica importante è il gas, utilizzato sia per

produrre l’elettricità sia per riscaldamento (centrali termiche o

caldaie individuali). Il 27% circa delle case utilizza il gas per

riscaldamento. Col gas viene generato il 4% circa di elettricità.

Grazie ad una maggiore efficienza energetica delle case, grazie

ai numerosi progetti di ristrutturazione avviati con il sostegno

finanziario pubblico, ad un uso degli impianti domestici moderni,

ad un cambio di tessuto industriale a favore di settori che

consumano meno energia e anche grazie ad aumento di prezzi

del gas per gli usi civili, negli ultimi 10 anni si è assistito ad un

calo dell’utilizzo del gas del 20% circa, nonostante che, nel

medesimo lasso di tempo, siano stati connessi 800.000 nuovi

utenti alla rete di distribuzione del gas. A breve, si prevede

comunque un aumento dei consumi di gas legato ad un

maggior utilizzo nel settore dei trasporti. Attualmente, il 100%

di rifornimenti di gas viene importato. Principalmente dalla

Russia e dalla Norvegia, con una piccola parte che viene

acquistata sui mercati spot dell’UE.

La Repubblica Ceca, nel recente passato, ha posto in essere

delle azioni strategiche per aumentare la sicurezza di tutti gli

aspetti relativi alle forniture del gas: stabilità dei prezzi e

diversificazione dei paesi fornitori. La diversificazione si è

materializzata anche per quanto riguardano le vie di trasporto,

quindi oggi anche il gas proveniente dalla Russia può

raggiungere il mercato ceco tramite gasdotti diversi.

Gran parte delle forniture, infatti, dipendono da contratti a

lungo termine con prezzi prefissati siglati con operatori di

diversi paesi, l’approvvigionamento del gas è garantito da

gasdotti che provengono da Germania, Slovenia e Polonia. Tale

diversificazione è un vantaggio competitivo per la Repubblica

Ceca, come è stato dimostrato nel corso della crisi del gas tra

Russia ed Ucraina allorché non è stato necessario in alcun

modo restringere le forniture di gas ai consumatori del Paese.

Fino al 2012 la maggior parte del gas transitava nella direzione

est-ovest con capacità di entrata 51 mld. m3 all’est e 29 mld.

m3 all’ovest. Dopo la costruzione di gasdotto Gazela (con

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capacità di 30 mld. m3 per anno) la più importante direzione di

transito è quella nord-sud, utilizzata per il trasporto del gas dal

Nord Stream e dall’OPAL in direzione Germania e Francia. Il

Gasdotto Gazela sarà collegato con la rete ceca e, in momenti

di crisi, potrà sopperire alle richieste di gas mancante. Nel

2011 è stato costruito il gasdotto STORK tra la Repubblica Ceca

e Polonia con una capacità attuale di 0,59 mld. m3 per anno, si

prevede un aumento di capacità fino a 3 mld. m3 per anno. I

siti di stoccaggio del gas nella Repubblica Ceca hanno capacita

totale di 3,442 mld. m3 (pari al 35-40% del consumo annuale

nazionale).

Il consumo di petrolio permane stabile ad eccezione di quello

per trazione. Per quanto riguarda la produzione di calore per

riscaldamento il petrolio (oli leggeri di riscaldamento) concorre

solo per il 2% circa.

Il mercato degli idrocarburi è stato completamente liberalizzato.

Oggi come oggi lo stato può intervenire solo per decidere,

tramite lo strumento legislativo il livello obbligatorio di scorte

strategiche di emergenza.

Nel settore operano anche due importanti società pubbliche: la

MERO Spa, proprietaria e gestore degli oleodotti Druzba ed IKL

sul territorio della Repubblica Ceca e dell’oleodotto IKL sul

territorio tedesco. La MERO ha costruito anche grandi serbatoi

per lo stoccaggio delle riserve strategiche di petrolio; la CEPRO

che è proprietaria della rete dei tubi per il trasporto dei

combustibili (benzina, gasolio) e di alcuni siti di stoccaggio.

Per quanto riguarda il petrolio, la Repubblica Ceca è quasi

interamente dipendente dalle importazioni; infatti solo una

quota pari al 3% dei consumi viene coperta con il petrolio

estratto in territorio ceco. Le importazioni per decenni erano

assicurate dalla Russia attraverso l’oleodotto Družba. Dal 1995,

allorquando è entrato in esercizio l’oleodotto IKL (Ingolstadt-

Kralupy-Litvínov) che rifornisce le raffinerie delle due città

ceche Kralupy e Litvínov attingendo il petrolio dall’oleodotto

TAL 5 , che trasporta petrolio da Trieste alla Germania, le

5 L’Oleodotto Transalpino (TAP) è lungo 753 Km e attraversa Italia, Austria e Germania, collegando il Porto di Trieste con i Land tedeschi della Baviera e del Baden.Wuttemberg.

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percentuali del petrolio importato tramite il Družba e l’IKL sono

oggi quasi uguali, perché tramite IKL viene importato in gran

parte anche il petrolio russo (la capacità disponibile dell’import

di petrolio è: 10 mil. t/anno del Družba contro gli 11 mil.

t/anno dell’IKL).

L’attuale capacità di stoccaggio dei serbatoi di emergenza è

pari a 1,55 mil. m3 di petrolio, cioè a circa 100 giorni di

consumo medio. Comunque, la Repubblica Ceca si è già

attivata per aumentare la capacità dei serbatoi in modo tale da

rispettare la direttiva del Consiglio Europeo 2009/119/CE che

stabilisce che il minimo di scorte di emergenza siano uguali a

90 giorni di importi netti.

Nel 2010 la percentuale di elettricità prodotta dalle fonti

rinnovabili ammontava all’8,3% del totale.

Le centrali idroelettriche coprono oggi circa il 3% del

fabbisogno di elettricità totale. Questa fonte, a causa della

situazione morfologica del Paese, ha poco margine di crescita.

Comunque, il suo ruolo è importante per la flessibilità e per la

capacità di stabilizzare la rete e coprire il picco di consumo di

elettricità durante la giornata oppure eccesso di produzione da

altre fonti rinnovabili. La più grande centrale idroelettrica della

Repubblica ceca è la “Dlouhe strane”6. Di tipo a pompaggio7,

http://www.tal-oil.com/it/impianti/oleodotto-transalpino.html. 6 La centrale è fornita di due turbine aventi ognuna una capacità pari a 325 MW. Essa può fornire elettricità pari ad un terzo di quella prodotta dai due reattori della centrale nucleare di Temelin (2x1000 MW). 7Sostanzialmente un impianto idroelettrico a pompaggio è costituito da due bacini idrici, ubicati uno a monte e l’altro a valle della centrale vera e propria, cioè dell’edificio contenente le turbine e gli altri macchinari necessari alla generazione di elettricità. Nelle ore diurne di punta, durante i picchi di domanda elettrica, l’acqua viene fatta fluire dal bacino superiore a quello inferiore azionando le turbine. Nelle ore notturne e nei giorni festivi, quando la domanda sulla rete è minima, la

stessa acqua viene ripompata (da cui il nome) al bacino superiore, in modo da ricostituire l’invaso occorrente al successivo ciclo di funzionamento. In pratica le centrali a pompaggio assorbono dalla rete energia elettrica poco pregiata (prevalentemente la produzione nelle ore notturne e di basso carico proveniente dal parco termoelettrico di base), per restituirne una quantità

minore, ma di pregio molto maggiore, nelle ore di punta. Mediamente il rendimento globale è di circa il 70% o di poco superiore, cioè

per ogni 10 kWh spesi per il pompaggio si ricavano 7 kWh nella fase di generazione. http://energyviews.enel.it/?p=1457.

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essa è la terza centrale più grande al mondo di questo tipo. La

Repubblica Ceca si è impegnata nei confronti dell’Unione

Europea a portare la percentuale di rinnovabili al 13% entro il

2020. Sarà difficile raggiungere quest’obiettivo, sicuramente

impossibile senza il sostegno finanziario pubblico il quale è

previsto che nei prossimi anni diminuisca. Attualmente le

centrali eoliche nel nord della Germania utilizzano la rete

elettrica ceca per trasportare l’elettricità verso il sud. La rete

ceca degli elettrodotti non è in grado di sopportare il trasporto

di così grandi volumi di elettricità. Una soluzione potrebbe

essere trovata se l’UE accettasse che la Repubblica ceca

impegni i fondi destinati al raggiungimento dell’obiettivo della

percentuale di energia prodotta dalle fonti rinnovabili per la

realizzazione di opere di potenziamento degli elettrodotti. Tale

potenziamento servirebbe a permettere alla rete della

Repubblica ceca di sopportare il passaggio dei grandi volumi di

elettricità prodotta dalle centrali eoliche nel nord della

Germania e che vengono indirizzate verso sud. Questo sarebbe

un esempio di buona collaborazione internazionale; uno stato

con migliori condizioni naturali per lo sviluppo delle fonti

rinnovabili investe in centrali e l’altro stato con una posizione

geografica strategica per agevolare il trasporto di energia

investe invece nelle infrastrutture per la trasmissione a lunga

distanza. In tal modo la rete elettrica nella regione del centro

Europa potrebbe funzionare bene e rimanere stabile mentre i

costi verrebbero divisi in modo ragionevole. In caso contrario,

le centrali eoliche in Germania, che producono elettricità in

modo poco prevedibile e stabile, diventerebbero un rischio per

la rete elettrica della Repubblica Ceca.

Lo sviluppo di uso della biomassa nella Repubblica Ceca non

dovrebbe causare ripercussioni sulla sicurezza alimentare. La

Repubblica Ceca dovrebbe migliorare l’uso energetico dei rifiuti.

Nel 2009 solo il 9% di rifiuti non riciclabili sono stati usati per

la produzione di energia. L’obiettivo è quello di aumentare la

percentuale sino all’80% entro il 2040.

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Uno dei principali obiettivi per assicurare la sicurezza

energetica della Repubblica Ceca è il rafforzamento della rete

elettrica, la quale dovrebbe essere in grado di sostenere il

transfer dell’elettricità prodotta dalle fonti rinnovabili nel nord

d’Europa e consumata nel Sud. Il trasporto di elettricità

prodotta dalle centrali eoliche nel nord della Germania, usando

la Repubblica Ceca come il paese di transito, dovrebbe

diventare una delle priorità della sicurezza energetica europea

sostenuta adeguatamente anche dai fondi europei.

Per assicurare la sicurezza energetica della Repubblica Ceca è

necessario potenziare la rete elettrica interna. In tal modo,

infatti, anche nel caso di blackout della rete europea di

trasmissione, la Repubblica Ceca avrebbe la capacità per

assicurare le forniture a tutte le utenze nazionali anche se solo

per un breve periodo. Per quanto riguarda le forniture di gas

esiste una rete ben sviluppata con serbatoi di emergenza di

notevoli dimensioni. Per quanto riguarda il petrolio è

importante che vengano realizzati serbatoi per assicurare la

copertura per più di 100 giorni di consumo. La rete di

riscaldamento, basata sul carbone, riesce a superare quasi ogni

tipo di crisi.

Obiettivi strategici del settore energetico fino al 2040

La politica energetica per i prossimi anni s’impernia sui tre

seguenti principali obiettivi:

Sicurezza delle forniture energetiche – vuol dire assicurare la

fornitura di energia per tutti i clienti anche a fronte di eventi

esterni drammatici e in situazioni di emergenza.

Competitività (energetica e sostenibilità sociale) – il prezzo

finale dell’energia per tutte le utenze dovrà essere simile

rispetto a quello dei paesi della regione e degli altri paesi

emergenti.

Sostenibilità (sviluppo sostenibile) – la struttura del settore

energetico a lungo termine dovrà essere sostenibile nel rispetto

all’ambiente, ai parametri economici e finanziari, alla

manodopera specializzata, impatto sociale (occupazione) e

fonti primari (disponibilità).

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Per quanto riguarda la sicurezza energetica, la priorità è

rafforzarla. La situazione desiderata verrebbe raggiunta tramite

una maggiore diversificazione dei paesi d’importazione delle

materie prime energetiche e un miglioramento

dell’infrastruttura dei trasporti per le importazioni dei

combustibili in modo tale che la Repubblica Ceca mantenga la

posizione strategica di paese di transito. Si dovrà tendere ad

un maggior ricorso alle fonti domestiche e ad un loro più

efficiente utilizzo. Nello stesso tempo bisogna creare condizioni

per la loro ricerca, tutela territoriale e legislativa. Il mix

energetico non dovrà essere dominato dalle fonti

d’importazione o non economiche. È inoltre necessario

mantenere un sufficiente livello di scorte di combustibili

d’importazione. L’infrastruttura energetica dovrà essere

protetta e sviluppata velocemente per le necessità future. La

rete elettrica e gas deve essere irrobustita per affrontare

eventuali shock esterni e per poter funzionare in regime di

isolamento. Il controllo dello stato nelle società strategiche

energetiche non dovrà diminuire. Al contempo, non dovrebbe

aumentare l’influenza di paesi o società che sono già tra i

principali fornitori di materie prime energetiche evitando che

acquisiscano una posizione dominante nella filiera di settore,

dall’importazione alla distribuzione.

I principali obiettivi per garantire la sicurezza energetica in

prossimi anni sono:

- nell’ambito della politica estera sviluppare relazioni

economiche, reciprocamente vantaggiose, con i paesi e le

regioni d’interesse dal punto di vista delle importazioni di

fonti energetiche;

- sostenere progetti di sviluppo delle infrastrutture di

collegamento nord-sud (elettricità, gas, petrolio);

- assicurare il reperimento di fonti energetiche per poter

sostituire carbone nella produzione del calore per

riscaldamento;

- favorire la diffusione di sistemi di riscaldamento che

possano utilizzare vari combustibili e cambiarli velocemente

al minimo di 30%;

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- mantenere le scorte di petrolio al livello di 90 giorni di

importazioni nette e tentare di aumentarle a 120 giorni;

- sostenere progetti di aumento della capacità di stoccaggio

dei serbatoi di gas interrati;

- effettuare gli investimenti tecnologici per poter variare la

direzione d’invio del gas in modo tale da utilizzare lo stesso

gasdotto dall’est (Slovacchia) verso ovest (Germania) o

viceversa, a seconda, delle esigenze dei paesi al livello di 40

milioni m3;

- mantenere scorte di combustibile per le centrali nucleari per

un periodo d’esercizio pari a tre anni, oppure assicurare le

forniture delle stesse con contratti a lungo termine o

mantenere le scorte di uranio arricchito e produrre il

combustibile in Repubblica Ceca. Quest’obiettivo dovrà

essere raggiunto in parallelo con l’aumento della

percentuale di energia nucleare presente nel mix energetico

che dovrebbe raggiungere una quota del 50-60%;

- sviluppare strategie energetiche regionali per assicurare alle

grandi città forniture di energia anche in situazioni di

emergenza, d’isolamento dovuto a guasti o a calamità

naturali;

- porre in essere, a livello centrale e regionale, strumenti di

coordinamento per affrontare situazioni di emergenza nel

settore dell’elettricità, del gas e del riscaldamento;

- monitorare investimenti esteri nel settore energetico

sopratutto in alcuni soggetti dell’infrastruttura strategica per

evitare situazioni che potrebbero significare una minaccia, la

quale si potrebbe materializzare tramite uno sfruttamento

del controllo di aziende energetiche come braccio di ferro

per propri interessi economici e politici danneggiando la

Repubblica Ceca. Nello stesso tempo non diminuire

l’influenza e controllo di stato nelle società strategiche.

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Fonti rinnovabili di energia (FER) per la produzione di elettricità: quadro della situazione in Slovenia

S.E Iztok Mirosic. – Ambasciatore della Repubblica di Slovenia in Italia

Boris Antolic – Ministro Consigliere dell’Ambasciata della Repubblica di Slovenia in Italia

I paesi dell’UE si sono impegnati affinché la quota di fonti

rinnovabili di energia (FER) aumenti8. Per raggiungere questo

traguardo sono stati instaurati negli ultimi anni vari meccanismi

a sostegno degli investimenti nel settore della produzione

dell´energia elettrica da fonti rinnovabili. Come la maggioranza

dei paesi, inclusa l’Italia, la Slovenia utilizza una versione del

sistema delle tariffe d’acquisto garantite (c.d. sistema feed-in).

Il sistema elettrico sloveno è peraltro uno tra i sistemi più

piccoli in Europa. La potenza di picco del consumo ammonta a

circa 1900 MW. In Slovenia le fonti della produzione elettrica si

suddividono approssimativamente in tre parti: un terzo

appartiene all’energia nucleare, un terzo all’energia che

proviene dalle centrali termoelettriche prevalentemente a

carbone e, infine, l’ultimo terzo rappresenta l’energia idrica e le

altre fonti rinnovabili. Pur essendo un mercato di esigue

dimensioni, il mercato sloveno è comunque importante per la

sua posizione geografica, considerando che fa da collegamento

sia per il mercato continentale tedesco-austriaco, sia per il

mercato italiano con il bacino energetico dell’area balcanica. Le

interconnessioni sono ben performanti in tutte le zone di

confine sloveno, con l’esclusione dell’area di confine con

l’Ungheria, dove le condotte d’interconnessione sono in fase di

costruzione. Sul mercato sloveno sono presenti numerosi

8 Per informazioni in lingua inglese si può consultare il sito: www.borzen.si (i dati statistici, la guida per gli investitori con la descrizione di tutta la

procedura per la messa in opera delle centrali e dell’entrata nello schema di sostegno).

Info e dati statistici forniti da Borzen, per ulteriori informazioni contattare: Karlo Peršolja ([email protected]), Borut Rajer ([email protected]).

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grossisti di energia elettrica. Al 30 giugno 2013 si registrano in

Slovenia 51 gruppi di bilancio (di cui 17 sloveni e 34 delle

aziende estere) e 20 sottogruppi di bilancio (di cui 15 sloveni e

5 esteri). In Slovenia è operativa anche la Borsa dell’energia,

partecipata dall’azienda slovena Borzen e dall’operatore

sistemico ELES (www.bsp-southpool.com).

Immagine: Situazione sul mercato sloveno e scambi transfrontalieri di elettricità

La Slovenia ha dunque deciso di perseguire l’obiettivo dell’UE

riguardo alle fonti rinnovabili, cioè di raggiungere la quota del 25% di FER nel consumo finale lordo di energia, servendosi anche dello schema di sostegno (finanziario) sotto forma di

‘modello FIT’. Anche se la Slovenia sta utilizzando questo schema già dal 2001, quindi prima che i più recenti obiettivi

europei fossero fissati, nel 2009 lo schema è stato completamente riadattato.

Tabella: Obiettivi settoriali FER in Slovenia negli anni (%)

Settore 2005 2010 2020

Calore e freddo 20 22,3 30,8

Elettricità 28,5 32,4 39,3

Trasporto 0,3 2,6 10,5

Quota totale FER 16,2 17,7 25,3

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L´idea dello schema di supporto – incluso quello sloveno - è

chiara: creare le condizioni migliori di quelle di mercato (c.d.

sovvenzioni), altrimenti gli investimenti non si realizzano. Di

norma, gli investimenti in crescita portano alla riduzione del

costo dell’investimento, fino al punto in cui le singole tecnologie

non hanno più bisogno di contributi di sostegno. Gli schemi di

sostegno (finanziario) rappresentano prevalentemente uno

strumento degli aiuti di Stato che però prevedono certi oneri

amministrativi e presupposti – per esempio il divieto di

accumulare gli aiuti provenienti da diverse fonti.

Negli attuali schemi di sostegno, gestiti dalla società Borzen,

risultano inserite in data 30.6.2013 ben 3190 unità con

potenza nominale complessiva di 461 MW, il che rappresenta

circa il 14% di tutta la potenza installata in Slovenia. All’inizio

del 2009, quando la Borzen prese in gestione lo schema, vi

erano inserite 560 unità con potenza complessiva di 210 MW.

Per tradizione, il ruolo più importante tra le fonti rinnovabili per

la produzione dell’energia elettrica in Slovenia appartiene

all´energia idrica. Oltre alle grandi centrali idroelettriche su tre

anelli fluviali sloveni (i fiumi Soča, Drava e Sava), esistono più

di 450 piccole centrali idroelettriche, la maggioranza delle quali

è stata inserita anche nello schema di sostegno. Le centrali più

datate sono saltate fuori dallo schema di sostegno, ma tuttora

producono elettricità.

Nella tabella sottostante sono illustrate delle dinamiche inerenti

le piccole centrali nello schema di sostegno. Nel 2009, dal

numero complessivo di 570 centrali presenti nello schema, ben

tre quarti di queste erano le piccole centrali idriche, mentre,

secondo il criterio della potenza, la quota delle centrali

idroelettriche rimase inferiore al 50%. Alla fine del 2011 circa

75% di tutte le piccole centrali idriche furono fuori dallo

schema di sostegno. Dopo il 2011, invece, si segnalano solo

100 piccole centrali idriche nello schema (a causa di tecnologie

superate).

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Tabella: Piccole centrali idriche nello schema di sostegno nel periodo 2009-2011

2009 2010 2011 2012

Numero di centrali nello schema

427 432 427 102

Potenza installata delle centrali (MW)

102,7 106,4 105,8 25,5

Rimane da rilevare che l’incremento del numero delle centrali

nello schema è stato molto asimmetrico. Dopo il 2009, il

numero delle nuove centrali idriche rimane basso, più che altro,

a causa delle procedure complicate per l’ottenimento dei

permessi, ciò nonostante emergono però molte centrali

fotovoltaiche. Mentre nel 2009 quest’ultime arrivano a produrre

una modesta potenza di 1,6 MW, nel 2013 raggiungono quasi i

220 MW. Un importante incremento si segnala anche nelle

centrali a biogas (34 MW nel 2013), con prevalenza del biogas

da biomassa, seguito dal gas da deposito rifiuti.

Tabella: Trend dello schema di sostegno (2009-2012)

Anno 2012 2011 2010 2009

Quantità dell´energia elettrica (in kWh)

653.969.311

943.253.650

995.508.812

934.180.729

Sostegni finanziari erogati secondo i contratti (in EUR , IVA esclusa)

89.777.431

69.505.462

48.588.434

22.736.785

Sostegno medio (in EUR/kWh) 0,13728 0,07369 0,04881 0,02434

Dalla tabella sopra si evince che le risorse finanziarie

necessarie per l’erogazione di contributi a sostegno sono in

notevole aumento, infatti, sempre più centrali si inseriscono

nello schema, quindi i beneficiari di cospicui incentivi (in

prevalenza le centrali fotovoltaiche), mentre la quantità di

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produzione registra una stagnazione. Infatti, una centrale

fotovoltaica media produce fino a 4 volte meno energia all’anno

di una piccola centrale idrica.

Osservando attentamente la tabella sotto si nota che sono

proprio le centrali fotovoltaiche cui vengono erogati quasi la

metà dei sostegni.

Tabella: Energia prodotta e sostegni finanziari erogati nel 2012 secondo le tipologie

delle centrali

Tipologia dell´ impianto

Energia prodotta (GWh)

Sostegno (mio EUR)

Quota del sostegno (%)

Quota dell´energia (%)

Centrali idroelettriche 100,6 5,8 6,5% 15,4%

Centrali fotovoltaiche 121,4 38,2 42,5% 18,6%

Centrali eoliche >0 >0 >0 >0

Centrali a biogas 150,6 18,3 20,4% 23,0%

Centrali a biomassa 80,9 8,7 9,7% 12,4%

Cogenerazione a combustibile fossile 199,0 18,4 20,5% 30,4%

Altro 1,5 0,4 0,4% 0,2%

TOTALE 654,0 89,8 100,0% 100,0%

Anche nel 2013 si prevede la continuazione di questo trend e

così di seguito, quando i pagamenti supereranno i cento milioni

di Euro. Quando nuove centrali sono inserite nello schema,

viene loro erogato un contributo di sostegno per 15 (FER)

rispettivamente per 10 anni (coproduzione dell’energia elettrica

e del calore).

La situazione delle centrali cambia in continuazione, poiché le

nuove centrali entrano nel sistema (completata la costruzione e

ottenute la rispettiva dichiarazione e la delibera sulla

concessione del sostegno, quest’ultima rilasciata dall’autorità di

competenza – l´agenzia pubblica per l´energia), mentre delle

altre lo abbandonano. In questo modo chiaramente si crea la

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cosiddetta “inerzia” del sistema, che significa che i

finanziamenti aumenteranno anche nel futuro. Questo fatto

contraddistingue sia il nostro schema, come anche gli altri

schemi, dove si eseguono i pagamenti in base alla produzione

effettiva durante un lungo periodo. In ogni caso, la Slovenia

non si distingue dagli altri paesi con i sistemi simili. I risultati e

i problemi sono simili, come per esempio il notevole incremento

delle centrali fotovoltaiche oppure la crescita veloce delle

risorse necessarie per l’erogazione dei sostegni. La Slovenia

però ha una specificità – la totale assenza degli impianti eolici.

I motivi sono da cercare nuovamente fuori dallo schema di

sostegno, poiché gli incentivi offerti sono adeguati. Le difficoltà

si creano soprattutto nella collocazione territoriale degli

impianti eolici rispettivamente nell’ottenimento dei permessi.

Come da Rapporto sul progresso, redatto in conformità a

quanto previsto dalla Direttiva sulle Fonti rinnovabili

(2009/28/ES), che alla fine del 2011 la Slovenia trasmise alla

Commissione Europea, nel 2009 la quota delle fonti rinnovabili

raggiunge il 33,8%, mentre nel 2010 è di 32,2%. La quota

complessiva di FER (quota del consumo finale lordo di energia),

invece, risulta essere cresciuta dal 18,99% al 19,9%, non solo

per quanto riguarda l’elettricità. È evidente che si debba fare

ancora molto per raggiungere entro il 2020 il traguardo del

25% delle fonti rinnovabili nel consumo lordo finale di energia.

Lo schema di sostegno rappresenta per una scarsa e dispersiva

produzione dell´elettricità da fonti rinnovabili indubbiamente

uno degli strumenti per il raggiungimento di questo traguardo.

Viste le esperienze slovene e quelle fatte all’estero, tali schemi

necessitano soprattutto di stabilità e prevedibilità. Negli anni

passati in molti paesi europei questo non è stato sempre il caso

e, in parte, neanche in Slovenia. La stabilità è qui intesa in

senso dello sviluppo equilibrato e non in senso secondo cui

niente deve cambiare. Al contrario, si deve cambiare e

cambieranno ancora molte cose, sia l´ammontare dei contributi

di sostegno, come anche gli altri parametri.

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La sicurezza energetica della Serbia

S.E. Ana Hrustanovic – Ambasciatore della Repubblica di Serbia in Italia

Rade Berbakov – Primo Consigliere dell’Ambasciata della Repubblica di Serbia in Italia

La sicurezza energetica di un paese non si può analizzare

separatamente dalla regione in cui esso si trova, né

separatamente da una più larga comunità internazionale a cui

appartiene geograficamente o in altro senso. Quando si parla di

questo argomento, analizzando la sicurezza, sia di rifornimenti

di energia attuali che quelli futuri, della Serbia, occorre

osservare la posizione del nostro Paese in un contesto più

ampio di sicurezza dei rifornimenti della Regione in cui si

trovano i paesi membri dell’UE (Ungheria, Romania, Bulgaria,

Grecia, Croazia) e i paesi che un giorno diventeranno membri

dell’UE (Macedonia, Bosnia ed Erzegovina, Albania,

Montenegro).

In generale, la sicurezza energetica di un paese è legata in

modo inscindibile alle risposte alle seguenti domande:

- si produce sufficiente quantità di energia?

- ci sono delle riserve di energie nei casi di complicanze nei

rifornimenti nel mercato?

- esistono canali alternativi di rifornimenti nel caso che i

canali esistenti siano insufficienti o interrotti?

- esistono dei contratti flessibili sui rifornimenti?

- è possibile effettuare la sostituzione di una fonte di energia

con un’altra?

- quanta energia può essere risparmiata ovvero quale è

l’efficienza energetica?

Come è noto, la sicurezza energetica è diversa per i diversi

“campi energetici”, gas, petrolio, energia elettrica, e via

dicendo.

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La sicurezza dei rifornimenti di gas

Quando si parla dei rifornimenti di gas, l’intera Regione di cui fa

parte la Serbia al momento è altamente dipendente dalle

consegne di gas dalla Russia. L’aumento di produzione di gas, il

quale presumibilmente è possibile realizzare nei paesi della

Regione, come soluzione per la diminuzione di questa

dipendenza non è un’opzione realistica. D’altronde, è possibile

in futuro diminuire la dipendenza della Regione dai rifornimenti

di gas dalla Russia a seguito della costruzione del rigasificatore

(terminal LNG), e a seguito della costruzione di nuovi gasdotti,

i quali trasporteranno il gas dall’Azerbaigian. Tuttavia, questo

scenario non è fattibile prima del 2016.

La Serbia che attualmente consuma circa 2,3 miliardi di m3 di

gas, provvede al 20% di questa quantità dai giacimenti

nazionali, mentre sopperisce al residuo 80% con l’importazione

dalla Russia. Da questo dato si deduce che provvedere ai

rifornimenti sicuri di questa fonte di energia è di importanza

strategica per la Serbia. Come esempio di quello che può

succedere ad un paese se non provvede tempestivamente alla

diversificazione dei rifornimenti, può essere indicato il caso del

2010 quando, a seguito del “contenzioso di gas” tra la Russia e

l’Ucraina, una buona parte dell’Europa fu esposta alla grande

carenza di gas. A questa crisi furono particolarmente esposti

paesi che non dispongono di stoccaggio di gas naturale in

sotterraneo, come fu, all’epoca il caso della Serbia. Oggigiorno,

la Serbia dispone dello stoccaggio di gas naturale in

sotterraneo Banatski dvor, di capacità di 450 milioni di m3, il

quale aumenta notevolmente la sicurezza energetica del paese.

Si pianifica la costruzione di un altro stoccaggio di gas naturale

in sotterraneo “Srpski Itebej”.

Una delle priorità della Serbia ai fini di un futuro sviluppo del

mercato di gas – e di conseguenza dei sicuri rifornimenti dello

stato con questa fonte di energia – è la costruzione del

gasdotto South Stream. A questo scopo, l’impresa pubblica

Srbijagas ha stipulato, nel 2010, l’accordo sulla costituzione di

un’impresa congiunta con la Gasprom russa. Con questo

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Accordo la Gasprom è diventata l’azionista maggioritario con il

51% di azioni, mentre la Srbijagas è proprietaria della parte

rimanente del 49%. Il compito della società congiunta è di

progettare, di costruire e di gestire il tratto del gasdotto South

Stream che si troverà sul territorio della Serbia. Ci si aspetta

che la costruzione del tratto del South Stream sul territorio

serbo potrebbe iniziare a fine anno corrente, e che la parte

russa potrebbe finanziare il progetto, valutato a 1,7 miliardi di

euro. Se questo modo di finanziare la costruzione viene

accordato, la Serbia risarcirebbe l’investimento al Gasprom al

momento dell’inizio del trasporto di gas, dalle tasse di trasporto

riscosse (transport duty).

Oltre alla costruzione di questa grande infrastruttura di gas,

per la Serbia è di estrema importanza anche l’interconnessione

con i gasdotti esistenti della Regione. In questo senso, il

collegamento a doppio senso con la Romania e con la Bulgaria

rappresenta la priorità e i progetti ai quali la Serbia è molto

interessata. Allo stesso modo, sono previste anche le possibilità

di interconnessione del braccio principale del South Stream con

la Bosnia ed Erzegovina e con la Croazia.

La sicurezza dei rifornimenti di petrolio

Riguardo ai rifornimenti di petrolio, la Regione a cui appartiene

la Serbia – come nel caso dei rifornimenti di gas – manifesta

una grande dipendenza dalle esportazioni. Attualmente la

Regione si rifornisce dall’oleodotto JANAF (dal quale si

riforniscono la Croazia, la Serbia, la Bosnia ed Erzegovina),

dall’oleodotto Salonicco-Skopje (i rifornimenti della Macedonia)

e dall’oleodotto Drzba (i rifornimento dell’Ungheria e una parte

della Croazia). La Romania e la Bulgaria si riforniscono tramite i

porti del Mar Nero. Un eventuale aumento della produzione di

petrolio grezzo dalle fonti nazionali non può avere alcun

impatto significativo sul cambio della posizione strategica dei

paesi della Regione. Il che significa che anche in futuro essi

dipenderanno dall’importazione di petrolio grezzo e che come

tali dovranno pianificare la loro politica energetica.

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Considerata questa situazione, le possibili direzioni ai fini della

diversificazione dei rifornimenti di petrolio con l’obiettivo

dell’aumento della sicurezza energetica, nonché

dell’abbassamento del prezzo del trasporto di petrolio grezzo

verso la Repubblica di Serbia sono i seguenti:

- lo sviluppo dei nuovi progetti di infrastruttura (Oleodotto

paneuropeo – PEOP – Costanza-Pancevo-Omisalj-Trieste);

- interconnessione dei bracci dell’oleodotto dalla Romania con

le raffinerie di Pancevo (Pancevo-Ploesti);

- l’ottimizzazione del totale dei costi di trasporto per i

rifornimenti dall’oleodotto Druzba.

Si parla da tanti anni della costruzione dei suddetti oleodotti. In

questo momento non esistono precise scadenze relative

all’inizio della costruzione di questi oleodotti. In ogni caso, non

è realistico aspettarsi che la loro realizzazione inizi nei prossimi

anni. Anzi, si pone, sempre più spesso, la domanda della

fattibilità della costruzione dell’Oleodotto Paneuropeo – PEOP,

ovvero dell’oleodotto che dovrebbe essere costruito sul tratto

lungo la linea Costanza-Pancevo-Omisalj-Trieste. Nel momento

in cui fu proposta la costruzione del PEOP e quando furono fatti

gli studi sulla sua costruzione (la prima metà del decennio

scorso), la situazione sul mercato di petrolio era

completamente diversa. Il consumo di petrolio grezzo in Europa

era molto maggiore, il prezzo di petrolio era più basso, e la

politica energetica dei paesi che dovevano essere la

destinazione finale era notevolmente diversa. Quanto all’altro

progetto, ovvero l’interconnessione delle raffinerie serbe

Pancevo e Novi Sad con l’oleodotto rumeno esistente, le

possibilità per la loro realizzazione sono un po’ migliori. A

conferma anche il fatto che il pacchetto maggioritario della NIS

(Naftna industrija Srbije – Industria Petrolifera della Serbia) è

stato venduto nel 2009 alla Gasneft russa, la quale attraverso

grandi investimenti nelle raffinerie e in tutta l’industria

petrolifera della Serbia dimostra una palese intenzione di

diventare il leader dell’industria petrolifera di questa parte

dell’Europa. Per la realizzazione di questi progetti di business

l’interconnessione dell’oleodotto con la Romania potrebbe

incidere parecchio, dato che in questa maniera si

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provvederebbe ai rifornimenti del mercato serbo di petrolio

grezzo in modo alternativo.

In questo per la Serbia è di estrema importanza anche la

realizzazione del Contratto sulla Comunità Energetica, il quale

prevede che i membri debbano implementare la Direttiva

119/2009/UE al più tardi entro il 1° gennaio 2023. Questa

Direttiva impone ai paesi membri di stabilire delle obbligatorie

riserve di petrolio e/o derivati del petrolio. Riguardo

all’implementazione della Direttiva, la Serbia ha intrapreso

delle misure verso il processo della stabilizzazione di un quadro

di leggi per la costituzione delle riserve obbligatorie, nonché

dello stoccaggio di attuali riserve di petrolio e di derivati del

petrolio, nelle attuali capacità di stoccaggio. Affinché si

adempia alla summenzionata Direttiva nei tempi preposti,

occorre fare dei significativi investimenti nelle capacità di

stoccaggio, nonché per i rifornimenti di petrolio e di derivati del

petrolio.

La sicurezza nel campo elettroenergetico

La Serbia ha adottato la legge sull’energia ad agosto 2011,

completamente adeguato alle Direttive 2003/54/UE,

2005/89/UE, 2005/89/UE.

Nel 2011 la Serbia (senza il Kosovo e Metohija) ha speso 35

000 GWh, ha importato 1792 GWh e ha esportato 2033GWh. In

questo modo è stato realizzato il saldo positivo di 241GWh,

mentre il saldo della Regione, per lo stesso anno, è stato

negativo (-5860 GWh).

La EPS (Elektro privreda Srbije – Impresa di energia elettrica

della Serbia), nelle sue proiezioni (tabella 1), ha fatto le

previsioni del consumo lordo, per il periodo entro il 2017, per il

territorio di consumo della Repubblica di Serbia. Queste

proiezioni prevedono che nei prossimi anni sarà necessaria

l’importazione di energia elettrica in Serbia, visto che l’EPS non

potrà, con le capacità attuali, a sopperire al consumo del paese.

La carenza di energia si riferisce al periodo invernale, mentre

un eventuale surplus nel periodo estivo si potrebbe esportare

conformemente alla situazione sul mercato regionale.

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Tabella 1. La proiezione del consumo lordo della Repubblica di Serbia entro il

2017

2014 2015 2016 2017

ТWh

Consumo/Consumo

lordo 34.2 34.7 35.1 35.3

Possibile

importazione/acquisto 1.5 1.5 1.9 1.9

Come già accennato, la situazione sul mercato

elettroenergetico della Serbia è inscindibile dalla situazione

della Regione. La Regione attualmente non dispone di

sufficiente energia elettrica, e il deficit energetico diminuisce

solamente negli anni con l’idrologia favorevole, come avvenne

nel 2009. La situazione è particolarmente critica d’inverno.

Mediamente, nella Regione, negli ultimi 7 anni, sono mancati

da 1,5 a 10 TWx all’anno. Il che significa che la sicurezza

energetica della Regione, e dunque anche della Serbia, può

essere sempre minacciata dalle condizioni meteo (l’esempio del

febbraio del 2012). Negli anni in cui la Regione non gode delle

condizioni meteo positive, ovvero quando ci sono poche piogge,

l’unica difesa del sistema energetico sono le riduzioni

dell’energia elettrica. La situazione totale energetica in questa

parte dell’Europa è tanto più negativa se si includono la Grecia,

l’Italia e la Moldavia, paesi che tradizionalmente tendono verso

il mercato della Regione dove fanno lo scambio di energia.

Dal punto di vista della Serbia, la soluzione del problema del

deficit di energia elettrica può essere analizzato a breve e a

lungo termine. A breve termine (4-5 anni in anticipo) la

soluzione è l’aumento delle capacità di trasmissione affinché la

Regione possa importare maggiori quantità (direzione nord e

direzione ovest). A lungo termine (5-10 anni a partire da oggi),

solamente la costruzione delle nuove capacità di costruzione

nella Regione provvede alla sicurezza energetica della Regione

come entità. In pratica, in questo momento, la Regione

scarseggia di almeno 1000 MW di capacità produttive.

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Quanto ai nuovi progetti elettroenergetici, per la Serbia sono di

rilevanza strategica l’aumento delle capacità della centrale di

gas TE-TO Novi Sad di 230MW, nonché la costruzione delle

centrali reversibili Bistrica di 720MW e Derdap 3 di 2400MW.

Tutte queste centrali potrebbero essere attive entro il 2020, nel

caso che si trovino i mezzi per finanziare tali progetti.

Per quanto riguarda le interconnessioni a lungo raggio, la

situazione della Serbia è positiva, il che non è del tutto caso

della Regione. Per la Serbia anche la costruzione

dell’interconnessione Serbia – Montenegro – Italia – che

dovrebbe essere costruita dalla TERNA - è di particolare rilievo.

Lo stato di fatto sugli altri aspetti della sicurezza energetica e le conclusioni

Da quanto esposto sopra si può dedurre che la situazione

attuale riguardo alla sicurezza energetica della Regione e della

Serbia non è al livello invidiabile. Oltre all’analisi della sicurezza

di gas, petrolio ed elettroenergetica, esistono anche altri

aspetti che condizionano la sicurezza energetica della Serbia.

Uno degli aspetti è anche il commercio di energia. Esso si

svolge tramite i venditori, e la borsa di energia elettrica, di gas

e di petrolio non è sviluppata, e pertanto non esistono

nemmeno dei contratti flessibili sui rifornimenti. La Regione

dipende da un unico fornitore di gas il quali offre – è vero – dei

contratti a lungo termine sui rifornimenti di gas, ma i quali non

sono – forse con eccezione nel caso della Serbia –

particolarmente flessibili. Infatti, si basano sulla formula

petrolifera e sul principio “pieno per vuoto”. Considerato questo

fatto, forse i paesi della Regione dovrebbero prendere in

considerazione un approccio congiunto all’atto dell’acquisto di

gas alfine di ottenere l’abbassamento del prezzo.

Dal punto di vista dei rifornimenti di petrolio grezzo e di

derivati del petrolio, alcuni effetti si potrebbero ottenere

acquistando le concessioni petrolifere, e la Serbia potrebbe

aspettarsi un particolare beneficio dalla costruzione

dell’oleodotto da Ploestij fino a Pancevo. Alcuni minori effetti si

potrebbero ottenere anche con l’aumento della produzione

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nazionale. Occorre prestare una particolare attenzione alla

possibilità di concludere dei contratti flessibili a lungo termine

sui rifornimenti di petrolio, il che non avviene al momento.

D’altra parte, la possibilità di rifornimenti dei derivati del

petrolio nel caso della crisi è soddisfacente e attualmente non

rappresenta un pericolo a scapito del sistema energetico dei

paesi, nonostante le scorte delle riserve obbligatorie non sono

sufficienti. Esiste un numero consistente di raffinerie e il

surplus delle capacità nella Regione e nei dintorni, il che

permette una certa flessibilità.

Tuttavia, la chiave della sicurezza energetica della Serbia e

dell’intera Regione sta nelle capacità produttive di energia

elettrica. Esistono potenzialità affinché la Serbia e l’intera

Regione producano una quantità sufficiente di energia che

adempia al proprio fabbisogno. I progetti esistono ma

generalmente mancano i mezzi finanziari per la loro

realizzazione. In questo campo gli effetti maggiori si

potrebbero realizzare con la costruzione delle centrali elettriche

reversibili e un po’ di meno con la costruzione di centrali a gas

per gli interventi in casi di eccessivo carico e delle condizioni

idrologiche negative. Il paese che investirà per primo e che

costruirà le centrali elettriche mancanti della potenza di 1000

MW e che investirà nelle centrali idroelettriche reversibili, potrà

ottenere un vantaggio strategico rispetto agli altri paesi della

Regione. Chi per primo completa la carenza del mercato

sfrutterà i benefici della legge dell’offerta e della richiesta. Al

contempo, l’interconnessione della Regione deve essere

rafforzata tramite le costruzioni aggiuntive delle condotte di

interconnessione.

Un argomento collegato alla sicurezza energetica è l’efficienza

energetica la quale, in Serbia e nella Regione, globalmente

parlando, è di livello più basso in Europa. Proprio questo

segmento rappresenta un grande potenziale, visto che è

sempre più economico risparmiare che produrre energia.

Bisogna sottolineare che gli investimenti nella produzione di

energia di fonti alternative e rinnovabili di energia, in Serbia e

nella Regione, attualmente solamente agli inizi, in futuro

aumenteranno la sicurezza energetica della Regione.

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Infine, bisogna sottolineare che la visione della Serbia è che il

suo settore energetico sfrutti una posizione geografica

favorevole del Paese e che in questo modo diventi un vero

traino dello sviluppo del Paese. Il Ministero dell’Energia, dello

Sviluppo e della Tutela dell’Ambiente ha avallato la Bozza della

Strategia di sviluppo energetico della Serbia entro il 2025, con

le proiezioni entro il 2030. Secondo questa strategia, è previsto

che la Serbia, entro il 2020, produca dalle fonti rinnovabili

all’incirca il 27% di energia totale, e che aumenti la sua

efficienza energetica del 9%, e inoltre si pianifica il

proseguimento della liberalizzazione del mercato di elettricità e

di gas. Ormai si stanno intraprendendo le misure per

aumentare la sicurezza energetica ed ecologica. Nei prossimi

anni saranno costruite nuove centrali idroelettriche,

termoelettriche, impianti per le fonti rinnovabili di energia e si

presterà particolare attenzione all’aumento dell’efficienza

energetica.

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La sicurezza energetica nel XXI secolo: prospettive dall’Italia e dal Mondo

Informazioni della Difesa Supplemento al n. 6/2013

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Nuovi Scenari Energetici: un’occasione per l’Europa Carlos Pascual – Inviato Speciale per Energia USA

Viviamo un'epoca di profondi cambiamenti nel settore

dell'energia. Il concetto di domanda e offerta che molti di noi

avevano in mente - i Paesi dell'area OPEC producono il petrolio

che i Paesi sviluppati consumano - è ormai superata. Le

innovazioni tecnologiche hanno permesso agli Stati Uniti di

diversificare il proprio bacino di fonti di energia, una

combinazione di iniziative green e significativi aumenti nella

produzione di petrolio e gas naturale ha dato un grande

contributo al rafforzamento della nostra sicurezza energetica

nazionale. Tuttavia la nostra sicurezza energetica è legata a

quella globale, e in particolare a quella europea. Sosteniamo

l'impegno dell'Europa per la diversificazione geografica delle

sue fonti energetiche, per l'incremento di produzione sia di

rinnovabili che di idrocarburi, per la modernizzazione dei suoi

programmi nucleari e per la sua accresciuta efficienza

energetica, il tutto mentre ricerca una maggiore integrazione

del mercato europeo dell'energia.

La tecnologia, l'imprenditoria, una buona regolamentazione e i

prezzi per l’acquisizione delle materie prime hanno

radicalmente ridotto la dipendenza degli Stati Uniti

dall'importazione di petrolio, e modificato la geografia

dell'energia. Questo cambio fondamentale accresce la stabilità

geopolitica (o sicurezza nazionale), favorisce la crescita

economica a livello globale e, se gestito correttamente, può

avere un impatto positivo sui cambiamenti climatici. L'Italia ha

riconosciuto questo cambiamento quando ha stabilito come

prioritario diversificare i paesi, le rotte e i flussi di

approvvigionamento, nonché a diversificare la combinazione

stessa delle fonti energetiche (fossile, rinnovabile), con

l'obiettivo di rafforzare il suo ruolo di "energy hub" che metta

in collegamento Africa, Europa centrale ed orientale e Asia.

L'Italia ha accettato la sfida dell'Unione Europea di ridurre le

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emissioni del 20% rispetto ai livelli del 1990, aumentando del

20% il risparmio energetico ed incrementando fino al 20% il

consumo di energia rinnovabile (l’Italia ha raggiunto il 17%)

entro il 2020. Infine, il governo italiano ha recepito il Terzo

Pacchetto Energetico UE, che ha introdotto modifiche alle leggi

del mercato interno volte ad ottimizzare la funzione e

rafforzare l'integrazione di energia elettrica e gas. Sia l'Italia

che gli Stati Uniti comprendono che il concetto stesso di

sicurezza energetica è cambiato notevolmente.

Partiamo da alcuni dati. La United States Energy Information

Agency (l'Agenzia statunitense per l'energia) ha calcolato che

presto la Cina prenderà il posto degli Stati Uniti diventando il

primo importatore di petrolio al mondo. L'Agenzia

internazionale dell'energia stima che gli USA potrebbero

diventare il più grande produttore di petrolio, superando

l'Arabia Saudita, entro la fine del decennio. La produzione

statunitense di petrolio è aumentata del 35% negli ultimi

cinque anni. Solo nell'ultimo anno è aumentata di oltre un

milione di barili al giorno. Se a questo aggiungiamo le misure

adottate per incrementare l'efficienza energetica e ridurre il

consumo, oggi gli Stati Uniti dipendono dalle importazioni per

un valore inferiore 40% della produzione petrolifera interna.

Questa cifra si attestava al 60% nel 2005. Quanto al gas

naturale, abbiamo aumentato la produzione del 25% negli

ultimi cinque anni. È il risultato della shale revolution, che ha

dimostrato che trasformare radicalmente la produzione di gas e

petrolio è possibile. Grazie a questa trasformazione, gli esperti

anziché soffermarsi sulle importazioni di gas naturale per far

fronte ai bisogni energetici americani, adesso riferiscono che

disponiamo di forniture di gas sufficienti per i prossimi 250 anni.

Già adesso i Paesi non-OCSE consumano più energia di quelli

OCSE. Questa tendenza avrà un’accelerazione man mano che i

Paesi industrializzati aumenteranno la loro efficienza energetica

ed incrementeranno l'uso di energie rinnovabili, mentre i Paesi

in via di sviluppo accresceranno l'uso di energia parallelamente

alla crescita delle loro economie e ai miglioramenti nella qualità

della vita. Il Dipartimento di Stato ha creato un Energy

Resources Bureau nel 2011 per analizzare l'impatto dei flussi

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Informazioni della Difesa Supplemento al n. 6/2013

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energetici sulla geopolitica e per sviluppare delle strategie volte

ad assicurarne l'accesso agli Stati Uniti ed ai nostri alleati in

tutto il mondo. Ma quali sono le conseguenze geopolitiche di

questi cambiamenti recenti, ma storicamente significativi, nel

panorama energetico?

Innanzi tutto, la maggiore autosufficienza energetica non

cambia l'impegno degli Stati Uniti per la sicurezza globale, per

la pace e la stabilità nel Medio Oriente, e la sicurezza delle

nostre rotte di transito internazionali. C’è chi salta alla

conclusione che autosufficienza energetica significa che gli Stati

Uniti si disinteresseranno delle questioni energetiche globali.

C’è anche chi ha chiesto espressamente "Gli Stati Uniti si

tireranno fuori dalla questione della sicurezza energetica

globale?" La risposta è "No". È nel nostro interesse continuare

a partecipare alle discussioni e agli sforzi per promuovere la

sicurezza energetica globale. Il petrolio è una materia prima

globale. Qualsiasi interruzione delle forniture ne farebbe

aumentare i prezzi a livello globale e il prezzo che paghiamo

per l'energia (nel nostro Paese). Eventuali disfunzioni

danneggerebbero le economie e il benessere di tutti i Paesi,

con un impatto diretto anche sul benessere degli americani. Gli

Stati Uniti hanno dimostrato chiaramente il loro impegno

quando si sono uniti all'Italia e agli altri alleati NATO nel

sostenere una transizione democratica in Libia. Oggi lavoriamo

in stretta collaborazione con l'Italia, e non solo, per portare

stabilità in Libia, migliorare le condizioni di vita e incoraggiare

un rapido ritorno alla piena produzione del settore petrolifero e

del gas. Nel corso dei prossimi 25-30 anni la più grande

domanda di energia in tutto il mondo arriverà dalle economie

emergenti. Brasile, Cina, India, Sud Africa ed altri Paesi

saranno i motori chiave della domanda e sono anche tra i nostri

principali partner commerciali: sono Paesi che dettano il ritmo

dello sviluppo a livello regionale. Non possiamo non interessarci

di come questi Paesi supervisionano i loro settori energetici,

perché farlo in maniera trasparente e con stabilità contribuisce

alla stabilità non solo dei mercati del petrolio ma anche di Paesi

ed intere regioni. Dobbiamo cambiare il nostro di modo di

pensare la sicurezza energetica e il suo rapporto con la politica

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La sicurezza energetica nel XXI secolo: prospettive dall’Italia e dal Mondo

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estera e la sicurezza nazionale, dobbiamo riconoscere che ciò

che accade nei mercati energetici in ogni parte del mondo ha

delle conseguenze dirette su di noi.

Abbiamo visto le conseguenze geopolitiche dei cambiamenti

nell'energia globale con l’imposizione di sanzioni al regime

iraniano. Nel corso dell'ultimo anno queste sanzioni hanno

prodotto una riduzione delle esportazioni iraniane pari a 1

milione di barili, portandole a 1,5 milioni di barili al giorno, con

un impatto di 3-4 miliardi di dollari al mese. Anche l'Italia ha

contribuito nell'attuazione di queste sanzioni, e l'ha fatto ad un

costo relativamente alto per i suoi stessi interessi commerciali.

Allo stesso tempo, abbiamo visto interruzioni di forniture per

altri 900 mila barili al giorno. Una delle principali ragioni è la

disponibilità di forniture alternative. Ma più di tutto, gli Stati

Uniti hanno incrementato la produzione di petrolio di quasi un

milione di barili al giorno. Questo aumento della fornitura è

stato fondamentale per bilanciare domanda e offerta nei

mercati globali.

Abbiamo detto con chiarezza all'Iran che abbiamo la politica del

doppio binario, negoziati e pressione. Il nostro obiettivo è che

l'Iran sia trasparente sul suo programma nucleare. Siamo

impegnati per il dialogo, ma allo stesso tempo per esercitare

pressione se il dialogo non avviene.

Come abbiamo discusso le sanzioni con i Paesi che importavano

petrolio dall'Iran? Abbiamo avviato una discussione sui mercati

globali, non abbiamo detto loro cosa fare. Piuttosto abbiamo

esaminato le possibilità di mercato. Abbiamo parlato dei

benefici derivanti dalla diversificazione dell'approvvigionamento,

e a seguito della discussione ogni Paese ha preso la sua

decisione riguardo i passi successivi da intraprendere.

Diversificare le forniture aiuterebbe anche l'Italia ad abbassare

i suoi costi energetici, che attualmente sono tra i più alti in

Europa. Questo accrescerebbe la competitività economica del

Paese in Europa e nel mondo.

Perseguire un obiettivo fondamentale di sicurezza nazionale -

ovvero prevenire un Iran dotato di armi nucleari - ha richiesto

discussioni dettagliate sugli equilibri energetici globali. Nel

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mondo in cui viviamo oggi, le questioni di sicurezza e quelle di

politica energetica sono diventate strettamente interconnesse.

Abbiamo inoltre visto profondi cambiamenti nel mercato globali

del gas naturale. Diversi Paesi in tutto il mondo guardano alla

rivoluzione in atto negli USA, per via dello sviluppo dello shale

gas ed altri gas non convenzionali, e stanno valutando se

ripetere l’esperienza nel proprio territorio. I mercati regionali

stanno prendendo forma man mano che il commercio di gas

naturale liquefatto cresce e diventa un'alternativa ai gasdotti

point–to–point. Il prezzo del gas naturale comincia a dipendere

da fattori diversi dal solo prezzo del greggio. Con il

consolidamento di queste tendenze, i cambiamenti nei mercati

globali del gas avranno un impatto fondamentale sulla

geopolitica e sulla sicurezza internazionale.

Alcune delle prime conseguenze geopolitiche dell’espansione

del gas negli Stati Uniti sono già emerse in Europa. Non

importiamo più grandi quantità di GNL da Paesi come il Qatar e

Trinidad e Tobago, come avevamo previsto. Tali quantità sono

state invece reindirizzate verso altri mercati, Europa compresa.

Le importazioni europee di GNL sono triplicate nell'ultimo

decennio. Triplicate. Se sommiamo l'accresciuto commercio di

GNL con le misure anti-monopolio che l'Italia e la UE hanno

implementato per assicurare l'accesso da parte di terzi e per

richiedere che i gasdotti possano muoversi da ovest ad est e da

nord a sud, quello che emerge è un mercato competitivo. Ciò

ha permesso alle utenze dell'Europa occidentale di rinegoziare i

loro contratti di fornitura con Gazprom per ridurre i prezzi e

migliorare le condizioni fiscali. Tale sviluppo ha avuto un

impatto cruciale sull'area: oggi l'Europa ha una sicurezza

energetica maggiore di quanto non lo fosse dieci anni fa.

Il deciso sostegno dell'Italia verso la Trans-Adriatic Pipeline

(TAP) è un esempio concreto del suo passaggio dalla

dipendenza da un singolo fornitore a una gamma di fonti più

diversificata e sicura. Come ha sottolineato recentemente il

Sottosegretario agli Esteri Marta Dassù, il TAP è un progetto

importante per rafforzare la sicurezza energetica dell'Italia, così

come dell'Europa, e che potrebbe contribuire alla

diversificazione delle forniture di energia per l'Europa sud-

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orientale e per i Balcani. Predisponendo un canale per il

trasporto del gas dal giacimento di Shah Deniz in Azerbaijan al

sud Italia, e poi all'Europa, il TAP fornisce un accesso diretto al

mercato UE per il gas azero e concorrenza diretta ai fornitori

già esistenti.

L'immediato futuro porterà dei cambiamenti ancora più

profondi nei mercati globali del gas. L'aumento dell'offerta non

verrà solo dagli USA: la produzione off-shore di gas di Israele

aumenterà rapidamente, invertendo la storica dipendenza di

Israele da combustibile d'importazione. Nuovi e grandi

giacimenti verranno messi in funzione in Australia nel 2014-

2015. Le più grandi scoperte di gas naturale dell'ultimo anno

sono state in Mozambico (una scoperta dell'italiana ENI e della

compagnia americana Andarko) e in Tanzania. La Norvegia ha

scoperto il suo più grande giacimento di gas naturale dal 1942

e la Russia ha annunciato l’intenzione di produrre mille miliardi

di metri cubi di gas entro il 2030.

Oltre all'aumento della produzione di gas naturale, stiamo

assistendo anche ad un incremento nel commercio di GNL. I

mercati mondiali del gas stanno crescendo del 3% l'anno,

mentre il mercato del GNL cresce tre volte più velocemente,

accrescendo le potenzialità del commercio globale di gas

naturale e riducendo l'importanza dei mercati monopolistici

point-to-point rappresentati dai gasdotti. Il commercio

internazionale del gas sta letteralmente diventando più fluido.

In che modo possiamo mettere insieme la rapida crescita della

domanda da parte delle economie asiatiche emergenti con

l'altrettanto rapida crescita dell'offerta di gas naturale? In base

all'esperienza europea notiamo l'importanza di investire nel

hardware e nel software del commercio internazionale. Servono

investimenti nelle infrastrutture, compresi i terminali di GNL e

gasdotti interconnessi; ma serve anche uno sviluppo di quello

che io chiamo il "software" del commercio, ovvero un clima

economico che incoraggi gli investimenti, forti misure anti-

monopolio e requisiti di accesso per Paesi terzi in grado di

promuovere la concorrenza.

Con le giuste strategie, possiamo cambiare il modo in cui il gas

sarà utilizzato in futuro. Possiamo aumentare la stabilità e

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l'incidenza dei mercati del gas facendo sì che tali mercati siano

soggetti ad una concorrenza equa e trasparente, cosa che non

abbiamo visto spesso in passato. Quando i mercati funzionano

bene, senza forzature, monopoli e senza sussidi, l'offerta

incontra la domanda e le risorse energetiche mondiali

raggiungono la loro destinazione più funzionale. Inoltre, se le

economie asiatiche in crescita avvieranno la transizione dal

carbone e dal costoso petrolio d'importazione al gas naturale -

con una combustione più "pulita" ed emissioni di gas serra

inferiori - ci saranno enormi benefici economici ed ambientali.

Negli Stati Uniti l'abbondanza di shale gas ha fatto sì che molti

generatori di energia passassero dal carbone al gas,

contribuendo a ridurre le emissioni di diossido di carbonio ai

livelli più bassi degli ultimi quindici anni. Lavorando allo

sviluppo delle nostre risorse di shale gas, negli Stati Uniti

abbiamo compreso l'importanza di discutere apertamente

l’impatto ambientale dello sviluppo, compresa la qualità

dell'aria e dell'acqua, gli impatti sismici e le emissioni di

metano. Questa consapevolezza ha messo gli Stati Uniti in una

posizione che non vale solo per l’oggi ma anche per il futuro.

Stiamo attraversando una congiuntura davvero unica, che

definisco "once in a generation opportunità". Grazie al rapido

sviluppo delle risorse di idrocarburi negli USA, abbiamo

l'opportunità di sostenere lo sviluppo economico, incoraggiare

una maggiore concorrenza nel mercato globale e rafforzare la

stabilità politica sia nei Paesi produttori che nei Paesi

consumatori, affrontando allo stesso tempo le questioni

ambientali e andando verso combustibili più puliti. Se riusciamo

a cogliere questa opportunità, saremo in grado di far crescere

le nostre economie e ad avere un impatto positivo sul pianeta.

Anche l'Europa ha la stessa opportunità, se continua a lavorare

per costruire un mercato unico dell'energia. L'Italia è in una

posizione ottima per diventare un attore fondamentale nello

scenario energetico europeo se continuerà a diversificare le

importazioni e a completare i progetti necessari, come i nuovi

impianti di GNL e i nuovi gasdotti, che farebbero dell'Italia un

gas hub fondamentale per l'Europa.

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Unione Europea e “shale gas revolution”: implicazioni sulla condizione di sicurezza energetica

Fabio Indeo – Ricercatore Ce.Mi.S.S.

La finalità che questo articolo si propone è quella di analizzare

le implicazioni sulla condizione di sicurezza energetica europea

derivanti da un successo della “shale gas revolution”, ovvero di

un massiccio incremento della produzione globale di gas “non

convenzionale” da scisti bituminosi. Infatti, un aumento della

disponibilità di gas naturale sul mercato e una potenziale

produzione europea di gas di scisto permetterebbero alla UE di

ridurre la propria condizione di vulnerabilità in materia di

sicurezza energetica.

Tuttavia, una serie di fattori endogeni appare destinata a

rallentare lo sviluppo di una produzione europea di gas di

scisto, attenuando di fatto gli effetti positivi per la sicurezza

energetica della UE. Inoltre, l'elevata domanda europea di gas

manterrà sostanzialmente inalterata la dipendenza dalle

importazioni, che continuerà a rappresentare una delle

principali distorsioni della politica energetica europea.

La cosiddetta “shale gas revolution” – ovvero il previsto

incremento della produzione di gas naturale nei prossimi

decenni, trainata in larga misura dall'estrazione e dalla

produzione di gas di scisto – viene identificata come una sorta

di "game changer" all'interno dello scenario energetico globale,

in grado di influenzare e rovesciare il tradizionale equilibrio tra

paesi produttori e consumatori: infatti, lo sfruttamento di

queste riserve di gas definito “non convenzionale” potrebbe

permettere ad alcune nazioni di mitigare la propria condizione

di dipendenza energetica – riducendo le importazioni – o

addirittura di raggiungere una condizione di indipendenza

energetica o di diventare esportatori di idrocarburi. Uno

scenario di questo tipo implicherebbe una graduale

marginalizzazione geopolitica-energetica di alcune nazioni

produttrici di gas naturale convenzionale - in primis la Russia -

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che vedrebbero scalfito il loro tradizionale ruolo di supplier

energetici.

L'Unione Europea si caratterizza per un elevata domanda di gas

ed una marcata dipendenza dalle importazioni: ne consegue

che un aumento della disponibilità di gas naturale sul mercato

e una potenziale produzione endogena di gas di scisto le

permetterebbero di ridurre la propria condizione di vulnerabilità

in materia di sicurezza energetica, sulla quale influiscono una

serie di variabili. Partendo dal concetto di sicurezza energetica

– garantirsi un approvvigionamento di energia stabile,

abbondante e relativamente a buon mercato – si evince come

la combinazione tra la forte dipendenza europea dalle

importazioni di gas (67% del fabbisogno), il ristretto novero dei

paesi fornitori – Russia, Norvegia ed Algeria coprono da sole

oltre i 2/3 delle importazioni – il progressivo esaurimento delle

riserve endogene (la UE dispone di soli 2,3 trilioni di metri cubi,

tcm, di riserve di gas) delinei una condizione di pericolosa

vulnerabilità 9 . Infatti, in assenza di un efficace strategia di

diversificazione geografica delle rotte di approvvigionamento e

dei fornitori, una improvvisa interruzione delle forniture è

destinata a pesare negativamente sulla sicurezza energetica

europea, creando uno squilibrio tra domanda ed offerta.

Le cosiddette “guerre del gas” tra Russia ed Ucraina nel 2006 e

2009 e tra Russia e Bielorussia nel 2007 costituiscono un

efficace esempio, considerato che la Russia è il principale

fornitore di gas per la UE (30% delle importazioni

“comunitarie”). Recentemente, la condizione di instabilità ed

insicurezza connessa agli eventi della “primavera araba” ha

evidenziato la minaccia di una potenziale interruzione delle

forniture provenienti dal Nord Africa (soprattutto dall'Algeria,

terzo supplier europeo, e da Egitto e Libia, rilevanti partner

energetici per l'Europa meridionale) o transitanti dallo stretto di

Suez, chokepoint energetico attraversato dalle importazioni di

gas naturale liquido (gnl) provenienti dal Qatar, maggiore

esportatore al mondo di gnl e quarto supplier europeo.

9 European Commission, "EU energy in figures", Statistical Pocketbook 2013, pp- 22-24, http://ec.europa.eu/energy/publications/doc/2013_pocketbook.pdf.

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Le previsioni sulla crescita della domanda europea di gas

sembrano destinate ad accentuare questa condizione di

vulnerabilità e di dipendenza dalle importazioni. Secondo

l'International Energy Agency nel 2035 la domanda UE di gas

raggiungerà di 644 miliardi di metri cubi (mmc) l'anno: con una

produzione domestica di circa 100 mmc (escludendo una

produzione europea di shale gas) le importazioni si dovrebbero

attestare sui 540 mmc 10 , aggravando la dipendenza dai

fornitori tradizionali, in modo particolare dalla Russia che -

attraverso i gasdotti Nord e South Stream - si accinge

potenzialmente a raddoppiare i volumi di gas importati nel

vecchio continente.

Sulla base di questi dati, è evidente che un incremento della

produzione del gas di scisto assume una rilevanza strategica

per la condizione di sicurezza energetica della UE, in quanto

capace di ampliare l'offerta di gas sul mercato e la rosa dei

potenziali fornitori: sul fronte interno inoltre, lo sviluppo di una

potenziale produzione europea di gas di scisto le consentirebbe

di ridurre la quota delle importazioni e la dipendenza dalle

forniture estere.

A seguito del successo della “shale gas revolution”, gli Stati

Uniti hanno mutato il proprio status energetico diventando i

maggiori produttori mondiali di gas (dopo esser stati i maggiori

importatori di gnl), decuplicando negli ultimi 10 anni la

produzione di gas di scisto11: la prospettiva che entro il 2016

gli Stati Uniti diventino esportatori di gas potrebbe giovare alla

UE, in quanto potenziale mercato delle future esportazioni

statunitensi e dei volumi di gas precedentemente importati

dagli stessi Stati Uniti (Trinidad e Tobago, Qatar), attuando

proficuamente la strategia di diversificazione geografica degli

approvvigionamenti. Per rendere concretamente realizzabile

questa prospettiva, l'Unione Europea deve necessariamente

10 International Energy Agency, "Golden Rules for a Golden Age of Gas", World Energy Outlook 2012, IEA 2012, pp. 78, 81,

http://www.worldenergyoutlook.org/media/weowebsite/2012/goldenrules/weo2012_goldenrulesreport.pdf. 11 U.S. Energy Information Administration, "How much shale gas is produced in the United States?", EIA, 7 Maggio 2013 (last revised), http://www.eia.gov/tools/faqs/faq.cfm?id=907&t=8.

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raddoppiare la capacità delle proprie infrastrutture di

rigassificazione, raggiungendo i 300 mmc entro il 202012.

Si verrebbe così a delineare un interessante scenario di

cooperazione energetica in ambito NATO, che rafforzerebbe i

legami tra le due sponde dell'Atlantico con l'impegno diretto

degli Stati Uniti nel perseguimento della sicurezza energetica

europea, divenuto da tempo un obiettivo strategico della

politica estera europea e dei singoli stati membri. Questa

auspicabile integrazione energetica all'interno dell'Alleanza

Atlantica – che consentirebbe la riduzione delle importazioni

provenienti da paesi non NATO – verrebbe altresì consolidata

attraverso la condivisione delle tecnologie avanzate e

dell'esperienza maturata dalle compagnie energetiche

statunitensi, in modo da sfruttare razionalmente le riserve

europee di shale gas, avviandone la produzione e la

commercializzazione.

La UE possiede il 10% delle riserve mondiali di gas di scisto

“tecnicamente recuperabili”, pari a 25 tcm13,che contribuiscono

a supportare le ambizioni europee volte a rafforzare la propria

condizione di sicurezza energetica attraverso una produzione

endogena di shale gas. Nonostante la UE sia destinata a

mantenere nei prossimi decenni il suo status di importatore di

gas – a causa di una domanda crescente – la produzione

europea di shale gas risulterà utile per compensare la drastica

riduzione della produzione di gas convenzionale, cercando

altresì di ridurre la dipendenza dalle importazioni russe,

nordafricane e mediorientali14. Secondo l'International Energy

Agency, nel 2035 la produzione europea di gas si attesterà sui

12 J. Teusch, “Shale Gas and the E.U. Internal Gas Market: beyond the hype and hysteria”, CEPS Working Document, No. 369, Settembre 2012, p.6,

http://www.ceps.eu/book/shale-gas-and-eu-internal-gas-market-beyond-hype-and-hysteria. 13 Energy Information Administration, "Technically Recoverable Shale Oil and Shale Gas Resources: An Assessment of 137 Shale Formations in 41 Countries Outside the United States". EIA. Giugno 2013, p. 27,

http://www.eia.gov/analysis/studies/worldshalegas/pdf/fullreport.pdf?zscb=87853472. 14 M. Kuhn, F. Umbach, "Strategic Perspectives Of Unconventional Gas: A Game Changer With Implications For The EU's Energy Security", EUCERS STRATEGY PAPER, Vol.1, No.1, Maggio 2011, p.8.

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165 mmc (rispetto ai 201 mmc del 2010), e sarà composta al

47% da gas non convenzionale: in questo modo, le

importazioni annue sarebbero attorno ai 479 mmc, inferiori

rispetto ai 540 mmc dello scenario che non prevede una

produzione endogena di gas di scisto15.

La UE inoltre considera il gas non convenzionale come una

fonte energetica pulita e sicura, che può supportare la

transizione verso un economia e un mix energetico (per la

produzione di elettricità) fondati su un ridotto impiego del

carbone e sull'abbattimento delle emissioni inquinanti. Secondo

la Commissione Europea deve essere tenuto in considerazione

l'impatto economico e strategico relativo allo sviluppo di una

produzione endogena di gas non convenzionale - o comunque

geograficamente accessibile ai mercati del vecchio continente -,

considerata la forte dipendenza da un ristretto novero di

nazioni importatrici, i costi elevati e i rischi (geopolitici e di

sicurezza) connessi al trasporto marittimo e terrestre dei

volumi di gas16.

Tuttavia, esistono diversi ostacoli che si frappongono al pieno

sviluppo dello shale gas europeo e che mettono in dubbio la

possibilità di replicare il modello statunitense: la densità di

popolazione (le attività di esplorazione e di produzione del gas

di scisto necessitano di vasti territori possibilmente non

abitati), la scarsità di investimenti e tecnologie non all'altezza,

le difformità legislative rispetto agli Stati Uniti e soprattutto

problematiche ambientali connesse all’inquinamento delle falde

idriche (legate alle attività di fracking o fratturazione idraulica,

principale tecnica estrattiva dello shale gas) e il rischio

terremoti, che alimentano l’opposizione popolare e di

movimenti ambientalisti contro questa opzione energetica17.

15 International Energy Agency, 2012, op.cit., pp.78,81. 16 European Commission, "Unconventional Gas: Potential Energy Market Impacts in the European Union", Report By The Energy Security Unit Of The European Commission’s Joint Research Centre, 2012, pp.5-6,

http://ec.europa.eu/dgs/jrc/downloads/jrc_report_2012_09_unconventional_gas.pdf. 17 R. Komduur, "Europe not ready for unconventional gas, yet", European Energy Review, 21 Giugno 2010, http://www.europeanenergyreview.eu/site/pagina.php?id=2095.

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La sicurezza energetica nel XXI secolo: prospettive dall’Italia e dal Mondo

Informazioni della Difesa Supplemento al n. 6/2013

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Inoltre, si rileva come sulla questione dello sviluppo di una

produzione di shale gas sia emersa all'interno della UE una

frattura ideologica che contrappone la “vecchia Europa”

(Francia, Germania) alla “nuova Europa” (nazioni dell'Europa

centrale e sud orientale), fondata su percezioni differenti

rispetto alla finalità di preservare la propria condizione di

sicurezza energetica. Infatti nazioni come Bulgaria, Polonia e

Romania premono per promuovere lo sviluppo dello shale gas

in Europa, in quanto fortemente dipendenti dalle importazioni

di gas russo18. Al contrario, la Francia - pur avendo le seconde

maggiori riserve di gas di scisto in Europa - è stata la prima

nazione del vecchio continente a proibire nel giugno 2011 le

attività di fracking, fortemente osteggiate dall'opinione pubblica

nazionale. Per quanto concerne la Germania, negli ultimi due

anni il governo tedesco ha modificato la propria posizione sul

gas di scisto passando da un divieto delle attività di fracking ad

una sostanziale apertura, soggetta però a stringenti clausole

ambientali. Nel caso tedesco, lo sfruttamento delle riserve di

gas di scisto influirebbe notevolmente sulla condizione di

sicurezza energetica, determinando una riduzione della forte

dipendenza dalle importazioni russe, che rappresentano il 40%

del totale19.

La Polonia è la nazione europea che maggiormente sostiene e

promuove lo sviluppo dello shale gas: infatti, lo sfruttamento

delle proprie riserve - le più grandi in Europa – intaccherebbe

notevolmente l'influenza economica e geopolitica di Mosca, da

cui dipendono il 70% delle importazioni polacche di gas 20 .

Questa considerazione strategica è alla base della decisione del

governo bulgaro e romeno di revocare la moratoria sulle

attività di esplorazione e sfruttamento delle riserve nazionali di

18 B. Fox, “Cold War politics hang over E.U. shale gas revolution”, euobserver, 17 Maggio 2013, http://euobserver.com/energy/120148. 19 International Energy Agency, 2012, op.cit., pp.125-126; "Germany moves to allow controversial shale gas drilling", Euractiv, 28 Febbraio 2013, http://www.euractiv.com/energy/germany-tables-draft-law-allow-f-news-

518131. 20 D. Kenarov, "Poland's Shale Gas Dream", Foreign Policy, 26 Dicembre

2012, http://www.foreignpolicy.com/articles/2012/12/26/polands_shale_gas_dream.

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shale gas, considerando che la dipendenza di entrambe dalle

importazioni di gas russo oltrepassa il 90%.

Pur non facendo parte della UE, l’Ucraina sembra aver puntato

decisamente sullo sviluppo del suo enorme potenziale di shale

gas - terze maggiori riserve in Europa – attirando l’interesse

delle maggiori compagnie energetiche internazionali con le

quali sono stati conclusi degli accordi.

Nonostante l'apporto teoricamente offerto dallo shale gas per

rafforzare la sicurezza energetica europea, in realtà gli effetti e

i benefici di questa opzione risulteranno considerevolmente

circoscritti. Le prospettive di una produzione europea di gas di

scisto si scontrano con ostacoli difficilmente superabili, in

primis le problematiche ambientali e i costi elevati:

considerando i progressi compiuti, solo l'Ucraina appare in

grado di avviare una produzione nei prossimi anni, mentre la

Polonia sembra dover ridimensionare le proprie ambizioni a

causa delle conformazione geologica del terreno che rende

complicate le attività di esplorazione e sfruttamento.

Se l'auspicata cooperazione energetica in ambito NATO

rappresenta una considerevole evoluzione strategica,

funzionale all'esigenza di diversificazione delle rotte di

approvvigionamento, in realtà in termini quantitativi l'apporto

statunitense alla sicurezza energetica europea appare limitato:

infatti, nel 2035 gli Stati Uniti potranno destinare

all'esportazione solo 34 mmc di gas all'anno, volumi

insufficienti destinati ad incidere parzialmente sul totale delle

importazioni, che oscilleranno tra 479 e 540 mmc.

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Sicurezza alimentare vs sicurezza energetica: conflittualità e criticità in ambito UE

Silvia Bolognini – Ricercatore di Diritto Agrario – Università degli Studi di Udine

Funzione energetica e altre funzioni demandate all’agricoltura: un rapporto difficile

Negli ultimi anni la funzione energetica dell’agricoltura è stata

riscoperta e arricchita di ulteriori contenuti. Ciò ha determinato

un vero e proprio scompenso fra le richieste funzionali rivolte al

settore primario e la capacità di quest’ultimo di rispondere a

esse in modo adeguato o, quanto meno, soddisfacente.

Le conflittualità e le criticità connesse alla funzione energetica

dell’agricoltura possono essere comprese a pieno solo laddove

vengano messe in relazione con il concetto di multifunzionalità

dell’agricoltura, una multifunzionalità destinata a essere

ulteriormente valorizzata, come emerge tra l’altro dai numerosi

appelli rivolti alla PAC (tuttora) in fase di elaborazione, affinché

in essa venga dato sufficiente spazio (anche) agli strumenti

volti a incentivare la produzione di beni pubblici, in particolare,

di quelli di carattere ambientale (il paesaggio, la stabilità

climatica, la conservazione della biodiversità, la qualità e la

disponibilità delle risorse idriche, la funzionalità del suolo e la

qualità dell’aria).

In tale ottica, la sintesi delle conflittualità e delle criticità

emerse in seno al sistema agroalimentare europeo in seguito

all’intensificarsi dell’attenzione rivolta alle energie nuove e

rinnovabili, nel novero delle quali possono essere incluse

senz’altro anche le agro-energie, è facilitata dall’impiego del

termine «sostenibilità». Espressioni come quelle di

«sostenibilità alimentare», «sostenibilità ambientale»,

«sostenibilità paesaggistica», «sostenibilità idrica»,

«sostenibilità economica», «sostenibilità sociale», sono in

grado di focalizzare i diversi profili e i molteplici ambiti in

relazione ai quali il modo in cui il settore primario ha risposto, e

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sta tuttora rispondendo, alla nuova missione energetica

affidatagli, si è rivelato non all’altezza delle aspettative. Spesso

le azioni volte al soddisfacimento delle esigenze connesse

all’approvvigionamento energetico mediante il ricorso alle

energie nuove e rinnovabili e, in particolare, alle agro-energie,

sono state realizzate senza tenere sufficientemente in conto gli

altri interessi pubblici ai quali l’attività agricola è chiamata a

contribuire, in molti casi in misura decisiva, se non addirittura

determinante, il che in talune circostanze ha finito con il

mettere persino a rischio il perseguimento e la tutela di tali

interessi.

L’inadeguatezza della risposta offerta dal settore primario

nell’assolvere alla funzione energetica è stata oggetto di

parecchie riflessioni critiche: alcune di esse si sono incentrate

solo (o per lo più) su alcuni dei profili interessati dalla

valorizzazione della funzione energetica dell’agricoltura, com’è

accaduto, ad esempio, in relazione al contemperamento delle

esigenze connesse alla sicurezza energetica con quelle

riconducibili alla sicurezza alimentare; altre, invece, hanno

assunto i toni di una vera e propria valutazione complessiva

dell’impatto che tale valorizzazione ha avuto (e sta avendo) sul

ruolo svolto dall’agricoltura nel perseguimento e nella tutela di

una pluralità di interessi pubblici. In verità, il più delle volte, i

profili e gli ambiti sui quali la valorizzazione della funzione

energetica dell’agricoltura ha inciso, si sovrappongono e si

mescolano, offrendo un’ulteriore conferma, da un lato, del

carattere multifunzionale dell’agricoltura, dall’altro, dell’assunto

− da sempre evidenziato dalle fonti primarie europee − in forza

del quale l’agricoltura costituisce un settore intimamente

connesso all’insieme dell’economia. E questo vale anche e

soprattutto per la «sostenibilità alimentare» del possibile

contributo del settore primario al soddisfacimento delle

esigenze connesse all’approvvigionamento energetico.

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La necessità di indagare la natura delle conflittualità e delle

criticità in cui si estrinseca l’insostenibilità alimentare della funzione energetica demandata all’agricoltura

Il modo in cui le conflittualità insite nel rapporto tra la funzione

energetica e le altre funzioni demandate all’agricoltura e le

criticità da esse derivanti sono tra loro concatenate, costringe a

chiedersi quale sia la natura a esse ascrivibile: se siano

congenite, ovvero radicate nelle attività in cui può estrinsecarsi

il contributo del settore primario all’approvvigionamento

energetico; congiunturali, vale a dire riconducibili al complesso

degli elementi e dei fattori che in questo periodo caratterizzano

la situazione economica dell’UE (e del nostro Paese, così come

degli altri Stati membri) oppure, infine, sistemiche, ovverosia

in qualche modo frutto delle teorie e dei principi sui quali

poggia la disciplina riservata, in ambito europeo e nazionale,

agli istituti e alle attività riconducibili al settore primario. Tale

quesito, lungi dall’essere un mero esercizio teorico, è un

passaggio obbligato per l’individuazione degli strumenti

necessari ad assicurare una pacifica convivenza tra le molteplici

funzioni assegnate all’agricoltura: le criticità possono essere

superate solo laddove siano chiarite le cause che le hanno

determinate e laddove, sulla base di tale chiarimento, vengano

poi elaborate le soluzioni più consone. Il giurista è destinato,

peraltro, ad assumere posizioni concettuali differenti a seconda

della risposta data a tale quesito.

Se gli elementi di conflittualità che hanno determinato la crisi in

atto si dovessero palesare come congeniti e, quindi, in buona

sostanza inevitabili, il nodo da sciogliere sarebbe, innanzi tutto,

quello relativo al ruolo giocato dal settore primario – e, in

particolare, dalle agro-energie nel più ampio contesto delle

energie nuove e rinnovabili − ai fini del raggiungimento degli

ambiziosi obiettivi che l’UE si è prefissata in campo energetico

(anche in ragione degli obblighi assunti a livello internazionale):

occorrerà chiarire se tale ruolo sia fondamentale, o no, e se il

contributo del settore primario sia indispensabile, o no.

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E se la risposta dovesse essere positiva − come pare, in

ragione dell’emergenza energetica con la quale l’UE è chiamata

a fare i conti −, occorrerà interrogarsi sul rapporto paritetico o

gerarchico intercorrente tra le diverse funzioni demandate

all’agricoltura; il che, a ben vedere, equivarrà a interrogarsi sul

rapporto paritetico o gerarchico intercorrente tra i diversi

interessi pubblici sottesi a tali funzioni.

In tale prospettiva, il rapporto fra agricoltura, sicurezza

alimentare e sicurezza energetica, le conflittualità insite nel

quale sono efficacemente rappresentate dalla locuzione

«sostenibilità alimentare», si rivela emblematico.

Il concetto di «sostenibilità alimentare» e il contributo del settore primario alle esigenze di approvvigionamento

energetico

Con l’espressione «sostenibilità alimentare» delle agro-energie

si è soliti indicare tanto la necessità che la preferenza

accordata da un numero sempre crescente di operatori del

settore primario alla produzione energetica, anziché a quella

agroalimentare, non comprometta la disponibilità delle derrate

alimentari e non metta conseguentemente a rischio la sicurezza

degli approvvigionamenti alimentari (food availability), quanto

l’esigenza di scongiurare il pericolo che un’eventuale riduzione

della disponibilità delle derrate alimentari si traduca in un

aumento dei prezzi dei prodotti alimentari (food accessibility).

A dire il vero, come si cercherà di chiarire meglio in seguito, al

concetto di «sostenibilità alimentare» parrebbero potersi

ricondurre anche profili attinenti alla food safety, ma non v’è

dubbio che con tale espressione si voglia fare riferimento in

primis alla capacità di dare spazio alle energie nuove e

rinnovabili e alle agro-energie senza compromettere la

sicurezza degli approvvigionamenti alimentari. Per verificare se

effettivamente le conflittualità connesse al rapporto fra

sicurezza alimentare e funzione energetica dell’agricoltura sono

congenite, occorre, innanzi tutto, indagare le diverse tipologie

di attività in cui potrebbe estrinsecarsi il contributo del settore

primario alla produzione energetica.

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Com’è noto, il contributo che può venire dal settore primario in

termini di sviluppo delle energie nuove e rinnovabili può

assumere ben tre differenti declinazioni: l’agricoltura può

finalizzare la propria produzione vegetale a scopi energetici,

come accade, ad esempio, nel caso delle colture energetiche;

può impiegare nella produzione di energia le proprie sostanze

organiche di “scarto”, quali, in particolare, i sottoprodotti e i

rifiuti di origine sia vegetale, sia animale; può, infine, destinare

il suolo agricolo all’installazione di impianti energetici, quali, in

particolare, quelli fotovoltaici ed/o eolici. Ebbene, di

conflittualità congenita si può parlare solo con riferimento a

quelle attività che comportano una sottrazione del terreno

agricolo alla produzione alimentare: ci si riferisce

evidentemente a quelle attività che si estrinsecano nella

realizzazione di colture energetiche (la colza, il girasole, la soia,

il mais, ecc.), i cui frutti possono essere impiegati, appunto,

per la produzione di biocombustibili, nonché a quelle attività

che comportano la destinazione di terreni agricoli

all’installazione di impianti energetici (pannelli fotovoltaici ed/o

eolici). Laddove, al contrario, l’agricoltura contribuisca alla

produzione di energia destinando a essa principalmente i

residui agricoli di origine sia vegetale, sia animale, non essendo

in tal caso necessaria la sottrazione di terreni alle coltivazioni

alimentari, non solo non si può ragionare di natura congenita

delle conflittualità, ovverosia di insostenibilità alimentare delle

agro-energie, ma non si pone nemmeno un problema di

pacifica convivenza della funzione energetica dell’agricoltura

con quella alimentare (nondimeno, in tale ipotesi, si potrebbe

rilevare la sussistenza di conflittualità connesse alle

sostenibilità ambientale, paesaggistica e idrica, delle agro-

energie). L’insostenibilità alimentare sarebbe configurabile,

dunque, solo con riferimento alle colture energetiche e alla

destinazione di terreni agricoli all’installazione di impianti

energetici. Solo le prime, tuttavia, possono essere ricondotte a

pieno titolo nel novero delle agro-energie; l’attività che si

estrinseca nell’installazione di impianti energetici su terreni

agricoli esula dal campo dell’attività di produzione agraria, in

quanto prescinde dall’attività di coltivazione del fondo e del

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bosco e da quella di allevamento di animali. Vero è che, nel

nostro ordinamento, il legislatore, seppure a fini fiscali, in

presenza di taluni presupposti e mediante il ricorso formale al

vincolo della connessione, ha ricondotto anche tale tipologia di

attività al campo dell’agrarietà – un’agrarietà che a noi pare

debba essere definita quanto meno “virtuale”–; tale

riconduzione, però, non solo non è corretta, ma, proprio perché

effettuata ex lege, induce a propendere per la natura anche

sistemica (e non solo congenita) delle conflittualità e delle

criticità a essa connesse.

La natura tendenzialmente congenita delle conflittualità e delle criticità connesse alla funzione energetica dell’agricoltura e il

rapporto gerarchico o paritetico degli interessi pubblici sottesi alle diverse funzioni demandate all’agricoltura

Appurata la natura congenita dell’insostenibilità alimentare

ascrivibile a talune delle attività in cui si estrinseca il contributo

del settore primario all’approvvigionamento energetico, occorre

cimentarsi con l’interrogativo relativo alla loro indispensabilità e

alla necessità di continuare a fare affidamento su di esse per il

perseguimento degli obiettivi di energy security postisi dall’UE;

interrogativo al quale fa da corollario la riflessione circa il

rapporto paritetico o gerarchico intercorrente fra l’interesse

pubblico all’approvvigionamento energetico e l’interesse

pubblico all’approvvigionamento alimentare. A tal proposito, va

sottolineato che l’ottica dalla quale muovono le istituzioni

europee e nazionali è tutto fuorché chiara e uniforme: le loro

prese di posizione sembrerebbero ispirarsi a una sorta di logica

di compromesso e andare più nella direzione di un

contemperamento degli interessi connessi alla sicurezza

energetica e alimentare a “fasi alterne” (che in alcuni casi

premi, cioè, la prima a discapito della seconda e in altri

riconosca, al contrario, alla sicurezza alimentare una posizione

gerarchicamente sovra ordinata). In tale contesto il giurista

non può rimanere fermo a guardare, ma deve assumere un

ruolo propositivo, contribuendo egli stesso a chiarire se taluni

interessi pubblici debbano o non essere reputati prioritari,

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nonché richiamando l’attenzione sulla pericolosità di politiche

che, soprattutto con riferimento al ruolo assegnato

all’agricoltura, procedono per emergenze e paiono dimenticare

o sottovalutare il fatto che mentre molte delle altre funzioni

demandate all’agricoltura possono essere in certa misura

assolte anche dagli altri settori produttivi, quella alimentare è

di sua esclusiva spettanza e necessita per tale ragione di un

trattamento di riguardo.

La funzione energetica dell’agricoltura e la sostenibilità alimentare nel contesto della food security: la natura anche

sistemica delle conflittualità e delle criticità

Il quadro confuso che si intravede in ordine al rapporto

paritetico o gerarchico sussistente tra le molteplici funzioni

demandate all’agricoltura, rafforza l’impressione che le

conflittualità insite nel rapporto fra agricoltura, esigenze

energetiche ed esigenze alimentari, abbiano anche una natura

sistemica e, con riferimento a taluni profili, congiunturale.

Per quanto concerne la natura sistemica di dette conflittualità,

è sufficiente chiedersi se la responsabilità del ritorno della food

insecurity possa e debba essere addossata per intero alla

produzione agro-energetica per rendersi conto che, in verità, il

quadro è assai più complesso. I problemi che negli ultimi anni

l’UE ha dovuto affrontare in relazione all’insufficiente

approvvigionamento e all’aumento dei prezzi delle derrate

alimentari sono imputabili a una pluralità di cause, alcune di

natura congiunturale, altre di natura strutturale. In questa

sede ci preme osservare che le ragioni che inducono a rinvenire

delle conflittualità e delle criticità nel rapporto fra sicurezza

alimentare e sicurezza energetica in agricoltura risiedono nella

destinazione dei terreni agricoli ad attività diverse dalla

produzione alimentare. Ma, allora, non può essere passato

sotto silenzio che questa non è la prima volta che il sistema

agroalimentare europeo mette l’operatore del settore primario

nella posizione di preferire la sottrazione del proprio terreno

agricolo all’attività di produzione alimentare.

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Il legislatore europeo, a partire dagli anni Ottanta, per far

fronte al problema delle eccedenze produttive, prima, e per

assolvere agli obblighi assunti in sede di WTO, poi, è

intervenuto più volte sulla PAC, al fine di indirizzarla

maggiormente verso traguardi e scopi differenti dalla food

security, quali, in particolare, quello dello sviluppo rurale e

quello della tutela dell’ambiente.

Finché sono stati mantenuti gli aiuti accoppiati alla produzione,

il sistema si è mostrato tendenzialmente in grado di conservare

una sorta di equilibrio. Al contrario, allorquando, a partire dalla

riforma di medio termine, è stato introdotto il regime di

pagamento unico e si è assistito, da un lato, alla riconduzione

al concetto di attività agricola anche del mero mantenimento

del terreno in buone condizioni agronomiche – “mantenimento”,

che di fatto, esattamente come nel caso delle colture

energetiche o dell’installazione di impianti energetici, comporta

la sottrazione di terra alla produzione alimentare (seppure con

le dovute differenze in ambito ambientale) – e, dall’altro,

all’introduzione di aiuti alle colture energetiche, il sistema ha

iniziato a manifestare delle forti criticità. Certo le colture

energetiche e l’installazione di impianti energetici sui terreni

agricoli di fatto hanno ridotto la produzione alimentare, ma se

l’operatore del settore primario ha ritenuto di orientarsi in tale

direzione è anche perché tali attività gli sono apparse come più

accattivanti e remunerative sotto il profilo economico. E ciò è

successo non solo perché − per lo meno inizialmente − l’UE e

gli Stati membri hanno riconosciuto degli incentivi economici a

favore di chi optasse per tali tipologie di attività, ma anche

perché a partire dalla riforma di medio termine l’agricoltura

europea si è privata di qualsivoglia strumento di

programmazione della produzione e ha lasciato completamente

soli gli operatori del settore primario. Che l’agricoltura europea

non fosse (e probabilmente non lo è ancora) matura per una

trasformazione della PAC così radicale è confermato proprio

dall’attrattività che gli incentivi inizialmente previsti (a livello

sia europeo, sia nazionale) per le colture energetiche hanno

assunto agli occhi degli agricoltori.

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Attualmente, a livello sia europeo, sia nazionale, gli incentivi

sono stati ridotti e rivisti; ma ciò non toglie che la destinazione

dei terreni agricoli alla produzione energetica possa risultare

comunque più allettante perché meno aleatoria o rischiosa. È il

sistema, dunque, a dover essere ripensato e rivisto, nell’ottica

di dotare gli operatori del settore primario di strumenti in grado

di consentire loro di prevedere l’andamento del mercato, sì da

orientarli nuovamente verso le produzioni alimentari.

La funzione energetica dell’agricoltura e la sostenibilità alimentare nel contesto della food safety: la natura anche

congiunturale delle conflittualità e delle criticità

Alle conflittualità insite nel rapporto fra agricoltura, sicurezza

alimentare e sicurezza energetica può essere ascritta, infine,

anche una natura congiunturale. Per quanto concerne nello

specifico la sostenibilità alimentare, ciò trova conferma

nell’incidenza che le colture energetiche e la destinazione di

terreni agricoli all’installazione di impianti energetici sono

destinate ad avere anche sulla food safety. La riduzione delle

disponibilità alimentari è da più parti indicata come la prima

responsabile della volatilità e dell’innalzamento dei prezzi delle

derrate e dei prodotti alimentari.

Nella particolare congiuntura economica che stiamo vivendo,

l’aumento dei prezzi dei prodotti agricoli è destinato a incidere

sulle abitudini alimentari dei consumatori: diversi studi hanno

messo in evidenza come le scelte dei consumatori si stiano

orientando con sempre maggiore frequenza verso alimenti

meno costosi, ma qualitativamente inferiori.

Viene allora da osservare che la riduzione delle derrate

alimentari causata anche dalla funzione energetica

dell’agricoltura, incidendo sull’aumento dei prezzi dei prodotti

alimentari, può contribuire a spingere ulteriormente i

consumatori verso l’acquisto e il consumo di prodotti alimentari

che costano meno, ma che sotto il profilo nutrizionale sono

meno sicuri.

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Brevi considerazioni conclusive

Il quadro delle conflittualità e delle criticità connesse al

contemperamento delle esigenze energetiche con quelle

alimentari, di certo non rassicurante, offre l’occasione per

rimettere in discussione alcune delle scelte fatte finora a livello

politico, economico e normativo. La funzione energetica

dell’agricoltura deve continuare a essere valorizzata perché

offre un ulteriore elemento di competitività del settore primario,

ma occorre che tale valorizzazione sia accompagnata da un

ripensamento delle logiche di sistema, che consentano, nei

limiti del possibile, di attenuare le conflittualità congenite, di far

venire meno quelle sistemiche e di ridurre considerevolmente

quelle congiunturali. È necessario intervenire con una certa

urgenza soprattutto sulle conflittualità di natura sistemica, che

sono determinate per lo più dalle scelte effettuate dal

legislatore europeo in seno alla PAC. Si ha, invero, la

sensazione che, anziché essere state le conflittualità congenite

a determinare le criticità in seno al sistema, siano state le

criticità già presenti in seno al sistema ad accentuare le

conflittualità congenite. Ammesso che, com’è stato osservato, il

disaccoppiamento sia un percorso a senso unico che non

permette marcia indietro, diviene indispensabile individuare

degli strumenti idonei a dotare l’agricoltura europea della

capacità di conciliare le esigenze connesse alla food security

con quelle dell’energy security. Certo dalle novità portate dalla

tecnologia potrebbe venire un aiuto, in termini di aumento

della produzione o di sostituzione di certi prodotti con altri, per

ottenere non solo cibo, ma anche energia. Tuttavia, il ricorso

agli OGM, al di là del fatto che pare essere più un “percorso ad

ostacoli” che una “strada in discesa”, non pare essere l’unico

espediente possibile, né tanto meno la soluzione definitiva.

Parrebbe preferibile cercare di compensare il più possibile la

perdita di qualsivoglia strumento di programmazione in

agricoltura: un contributo in tal senso potrebbe venire dalle

associazioni dei produttori agricoli e dalle organizzazioni

interprofessionali, che, allo stato attuale, potrebbero acquisire

un ruolo di fondamentale importanza nell’adeguamento delle

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118

produzioni agricole alle richieste del mercato, anche nell’ottica

di un contemperamento delle esigenze connesse alla food

security con quelle collegate alla energy security. Incentivare la

costituzione e assicurare l’effettiva operatività delle associazioni

dei produttori agricoli e delle organizzazioni interprofessionali

potrebbe rivelarsi quanto mai utile anche al fine di ovviare a

quella carenza di informazioni di natura commerciale e tecnica

che risulta penalizzante nel contesto di un mercato che è

chiamato nuovamente a far fronte alla sfida della food security,

oltre che a quella della qualità del prodotto, della tutela della

salute del consumatore e della tutela dell’ambiente21

.

21 Ormai decisamente numerosi sono i contributi dottrinali in cui viene affrontata la questione della funzione energetica dell’agricoltura e delle conseguenze dalla stessa determinate: si vedano, ex multis, M. D’ADDEZIO, Agricoltura e contemperamento delle esigenze energetiche ed alimentari, in

Agricoltura e contemperamento delle esigenze energetiche ed alimentari, Atti

dell’Incontro di studi di Udine, 12 maggio 2011, rielaborati e aggiornati, a cura di M. D’Addezio, Milano, 2012, p. 83 ss.; EAD., Quanto e come è rilevante l'agricoltura nel Trattato di Lisbona?, in Riv. dir. agr., 2010, I, p. 248 ss.; EAD., La responsabilità civile dell’impresa agroalimentare, in Riv. dir. agr., 2011, I, p. 41 ss.; EAD., Sicurezza degli alimenti: obiettivi del mercato dell’Unione europea ed esigenze nazionali, in Per uno studio interdisciplinare

su agricoltura ed alimentazione, Atti del Convegno di inaugurazione dell’Osservatorio sulle regole dell’agricoltura e dell’alimentazione (ORAAL) svoltosi a Pisa, 22−23 gennaio 2010, a cura di M. Goldoni ed E. Sirsi, Milano, 2011, p. 252 ss.; EAD., Dinamiche competitive tra usi della terra destinati alla produzione di alimenti ed usi destinati alla produzione di energie rinnovabili, in Agricoltura e in−sicurezza alimentare tra crisi della PAC e mercato globale,

Atti del Convegno IDAIC di Siena, 21−22 ottobre 2010, a cura di E. Rook Basile e A. Germanò, Milano, 2011, p. 266 ss.; EAD., Sicurezza e coordinamento delle esigenze alimentari con quelle energetiche: nuove problematiche per il diritto agrario, in Agricoltura Istituzioni Mercati, 2011, fasc. 3, p. 11 ss.; L. COSTATO, Considerazioni conclusive, in Agricoltura e contemperamento delle esigenze energetiche ed alimentari, cit., p. 167 ss.; ID., La situazione mondiale in materia di energia, materie prime, ambiente e

alimentazione, in Agricoltura Istituzioni Mercati, 2007, fasc. 3, p. 13 ss.; ID., Dalla food security alla food insecurity, in Riv. dir. agr., 2011, I, p. 3 ss.; A. JANNARELLI, La nuova food insecurity: una prima lettura sistemica, in Riv. dir. agr., 2010, I, p. 565 ss.; M. GOLDONI, Utilizzazione di terreni agricoli per la realizzazione di impianti energetici: aspetti giuridici, in Agricoltura e

contemperamento delle esigenze energetiche ed alimentari, cit., p. 31 s.; F. ADORNATO, Farina o benzina? Il contributo dell’agricoltura a un nuovo modello

di sviluppo, in Agricoltura Istituzioni Mercati, 2008, fasc. 1, p. 1 ss.; M. GIUFFRIDA, La produzione di energia da fonti rinnovabili nel quadro della PAC dopo il Trattato di Lisbona, in Riv. dir.

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La sicurezza energetica nel XXI secolo: prospettive dall’Italia e dal Mondo

Informazioni della Difesa Supplemento al n. 6/2013

119

Sezione III La visione internazionale

L’energia canadese: sicura, affidabile, responsabile S.E.Joe Oliver – Ministro delle Risorse Naturali del Canada

Il mondo sta vivendo un radicale riallineamento della crescita

economica globale e delle nuove fonti di energia, e di

conseguenza un mutamento fondamentale nei mercati

dell’energia. Sia la Banca Mondiale, sia l’Organizzazione per la

Cooperazione e lo Sviluppo Economico prevedono che la rapida

crescita dei mercati emergenti risulterà in una considerevole

espansione della classe media globale, che passerà da meno di

due miliardi di persone nel 2009 a quasi cinque miliardi entro i

prossimi vent’anni.

Ciò comporterà un notevole aumento del consumo energetico.

L’Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE) prevede, nel suo

ultimo rapporto World Energy Outlook, che la domanda globale

di energia salirà di più di un terzo entro il 2035. Il 93%

dell’aumento previsto della domanda energetica proverrà dai

paesi non OCSE (con Cina, India e Medio Oriente responsabili

essi soli del 60% di questo incremento). Tenendo presente che

già la metà del petrolio viene consumata dal settore dei

trasporti, l’AIE prevede che entro il 2035 il numero di

automobili usate nel mondo raddoppierà, fino a raggiungere il

numero di 1,7 miliardi di unità.

Già al giorno d’oggi l’Italia dipende dalle importazioni per far

fronte a oltre l’80% del suo fabbisogno energetico, nonostante

possegga la quinta riserva di greggio e la sesta di gas naturale

più grandi d’Europa. Assicurare la sicurezza energetica su base

globale è una sfida sempre più difficile. Nel 2010 l’Italia ha

importato circa due milioni di barili al giorno di greggio e di

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La sicurezza energetica nel XXI secolo: prospettive dall’Italia e dal Mondo

Informazioni della Difesa Supplemento al n. 6/2013

120

prodotti petroliferi raffinati da diversi paesi fra cui Libia, Arabia

Saudita e Russia.

La sicurezza energetica è fondamentale per il mantenimento

della crescita economica e della stabilità. In un mondo in cui

molte delle fonti di petrolio e gas continuano a essere soggette

a incertezza politica, tutti i paesi si preoccupano di sviluppare

fonti di energia affidabili e durature.

Questo è quindi un momento cruciale per l’industria energetica

canadese, date le sue abbondanti risorse e la domanda globale

per acquisirle. Il contesto energetico, in pieno mutamento,

offre un’opportunità imperdibile per il Canada e per coloro che

investano in Canada. Pochi paesi sono così ben posizionati per

diventare uno dei più importanti fornitori di sicurezza

energetica sul lungo periodo, sia per le potenze economiche

emergenti che per quelle consolidate.

Con 172 miliardi di barili, di cui 168 nelle sabbie bituminose, il

Canada possiede le terze riserve petrolifere mondiali. Con

l’avvento di nuove tecnologie di estrazione, si stima che

l’ammontare del petrolio recuperabile potrebbe superare di

molto i 315 miliardi di barili. Queste riserve di petrolio

potrebbero essere, di gran lunga, le più vaste del pianeta.

Stime attuali delle nostre risorse di gas naturale commerciabili

le indicano in 37 trilioni di metri cubi; ciò basterebbe per

mantenere la nostra produzione attuale di gas per più di 200

anni, con vaste aree del Canada non ancora esplorate.

Il Canada gode già di un eccellente rapporto commerciale con

l’Italia e con l’Unione Europea. Nel 2012, il commercio

bilaterale fra il Canada e l’Italia ha raggiunto 6,9 miliardi di

dollari canadesi, posizionando l’Italia al decimo posto fra i

partner commerciali del Canada. Il mese scorso abbiamo

annunciato che il Canada e l’Unione Europea hanno concordato

in principio un Accordo per la promozione commerciale e degli

investimenti. Si tratta del più grande e ambizioso accordo

commerciale mai raggiunto dal Canada. Esso copre infatti i più

importanti aspetti del rapporto economico bilaterale fra Canada

e UE, ivi compresi il commercio di beni e servizi, gli

investimenti egli appalti pubblici. E siamo intenzionati a

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La sicurezza energetica nel XXI secolo: prospettive dall’Italia e dal Mondo

Informazioni della Difesa Supplemento al n. 6/2013

121

continuare a sviluppare il commercio con i nostri partner

dell’UE.

Storicamente, la maggior parte del carburante fornito dal

Canada al mercato europeo consisteva in diesel, raffinato sulla

Costa del Golfo degli Stati Uniti. Tuttavia sono in progetto altri

due oleodotti per collegare il paese da ovest a est, in modo da

rifornire di petrolio canadese la Costa Orientale del Canada, da

dove poi il petrolio potrebbe essere trasportato in Europa.

Il volume delle risorse canadesi è importante tanto quanto la

disponibilità, l’affidabilità e il senso di responsabilità che il

Canada offre. Dal 2010 abbiamo assistito all’aumento

dell’attività di alcune delle principali imprese di progettazione

italiane sul suolo canadese. La Saipem Canada, italiana, è

l’azienda del settore oil & gas più attiva in Canada, che

nell’ambito del progetto denominato Canadian Natural

Resources’ Horizon Oil Sands Project ha sviluppato l’Husky’s

Sunrise Energy Project e la realizzazione di un impianto di pre-

raffinazione (upgrader). Fra le altre importanti imprese italiane

in Canada vi è la Technip che, in consorzio con Samsung and

Huanqiu, ha vinto l’appalto per la progettazione e i servizi del

progetto Pacific Northwest LNG sulla costa occidentale

canadese.

Il governo del Canada è impegnato ad attrarre questo tipo di

investimenti mantenendo un mercato libero e aperto che

accolga gli investimenti diretti esteri, garantendo una giusta,

trasparente e stabile normativa specifica per i progetti

principali ed un sistema fiscale altamente competitivo. Il

Canada è una democrazia stabile ed è un grande sostenitore,

oltre che un fautore, dei principi del libero mercato. Solo il 20%

delle riserve mondiali di petrolio non è controllato da imprese

statali ed il 60% del petrolio in mano alla libera impresa si

trova in Canada. Ci sarà pure un motivo se Forbes Magazine ha

descritto il Canada come uno dei migliori posti nel mondo per

fare affari! Ciò è molto importante, poiché abbiamo bisogno

d’investimenti per sviluppare le nostre risorse e realizzare le

infrastrutture necessarie per fornirle ai mercati, la cui domanda

di energia non cessa di crescere.

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Il Canada è anche un paese in cui gli investitori possono

responsabilmente contribuire allo sviluppo energetico. Nel

nostro paese, rispettiamo precisi principi ambientali per

sviluppare le nostre risorse energetiche. Per esempio, il

Governo ha recentemente introdotto severe sanzioni per le

imprese che non aderiscono alla normativa ambientale.

Abbiamo avanzato nuove misure per rafforzare le normative

canadesi, già di assoluta eccellenza, in tema di sicurezza

marittima e degli oleodotti, basate su principi scientifici

appurati, imposte tramite normative trasparenti e sostenute da

tecnologie all’avanguardia.

Il Canada ha compiuto passi fondamentali per ridurre le

emissioni di gas serra, con l’introduzione di normative severe

per i veicoli leggeri e pesanti ed è stato il primo grande

utilizzatore di carbone a proibire la costruzione di nuovi

impianti elettrici alimentati a carbone che si avvalgono di

tecnologie tradizionali. Ora abbiamo predisposto la chiusura di

tutte le centrali a carbone, secondo una tempistica che riflette

il loro ciclo economico. Siamo il primo paese al mondo ad

averlo fatto.

Le emissioni del settore oil & gas sono già oggetto di normative

provinciali e di altre, federali, attualmente in fase di

ultimazione. Le sabbie bituminose del Canada sono soggette ad

un monitoraggio scientifico di prim’ordine che riguarda aria,

terra e acqua. Inoltre, tutto il territorio interessato dall’impatto

ambientale derivante dalla estrazione di petrolio deve essere

riportato al suo stato naturale per legge, mentre il 90%

dell’acqua utilizzata per la produzione delle sabbie bituminose è

oramai riciclata.

Le emissioni di gas a effetto serra (GHG) per barile di

produzione nelle sabbie bituminose sono state ridotte del 26%

fra il 1990 ed il 2011, mitigando non solo l’impatto ambientale

della produzione ma anche i costi e rendendo le risorse del

Canada più competitive sul mercato mondiale.

La normativa ambientale del Canada è una delle più rigorose e

più efficaci del mondo. Il Canada ha difatti diminuito le sue

emissioni di gas serra del 4,8% mentre l’economia è cresciuta

dell’8,4% dal 2005 al 2011.

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Informazioni della Difesa Supplemento al n. 6/2013

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Quale esempio del fatto che il sistema normativo del Canada

sia un catalizzatore per l’innovazione, 14 imprese che operano

nel settore delle sabbie bituminose hanno formato

un’associazione canadese per le sabbie bituminose (Canadian

Oil Sands Innovation Alliance) e lavorano insieme per

accelerare lo sviluppo di tecnologie sostenibili, divenendo così

un esempio senza precedente di collaborazione fra imprese

concorrenti. Quest’associazione comprende compagnie come la

francese Total, la norvegese Statoil e la britannica Royal Dutch

Shell. Dalla formazione dell’associazione avvenuta diciotto mesi

fa, le imprese hanno condiviso 446 tecnologie e innovazioni

distinte, con un costo congiunto di più di 700 milioni di dollari

canadesi. I governi canadesi, da parte loro, stanno

contribuendo e già solo nel 2012 hanno investito più di un

miliardo di dollari in ricerca e sviluppo nel settore dell’energia.

Nel contempo, quando si parla di sicurezza dell’energia, è

necessario che i paesi riconoscano l’importanza di evitare

politiche che impediscono il libero flusso di fornitura globale del

petrolio, scoraggiano gli investimenti nello sviluppo energetico

e finiscono per agire da ostacolo per la sicurezza energetica in

generale. Ecco perché abbiamo serie riserve sulla Direttiva

sulla Qualità del Carburante così come viene attualmente

proposta dalla Commissione Europea: essa risulta non

scientificamente fondata, discriminante per le sabbie

bituminose, dannosa per l’industria della raffinazione europea–

inclusa l’Italia – e di ostacolo per il raggiungimento dei suoi

stessi obiettivi ambientali.

Il Canada sostiene iniziative che si basano su principi scientifici

fondati che portano alla riduzione tangibile e globale dei gas

serra ed è fermamente convinto che tutte le nazioni che

producono petrolio debbano essere trattate in modo equo,

nonché in relazione alla intensità delle loro emissioni GHG.

Qualsiasi misura che ignori l’attuale emissione dei gas serra del

greggio non avrà l’impatto desiderato né sulle emissioni

all’interno dell’UE, né globalmente. In un momento in cui, in

tutto il mondo, si vanno esaurendo i tipi di greggio più

accessibili e più leggeri, i paesi non hanno altra scelta se non

incrementare la dipendenza da risorse petrolifere più pesanti e

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meno accessibili. Onde mantenere i nostri obiettivi di sicurezza,

dobbiamo assicurarci che tutti si conformino alle stesse regole.

Oggi l’Unione Europea importa il greggio da alcuni paesi

instabili, che hanno normative ambientali molto meno severe di

quelle canadesi. La Direttiva sulla Qualità del Carburante

finirebbe con lo scoraggiare le importazioni di petrolio dal

Canada, limitando così l’accesso ad una fonte energetica stabile,

affidabile e responsabile.

L’Italia è al secondo posto nell’Unione Europea per la sua

capacità di raffinazione interna. Il greggio canadese delle

sabbie bituminose e il suo “greggio sintetico” (un petrolio

leggero derivato dalle sabbie bituminose) potrebbero diventare

una valida fonte di fornitura alternativa, in grado di aumentare

la sicurezza energetica italiana.

L’Italia ed il Canada intrattengono eccellenti relazioni bilaterali

fondate su stretti legami commerciali, politici e culturali.

Questo rapporto è in continuo sviluppo grazie a un impegno

condiviso basato su valori democratici e stretti legami

transatlantici. Il Canada e l’Italia condividono lo stesso

approccio alle questioni globali e regionali e sono partner in

diverse istituzioni multilaterali, quali le Nazioni Unite, il G8, il

G20, l’OCSE e la NATO. In qualità di forte alleato e amico di

lunga data il Canada è disponibile a sostenere l’obiettivo

italiano di aumentare la propria sicurezza energetica e ad

alimentare la prosperità globale.

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Energia, Sicurezza, Sviluppo – I B.R.I.C.S. nel Mediterraneo

Marco Ricceri – Segretario generale Eurispes

Il destino dell’economia di mercato, con il suo mirabile

meccanismo dell’offerta e della domanda, si decide al di là

dell’offerta e della domanda W. Roepke

Due considerazioni iniziali. La prima riguarda il tipo di approccio

al problema. Mai come per la questione della sicurezza

energetica è necessario il ricorso al metodo scientifico

dell’analisi dei sistemi, vale a dire ad un metodo di analisi che

tenga in considerazione l’eterogeneità dei fattori che incidono

su di essa, la loro molteplicità e interrelazioni. Infatti, per

quanto sia una questione specifica e ben individuata, sulla

sicurezza energetica influiscono una pluralità di esigenze e di

forze che continuamente si confrontano ed interagiscono tra

loro, in una ricerca di punti di equilibrio mai stabili, mai

raggiunti una volta per sempre, ma sempre mutevoli; punti di

equilibrio soggetti a continui cambiamenti, aggiustamenti,

rotture e ricomposizioni. Sulla sicurezza energetica, fenomeno

complesso per sua natura, incidono, ad esempio, i fattori dello

sviluppo economico, dell’evoluzione politica ed istituzionale,

delle dinamiche sociali ed anche culturali e religiose, della

ricerca scientifica e tecnologica. La seconda considerazione

riguarda l’approccio alla valutazione dei più vasti processi di

globalizzazione del mondo contemporaneo, nei quali la

questione della sicurezza energetica è inserita, ma solo per

richiamare l’attenzione su una esigenza specifica: aver chiaro

che tipo di strumenti interpretativi sono utilizzati. La

globalizzazione, come processo di integrazione e

trasformazione continua degli assetti geo-politici e geo-

economici, disegna un mondo che è sempre diverso dal

momento in cui avviamo la nostra osservazione. Il mondo

globalizzato di dieci-quindici anni fa, con il suo sistema stellare

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incentrato sul ruolo prevalente degli USA e del Giappone, è ben

diverso dal mondo globalizzato di oggi, segnato come da un

arcipelago di aree geo-politiche e geo-economiche in via di

progressiva ricomposizione. In questo quadro d’insieme si

inseriscono le valutazioni che riguardano l’evoluzione nel breve,

medio e lungo termine del fenomeno specifico della sicurezza

energetica: tendenze, prospettive, scenari. Ma, appunto, qui

sta il nodo da sciogliere in via preliminare; perché spesso,

anche nei tanti documenti degli enti ed agenzie specializzate, si

fa notevole confusione tra i diversi strumenti orientativi delle

scelte: la individuazione di una tendenza, per la sua

caratteristica intrinseca, è fatta sulla base della estrapolazione

dei dati che riguardano una determinata situazione iniziale

esistente, mentre la elaborazione di una prospettiva

l’arricchisce degli elementi della visione che la volontà degli

uomini intende imprimere ad un determinato processo. Uno

scenario, infine, non può non essere costruito – come valido

strumento scientifico di orientamento – che sull’insieme dei

fattori che direttamente o indirettamente influiscono sulla

evoluzione del fenomeno oggetto di interesse.

Il Rapporto sull’energia mondiale 2013 dell’AIE

Nel Rapporto sull’Energia Mondiale 2013 (WEO 2013), l’Agenzia

Internazionale dell’Energia – AIE fa riferimento ad uno scenario

disegnato fino al 2035 e pone l’accento sul fatto che la

domanda mondiale di energia è destinata a crescere di un terzo

rispetto alla situazione attuale, che i maggiori consumatori

saranno la Cina, l’India e i Paesi del sud est asiatico. Un ruolo

particolare nella dinamica dei consumi sarà svolto dal Medio

Oriente, dove una domanda crescente di energia porterà

quest’area ad essere il secondo più grande consumatore di gas

al mondo nel 2020 e il terzo più grande consumatore di petrolio

al 2030. Il Brasile, per il quale è previsto che il consumo di

energia crescerà dell’80% al 2035, è destinato a diventare uno

dei più importanti produttori di petrolio. Riguardo ai Paesi

OECD, la crescita dei loro consumi al 2035 sarà modesta, meno

della metà rispetto ai consumi dei Paesi non OECD. “Siamo di

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Informazioni della Difesa Supplemento al n. 6/2013

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fronte a profonde trasformazioni di mercato – ha dichiarato nel

presentare il Rapporto il direttore esecutivo dell’ IEA, Maria van

der Hoeven – e questi cambiamenti del settore energetico sono

legati alle risposte che gli Stati saranno in grado di dare alle

sfide della crescita economica, della riduzione delle emissioni

inquinanti, dei miglioramenti tecnologici”. Sulla dinamica dei

prezzi dell’energia, sottolinea il Rapporto, avrà molta influenza

la capacità/volontà o meno degli Stati di impegnarsi per il

miglioramento dell’efficienza energetica, la quale richiede in

ogni caso una capacità di eliminare a livello internazionale sia

le molte barriere che ancora ostacolano il libero mercato, sia il

sistema dei sussidi ai combustibili fossili, stimati in 600 trilioni

di dollari. Come sostengono l’OECD, già dal 2005, l’ UNEP-ONU

nel 2011, e la stessa AIE nell’ultimo rapporto speciale

Redrawing the Energy Climate Map, in particolare questi sussidi

sono un elemento di grandissimo freno alla competizione

internazionale verso nuove soluzioni tecnologiche. “Finché c’è

un sistema di sussidi di questo tipo, - sostiene l’ex Ministro

italiano dell’Ambiente, Corrado Clini (2013) - il cui ammontare

è cinque volte superiore rispetto a quello per le rinnovabili, è

molto complicato riuscire a mettere in moto un cambiamento”.

Un problema specifico su cui il Rapporto 2013 dell’AIE richiama

l’attenzione riguarda il settore delle raffinerie. “Lo spostamento

della bilancia dei consumi di petrolio verso l’Asia e il Medio

Oriente è accompagnato da un continuo incremento della

capacità di raffineria in queste regioni. Di conseguenza, in molti

Paesi dell’OECD, la minore domanda di energia è destinata ad

intensificare la pressione sull’industria della raffinazione; nella

prospettiva al 2035 molti impianti di raffinazione saranno a

rischio di sotto-utilizzazione o di chiusura, con l’Europa in una

situazione di particolare vulnerabilità”. Per inciso: è quello che

sta accadendo attualmente in ambito UE, dove il sistema della

raffinazione è entrato in crisi, ed in particolare in Italia dove

nell’ultimo anno sono state chiuse numerose raffinerie con

pesanti conseguenze sia sul piano occupazionale, sia sul piano

della stessa sicurezza nazionale (la questione aperta delle

scorte strategiche di uno Stato).

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B.R.I.C.S.: i nuovi competitor nell’area Mediterranea La sottolineatura dell’AIE del ruolo sempre più importante che il

Medio Oriente è destinato ad assumere nella domanda globale

di energia nella prospettiva del 2035 stimola a focalizzare

l’attenzione ai complessi cambiamenti che stanno avvenendo

nell’area mediterranea e al nuovo, crescente ruolo svolto dai

grandi player internazionali, i B.R.I.C.S., i grandi protagonisti

del mercato dell’energia e dei processi di sviluppo mondiale.

L’area mediterranea, che anni addietro sembrava come posta

ai margini dei processi di globalizzazione, attualmente ne

risulta sempre più profondamente coinvolta. Una valutazione

attenta della sfida dei nuovi competitor internazionali che si

stanno affermando nel Mediterraneo costituisce per tutti –

Italia e UE in primo luogo - un grande banco di prova anche

riguardo alla questione aperta della sicurezza energetica.

In generale, l’azione dei B.R.I.C.S. nell’area mediterranea

segue il principio politico della non interferenza negli affari

interni dei singoli Stati e un approccio pragmatico nella ricerca

e costruzione delle condizioni favorevoli alla loro penetrazione

economica e commerciale. La preferenza è data agli accordi

bilaterali tra gli Stati, accompagnati e sostenuti però dalla

organizzazione di importanti piattaforme strategiche utili a

promuovere confronti, verifiche, iniziative di carattere generale.

Un interessante elemento di novità introdotto da questi nuovi

competitor è la valorizzazione delle risorse umane, in

particolare quelle relative alle comunità di cittadini che hanno

collegamenti tra i B.R.I.C.S. ed i paesi dell’area mediterranea,

per nascita, discendenza, emigrazione.

In base a questa impostazione di penetrazione economica, gli

stessi moti della primavera araba, pur avendo causato un

blocco e/o un ridimensionamento temporaneo delle iniziative

economiche e commerciali, sono stati interpretati dai B.R.I.C.S.,

in modo realistico, come una opportunità per riprendere, e

rafforzare ulteriormente il loro processo di inserimento stabile

nell’area. Di seguito, un quadro sintetico delle loro principali

linee strategiche.

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RUSSIA

La Russia ha una lunga tradizione di presenza attiva nel

Mediterraneo che è stata interrotta a seguito della dissoluzione

dell’URSS ma che negli ultimi tempi ha ripreso con rinnovato

vigore. Significative, a questo riguardo, le visite compiute nel

2005 e 2006 dal presidente Putin nei principali Stati dell’area:

Egitto, Israele, Palestina, Algeria, Marocco. In passato l’URSS,

in particolare, aveva sostenuto i Paesi dell’area mediterranea

nei loro processi di decolonizzazione e promosso importanti

investimenti soprattutto in grandi opere infrastrutturali. Ad es.

l’URSS ha partecipato alla costruzione della diga di Assuan in

Egitto, alla costruzione della diga Tilezdit e di impianti

metallurgici in Algeria, alla costruzione di grandi opere in

Marocco, Libia, Tunisia. Attualmente i maggiori partner

commerciali della Russia nell’area mediterranea sono,

nell’ordine: Israele, Egitto, Marocco, Tunisia (fonte UNCTAD).

Gli avvenimenti della primavera araba - che il governo russo ha

definito una “sorpresa attesa” - hanno in parte bloccato

temporaneamente l’avvio di grandi investimenti (ad es. la

costruzione dell’autostrada costiera in Libia) ma non alterato la

politica di penetrazione economica e commerciale nell’area.

Gli strumenti della cooperazione

In generale la Russia privilegia gli accordi bilaterali che in

diversi casi hanno portato alla organizzazione di “zone

economiche speciali”, ad esempio con Siria, Giordania, Libano,

Egitto, Tunisia, Marocco.

La Russia ha lo status di Osservatore nella Organizzazione della

Cooperazione Islamica – OIC , posizione finalizzata a rafforzare

la collaborazione con il mondo arabo; inoltre, ha promosso uno

speciale Consiglio Russo-Arabo per gli Affari Economici, che ha

lo scopo di favorire la diffusione delle informazioni commerciali

e gli incontri tra le imprese.

La Russia ha promosso accordi di collaborazione tra le Camere

di Commercio russe e degli Stati arabi.

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I principi ispiratori: politica ed economia

Il Mediterraneo è considerato dalla Russia come una “priorità

strategica” per molteplici motivi tra cui: a) la vicinanza dei

confini con la CIS – Comunità degli Stati Indipendenti; b) la

influenza dei movimenti terroristici e fondamentalisti religiosi

nelle regioni del Caucaso e in altri Stati confinanti, ad es. il

Tajikistan e il Kyrgyzstan; c) il valore dei mercati e delle risorse

economiche dell’area. Queste ragioni hanno indotto la Russia a

svolgere un ruolo di protagonista attivo nel consolidamento del

processo di pace in M.O. e di stabilizzazione dell’area

mediterranea. Le linea della politica estera russa sono state

definite nel Decreto presidenziale del 7 maggio 2012 “…creare

le condizioni esterne favorevoli per promuovere lo sviluppo a

lungo termine e la modernizzazione della Federazione russa e

rafforzare la sua posizione di partner egualitario nei mercati

globali”. Al fine di consolidare la propria presenza, oltre ai

normali strumenti diplomatici, la Russia sta usando anche due

elementi particolari: a) i debiti che alcuni Paesi dell’area hanno

contratto con la Russia ai tempi dell’URSS e che devono essere

ancora in parte saldati. In questo caso la Russia tende ad

utilizzare la sua posizione creditoria per costruire delle

situazioni di vantaggio utili alla sua maggiore penetrazione

nell’area; b) la diffusa presenza di cittadini russi o di origine

russa in alcuni paesi dell’area e, in certi casi, le loro comunità

di religione ortodossa. In questo caso la Russia si propone

anche l’obiettivo di dare un contributo all’ arresto del processo

di de-cristianizzazione in atto nel mondo arabo.

Aree e settori di maggiore interesse

Sul piano politico, i principali interessi russi sono collegati alle

questioni della sicurezza (processo di pace in Medio Oriente) ed

al possibile diffondersi del fondamentalismo religioso e del

terrorismo di matrice islamica in Russia e negli stati confinanti.

Quanto allo sviluppo economico e commerciale, in generale va

detto che il Mediterraneo rappresenta ancora una parte molto

modesta dell’export russo (10,8 mld di dollari nel 2010); ma la

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valutazione russa è che esistono comunque delle ampie

potenzialità di espansione. I settori di maggiore interesse russo

riguardano, nell’ordine: l’energia, le opere di irrigazione, le

infrastrutture, gli armamenti, l’alta tecnologia, l’istruzione e il

turismo. In particolare, riguardo al petrolio, la Russia, che è un

esportatore netto di questa risorsa, ha un interesse specifico

nella ricerca e prospezione di nuove fonti e nel relativo

trasporto (ad es., importanti investimenti in tal senso sono

stati fatti in Egitto, Libia, Algeria).

Le risorse umane: i cittadini russi nel Mediterraneo

Nell’area mediterranea esiste una notevole presenza di

comunità russe, costituite da cittadini russi o di origine russa; è

una realtà sociale alla quale le autorità russe guardano con

particolare attenzione per il contributo che tali comunità

possono dare nel sostegno alle politiche di espansione. Alcuni

esempi: oltre 100.000 russi vivono in Siria, circa 1 milione di

cittadini russi o di origine russa vivono in Israele. Di notevole,

crescente entità sono i flussi turistici dei cittadini russi ai luoghi

santi ortodossi di Israele. Diecine di migliaia di donne russe

hanno sposato cittadini dell’area mediterranea; migliaia di

emigrati musulmani provenienti dal Caucaso lavorano nell’area.

Rapporti con gli Stati

La Siria è stata da sempre un alleato della Russia ed ha

favorito le sue politiche in Medio Oriente. Il porto di Tartus

svolge una funzione importante per la presenza militare russa

nel Mediterraneo. In Siria, come si è detto, vivono circa

100.000 cittadini russi o di origine russa. In Algeria la società

Gasprom ha fatto accordi nel 2006 con la società algerina

Sonatrac per ricerche di petrolio nel Sahara. Nel 2010 il

provider russo di telefonia mobile Vimplecom ha acquistato la

principale società algerina del settore, Orascom. Da rilevare

che la Russia organizza da tempo in Algeria delle grandi

esposizioni dei propri prodotti (2010, 2011, 2013). In Libia la

società russa Lukoil ha effettuato nel 2011 il più grande

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investimento mai fatto in Africa (impianti petroliferi). La società

russa Tatneft ha acquisito 3 dei 14 contratti di appalto per

ricerche petrolifere nella Sirte e a Ghadames. La Società delle

autostrade russe – RZD ha cominciato la costruzione di 500 km

di autostrada tra Sirte e Bengasi, con collegamenti in Tunisia e

in Egitto (il 70% delle strutture di servizio sarà acquistato in

Russia). In Egitto le società russe Lukoil (dal 2004) e Novatek

(dal 2008) hanno accordi di prospezione petrolifera. L’Egitto

importa da tempo la quasi totalità del suo grano dalla Russia.

Molto intensi sono anche i rapporti con Israele: dal 2010 esiste

un accordo per la fornitura all’aeronautica russa di veicoli aerei

(UAVs) e di partenariato per la loro costruzione in loco. La

Russia è per Israele il principale sbocco per l’esportazione della

propria produzione di armamenti. Una importante

collaborazione è stata avviata negli ultimi tempi tra la società

russa Rosnano e il Fondo russo Skolkovo (che fa capo al

famoso distretto industriale e tecnologico) per scambi ed

attività comuni nell’alta tecnologia, informatica, robotica,

biomedicina, efficienza energetica, tecnologie nucleari.

CINA

La Cina è comunemente individuata dagli osservatori come una

potenza emergente nell’area mediterranea. Molto interessante

è l’approccio culturale e politico con cui i cinesi guardano e

definiscono quest’area. Infatti, per i cinesi la parte sud ed est

del mediterraneo viene chiamata con il termine Asia dell’Ovest

e Nord Africa – WANA, quasi un prolungamento del continente

asiatico, che esclude gli Stati del Golfo; mentre con il termine

Medio Oriente i cinesi individuano i 22 Stati che appartengono

alla Lega Araba, la Palestina, e i tre Stati non arabi: Israele,

Turchia, Iran.

Gli strumenti della cooperazione

Le relazioni con gli Stati arabi del Golfo sono di antica data, ma

nell’ultimo decennio hanno avuto un nuovo grande impulso. Nel

2004, la Cina ha promosso con la Lega Araba la organizzazione

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di un organismo permanente: il Forum di Cooperazione Cina e

Stati Arabi – CASCF con l’obbiettivo di promuovere la

collaborazione nei più diversi ambiti di attività: politica,

economica, di sicurezza, etc.. I risultati finora raggiunti sono

stati notevoli nei più diversi settori. In particolare, gli scambi

commerciali sono aumentati da 36,7 md di dollari nel 2004 a

200 md di dollari nel 2010. Analoga crescita si è registrata

nelle attività di investimento.

La Cina ha promosso dal 2010, proprio nella provincia

autonoma di Ningxia Hui, caratterizzata da una larga presenza

di popolazione musulmana, l’organizzazione di una piattaforma

permanente - il Forum Economico e Commerciale Arabo-Cinese

– CAEFT – alla quale fa riferimento una grande Fiera cinese per

gli investimenti e il commercio. Nella provincia dello Xinjang,

altra realtà con forte presenza musulmana, è stata avviata dal

2011 l’Esposizione Euro – Asia.

A queste iniziative si aggiungono gli accordi bilaterali di

cooperazione con i singoli Stati che la Cina ha siglato in tutto il

mediterraneo, a cominciare dall’Egitto, considerato come

“partner strategico”.

I principi ispiratori: politica ed economia

I principi che ispirano la politica cinese nell’area sono

sostanzialmente due: contribuire alla stabilità e rispettare la

non interferenza negli affari interni. Questi principi sono intesi

come la pre-condizione per promuovere al meglio le proprie

molteplici iniziative politiche, culturali e scientifiche,

economiche e commerciali. Il rispetto di questi principi è stato

rigidamente mantenuto anche in occasione dei recenti

avvenimenti della primavera araba, un fatto che ha generato

un generale consenso ed apprezzamento da parte dei

protagonisti di quegli eventi. Una conferma viene dalla

continuazione degli scambi di visite tra ministri e primi ministri

delle varie realtà avvenute nel 2011 e 2012. Non è un caso, ad

esempio, che la 5^ conferenza del Forum di cooperazione

arabo-cinese - CASCF si sia svolta nel 2012 a Tunisi.

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Aree e settori di principale di interesse

Petrolio: dal 1993, la Cina è diventata un grande importatore di

petrolio; quello proveniente dal Medio Oriente costituisce ormai

oltre la metà del totale di petrolio importato dall’estero.

Terrorismo e sicurezza: la Cina ha gravi problemi interni di

terrorismo nella sua parte occidentale, in particolare nella

regione dello Xinjiang, dove operano cellule e strutture

terroristiche che fanno capo all’ organizzazione East Turkistan,

collegata ad Al Qaeda, e presente anche nei combattimenti in

Siria. Per comprendere la natura di questo problema, segnato

da gravi atti terroristici e azioni destabilizzanti, bisogna

considerare due elementi: a) la notevole diffusione del mondo

mussulmano nella parte occidentale della Cina, ad es. nella

regione autonoma di Ningxia Hui, che ha antiche radici storiche;

b) il fatto che nei decenni passati la Cina, in particolare dopo le

grandi riforme e le aperture avviate nel 1978, ha guardato

soprattutto ad est, promuovendo lo sviluppo in quella direzione,

con il risultato che la parte occidentale della Cina è rimasta

relativamente povera ed arretrata. Soltanto nell’ultimo

decennio la Cina ha promosso una politica di riequilibrio con la

Strategia dello Sviluppo Occidentale (Westward Development

Strategy). È in queste regioni occidentali che si è manifestato il

terrorismo di matrice musulmana. Da qui un’ulteriore esigenza

– in questo caso politica - della Cina di promuovere buoni

rapporti con gli Stati del Golfo per trovare un sostegno utile a

contenere ed eliminare questo fenomeno. Scambi commerciali:

il Medio Oriente costituisce il 7° partner commerciale della Cina.

Nel 2011, gli scambi commerciali hanno raggiunto 268,9 mld di

dollari, con incrementi annui molto elevati (nel 2011 pari a

+36%). Tali scambi sono sostenuti da altrettanto elevati

iniziative reciproche di investimento.

Le risorse umane

Notevoli sono gli scambi delle persone. Ogni giorno circa 2.000

persone viaggiano dalla Cina agli Stati arabi e viceversa. In

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Cina studiano circa 5.000 studenti arabi. 500 medici sono stati

inviati dal governo cinese a svolgere il proprio servizio negli

Stati arabi. Elevata e diffusa la presenza di comunità cinesi

nell’area mediterranea. Ad esempio, durante il conflitto in Libia,

la Cina ha organizzato il rimpatrio di oltre 35.000 cittadini

cinesi presenti in quel Paese.

Rapporti con i singoli Stati

Con la Libia la Cina ha avviato rapporti fin dal 1978, l’anno

delle grandi riforme cinesi. Prima della guerra le compagnie

cinesi avevano appalti per 18 md di dollari nel settore delle

infrastrutture, ponti e strade, ferrovie, telecomunicazioni,

edilizia (appalti bloccati nel 2011; nel 2012 sono riprese le

relazioni con il nuovo governo per sbloccare la situazione e

consentire alla Cina di partecipare alla ricostruzione). Da tener

presente che nel corso del conflitto la Cina ha mantenuto

relazioni costanti con entrambe le parti. Con Israele la Cina ha

rapporti diplomatici dal 1992 ed una positiva collaborazione che

ha favorito una grande crescita degli scambi, aumentati del

200 per cento in venti anni, fino ad un volume di 10 md di

dollari nel 2011. Tutto ciò nonostante il fatto che la Cina abbia

sempre appoggiato il movimento palestinese ed abbia

riconosciuto il nuovo Stato fin dal 1988. Un particolare rapporto

preferenziale lega la Cina all’Egitto perché i cinesi non

dimenticano che l’Egitto è stato il primo Stato arabo e il primo

africano a riconoscere la nuova Cina nel 1956, favorendo

l’apertura delle relazioni tra la Cina e gli Stati arabi ed africani.

Per questa ragione l’Egitto è considerato dai cinesi un “partner

strategico”. In conseguenza di ciò la Cina ha stabilito con

l’Egitto un accordo di cooperazione strategica già dal 1999,

preso successivamente come modello per altri accordi di

cooperazione nell’area mediterranea. Con l’Egitto gli scambi

commerciali ammontano a 8,8 mld di dollari (2011) ed hanno

registrato un incremento pari a +26% rispetto al 2010. La Cina

è stato il primo Paese visitato ufficialmente dall’ex presidente

Morsi (In quella occasione la Cina ha stanziato un prestito di

200 mld di dollari).

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BRASILE

Il Brasile può essere definito come un nuovo venuto nell’area

mediterranea, anche se le sue iniziative politiche ed

economiche risalgono ormai a diversi anni fa, in pratica dai

primi anni del 2000. La promozione di un ruolo attivo nell’area

è stata perseguita con particolare intensità dai due presidenti

precedenti, Cardoso (1995-2002) e Lula da Silva (2003-2010).

Gli strumenti della cooperazione

In particolare il presidente Lula ha puntato ad organizzare una

vera e propria piattaforma diplomatica stabile, come strumento

di lavoro per promuovere collaborazioni e scambi nei più diversi

ambiti di attività. È nato così il South American and Arab

Countries Summit - ASPA che si svolge ormai regolarmente dal

2005 (il secondo summit si è svolto a Doha nel 2009, il terzo a

Lima nel 2012). Da sottolineare che con questa piattaforma il

Brasile si è fatto promotore del collegamento dei Paesi dell’area

mediterranea con tutto il Mercosur, cioè con tutta l’area

dell’America Latina. Nell’ambito di questa iniziativa generale, il

Brasile ha promosso la firma di Accordi specifici del Mercosur–

Accordi di libero commercio-FTAS - con alcuni Paesi: Israele

(2007, primo Stato firmatario di questo tipo di accordi) Egitto,

Giordania, Siria (2010), Palestina (2011). Sono in via di

perfezionamento accordi con il Marocco (politiche di co-sviluppo)

e con gli Stati del Golfo (Gulf Cooperation Council – GCC).

Accordi particolari sono stati siglati dal Brasile con Turchia ed

Iran.

Un particolare strumento di collaborazione è la Camera di

Commercio Arabo-Brasiliana- CCAB, attiva da circa 60 anni e

riconosciuta ufficialmente dalla Lega Araba.

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I principi ispiratori: politica ed economia

I principi che hanno guidato l’avvio di queste iniziative, in

sintesi, sono stati i seguenti: “inserimento per mezzo della

partecipazione” (presidenza Cardoso) e “inserimento per mezzo

della diversificazione” dei partner (presidenza Lula). In base a

tali principi le attività degli anni precedenti che erano

sostanzialmente concentrate sugli scambi commerciali bilaterali

si sono arricchite di numerose altre iniziative, in particolare

politiche, finalizzate: a) a promuovere quella che il presidente

Lula ha definito come la cooperazione Sud-Sud, b) ad ottenere

il sostegno degli Stati del Medio Oriente e del Nord Africa al

rafforzamento della posizione del Brasile nell’ambito delle

Nazioni Unite. Le iniziative economico-commerciali sono state

dunque collegate a precisi obbiettivi politici, e ciò è stato

considerato coerente con il ruolo attivo che il Brasile stava

assumendo in quegli anni nell’ambito del più ampio processo

della globalizzazione. In questa ottica politica, ad esempio, il

Brasile ha puntato a costruire buone relazioni sia con gli Stati

arabi, sia con Israele; a svolgere un ruolo di mediatore tra

Israele e la Palestina, tra Israele ed Iran. Gli avvenimenti della

“primavera araba” non hanno mutato questo approccio della

politica di penetrazione brasiliana nell’area mediterranea; anzi,

al contrario, lo hanno rafforzato a proporre agli stati dell’area

come modello la propria esperienza di transizione democratica

avvenuta negli anni ’80.

Accordi commerciali e scientifici

Israele, come abbiamo già detto, primo firmatario di accordi

con il Mercosur (2007), è l’unico paese dell’area che ha con il

Brasile dei rapporti di scambio in materia di difesa ed

armamenti. Nel 2003 l’Aereonautica militare brasiliana ha

aperto un ufficio permanente a Tel Aviv e avviato l’acquisto di

velivoli a controllo remoto per il controllo dei confini. Più di 700

industrie e centri di business israeliani vendono prodotti al

Brasile. Un altro Paese dell’area mediterranea con cui il Brasile

sta intensificando i rapporti maturati nell’ambito del Summit

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ASPA è il Marocco, con il quale è stata avviata una

collaborazione in materia di sicurezza alimentare, agricoltura

familiare, agricoltura nei terreni aridi, desertificazione, pesca

(2011).

Risorse umane: Il ruolo degli arabo-brasiliani

Il Brasile sostiene la propria politica nell’area anche

valorizzando il ruolo attivo e il contributo dei propri cittadini di

origine araba. Si tratta di una popolazione numerosa, calcolata

tra i 10 e i 12 milioni di persone, risultato di una emigrazione

iniziata a fine ‘800 e proseguita nel secolo successivo, in

particolare da Libano, Siria, Egitto, Palestina, Iraq. Questa

importante risorsa umana consente al Brasile: a) da un lato, di

dimostrare a livello internazionale di essere una società

multietnica e tollerante, in grado di garantire il rispetto e la

convivenza di etnie diverse; b) dall’altro, di facilitare l’apertura

e/o l’intensificarsi degli scambi commerciali e delle

collaborazioni (ad es., tra le professioni) con il mondo arabo.

Le dimensioni degli scambi commerciali

Grazie alla nuova strategia complessiva, gli scambi commerciali

tra il Brasile e il mondo arabo sono raddoppiati nel periodo

2005 – 2010 ed hanno raggiunto nel 2011 il volume di 25 mld

di dollari. Il Brasile vende principalmente zucchero, carne,

grano; nel Maghreb esporta macchinari agricoli, in Egitto,

Palestina, Giordania, Libano e Siria esporta servizi e materiali

da costruzioni. Dal mondo arabo il Brasile importa soprattutto

petrolio e derivati, prodotti chimici, fertilizzanti. Negli ultimi

tempi il Brasile ha promosso investimenti diretti nel settore

petrolio-gas in Libia. È opinione degli esperti che il volume degli

scambi sia ancora molto basso e destinato a crescere

ulteriormente nel prossimo futuro.

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INDIA

L’India non ha ancora definito una strategia complessiva

precisa nei confronti dell’area mediterranea. In assenza di ciò,

attualmente privilegia gli accordi bilaterali con i singoli Stati,

utilizzando a questo fine anche i legami storici che ha sempre

avuto in particolare con gli Stati del Medio Oriente e dell’area

del Golfo.

Gli strumenti della cooperazione

Preferenza per accordi bilaterali tra Stati.

I principi ispiratori: politica ed economia

Il principio politico di riferimento è quello del non allineamento;

l’approccio ai problemi è di tipo pragmatico. In genere è la

ricerca del vantaggio economico che guida la costruzione dei

rapporti politici.

Rapporti con i singoli Stati

Particolarmente intensi sono i rapporti con Israele, Egitto, Siria.

Israele: pur avendo sempre sostenuto la causa palestinese,

l’India ha stretto importanti accordi con Israele fin dagli

anni ’90 (la normalizzazione dei rapporti è avvenuta nel 1992).

Il settore principale di collaborazione è la sicurezza ed Israele è

uno dei principali fornitori di armamenti all’India. L’india

condivide con Israele attività di ricerca scientifica e tecnologica,

produzioni riguardanti le tecnologie satellitari. Modesti

investimenti indiani sono stati effettuati in Egitto e Siria nel

settore petrolifero. Con gli Stati del Golfo gli interessi indiani

riguardano soprattutto l’importazione di petrolio e la tutela

delle condizioni sociali dei numerosi lavoratori indiani che

operano in quegli Stati.

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Risorse umane: i lavoratori indiani

La presenza di lavoratori indiani nell’area è molto numerosa. Si

calcola che negli Stati del Golfo siano presenti circa 5 milioni di

lavoratori indiani. In occasione dei moti della primavera araba,

la principale preoccupazione dell’India è stata l’organizzazione

del rimpatri di 3.000 lavoratori dall’Egitto e di 17.000 lavoratori

dalla Libia.

Bibliografia:

Adamishin amb. Anatoly: La Russia e l’Europa, Fondazione U.La Malfa,

Camera Deputati, Roma, 20.1.2011.

Agenzia Internazionale per l’Energia-AEI: Rapporto sull’Energia

Mondiale, Londra, 2013.

Clini Corrado: Intervento, Safe Newsletter, Roma, 2013.

Commissione Europea: Comunicazione “Sinergia del Mar Nero – una

nuova iniziativa di cooperazione regionale”, (COM 2007-160 def.)

Bruxelles, 11 aprile 2007.

Commissione Europea: Comunicazione “Un partenariato per la

democrazia e la prosperità condivisa con il Mediterraneo meridionale”

(COM(2011) 200 def., Bruxelles, 8 marzo 2011.

Deaglio Mario: La bussola del cambiamento, Centro Documentazione

e Ricerca “Luigi Einaudi”, Torino – Lazard&Co, Milano 2007.

Istituto Nazionale per il Commercio estero–ICE: Rapporti economici e

commerciali tra l’Italia ed i Paesi del Nord Africa, Roma, 2010.

Istituto Affari Internazionali–IAI: The Mediterranean Region in a

Multipolar World, Mediterranean Paper Series 2013, Roma 2013.

Parlamento Europeo, Commissione per il Commercio Internazionale:

Parere su una nuova iniziativa di cooperazione regionale nel Mar Nero,

Bruxelles 12 ott,2007 (PE 392.060v03-00).

Parlamento Europeo, Roberta Anastase: Relazione sulla

Comunicazione della Commissione Europea: “Sinergia del Mar Nero –

Una nuova iniziativa di cooperazione regionale”, Bruxelles gennaio

2008.

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Le dimensioni strategiche della rivoluzione dello Shale Gas: le visioni condivise dalla NATO e dai Paesi del Golfo Giuseppe Morabito – Chief of NATO Defense College Regional Cooperation Course

Il 19 settembre 2013, la Middle East Faculty (MEF) del NATO

Defense College (NDC) ha organizzato un workshop

riguardante la “rivoluzione” dello shale gas e la sua

utilizzazione nei paesi della NATO e le conseguenze per i suoi

partner del Golfo Arabico. L’iniziativa è nata dalle

preoccupazioni condivise da entrambe le parti della partnership

NATO e i Paesi del Golfo, che sono state messe in risalto

durante varie conferenze ed incontri negli ultimi dodici mesi sia

nelle capitali europee sia del Golfo Arabico. In particolare tale

problematica è stata evidenziata sia durante la conferenza

denominata “Manama Dialogue 2012” organizzata dall’I.I.S.S.

del Bahrain nel dicembre 2012 sia nel corso del NATO – Gulf

Workshop organizzato dalla MEF-NDC nello scorso marzo.

Infatti, la rivoluzione geopolitico-economica conseguente dal

futuro sfruttamento dello shale gas è evidente per tutti gli

attori in gioco, ma le preoccupazioni a riguardo sono, come

logico sia, inquadrate in modo variegato e differente. Da parte

dell’Alleanza la domanda principale può essere riassunta come:

“Qual è l’impatto della rivoluzione dello shale gas sul

tradizionale rapporto che ci lega ai Paesi del Golfo?”. Per i Paesi

del Golfo la domanda centrale riguarda non tanto l’aspetto

economico ma la sicurezza, in altre parole: “Gli Stati Uniti e i

nostri alleati europei si allontaneranno dal Golfo?”. Le

differenze nel modo in cui la rivoluzione dello shale gas è

percepita e le preoccupazioni che pongono in essere non

dovrebbero essere sottostimate: esse si concretano nelle

differenti percezioni e preoccupazioni dei vari attori che

conducono il processo decisionale. Questo è il contesto nel

quale è stato organizzato il workshop: l’obiettivo era quello di

esaminare dettagliatamente tutte queste decisioni, portando

scienziati, imprenditori, economisti, “decision makers” politici e

militari della NATO a discutere insieme scambiandosi

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prospettive in un contesto interdisciplinare. Alcuni trend oggi

sembrano scontati. Entro il 2035 gli Stati Uniti produrranno 342

miliardi di metri cubi di shale gas: ciò corrisponderà al 47%

della produzione totale mondiale di gas, evidenziando una

marcata differenza dalle capacità USA che erano del 16% del

2009. Secondo le stime del Dipartimento di Energia degli USA,

lo shale gas fornirà gas agli USA per circa i prossimi novanta

anni. Quest’abbondanza (“gas bonanza”) di gas, come oggi è

chiamata dagli economisti, genererà una nuova grande

redistribuzione globale dei poteri tra importatori e esportatori

di energia. Complessivamente, Exxon Mobil prevede che

l’America settentrionale diventerà un esportatore netto di

energia entro il 2025: e l’Agenzia Internazionale per l’Energia

prevede che gli Stati Uniti supereranno come capacita di

produzione sia la Russia, maggiore attuale produttore di gas,

sia l’Arabia Saudita, maggiore produttore di petrolio. Tuttavia,

si deve tenere in conto che tanto più l’industria americana di

shale gas cresce, più cresce la domanda di “regolamentazione

legislativa” interna agli USA. Fino ad oggi non esiste una

“regolamentazione” di tipo nazionale e le condizioni per il

fracking variano a seconda della legislazione interna di ciascuno

Stato. Nel frattempo, i paesi europei e del Golfo sono e sono

stati molto meno attivi in questo campo. In Europa, questioni

di tipo legislativo, incertezze di tipo ambientale e controversie

politiche riguardanti la tecnica del fracking hanno lasciato il

continente nella confusione. Alcuni paesi, che erano

inizialmente entusiasti (ad esempio la Polonia) hanno

ridimensionato le proprie attese dopo il risultato negativo

dell’analisi costi / benefici; in altri paesi (ad esempio la Francia),

la questione è diventata di tipo politico ed è strettamente

connessa con , il già presente, ampio sfruttamento del nucleare

da parte del nostro vicino d’oltralpe. Nel Golfo, nonostante si

dica che l’Oman e il Kuwait stanno preparando progetti

ambiziosi e che ci sono segni di un dibattito in corso in Arabia

Saudita, le monarchie arabe non stanno tuttavia affrontando in

maniera propositiva la “rivoluzione” dello shale gas.

Discutibilmente, la prospettiva di una domanda asiatica per il

petrolio e il gas convenzionale che andrebbe a mitigare il

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rischio di una rilevante e immediata riduzione delle esportazioni

del Golfo nel vicino/prossimo futuro. Quanto precede, spiega,

solo parzialmente, la mancanza di entusiasmo nella regione

riguardo alla prospettiva dello sfruttamento dello shale gas.

Complessivamente, queste tendenze sembrano avvalorare una

tesi che si è diffusa negli ultimi anni tra i principali attori del

mercato dell’energia. La tesi in questione è la seguente: gli

Stati Uniti stanno attraversando un mutamento sostanziale

della loro posizione globale geopolitica, in particolare, ci sono

indicatori che evidenziano un allontanamento dal Grande Medio

Oriente (MENA Region) a favore dell’Asia. La rivoluzione dello

shale gas sta favorendo tale passaggio. Di conseguenza, il

ruolo della NATO nel Golfo è probabilmente destinato a

diminuire e le potenze asiatiche quali Cina e India sostituiranno

le potenze occidentali in quell’area. Tuttavia, una tale visione

del sistema internazionale come un’equazione a risultato zero è

troppo semplicistica per essere presa seriamente in

considerazione, date le implicazioni strategiche dell’innovazione

apportata dallo shale gas. In primo luogo, l`assunto secondo il

quale gli Stati Uniti lasceranno il Golfo Arabico, data la

ricchezza di questi giacimenti di energia, è fuorviante. Un

esempio può essere quello per cui, a differenza della

convinzione diffusa, gli Stati Uniti non hanno lasciato il Medio

Oriente seguendo il ritiro delle truppe dall’Iraq nel Dicembre

2011. In realtà, il livello dell’impegno americano nella regione,

invece che diminuire, sta aumentando in maniera rilevante.

Dando credito alla minaccia dell’Ayatollah Khamenei di chiudere

lo Stretto di Hormuz nel gennaio del 2012, la Marina

statunitense ha raddoppiato nell’area il numero delle navi in

operazioni di pattugliamento strategico. Durante lo stesso

periodo, la I Brigata della I Divisione Cavalleggeri dell’esercito

USA è stata trasferita dall’Iraq al Kuwait. Questa unità di circa

4.500 unità più carri armati e artiglieria, svolgerà un ruolo di

“forza a risposta mobile” USA nella regione del Golfo.

Complessivamente, gli Stati Uniti mantengono ancora quasi

50.000 soldati nell’area. Nel campo della vendita di armi,

Washington non è mai stata così attiva: l’acquisto degli aerei F-

16 fighter dagli Emirati Arabi Uniti nel 2013 (per un valore di 5

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miliardi di dollari americani) segue quello dell’Arabia Saudita

del 2011 di 84 aerei F-15 (un affare record di 29,4 miliardi di

dollari). Washington gioca altresì un ruolo cruciale nella

formazione dell`architettura difensiva del Consiglio di

Cooperazione del Golfo (GCC). Le monarchie del GCC fanno

sempre più affidamento sui sistemi di armi americani

(attraverso acquisti pianificati e confermati di batterie Patriot) e

sulle strutture di comando del Comando Centrale degli Stati

Uniti. Infine, l’avvio, lo scorso anno, di un primo dialogo

strategico US-GCC va nella direzione di unire tutti questi sforzi.

D’altro canto, l’idea che la Cina o l’India “rimpiazzino” le

potenze occidentali nel Golfo, come conseguenza della

rivoluzione dello shale gas, appare molto discutibile. Sebbene

le relazioni golfo-asiatiche si siano intensificate in numerosi

settori economici, la visione di un emergente nesso strategico

golfo-asiatico minimizza molte contraddizioni sostanziali.

Innanzitutto, per esempio, l’India e la Cina hanno consolidato

le loro relazioni economiche e politiche con l’Arabia Saudita,

hanno rafforzato i legami militari con Israele e, allo stesso

tempo, hanno mantenuto la cooperazione con l’Iran. Inoltre, i

legami dell’Arabia Saudita con l’India, il Pakistan e la Cina sono

stati rinforzati, nonostante il livello di competizione esistente

all’interno di tale triangolo. In realtà, questi rapporti

contraddittori dimostrano la riluttanza da parte dei Paesi del

Golfo e asiatici a pensare in maniera strategica il

riavvicinamento golfo-asiatico. In secondo luogo, la tesi di un

riavvicinamento Golfo-Asia non affronta il problema del costo.

La forza militare degli Stati Uniti rimane il garante principale

della sicurezza per i mercati globali. Com’è stato evidenziato

durante il workshop, è la supremazia strategica USA che

assicura la “pace globale”. Tale ”missione di supremazia” conta

non solo perché salvaguarda le importazioni americane ma, più

in generale, perché garantisce la stabilità del flusso globale

delle merci. Il modo di funzionare dei mercati è tale che se gli

Stati Uniti lasciassero una regione senza fornire la sicurezza

della medesima, si alzerebbero i prezzi non solo di quei prodotti

provenienti dalla suddetta area, ma su scala globale. È

possibile fare un’interessante comparazione tra l’instabilità nel

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Golfo di Aden e l’aumento della pirateria nel 2008. Un numero

crescente di pirati somali (le stime parlano di più di 1.000),

traendo vantaggio dall’assenza del principio della legge in

Somalia, ha attuato attacchi sempre più frequenti e sfrontati

contro navi commerciali che trasportavano importanti carichi

come petrolio, cibo e armi nell’Oceano Indiano e nel Golfo di

Aden. In appena un anno (2008), i costi di assicurazione per il

trasporto merci attraverso il Golfo di Aden si sono innalzati dai

900 US$ fino a 9.000 US$. Di conseguenza, la NATO e altri

attori hanno dispiegato navi per contenere tale fenomeno che

al momento appare del tutto ridimensionato. In altre parole, la

rivoluzione dello shale gas potrebbe garantire agli Stati Uniti

una leva d’influenza sui suoi fornitori di energia ma Washington

non ha alcun interesse a creare un vuoto di sicurezza nel Golfo

Persico. Tale considerazione ci conduce a un terzo punto e cioè

che l’opinione diffusa riguardo alla rivoluzione dello shale gas e

le sue implicazioni geopolitiche sovrastimano il ruolo

dell’economia nella definizione degli orientamenti politici.

L’impegno strategico statunitense ed europeo nel Golfo è

guidato non solo dalla domanda di energia, ma altresì da

interessi di sicurezza nazionale. Tra questi, la prevenzione

rispetto a un Iran in possesso dell’arma nucleare, e più

generalmente la prevenzione di una proliferazione di armi di

distruzione di massa, prevale sulle considerazioni economiche

tanto che, più che lo shale gas, sarà questo l’elemento che

guiderà la politica transatlantica nel prossimo futuro. Se si

concorda che lo shale gas non costituisce una “rivoluzione

strategica” per la NATO e i suoi partner del Golfo, la sua

importanza non dovrebbe comunque essere sottovalutata.

Come non è da sottovalutare l’evidenza che una maggiore

disponibilità’ di shale gas da parte dell’Europa potrà anche

causare la necessità di ridefinire alcuni equilibri commerciali nel

Mediterraneo tutti a scapito dei produttori della costa nord

africana. Come si può evincere dall’attenzione rivolta al futuro

economico durante il workshop, tale argomento probabilmente

assumerà maggiore risonanza nei prossimi anni e molte

sfaccettature che lo riguardano dovranno essere ulteriormente

approfondite. L’idea è che i futuri incontri siano svolti al fine di

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aggiornare e raffinare le proprie considerazioni sull’interazione

tra le tendenze del settore energetico qual è la rivoluzione dello

shale gas e i problemi inerenti, la sicurezza e la stabilità del

Golfo Arabico. Quando la pressione sale, coloro i quali

detengono il potere decisionale hanno necessità di conoscere

che tipo d’impatto avrà tale combinazione sulla pianificazione

militare e sull’impegno diplomatico della NATO nel Golfo. Da

settembre a novembre nel corso di visite all’estero e in

conseguenza di un’attenta partecipazione alle conferenze in

Italia ho notato che sempre più di frequente, ma oserei dire

sempre, i relatori che elaborano teorie sul futuro della “MENA

Region” non dimenticano mai di parlare di fracking. In

particolare, la NATO - MEF si propone di inserire la

“rivoluzione” quali uno dei principali temi da trattare nel 2014

con il titolo: Shale gas e il ”cambio della rotazione” degli

interessi geo-politico-economici mondiali“ con riferimento sia ai

rapporti NATO – Golfo sia a quelli Europa - Africa settentrionale.

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Instabilità in Medio Oriente e Sicurezza Energetica Nicola Pedde – Ricercatore Ce.Mi.S.S.

Breve introduzione storica alla rilevanza energetica del Medio Oriente

Sin dalla seconda metà del secolo XIX, il legame tra le regioni

del Medio Oriente e gli idrocarburi è stato particolarmente

intenso. Tanto da indurre nel tempo alla diffusa convinzione

che la regione fosse in realtà l’unica sorgente del prezioso

minerale.

Al contrario, invece, la rilevanza energetica del Medio Oriente è

sorta solo quale conseguenza del fatto che in tali luoghi

l’industria petrolifera ha dato avvio a quelle economie di scala

inizialmente necessarie a rendere fruttuoso lo sfruttamento del

petrolio. Determinando in tal modo una rilevanza geografica

solo economicamente giustificata, e non già

geomorfologicamente.

La disponibilità di petrolio, in sintesi, è stata per lungo tempo

attribuita solo alle aride regioni del Medio Oriente, senza

considerare quanto al contrario gli idrocarburi siano ben più

largamente presenti in molte aree del pianeta, come le

successive fasi di esplorazione hanno praticamente dimostrato.

Lo sfruttamento del petrolio ad opera degli inglesi e degli

americani, inoltre, venne concentrato inizialmente in Iran e in

Arabia Saudita, determinando l’attribuzione di un connotato di

fondamentale importanza comune ai due paesi. Anche in

questo caso, tuttavia, la rilevanza era giustificata solo dalla

protezione delle economie di scala che garantivano la

redditività delle attività svolte in loco, spesso intenzionalmente

impedendo l’espansione delle attività di esplorazione e

produzione anche in aree adiacenti, a garanzia degli

investimenti e dei lucrosi guadagni.

È con la seconda guerra mondiale, tuttavia, che la dimensione

energetica della rilevanza regionale assume proporzioni

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considerevoli, consolidandosi poi in modo ancora più marcato

nel successivo periodo della Guerra Fredda.

Anche il Medio Oriente entrò quindi nell’orbita delle alleanze

strategiche tra il Patto di Varsavia e l’Alleanza Atlantica,

andando ad assumere nel tempo geometrie variabili – non

pochi paesi transiteranno dall’uno all’altro fronte – e dimensioni

di rilevanza eterogenee – soprattutto in conseguenza

dell’ampliamento delle attività di ricerca e produzione.

I poli di rilevanza della produzione regionale, tuttavia,

restarono per lungo tempo l’Arabia Saudita e l’Iran, che al

tempo stesso costituivano anche il baluardo delle alleanze con

l’Occidente e gli Stati Uniti in particolare – oltre ad Israele,

chiaramente.

Ciò che mutò radicalmente per la prima volta il quadro del

mercato energetico globale, e quindi ancor più quello regionale,

fu il cosiddetto shock petrolifero del 1973.

La crisi sorse, ufficialmente, in conseguenza dell’appoggio

occidentale ad Israele durante la guerra dello Yom Kippur

dell’ottobre 1973, quando lo stato ebraico si trovò a dover

fronteggiare contemporaneamente l’attacco egiziano e siriano,

rispettivamente nel Sinai e sul Golan. Il sostegno economico e

militare ad Israele da parte dei paesi europei e degli Stati Uniti

– che consentì in pochi giorni ad Israele di avere la meglio sul

campo di battaglia – spinse i paesi arabi aderenti all’Opec

(Organizzazione dei Paesi Produttori di Petrolio) a decretare un

embargo dei prodotti petroliferi verso quei paesi che avevano

dichiaratamente aiutato Israele nel corso della guerra.

La decisione, tuttavia, aveva anche una motivazione

squisitamente economica. L’Opec, infatti, riteneva che i bassi

prezzi del petrolio che sino ad allora avevano caratterizzato il

mercato, dovessero essere rivisti al rialzo. Ritenevano,

pertanto, che i tempi fossero maturi per un’azione di forza

contro il sistema economico occidentale, giudicato

erroneamente debole ed in profonda crisi.

L’occasione della guerra con Israele, quindi, fornì il pretesto per

una dichiarazione di guerra sui mercati delle materie prime,

determinando in breve tempo una gravissima crisi economica

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conseguente all’indisponibilità dei flussi tradizionali di petrolio

sui mercati europei e nord americani.

Ciò che l’Opec aveva tuttavia sottovalutato, era la capacità dei

paesi consumatori di individuare nuove fonti di

approvvigionamento in tempi relativamente rapidi.

Venne avviata una poderosa azione di esplorazione in Europa,

Africa, Nord e Centro America ed Asia, incrementando in

brevissimo tempo i volumi della produzione e la capacità di

trasporto verso i tradizionali mercati di consumo, ribaltando in

meno di un decennio il disequilibrio di forze generato dalla crisi

petrolifera del 1973.

Venne dato forte impulso anche alla ricerca, avviando lo

sviluppo del mercato del gas naturale, sino ad allora

considerato di fatto materiale di scarto della produzione

petrolifera. Ed è proprio in questo ambito che iniziò

l’irreversibile – ed oggi sempre più evidente – fase di declino

del mercato petrolifero tradizionale, a graduale vantaggio di

ulteriori componenti del mercato degli idrocarburi.

L’austerity petrolifera costituì anche il volano di sviluppo delle

energie alternative e delle rinnovabili, fornendo in tal modo

impulso ad una vera e propria rivoluzione tecnologica nel

settore dell’energia, che contribuì ulteriormente alla

complessiva ridefinizione del paniere energetico globale.

In meno di dieci anni, gli effetti della “guerra petrolifera” si

erano drammaticamente rivolti contro chi la guerra aveva

voluto. I paesi occidentali misero in produzione abbondanti e

qualitativamente ottimi giacimenti di petrolio, in aree diverse

dal Medio Oriente, riducendo drasticamente la rilevanza dei

mercati tradizionali nel paniere energetico globale.

Le politiche di efficienza dei consumi dettero risultati insperati,

riducendo il fabbisogno ed incrementando la quota di energia

prodotta da fonti diverse dal petrolio. Lo sviluppo del mercato

del gas naturale aprì invece una nuova frontiera energetica,

caratterizzata da attori importanti non solo diversi da quelli

mediorientali, ma spesso ubicati nelle stesse aree di consumo.

Rivoluzionando in tal modo considerevolmente l’intera filiera

del settore.

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L’Opec dovette alla fine arrendersi all’evidenza della nuova

realtà del mercato nel 1981, a meno di dieci anni da quella

guerra che tanto improvvidamente aveva scatenato. Con i

prezzi del petrolio crollati a poco più di dieci dollari al barile, e

con un sistema dell’approvvigionamento non più esclusivo

monopolio del Medio Oriente e del petrolio, dovette ritagliare

per sé l’ingrato ruolo di “calmieratore del mercato”, stabilendo

da quel momento in poi non più quanto produrre, ma quanto

tagliare nella produzione regolando le quote dei singoli e

sempre più riottosi aderenti al cartello.

Il mercato energetico post-shock e i nuovi attori di sistema

Nonostante la straordinariamente ampia portata dei mutamenti

nel sistema energetico globale, buona parte della stampa ha

continuato nel corso degli ultimi quarant’anni ad attribuire una

valenza strategica al Medio Oriente spesso eccessiva.

Dopo i fatti dello shock petrolifero del 1973, e poi della

rivoluzione iraniana del 1978-79, la gran parte dei paesi

occidentali – come si è detto – mutò atteggiamento nella

propria strategia di accesso alle risorse, e nella gestione delle

stesse sotto il profilo del consumo.

Il mercato petrolifero è stato caratterizzato da un ampio

incremento sia sotto il profilo dell’offerta che dell’ubicazione

geografica di produzione, riducendo sensibilmente la rilevanza

del Medio Oriente, ed aprendo nuovi fruttuosi mercati in Asia,

Africa e nelle Americhe.

L’ingresso della Russia post sovietica nel mercato globale della

produzione di petrolio e gas naturale, ha ulteriormente mutato

il quadro del sistema, definendo nuovi poli e nuovi equilibri nel

mercato energetico.

E i mutamenti hanno riguardato anche la stessa area del Medio

Oriente, dove alle tradizionali aree di produzione consolidatesi

tra il XIX e XX secolo, si sono aggiunti nuovi attori sino a quel

momento rimasti nell’ombra di un diktat produttivo di fatto

imposto dagli attori storici della produzione. In trent’anni

abbiamo quindi assistito all’emergere di nuove realtà come

quelle degli Emirati Arabi Uniti, del Qatar, dell’Algeria e del

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Sudan, andando ad ingrossare le fila di un sistema produttivo

sempre più globalizzato e competitivo.

Tutto questo, chiaramente, a danno degli attori che

storicamente hanno dominato il sistema della produzione, e

che lo hanno tenuto in pugno soprattutto grazie alla propria

capacità di rappresentare elementi insostituibili del complesso

ingranaggio petrolifero.

L’Arabia Saudita, ad esempio, ha consolidato la sua importanza

a cavallo tra gli anni Settanta e la fine del XX secolo grazie a

due fattori. Il primo era chiaramente quello dei volumi

produttivi, che con oltre 9 milioni di barili al giorno di media

rappresentava un pilastro non amovibile del sistema petrolifero.

L’altro fattore era invece rappresentato dalla cosiddetta spare

capacity, ovvero la capacità aggiuntiva di produzione in

aggiunta alla quota ordinaria. Sebbene il dato sulla spare

capacity saudita sia segretato, se ne è potuta apprezzare la

dimensione nel 2003, in occasione dell’avvio del conflitto in

Iraq, quando la sola Arabia Saudita riuscì a compensare nello

stesso momento il venir meno della produzione irachena (2,5

milioni di barili regolati dal programma ONU oil for food), parte

dell’output nigeriano, interessato da attentati lungo il delta del

Niger (si stima tra i 500.000 e i 700.000 barili al giorno di

ammanco sul totale) e parte del greggio venezuelano, non

immesso sul mercato a causa di una serie di ricorrenti scioperi

nel settore petrolifero (anche in questo caso per volumi stimati

tra i 400.000 e i 600.000 barili al giorno). Per un totale di circa

3.4/4.0 milioni complessivi di barili al giorno. In pratica, la

capacità produttiva di un paese come l’Iran.

Questa straordinaria combinazione di fattori, che attribuiva

all’Arabia Saudita una straordinaria forza commerciale ed un

ancor maggiore valore strategico nel complesso del sistema

della produzione petrolifera, è andato gradualmente

diminuendo nel corso degli ultimi vent’anni. Non solo l’ingresso

della Russia nel mercato ha diminuito la valenza assoluta della

produzione saudita, ma la graduale crescita di attori come

Canada e Stati Uniti (quest’ultimo ormai prossimo a rimontare

dopo trent’anni alla testa delle nazioni produttrici), hanno

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ulteriormente vanificato il potenziale della sua spare capacity,

determinando un’irreversibile fase di lento declino.

A questi fattori, si sono poi aggiunti gli effetti della

diversificazione per fonte di energia, tramite la crescita di

rilevanza del gas naturale e delle energie rinnovabili, che

hanno ulteriormente intaccato il valore ed il ruolo dei produttori

tradizionali, determinando l’ascesa di nuovi e più competitivi

attori sul mercato.

Miti e leggende delle guerre del petrolio nel Medio Oriente contemporaneo

Alla luce del mutato scenario complessivo nel sistema globale

della produzione petrolifera, parlare oggi di “guerre del

petrolio” risulta alquanto improbabile, e spesso funzionale più

ad interessi terzi rispetto a quelli energetici.

Il mercato di settore gode nel suo complesso di un certo

consolidato equilibrio, garantito soprattutto dal fatto che le

compagnie petrolifere, siano esse quelle nazionali che quelle

private, possono conseguire i profitti attesi solo in costanza di

condizioni generali di equilibrio e stabilità. Non c’è variabile

peggiore di un conflitto per chi investe denaro e tecnologie in

un settore di sviluppo, soprattutto in uno come quello

petrolifero, dove i ritorni sugli investimenti sono prodotti nel

medio e lungo periodo, e quindi necessariamente risultanti da

una prolungata stabilità dei mercati e delle aree di produzione.

Il mercato è poi oggi non più dominato da cartelli, come negli

anni Sessanta e primi Settanta con l’Opec, ma al contrario da

un oligopolio diffuso della produzione, e da una eterogenea

matrice di consumo in seno ai paesi industrializzati.

In quest’ultimo ambito, infatti, la composizione del sistema di

consumo si è divisa tra paesi altamente industrializzati (in

alcuni casi definiti post-industriali) ed emergenti, con matrici di

consumo spesso diverse tra loro. La crescita della produzione

industriale cinese ha assorbito la gran parte della produzione

tradizionale di petrolio delle aree del sud est asiatico e del

Golfo Persico, espandendo il suo raggio sino all’Africa e al Sud

America. Al tempo stesso gli Stati Uniti e soprattutto l’Europa

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hanno diversificato le proprie matrici di consumo,

incrementando fortemente quello del gas naturale e delle

rinnovabili. In questo modo sono anche mutati largamente gli

attori tradizionali del rapporto bilaterale tra fornitore e

consumatore, con l’emergere di nuovi poli di sviluppo.

L’Algeria e la Libia si sono affermate come produttrici di

petrolio prima, e come poli di sviluppo del gas naturale poi,

diventando un nuovo perno del sistema di approvvigionamento

del sistema europeo. La Russia, già storicamente legata

all’Italia da accordi commerciali sin dai tempi più cupi della

Guerra fredda, ha assunto il ruolo di player di riferimento nel

settore del petrolio e del gas nell’est europeo e nei Balcani,

soprattutto grazie allo sviluppo di una estesa rete di gasdotti in

collaborazione con la Turchia.

Quest’ultima si è invece affermata come snodo strategico delle

direttrici di trasporto del gas e del petrolio in direzione

dell’Europa e del Mediterraneo, approfittando della propria

collocazione geografica per fungere da raccordo pressoché

obbligato di conciliazione dei divergenti interessi russi ed

americani nella regione. In tal modo, rispondendo all’esigenza

di impedire il transito attraverso l’Iran lungo la più logica e

conveniente rotta nord-sud, ma anche favorendo il bypass della

Russia attraverso il corridoio est-ovest della Baku-Tblisi-

Ceyhan, che per prima aveva scardinato il monopolio delle

direttrici russo centriche sviluppate da Mosca ai tempi

dell’Unione Sovietica e poi perpetuate nell’epoca della

Federazione di Stati Indipendenti.

Sul fronte dei conflitti, infine, una parte residuale delle crisi

attualmente in atto nella regione del Medio Oriente ha una

effettiva valenza energetica.

Quella caratterizzata dagli elementi più marcatamente di

interesse energetici è senza dubbio la crisi libica, le cui

dinamiche iniziali restano ancor oggi avvolte da una spessa

coltre di mistero, e soprattutto ipocrisia, tra alcuni paesi

europei. In modo particolare, forte è il sospetto che, ad una

moderata forma di protesta locale – sorta per motivi

prettamente economici e sociali nelle aree della Cirenaica – si

sia inserita prepotentemente l’azione della Francia e del Qatar,

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al fine di favorire l’allargamento del fronte di crisi determinando

la fine del regime di Muhammar Gheddafi. La rivolta,

aumentata per dimensione e, soprattutto, per capacità di

reazione da parte governativa, ha determinato la necessità

dell’innalzamento dello scontro e del coinvolgimento di alcune

nazioni occidentali. Senza il cui apporto non sarebbe in alcun

modo stato possibile avere la meglio sulla ben oliata macchina

della sicurezza del regime libico.

Le finalità di una crisi di portata così ampia, sono state da molti

individuate nel tentativo francese di scardinare il ruolo italiano

in Libia, prevalentemente nel settore energetico, ma anche

nell’imminenza dell’erogazione del considerevole importo che

l’Italia si era impegnata a versare alla Libia quale

compensazione per i danni di guerra.

Non ha invece una motivazione energetica la crisi in atto in

Siria, che rientra al contrario nel tentativo di scardinare il

sistema delle alleanze regionali dell’Iran, nell’ambito di una più

ampia ed articolata inimicizia tra Tehran e Riyadh. Lo stesso

dicasi nel caso dell’Egitto, che, nonostante sia un produttore di

petrolio e gas, è transitato nel corso degli ultimi vent’anni da

esportatore ad importatore netto di energia, in conseguenza

dell’esplosione demografica del paese e della contestuale

incapacità di diversificazione della filiera industriale nazionale.

Anche l’instabilità dell’Iraq è frutto di una lotta settaria senza

quartiere all’interno del contesto nazionale, soprattutto tra le

comunità sciite e sunnite, e l’unico elemento di connessione tra

crisi ed energia è riscontrabile nelle regioni settentrionali, dove

le minoranze curde cercano di rendersi autonome dal governo

centrale, gestendo in parziale autonomia la produzione locale.

In conclusione, quindi, è possibile ribadire come la struttura

global del sistema energetico sia stata oggetto di variazioni

importanti nel corso degli ultimi quarant’anni, mutando

profondamente la fisionomia della rilevanza che un tempo

poteva essere attribuita alle regioni del Medio Oriente. La gran

parte delle crisi che interessano la regione, al contrario, sorge

proprio dall’incapacità dei paesi produttori nell’aver saputo

diversificare le proprie economie rispetto al sistema dei rentier-

state, andando progressivamente ad indebolire la propria

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capacità di sostenere le politiche economiche e sociali che da

anni regolavano gli equilibri delle società della regione.

La gran parte delle recenti e meno recenti crisi del Medio

Oriente, quindi, poco ha a che vedere in modo diretto con

l’elemento energetico, affondando al contrario le ragioni

storiche delle stesse nel malcontento maturato a livello sociale

dopo anni di mala gestione delle finanze pubbliche e dei

programmi di politica industriale.

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Sicurezza energetica eurasiatica e cooperazione regionale

Alessandra Russo – Analista indipendente

La transizione geopolitica che ha fatto seguito alla

disintegrazione dello spazio sovietico e alla (re)integrazione di

Cina e India nell’economia globale ha portato al centro delle

considerazioni strategiche delle grandi potenze una regione,

quella centroasiatica, che in precedenza era stata a lungo

considerato un hinterland amorfo del nucleo imperiale russo. La

rilevanza attribuita alla regione caucasica è dovuta, da una

parte, alla presenza di ingenti quantità di risorse naturali e

materie prime (non solo idrocarburi, ma anche risorse idriche,

metallifere e minerarie); e dall’altra, al posizionamento pivotale

degli “stan” 22 rispetto sia ai maggiori esportatori di prodotti

energetici che ai mercati maggiormente in espansione. La

centralità geopolitica di questo spazio regionale va rintracciata

in riflessioni che predatano il recente riemergere della logica

“Great Game”, come quella di Mackinder, che caratterizza

l‘Eurasia come una massa continentale inaccessibile dal mare e

quindi non esposta agli attacchi delle potenze marittime.

Mackinder identifica questi territori come il “cuore” dell‘Isola-

Mondo, il nucleo dell‘heartland e quindi il pivot attorno a cui

ruota lo sviluppo globale (Mackinder 1904). In effetti, l‘Asia

centrale si è sempre configurata, nel corso dei secoli, come

crocevia di civiltà, punto di incontro e di scambio economico,

religioso, culturale: è sufficiente pensare al revival subito dalla

retorica sulla “Via della Seta” e agli accostamenti con

l’immagine del “ponte” (quando non di “buffer”, secondo le

interpretazioni e i risvolti politici) tra il Medio Oriente, la Cina, il

sub-continente indiano e il fianco meridionale russo. Spykman

rivede parzialmente la teoria di Mackinder, stabilendo la

centralità del rimland, ossia la costa eurasiatica; se secondo

Mackinder, l‘attore in grado di controllare l‘heartland, è

22 Kazakistan, Kirghizstan, Tajikistan, Turkmenistan, Uzbekistan.

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destinato a dominare non solo l‘Eurasia ma il mondo intero, per

Spykman, la posizione di predominio globale è invece

condizionata dal controllo del rimland (Spykman 1944). Nel

corso degli anni Novanta, non pochi autori hanno rivisto queste

teorie per applicarle al caso eurasiatico, arrivando ad affermare

che “who controls the Silk Pipelines controls the world”

(Robbins 1993).

Secondo i dati forniti per il 2011 dall’Energy Information

Administration, principale agenzia statunitense responsabile

della raccolta, analisi e disseminazione di informazioni relative

proprio al mercato energetico globale, Kazakistan, Uzbekistan e

Turkmenistan contribuiscono in modo preponderante alla

produzione di petrolio e gas. In particolare, il Kazakistan è

secondo solo alla Russia, nella regione eurasiatica, per quanto

riguarda sia la presenza di riserve petrolifere (concentrate

principalmente a Tengiz e Karachaganak) che la produzione di

petrolio; mentre Turkmenistan e Uzbekistan sono

rispettivamente il secondo e terzo maggiore produttore di gas

su scala regionale, ancora dopo la Russia.

Kazakistan Turkmenistan Uzbekistan Mondo

Produzione tot.

petrolio (migliaia

di barili al giorno)

1,605.88

*18*

244.07

*39*

102.58

*49* 87,483

Riserve accertate

petrolio (miliardi

di barili)

30.00

*12*

0.60

*43*

0.59

*44* 1,526

Produzione tot.

gas (migliaia di

metri cubi)

11.83

*42*

66.2

*20*

63

*14* 3,168

Riserve accertate

gas (migliaia di

miliardi di metri

cubi)

2.41

*14*

7.50

*6*

1.83

*18* 193.71

Petrolio e Gas in Kazakistan, Turkmenistan, Uzbekistan, secondo i dati forniti da U.S.

Energy Information Administration per il 2011. I numeri segnalati con asterisco

indicano la posizione del paese a livello globale, per l’anno precedente (fonte:

www.eia.gov)

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Pur non potendo contare su ingenti quantità di idrocarburi sul

proprio territorio, il ruolo di Kirghizistan e Tajikistan nella filiera

produttiva energetica regionale non è da trascurarsi, in virtù

della concentrazione di risorse idriche, sempre più funzionali

quando non essenziali alla produzione di energia (generazione

elettrica; estrazione, trasporto e lavorazione di petrolio, gas e

carbone, per esempio il mantenimento della pressione nei

giacimenti; irrigazione delle culture destinate alla produzione di

biocarburanti e sabbie bituminose, IEA World Energy Outlook

2012).

Un approccio regionale?

In questo contesto, quindi, sia attori regionali che extra-

regionali (non ultimi, Stati Uniti ed Unione Europea)

identificano la funzione ultima del pivot centroasiatico come

integrazione continentale, del transito e dell‘offerta di contatti

via terra sia in direzione est-ovest che nord-sud.

Mappa dei corridoi energetici della regione eurasiatica (fonte: JBC Energy GmbH)

Proprio per questo, un approccio “connettore” all’Asia centrale

(Matveeva 2007), concentrato sullo sviluppo infrastrutturale e

di corridoi per il trasporto di idrocarburi, ha ispirato alcune

iniziative di cooperazione su base regionale, tra cui

l’Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione: interessante,

quest’ultima, se si considera che i suoi membri controllano

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circa un quarto delle risorse petroliere mondiali e più della

metà di quelle gasiere, e che vi partecipano come osservatori o

partner di dialogo paesi dal peso strategico nell’export (Iran) e

nell’import (India). La struttura cooperativa alla base dell’OSC

ha origini negli anni Novanta con l’avvio di negoziati sulla

delimitazione e smilitarizzazione delle frontiere sino-russe e

sino-kazakhe, sino-kirghise e sino-tagike. La definizione dei

confini ha rappresentato l‘input per la formazione del gruppo

Shanghai-5, che gradualmente ha esteso la propria agenda al

coordinamento in materia di “sicurezza non convenzionale” e si

è istituzionalizzata prima nel Forum di Shanghai, e poi

nell’Organizzazione vera e propria, che resta imperniata sulla

diarchia sino-russa e influenzata dalle criticità di questo

condominio egemonico. L’equilibrismo di potere tra Mosca e

Pechino ha investito anche l’interpretazione dell’OSC come

emergente blocco geoeconomico. Per Pechino una delle

funzioni primarie della propria politica centroasiatica è proprio

quella di fornire garanzie al paese sull’approvvigionamento

energetico; tuttavia, le reazioni cinesi rispetto a meccanismi

multilaterali in materia di sicurezza energetica si sono rivelate

alquanto tiepide, soprattutto in riferimento al fatto che, tra il

2006 ed il 2007, a Mosca sia stata preconizzata l’istituzione di

un club energetico collegato alla struttura dell’OSC – non

un’OPEC del gas che potrebbe indurre i paesi importatori alla

diversificazione delle rotte, ma piuttosto un comune dispositivo

regolatore delle esportazioni di idrocarburi. Nonostante le

reciproche reticenze tra Cina e Russia, l’OSC qualche timida

mossa in quella direzione l’ha compiuta, almeno a livello

declaratorio: già nel 2004 aveva infatti esteso la propria

agenda ad includere il settore energetico, con la firma di un

piano di azione che gettava le basi per una cooperazione tra la

triade dei membri produttori (Russia, Kazakistan, Uzbekistan) e

quella dei consumatori (Cina, Kirghizistan, Tajikistan).

Successivamente, durante il Vertice OSC di Mosca, nell’ottobre

del 2005, il Segretario Generale Zhang Deguang ha annunciato

l’intenzione degli stati membri di promuovere progetti

energetici congiunti, e la stessa tematica della sicurezza

energetica si è rivelata centrale anche durante il Vertice di

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Bishkek nell’agosto del 2007, quando i membri hanno stabilito

un comune denominatore di interesse per un mercato

energetico unificato. Proprio in quella occasione è tornato alla

ribalta il wishful thinking del Kazakistan, che negli ultimi venti

anni ha ripetutamente giocato nel ruolo del visionario

eurasiatista e che in una ipotesi di strategia energetica comune

“asiatica” (da notare: non solo “centroasiatica”) avrebbe

incluso allora un’agenzia OSC per l’energia e una borsa OSC

per le transazioni sul mercato energetico (RiaNovosti

16/08/2007). Eppure, al netto delle dichiarazioni e della firma

di accordi raramente resi operativi, le politiche energetiche dei

paesi membri dell’OSC sembrano viaggiare su binari diversi da

quelli della cooperazione regionale; su quest’ultima prevale

infatti la preferenza sia russa che cinese per logiche bilaterali e

l’avanzamento di due tipi di strategie perseguite in particolare

dai paesi centroasiatici, l’una tesa a bypassare il territorio russo,

eludendo le rotte tradizionali di reminiscenza sovietica, e l’altra

tesa a capitalizzare il proprio potenziale di transito a vantaggio

del proprio sviluppo economico, commerciale e infrastrutturale,

tramite investimenti cinesi. L’avvicendarsi di negoziati “a

geometria variabile” e le intricate politiche multi-vettoriali

perseguite soprattutto da Astana e Ashgabat mostrano quanto i

tre aspetti sopraindicati siano interconnessi, e tangibili, per

esempio, in due progetti infrastrutturali promossi dalla Cina,

quali l’oleodotto Kazakistan - Xinjiang ed il gasdotto

Turkmenistan – Xinjiang. Le prime importazioni dirette cinesi

dai giacimenti centroasiatici sono transitate infatti

dall’oleodotto Atyrau-Alashankou, e dal gasdotto che si snoda

da Sama-Depe ad Horgos. Nel primo caso, l’oleodotto è volto

non solo a saziare la sete energetica cinese (secondo dati

riportati dall’EIA, nel 2011 il petrolio kazako ha rappresentato

poco più del 4% delle importazioni cinesi totali di petrolio,

mentre quello russo poco meno dell’8%), ma anche a

soddisfare le velleità kazake di potenziamento della propria

capacità di export, diversificando le rotte, cercando di aggirare

gli ostacoli legati allo status del mar Caspio e assicurandosi

sbocchi sui terminali del Mar Nero. Per questo motivo Astana è

impegnata su più fronti, tuttavia non escludendo mai dai propri

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calcoli strategici Mosca. Ciò è vero anche per quanto riguarda

l’oleodotto Atyrau-Alashankou, attraverso cui passa non solo il

petrolio kazako ma anche quello russo (dalla Siberia

Occidentale). Nel secondo caso, l’arteria (che transita

attraverso l’Uzbekistan e che dovrebbe in futuro raggiungere

anche Tajikistan e Kirghizistan) ha come obiettivo principale

quello di emancipare le rotte del gas turkmeno e di trovare

nuovi mercati a est; nel 2011, infatti, la Cina ha importato 30

miliardi di metri cubi tra gas naturale liquefatto e gasdotti, e la

metà di questi sono passati attraverso il corridoio

centroasiatico (EIA). Nonostante non si possa certamente

azzardare un’ipotesi di relativa marginalizzazione di Mosca nella

formulazione delle strategie energetiche centroasiatiche, sia

l’oleodotto Kazakistan - Xinjiang che il gasdotto Turkmenistan

– Xinjiang possono essere considerati il risultato di una politica

energetica russa che è figlia di una sfiducia di fondo nei

confronti di Pechino, della consapevolezza del proprio peso

specifico in materia di approvvigionamento energetico ma

anche di un relativo indebolimento di Mosca nei confronti del

“giardino dell’impero”. D’altro canto, i ritardi nella costruzione

sia di un oleodotto russo che transitasse verso la Cina (quello

che oggi è conosciuto come corridoio Siberia Orientale –

Oceano Pacifico ed è finanziato da prestiti cinesi) che del

gasdotto dell’Altai (dalla Siberia occidentale al nord-ovest della

Cina), hanno in parte accelerato la presa di Pechino sugli “stan”.

Oleodotto

Kazakistan

Xinjiang

ESPO Gasdotto

Turkmenistan

Xinjiang

Gasdotto

dell’Altai Fase I Fase II

Lunghezza

(km) 2228 2757 1963 1833 2800

Capacità

max.

147 milioni

di barili

all’anno

587

milioni

di

barili

all’ann

o

Da 220 a

366

milioni

di barili

all’anno

40 miliardi di

metri cubi

all’anno

30

miliardi di

metri cubi

all’anno

Corridoi Russia-Cina e Asia centrale-Cina a confronto

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L’Unione Europea in disparte?

L’Unione Europea si è presentata come “attore tardivo” nello

scenario centroasiatico, con l’adozione nel 2007 da parte del

Consiglio di una strategia dedicata alla regione, dettata anche

dalla necessità di diversificare le forniture energetiche,

riducendo la dipendenza da approvvigionamenti e corridoi a

gestione russa. In riferimento al settore energetico, da una

parte l’UE ha lanciato, nel 2004, l’Iniziativa di Baku, che mirava

ad una progressiva integrazione dei mercati energetici dell’UE,

del Mar Caspio e del Mar Nero, e nel 2010, l’Investment Facility

for Central Asia per promuovere investimenti infrastrutturali a

livello regionale; eppure, dall’altra parte, Bruxelles è mossa sul

piano bilaterale, attraverso i Memorandum di Intesa con

Kazakistan, Uzbekistan e Turkmenistan. Questi vettori di

cooperazione non hanno tuttavia arginato la relativa

marginalità europea, che si è manifestata con crudezza in un

contesto in cui Mosca si sta gradualmente voltando ad est

(emblematico lo sviluppo dei giacimenti siberiani e di Sakhalin

e di ESPO, ma anche la proposta di un gasdotto trans-coreano

proprio per il transito di gas russo). Mentre quello europeo è un

mercato in contrazione, l’altro grande mercato occidentale,

quello statunitense, sta puntando sulla produzione di shale gas

per rendersi indipendente dalle importazioni di LNG dalla

Russia; allo stesso tempo, il Giappone post-Fukushima ha

aumentato la sua domanda di petrolio, gas e carbone potendo

sempre meno contare sulla produzione di energia nucleare. Ad

indebolire ulteriormente ogni tentativo di strategia energetica

comune europea vi sono, paradossalmente, gli stessi stati

membri e le compagnie energetiche europee, che perseguono i

propri obiettivi talvolta non allineandosi all’interesse di creare

rotte alternative rispetto alle infrastrutture a partecipazione

russa – e persino contribuendo alla realizzazione di pipeline in

competizione strategica rispetto ai progetti promossi dall’UE.

Fra questi ultimi, il corridoio sottomarino transcaspico (da

Turkmenbashi a Baku) dovrebbe trasportare verso i mercati

europei gli idrocarburi turkmeni e kazaki, convogliandoli verso

il corridoio del Caucaso meridionale (per ora alimentato da

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risorse azere). Nonostante le trattative trilaterali tra Bruxelles,

Baku e Ashgabat abbiano recentemente (settembre 2012)

confermato la comune volontà di sviluppare il corridoio

transcaspisco, i sogni energetici turkmeni, proprio come quelli

russi, guardano sempre meno ad ovest e ai mercati europei, e

sempre più a sud, verso la realizzazione di TAPI, il corridoio

trans-afgano che trasporterebbe il gas turkmeno verso il

Pakistan e l’India (è importante sottolineare che nella scelta

turkmena non vi è solo una “visione” alternativa alla direttrice

occidentale degli export, ma anche la pragmatica

consapevolezza che il progetto transcaspico si sconta con la

realtà delle dispute sullo status legale del Mar Caspio).

Qualche riflessione conclusiva

L’atteggiamento dell’UE nei confronti del complesso

centroasiatico ha spesso esitato tra un approccio regionale e

un’attitudine orientata a valorizzare le specificità dei singoli

paesi, finendo spesso col realizzare, perciò “projects with a

national orientation under a regional strategy rather than, as

desired, regional projects with national implementation”

(International Crisis Group 2006). La strategia del 2007 ha

apparentemente assecondato una tendenza bilateralista che

pure è prevalente, come già affermato, nel quadro della

cooperazione energetica centroasiatica; l’Unione Europea ha

cercato solo limitatamente e recentemente una sponda nelle

organizzazioni regionali esistenti quali l’Organizzazione di

Shanghai per la Cooperazione, senza peraltro specificare i

termini in cui questi contatti potrebbero realizzarsi. In altri

termini, nonostante Bruxelles abbia tentato di elaborare una

strategia interregionale per interfacciarsi con il complesso

centroasiatico, ha dovuto tenere in considerazione il fatto che i

cinque “stan” non si sono coagulati in dispositivi regionali che

prescindano dal ruolo della Russia e della Cina. Questi sono i

due attori a cui continuare a guardare per cercare di risolvere il

groviglio dei corridoi energetici attraverso cui passano le

risorse centroasiatiche; tuttavia, se da una parte la posizione di

transito può esporre gli “stan” a dinamiche di interdipendenza

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asimmetrica (Russo 2012), dall’altro la produzione di

idrocarburi può offrire loro margini di manovra e l’opportunità

di giocare carte preziose su più tavoli: da Mosca a Pechino,

passando per Bruxelles.

Bibliografia:

International Crisis Group, Central Asia: What Role for the European

Union?, Asia Report No. 113, 10/04/2006.

Mackinder H.J., The Geographical Pivot of History, The Geographical

Journal, No. 23, 1904.

Matveeva A., The Regionalist Project in Central Asia, Working Paper

No. 13, Crisis States Research Centre, London School of Economics,

March 2007.

Paik K., Sino-Russian Oil and Gas Cooperation: The Reality and

Implications, Oxford University Press (Oxford Institute for Energy

Studies), 2012.

Robbins G., The Post-Soviet Heartland: Reconsidering Mackinder,

Eurasian Studies, Vol. 1, No. 3, 1994.

Russo A., Turchia in transito: essere o non essere un hub, questo è il

problema!, Meridiani – Relazioni Internazionali, 21/03/2012.

Spykman N.J., The Geography of the Peace, Harcourt, Brace and

Company, 1944.

Verda M., Gli accordi di sicurezza della Federazione Russa, in

Clementi M. (a cura di), Gli accordi di sicurezza nel sistema

internazionale contemporaneo (1989-2010), Rubbettino, 2012.

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Sicurezza ed indipendenza energetica: energia idroelettrica, fattore di sviluppo locale e di tensione

regionale. Il caso dell’Asia Centrale Lorena Di Placido – Ricercatore Ce.Mi.S.S.

La nascita delle repubbliche post-sovietiche dell'Asia Centrale

ha implicato un complessivo ripensamento della distribuzione

delle risorse naturali locali, generando tensioni transfrontaliere

che durano tuttora e creano una reale minaccia alla sicurezza

regionale. La gestione dei corsi d'acqua risulta di cruciale

importanza per gli stati nei quali hanno origine - Kirghizistan e

Tagikistan, poveri e politicamente deboli - che ambiscono

all'indipendenza energetica mediante la costruzione di centrali

idroelettriche. Di contro, i paesi a valle – Uzbekistan e

Kazakhstan - politicamente più rilevanti e ricchi di idrocarburi e

minerali - rivendicano l'utilizzo di quelle acque per coltivazioni

agricole fondamentali per le economie nazionali. Nella

problematica gestione idrica dello spazio centroasiatico entrano

in gioco gli interessi di potenze regionali e di istituzioni

transnazionali che sostengono i diversi progetti per la

costruzione delle centrali. Nel complesso, il livello di tensione

resta piuttosto elevato: alcuni tratti di confine sono tuttora

minati e periodicamente si verificano scontri armati in alcune

località di frontiera.

Gestione delle risorse idriche e crisi transfrontaliere in Asia Centrale

Unica nelle sue funzioni essenziali per la vita, non rinnovabile

ed, anzi, insostituibile, l’acqua rappresenta una fondamentale

risorsa naturale, spesso definita come “oro blu”. Dato il suo

progressivo diminuire in diverse parti del globo, è opinione

comune a molti analisti che entro il 2030 numerose crisi

transfrontaliere saranno determinate proprio

dall’accaparramento delle risorse idriche, con il rischio di

generare conflitti dal Medio Oriente alla Cina, dall’India

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all’Africa e all’America Latina. Lo spazio centroasiatico,

retroterra della missione ISAF, prossima al profondo

ridimensionamento previsto per il 2014, si inserisce in tale

quadro, rappresentando un chiaro esempio di come un fattore

di sviluppo potenziale per le comunità locali possa costituire, in

realtà, una pericolosa fonte di tensione transfrontaliera e

persino una minaccia per la sicurezza regionale. La questione

dello sfruttamento delle risorse idriche in Asia Centrale è

esplosa all’indomani della dissoluzione dell’Unione Sovietica,

esasperando una complessità che trova le sue ragioni proprio

nella modalità di utilizzo dell’acqua imposta da Mosca. La logica

di interdipendenza quasi assoluta tra le diverse componenti

dell’URSS imponeva un criterio di contrappesi tale per cui

ciascuna repubblica federata veniva specializzata nella fornitura

di una particolare risorsa della quale abbondava (ad esempio

l’acqua), ricevendone in cambio un’altra della quale era priva

(ad esempio gas, elettricità o petrolio per finalità industriali o

per il riscaldamento). Con l’indipendenza, tale meccanismo di

compensazione ha cessato di esistere e ciascuna repubblica ex

sovietica ha acquisito il controllo sulle risorse nazionali. Il dato

saliente è che mentre gas e petrolio sono monetizzabili e

comunemente venduti sul mercato, lo stesso non accade per

l’acqua. Per di più, in Asia Centrale le repubbliche ricche di

acqua - Kirghizistan e Tagikistan - sono anche le più povere

delle altre risorse, le più arretrate economicamente - si pensi

che per entrambi i paesi ben oltre un terzo del PIL è dato dalle

rimesse dei migranti - e deboli politicamente, mentre quelle

che mancano di acqua - Kazakhstan, Turkmenistan e

Uzbekistan - sono quelle che ne hanno una grande necessità

per fini agricoli, che abbondano di gas e petrolio e che godono

dei migliori risultati in campo economico, nonché della

maggiore influenza in ambito politico. Quindi, dal 1991 ad oggi

è avvenuto che, in modo implicito e spontaneo, si siano

delineati schieramenti contrapposti animati da interessi

fortemente contrastanti, i cui paesi, oltre a contendersi

l’accaparramento della risorsa naturale di cui scarseggiano,

sono anche portatori di istanze politiche profondamente diverse

capaci di creare uno stato di tensione transfrontaliera profonda

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e costante, talvolta al limite dello scoppio di un conflitto armato.

Non può essere dimenticato, tuttavia, che già le politiche

sovietiche di sfruttamento estremo e irrazionale dei fiumi ne

avevano diminuito in misura drammatica la portata di acqua,

impoverendoli al punto che alcuni di essi si sono via via esauriti

nel loro fluire, lasciando a secco le popolazioni che un tempo ne

erano fruitrici finali e generando disastri ambientali di

straordinaria portata, come quello del Mare d’Aral. Negli

anni ’60 del secolo scorso, la decisione delle autorità sovietiche

di privilegiarne l’utilizzo per la produzione di cotone, piuttosto

che per la pesca, ha indotto a una massiccia deviazione dei

fiumi tributari – Amu Darya e Syr Daria, originari

rispettivamente dai monti del Pamir (Tagikistan) e del Tien

Shan (Kirghizistan) – che ne ha provocato, tra il 1963 e il 1987,

il depauperamento per circa il 60% del suo volume. Tempeste

di sabbia e di sale hanno devastato i territori adiacenti,

compresi tra Kazakhstan e Uzbekistan, distruggendo le

produzioni agricole e compromettendo la salute delle

popolazioni residenti. Nonostante avessero generato uno tra i

maggiori disastri ambientali nella storia dell’umanità, i

pianificatori sovietici hanno comunque proseguito nello studio

di fattibilità per la deviazione dei fiumi siberiani, sempre per

sostenere la coltivazione del cotone in Asia Centrale. Su tutto il

problema della gestione delle risorse idriche regionali gravano,

inoltre, le tensioni dovute alla definizione strumentale dei

confini avvenuta nei primi anni dell’era staliniana, allorquando i

sovietici riconquistarono i territori centroasiatici dell’ex impero

zarista, scegliendo di suddividerli nelle attuali cinque entità,

che prendono il nome dal gruppo etnico dominante, accanto al

quale ne vivono numerosi altri. Questo ha determinato una

situazione particolarmente tesa nella Valle del Ferghana,

un’area complessa, divisa tra Uzbekistan, Kirghizistan e

Tagikistan, che risultano protagonisti delle più aspre tensioni

regionali dovute allo sfruttamento dell’acqua, a causa dei

progetti di costruzione di nuove centrali idroelettriche: Rogun

in Tagikistan e Kambarata 1 e 2 in Kirghizistan.

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Rogun

Il progetto di Rogun prevede la costruzione sul fiume Vakhsh

(nel sud del Tagikistan) di quella che potrebbe diventare la diga

più alta del mondo (334,98 metri di altezza), per un costo

complessivo che viene stimato in 2-5 miliardi di dollari; una

volta entrata in funzione, la centrale idroelettrica ad essa

collegata dovrebbe produrre 3600 MW. Inizialmente proposta

nel 1959, la costruzione di Rogun è iniziata nel 1976, per poi

venire congelata al momento della dissoluzione dell’Unione

Sovietica. Nel 1994 la Russia ha firmato con il Tagikistan un

accordo per la conclusione dei lavori, in seguito denunciato

dalle autorità di Dushanbe per inadempienza. Nell’ottobre del

2004, ulteriori negoziati bilaterali hanno portato agli accordi

con la RUSAL per ultimare Rogun, insieme ad altri progetti

finalizzati alla produzione di alluminio. Con vicende altalenanti,

una parte dei lavori è stata ultimata tra il 2010 e il 2011. Il

2015 resta la data presumibile per il completamento della

centrale, nuovamente sospeso ad agosto 2012 in attesa di uno

studio di fattibilità del progetto da parte della Banca Mondiale,

richiesto dal governo tagiko. L’Uzbekistan ha vivacemente

contestato la realizzazione del progetto, nella convinzione che,

a lavori ultimati, ci sarebbe stato un depauperamento

massiccio dei corsi d’acqua vitali per le proprie coltivazioni di

cotone, del quale è il sesto produttore mondiale. Inoltre,

secondo alcuni esperti, l’area di interesse per la costruzione

della diga sarebbe a grave rischio sismico. Le rassicurazioni

delle autorità di Dushanbe riguardo alla garanzia di sufficienti

risorse idriche comunque a disposizione per tutti i fruitori di

quelle acque, grazie a tunnel che le trasporterebbero a valle

aggirando la diga in costruzione, non hanno convinto gli uzbeki,

che, nei periodi di maggiore tensione bilaterale, hanno

utilizzato vari mezzi di dissuasione o ritorsione nei riguardi del

Tagikistan, che vanno dal congelamento delle relazioni

diplomatiche al blocco stradale e ferroviario (con ripercussioni a

cascata per l’intera regione e sui rifornimenti alla coalizione

multinazionale in Afghanistan), al fermo delle forniture di gas.

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La costruzione di Rogun, sostenuta anche da istituzioni

internazionali come il Fondo Monetario Internazionale, oltre alla

Banca Mondiale e agenzie statali come USAID, detiene una

rilevanza di carattere transnazionale. Dal 2007, nell’ambito del

programma di cooperazione CAREC (Central Asian Regional

Economic Cooperation), l’Asian Development Bank ha

inaugurato il progetto CASA 1000 (Central Asia South Asia

Electricity Trade and Transmission Project, cofinanziato da

Banca Mondiale, Banca Islamica di Sviluppo ed alcuni

investitori privati) nel quale il Tagikistan è coinvolto insieme al

Kirghizistan per fornire un migliore approvvigionamento

energetico ad Afghanistan e Pakistan attraverso la connessione

a una nuova rete regionale. Nelle more del completamento

delle infrastrutture, il 16 settembre 2013, in un incontro

svoltosi a Islamabad, i paesi coinvolti in CASA 1000 hanno

convenuto che Afghanistan e Pakistan riceveranno da

Kirghizistan e Tagikistan rispettivamente 300 MW e 1000 MW

di elettricità all’anno. La Russia si è progressivamente posta ai

margini della costruzione di Rogun, promettendo un sostegno

economico mediante la partecipazione a CASA 1000, poi ritirato

per non compromettere i delicati equilibri che regolano i

rapporti tra Mosca e le diverse capitali della regione.

Kambar-Ata 1-2

La costruzione della centrale idroelettrica di Kambar-Ata

rappresenta un importante progetto di investimento per il

Kirghizistan, che la ritiene vitale per ottenere energia

sufficiente per il fabbisogno interno e margini di guadagno

interessanti dalla vendita di quella in esubero. Il progetto si

articola in due parti, per la realizzazione di due centrali

denominate Kambar-Ata 1 e 2 (rispettivamente capaci di

produrre, in prospettiva, 1200 e 360 MW), da realizzarsi in

parallelo con un costo complessivo di 3 miliardi di dollari. Oltre

a Toktogul (1200 MW), Kurpsai (800 MW), Tash-Kumyr (450

MW), Shamaldy-Sai (o Shamaldy-Say, 240-MW) e UCH-Kurgan

(180 MW) esse rappresentano due tra gli investimenti da

realizzarsi sfruttando le acque del fiume Naryn.

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Informazioni della Difesa Supplemento al n. 6/2013

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La costruzione di Kambar-Ata 1 è iniziata nel 1986 e subito

interrotta dal collasso dell’Unione Sovietica. Nel 2008, con

l’inserimento di investitori francesi e americani (Electricite de

France e Pricewaterhouse Coopers) sono ripresi gli studi di

fattibilità per il completamento anche del progetto

complementare di Kambar-Ata 2. I lavori per la realizzazione di

Kambar-Ata 1, tuttora in corso, hanno subito un’importante

accelerazione alla fine di agosto 2013.

Come nel caso del progetto tagiko di Rogun, l’Uzbekistan si

oppone alla realizzazione della centrale, che lo priverebbe

dell’acqua essenziale per le coltivazioni di cotone a valle e, in

modo del tutto analogo, il contrasto bilaterale ha subito negli

anni fasi alterne con frequenti momenti di crisi nei quali sono

state attuate da parte uzbeka diverse forme di ritorsione.

La Russia ha mantenuto una posizione di sostanziale

equidistanza nel contrasto tra le due repubbliche ex sovietiche,

per evitare che uno sbilanciamento a favore dell’una o dell’altra

compromettesse la propria influenza nella regione. La

situazione è rimasta tale fino al 2009, quando - per consolidare

la propria presenza militare in Kirghizistan a discapito della

coalizione multinazionale attiva in Afghanistan, che aveva in

locazione la base aerea di Manas nei pressi di Bishkek - la

Russia ha promesso consistenti aiuti a fronte di una rafforzata

cooperazione in ambito economico e militare, reiterati con

decine di accordi siglati anche negli anni successivi per

finanziamenti a progetti di investimento ad hoc, tra i quali

quello per la costruzione di Kambar-Ata. L’8 maggio 2013, la

Russia ha, inoltre, ratificato un accordo specifico che la

impegna nella costruzione della diga e della relativa centrale.

Lo schieramento di Mosca non è risultato affatto gradito

all’Uzbekistan che ha cercato nel Kazakhstan un sostenitore più

affidabile. I due paesi, seppure con modalità diverse,

condividono il medesimo interesse rispetto allo sfruttamento

delle risorse idriche regionali, anche se nel caso kazako il

contrasto bilaterale riguarda più l’utilizzo a scopo agricolo dei

corsi d’acqua che hanno origine nel Xinjiang (Cina occidentale)

piuttosto che nel Kirghizistan. In particolare, nel corso di un

incontro del 16 giugno 2013, i presidenti uzbeko e kazako

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Informazioni della Difesa Supplemento al n. 6/2013

171

(rispettivamente, Islam Karimov e Nursultan Nazarbaev) hanno

siglato un accordo di Partnership Strategica nel quale l’accesso

all’acqua viene esplicitamente menzionato come potenziale

minaccia alla stabilità regionale (come già si era espresso

Karimov nel settembre 2012, nel corso di una visita proprio in

Kazakhstan). I due presidenti hanno pertanto richiesto

l’intervento delle Nazioni Unite in qualità di mediatore.

Alcune riflessioni conclusive

Allo stato attuale, con i progetti infrastrutturali di maggiore

criticità ancora in corso, grazie al sostegno di agenzie e

istituzioni di carattere transnazionale, non si ravvisa la

possibilità di addivenire a una qualche soluzione di

compromesso per la definizione di un equilibrio nello

sfruttamento delle acque capace di soddisfare le diverse parti

in causa. Fin quando non ci sarà una partecipazione

vantaggiosa ai progetti in corso anche per i paesi a valle che ne

temono la realizzazione, non sarà possibile ipotizzare il

superamento del muro contro muro espresso in scaramucce di

confine, forme di embargo energetico e blocco delle vie di

comunicazione. Più che da un ente sovranazionale di vocazione

mondiale, come le Nazioni Unite invocate da Karimov e

Nazarbaev, un tentativo di mediazione potrebbe giungere da

organismi di portata locale, pienamente calati nella realtà

economica e nelle prospettive di sviluppo regionale, come

l’Asian Development Bank, già impegnata come capofila del

progetto CASA 1000. Allo stesso modo, la questione dell'utilizzo

delle acque per finalità diverse da quella della produzione

energetica va affrontata a livello regionale, per un razionale

utilizzo delle risorse idriche disponibili che provenga da una

gestione condivisa e consapevole, in grado di tenere conto dei

bisogni dei paesi a valle e del necessario ammodernamento

delle infrastrutture di distribuzione e irrigazione. Fin quando

mancheranno efficaci strumenti di cooperazione regionale, la

questione idrica rimarrà sullo sfondo ad alimentare un clima di

diffidenza reciproca e di diffusa rivalità.

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Risorse energetiche ed equilibri geostrategici in Afghanistan

Cristiana Era – Analista G-Risk

Un sistema di reti viarie e di passaggi in territori aspri che dal

vecchio continente arrivava in Cina: era la via della seta che

aveva i punti nevralgici in Asia centrale e che nel corso dei

secoli fece fiorire città quali Samarcanda, Bukara e Khiva,

attraversata da avventurieri, esploratori ed eserciti. Il controllo

di questi percorsi garantiva l’approvvigionamento di merci

preziose, quali la seta appunto. Dopo secoli di decadenza la

“Silk Road” ritorna nuovamente al centro degli interessi

economici internazionali nella versione contemporanea del XXI

secolo: alla seta e ad altri prodotti si sono sostituite le materie

prime, soprattutto le risorse energetiche, che stanno facendo

dell’Asia centrale un’area ad alto potenziale di sfruttamento e

di transito per l’oro nero (il petrolio) e l’oro blu (il gas).

Le rotte energetiche sono quelle su cui si muovono le potenze

emergenti dell’Asia, ma anche gli antichi colonizzatori (Russia e

Regno Unito), gli imperi più recenti (Stati Uniti e Cina) e medie

e piccole potenze occidentali sull’orlo di una crisi energetica

(Unione Europea). Secondo le proiezioni dell’International

Energy Outlook 2013, il consumo energetico mondiale

aumenterà del 56% entro il 2040, in gran parte nei Paesi non

appartenenti all’OECD e le cui economie stanno sperimentando

una crescita stabile di lungo periodo. E l’incremento della

domanda riguarderà soprattutto il gas naturale, il cui consumo

dovrebbe attestarsi intorno ai 3,20 trilioni di metri cubi nel

204023 , anche grazie al minor impatto ambientale e a costi

ridotti rispetto ad altre fonti 24 . Al tavolo del Grande Gioco

siedono oggi più giocatori, essendoci nuove entità territoriali

indipendenti che anticamente non esistevano. E queste ultime,

in alcuni casi hanno in mano il futuro energetico di altre nazioni,

23 La stima ufficiale è di 113 trilioni di piedi cubi. 24 Cfr.: www.eia.gov/forecasts/ieo/nat_gas.cfm, US Energy Information Administration, Energy Outlook 2013.

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in altri l’opportunità di potersi rendere meno dipendenti dalle

influenze e dagli interessi politici dei vicini. È il caso

dell’Afghanistan, naturale connessione tra l’Asia settentrionale

e quella meridionale.

Rispetto a quelle di Paesi quali il Turkmenistan, il Kazakhstan e

l’Uzbekistan, le risorse energetiche afghane sono minori, anche

se in compenso il territorio è ricco di materie prime quali il

rame, l’oro, il ferro, il piombo, il litio e le terre rare,

quest’ultime fondamentali per l’industria high-tech. Tuttavia,

l’Afghanistan settentrionale contiene l’estremo lembo sud del

bacino di Amu Darya, secondo al mondo per le riserve di gas

ma ricco anche di petrolio; mentre a nord-est condivide con il

Tagikistan il Bacino Afghano-Tagiko. Le maggiori esplorazioni

sul territorio vennero effettuate durante l’occupazione sovietica:

tra gli anni ’60 e gli anni ’80 vennero individuati 15 giacimenti

(7 di petrolio e 8 di gas), ma gli eventi successivi impedirono

ulteriori esplorazioni e anche la limitata produzione di gas e

petrolio di quegli anni si ridusse drasticamente. Di fatto,

nonostante il suo significativo potenziale energetico oggi

l’Afghanistan è un Paese importatore, dipendente da gas e

greggio proveniente da Pakistan, Uzbekistan, Iran e, in misura

minore, Turkmenistan. Il Paese è oggi ancora fortemente

dipendente dall’agricoltura ma il governo Karzai negli ultimi

due anni, con una decisa accelerazione nel 2013, ha puntato

molto sullo sviluppo del settore che sarebbe in grado non solo

di rendere l’Afghanistan autosufficiente, ma – soprattutto –

riuscirebbe a colmare l’imminente riduzione degli aiuti

internazionali e delle entrate derivanti dall’indotto della

presenza militare straniera che attualmente costituiscono la

maggior parte del budget dell’amministrazione. Molte delle

riserve energetiche non sono state fino ad ora esplorate o

sfruttate, sia per mancanza delle condizioni politiche e di

sicurezza adeguate, sia per la mancanza della necessaria

tecnologia. In Afghanistan ci sono cinque bacini sedimentari

maggiori: Amu Darya, Afghano-Tagiko, Tirpul, Katawaz e

Helmand. Il bacino di Tirpul, che copre un’area di 26.000 km²,

è situato ad ovest, nella Provincia di Herat, ma può essere

considerato un prolungamento di quello dell’Amu Darya.

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Katawaz e Helmand non sono mai stati esplorati ma secondo

gli esperti presentano un quadro geologico favorevole e

potrebbero rivelare la presenza di grandi giacimenti di petrolio

o di gas. Le risorse sono concentrate in due aree principali, il

bacino dell’Amu Darya e quello afghano-tagiko.

I 6 bacini energetici afghani come identificati dall’USGS

Amu Darya

Il bacino dell’Amu Darya si estende per una superficie di oltre

400.000 km² che attraversa Turkmenistan, Uzbekistan,

Afghanistan e Iran anche se la quasi totalità della provincia

(360.000 km²) è situata all’interno dei confini turkmeni e

uzbeki25. Le esplorazioni nella parte afghana dell’Amu Darya,

che comprende le Province di Jowzjan, Balk, Faryab e Sar-e-Pul,

sono iniziate nel 1956 ma nonostante abbiano portato alla

scoperta dei giacimenti di gas di Angot, Yatimtaq, Khwaja

Gogerdaq e Khwaja Bulan negli anni sessanta, il bacino è

ancora relativamente poco esplorato , rispetto alla porzione

situata in Turkmenistan e Uzbekistan 26 . Nel 2009 la United

States Geological Survey (USGS) e il Ministero per le Miniere e

l’Industria afghano hanno condotto uno studio congiunto

25 Cfr.: Gregory F. Ulmishek, Petroleum Geology and Resources of the Amu-

Darya Basin, Turkmenistan, Uzbekistan, Afghanistan, and Iran, U.S. Geological Survey Bulletin 2201–H, 2004. 26 Cfr.: http://www.psg.deloitte.com/NewsLicensingRounds_AF_110412.asp.

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finanziato dall’Agenzia americana per il Commercio e la

Cooperazione sulle potenziali risorse petrolifere e di gas non

ancora scoperte nella parte settentrionale del Paese. Le stime

rivelano un potenziale di circa 1.596 miliardi di barili di greggio,

di 1.032,5 trilioni di metri cubi di gas naturale 27 . Nell’Amu

Darya sarebbero concentrate le riserve di gas, mentre la

maggior parte di quelle petrolifere sono state localizzate nel

bacino afghano-tagiko. Lo studio, poi reso pubblico alla fine del

2011, rappresenta un aggiornamento di un lavoro della USGS

fatto nel 2006 e corregge al rialzo tutte le stime precedenti: i

bacini conterrebbero 18 volte la quantità di petrolio

precedentemente accertata e 3 volte quella di gas28.

Bacino Afghano-Tagiko

E’ il bacino al confine con il Tagikistan ed è quello dove in

passato sono stati trivellati la maggior parte dei pozzi,

diventando, quindi, quello più esplorato. La produzione di

petrolio, tuttavia, non ha mai avuto grossi investimenti ed

incentivi. Dopo il 1989 la produzione è stata interrotta del tutto

a causa delle turbolente vicende interne. Solo recentemente il

Ministro per le Miniere e l’Industria, Wahidullah Shahrani, ha

cercato di attrarre investimenti stranieri per lo sviluppo dei

giacimenti di Mazar-i-Sharif e del resto del bacino, che si stima

contenere 1,9 miliardi di barili di greggio e gas.

Secondo le dichiarazioni ufficiali, il governo di Kabul spera di

ottenere 16 miliardi di dollari dallo sfruttamento delle risorse

petrolifere e di gas. Sfortunatamente, nonostante l’impegno di

questi ultimi dieci anni della comunità internazionale, le

condizioni sul terreno rimangono critiche e le grandi

multinazionali straniere preferiscono adottare una strategia di

attesa per vedere cosa succederà dopo le elezioni presidenziali

di primavera e il successivo ritiro delle truppe ISAF29. I risultati

dell’intensa opera di addestramento delle forze afghane

27 La stima ufficiale è di 36.462 trilioni di piedi cubi. 28 Cfr.: http://www.stratfor.com/the-hub/afghanistan-future-energy-corridor. 29 Cfr.: http://www.pajhwok.com/en/2013/09/23/cabinet-oks-agreement-fuel-exploration.

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dell’ANSF (Afghan National Security Force) da parte dei militari

della Coalizione non convincono la maggior parte degli

investitori sull’effettiva stabilizzazione del Paese che, tra l’altro,

continua ad essere afflitto da una dilagante corruzione,

elemento che certamente non favorisce la presenza

dell’imprenditoria straniera.

La conseguenza di questo stato di incertezza sul futuro del

Paese è la decisione da parte delle principali multinazionali di

investire nei Paesi confinanti che offrono migliori garanzie di

sicurezza e stabilità. Le gare di appalto per le concessioni dei

diritti di sfruttamento non sono comunque andate deserte, ma

hanno visto l’afflusso di investitori “minori”, disposti a correre

rischi. A settembre il Consiglio dei Ministri afghano ha

approvato l’accordo con tre compagnie, due straniere (la turca

TAPO e la Dragon Oil di Dubai) e una locale (Gruppo

Ghanzanfar), per l’esplorazione e lo sfruttamento dei giacimenti

di Mazar-i-Sharif e di altre aree nel bacino afghano-tagiko.

Anche la Cina, che sta iniettando capitale in tutta l’Asia allo

scopo di accaparrarsi quante più risorse energetiche possibili

per poter sostenere la sua sorprendente crescita e

modernizzazione del sistema economico, ha mostrato interesse

per i giacimenti afghani. Ma i rapporti con Kabul nel corso degli

ultimi anni sono stati controversi, in parte per il mancato

sfruttamento dei giacimenti di Sar-e-Pul e Faryab per i quali

Beijing aveva ottenuto le concessioni30 ma anche a causa dei

contrasti che sono sorti con il governo afghano a proposito

dello sfruttamento della miniera di Ainak31, che contiene grandi

depositi di rame e che doveva rappresentare il più grande

30 Nel 2011 la China National Petroleum Corporation si aggiudicò l’appalto per le trivellazioni in quelle due Province, ma le attività di esplorazione sono state ostacolate dalle intimidazioni che i gruppi di miliziani legati alla figura del

Generale Abdul Rashid Dostum hanno condotto nei confronti degli ingegneri cinesi. 31 La miniera di Ainak si trova nella provincia di Logar dove si ritiene che vi sia uno dei più grandi giacimenti di rame del mondo. I diritti di estrazione furono acquisiti dalla China Metallurgical Group Corporation nel 2007, ma il

progetto non è mai stato portato a termine per una disputa su alcuni templi buddisti antichi che la compagnia cinese avrebbe dovuto far preservare dagli

archeologi, oltre all’impegno di far costruire una ferrovia e una centrale elettrica e mai portato a termine. Per un resoconto della vicenda, cfr.: http://www.dw.de/afghan-mining-deal-with-china-facing-failure/a-16989797.

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investimento straniero della storia dell’Afghanistan. Al

momento il progetto sembra essersi arenato e le trattative per

riavviarlo fra la compagnia China Metallurgical Group

Corporation (MCC) e il Ministero per le Miniere e l’Industria

sono ancora in corso, anche se si fanno più insistenti le voci di

un possibile ritiro dei cinesi32.

Un corridoio energetico tra Asia settentrionale e Asia meridionale

Gli investimenti stranieri saranno determinanti per l’economia

afghana. Lo sfruttamento delle risorse trova i suoi limiti, come

già indicato, nelle precarie condizioni della sicurezza e nella

corruzione ma anche nella mancanza di infrastrutture, il cui

costo di realizzazione ricadrà necessariamente sulle compagnie

straniere. Significativo è il fatto che nell’area dell’Amu Darya la

produzione petrolifera è stata interrotta perché non vi è la

possibilità di raffinare il greggio. E da qui si arriva

inevitabilmente ad un altro nodo cruciale, quello di oleodotti e

gasdotti che consentono il trasporto di petrolio e gas. Se il suo

potenziale potrebbe rendere l’Afghanistan energeticamente

indipendente, la sua collocazione geografica ne fa, sempre

potenzialmente, un corridoio strategicamente rilevante per il

trasporto dal nord verso sud e verso est (cioè verso India e

Cina). Uno dei progetti più importanti da questo punto di vista

è il TAPI33 che porterebbe il gas dal Turkmenistan a Pakistan e

India attraverso il territorio afghano, passando per le province

di Herat, Helmand e Kandahar.

Il TAPI è un progetto di vecchia data che è stato interrotto e

ripreso più volte e che ha avuto un momento di rinnovato

impulso negli ultimi anni grazie alle pressioni degli Stati Uniti

che in esso vedono un contrappeso all’influenza iraniana nel

Paese. L’idea di un gasdotto che potesse trasportare il gas dal

giacimento turkmeno di Dauletabad fino al porto indiano di

32 Cfr.: http://www.scmp.com/news/asia/article/1313161/afghanistans-plan-

jumpstart-economy-chinese-mining-investment-under-threat. 33 TAPI è l’acronimo di Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-India, i Paesi interessati dal progetto.

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Fazilka risale agli anni ’90, prima della presa di Kabul da parte

dei talebani. La prima pianificazione, basata su uno studio di

fattibilità effettuato dallo sponsor principale, la Asian

Development Bank, prevedeva un costo di 7,6 miliardi di dollari

per un percorso di circa 1.800 km, con una capacità di

trasporto di 33 miliardi di metri cubi l’anno. Lo studio venne poi

aggiornato nel 2008 e nello stesso anno a Islamabad i quattro

Paesi partecipanti firmarono il Gas Pipeline Framework

Agreement che prevedeva l’inizio dei lavori nel 2010 e l’avvio

del trasporto del gas nel 2015. Ad oggi, però, il TAPI è ancora

sulla carta a causa delle numerose problematiche regionali che

hanno ostacolato l’avvio dei lavori, adesso previsti per il 2014.

Tra queste, la rivalità fra Pakistan e India, la questione

sicurezza nelle aree sotto il controllo dei Pashtun, e la

concorrenza di altri progetti che meglio rispondono agli

interessi di due potenze come Cina e Iran.

Fig.2 – Percorso del TAPI (fonte: Canadian Centre for Policy Alternatives)

Come ponte territoriale di connessione fra Asia settentrionale e

Asia meridionale, la partecipazione dell’Afghanistan al TAPI è

fondamentale per l’esistenza stessa del progetto. E questo

mette Kabul nella posizione di poterne trarre il più ampio

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profitto, sia in termini di influenza politica che di flussi di

investimenti e di entrate relative ai diritti di transito (stimate in

diverse centinaio di milioni di dollari). In altre parole, il TAPI

potrebbe rappresentare uno stimolo per l’economia afghana

con effetti positivi per l’occupazione e una valida alternativa

all’indotto della presenza internazionale e degli aiuti che

subiranno drastiche riduzioni dopo il 2014.

Ma, come già detto, sul tavolo vi sono altri due progetti. Il

primo, denominato IPI, dovrebbe portare il gas iraniano a

Pakistan e India; di fatto la sua realizzazione boicotterebbe il

TAPI e il significato stesso di un corridoio che da nord a sud

trasporta il gas ai due destinatari principali. Anche nel caso

dell’IPI, comunque, la posizione di Nuova Delhi e di Islamabad

ha oscillato nel corso del tempo. L’India ha poi confermato il

supporto al TAPI; lo stesso ha fatto il Pakistan che tuttavia,

opportunisticamente, porta avanti anche il progetto con l’Iran.

In un incontro bilaterale a margine dell’apertura della 68°

sessione dell’Assemblea Generale dell’ONU, il premier

pakistano Mohammad Nawaz Sharif e il Presidente iraniano

Hassan Rouhani hanno concordato sulla necessità di accelerare

la costruzione del gasdotto. Il progetto, che ha un costo

stimato attorno a 1,5 miliardi di dollari e con un’estensione di

900 chilometri in territorio iraniano (già completati) e di 700

chilometri in quello pakistano, ha subito un arresto a causa

dell’improvviso ritiro della ditta appaltatrice creando un vuoto

finanziario di 500 milioni di dollari che però Teheran si è detta

pronta a coprire. Il secondo progetto è in realtà ancora alla

fase iniziale di proposta, ma presenta molte caratteristiche che

potrebbero costituire un duro colpo per il TAPI senza però

minacciare il progetto iraniano-pakistano: un gasdotto che dal

Turkmenistan farebbe arrivare il gas in Cina passando per

l’Afghanistan settentrionale e il Tagikistan. Una delle

caratteristiche rilevanti di questo progetto è al tempo stesso

anche uno dei più grossi ostacoli al TAPI: la sicurezza. Mentre il

percorso del TAPI prevede l’attraversamento di regioni

fortemente instabili quali quelle di Kandahar e Quetta, un

gasdotto che evita le zone dominate dai pashtun in Afghanistan

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e Pakistan è più sicuro e automaticamente lo rende più

attraente per gli investimenti34.

Al di là dei possibili sviluppi di uno o di un altro progetto, è

facile concludere che le nuove strategie delle potenze in Asia

passano per le reti di trasporto energetico. Iran e Cina hanno

forti interessi – il primo a vendere, il secondo ad acquistare –

sia sui giacimenti che sui gasdotti che determineranno gli

equilibri nella regione nel futuro prossimo. Gli Stati Uniti, forse

troppo impegnati nella exit strategy afghana o distratti da altre

questioni internazionali, sembrano sottovalutare l’aggressività

della politica energetica della Cina, i tentativi dell’Iran di

mantenere l’influenza in Asia centrale e i desideri della Russia

di riconquistare l’impero ad est. Secondo il World Energy

Outlook dell’AIEA, l’Agenzia Internazionale per l’Energia

pubblicato nel novembre 2012, gli Stati Uniti saranno

energeticamente indipendenti entro il 2020, ma quello che è in

atto in Asia centrale è l’ennesima partita del Grande Gioco e

non si tratta solo di energia: passare la mano in questo

momento pensando di poter fare a meno di giocare potrebbe

voler dire essere tagliati fuori da uno scacchiere regionale in cui

si trovano molti dei più grossi giacimenti di materie prime del

mondo.

34 Cfr.: http://idsa.in/idsacomments/NowChinamayplayspoilertoTAPI_ShebontiRDadw al 31.07.12.

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Aspetti della sicurezza energetica in India Costantino Moretti – Analista indipendente

L’India è un paese che vive una brillante stagione

caratterizzata da una notevole crescita economica. Secondo

l’Ufficio di Statistica Indiano35, il PIL del Paese nel 2012 è stato

pari a 1.877 miliardi di dollari USA36 ed è stimato che nel 2013

raggiunga la ragguardevole cifra di 2.150 miliardi di dollari USA,

con un tasso positivo medio del 7,5% circa negli ultimi dieci

anni e del 8,7% circa solo negli ultimi cinque anni.

L’attuale situazione energetica Indiana

L’impetuoso sviluppo economico indiano ha richiesto,

naturalmente, una sempre maggiore quantità di risorse

energetiche ed il Paese, a partire dall’inizio di questo secolo,

pur avendo nel sottosuolo notevoli quantità di materie prime

energetiche, ha dovuto integrare la propria produzione

ricorrendo ai mercati esteri.

Il carbone è la principale risorsa energetica del paese con

quota di circa il 53%, seguito dal petrolio per circa il 30% e dal

gas naturale per circa il 10%. Quote percentuali irrisorie si

hanno dalle altre fonti, nucleare compreso.

In India le riserve stimate di carbone sono pari a 293 miliardi di

tonnellate. Nel periodo 2011-2012 ne sono state estratte circa

540 milioni di tonnellate; tuttavia, tale ingente quantitativo non

è stato sufficiente a far fronte alle richieste interne, tanto che

nel medesimo periodo il Paese ne ha dovuto importare ulteriori

103 milioni di tonnellate. Per dare un parametro di riferimento

35 Central Statistics Office – Energy Statistics 2013 – New Delhi, marzo 2013 36 Secondo le rilevazioni della Banca Mondiale, l’India nel 2012 ha avuto un PIL pari a 1.842 miliardi di dollari USA, che ha permesso al Paese di

raggiungere il 10° posto tra i Paesi più industrializzati, subito dietro all’Italia la quale, nel medesimo periodo, ha fatto registrare un PIL pari a 2.013

miliardi di dollari USA. vds http://databank.worldbank.org/data/download/GDP.pdf (visitato il 30.09.2013).

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La sicurezza energetica nel XXI secolo: prospettive dall’Italia e dal Mondo

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dell’aumento esponenziale delle importazioni di carbone, basti

pensare che nel periodo 2000-2001 l’import indiano si era

attestato su circa 21 milioni di tonnellate.

Nell’arco di tempo preso in considerazione dal vigente piano

quinquennale di sviluppo37, il carbone, pur essendo una fonte

altamente inquinante, non solo continuerà a mantenere il

primo posto tra le risorse energetiche, ma dovrebbe addirittura

aumentare ulteriormente l’incidenza, tenuto conto che, secondo

le previsioni, al termine del quinquennio il 67% dell’aumento

della produzione di energia elettrica sarà assicurata dal carbone.

Per quanto riguarda il petrolio, nel 2011-2012 l’India è risultata

essere al quarto posto tra i Paesi maggiormente consumatori

con una quota pari al 4% del totale mondiale, dietro a USA

(20,5%), Cina (11,4%) e Russia (5%) 38 . Il petrolio grezzo

viene lavorato in 22 impianti39 per una capacità totale annua di

raffinazione pari a 215.066 milioni di tonnellate metriche

annue40. Pur avendo riserve stimate pari a circa il 4% del totale

mondiale, il 73% circa del totale del petrolio lavorato in India è

d’importazione.

L’India detiene circa lo 0,8% delle riserve stimate di gas

naturale mentre ne consuma una quantità pari al 1,9% del

totale mondiale, con una quota importata dall’estero di circa il

20%. Sino al 2004 l’India era riuscita tuttavia a far fronte con

la produzione interna alle richieste di gas naturale provenienti

dal proprio settore produttivo; ma a partire da tale anno è

diventata importatrice netta di gas naturale, acquistandolo

principalmente dal Qatar.

Non essendo dotata di collegamenti tramite oleodotti o gasdotti

con i paesi produttori, in India la quasi totalità dell’import di

petrolio e di gas arriva via mare.

37 aprile 2012 marzo 2017. 38 Energy statistics 2013. 39 17 raffinerie sono di proprietà pubblica, 2 sono gestite da joint-venture pubblico/privato e 3 sono private.

vds.: http://petroleum.nic.in/refinery.pdf (visitato il 30.09.2013). 40 1 tonnellata metrica è pari a 7,33 barili (http://petroleum.nic.in/petstat.pdf).

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Problematiche sociali legate all’energia

Nel campo dell’energia in India continuano a persistere delle

gravi criticità infrastrutturali con ricadute sociali molto forti. Di

recente il Ministero dell’Ambiente e delle Foreste indiano41 ha

reso noto che il consumo pro capite di energia elettrica, pari a

566 KWh42, è il più basso tra quelli dei Paesi maggiormente

sviluppati; circa l’85% dei nuclei familiari che vivono in zone

rurali e il 12% circa dei nuclei familiari che vivono in zone

urbane, ovvero 84 milioni di nuclei familiari, non sono stati

ancora allacciati alla rete di distribuzione dell’energia elettrica;

una rete di distribuzione rilevatasi quindi non sufficiente a

sopportare i picchi di richieste d’energia tanto che, senza

accennare ai due consecutivi blackout che il 30 e il 31 luglio

2012 hanno lasciato per svariate ore al buio 20 dei 28 stati

dell’India43, tutte le imprese e le abitazioni civili di prestigio

hanno dei generatori di corrente per sopperire alle frequenti

interruzioni dell’erogazione elettrica.

Le strategie di politica energetica

Secondo la Commissione di pianificazione quinquennale, il

consumo di energia nel periodo 2016-2017 dovrebbe attestarsi

sui 738,07 MTOE44. Per raggiungere tale obiettivo il Paese sarà

41 P. Garg, Ministry of Environment and Forests: ‘Energy Scenario and Vision 2020 in India’, in Journal of Sustainable Energy & Environment n. 3 2012, pagg. 7-17. 42 L’Ufficio Centrale di Statistica indiano ritiene che a marzo 2012 il consumo pro capite di energia abbia raggiunto gli 879 KWh. Energy Statistics 2013. 43 Tra gli altri vedasi: H. Pidd ‘India blackouts leave 700 million without power’ in The Guardian 31.07.2012.

http://www.theguardian.com/world/2012/jul/31/india-blackout-electricity-power-cuts e S. Denyer – R. Lakshmi ‘India blackout, on second day, leaves 600 million without power’ in The Washington Post 01.08.2012. http://articles.washingtonpost.com/2012-08-01/world/35490374_1_india-blackout-worst-blackout-power-failure. 44 MTOE è l’acronimo in inglese di un milione di tonnellate equivalenti di petrolio. La tonnellata equivalente di petrolio è l’unità di misura per calcolare

l’energia rilasciata dalla combustione. Il valore convenzionale di una tonnellata di petrolio grezzo è di 42GJ. vds: http://www.aps.org/policy/reports/popa-reports/energy/units.cfm.

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costretto ad importare circa il 38% in più di risorse energetiche,

rispetto al periodo 2011-2012.

Per l’India l’obiettivo di raggiungere l’indipendenza energetica

non è legato al problema della scelta tra le differenti risorse

energetiche interne disponibili, ma piuttosto a quello di

sviluppare il più possibile tutte le differenti risorse energetiche

interne sino a che esse siano competitive per disponibilità e

prezzo rispetto alle risorse energetiche d’importazione.

L’attuale situazione del settore energetico indiano, che è

caratterizzata, come sopra esposto, da un massiccio ricorso alle

importazioni via mare, da una non equa distribuzione interna e

da un forte ricorso all’utilizzo del carbone era stata già prevista

dalle autorità indiane fin dagli anni novanta del secolo scorso.

Infatti, il Ministero indiano per il petrolio e il gas naturale

pubblicava nel febbraio del 2000 uno studio intitolato

‘Hydrocarbon Vision 2005’, la prima seria raccolta ed analisi di

dati sulla situazione energetica indiana, concentrato sui settori

del petrolio e del gas naturale. Tale limite è stata superato

nell’agosto del 2006 col documento Integrated Energy Policy,

redatto da un gruppo di esperti sotto gli auspici della

Commissione di Pianificazione. Tale studio, oltre ad esaminare

il contributo che ogni singola fonte energetica può offrire allo

sviluppo del Paese, analizza gli aspetti generali che ruotano

intorno al settore energetico offrendo previsioni di sviluppo sino

al 2031-2032, ovvero sino alla scadenza del 15° piano

economico quinquennale.

È in tale documento che per la prima volta viene articolato

esaustivamente il concetto di sicurezza secondo l’ottica Indiana.

La definizione che ne scaturisce, valida ancora oggi, è la

seguente: “We are energy secure when we can supply lifeline

energy to all citizens irrespective of their ability to pay for it as

well as meet their effective demand for safe and convenient

energy to satisfy their various needs at competitive prices, at

all times and with a prescribed confidence level considering

shocks and disruptions that can be reasonably expected”.

Da tale definizione di sicurezza energetica deriva l’invito al

governo centrale indiano di prendere in considerazione le

seguenti esigenze fondamentali:

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- soddisfare le richieste energetiche di un paese che, secondo

le previsioni di crescita riportate nello stesso studio,

dovrebbe vedere aumentare il PIL del 8,5% all’anno sino al

periodo 2031-2032;

- garantire i bisogni di energia a tutta la popolazione per

favorire lo sviluppo sociale, la salute e la sicurezza in

maniera quanto più armonica possibile, senza distinzione di

censo o di altri fattori. L’intervento governativo dovrà

mirare ad elevare i livelli di vita della popolazione cercando,

al contempo, di arrivare ad un uso più efficiente e con

minori ricadute ambientali dell’utilizzo di energia sia per

quanto riguarda gli usi domestici sia per quanto riguarda gli

usi industriali;

- assicurare la regolarità e la competitività dei prezzi delle

forniture delle materie prime energetiche in modo da

favorire le esportazioni dei prodotti indiani. Per raggiungere

tale obiettivo, l’India, vista la sua dipendenza dall’estero,

dovrà prima di tutto trovare adeguate e stabili risorse di

energia diversificando i paesi fornitori, le tipologie di risorse

energetiche e le modalità di trasporto.

Due raccomandazioni vengono avanzate dagli esperti per il

raggiungimento della sicurezza energetica:

- costituire una riserva di risorse energetiche pari alla

quantità di petrolio importato per 90 giorni, in modo da

poter fronteggiare eventuali fluttuazioni di prezzo delle

materie prime nel breve periodo. Secondo gli esperti, tali

riserve potrebbero essere localizzate anche in Paesi vicini45;

- intessere relazioni bilaterali privilegiate, attraverso una

strutturata azione di diplomazia energetica, con quegli Stati

che hanno nel proprio sottosuolo considerevoli riserve di

idrocarburi, spesso estratte in ‘esclusiva’ da compagnie

petrolifere nazionali o sotto controllo dello Stato stesso.

45 Nello studio viene citato Singapore quale località consona allo scopo.

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La diplomazia energetica indiana tra Iran e USA

Una forte azione di diplomazia energetica indiana si era rivolta,

a metà degli anni novanta del secolo scorso, verso quei Paesi

esportatori di petrolio e gas naturale i quali, all’epoca, non

trovavano piena fiducia nella gran parte della comunità

internazionale, quali, ad esempio, il Sudan, il Venezuela e,

soprattutto, l’Iran46.

Con l’Iran i rapporti commerciali si sono rilevati eccellenti e

forieri di reciproca soddisfazione, tanto che nel 1999 i due

Paesi stavano per finalizzare gli studi dettagliati per la

costruzione di un oleodotto che li avrebbe collegati passando

attraverso il Pakistan: l’IPI (Iran-Pakistan-India), opera

vagheggiata sin dal lontano 1966 e attualmente, a seconda dei

punti di vista, sospesa o abbandonata principalmente a causa

delle sanzioni internazionali a cui è sottoposto l’Iran47.

- La realizzazione dell’oleodotto avrebbe inoltre prodotto:

un miglioramento dei rapporti tra India e Pakistan, una

sorta di pacificazione ‘energetica’;

- uno sbocco sicuro della produzione di greggio iraniano con il

sostanziale superamento delle criticità legate alla

navigazione dello Stretto di Hormuz.

L’avvicinamento ‘energetico’ dell’India all’Iran è stato il motivo

principale che ha spinto gli USA a prospettare all’India la fine

dell’embargo nucleare. Tale politica, preannunciata nel corso

della storica visita dell’allora Segretario di stato americano Rice

a New Delhi nel marzo del 2005, ha trovato attuazione il 20

luglio 2007 con la firma del cosiddetto ‘Accordo 123’, destinato

a regolare i rapporti nel settore del nucleare civile tra i due

46 Le imprese pubbliche indiane operanti nel settore degli idrocarburi sono attualmente presenti in 22 paesi: Vietnam, Russia, Sudan, Myanmar, Iraq, Iran, Egitto, Siria, Cuba, Libia, Mozambico, Brasile, Kazakhstan, Gabon, Colombia, Trinidad e Tobago, Nigeria, Venezuela, Oman, Australia e Timor Est. Fonte: http://petroleum.nic.in/aric.pdf; 47 Sul sito internet del Ministero del Petrolio indiano il progetto dell’IPI appare essere ancora in una fase negoziale ‘Several critical issues, viz., the delivery

point of Iranian gas, the project structure, guarantees related to safety of the pipeline and security of supply, besides pricing of gas are yet to be resolved.’ http://petroleum.nic.in/aric.pdf visitato il 30.09.2013.

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paesi. Dalla firma dell’Accordo 123, le relazioni tra India e Usa

si sono avviate su corsie preferenziali tanto che l’attuale

amministrazione americana nel nuovo documento di strategia

per la difesa, denominato “Sustaining U.S. global leadership:

priorities for 21st century defence”, collega l’economia e la

sicurezza degli USA agli sviluppi nel quadrante che va

dall’Oceano Indiano alle coste occidentali americane, elevando

l’India alla posizione di partner strategico di lungo termine,

anche dal punto di vista di una possibile collaborazione per

assicurare la sicurezza dell’intero Oceano Indiano. Per quanto

riguarda l’energia nucleare, secondo alcuni studi tecnici,

pubblicati in coincidenza con la firma di tale Accordo, entro il

2050 l’India, grazie all’accesso alle tecnologie civili americane,

riuscirebbe a coprire circa il 40% del proprio fabbisogno

energetico interno. Il nucleare garantirebbe elevate quantità di

energia, favorirebbe la riduzione delle emissioni di Co2 e

soprattutto allevierebbe il problema della dipendenza dalle

importazioni. Oggi, dopo 6 anni dalla firma dell’Accordo 123, il

nucleare apporta soltanto una minima percentuale (il 2%) al

fabbisogno energetico indiano e le previsioni più aggiornate

non indicano sostanziali miglioramenti, anche se permane

l’impegno governativo di produrre dal nucleare 60 GW nel 2030

dalle attuali 4,8GW. Il Segretario di stato americano in carica,

John Kerry, nel corso della sua visita a New Delhi dello scorso

giugno 48 , ha annunciato che la società Westinghouse nel

settembre 2013 avrebbe concluso un accordo per la vendita di

reattori nucleari alla Nuclear Power Corporation indiana; tale

contratto dovrebbe essere un primo effetto di natura

commerciale dell’Accordo 123. Va rilevato tuttavia che il

recente incidente occorso al reattore nucleare di Fukushima, in

Giappone, ha dato buona linfa ad un crescente e sempre più

forte movimento anti-nucleare interno49.

48 Kerry era accompagnato in India anche da Ernest Moniz, professore di

fisica nucleare al MIT e poco prima nominato Segretario di stato per l’energia. 49 International Energy Agency ‘Understanding Energy Challenges in India.

Policies, Players and Issues’, settembre 2012, pag. 84 https://www.iea.org/publications/freepublications/publication/India_study_FINAL_WEB.pdf.

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L’India, anche a causa delle difficoltà incontrate nel far fronte

alle esigenze energetiche con la produzione nucleare interna,

pare aver riaperto il capitolo Iran con buona pace dell’attuale

amministrazione americana. Una recente visita del ministro

degli esteri indiano Salman Khurshid in Iran, avvenuta il 4

maggio 2013, è stata l’occasione per affrontare con l’omologo

iraniano Ali Akbar Salehi anche la questione energetica.

L’India, pur avendo contratto le importazioni di greggio

iraniano del 42% nel primo semestre 2013 rispetto al

medesimo periodo dell’anno precedente e del 45% nel mese di

giugno di quest’anno rispetto al mese precedente (del 26,5%

nel periodo 1 aprile 2012 – 31 marzo 2013 rispetto all’anno

precedente e nel successivo mese di giugno di ben il 60% su

base annuale), rimane comunque tra i primi quattro mercati di

sbocco delle esportazioni iraniane50. Tale contrazione è riferibile

in primis alle difficoltà riscontrate dagli armatori e dalla

proprietà delle raffinerie a trovare coperture assicurative nel

caso di trasporto o raffinazione di petrolio iraniano. Il governo

indiano pare abbia trovato una soluzione attraverso la

costituzione di un apposito fondo assicurativo di 314 milioni di

dollari USA 51 . L’attuale accordo di pagamento del greggio

iraniano prevede che il 45% dell’importo venga pagato in rupie

su un conto corrente acceso presso uno sportello della UKO

Bank a Kolkata52 e il restante attraverso una compensazione di

prodotto indiani. Gli importi depositati a Kolkata, non potendo a

causa delle sanzioni essere inviati in Iran utilizzando i canali

bancari ufficiali, giacciono in India con grande apprensione per

le autorità iraniane, visti gli attuali negativi corsi della moneta

50 N. Verma ‘India’s Iranian oil imports more than halve in June – trade’,

Reuters 23.07.2013 http://www.reuters.com/article/2013/07/23/india-iran-oil-idUSL4N0FO33E20130723. 51 A. Aneja, ‘Deepening of India-Iran energy ties, a win-win outcome’ in The Hindu 21.08.2013 http://www.thehindu.com/news/international/world/deepening-of-indiairan-

energy-ties-a-winwin-outcome/article5045244.ece. 52 A. Aneja, ‘Deepening of India-Iran energy ties, a win-win outcome’ in The

Hindu 21.08.2013 http://www.thehindu.com/news/international/world/deepening-of-indiairan-energy-ties-a-winwin-outcome/article5045244.ece.

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indiana53. L’intenzione manifestata da Salehi in tale occasione è

stata quella di poter utilizzare tali fondi per finanziare attività

produttive in India, oltre che per pagare solo le forniture di

beni indiani come avviene ora. Da parte indiana è stato

auspicato, tra l’altro, un aumento delle importazioni di prodotti

indiani quali, ad esempio, quelli farmaceutici e tessili54.

Conclusioni

I recenti piani economici quinquennali hanno tutti miseramente

fallito riguardo la realizzazione dei progetti di politica

energetica mirati a garantire la diversificazione delle fonti

energetiche e dei mercati esteri di approvvigionamento.

Riguardo invece all’azione di diplomazia energetica l’India pare,

al momento, essere stata più fortunata. Aver concluso con gli

USA l’Accordo 123, che ha aperto la strada alla cooperazione

nucleare nel settore civile è, sicuramente, un motivo di grande

soddisfazione dal punto di vista diplomatico anche se

permangono forti dubbi sull’effettivo contributo che il nucleare

civile può offrire alla differenziazione del mix energetico del

Paese.

Il vento che spira da Teheran pare sia cambiato. Il nuovo

presidente Hasan Rohani ha dimostrato, fin dal primo giorno

successivo alla propria elezione, di voler utilizzare toni

concilianti e di possedere una volontà di aperture nei confronti

della comunità internazionale in merito alla questione del

nucleare, che dovrebbero permettere di compiere dei passi

epocali verso la definizione di un accordo internazionale

sull’argomento.

53 tra gli altri vedasi: R. Kumar in: ‘Why the rupee might reach 70 against dollar’ http://profit.ndtv.com/news/forex/article-why-the-rupee-might-reach-70-against-dollar-326228. 54 L’interscambio tra i due paesi si è attestato nel 2012 a circa 15 miliardi di

USD e l’export indiano è stato di soli 2,5 miliardi di USD in M. Singh Roy, R. Agarwal, P.Kumar Pradham e M. Alam Rizvi ‘Iran under Hassan Rohani:

Imperatives for the region and India’ in ISDA Issue Brief 19.07.2013. http://www.idsa.in/issuebrief/IranunderHassanRohani_RoyAgarwalKumarRizvi_190713.

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L’India, che non è riuscita a sedersi al tavolo negoziale nel

cosiddetto Gruppo 5 + 1 55 , potrebbe giocare il ruolo

fondamentale di pontiere tra le esigenze iraniane e le

preoccupazioni della comunità internazionale.

Se l’India s’impegnasse su tale dossier e riuscisse a favorire un

raggiungimento di un accordo tra le parti, essa probabilmente

guadagnerebbe:

- un maggior credito presso le cancellerie internazionali;

- un canale preferenziale per le forniture di gas e petrolio

dall’Iran;

- una maggiore attenzione da parte del proprio competitor

d’area, la Cina, il quale attualmente vede con sufficienza gli

sforzi che l’India compie per assurgere a potenza d’area56.

Nel campo energetico tuttavia il problema più impellente da

risolvere è quello relativo alla questione ‘socio-ambientale’. È

necessario che l’India affronti con determinazione la questione

del superamento del carbone quale principale componente del

proprio mix energetico aumentando il ricorso a fonti d’energia

rinnovabile e favorisca le opere infrastrutturali per portare

l’energia elettrica e il gas in ogni angolo del Paese.

55 Il Gruppo 5 + 1 è costituito dai 5 paesi membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (Cina, Francia, Regno Unito, Russia e Stati Uniti) più la

Germania. 56 A tal proposito, vds A. Armellini in ‘La politica estera e le ambizioni di

superpotenza’ in India – Atlante geopolitico 2013 – Treccani.it http://www.treccani.it/enciclopedia/india-la-politica-estera-e-le-ambizioni-di-superpotenza_(Atlante-Geopolitico)/.

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Il concetto di sicurezza energetica in Cina e Taiwan Rodolfo Bastianelli – Analista indipendente

Il problema della sicurezza energetica, in un’area di rilevante

significato strategico qual è l’Asia orientale, costituisce una tra

le questioni più sensibili per i Paesi della regione. Ma per due di

questi, la Cina Popolare e Taiwan, il tema riveste un’importanza

fondamentale soprattutto alla luce delle forti tensioni che

hanno spesso caratterizzato i rapporti tra Pechino e Taipei

nell’ultimo decennio. Ed anche se con l’elezione nel 2008 del

nazionalista Ma Ying – jeou le relazioni sembrano essersi

stabilizzate all’insegna del mantenimento dello status quo, la

formula diplomatica con la quale da un lato l’isola si impegna a

non proclamare la sua sovranità accettando di agire sulla scena

internazionale solo come uno Stato de facto indipendente, la

ricerca della stabilità economica e politica resta comunque al

centro dei programmi su entrambe le rive dello Stretto.

La politica energetica della Cina Popolare tra rischi ed autosufficienza

Il rapido sviluppo dell’economia cinese ha portato il Paese a

diventare il principale consumatore di energia davanti agli Stati

Uniti. Stando alle statistiche, Pechino è oggi il più importante

produttore ed utilizzatore mondiale di carbone il quale

rappresenta tuttora il 70% delle fonti energetiche cinesi ed il

secondo di petrolio che copre invece il 19% delle forniture,

mentre nonostante il governo abbia in questi ultimi anni

cercato di promuovere un programma di diversificazione

energetica, l’uso di fonti alternative conta per appena l’11% del

fabbisogno ripartito tra il 6% proveniente dall’idroelettrica, il

4% dal gas naturale, l’1% dal nucleare e lo 0,3% dalle

rinnovabili. Istituzionalmente, il compito di organizzare la

politica energetica spetta alla “National Development and

Reform Commission” (NDRC) unitamente ad altri quattro

ministeri ed alla “National Energy Administration” (NEA),

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l’organismo istituito nel 2008 allo scopo di regolare l’intero

mercato energetico cinese. Sul piano economico, dopo la

riorganizzazione effettuata dall’esecutivo tra il 1994 ed il 1998,

il settore è controllato da due aziende statali integrate quali la

“China National Petroleum Corporation” (CNPC) e la “China

Petroleum and Chemical Corporation” (SINOPEC), quest’ultima

attiva principalmente nella raffinazione e nella distribuzione

degli idrocarburi. Riguardo alla provenienza degli

approvvigionamenti petroliferi, si può notare come l’85% di

questi provenga da giacimenti “onshore” situati nella regione

nord – orientale del Sinkiang/Uighur ed in quella centrale del

bacino dell’Ordos mentre il 15% derivi invece da giacimenti

“offshore” dislocati nella regione della Bohay Bay, nel Mar

Cinese Orientale ed in quello meridionale, due aree queste

dove i contenziosi territoriali nei quali è implicata Pechino con i

Paesi limitrofi hanno fortemente limitato le capacità estrattive

dei giacimenti esistenti57. Il forte incremento della domanda

energetica ha portato tuttavia ad un consistente aumento delle

importazioni petrolifere il cui valore è più che raddoppiato

nell’ultimo decennio. In base agli ultimi dati, la Cina Popolare

nella prima metà del 2012 ha importato la cifra record di 5,6

milioni di barili di greggio al giorno, provenienti principalmente

dal medio – oriente, anche se negli ultimi anni una crescente

importanza hanno assunto le forniture provenienti dall’Africa ed

in particolare dall’Angola e dal Sudan58. Sul piano geopolitico

57 Il contenzioso nel Mar Cinese orientale coinvolge Cina Popolare, Giappone e Corea del Sud nella delimitazione delle rispettive “Zone Economiche Esclusive”, disputa resa ancora più sensibile dopo la scoperta avvenuta nel 1995 di un importante giacimento di gas naturale che per Pechino rientrava all’interno della ZEE cinese. Indicato con il nome di “Chunxiao Gas Field” il deposito, a detta del governo giapponese, si trovava invece situato in un’area

dove le ZEE dei due Paesi venivano a sovrapporsi, cosa che portò all’apertura di un contenzioso risoltosi solo cinque anni fa con un accordo in base al quale le risorse del giacimento sarebbero state sfruttate congiuntamente da Tokyo e Pechino. La disputa esistente nel Mar Cinese meridionale al contrario riguarda la sovranità sulle isole Spratly e Paracel nonché sulla delimitazione di altre aree marittime e coinvolge diversi Paesi della regione in una

complessa disputa giuridica e diplomatica.

58 Per un’analisi della situazione energetica cinese vedi il rapporto China preparato dall’“U.S. Energy Informations Administration”, Department of Energy, Washington D.C. Aprile 2013.

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comunque la dipendenza da importazioni provenienti da aree

considerate potenzialmente instabili sta aprendo tra gli analisti

tutta una serie di interrogativi sui potenziali rischi che questa

potrebbe porre alla crescita economica cinese, mentre dal lato

commerciale e finanziario proprio il forte incremento della

domanda da parte di un Paese di oltre un miliardo di abitanti

come la Cina avrebbe l’effetto di alterare profondamente i

valori del mercato petrolifero internazionale. Non va infine

dimenticato come il rapido aumento dei consumi abbia creato

anche gravissimi problemi ambientali accentuati poi dalla

scarsa efficienza dell’apparato energetico cinese. Attualmente

la Cina Popolare rappresenta il secondo Paese al mondo per

emissione di biossido di zolfo (SO2), le cui emissioni causano le

piogge acide che frequentemente colpiscono il Paese, mentre

quelle di biossido di nitrato (NO2) dal 1980 sono aumentate sei

volte di più di quelle degli Stati Uniti.

TAIWAN: PAESI FORNITORI DI PETROLIO / DATI 2013

Fonte: Bureau of Energy, Taiwan Ministry of Economic Affairs

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CINA: PAESI FORNITORI DI PETROLIO / DATI 2011

Fonte: China’s Energy Import Dependency: Status and Strategies, pag. 29

E la conferma di quanto ormai sia grave il problema

dell’inquinamento è venuta da quanto accaduto in Ottobre in

alcune aree della Cina nord – orientale, dove per due giorni

ogni attività è stata di fatto paralizzata da una pesante coltre di

smog provocata proprio dal massiccio uso del carbone come

fonte energetica nonché dall’usanza, tipica in questa parte del

Paese, di bruciare i campi una volta terminato il raccolto59. Ma

il problema più importante che l’incremento della domanda

energetica sta ponendo per i dirigenti cinesi riguarda non solo

l’inquinamento ma la sicurezza delle forniture, un discorso

questo che vale soprattutto per gli approvvigionamenti di

greggio. Conclusa nel 1993 l’autosufficienza petrolifera,

attualmente la Cina importa almeno metà del suo fabbisogno, il

50% del quale proviene dal Medio Oriente60. Come sottolineano

59 Vedi su questo l’articolo “Airpocalypse”: Severe pollution cripples northeastern China, apparso sul “Los Angeles Times” il 22 Ottobre 2013. 60 In Medio Oriente il principale fornitore petrolifero della Cina rimane l’Arabia Saudita, che contribuisce per almeno un quinto delle importazioni ed ha

sempre rassicurato Pechino sul fatto che potrà sempre contare sugli approvvigionamenti sauditi per la sua crescita economica. Nel resto della

regione mentre Pechino ha ridotto le importazioni provenienti dall’Iran soprattutto per effetto delle sanzioni imposte a Teheran, al contrario sta pianificando importanti investimenti petroliferi in Iraq dove la “China National

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gli analisti questo scenario rende particolarmente vulnerabili le

importazioni cinesi non solo per l’instabilità dell’area di

provenienza ma soprattutto perché la totalità del traffico

petrolifero passa attraverso rotte navali controllate dagli Stati

Uniti i quali, nel caso le tensioni con Pechino dovessero portare

ad un conflitto armato, potrebbero decidere di interdire la

navigazione alle petroliere cinesi in transito nell’Oceano Indiano

e nello Stretto di Malacca. Ma se gli osservatori ritengono

altamente improbabile il verificarsi di un simile scenario, al

contrario i dirigenti cinesi considerano realistica questa

eventualità, sottolineando come proprio il blocco marittimo

deciso dagli Stati Uniti nei confronti del Giappone alla vigilia

della seconda guerra mondiale fu una delle cause che

portarono i due Paesi in conflitto. La sicurezza energetica per

Pechino assume quindi un valore essenziale per la stabilità

interna. In un Paese dove alla crescita economica è attribuita

un’importanza fondamentale, i dirigenti politici cinesi

riconoscono che per assicurare gli attuali tassi d’espansione è

necessario disporre di adeguate forniture energetiche senza le

quali si produrrebbe una fase di rallentamento in grado di

generare forti tensioni sociali, in quanto gli eventuali problemi

nell’approvvigionamento petrolifero potrebbero causare una

spinta inflazionistica e, di conseguenza, un’ondata di

malcontento tra la popolazione. Come ebbe a sottolineare

l’allora Premier Wen Jiabao in un discorso davanti al Congresso

Nazionale del Popolo tenuto nel marzo di due anni fa, la Cina

deve mantenere il suo tasso di crescita all’8% annuo e

contenere l’inflazione, dato che solo conservando questi livelli

di espansione sarà possibile continuare a creare un adeguato

numero di nuovi posti di lavoro e tenere così sotto controllo il

tasso di disoccupazione 61 . Queste linee guida della politica

Petroleum Corporation” (CNPC) rappresenta una delle più importanti compagnie operanti nel Paese. Va infine ricordato come anche la politica energetica cinese riflette i principi della “non ingerenza” e del rispetto della

sovranità interna seguiti normalmente dalla diplomazia cinese. In questo modo Pechino ha potuto siglare importanti contratti di fornitura petrolifera

con Paesi come l’Iran, il Sudan ed il Venezuela negli ultimi anni isolati dalla comunità internazionale. 61 Vedi su questo l’analisi di JOHN LEE, China’s Geostrategic Search for Oil,

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cinese, riassunte sotto la formula del “New Security Concept” in

base al quale l’indipendenza energetica, l’igiene alimentare, la

salute pubblica ed il contrasto al crimine ed al terrorismo sono

ritenuti elementi fondamentali per la sicurezza nazionale, tanto

che nel report “China Security” preparato nel 2006 si affermava

in toni quanto mai preoccupati come la situazione energetica

del Paese stava cambiando da un quadro di “relativa

dipendenza” ad uno di “assoluta dipendenza”, aggiungendo

inoltre come la Cina fosse al momento incapace di difendere le

rotte navali nelle quali transitava il greggio. Gli stessi concetti

erano stati in precedenza chiariti prima da Hu Jintao, che nel

2004 affermò come si dovesse dare uguale importanza alla

ricerca di fonti alternative al petrolio, e l’anno seguente dallo

stesso Wen Jiabao, per il quale la Cina doveva ridurre la sua

dipendenza energetica dall’estero al meno del 5% entro il 2020.

Questo scenario ha prodotto due importanti conseguenze nella

politica energetica cinese. Sul piano internazionale Pechino,

proprio per ridurre la sua dipendenza dalle rotte marittime, ha

avviato dei programmi di cooperazione con Russia, Uzbekistan

e Kazakhstan per il trasporto di petrolio e gas naturale

attraverso una rete di pipeline passanti attraverso l’Asia,

mentre dal lato interno sta progettando la formazione di una

“riserva strategica” di petrolio sul modello di quanto esistente

negli Stati Uniti al fine di assicurare la continuità delle forniture

in caso di eventuali problemi nei rifornimenti internazionali62.

La sicurezza energetica di Taiwan all’ombra di Pechino

Pur rappresentando una delle più vibranti economie mondiali,

Taiwan, dal lato della sicurezza energetica, si presenta invece

come un Paese estremamente vulnerabile.

Rimasta in grado fino al 1978 di produrre il 20% delle proprie

disponibilità l’isola, dopo l’esaurimento delle sue modeste

pubblicato su “The Washington Quarterly’s”, Volume 35, No. 3, Estate 2012,

pagg. 75 – 92. 62 Sulla politica energetica cinese vedi il rapporto China’s Energy Security and

Its Grand Strategy, The Stanley Foundation, Policy Analysys Brief, Settembre 2006 e China’s “Energy Rise”. The U.S. and the New Geopolitical Strategy, Pacific Council on International Policy, Aprile 2010.

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riserve di greggio, gas naturale e carbone, è praticamente

priva di risorse naturali ed oggi importa quasi interamente il

suo fabbisogno energetico che, per almeno il 90%, è

rappresentato da carbone e petrolio, le cui forniture

provengono da un’area potenzialmente a rischio come quella

mediorientale, mentre per il restante 8% è costituito invece da

energia nucleare 63 . Questo quadro di estrema dipendenza è

quindi potenzialmente pericoloso per la sicurezza del Paese, il

quale tra l’altro si trova a subire un ulteriore fattore di rischio

dalla sua complicata posizione internazionale e dai suoi difficili

rapporti con la Cina Popolare che impediscono a Taipei di

partecipare ai lavori delle organizzazioni internazionali nonché

di siglare accordi globali sulla sicurezza e la cooperazione

energetica. La forte dipendenza dalle importazioni costituisce

poi per Taiwan anche un notevole danno economico. L’aumento

dei costi per l’approvvigionamento ha difatti causato un

notevole aumento dei debiti delle compagnie energetiche

statali, tanto che a settembre il governo è stato costretto ad

allentare il controllo esercitato sui prezzi, una mossa che, a

detta degli analisti, si tradurrà in maggiori costi di produzione

per le imprese e, di conseguenza, in un possibile rallentamento

della crescita economica 64 . Ma la dipendenza energetica di

Taiwan costituisce un problema non solo per l’economia ma

soprattutto per la sicurezza dell’isola. Allo stesso modo di

quelle cinesi, anche le importazioni petrolifere taiwanesi

passano attraverso le rotte marittime dell’Oceano Indiano e

dello Stretto di Malacca, ma a differenza di quanto avviene per

la Cina Popolare, la loro vulnerabilità non dipende dai rischi di

un’eventuale confronto militare con gli Stati Uniti ma

dall’evolversi dei rapporti con Pechino. Nel caso di una crisi

diplomatica con Taipei, difatti la Cina potrebbe decidere di

bloccare il transito delle forniture dirette a Taiwan, cosa che

63 Seconde stime ufficiali, nel 2012 il 47,96% del fabbisogno energetico taiwanese era rappresentato dal petrolio, il 29,69% dal carbone, il 12,14%

dal gas naturale, l’8,32% dal nucleare mentre il restante 1,91% proviene da fonti idroelettriche ed energie rinnovabili. 64 Sulla situazione energetica taiwanese vedi il rapporto Taiwan’s Severe Energy Security Challenges, Taiwan-U.S. Quarterly Analysis, No. 12, Brookings Institution, settembre 2013.

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porterebbe entro un mese al blocco di tutte le attività

economiche dell’isola. E non va inoltre dimenticato come

nell’ultimo decennio anche le importazioni di carbone dalla Cina

Popolare siano sensibilmente aumentate, tanto che oggi queste

contano per un quarto delle intere forniture taiwanesi. Tuttavia,

dopo l’arrivo alla presidenza nel 2008 dell’esponente

nazionalista Ma Ying – jeou al posto del democratico –

progressista Chen Shui – bian le compagnie energetiche dei

due Paesi hanno avviato programmi di cooperazione e di

sfruttamento congiunto di alcuni campi petroliferi nello stretto

di Taiwan. La Cina Popolare continua comunque a

rappresentare un potenziale pericolo per la sicurezza taiwanese,

alla luce dei programmi di ammodernamento della flotta

militare e del recente dispiegamento di missili anti – navali

lungo la costa cinese meridionale recentemente decisi da

Pechino65. Ed alla luce di questo scenario, il governo taiwanese

ha tracciato un ambizioso programma tendente a diversificare

le importazioni ed ampliare l’area dei Paesi di provenienza al

fine di assicurare una maggiore sicurezza energetica,

incrementare lo sviluppo di tecnologie a bassa intensità di

carbone così da migliorare la produzione, ridurre la dipendenza

dall’energia nucleare rinnovando tutti i criteri di sicurezza

esistenti negli impianti ad iniziare dalla nuova quarta centrale

di Longmen la cui entrata in funzione è prevista per il 2015 e,

soprattutto, portare entro il 2025 al 16% del totale la quota

proveniente da fonti rinnovabili66. Si tratta però di un obiettivo

considerato di improbabile realizzazione da parte degli analisti,

non solo perché la posizione geografica e la configurazione del

territorio taiwanese rendono difficile la costruzione di impianti

eolici, ma anche per il fatto che i costi di realizzazione di

strutture ad energia solare sono almeno tre volte maggiori di

quelle funzionanti a petrolio, carbone e gas naturale.

65 Sulla politica energetica seguita da Taiwan negli ultimi anni vedi l’articolo

Taiwan’s Energy Security Battle, apparso su “The Diplomat” il 18 Aprile 2011. 66 New Energy Policy of Taiwan, Bureau of Energy, Ministry of Economic Affairs, Taipei 2012.

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Australia e Sicurezza Energetica: commercio e investimenti

S.E. David Ritchie – Ambasciatore d’Australia in Italia

L’Australia viene spesso descritta come un paese “fortunato” e

quando si parla di risorse energetiche questa descrizione

certamente corrisponde al vero. L’Australia è dotata di

abbondanti risorse, di alta qualità, diversificate, rinnovabili e

non-rinnovabili, tra cui il carbone, il gas, l’uranio e l’energia

eolica e solare. L’Australia è il nono produttore al mondo di

energia, con oltre il 2,5% della produzione energetica mondiale

ed il 5% dell’esportazione di energia al mondo ed è anche uno

dei tre esportatori netti di energia dell’OCSE.

Investimenti nella sicurezza energetica

Tutto ciò si traduce in un contributo molto significativo per

l’economia australiana. Le stime ufficiali parlano di proventi

derivanti dalle esportazioni energetiche pari a circa 177 miliardi

di dollari australiani nel 2012-2013. Il carbone rappresenta per

l’Australia il prodotto energetico d’esportazione da cui trae

maggiori profitti, seguito dal petrolio grezzo e dal gas naturale

liquefatto (GNL). Il settore energetico produce significative e

diversificate opportunità di impiego. Le abbondanti risorse

energetiche australiane determinano un vantaggio in termini di

concorrenza, cosicché le famiglie e le imprese sostengono costi

al dettaglio relativamente contenuti per l’energia se paragonati

a molte altre economie dell’OCSE.

Tuttavia, la disponibilità di un enorme quantitativo di risorse

energetiche pronte all’uso rappresenta solo una parte degli

elementi per la riuscita dell’equazione energetica in termini di

sicurezza. In Australia per sicurezza energetica si intende una

fornitura adeguata, affidabile e concorrenziale di energia. Per

garantire tale fornitura il paese necessita di solide

infrastrutture energetiche, che comprendano impianti, catene

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di rifornimento energetico, reti di informazione tecnologica e di

comunicazione. Malfunzionamenti a queste importanti

infrastrutture per un periodo prolungato avrebbero un impatto

sulla sicurezza e sulla fornitura energetica, non solo in termini

di fabbisogno energetico interno dell’Australia, ma anche per le

cospicue esportazioni energetiche, soprattutto verso l’Asia, che

sono utilizzate da diversi paesi per una parte del loro

approvvigionamento energetico.

Soltanto significativi livelli di investimento pubblico e privato

nelle infrastrutture energetiche, sostenute da politiche di

mercato, possono garantire che l’Australia mantenga il suo

predominio tra le economie sviluppate come principale

produttore energetico. In passato le infrastrutture hanno posto

dei limiti alle esportazioni di carbone dall’Australia, ma

l’ampliamento dei porti ha diminuito tali limiti. L’incremento

delle esportazioni di carbone termico, ad esempio, è stato

ottenuto grazie al potenziamento delle infrastrutture nei

terminal di Newcastle e di Kooragang Island. L’upgrade delle

infrastrutture ferroviarie di Goonyella, nel Queensland, ha

inoltre aumentato la capacità di esportazione del carbone

metallurgico. Un altro fattore importante per l’aumento delle

capacità di esportazione è stato quello di migliorare l’efficienza

nell’utilizzo delle risorse esistenti, soprattutto a Newcastle.

Il famoso Outback australiano ha sempre rappresentato una

sfida in termini logistici e garantire la consegna sicura ed

affidabile delle risorse minerarie che vi si trovano verso la costa

per l’esportazione, oppure verso i centri urbani per l’uso

domestico, rappresenta un aspetto fondamentale della

sicurezza energetica. Il Governo federale e le amministrazioni

statali, nonché le aziende del settore privato dell’industria

mineraria, hanno investito importanti somme nel

miglioramento di tali infrastrutture e l’impatto economico,

evidente nella domanda di minerali australiani dall’Asia e

soprattutto dalla Cina, è stato significativo ed è stato uno dei

fattori che ha contribuito a far sì che l’economia australiana

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mantenesse sostenuti livelli di crescita per oltre due decenni,

mentre molti altri paesi attraversavano periodi di recessione.

Il costante sostegno del Governo australiano ad iniziative che

favoriscono l’efficienza energetica contribuirà a far sì che il

settore privato e le famiglie possano ridurre i costi e a

migliorare la produttività energetica. A questo proposito

esistono molti progetti, tra cui l’Energy Efficiency Exchange,

l’Energy Efficiency Council ed il Nationwide House Energy

Rating Scheme.

Tra le altre misure volte a ridurre il consumo energetico in

Australia vi è la “Strategic Framework for Alternative Transport

Fuels”, una strategia per l’utilizzo di combustibili alternativi per

i trasporti, pubblicata nel 2011. La Strategic Framework è

essenziale perché il settore dei trasporti rappresenta la

porzione maggiore di consumo finale di energia in Australia,

con oltre il 38% di consumo finale di energia impiegato nello

spostamento di persone e beni nel paese. Inoltre si deve

considerare che il settore dei trasporti è di gran lunga il

maggiore consumatore di carburanti liquidi (compreso GPL e

prodotti raffinati) e rappresenta circa il 73% del consumo finale.

Il documento espone una strategia a lungo termine a sostegno

dello sviluppo determinato dal mercato di carburanti alternativi

per il trasporto, al fine di garantire la sicurezza nella

disponibilità di carburante liquido.

L’Australia si impegna, entro il 2020, a ridurre le emissioni di

gas serra nell’ordine del 5% rispetto al livello del 2000. Il

Governo metterà in atto politiche di azione diretta per favorire

la riduzione delle emissioni, come ad esempio l’Emissions

Reduction Fund, un fondo per investire in attività volte a

ridurre le emissioni da qui al 2020.

Il ruolo dell’industria

Le infrastrutture energetiche australiane assumono varie forme:

dalle centrali per la produzione energetica, alle miniere e ai

sistemi di trasporto (stradali, ferroviari e marittimi), alla rete

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delle telecomunicazioni, fondamentale per gestire progetti di

così vasta portata. L’Australia dispone di aziende eccellenti che

operano in questi settori e che portano il loro know-how anche

all’estero. Si va da alcune delle maggiori aziende del settore,

come Woodside per il gas naturale, o Leighton Group, il più

grande appaltatore del settore minerario, a società minori in

settori di nicchia, come Po Valley Energy, impegnata

nell’esplorazione di petrolio e gas in Italia e altrove.

È tuttavia evidente che per sviluppare le infrastrutture

necessarie per sfruttare le proprie risorse energetiche naturali

l’Australia non può provvedere da sola, infatti il settore

energetico australiano attira investimenti esteri consistenti, che

sono ben accolti e incentivati dal Governo australiano. Per

maggiore chiarezza è il caso di menzionare alcune cifre: nel

biennio 2011-12 un totale di 523,52 miliardi di dollari

australiani sono stati stanziati per costruzioni ingegneristiche

ancora da completare. Nello stesso periodo, soltanto nel

settore del petrolio, gas, carbone e altri minerali, si sono

realizzate costruzioni ingegneristiche del valore di 51.16

miliardi di dollari australiani, con un incremento dell’81,8%

rispetto all’anno precedente. Tali statistiche mostrano come vi

siano ancora molte attività in corso nel settore delle costruzioni

di infrastrutture e ingegneristiche, che si prevede verranno

portate a termine nei prossimi anni. Vi sono quindi interessanti

opportunità di investimento per aziende straniere specializzate

e la loro partecipazione allo stesso tempo permette di

sviluppare reti infrastrutturali di alta qualità, che soddisferanno

il fabbisogno energetico australiano nei decenni a venire.

Solo per fare qualche esempio, nel 2013 l’azienda tedesca

Siemens ha annunciato un investimento ad Adelaide in un

distretto tecnologico sostenibile; la Electricity Generating Public

Company Ltd di Tailandia ha acquisito il suo primo impianto

eolico in Australia; First Solar (Australia), la filiale australiana

del produttore di energia solare statunitense, si è aggiudicata

contratti per la fornitura di servizi di ingegneria,

approvvigionamento e costruzione di due importanti progetti

per la produzione di energia solare nel New South Wales, uno

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dei quali sarà il più grande stabilimento per la produzione di

energia solare dell’emisfero australe.

Queste aziende offrono un livello di conoscenza o un’economia

di scala che sono essenziali per i grandi progetti

tecnologicamente avanzati e rappresentano la spina dorsale

degli investimenti nelle infrastrutture energetiche australiane.

L’Australia vanta un’economia aperta e attraente per gli

investitori esteri ed il settore energetico si sta dimostrando

particolarmente fruttuoso.

Australia e Italia: partner naturali nel settore energetico

Il settore energetico australiano offre molte opportunità anche

alle imprese italiane. Alcuni esempi possono spiegare cosa si

intenda in Australia per sicurezza energetica e quali siano le

opportunità per una collaborazione internazionale.

ENI è una delle imprese italiane più conosciute in tutto il

mondo. Opera in Australia dal 2001 nel settore offshore, sia in

acque convenzionali sia in acque profonde, nel Western

Australia e nel Northern Territory, spesso in collaborazione con

altre aziende australiane o estere del settore. Uno dei maggiori

progetti per migliorare la sicurezza energetica australiana è lo

sviluppo del giacimento di gas di Blacktip, sulla punta

settentrionale dell’Australia, un progetto che, in questo caso, è

di proprietà e gestito al 100% da ENI. Il gas prodotto nel

giacimento viene fornito all’ente del Northern Territory, Power

Water Corporation, sulla base di un accordo venticinquennale e

viene utilizzato per generare energia elettrica per la comunità

locale. Lo sviluppo del giacimento ha contribuito all’incremento

della sicurezza energetica degli utenti per uso domestico in

questa regione remota. Ha inoltre contribuito ad assicurare

forniture di gas per uno sviluppo industriale ed economico a

lungo termine, necessario in quest’area.

In questo modo l’ENI fornisce assistenza per soddisfare una

forte necessità in un angolo remoto dell’Australia. Questo è un

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ottimo esempio di cosa si intenda per sicurezza energetica in

Australia. Vale la pena notare, inoltre, che oltre agli aspetti

puramente commerciali, ENI è stato un promotore attivo di

iniziative per la popolazione indigena locale, attraverso l’offerta

di corsi di formazione e occupazione per la popolazione locale,

la creazione di un forum per minimizzare l’impatto delle proprie

attività industriali e la promozione dell’arte e della cultura

indigena.

A fianco di ENI in Australia ha lavorato la sua controllata

Saipem, un appaltatore nel settore petrolifero e del gas, con

particolare esperienza in acque profonde, approvvigionamento

e servizi di gestione di progetti. Saipem si è aggiudicata il

contratto di ingegneria, approvvigionamento, installazione e

costruzione della piattaforma Blacktip e della conduttura per

l’esportazione. Recentemente Saipem ha vinto un contratto per

la posa di condutture per l’esportazione in acque profonde per

Ichthys LNG Project, nel Western Australia. Si tratta di un

progetto su vasta scala con investimenti di società taiwanesi e

giapponesi. Sia ENI, sia Saipem hanno buone possibilità di

poter beneficiare delle opportunità commerciali offerte

dall’atteso e significativo sviluppo delle risorse energetiche che

avrà luogo nella parte settentrionale dell’Australia.

In molti altri modi le imprese italiane hanno contribuito a

garantire la sicurezza energetica australiana. Società come

Italgru, GE Italia e Magaldi Power sono attive nella fornitura di

importanti componenti per l’industria energetica e sono in

grado di produrre componenti che soltanto poche società al

mondo sono in grado di costruire. GE Italia, ad esempio, e

specificamente la sua controllata Nuovo Pignone, ha fabbricato

le enormi turbine che saranno utilizzate per il Gorgon LNG

Project nel Western Australia. Si è deciso di costruire turbine

del peso di 2.300 tonnellate in Italia e spedirle in Australia, con

tutte le sfide logistiche che ciò comporta, piuttosto che

costruirle sul luogo, nel delicato habitat in cui si sviluppa il

Gorgon Project. È così che l’expertise ingegneristica italiana

aiuta l’Australia nello sviluppo economico e a proteggere

l’ambiente.

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Le infrastrutture dei trasporti costituiscono un altro elemento

fondamentale per garantire la sicurezza energetica,

considerando che le abbondanti risorse energetiche australiane

si trovano spesso in luoghi remoti e logisticamente impervi da

raggiungere. Ne è un esempio l’accordo firmato nel 2009 tra

Ansaldo STS Australia, del gruppo Finmeccanica, e l’Australian

Rail Track Corporation (ARTC), per la fornitura di sistemi di

segnalamento che aumentino capacità, affidabilità ed efficienza

dei corridoi per il trasporto del carbone che ARTC possiede o

gestisce nel New South Wales e Victoria. Ansaldo STS ha

costantemente fornito tecnologie di punta per le proprie

operazioni in Australia, vincendo nel 2012 un contratto per la

fornitura di un sistema di segnalamento satellitare per una

nuova linea ferroviaria per il trasporto merci nell’ambito del

progetto Roy Hill Iron Ore nella regione di Pilbara, nel Western

Australia.

Si deve inoltre considerare come la rete di comunicazioni

funzioni da “collante” per tenere insieme le infrastrutture.

Ancora una volta un’azienda italiana, Prysmian Group (ex Pirelli

Cables), offre un importante contributo in tal senso ed è

presente in Australia dal 1975. Nel 2011 Prysmian si è

aggiudicata un contratto dal Governo australiano per la

fornitura di cavi di fibre ottiche per lo sviluppo della nuova rete

nazionale per la banda larga, con cui Prysmian è divenuto uno

dei maggiori fornitori di cavi di fibre per la rete nazionale a

banda larga, con un’ampia gamma di cavi di comunicazione a

nastro e multi fibra, compresi i cavi termite-resistente, a prova

di roditori e ad elevata resistenza. Prysmian è inoltre uno tra i

primi fornitori di cavi per l’energia elettrica in Australia e

disegna, produce, distribuisce e installa cavi e sistemi di

trasmissione e di distribuzione di energia a bassa, media, alta

ed altissima tensione.

Le aziende italiane contribuiscono inoltre in maniera

significativa allo sviluppo delle infrastrutture e dei trasporti in

Australia, con vantaggi per la circolazione in termini di rapidità

e efficienza e con una conseguente diminuzione nel consumo di

carburante e un minor impatto ambientale. Le conoscenze

italiane nel campo delle infrastrutture e dei trasporti sono state

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premiate con contratti a imprese come Ghella, che fa parte di

un consorzio internazionale, per il progetto Legacy Way a

Brisbane; e come Rizzani De Eccher, per il progetto South Road

Superway ad Adelaide, sempre nell’ambito di un consorzio

internazionale. Il contributo delle aziende italiane va dalle

infrastrutture ai mezzi di trasporto, come i camion e gli

autobus, con IVECO, la controllata del gruppo Fiat, che produce

veicoli per il mercato australiano nello stabilimento a

Dandenong, nel Victoria, impiegando oltre 600 persone e

creando numerosi altri posti di lavoro in settori correlati, dai

concessionari fino ai fornitori.

Conclusioni

Il fatto che le esigenze del settore della sicurezza energetica

australiana creino opportunità commerciali per le aziende

estere costituisce un vantaggio per l’economia australiana. Gli

investimenti esteri nelle infrastrutture energetiche creano

occupazione e garantiscono che il paese si avvalga delle

tecnologie di punta che queste aziende internazionali sono in

grado di offrire. L’Australia è fortunata a disporre di molte

risorse energetiche naturali, però tali risorse valgono poco

senza le infrastrutture necessarie per un loro uso sostenibile e

proficuo.

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Africa Nord-Occidentale, idrocarburi tradizionali, non convenzionali e altri asset strategici

Eleno Triva – Analista indipendente

Pier Vittorio Romano – Direttore Responsabile di “Informazioni della Difesa”

L’Africa Nord-occidentale, e soprattutto i suoi stati di maggiore

importanza, Algeria e Marocco, pur con differenze sostanziali

dovute alle peculiari caratteristiche e vicende storiche diverse,

è interessata da un attivismo nel settore della esplorazione e

sfruttamento delle potenzialità degli idrocarburi nei loro territori.

Algeria: quale strategia per gli idrocarburi di scisti?

L’Algeria, che è un grande produttore di idrocarburi estratti con

le tecnologie ordinarie, ha scoperto, da più di venti anni, il più

grande giacimento di petrolio nel paese. Il 26 ottobre 2013 il

ministro algerino dell'Energia Youcef Youcefi dichiarava che la

Sonatrach aveva "scoperto un nuovo giacimento di petrolio di

circa 1,3 miliardi di barili nel bacino di Amguid Messaoud nel

centro-nord dell'Algeria" Questo sito, che dista un centinaio di

chilometri dalla regione di Hassi Messaoud, è il più grande

giacimento di petrolio in Algeria, e sarà sviluppato nei prossimi

tre o quattro anni. Algeri, da tempo, si sta interessando alle

potenzialità di petrolio e gas che possono essere estratti

secondo le nuove tecnologie (in realtà si tratta di una

tecnologia non nuovissima, ma la cui messa in opera era

considerata troppo complicata e costosa). A differenza degli

idrocarburi convenzionali, contenuti in sacche la cui estrazione

avviene per pompaggio, gli idrocarburi non convenzionali -

petrolio e gas di scisti - sono intrappolati in rocce caratterizzate

da microporosità che rende il loro recupero impossibile senza

stimolazione. Si tratta di una operazione chimica o

idrodinamica, denominata fracking (o fratturazione) che

permette la liberazione degli idrocarburi contenuti nelle rocce.

Questa operazione ha un impatto sul costo di esercizio che è 4-

5 volte superiore a quello convenzionale, ma porterebbe sul

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mercato enormi quantità di idrocarburi. La controversia che

circonda lo sfruttamento di petrolio e gas di scisti è relativo non

solo al suo costo, ma anche al suo impatto sull'ambiente e alle

attività umane. Infatti, al fine di compensare la bassa

produttività si devono moltiplicare le perforazioni,

accompagnate da una rete di canalizzazioni e strutture di

superficie molto importanti. Al di là del suo costo, l'attuazione

di questo dispositivo richiede spazi ampi ed esclude ogni altra

attività umana, rurale o urbana. Inoltre richiede grandi volumi

di acqua, un sistema per il trattamento e lo stoccaggio dei

rifiuti e l'uso di sostanze chimiche.

Il miracolo americano … e altrove

Gas e petrolio originati dagli scisti hanno causato un vero e

proprio miracolo energetico negli Stati Uniti, le cui riserve di

gas sono aumentate di più di 42.475 miliardi di m3. La

produzione corrente ha raggiunto il 62% della produzione

totale di gas naturale negli Stati Uniti. L’economia americana

continua a risalire la china della recessione grazie al boom

energetico. Nel secondo trimestre del 2013, l’economia è

cresciuta del 2,5% grazie alle esportazioni di prodotti e non di

servizi. In prima fila c’è il petrolio e tutti i suoi derivati, prodotti

grazie al crescente impiego del fracking. Nel 2011, dopo

sessanta anni, gli Stati Uniti sono tornati ad essere un

esportatore netto di prodotti petroliferi. La produzione interna

ha anche dato una grossa spinta alla raffinazione che prima

dipendeva dall’importazione di greggio e tra i compratori

figurano molte economie emergenti: India, Brasile, Cina e

Turchia. Il boom energetico americano non solo sta riportando

la bilancia commerciale in equilibrio, un fenomeno che non si

verificava dai tempi della Guerra Fredda, è anche fonte di

tensione con la Russia e, quindi, in un certo senso contribuisce

a ricreare l’atmosfera di tensione politica tra le ex due

superpotenze e pone un dato nuovo con i tradizionali alleati di

Washington nel Golfo, Arabia Saudita in primis.

E questo richiama alla memoria il discorso del Presidente

George W. Bush all’indomani dell’invasione dell’Iraq quando

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venne annunciato che gli Stati Uniti puntavano a una

risistemazione del Medio Oriente.

Riduzione dei prezzi?

Il boom degli idrocarburi da scisti originati dagli USA, secondo

quanto emerso da un rapporto dei servizi di intelligence

tedeschi (BND) e reso pubblico dalla agenzia di stampa Reuters

alla fine di Ottobre 2013, rischia di avere un impatto

depressivo sul regime internazionale dei prezzi e in particolare

del petrolio e ridurli alla soglia degli 80 dollari al barile.

La tempistica di questa riduzione non sarebbe immediata e il

risultato si vedrà nel medio termine (10-20 anni) con

contraccolpi su alcuni paesi, quali Russia, Libia, Iran, Venezuela,

Yemen e la regione del Medio Oriente.

La stessa Reuters, considerando l’impatto del petrolio di scisti,

prevede un prezzo di 95 dollari a barile nel 2020, con un calo di

20 dollari rispetto alla previsione formulata nel 2012.

Ipotizzando un tasso di inflazione del 2,5% l'anno, che

significherebbe che il Brent sarebbe costato solo 80 dollari nel

2020, in termini reali, ovvero a valore attuali, inferiore ai 109

dollari. Questo ha portato al crollo dei prezzi del gas sul

mercato interno degli Stati Uniti e ha iniziato a incidere sulle

dinamiche globali dei mercati, dove per la coincidenza della

crisi finanziaria mondiale e l'abbondanza di idrocarburi, ha

causato una fortissima concorrenza tra i produttori e gli

esportatori di mercato. Questo tipo di idrocarburo esiste in

altre parti del mondo, tra cui tre paesi con riserve simili o

addirittura superiori a quelli degli Stati Uniti quali Algeria, Cina

e Argentina. Tutti e tre hanno dimostrato la loro intenzione di

seguire l'esempio americano e hanno iniziato la ricerca e la

valutazione, a volte preceduta da un cambiamento del contesto

giuridico e contrattuale, al fine di migliorare il quadro operativo.

Tuttavia rimangono ancora molte sfide, quali gli investimenti

per i costi di estrazione, la gestione ambientale, il know-how

tecnologico, ma anche l'obiettivo, ovvero la resa e la sicurezza

energetica e il contesto generale delle politiche energetiche,

quali “sub componenti” della politica economica e di sicurezza.

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Transizione

Nel 2013 l’Algeria, che ha dato il via libera allo sfruttamento del

gas di scisti dopo la modifica della legge sugli idrocarburi

dispone, secondo stime attendibili, di circa 600.000 miliardi di

m3 di riserve di tale gas.

In confronto le riserve di gas convenzionali sono stimati 4.500

miliardi m3, con una produzione media annua di 85 miliardi di

m3, di cui 55 miliardi destinati per l'esportazione.

Per gli idrocarburi liquidi non convenzionali - petrolio di scisti -

le disponibilità sono stimate in 215 miliardi di barili, ma non vi

sono dettagli su quelle recuperabili.

E’ in corso un dibattito tra analisti ed esperti che ritengono che

il potenziale convenzionale rimanga ancora da scoprire in aree

con poca o nessuna esplorazione, mentre altri mettono in

dubbio riserve e potenziale.

Per Algeri appare fondamentale definire una strategia a lungo

termine che tenga conto di tutte le ipotesi e modelli evolutivi

del consumo di energia in funzione di tutte le risorse disponibili,

fossili (convenzionali o meno) o rinnovabili.

Da qui la necessità di gestire i proventi della rendita petrolifera,

tema cruciale dopo il 2030, a causa del previsto rapido

aumento del consumo interno che ora è di circa 30 miliardi di

m3 di gas/anno, ma è destinato a raddoppiare entro il 2030 per

raggiungere i 60 miliardi di m3/anno. Quale sarà il livello di

consumo interno nel 2040, 2050 e oltre?

In primo luogo, si devono prendere in considerazione le risorse,

sfide e vincoli e preparare la pianificazione di un possibile

sfruttamento di idrocarburi non convenzionali che non

emergerà in modo significativo prima del 2030. Per quel

momento, diversi temi, quali il futuro del progresso tecnologico,

i costi, i problemi legati all’ambiente e alla stabilità del

territorio dovrebbero essere in via di soluzione.

L’altro aspetto che l’Algeria dovrà affrontare sarà la politica

energetica in termini di fabbisogno e sviluppo, abbandonando

le politiche di rendita e accumulazione di plusvalenze per

orientarsi decisamente verso lo sviluppo.

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Gas di scisti, i rischi del mestiere

Come accennato, l’estrazione di petrolio e gas di scisti, richiede

enormi quantità di acqua ma l’area sahariana (87 %

dell'Algeria) contiene sufficienti risorse idriche in grado di

soddisfare tutte le esigenze, ma a patto di un riuso oculato

dell’acqua. Il sistema idrico del Sahara conterrebbe 40.000

miliardi di m3 di acqua, di cui il 60% in Algeria. Oggi, per l’uso

agricolo e industriale si utilizzano circa 1,5 miliardi di m3

all’anno, con circa 6.500 pozzi ed altre forme di drenaggio

sotterraneo.

Questa risorsa è rinnovata ad un tasso di 1 miliardo di m3

l’anno ma non è disponibile dappertutto e vi sono regioni, come

il sud-ovest algerino, poverissime di acque.

Lo sfruttamento di idrocarburi non convenzionali dovrebbe

richiedere, secondo le stime, per la perforazione di 35.000

pozzi, al massimo 150 milioni di m3 di acqua l’anno, purché

l’obiettivo del trattamento dei rifiuti sia il recupero di almeno il

50% del volume utilizzato per ogni operazione di fratturazione.

Gestione dei rifiuti

Analogamente importante e obbligatoria sarà la gestione ed il

trattamento delle rimanenze dei processi estrattivi. La

fratturazione idraulica è utilizzata in Algeria da decenni senza

problemi e, in altri casi, quando il gas contiene biossido di

carbonio (CO2), quest’ultimo viene immesso nuovamente in

uno strato geologico profondo senza influire sull’ambiente.

Infine, riguardo i vincoli in termini di superficie e di impatto con

l’ambiente e la popolazione con le sue attività, l’Algeria sarebbe

in una posizione vantaggiosa disponendo delle vaste distese del

Sahara, utilizzabili più efficacemente di aree urbanizzate e semi

urbanizzate come la regione parigina, le pianure agricole

polacche o americane, dove risultano esserci bacini di

sfruttamento per idrocarburi di scisti.

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Il Marocco, un futuro di idrocarburi?

Mentre l’Algeria è una realtà consolidata nel panorama

mondiale degli idrocarburi, il Marocco solo da alcuni anni si è

lanciato decisamente nella esplorazione in questo settore.

Sinora in Marocco non erano emerse potenzialità o bacini di

sfruttamento. Ma, come accennato, i governi di Rabat,

soprattutto negli ultimi anni, hanno moltiplicato la concessione

di licenze esplorative a compagnie per ricerche sia inshore che

offshore. Per cominciare è bene ricordare il caso Talsint,

località nella provincia di Figuig nella regione dell’Atlante (o

Orientale) ove, nel 2000, venne annunciata ufficialmente la

scoperta di importanti giacimenti di petrolio e gas, rivelatasi,

invece, di scarsa consistenza. In realtà la cautela dovrebbe

oggi farla da padrona. Anche l'Ufficio Nazionale degli

Idrocarburi e Miniere (ONHYM), l’ente statale che dipende dal

Ministero dell’Industria, cerca di calmare le acque; parla solo di

stime di potenziale geologico differenziando queste

informazioni dalla nozione di redditività economica o operativa.

Infatti la scoperta di un giacimento non è sinonimo di un suo

consequenziale sfruttamento sul piano economico. È proprio

per questo che si dovranno attendere almeno 10 anni per avere

una stima realistica delle potenziali riserve, sempre che tali

potenzialità corrispondano alle aspettative. Un’altra

congiuntura positiva del rinnovato interesse internazionale per

gli idrocarburi in Marocco sono gli “echi” creati dalla crisi libica

e da alcune incertezze in Algeria relativamente alla sicurezza,

quale l’attacco di terroristi islamici al sito di In Amenas, e

dell’assetto istituzionale, con riferimento allo stato di salute del

Presidente Boutelika. Tuttavia il Marocco importa il 95% di

idrocarburi e questo lo rende gravemente esposto alle

fluttuazioni del mercato. L’attuale politica energetica basata

sulla promozione delle energie rinnovabili possiede un gap più

ampio di quello previsto in considerazione delle difficoltà del

consorzio per le centrali eoliche che potrebbe essere colmato

da quanto trovato offshore.

Riguardo la continental shelf a ridosso del Marocco, alcuni

analisti riportano un rinvigorito interesse di alcune major

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companies quali BP e Chevron. 10 pozzi esplorativi verranno

resi operativi nel prossimo anno a fronte dei 9 complessivi

presenti dal 1990. L’ottimismo geologico e’ supportato dai

recenti findings in Brasile, in considerazione delle simili

caratteristiche geologiche.

Altre compagnie, in genere quelle minori quali San Leon Energy,

Kosmos Energy, Repsol Exploraciones, Longreach oil, Chariot

Oil, Pura Vida, Nautical Petroleum, Cairn Energy e Gulfsands

Petroleum, sono attratte anche dai vantaggi fiscali che

l’amministrazione locale garantisce.

Agli inizi di novembre 2013, Cairn Energy e Gulfsands

Petroleum hanno iniziato le loro indagini, rispettivamente nella

regione di Gharb e a 120 km al largo della costa di Boujdour,

con perforazioni previste nel 2014.

Tuttavia una parte delle aree di esplorazione insiste nel Sahara

Occidentale, che annesso unilateralmente dal Marocco nel 1975,

è considerato dalle Nazioni Unite territorio sotto disputa e

quindi rappresenta un limite alle attività senza considerare le

incerte linee di demarcazione della Zona Economica Esclusiva

tra Spagna, che conduce analoghe esplorazioni nelle acque

delle Canarie, assai contestate dalle amministrazioni locali, e

Marocco/Sahara Occidentale.

I fosfati, il vero petrolio marocchino

In termini di capacità estrattive è comunque utile sottolineare

che il Marocco è il quarto produttore mondiale di fosfati (dopo

USA, Russia e Cina), con una capacità produttiva stimata in

quasi 19 milioni di tonnellate l'anno, estratti dai campi di

Benguerir, Khouribga, e dalle miniere di Youssoufia, nel

Marocco centrale, per un totale di 85 miliardi di m3 di riserve, e

da quella di Boucraa, nel Sahara Occidentale, con circa 1

miliardo di m3.

Poiché i produttori di fosfati sono pochi e la popolazione

mondiale è in continua crescita, i fertilizzanti per l’agricoltura

saranno uno degli aspetti critici del futuro unitamente all’acqua.

Il fosforo non scomparirà ma diverrà molto costoso. Quindi solo

i paesi più "ricchi" avranno fertilizzante per far produrre il loro

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cibo con la conseguenza di innescare un circolo vizioso che

renderà economicamente poco valide le operazioni di vendita e

produzione agricola. Secondo questa logica, i paesi produttori

di fosfati si arricchiranno grazie ai ricavi dei concimi estratti dai

fosfati.

Con la popolazione mondiale che raggiungerà i 9 miliardi entro

il 2050, il Marocco si potrebbe trovare al centro di tutte le

strategie globali orientate ad assicurare cibo per tutti e a

combattere la fame, in quanto i fosfati sono fondamentali nel

processo di preparazione dei concimi e fertilizzanti per

l’agroindustria e l'Office Cherifien des Phosphates (OCP), è il

più grande esportatore mondiale di fosfato grezzo, acido

fosforico e fertilizzanti fosfatici.

Recentemente altre nazioni stanno entrando in questo mercato

quali Kazakhstan, Arabia Saudita, Algeria, India, Giordania,

Israele, Egitto, Australia e Sudafrica.

Conclusioni

Da queste brevi note emerge che le prospettive energetiche, in

senso ampio, della parte Occidentale del Nord Africa, sono

indubbiamente interessanti se verranno confermate.

La tempistica non è immediata e questo rappresenta un punto

interrogativo aggiuntivo sulle dinamiche regionali, stante le

difficoltà libiche. Se le proiezioni relative agli idrocarburi

prodotti da scisti verranno confermate, i dati del mercato

potrebbero cambiare, mentre le coste atlantiche del Marocco e

del Sahara Occidentale, con una vasta porzione dell’Algeria

sudoccidentale, sembrano averne in abbondanza.

Tuttavia non si può ignorare l’incognita che l’incremento

estrattivo di questi idrocarburi e l’avvio di esportazioni da parte

di un paese leader nel settore, quale gli Stati Uniti, potranno

avere sia sulle dinamiche globali sia su quelle trans-regionali,

regionali e sub-regionali (Medio Oriente, Nord Africa ed Europa,

Mediterraneo).

In prospettiva questa nuova situazione potrà mutare realtà

consolidate e aprire nuovi scenari, con opportunità e rischi.

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La sicurezza energetica in Africa Marco Cochi – Ricercatore Ce.Mi.S.S.

Dall’inizio del nuovo secolo, il tema della sicurezza energetica è

ricomparso ai primi posti nelle agende politiche dei governi di

tutto il mondo, che hanno ripreso a focalizzare la loro

attenzione su una questione primaria per il buon

funzionamento della macchina statale. Il rinnovato interesse

sul livello di soddisfacimento della domanda energetica interna

e, in particolare, sulla prevedibilità degli andamenti della

quantità di energia disponibile a lungo termine, si è ampliato di

pari passo con l’aumento della dipendenza da gas e petrolio per

usi industriali, riscaldamento e trasporti in generale. Uno dei

punti che incidono maggiormente nella questione è la

distribuzione diseguale degli idrocarburi a livello globale. Tale

aspetto ha influenzato in maniera sostanziale le politiche di

sicurezza energetica dei singoli Paesi impegnati

nell’accaparramento di fonti di energia. Questi ultimi, per

garantirsi la certezza degli approvvigionamenti si sono orientati

a distribuire la dipendenza su una gamma di risorse più estesa

possibile, riducendo in questo modo le preoccupazioni riguardo

l’instabilità nei singoli Stati produttori, i timori di espropriazioni

di aree petrolifere per motivazioni politiche e il rischio di

imprevisti tagli di fornitura. Per questo motivo, molti governi

stanno investendo in energie rinnovabili come quella solare,

eolica, geotermica, idroelettrica e da biomasse, così come nel

nucleare, senza trascurare la continua esplorazione di nuove

regioni che potrebbero ancora fornire grandi quantitativi di

combustibili fossili. Un’esplorazione motivata dalla crescente

domanda globale di prodotti petroliferi, come evidenziato dalle

stime dell’Energy Information Administration americana (EIA),

che dai quasi 88 milioni di barili al giorno (b/g) del 2010,

prevede che la domanda totale giungerà a 92 milioni di b/g nel

2020 per arrivare a quasi 103 milioni di b/g entro il 203067.

67www.eia.gov/cfapps/ipdbproject/IEDIndex3.cfm?tid=5&pid=54&aid=2.

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In questo scenario, una delle regioni che ha attirato maggiore

attenzione è il continente africano. Tale interesse, è stato

inizialmente ispirato da una serie di scoperte di nuovi

giacimenti di petrolio, gas naturale e altri idrocarburi nel Golfo

di Guinea, a partire dalla fine degli anni Novanta.

L’area in questione conta la più alta densità di riserve off-shore

a livello mondiale, oggi ampiamente fruibili grazie ai recenti

sviluppi tecnologici nelle attrezzature di prospezione, che

rendono possibile lo sfruttamento di giacimenti sottomarini a

costi sostenibili, anche in acque molto profonde.

Nondimeno, il Golfo di Guinea è una delle poche zone al mondo

dove si considera la presenza di importanti giacimenti

sfruttabili su larga scala di light sweet crude, un petrolio di

ottima qualità povero di zolfo, che permette in altri termini di

ottenere più benzina e gasolio per unità raffinata. Una

prospettiva di investimento senza dubbio invitante per le

compagnie petrolifere ed i governi dei Paesi consumatori.

Tuttavia, l’Africa sub-sahariana offre anche altri vantaggi. In

qualità di produttori di petrolio relativamente nuovi, con esigue

capacità tecniche e capitali limitati, molti Stati della regione

sono disposti ad accettare royalty più basse e cedere un

maggiore controllo sulle loro risorse petrolifere, rispetto ai

Paesi che hanno al loro attivo un’esperienza più consolidata

nella produzione di greggio. Di conseguenza, per le compagnie

i profitti potenziali possono essere molto alti.

Questa serie di fattori ha contribuito a determinare l’acuirsi

dell’interesse dei Paesi consumatori verso i giacimenti africani,

ormai diventati uno scenario privilegiato per quel che riguarda

l’estrazione del greggio.

Tra i Paesi del continente che detengono le maggiori riserve di

petrolio, primo fra tutti è la Nigeria, che fa parte dell’Opec,

seguito da Angola e Sudan, mentre altri Paesi come Gabon,

Repubblica del Congo, Ghana e Guinea Equatoriale si stanno

evidenziando come ottimi partner energetici per l’estrazione.

L’ultimo Stato africano ad entrare nel grande gioco è stato lo

Zambia, diventato in breve tempo uno dei nuovi fornitori dei

Paesi asiatici. Nel 2008, l’economia zambiana, strettamente

dipendente dall’industria del rame, di cui è il maggior

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produttore del continente, era stata fortemente penalizzata a

causa del crollo ai minimi storici delle quotazioni del metallo

rosato. La repentina discesa del prezzo del rame aveva

falcidiato le esportazioni di uno Stato che affidava a questa

risorsa il 70% delle sue entrate di valuta straniera. Invece,

adesso l’ex Rhodesia del Nord può vantare una crescita annua

del Pil pari al 7,3%, ripresa che deve in gran parte al greggio.

Per avere una disamina più circostanziata riguardo l’evoluzione

del fabbisogno energetico mondiale di questi ultimi anni e il

ruolo africano, può essere utile analizzare le politiche

energetiche portate avanti da uno dei principali player mondiali,

la Cina, che per far fronte alla sua esponenziale crescita

economica è diventata uno dei maggiori consumatori mondiali

di oro nero. Nel 1980, il Paese asiatico produceva due milioni di

barili al giorno consumandone uno. Recenti dati68 rilevano che,

nel 2009 e 2010, la Cina ha registrato una crescita della

domanda di oltre il 12%, attestandosi a 9,4 milioni di barili al

giorno. Pechino per far fronte ad un simile incremento ha

progressivamente elaborato una strategia onnicomprensiva nei

confronti del continente africano, si è quindi posta sia sotto il

profilo economico sia sotto quello politico sullo stesso piano

delle potenze occidentali, che intrattengono rapporti consolidati

con i Paesi africani da tempi ben più remoti. Per comprendere

meglio i termini della questione, è necessario considerare

l’elevata crescita economica registrata negli ultimi anni dal

Dragone asiatico. Una crescita costante e sostenuta che ha

consentito alla Repubblica popolare di entrare nel terzo

millennio come il paese a maggior crescita economica a livello

mondiale, grazie ad una molteplicità di fattori, tra cui un

notevole aumento della produzione industriale. Proprio la

straordinaria performance del settore industriale ha fatto sì che,

dal 1993 ad oggi, la Cina sia diventata il primo importatore

netto di petrolio al mondo69, scalzando dalla prima posizione gli

Stati Uniti, con la conseguenza che la percentuale odierna di

68 www.businesspeople.it/Ambiente/Energia/Torna-a-crescere-il-consumo-di-

petrolio-boom-della-Cina-12-_25964. 69 www.agichina24.it/in-primo-piano/energia/notizie/cina-sorpassa-usabr-/come-importatore-di-petroliobr-.

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energia richiesta dal gigante asiatico sia superiore al 15% della

domanda aggregata globale. Nell’orientare la politica estera è

quindi diventato fondamentale, per il governo di Pechino,

l’obiettivo del mantenimento della sicurezza energetica. Per

accaparrarsi riserve sicure e stabili di energia, la Cina si è

impegnata in campo politico-diplomatico ed ha incoraggiato

l’utilizzo di capitali statali e privati per investimenti in Paesi

esteri dove poter sviluppare l’industria estrattiva e costruire le

infrastrutture necessarie per portare queste risorse in patria o

sul mercato. Le risorse energetiche africane sono abbondanti,

relativamente poco sfruttate e, in quanto collocate di frequente

in contesti di forte instabilità politica, spesso soggette ad una

debole concorrenza internazionale. Sulla base di questi due

fattori, il continente nero rappresenta un bacino ideale per il

rifornimento certo e duraturo di risorse energetiche, come

dimostrato dal fatto che la Cina riceve dall’Africa più del 30%

del suo intero volume di importazione di greggio. L’approccio

cinese al continente è dunque ispirato più dai bisogni interni

che da una visione politica globale. La sua attenzione verso la

macroregione è interamente riconducibile alla necessità di

assicurare un ambiente favorevole allo sviluppo interno, sia in

termini di risorse che di nuovi sbocchi commerciali. L’elemento

fondante del partenariato sino-africano è da ricercarsi nel

pragmatismo economico: nessuna condizione politica ma solo

contratti da firmare. Attraverso la lente della “non ingerenza”,

dittature o democrazie sono identiche agli occhi di Pechino.

L’unica condizione che il governo cinese impone è il rispetto del

principio della cosiddetta one-China policy 70 , attraverso cui

riconosce particolare attenzione agli Stati che hanno rotto le

relazioni diplomatiche con Taiwan, per supportare la causa

della riunificazione cinese. Una clausola alla quale ha ormai

aderito quasi tutto il continente, visto che Pechino mantiene

rapporti diplomatici ufficiali con cinquanta Stati africani su

cinquantaquattro. L’ex Impero di mezzo ripaga a suon di dollari

la fedeltà africana ottenendo in cambio i diritti nella

prospezione e nell’estrazione in Nigeria, in compagnia della

70en.wikipedia.org/wiki/One-China_policy.

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Shell e della nostra Eni, oltre al controllo del 50%

dell’estrazione del petrolio del Sudan e del 25% di quello

dell’Angola. Non a caso, fra i primi dieci fornitori di greggio

della Cina, i tre Paesi africani figurano a fianco degli Stati arabi.

Evitando di soffermarsi sulla redistribuzione della ricchezza

prodotta dal greggio e dei privilegi a essa correlati, ormai

l’Africa sembra avere le carte in regola per diventare

l’alternativa al Medio Oriente dal punto di vista energetico. È

proprio su questo scenario che si sta spostando il confronto

economico fra l’asse atlantico e l’ormai conclamato competitor

cinese, in buona compagnia di altri due nuovi player delle

economie cosiddette emergenti, Brasile e India. Al momento, è

ancora difficile prevedere cosa comporterà a livello geopolitico

ed economico tale spostamento, ma appare ormai evidente che

attraverso il petrolio, l’Africa è riuscita ad ottenere una nuova

statura internazionale, un ritorno d’importanza strategica, dopo

la parentesi seguita all’ondata d’indipendenze degli anni

Sessanta e Settanta. Nella sostanza il continente si afferma

come zona d’interesse per la sicurezza energetica, sempre più

dominata dall’obiettivo di aumentare le dimensioni e la

diversificazione del mercato mondiale.

Ai fini di una corretta analisi, è necessario rilevare anche gli

elementi a sfavore della nuova frontiera africana dell’energia,

che in larga parte presenta ancora delle zone con livelli di

protezione dei diritti civili e amministrativi molto al di sotto

degli standard richiesti per attivare una presenza strutturale di

processi produttivi duraturi. A questo vanno aggiunti altri

fattori, come l’insicurezza, l’instabilità politica, l’elevato livello

di corruzione e la carenza di infrastrutture adeguate.

Quest’ultimo elemento, oltre a concorrere nello specifico al

rallentamento dei ritmi d’estrazione, in generale costituisce uno

dei principali ostacoli per lo sviluppo del business in Africa. Lo

rileva un recente studio71 elaborato dalla società di consulenza

Ernst & Young, sottolineando che se nei prossimi due decenni il

continente intende continuare a progredire, lo sviluppo delle

71 www.ey.com/Publication/vwLUAssets/Africa_Attract_2013_-_Getting_down_to_business/$FILE/Africa_attractiveness_2013_web.pdf.

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La sicurezza energetica nel XXI secolo: prospettive dall’Italia e dal Mondo

Informazioni della Difesa Supplemento al n. 6/2013

220

infrastrutture dovrà essere posto in cima ai piani di

investimento.

Secondo Ernst & Young, uno dei settori chiave che richiederà

maggiori risorse per incentivare la crescita economica è proprio

quello energetico. Una considerazione effettuata sulla base dei

non pochi problemi che in questo ambito affliggono i Paesi

africani.

Tra questi, la totale mancanza di reti pubbliche per la

distribuzione di energia elettrica in alcuni Stati, che per porre

fine a questa situazione hanno avviato imponenti progetti per

la produzione, come nel caso dell’Etiopia, che ha in cantiere la

più grande struttura idroelettrica dell’intero continente, la Diga

del grande rinascimento (Grand Renaissance Dam – GRD), che

il governo di Addis Abeba intende costruire lungo il corso del

Nilo Azzurro.

La monumentale opera sorgerà esattamente nella regione di

Benishangul-Gumuz per un costo stimato di 4,7 miliardi di

dollari e la sua realizzazione è stata assegnata da Addis Abeba

all’italiana Salini Costruttori. Secondo diverse stime, a pieno

regime, la GRD avrà una capacità produttiva di energia

elettrica pari a 6mila Mw/anno.

Un altro importante progetto riguarda l’Angola, che lamenta

ancora una marcata inadeguatezza delle infrastrutture esistenti

rispetto al fabbisogno nazionale di prodotti petroliferi lavorati.

Per ovviare a questa carenza, nella città portuale di Lobito, al

confine con la Namibia, sta per essere ultimata dalla coreana

Samsung la costruzione della seconda e tanto attesa raffineria

del Paese. L’impianto avrà una capacità a pieno regime di

200mila b/g, quantitativo più che sufficiente per soddisfare la

domanda interna dell’ex colonia portoghese.

Oltre a quella di Lobito, in Africa è prevista la realizzazione di

un’altra importante raffineria che dovrebbe sorgere in

prossimità del terminale petrolifero di Skhira, in Tunisia. I

negoziati del progetto, che consiste nella realizzazione di una

struttura con una capacità minima di 120mila b/g, vanno

avanti dal 2007. Dopo alterne vicende, nel gennaio 2012, la

Qatar Petroleum ha riavuto la concessione dell’appalto dal

governo tunisino, anche se nel luglio scorso il primo ministro

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libico Ali Zeidan ha manifestato l’intenzione del suo governo di

voler subentrare nella realizzazione dell’impianto.

Nonostante la messa in opera di questi progetti a livello

nazionale, gli Stati africani per garantire la sicurezza energetica

alle loro economie devono cominciare a pensare in maniera

regionale e in qualche misura anche continentale.

Le ragioni di tale approccio per lo sviluppo del settore

energetico sono riconducibili a due fattori. In primo luogo, i

costi per operare investimenti nello sviluppo di infrastrutture

energetiche sono spesso proibitivi perché la loro redditività è

basata su economie di scala. Un impedimento che per essere

superato richiede risorse comuni.

Per fare un esempio, sono pochissimi i Paesi africani che

potrebbero permettersi un investimento di 4,7 miliardi di dollari

su un singolo progetto come la nuova diga in Etiopia.

In secondo luogo, c’è il problema dei mercati. Pur

rappresentando il 12 % della popolazione del pianeta, l’Africa

consuma uno scarso 3% dell’elettricità mondiale, di cui oltre il

75 % ripartito tra Africa settentrionale (33%) e meridionale

(45%). Il residuo è suddiviso tra il resto degli Stati sub-

sahariani. Inoltre, l’accesso all’energia elettrica sul continente

rimane relativamente basso, con tassi medi del 43%, con il

Nord Africa che si attesta al 99%, mentre le altre sub-regioni

oscillano tra il 12 e il 44%72.

Questo significa che i progetti su vasta scala, come quello

etiope della Grande diga, per avere un feedback positivo

devono garantirsi l’accesso ai mercati internazionali.

72 sustainabledevelopment.un.org/content/documents/3214interconnection_powerpools.pdf.

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L’interazione fra sicurezza energetica e cambiamenti climatici in Africa

Marco Massoni – Ricercatore Ce.Mi.S.S.

I cambiamenti climatici sono oggi tra i problemi maggiori per

chi deve gestire a livello nazionale o locale ed internazionale o

globale le politiche ambientali. Sette su dieci disastri sono oggi

legati al clima e circa duecento milioni di persone potrebbero

diventare profughi a seguito di impatti climatici entro il 2050. Il

degrado ambientale derivante dai cambiamenti climatici mina

lo sviluppo sostenibile e rappresenta una seria sfida per il

raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio

dell’ONU73. Il problema del cambiamento climatico è dunque

una questione cruciale nell’agenda dello sviluppo globale, che

preoccupa in maniera crescente per quello che riguarda sia la

scarsità delle risorse e la loro più opportuna gestione sia

l’equità e le asimmetrie tra Paesi sviluppati e Paesi in Via di

Sviluppo (PVS); le emissioni di carbonio74 oggi generate nelle

zone ricche e più industrializzate del pianeta determinano

73 Gli 8 OSM sono i seguenti: - sradicare la povertà estrema e la fame; - assicurare l’educazione primaria universale; - promuovere la parità di genere;

- ridurre la mortalità infantile; - migliorare la salute materna; - combattere l’AIDS/HIV, la malaria e le altre malattie; - garantire la sostenibilità ambientale, migliorando la qualità dell’aiuto

anche mediante il trasferimento tecnologico; - sviluppare un partenariato mondiale per lo sviluppo. 74 Secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) il mondo si sta

allontanando dall’obiettivo concordato dai Governi di limitare l’aumento della temperatura media globale nel lungo termine entro i 2 gradi Celsius (°C). Le emissioni mondiali di gas ad effetto serra sono in rapida crescita. Ebbene sarebbe sufficiente applicare quattro politiche energetiche, sì da mantenere fattibile l’obiettivo dei 2°C ovvero: adottare misure specifiche per l’efficienza

energetica, da cui deriverebbe il 49% dei risparmi emissivi; limitare la costruzione e l’uso delle centrali di generazione a carbone meno efficienti

(21%); minimizzare le emissioni di metano (CH4) durante la produzione di petrolio e gas naturale (18%); accelerare la (parziale) eliminazione dei sussidi al consumo di fonti fossili(12%).

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conseguenze negative ai danni delle popolazioni e delle

comunità più povere del mondo, le cui emissioni di carbonio

sono invece molto modeste. Ad esempio in Africa le emissioni

pro capite rappresentano un dato trascurabile rispetto a quelle

globali, le cui nefaste conseguenze per l’ecologia africana

rischiano di provocare nel medio periodo effetti pressoché

irrimediabili. Il cambiamento climatico rappresenta una

minaccia significativa per lo sviluppo dell’Africa75, dal momento

che può compromettere i più che incoraggianti risultati

economici recentemente conquistati da parte degli Stati africani

emergenti. I cambiamenti climatici costano oggi all’Africa nel

suo insieme circa quattro punti percentuale del proprio PIL ogni

anno, moltiplicando le minacce nelle zone a rischio di conflitto

persistente. È interessante infatti osservare come l’impatto

diretto del cambiamento climatico sia meno rilevante in sé

rispetto invece al suo ruolo di amplificatore (triggering) degli

effetti di altre tendenze già in atto in Africa, quali soprattutto:

un elevato tasso di crescita della popolazione nei prossimi

decenni, prima che la curva demografica vada stabilizzandosi;

un alto tasso di urbanizzazione; la stagnazione della

produttività agricola, e, infine, il danno antropico ambientale

sottoforma di deforestazione incontrollata, erosione del suolo e

declino della fertilità del suolo specialmente nelle regioni semi-

aride come il Sahel. Pertanto, per far fronte alla sfida del

cambiamento climatico, i governi africani non potranno

esimersi dall’approntare quanto prima tanto meglio piani di

fattibilità per l’elettrificazione regionale di grandi dimensioni.

Inoltre dovranno immancabilmente investire non solo in

tecniche agricole eco-compatibili, sviluppando nuove

generazioni di sementi, in grado di sopportare meglio la siccità

e la salinità, ma anche e soprattutto in programmi di

educazione pubblica che spieghino diffusamente l’impatto del

cambiamento climatico sulla vita e sulle abitudini delle

comunità, raccomandando semplici pratiche, al fine di meglio

preservare il proprio ambiente. Vero è che malgrado numerose

75 Dall’inizio del XX Secolo la temperatura media di tutto il Continente è aumentata notevolmente e si prevede che aumenterà di 3-4 gradi centigradi entro la fine di questo secolo, con ricadute negative su più ambiti.

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difficoltà, gli Stati africani sono sempre più attenti a parlare con

una sola voce nei fori internazionali sul clima, poiché

responsabili di quella governance globale, necessaria a

garantire la mitigazione 76 dei cambiamenti climatici ed il

relativo adattamento77. In effetti nel corso dell’ultimo decennio

gli Stati africani sono riusciti a negoziare in modo sempre più

efficace e strategico sia bilateralmente sia a livello multilaterale,

come è ampiamente dimostrato ad esempio dall’istituzione nel

2009 in seno all’Unione Africana (UA)78 della Conferenza dei

Capi di Stato e di Governo sul Cambiamento Climatico

(CAHOSCC), rappresentata da otto Paesi (Algeria, Repubblica

del Congo, Etiopia, Kenya, Mauritius, Mozambico, Nigeria e

Uganda). Si noti che l’Africa è un esportatore netto di energia,

vendendo al resto del mondo 570 milioni di tonnellate

equivalenti di petrolio e che solamente il 60% della produzione

di energia africana è consumata in loco, mentre il resto viene

esportato. Pur assistendo ad un vero e proprio oil boom in

questi ultimi anni in Africa, tuttavia una decina di Nazioni

africane (Algeria, Egitto, Marocco, Namibia, Niger, Nigeria,

Senegal, Tunisia, Uganda e Sudafrica) si sta rivolgendo ad una

speciale forma di energia pulita – il nucleare – anche per

diversificare le fonti di approvvigionamento energetico. L’era

dei combustibili fossili è tutt’altro che finita, ma la loro

posizione sarà tendenzialmente sempre meno dominante.

76 La Mitigation (mitigazione) concerne quel range di azioni, necessarie a limitare l’ampiezza oppure il tasso di cambiamento climatico a lungo termine. 77 Con il termine Adaptation (adattamento) ci si riferisce a quelle modifiche nei sistemi ecologici, sociali o economici come risposta a stimoli climatici

attuali o attesi e dei loro effetti o impatti. Più precisamente riguarda o i cambiamenti nei processi, nelle pratiche e nelle strutture per moderare i

danni potenziali o il beneficiare di opportunità con il cambiamento climatico. 78 La commissaria dell’UA responsabile del portafoglio Infrastrutture ed Energia è l’egiziana Elham Mahmoud Ibrahim.

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INDICE DI VULNERABILITÀ IN FUNZIONE DEL CAMBIAMENTO CLIMATICO

La cartina del sesto rapporto annuale del Maplecroft’s Climate Change and

Environmental Risk Atlas79

, rappresentativa dell’Indice di Vulnerabilità del

Cambiamento Climatico per il 2014, indica nella categoria del rischio estremo ben dieci

Paesi africani, molti dei quali nel Golfo di Guinea: Guinea-Bissau, Sierra Leone, Sud

Sudan, Nigeria, Repubblica Democratica del Congo (RDC), Etiopia, Eritrea, Repubblica

Centroafricana (RCA), Ciad e Senegal.

APF & SE4A

Durante la più recente Presidenza italiana del G8 nel 2009 fu

convocata una Sessione Speciale dell’Africa Partnerhisp Forum

(APF)80 sui Cambiamenti Climatici (Addis Abeba, 3 settembre

2009). Fu un momento topico per fare il punto della situazione

prima della Conferenza delle Parti (COP-15) in seno alla United

Nations Framework Convention on Climate Change (UNFCCC)

di Copenaghen, che si svolse nel dicembre dello stesso anno.

Allora l’Italia si era fatta promotrice di un’iniziativa G8 specifica

su questo tema, con la creazione anche di un Gruppo Esperti di

Alto Livello Energia – Africa81. Le considerazioni di allora sono

attuali ancor’oggi: l’Africa è il continente meno responsabile,

79 Cfr. www.maplecroft.com (ultimo accesso: 20-10-2013). 80 L’Africa Partnership Forum (APF) è il foro di discussione del partenariato e del dialogo continuativo fra il G8/OCSE e l’Unione Africana/NePAD. 81 La XVIII Sessione dell’APF, che si è tenuta a Parigi il 25 aprile 2012, co-presieduta da Belgio, Benin, Etiopia e Stati Uniti, ha avuto come core topic proprio l’energia.

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ma allo stesso tempo quello maggiormente danneggiato dai

cambiamenti climatici, indotti dal fattore antropico, dal

momento che produce meno del 4% delle emissioni di gas

globali nel loro insieme (Global Greenhouse Gas Emissions).

Secondo gli esperti dell’APF, quanto alla mitigazione, è urgente

che la comunità internazionale intervenga, per ridurre le

emissioni globali, riconoscendo allo stesso tempo però le

legittime esigenze di sviluppo all’Africa. Per quello che riguarda

l’adattamento, il cambiamento climatico è una realtà e non un

futuribile, impattando già in modo sostanziale sugli ecosistemi

africani, sicché sapersi adattare con successo è fondamentale,

per conseguire uno sviluppo sostenibile. Resta inoltre

essenziale sfruttare appieno il potenziale dell’innovazione

tecnologica oggi disponibile, al fine di rispondere alle sfide della

mitigazione e dell’adattamento, riformando e

proporzionalmente incrementando i meccanismi finanziari

dedicati. Un’altra iniziativa molto indicativa è quella voluta nel

2010 dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon,

la Sustainable Energy for All Initiative (SE4A)82, con il proposito

di assicurare l’accesso universale a servizi energetici moderni,

raddoppiare entro il 2030 il ricorso all’energia rinnovabile, così

come di bissare il tasso di miglioramento dell’efficienza

energetica, garantendo la sicurezza energetica sottoforma di

produzione differenziata dell’energia (energy-mix), riducendone

drasticamente il costo, così da migliorarne l’accesso, attraverso

la promozione di un cospicuo ma preciso set d’investimenti

diretti esteri (IDE) in Africa. Per far ciò, è decisivo,

tecnicamente parlando, sviluppare appieno il potenziale di

risorse dell’Africa, immaginando sistemi idroelettrici di grandi

dimensioni a livello regionale e continentale, promuovendo la

cooperazione regionale sull’energia con un uso efficiente delle

infrastrutture, in modo tale che i quadri giuridici e normativi

siano tra loro resi omogenei o perlomeno armonizzati.

82 Cfr. www.sustainableenergyforall.org (ultimo accesso: 20-10-2013).

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Il Grande Corno d’Africa e la nuova potenza verde, l’Etiopia

Nella regione del Corno d’Africa allargato nel 2012 sono stati

individuati ingenti giacimenti petroliferi ed è stato avviato un

importante piano di lavoro congiunto tra Sud Sudan, Kenya ed

Etiopia, in maniera tale da dare luogo al più importante

corridoio logistico della regione, che prevede la costruzione di

una ferrovia, di un’autostrada e di un oleodotto, che

confluiranno nel Porto di Lamu (Kenya). Tra l’altro il progetto

consentirà maggiore indipendenza al Sud Sudan, per esportare

il proprio greggio. Sempre in Africa Orientale l’Etiopia ha

predisposto un processo d’industrializzazione accelerata

attraverso lo sviluppo di progetti infrastrutturali massicci,

soprattutto nei settori dell’energia e dei trasporti, garantendosi

una crescita a ritmi vertiginosi, pur non essendo un Paese

esportatore d’idrocarburi; è esemplare il processo di

diversificazione degli approvvigionamenti energetici portato

avanti da Addis Abeba, oramai leader africano dell’energia

verde. Per il settore eolico il 26 ottobre l’Etiopia ha inaugurato

ad Ashegoda il più grande impianto eolico di tutta l’Africa Sub-

Sahariana, composto di 84 turbine disposte su una superficie di

cento chilometri quadrati, in grado di erogare una potenza di

120 MW, pari a 400 gigawatt (GW) l’anno. Per quello che

riguarda il settore geotermico l’Etiopia e una società

statunitense-islandese, la Reykjavik Geothermal (RG), hanno

firmato un accordo, per la costruzione nella zona della Corbetti

Caldera del più grande impianto geotermico in Africa dalla

capacità di 1000 MW al costo di quattro miliardi di dollari. Il

Progetto Corbetti si gioverà della sponsorizzazione – un

finanziamento a fondo perduto – della Geothermal Risk

Mitigation Facility (GRMF) di USAID e del finanziamento della

banca di sviluppo tedesca KfW (Kreditanstalt für Wiederaufbau),

così da coprire i costi ed il rischio derivante dalle perforazioni

esplorative. Reykjavik si aspetta i primi 10 MW di potenza già

per il 2015, con un aumento di 100 MW nel 2016, e l’equilibrio

a 500 MW per il 2018. Per quanto riguarda il settore

idroelettrico, si prevede che entro il 2018 l’Etiopia sarà in grado

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di produrre circa 12.500 MW grazie alle sole sue dighe. A fine

maggio 2013 sono cominciati infatti i lavori per opera

dell’italiana Salini per la deviazione del corso del Nilo Azzurro

per la costruzione della diga Grand Ethiopian Renaissance Dam

(GERD), che con una capacità di contenimento di 85 milioni di

metri cubi sarà esclusivamente finalizzata alla produzione di

energia e non a fini agricoli, così da non ridurre la portata

d’acqua per i Paesi vicini. Con i 6mila MW di potenza (più del

triplo di quanto previsto per Gibe III, sul fiume Omo al confine

con il Kenya) è destinata ad essere la più grande centrale

idroelettrica d’Africa. Contro questo progetto faraonico si è

scagliato Il Cairo, per timore di dipendere dalle decisioni di

Addis Abeba in futuro. Benché si registrino tensioni crescenti

con l’Egitto ed il Sudan, a causa anche della recente ratifica da

parte di Addis Abeba del Trattato dei Paesi del Bacino del Nilo83,

cha rimette in discussione il diritto di veto del Cairo e di

Khartoum sull’uso esclusivo delle acque dell’omonimo fiume,

tuttavia siamo ancor lungi dal temere seriamente, perlomeno

nell’immediato, un’idroguerra.

JAES

La Strategia Congiunta Africa-Unione Europea (Joint Africa-EU

Strategy – JAES), operativa dal 2007, ha sviluppato nel corso

del tempo due Piani d’Azione, i quali limitatamente al settore

dello sviluppo sostenibile e del cambiamento climatico da una

parte e a quello dell’energia dall’altra, indicano gli obiettivi, i

risultati attesi, gli attori e le azioni prioritarie da perseguire ed

implementare nel quadro dei rapporti intercontinentali tra le

due capitali, Addis Abeba e Bruxelles, vale a dire la sostenibilità

ambientale ed il cambiamento climatico secondo una visione

condivisa mediante l’implementazione di due specifici

partenariati e cioè l’Africa-EU Partnership on Climate Change e

l’Africa-EU Energy Partnership. La cooperazione euro-africana

83 L’accordo quadro di cooperazione firmato nel 2010 da sei dei dieci membri

della Nile Basin Initiative – che riunisce gli Stati rivieraschi delle sponde del fiume – prevede una revisione in senso più equo sullo sfruttamento delle acque del Nilo.

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tiene debitamente conto dei settori cruciali inerenti al

cambiamento climatico: la sicurezza alimentare, l’agricoltura

sostenibile e la gestione del territorio, il degrado del suolo, la

desertificazione, la conservazione della biodiversità, le

questioni di biosicurezza, compresi gli organismi geneticamente

modificati (OGM), la prevenzione dei rifiuti tossici, la gestione

ecologicamente corretta dei rifiuti, l’uso sostenibile e la

gestione delle risorse naturali, tra cui le foreste, le risorse

ittiche e la gestione integrata delle acque nonché i sistemi di

allerta precoce per migliorare la gestione del rischio di

catastrofi. Le sfide energetiche globali hanno determinato

l’esigenza per l’Africa e per l’Unione Europea di rafforzare la

cooperazione e la solidarietà nella gestione sostenibile delle

loro risorse energetiche e di continuare a promuovere l’accesso

all’energia, la sicurezza energetica e la cooperazione regionale

anche attraverso la EU Energy Facility ed altri strumenti

finanziari. L’Africa e l’UE hanno manifestato interesse ad

avviare un dialogo sull’uso pacifico dell’energia nucleare,

nell’ambito delle disposizioni dell’Agenzia Internazionale per

l’Energia Atomica (AIEA) e del Trattato di Non Proliferazione

Nucleare (TNP) e in linea con gli standard internazionali di

sicurezza. Perentoriamente detto, sembra ancora una volta che

la mancanza di supporto politico per parte europea a tale

visione strategica dia adito a nulla più che ad un mero wishful

thinking di stampo burocratico, se paragonato empiricamente

all’efficienza dell’aggressività sistemica mostrata da Cina e USA

sul versante energetico in Africa.

Power Africa

“Elettrificare l’Africa” è il motto dell’iniziativa Power Africa, un

piano di sviluppo del Governo americano, finalizzato ad aiutare

quei Paesi africani (per il momento solo sei Stati anglofoni:

Etiopia, Ghana, Kenya, Liberia, Nigeria e Tanzania84) che, pur

84 In Etiopia il 17% della popolazione ha accesso all’elettricità, mentre è

importato il 5,3% dell’energia netta utilizzata a fronte di 1,180 MW di capacità di generazione installata; in Ghana il 60,5% della popolazione ha accesso all’elettricità, mentre è importato il 27,8% dell’energia netta

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essendo caratterizzati da un’elevata crescita economica, non si

trovano nelle condizioni di sostenerne il relativo fabbisogno

energetico, dato che dispongono d’infrastrutture inadeguate,

costose, obsolete ed inquinanti. Queste Nazioni sono state

scelte anche per aver fissato propri ambiziosi, ma non velleitari,

obiettivi nella produzione di energia elettrica, con l’impegno di

modificare il proprio quadro normativo in materia. Lo scopo è di

arrivare a farli produrre fino a 10mila MW di energia pulita nel

prossimo quinquennio. L’iniziativa dunque intende aiutare

questi Paesi ad impostare uno sviluppo energetico sostenibile,

incrementando la connettività e l’accesso all’energia pulita,

approfittando del vantaggio peculiare dell’Africa rispetto ai

Paesi sviluppati, costituito proprio dall’assenza di precedenti

strutture da ammodernare, una rivoluzione tecnologica dagli

esiti sorprendenti, in virtù della sua versatilità strutturale a

favore del leapfrogging. Power Africa lavorerà anche a stretto

contatto con la Banca Africana di Sviluppo (BAD), che vi

concorre attraverso un suo fondo ad hoc, la Sustainable Energy

for Africa (SEFA), a garanzia contro i rischi parziali degli

investimenti. Inoltre Mozambico e Uganda parteciperanno a

Power Africa attraverso il loro coinvolgimento nell’Energy

Governance Capacity Initiative (EGCI), che mira a rafforzare e

a razionalizzare le già esistenti capacità nazionali di gestione

delle rispettive risorse energetiche. Invece di impiegare molto

tempo ad individuare quale potesse essere il migliore ambiente

utilizzata, a fronte di 1,985 MW di capacità di generazione installata; in Kenya il 16,1% della popolazione ha accesso all’elettricità, mentre è importato il 19,3% dell’energia netta utilizzata a fronte di 1.706 MW di capacità di generazione installata; in Liberia non vi sono dati disponibili circa l’accesso all’elettricità o l’importazione di energia a fronte di 197 MW di capacità di generazione installata; in Mozambico lo 11,7% della popolazione

ha accesso all’elettricità, mentre il 22,5% dell’energia netta utilizzata viene esportato a fronte di 2.280 MW di capacità di generazione installata; in Nigeria il 50,6% della popolazione ha accesso all’elettricità, mentre il 128,5 percento dell’energia netta utilizzata viene esportato a fronte di 5.898 MW di capacità di generazione installata; in Tanzania il 13,9% della popolazione ha

accesso all’elettricità, mentre il 13,9% dell’energia netta utilizzata è importata a fronte di 957 MW di capacità totale di generazione installata;

infine in Uganda il 9% della popolazione ha accesso all’elettricità, ma non vi sono dati disponibili sulle importazioni di energia a fronte di 529 MW di capacità di generazione installata.

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favorevole agli investimenti americani ed al trasferimento

tecnologico in Africa in ambito energetico, si è preferito dare

seguito ad un approccio decisamente più pragmatico e solerte,

in perfetto stile americano businness-oriented, per cui si

valuterà cosa effettivamente gli Stati Uniti possano fare

attraverso i noti strumenti, o caso per caso addirittura

creandone di nuovi, nelle grosse operazioni energetiche ad

elevato potenziale trasformativo. Da un punto di vista

metodologico Power Africa intende adoperare un approccio

multisettoriale ad alto valore aggiunto, che cerchi di sfruttare i

punti di forza peculiari degli Stati Uniti, ottimizzando e

mettendo a sistema un ampio volet di sinergie quali quelle

delle tecnologie energetiche, delle transazioni del settore

privato, della politica e delle imprescindibili riforme delle

normative nazionali e regionali africane, onde poter veramente

colmare le lacune nel settore energetico continentale. Si

ricorrerà all’assistenza tecnica, ai prestiti garantiti, ai servizi

legali, agli studi di fattibilità e ad azioni diplomatiche mirate,

affinché le opportune riforme abbiano luogo con il conseguente

reale impegno dei rispettivi governi africani, così da rimuovere i

consueti ostacoli burocratici ed accelerare efficacemente il

processo. Partecipano all’iniziativa il Dipartimento di Stato,

USAID, Ex-Im, OPIC, il Dipartimento del Tesoro, il

Dipartimento del Commercio, il Dipartimento dell’Energia, il

Dipartimento dei Trasporti, MCC e USADF. Il coordinamento,

volto ad evitare la sovrapposizione delle attività, e l’information

sharing tra i vari attori viene assicurato dall’Interagency

Transactions Solutions Team, che si riunisce settimanalmente a

Washington 85 . Power Africa si avvale pure di un ufficio di

85 Gli Stati Uniti s’impegneranno per più di 7 miliardi di dollari di

finanziamento per i prossimi cinque anni, coinvolgendo le seguenti istituzioni americane a favore del progetto di elettrificazione di tutta l’Africa Sub-Sahariana: l’Agency for International Development (USAID) fornirà 285 milioni di dollari in assistenza tecnica, sovvenzioni e mitigazione del rischio, in modo da attrarre investimenti privati. La Overseas Private Investment

Corporation (OPIC) si impegnerà fino a 1,5 miliardi di dollari di finanziamento e di assicurazione per progetti energetici. La Export­Import Bank (Ex­Im)

metterà a disposizione fino a 5 miliardi di dollari a sostegno delle esportazioni degli Stati Uniti per lo sviluppo di progetti di energia. La Millennium Challenge Corporation (MCC) investirà fino ad un miliardo di dollari mediante il suo

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coordinamento a Nairobi. Prende così forma un modo efficace

di fare sviluppo per il futuro, che ambisce ad essere replicato

anche in tutti gli altri settori diversi da quello dell’energia. È

evidente che l’interesse americano non nasce dal nulla, ma

cerca di recuperare il ritardo accumulato in questi due decenni

rispetto all’avanzata cinese. L’Africa, che dispone di enormi

risorse naturali (geotermiche, idroelettriche, eoliche, solari ed il

gas naturale86), molte delle quali ancora del tutto inesplorate,

presenta alcune delle economie a più rapida crescita al

mondo87. Calcolate in oltre 600 milioni le persone88 in Africa

Sub-Sahariana che non hanno alcun accesso all’energia

elettrica, tale scacchiere richiederà oltre 300 miliardi di dollari

di investimenti, per raggiungere l’accesso universale all’energia

elettrica entro il 2030; si tratta di cifre indisponibili secondo i

canoni di qualsiasi programma di sviluppo tradizionale. Finora

solo Washington è stata capace di sintetizzare in maniera

country compact, per aumentare l’accesso e l’affidabilità e la sostenibilità della fornitura di energia elettrica mediante investimenti in infrastrutture energetiche, la politica e le riforme normative e il potenziamento delle capacità istituzionali. L’OPIC insieme con la Trade and Development Agency (USTDA) forniranno fino a 20 milioni di dollari per la predisposizione dei progetti e la loro fattibilità tecnica quanto alle energie rinnovabili in

particolare. Il coordinamento di tutte queste attività sarà delegato all’Africa Clean Energy Finance Initiative (US-ACEF), grazie anche al supporto dell’Africa Clean Energy Development and Finance Center (CEDFC) basato a Johannesburg. L’African Development Foundation (USADF) lancerà la Off­Grid Energy Challenge del valore di 2 milioni di dollari, destinati a sovvenzionare fino a 100.000 dollari imprese africane per sviluppare o espandere l’uso di

tecnologie per l’energia elettrica a beneficio delle popolazioni rurali e marginalizzate. Infine nel 2014 OPIC e USAID convocheranno una conferenza dedicata ai temi degli investimenti in infrastrutture e dell’energia in Africa. 86 L’Africa dispone del 4 percento delle riserve verificati al mondo di gas naturale ed il 10 percento del potenziale non sfruttato al mondo per energia idroelettrica. Le risorse geotermiche nella Rift Valley in Etiopia e Kenya hanno il potenziale per fornire fino a 15.000 MW di potenza. 87 Tra il 2001 ed il 2010 erano africane 6 delle Nazioni che sono cresciute più rapidamente al mondo (The World’s Ten Fastest-Growing Economies): Angola, Nigeria, Etiopia, Ciad, Mozambico e Rwanda. Ancora, entro il 2015 saranno africani sette dei dieci Stati a maggiore crescita: Etiopia, Mozambico, Tanzania, Congo, Ghana, Zambia e Nigeria. Si prevede che il PIL africano

passerà dagli attuali duemila miliardi di dollari ai trentamila nel 2050 ossia maggiore di quello dell’eurozona e degli Stati Uniti insieme. 88 Più di due terzi della popolazione dell’Africa Sub-Sahariana è senza elettricità, e più del 85 per cento di coloro che vivono nelle zone rurali non ha accesso all’elettricità.

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operativa le linee guida necessarie a sviluppare la produzione

di energia pulita senza impatti se non residuali dal punto di

vista climatico in Africa 89 . Vedremo presto chi saprà trarre

vantaggio da tanto fervore.

L’INIZIATIVA POWER AFRICA

La cartina indica gli Stati africani fruitori della Power Africa Initiative (Etiopia, Ghana,

Liberia, Kenya, Nigeria e Tanzania) e quelli dell’Energy Governance and Capacity

Initiative (EGCI), cioè Mozambico ed Uganda.

89 L’universalizzazione dell’elettrificazione in Africa dal punto di vista dell’impatto sul cambiamento climatico – in particolare quanto all’effetto serra – è stimata tra l’1 ed il 4% per il 2030.

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Sicurezza e sviluppi energetici: il futuro è dell’Artico Lucio Martino – Ricercatore Ce.Mi.S.S.

Tutti sanno che ci vuole dell'acqua per produrre del cibo. Non

tutti sanno che ci vuole dell'energia per produrre dell'acqua e

ancora meno che ci vuole dell'acqua per produrre energia.

Acqua ed energia sono intimamente interconnesse. Con

l'eccezione dell'energia eolica e di alcune forme di energia

solare, per produrre energia sono necessarie grandi quantità

d'acqua, cosa questa che ne riduce tanto la disponibilità quanto

la qualità.

In Europa e negli Stati Uniti la quantità d'acqua impiegata nel

settore energetico è già maggiore di quella impiegata per

l'agricoltura e con l'avvento delle più recenti tecnologie

estrattive è destinata a crescere notevolmente. Acqua ed

energia sono così legate l'una all'altra al punto che i

cambiamenti nella disponibilità e nella distribuzione dell'una

non possono non impattare nella disponibilità e nella

distribuzione dell'altra.

Nel prevedibile futuro, lo squilibrio tra regioni ricche e povere

d’acqua è destinato ad aumentare. Le risorse idriche delle

regioni polari aumenteranno, mentre diminuiranno quelle delle

regioni dal clima più moderato, come il Mediterraneo e il Medio

Oriente.

Anche per questo i grandi protagonisti del mercato dell’energia

hanno da qualche tempo deciso di allargare i propri orizzonti in

direzione di quella nuova frontiera rappresentata dal Mar

Glaciale Artico.

Con il progressivo aprirsi della regione a nuove e importanti

attività economiche, paesi anche geograficamente molto

lontani guardano ora all’Arctic Council con crescente interesse.

Nel giro di pochi anni, il cambiamento climatico sembra

trasformare l’Artico da ultima frontiera a centro del mondo. Il

Mar Glaciale Artico occupa un bacino approssimativamente

circolare. Le sue dimensioni sono pressappoco equivalenti a

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una volta e mezzo quelle del continente europeo. Come il Mar

Mediterraneo, è quasi completamente circondato dalla

terraferma ed è ricco di numerose isole. Negli ultimi venti anni,

ha perso una distesa di ghiacci paragonabile al doppio

dell’estensione territoriale della Francia. La portata del

processo di trasformazione causato dal cambiamento climatico

in questa particolare regione sembra così grande da poter

modificare gli equilibri politici internazionali conseguenti alla

fine del bipolarismo. Questa nuova accessibilità del Mar Glaciale

Artico alimenta delle problematiche che trascendono gli

interessi delle nazioni litoranee e coinvolgono buona parte del

pianeta. In particolare, grandi interrogativi riguardano le

conseguenze dell’impatto sulla regione di un aggressivo

insieme di attori non governativi intenzionati a sfruttarne le

abbondanti risorse. Se il ghiaccio, che ne rende difficile la

navigazione e quasi impossibile l’accesso alle risorse

sottomarine, continuerà come sembra a contrarsi, questioni

economiche, ambientali e militari, incrociandosi l’una nell’altra,

non potranno non creare un nuovo sistema regionale sulla cui

portata sembra difficile fare previsioni.

Almeno un terzo delle riserve mondiali d’idrocarburi si ritiene

siano concentrate nell’Artico, vale a dire in una regione resa

accessibile da un’evoluzione climatica che la rende poi sempre

più ricca d’acqua. Due i grandi vincitori: l’Alaska per il petrolio

e la Federazione Russa per il gas, ma anche la Groenlandia e il

Canada sono destinati in un futuro ormai prossimo a produrre

enormi quantità d’energia. La grande disponibilità di idrocarburi

e di risorse idriche si sposa poi con un’affinità culturale e una

stabilità politica che non ha pari in nessuna altra regione ad

alta produttività energetica. Infine, l’apertura di nuove rotte

commerciali, nell’attribuire all’Artico un’assoluta centralità nei

flussi commerciali tra Asia e Occidente, sembra dischiudere per

l’intera comunità artica un futuro di preminenza economica e

strategica. Il più agevole accesso garantito a queste risorse

dalla contrazione della calotta polare e dai progressi registrati

nelle tecnologie estrattive, potrebbe aprire ben presto accese

dispute territoriali legate ai diritti di sfruttamento dei giacimenti

sottomarini presenti. È proprio sotto questa luce che si

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spiegano iniziative come la missione del sottomarino

robotizzato russo che ha piantato la bandiera della Federazione

nelle profondità del Mar Glaciale Artico, le periodiche crociere

scientifiche dei rompighiaccio statunitensi e le varie

dichiarazioni con le quali gli Stati Uniti e la Federazione Russa

rivendicano i propri diritti di sovranità e giurisdizione su gran

parte del Polo Nord. Con tutta probabilità, il rischio che i paesi

confinanti con il Mar Glaciale Artico arrivino un giorno a un

qualche attrito sulla spartizione delle risorse regionali sembra

notevolmente esagerato, posto che oltre il novanta per cento

delle ingenti risorse minerarie regionali si trovano all’interno

delle presenti, ben consolidate, delimitazioni territoriali. In

prospettiva, più che lo sfruttamento delle riserve energetiche

regionali, è il controllo delle rotte commerciali a preoccupare

maggiormente.

Tuttavia, sebbene Canada, Norvegia e Federazione Russa siano

in palese disaccordo sui confini settentrionali della piattaforma

continentale Euroasiatica, e persino Stati Uniti e Canada

registrano importanti divergenze sul controllo dei traffici

marittimi, tutti questi paesi sembrano determinati a dirimere

queste controversie in maniera pacifica. Gli indizi in questa

direzione non mancano, a cominciare dalla recente risoluzione

di una disputa concernente una parte del Mare di Barents che

aveva contrapposto per quasi quarant’anni Federazione Russa

e Norvegia. Analogamente, il Canada e gli Stati Uniti, per

quanto lontani da una vera intesa sul proprio ruolo in questa

così particolare parte del mondo, hanno ormai da qualche

tempo raggiunto un primo accordo sulla regolamentazione dei

principali problemi dell’arcipelago canadese.

D’altra parte, lo strumento principale per risolvere le

rivendicazioni sulla sovranità e, quindi, sul controllo e sullo

sfruttamento del Mar Glaciale Artico è una Convenzione delle

Nazioni Unite sulla Legge del Mare che a volte sembra creare

più problemi di quanti non risolva. Questa convenzione, in

pratica ratificata da tutti tranne che dagli Stati Uniti, sostiene

che qualsiasi paese litoraneo può rivendicare un’estensione

marittima pari a duecento miglia nautiche, e può liberamente

sfruttare qualsiasi risorsa naturale all’interno di tale zona. Tale

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area di sovranità può poi essere estesa di altre centocinquanta

miglia alla presenza di una qualche evidenza scientifica che

descriva la relativa piattaforma continentale sommersa come la

naturale estensione del paese rivendicante. Proprio su queste

basi, la Federazione Russa, il Canada e la Danimarca

reclamano come proprio territorio la cosiddetta dorsale di

Lomonosov, una sezione continentale sottomarina lunga quasi

duemila chilometri, che dalle Nuove Isole Siberiane raggiunge

le Isole Artiche Canadesi, dividendo il Polo Nord in una parte

europea e in una parte americana. In gioco è la sovranità sul

Mare di Barents, sul Mare di Bering, sul Mare di Ohotsk e,

ovviamente, sulla porzione centrale ancora ghiacciata del Mar

Glaciale Artico.

Nonostante l’alto livello di collaborazione tipico dei paesi della

regione, il futuro dell’Artico non sembra esente dallo sviluppo di

una dimensione militare. In diversa misura tutti gli Stati

costieri sono già da qualche tempo impegnati nel

potenziamento delle proprie capacità di combattimento in

questo molto particolare teatro di operazioni. Le iniziative

intraprese in tal senso non mancano e spaziano dalla decisione

statunitense di estendere l’area di responsabilità dell’U.S.

Northern Command fino ad abbracciare buona parte del Mar

Glaciale Artico, al trasferimento del Comando Operativo

norvegese all’interno del Circolo Polare Artico, alla

pianificazione da parte delle autorità russe di una brigata

ottimizzata per il combattimento in condizioni climatiche

estremamente rigide, all’intenzione del governo danese

d’istituire un nuovo Comando Artico e, infine, allo stanziamento

disposto dal governo canadese di quasi trentacinque miliardi di

dollari per il progressivo potenziamento della propria marina

militare. Un altro sintomo di questo particolare stato di cose è

poi ravvisabile nella scelta fatta ormai da diversi anni dalle

marine militari di Stati Uniti, Canada e Norvegia di far svolgere

nelle acque del Mar Glaciale Artico la propria esercitazione

annuale congiunta.

Da parte sua, la Federazione Russa, di quando in quando,

intensifica le attività delle proprie unità sottomarine, mobilita la

sua flotta di navi rompighiaccio e lancia i suoi bombardieri

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strategici in missioni che sfiorano i confini del Canada e degli

Stati Uniti. In effetti, la Federazione Russa è in una posizione

molto diversa rispetto a quella degli altri paesi costieri.

Estensione territoriale a parte, sono circa quattro milioni i Russi

residenti nell’Artico. Le altre regioni artiche sono ancora molto

meno densamente popolate e spesso vi risiedono solo

popolazioni native. Il concorrere di questi fattori rende quasi

inevitabile una politica di forti rivendicazioni regionale. Inoltre,

sebbene Stati Uniti e Canada possano contare su di una rete di

piattaforme estrattive e d’impianti portuali, la Federazione

Russa ha un vantaggio notevole anche nel settore

infrastrutturale.

Stante questo quadro, quello che sembra davvero mancare è la

presenza di una qualche seria minaccia. Tutti gli attori regionali,

nell’ambito delle proprie possibilità, sembrano prepararsi per

fronteggiare delle evenienze ancora molto difficili da

intravedere. In ogni caso, questa crescente attenzione

riservata all’Artico non sembra risparmiare neppure una NATO

a volte presentata dal segretario generale Rasmussen come

l’istituzione tra tutte più adatta a occuparsi delle questioni

strategiche regionali, anche perché l’Arctic Council non ha, e

non vuole avere, una dimensione militare. Eppure, la NATO

sembra lontana da un qualsiasi consenso sul proprio ruolo in

questa regione. Un ulteriore prova di quanto sia bassa la

propensione ad attribuire alla NATO un ruolo nel Mar Glaciale

Artico è offerta dal fatto che “Cold Response”,

quell’esercitazione che da otto anni coinvolge in Norvegia le

forze di molti dei paesi membri e dei paesi partner, si svolge

sempre sotto l’egida dell’Alleanza Atlantica. Il Canada si è

sempre opposto a qualsiasi coinvolgimento della NATO

nell’Artico, giudicandolo lesivo dei propri diritti di sovranità. Gli

altri paesi sembrano soprattutto preoccupati della possibilità

che l’attribuzione alla NATO di una qualche responsabilità in

questa regione finisca con l’indispettire una Federazione Russa

che da diverso tempo ha espresso molto chiaramente il proprio

rifiuto nei confronti di qualsiasi collaborazione con la NATO in

questo particolare teatro. Da ultimo, altri attori non

propriamente regionali stanno cercando di ritagliarsi un ruolo di

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maggior rilievo nelle discussioni multilaterali riguardanti le

questioni comuni ai paesi e ai popoli dell’Artico. La Spagna si è

appellata al Trattato di Parigi del 1920 per chiedere alla

Norvegia il libero accesso alle riserve biologiche e minerarie

intorno all’arcipelago di Svalbard, mentre nell’ottobre del 2008

il Parlamento Europeo ha approvato una prima risoluzione

sull’Artico alla quale hanno fatto seguito almeno altri due simili

documenti a firma della Commissione. Le autorità cinesi, da

parte loro, hanno a più riprese descritto la gestione dell’Arctic

Council come un qualcosa destinato ad avvantaggiare i pochi e

a danneggiare i molti e hanno in più occasioni annunciato il

lancio di diverse iniziative di breve e di medio periodo volte a

potenziare l’esplorazione e lo sfruttamento dell’intero Mar

Glaciale Artico.

Infine, la primavera scorsa, la Casa Bianca ha presentato una

finora inedita National Security Strategy for the Arctic Region.

L’obiettivo dichiarato del nuovo documento è di porre gli Stati

Uniti nelle condizioni migliori per rispondere efficacemente alle

emergenti opportunità pur impegnandosi al tempo stesso nella

protezione della specificità di questo particolare ambiente

naturale. Al suo interno sono identificate tre principali linee

d’azione: proteggere gli interessi di sicurezza nazionale,

promuovere una gestione responsabile delle questioni artiche e

favorire la cooperazione internazionale. Al fine di tutelare

l’interesse nazionale, il nuovo documento identifica come

necessario il potenziamento delle infrastrutture regionali, il

miglioramento della raccolta e della condivisione delle

informazioni riguardanti il traffico marittimo, la difesa della

libertà di navigazione e uno sfruttamento responsabile delle

locali risorse d’idrocarburi al fine di contribuire alla sicurezza

energetica della Nazione.

Per perseguire una gestione responsabile della regione artica e

proteggere l’ambiente, gli Stati Uniti si ripromettono poi di

valutare e monitorare le sfide ambientali, adottare una

gestione integrata dell’intero dispositivo di risorse naturali

artiche, aumentare la ricerca scientifica e migliorare la

mappatura del Mar Glaciale Artico, dei suoi corsi d’acqua e

delle relative zone costiere. Infine, per rafforzare l’attuale

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livello di cooperazione internazionale, secondo l’U.S. National

Security Strategy for the Arctic Region, gli Stati Uniti devono

poi aumentare il proprio volume di collaborazione con gli altri

Stati artici ogni qualvolta interessi comuni e valori condivisi lo

rendono possibile, utilizzando l’Arctic Council come un forum in

cui promuovere gli interessi degli Stati Uniti e la cooperazione

con tutte le altre parti interessate, compresi gli Stati non

appartenenti alla comunità artica. Oltre alle priorità strategiche

di cui sopra, il nuovo documento traccia i principi destinati a

guidare la politica statunitense in questa particolare regione,

vale a dire il mantenimento della pace e della stabilità e la

continua consultazione con le popolazioni native. Sempre in

questa nuova elaborazione strategica, gli Stati Uniti

riconoscono poi la necessità di sviluppare le infrastrutture

regionali e le capacità strategiche necessarie per esercitare una

propria sovranità su quei settori dell’Artico di propria

competenza. Tuttavia, non è fatta alcuna menzione di specifici

piani per l’aggiornamento di una flotta di navi rompighiaccio

ormai inadeguata, per la costruzione di nuove infrastrutture

portuali o per la realizzazione degli impianti e delle attrezzature

necessarie per far agevolmente operare la U.S. Coast Guard

nelle regioni settentrionali dell’Alaska. Completamente assente

è poi qualsiasi calendario come qualsiasi informazione di

bilancio. Allo stesso modo, il nuovo documento non offre

nessun dettaglio sul come migliorare la conoscenza della

regione artica.

La maggior parte di questi obiettivi non sono raggiungibili in

assenza di un adeguato programma di finanziamento. Come

nel caso di molte altre simili elaborazioni concettuali prodotte

negli ultimi anni, anche questo nuovo documento strategico

non sembra molto di più di un’altra lunga lista di cose tanto

desiderabili quanto poco realizzabili. Quello in cui la U.S.

National Security Strategy for the Arctic Region sembra riuscire

molto bene è invece nel segnalare agli altri stati dell’Artico e

all’intera comunità internazionale che gli Stati Uniti riconoscono

un proprio ruolo e una propria responsabilità in una regione che

d’ora in avanti occuperà una ben più rilevante posizione

all’interno della propria visione strategica.

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In ogni caso, molto del futuro della regione dipenderà dagli

effetti delle migrazioni causate dallo sviluppo economico e,

quindi, dall’eventuale affermarsi di una nuova identità regionale

che potrebbe anche condurre alla nascita di un’inedita

Federazione Artica. Intanto, in quest’ultima riunione, i ministri

degli esteri degli otto paesi membri hanno deciso l’ingresso in

qualità di osservatori di paesi quali Cina, India, Giappone, Italia,

Corea del Sud e Singapore. Posto che a diversi di questi paesi

era già stata più volte negata tale possibilità, la svolta di metà

maggio sembra rispondere al desiderio di evitare che

continuando a isolare l’Arctic Council dal resto del mondo,

quest’ultimo finisca con l’organizzare un qualche altro tipo di

organismo internazionale all’interno del quale il peso attribuito

agli otto paesi dell’Artico sarebbe stato minore.

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Sicurezza energetica e biocarburanti: dinamiche e rischi globali

Alessandro Politi – Ricercatore Ce.Mi.S.S.

Se le stime di consumo di energia globale, consumo di

biocarburanti, resa per ettaro ed intensità energetica fossero

vere, sarebbero necessari almeno 100 milioni di ettari

coltivabili a livello globale, cioè un po’ meno di quanto è

necessario per la sicurezza alimentare di un miliardo di cinesi.

Tenendo conto di problemi concreti come rischi ecologici

sistemici nei vari continenti, stress idrico presente e futuro,

land and water grabbing, si può comprendere come l’obbiettivo

ipotetico del 27% di biocarburanti nel trasporto globale entro il

2050 presenti serie incognite.

Un altro aspetto spesso sottaciuto nell’intero dibattito

energetico, ed anche in quello agricolo, è l’entità dei sussidi

dedicati fondamentalmente ad interessi corporativi (negli USA

$5 miliardi annui per il petrolio e $20 miliardi per l’agricoltura

in genere): un fattore che non solo distorce prezzi e mercati,

ma che scoraggia sostanzialmente la ricerca innovativa nel

settore in un periodo in cui il denaro pubblico è scarso.

Al momento i biocarburanti rappresentano lo 0,8% dei consumi

globali nel 2011 e diversi scenari prevedono una crescita

intorno al 2-4% nei consumi globali. Ancor più delle fonti

energetiche fossili e nucleari, l’attuale catena

d’approvvigionamento è molto concentrata (4 paesi: USA,

Brasile, Germania, Argentina) e presenta una significativa

vulnerabilità nell’Indonesia e nella Malesia, le maggiori

produttrici di olio di palma. Si tratta quindi di una fonte

energetica complementare sui cui investire risorse pubbliche

con prudenza.

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243

La necessità di un approccio olistico

Il dibattito sui biocarburanti è spinto da tre vettori significativi:

gli interessi di un’industria energetica nascente, le

preoccupazioni di sicurezza energetica e la maggiore attenzione

ai fattori di sostenibilità ecologica. È però impossibile

considerare la questione in modo settoriale precisamente

perché attiene a risorse vitali come acqua, terre agricole, cibo.

La questione dei biocarburanti è uno di quei classici problemi

trasversali che non può semplicemente essere confinata al solo

settore dell’energia oppure al dibattito tra energia fossile e

rinnovabile, perché tocca aspetti non solo strategici come la

terra, l’acqua e le colture alimentari, necessari per produrre il

biocarburante, ma anche altamente culturali, politici e di

psicologia collettiva che possono trasformare un dibattito in

una disputa e questa a sua volta in una forte tensione od un

conflitto. Il furto o la conquista di terre, acqua e cibo sono stati

visti infatti da millenni come casus belli inevitabili.

Per questo è opportuno applicare una metodologia già

impiegata e pubblicata dal CeMiSS nelle sue Prospettive

Generali 2013 che va sotto il nome di “flussi strutturanti”90. I

flussi strutturanti sono flussi di materie, merci, persone,

energia, capitali e conoscenza in senso lato che travalicano i

confini politici esistenti e che strutturano le relazioni all’interno

di un determinato spazio geopolitico complesso attraverso il

loro fluire ed il loro essere intercettati e valorizzati da

organizzazioni esistenti (siano esse statali o non statali). Una

lista dei flussi strutturanti (o shaping flows) si può trovare nel

riquadro seguente.

90 Cfr. AAVV. (coord. scientifico Alessandro Politi), Osservatorio Strategico,

Prospettive 2013, CeMiSS, Roma 2013, pp. 150-151 nell’Appendice metodologica. Vedi anche

http://www.difesa.it/SMD_/CASD/IM/CeMiSS/Pubblicazioni/OsservatorioStrategico/Documents/OsservatorioStrategico2012/Cemiss_Prospettive_2013.pdf (06/10/2013).

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244

Gli shaping flows

Fonte: Prospettive 2013, op. cit..

Come si vede, seguono un ordine ascendente, che rispecchia in

parte la classificazione della piramide di Maslow, correlato con i

bisogni primari per la sopravvivenza e poi progressivamente

con necessità più sofisticate. Il mondo globalizzato inoltre

rende evidente la necessità di un approccio olistico e quindi

capace di seguire interazioni trasversali per due motivi: uno

empirico ed uno politico. Alla base della motivazione empirica

c’è la constatazione ricordata dal famoso battito di ali di una

farfalla in Cina che causa un tornado in Texas: quello che

avviene in una parte del pianeta finisce per avere ripercussioni

più o meno forti in altre, specie se è legato a flussi

strutturanti91. Invece la base della motivazione politica nasce

durante la Rivoluzione Francese con il concetto d’interesse

generale (intérêt général), cioè non la somma degl’interessi

individuali, ma una finalità d’ordine superiore all’interesse

comune e che lo trascende perché incarna l’interesse di

un’intera popolazione. Sino al duplice avvento dell’ecologia e

della globalizzazione, l’idea d’interesse generale era

difficilmente identificabile e giustificabile proprio perché

espresso da una parte in causa come la popolazione o il

governo di uno stato nazionale. Invece quando si adotta il

punto di vista complessivo della sostenibilità della vita sul

pianeta e quindi della specie Homo sapiens, tenendo conto del

fatto che il pianeta è uno, non riproducibile, non ancora base di

future colonie e dotato di scarse risorse rinnovabili, si

91 L’esempio è correlato alla teoria del caos, ma è metaforicamente applicabile anche ai sistemi complessi.

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245

comprende facilmente quale sia l’interesse generale che

trascende ogni altra considerazione parziale. È come vivere in

un’astronave senza pezzi di ricambio e poche risorse di acqua e

cibo riproducibili. L’apparente teoricità del concetto ha d’altro

canto concrete conseguenze strategiche: un’azione non può

essere valutata soltanto sul metro immediato e di breve

dell’interesse nazionale, ma deve considerare l’interesse

generale del pianeta proprio per assicurare un futuro anche al

proprio stato.

Il conflitto delle priorità

Partendo da questa base si può vedere che il primo conflitto di

priorità in un programma di biocarburanti è quello tra il flusso

strutturante dell’ecosistema e la sostenibilità delle coltivazioni

che dovrebbero fornire la materia prima per il biocarburante.

La seguente mappa fa vedere i rischi sistemici ecologici nei vari

paesi a livello globale in associazione con la coltivazione o

prodotto prevalente.

ECORISCHI SISTEMICI E COLTIVAZIONI PER BIOCARBURANTI

Fonte: Elaborazione dell’Autore di una carta FAO, SOLAW (State of the World’s Land

and Water Resources for food and agriculture).92

92 La legenda delle coltivazioni è la seguente: E – etanolo, B – biodiesel, P –

olio di palma, J – Jatropha. La grandezza delle lettere è proporzionale all’importanza della produzione stimata a livello globale. Cfr. FAO 2011. The state of the world’s land and water resources for food and agriculture

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246

Come si vede, tutti i maggiori produttori di etanolo, olio di

palma e jatropha sono esposti a rischi ecosistemici non

trascurabili che riguardano in particolar modo potenze ormai

affermate come Brasile, India, Cina e potenze emergenti come

il Messico e l’Indonesia. L’unica area dove la produzione di

biodiesel è per ora sostenibile è in Germania ed include quasi

tutti i suoi vicini. È importante comprendere che la produzione

di biocarburanti è estremamente concentrata nel mondo e che

per resa energetica ci vuole 1,5 barile di biocarburante per

averne uno equivalente di petrolio. Stati Uniti (48%), Brasile

(22,4%) ed Unione Europea (16,5%) rappresentano l’86,9%

della produzione mondiale. Dopo i due giganti, i grandi

produttori sono Germania (4,8%) ed Argentina (3,8%, dati

2012). La seconda contraddizione riguarda la tensione a cui

sono sottoposti i sistemi idrogeologici rispetto all’esigenza di

avere biocarburanti, altre colture ed ulteriori usi. In questo

caso sono particolarmente utili due mappe che fanno vedere lo

stress idrico ed i futuri rischi di siccità.

(SOLAW) - Managing systems at risk. Food and Agriculture Organization of

the United Nations, Rome and Earthscan, London; http://www.fao.org/fileadmin/templates/solaw/images_graphs/SYSTEMS_AT_RISK_MAP.pdf (7/10/2013).

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STRESS IDRICO GLOBALE AL 2008

Fonte: WWF/The Nature Conservancy, Freshwater Ecoregions of the World (FEOW),

2008

RISCHI DI SICCITÀ A MEDIO-LUNGO TERMINE

Fonte: Maplecroft and CARE, Humanitarian Implications of Climate Change Mapping

emerging trends and risk hotspots, second edition November 2009

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248

Ancora una volta si conferma la vulnerabilità a breve ed a

medio-lungo termine di larga parte dei produttori di

biocarburanti, Stati Uniti, Cina ed India in testa, seguiti subito

dopo da Brasile, Messico e da ampie porzioni del Sud-Est

asiatico93.

Questo combinato disposto, peraltro già considerato da diversi

Stati a rischio idrico, porta ad una più sottile ma non meno

potenzialmente rischiosa sinergia di rischi che va sotto il nome

di accaparramento di terre (land grabbing), ma che in realtà è

anche una significativa incetta di falde acquifere.

Qui le classifiche cambiano considerevolmente se si fotografa la

situazione all’anno corrente perché ci sono solo cinque grandi

acquirenti mondiali (nell’ordine: Corea del Sud, Cina, Arabia

Saudita, Emirati Arabi Uniti, Giappone), mentre i paesi che

hanno ceduto più ettari sono in ordine decrescente: Indonesia,

Madagascar, Filippine, Pakistan, Laos. È evidente che Pechino

da un lato è impegnata a compensare la sua forte perdita di

terre arabili, visto che ha perso 8,2 milioni di ettari dal 1997 al

2009, avvicinandosi pericolosamente alla linea di guardia di

120 milioni di ettari da conservare. Altrettanto chiaro è che

l’Indonesia e la sua popolazione vengono sottoposte a richieste

sempre più difficili da conciliare tra olio di palma, canna da

zucchero, mais, sfruttamento industriale del legname e

necessità alimentari (talvolta ridotte al 4,2% dell’intera area

sfruttabile).

93 Gli Stati Uniti devono inoltre tener conto che una buona parte degli stati

della costa orientale che non subiscono tensioni idrogeologiche potrebbero affrontarle nel giro di un decennio a causa dello sfruttamento incontrollato

degli scisti gassosi e petroliferi. È anche utile notare che l’Indonesia, che nel 2008 non subiva alcuna pressione sulle risorse idriche, rischia in alcune zone grandi siccità a medio e lungo termine.

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SITUAZIONE DELL’ACCAPARRAMENTO DI TERRE (2013)

Fonte: The Diplomat, Chinese Farms Go Global By Elleka Watts, May 31, 2013

Se però si considera diacronicamente il fenomeno, allora

l’intreccio fra paesi che fanno e subiscono incetta di terre e di

acque è molto più complesso, anche se i paesi che cedono in

affitto terre a lungo termine sono pochi e significativi.

IL FENOMENO GLOBALE DEL LAND GRABBING (2005-2009)

Fonte: Global land and water grabbing Maria Cristina Rullia, Antonio Savioria, and

Paolo D’Odorico, Edited by B. L. Turner, Arizona State University, Tempe, July 30,

2012

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L’insieme di queste mappe più la seguente, portano ad

individuare una vulnerabilità sistemica dell’Indonesia nella

fornitura di olio di palma per la produzione di biodiesel da cui

l’UE dipende.

IL COMMERCIO GLOBALE DI BIOMASSE

Fonte: OECD/IEA, Technology Roadmap, Biofuels for transport 2011

Il problema dei margini d’efficienza

Il principale argomento, insieme a quello ecologico, impiegato a

favore dell’uso di biocarburanti è quello della sicurezza

energetica, definito dall’IEA (International Energy Agency)

come “la disponibilità ininterrotta di fonti di energia ad un

prezzo accessibile”. È una definizione che risale praticamente

alla nascita dell’IEA nel 1974 (subito dopo il primo shock

petrolifero, 1973) e che, se concettualmente è ancora

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impiegabile, non può decisamente rivestire il senso che aveva

40 anni fa.

I prezzi sono cambiati, lo stato dell’economia globale è

decisamente in crisi e non promette di uscirne in modo

affidabile prima del 2018, le risorse energetiche facili da

sfruttare (bassi costi d’estrazione ed al consumo) sono in parte

esaurite, ma la struttura dei consumi a favore dei carburanti

fossili è rimasta sostanzialmente invariata, insieme a tendenze

all’aumento globale dei consumi, specialmente per i nuovi

attori economici, cioè Cina ed India.

Distinguendo per grandi periodi, sino al 1991 si pensava che la

sicurezza energetica fosse una risultante di un controllo

politico-militare più o meno diretto sui luoghi di produzione, poi

per tre lustri si è pensato che fosse una questione di portafoglio

e solo da un decennio si è capito che è necessaria una

diversificazione e, soprattutto un risparmio nei consumi. In

sostanza: il primo barile di petrolio che si controlla è quello che

si risparmia. Purtroppo, come si può vedere dal grafico

seguente, esistono forti sussidi al consumo che tanto

depauperano il bilancio degli stati (tanto produttori, quanto

consumatori), quanto distorcono i prezzi di mercato. Un prezzo

depurato dai sussidi sarebbe più sostenibile a livello globale e

sarebbe il più potente incentivo a risparmiare ed investire in

tecnologie alternative convenienti. Spostare linearmente sussidi

da un carburante all’altro non sarebbe la politica più

conveniente.

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IMPORTANZA DEI SUSSIDI NEI PAESI OCSE PER CARBURANTE

Fonte: OECD, Inventory of estimated budgetary support and tax expenditures for fossil

fuels 2013, 2012

A questa distorsione si aggiungerebbe quella dei sussidi

agricoli; ancora una volta è l’OCSE (Organizzazione per la

Cooperazione e lo Sviluppo Economico) che segnala il fatto che

nel 2012 questi sussidi sono aumentati nei 47 paesi membri dal

15% al 17% degli introiti agricoli nel giro di un anno. I paesi

dell’UE, benché sotto assalto finanziario, continuano a pagare

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un 19% di sussidi sugli introiti agricoli, contro il 7% degli USA

ed il 21% in Indonesia, 17% in Cina, 5% in Brasile e 3% del

Sudafrica. Tutti sussidi che finiscono invariabilmente ai grandi

produttori che già sono prosperi.

Vale la pena notare che i grandi produttori di biocarburante

hanno sussidi ad una cifra ed invece l’Indonesia conferma la

sua vulnerabilità anche con il più alto tasso di sussidi. L’olio di

palma è il biocarburante più costo-efficace tra tutti, ma è anche

quello più vulnerabile nell’attuale struttura produttiva globale.

In conclusione appare utile osservare che94:

- le proiezioni dei risparmi ottenibili dal 2010 al 2050 sono

dell’ordine del -1% rispetto ai carburanti convenzionali;

- le proiezioni della domanda di biocarburanti sino al 2050

richiedono l’impiego di una massa di 100 milioni di ettari di

terra coltivabile, più un equivalente ettaraggio per la

generazione di calore ed energia. Se, ed è un’ipoteca seria

sul futuro, si riuscirà a produrre energia e calore solo con la

biomassa di scarti e residui, resta sempre una domanda di

terre e d’acque imponente per un pianeta a demografia

crescente;

- in realtà, anche con investimenti adeguati, nel 2050 i

biocarburanti coprirebbero solo il 27% del fabbisogno di

carburanti da trasporto e si tratta di una stima ottimistica

perché altre fonti fanno intuire che, partendo da uno 0,8%

di consumi globali nel 2011 si arriverebbe ai ritmi attuali

intorno al 2-4% nei consumi globali ed USA seguendo una

curva sostanzialmente invariata.

94 Vedi OECD/IEA, Technology Roadmap Biofuels for Transport, 2012, Key

Findings, pp. 5-6 e REN21, Renewables 2013, Global Status Report (http://www.ren21.net/Portals/0/documents/Resources/GSR/2013/GSR2013_lowres.pdf).

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Efficienza energetica per le Forze Armate Claudio Catalano – Senior analyst Ufficio studi di Finmeccanica S.p.A.

L’efficienza energetica è una delle nuove tendenze nel

procurement e logistica delle forze armate. Ciò deriva

principalmente da tre fattori economici emersi negli ultimi anni,

soprattutto a causa della crisi.

I bilanci della difesa sono stati ulteriormente ridotti spingendo

a risparmi al fine di conservare il livello di finanziamento delle

operazioni e del mantenimento dello strumento operativo.

Alla riduzione dei bilanci si aggiunge l’esposizione ai rischi di

aumento dei costi dovuti alla volatilità dei prezzi dei

combustibili fossili, che sono la principale fonte per le esigenze

energetiche operative. Secondo stime spesso citate, un

aumento di $1 per barile di petrolio incide con costi addizionali

per $ 130 milioni l’anno sul bilancio del Pentagono95.

C’è, infine, la green economy, gli investimenti in tecnologie

energetiche innovative, inclusi l’energia pulita e i carburanti

alternativi ai combustibili fossili, temi che la National Security

Strategy degli Stati Uniti del 2011 ha inserito tra gli obiettivi

strategici per creare posti di lavoro e far ripartire la crescita

economica96.

Gli Stati Uniti hanno 1,5 milioni di militari in servizio e 750.000

dipendenti civili del Pentagono, ovvero quanto gli abitanti di

Houston, 4° città americana o poco meno degli abitanti di

Roma, ma hanno un consumo molto maggiore rispetto a

queste città.

Il Pentagono conta più dell’1% del consumo di energia negli

Stati Uniti e il 90% del consumo delle agenzie federali.

Nel 2012, secondo stime parziali, i militari americani hanno

speso $ 20,4 milioni per il consumo energetico. Hanno

95 Colonel Gregory J. Lengyel “Department of Defense Energy Strategy Teaching an Old Dog New Tricks” The Brookings Institution, Washington DC,

agosto 2007. 96 National Security Strategy maggio 2010, White House, Washigton DC, p. 30.

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utilizzato 827mila miliardi di British Thermal Unit ed emesso 70

milioni di tonnellate di CO2, tanto quanto la Nigeria, che ha

160 milioni di abitanti.

Per questo il Pentagono è il primo singolo consumatore di

energia e di petrolio al mondo e solo 35 paesi al mondo

consumano più petrolio. Ciò soprattutto a causa dell’uso

energetico operativo degli equipaggiamenti che è pari a ¾ del

consumo totale.

Il petrolio equivale all’80% del consumo energetico militare e al

100% dell’uso operativo, soprattutto da parte della US Air

Force (USAF), che consuma la metà del petrolio totale, perché

il propellente aeronautico assorbe quasi il 60% del consumo

totale. Tuttavia il consumo di petrolio è sceso da 400.000 barili

del 2004 ai 350.000 del 2012.

Secondo stime dell’Agenzia Europea per la Difesa (EDA), le

spese annuali complessive per l’energia elettrica delle Forze

armate degli Stati membri dell’Unione Europea (UE) sono pari

ad un totale stimato di oltre 1 miliardo di euro, mentre la

domanda di energia elettrica è pari a quella di uno Stato

Membro di medie dimensioni. Questo rende le Forze Armate il

principale consumatore pubblico di energia nell’UE.

Per le Forze Armate degli Stati Uniti e della UE l’efficienza

energetica militare cerca di soddisfare due obiettivi: migliorare

la sicurezza dell'approvvigionamento, soprattutto petrolio o

attraverso la diversificazione e i carburanti alternativi; e ridurre

l’uso energetico operativo, anche in teatro.

La dottrina degli Stati Uniti e dell’Unione Europea

La Quadriennial Defense Review (QDR) pubblicata dal

Pentagono (DoD) nel 2010 è forse il primo documento

strategico ad affermare l’importanza dell’efficienza energetica

nel settore difesa.

La QDR ritiene che il cambiamento climatico sia strettamente

legato alla sicurezza energetica e alla stabilità economica.

La sicurezza energetica significa avere l’accesso garantito a

fonti di energia e la capacità di proteggere e consegnare

energia sufficiente a svolgere i compiti operativi. Le

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implicazioni geostrategiche e operative dell’energia devono

essere prese in considerazione nell’ambito della pianificazione

della forza, della definizione dei requisiti e del processo di

acquisizione. L’efficienza energetica può divenire un

moltiplicatore della forza perché accresce il raggio e

l’autonomia delle forze in teatro e serve a ridurre il numero di

forze combattenti destinate a proteggere le fonti di

approvvigionamento energetico, che sono vulnerabili sia agli

attacchi asimmetrici che alle interruzioni di fornitura97.

Il Pentagono, come qualsiasi altro ente pubblico, si è

impegnato nel risparmio energetico, attraverso il rispetto dei

parametri chiave di performance e rispettando i prezzi stabiliti

per i carburanti dalla legge di autorizzazione al bilancio della

difesa. Inoltre, investe nelle energie alternative per migliorare

il consumo energetico operativo e ridurre le emissioni

inquinanti, oltre a proteggere il bilancio dalle fluttuazioni dei

prezzi dei carburanti.

Nel 2010 sono state prese diverse iniziative, Sharon E. Burke è

stata nominata Assistant Secretary of Operational Energy Plans

and Programs della difesa. In luglio, il Pentagono ha firmato

con il Dipartimento dell’Energia un Memorandum of

Understanding per la cooperazione e gli investimenti nelle

tecnologie per l’efficienza energetica e l’energie rinnovabili.

L’Esercito ha avviato l’iniziativa Net Zero Energy che mira a

produrre tanta energia quanta ne consuma, con un progetto

pilota in 17 basi militari.

Più di recente il Pentagono ha pubblicato una “Operational

Energy Strategy”.

Entro il 2025, le forze armate americane intendono produrre

tramite energie rinnovabili 3 gigawatt di elettricità, ovvero ¼ di

tutto il consumo energetico, che è pari al consumo di 750.000

famiglie americane e la produzione elettrica di 3 centrali

nucleari98.

L’UE ha preso conoscenza della questione attraverso il “non

paper” pubblicato nel giugno 2012 dalla Task Force per il

97 Quadriennial Defense Review Report, febbraio 2010, DoD, p.87. 98Ucilia Wang “U.S. Military's Big Plan For Renewable Energy Projects” in Forbes 6 agosto 2012.

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mercato e l’industria della difesa. La Task Force si chiede quale

ruolo possano rivestire nel futuro le politiche di efficienza

energetica nel settore difesa, con particolare riguardo

all’efficienza nei combustibili e le energie rinnovabili. Le

tecnologie green possono diventare driver per l’innovazione con

nuovi motori o con il risparmio sui costi, come ad esempio con

l’iniziativa GO GREEN dell’EDA. Una questione fondamentale è

se legare al settore difesa le politiche energetiche dell’UE per

ridurre il consumo di energia e contribuire all’obiettivo

20/20/2099.

A quest’ultima domanda risponde affermativamente la

comunicazione della Commissione sull’industria della difesa

europea COM (2013) 542 finale del 24 luglio 2013.

La comunicazione afferma che l'energia è una questione chiave

per l'UE e il settore difesa è tradizionalmente il principale

consumatore di energia, il cui costo rappresenta una buona

parte del bilancio della difesa e incide sulle spese per le

operazioni militari. Con un totale stimato di 200 milioni di metri

quadrati di edifici e 1% della superficie totale delle terre

emerse in Europa, le forze armate sono anche il più grande

proprietario di terre pubbliche e infrastrutture nell’UE. Le forze

armate potrebbero sfruttare questo potenziale per ridurre il

loro fabbisogno energetico e coprire una parte considerevole di

queste esigenze mediante fonti autonome ed a basso livello di

emissioni. Riducendo allo stesso tempo, i costi e la dipendenza

e contribuendo a raggiungere gli obiettivi energetici dell’UE.

La Commissione predispone alcune azioni per applicare la

comunicazione.

Tra queste lo sviluppo del piano strategico per le tecnologie

energetiche (SET) per promuovere le tecnologie energetiche

innovative ed a basso tenore di carbonio che hanno una

migliore efficienza e sono più sostenibili rispetto alle tecnologie

energetiche esistenti. Le forze armate possono usufruire delle

tecnologie energetiche emergenti del SET ed essere i primi a

sfruttarle.

99 Task Force Defence Industry and Markets non paper, giugno 2012.

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Inoltre, entro la metà del 2014, la Commissione istituirà un

meccanismo di consultazione specifica con gli esperti della

difesa per concentrarsi su efficienza energetica - soprattutto

nelle costruzioni - sulle energie rinnovabili, combustibili

alternativi e infrastrutture energetiche, compreso l’uso di

tecnologie smart grid. Perciò esaminerà l’applicabilità della

politica energetica e della legislazione esistente al settore

difesa e cercherà di identificare altri possibili obiettivi per un

concetto energetico globale per le forze armate. A questo scopo

potrebbe anche pubblicare un manuale sulle energie rinnovabili

e l’efficienza energetica focalizzandosi sull’applicazione della

legislazione esistente e dell’uso di tecnologie innovative o di

strumenti finanziari avanzati.

La Commissione si concentrerà sull'applicazione della direttiva

2012/27/UE nel settore della difesa e sosterrà il progetto

dimostrativo delle forze armate europee GO GREEN

espandendo il progetto sul fotovoltaico ad altre fonti di energia

rinnovabili come l'eolico , biomassa e idroelettrico 100.

La presidenza lituana dell’UE, che prepara il Consiglio Europeo

di dicembre 2013 ha inserito tra i suoi obiettivi la sicurezza

energetica, in particolare una strategia di efficienza energetica

globale per le forze armate europee, promuovendo la green

economy e l’uso più esteso delle risorse rinnovabili per scopi

militari, oltre all’utilizzo di risorse rinnovabili per diminuire

l'impatto negativo sull'ambiente. L’interesse della Lituania

all’energia in campo militare è legato al Centro di eccellenza

NATO per la sicurezza energetica di Vilnius inaugurato nel

settembre 2013.

Il centro di Vilnius collabora con il programma NATO Science

for Peace and Security per lo Smart Energy Team (SENT)

creato dalla NATO alla fine del 2012 per l’efficienza energetica

militare.

100 Commissione comunicazione “Verso un settore della difesa e della sicurezza più concorrenziale ed efficiente”, COM (2013) 542 finale, 24 luglio 2013, p.14.

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Le soluzioni tecnologiche

I progetti prioritari americani per l’efficienza energetica militare

riguardano principalmente:

a) la produzione e lo stoccaggio dell’elettricità per le basi

militari con microgrid e la sostituzione dei generatori elettrici a

combustibili fossili con l’energia solare, eolica o geotermica;

b) la propulsione delle piattaforme con carburanti alternativi,

inclusi i biocarburanti o la propulsione ibrida, a idrogeno,

elettricità o a gas compresso;

c) batterie a lunga autonomia e soprattutto più leggere e

trasportabili a livello individuale per ridurre il peso sui soldati in

pattuglia.

La sicurezza energetica delle basi militari è uno degli obiettivi

prioritari degli Stati Uniti, per migliorare l’affidabilità in

missione, perché le operazioni all’estero dipendono dalla

logistica delle basi negli Stati Uniti. Alcune basi statunitensi già

adottano soluzioni ecosostenibili o energie alternative per

limitare l’impatto sull’ambiente come richiesto dalla legislazione

in materia. I laboratori militari sviluppano tecnologie di uso o

conservazione di energia che sono direttamente utilizzate dai

militari americani101.

Circa 16 milioni di acri di proprietà del Pentagono saranno

dedicati a progetto di energie rinnovabili come la solare, eolica

e geotermica.

Per la sicurezza energetica, dato che le basi dipendono da fonti

di energia esterna, delle microgrid permetteranno di produrre

e stoccare energia, attraverso batterie o altre forme di

conservazione di energia, rimanendo collegate alla rete

elettrica esterna in caso di bisogno102.

Le basi navali hanno il tipo più avanzato di microgrid, lo

“Spyder”, mentre l’USAF è vicina a raggiungere il suo obiettivo

di un gigawatt entro il 2016 e nel 2025 il 25% della sua

elettricità deriverà da energie rinnovabili.

101 QDR Pp. 84-87. 102 Wang op cit..

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Per la propulsione alternativa una questione fondamentale è

legata al ciclo di vita dei prodotti, perché le piattaforme legacy,

già in servizio da tempo, hanno ancora una lunga vita

operativa davanti, mentre si iniziano ad acquisire nuove

piattaforme che rimarranno in servizio per 20-40 anni. Per cui il

Pentagono deve utilizzare carburanti alternativi che siano

chimicamente compatibili con i sistemi di propulsione in

servizio o in progettazione103.

La US Navy è sempre stata all’avanguardia nelle tecnologie di

propulsione dal petrolio al nucleare e sta iniziando la

transizione verso navi interamente elettriche e aerei a

carburanti alternativi.

La USS Makin Island è la prima nave militare di superficie a

propulsione elettrica e nel 2009 è stato testato un motore di un

caccia F/A-18 Hornet con un biocombustibile104.

La futura classe di cacciatorpediniere USS Zumwalt DDG 1000,

operativa nel 2016, sarà interamente elettrica e ad energia

solare, il suo generatore elettrico a gas turbina da 78

megawatt – che può utilizzare biogas - distribuirà energia alla

propulsione, alle armi e agli apparati. Nell’estate 2012, in

un’esercitazione nel Pacifico un gruppo portaerei, inclusi gli

aerei imbarcati, ha utilizzato biocombustibili per metà del

carburante. La US Navy, infatti, mira a realizzare un gruppo

portaerei “green” utilizzando biocombustibili e energia nucleare

entro il 2016. Perciò, la Marina australiana ha deciso di

collaborare con la US Navy sui biocombustibili e l’Esercito

britannico con i Marines 105 . Il presidente Obama ha

recentemente richiesto alla US Navy a al Dipartimento

dell’Energia di collaborare con l’industria per creare

biocombustibili avanzati.

La ricerca di carburanti alternativi è la base della “green

aviation”, l’USAF – attraverso l’Air Force Research Laboratory e

103 Will Rogers “The Operational and Strategic Rationale Behind the U.S.

Military’s Energy Efforts” 7 giugno 2012 Center For New American Security, Washington DC. 104 QDR p.87. 105Siddhartha M. Velandy “US Military Driving Clean Energy Innovation” in The Diplomat, 21 giugno 2013.

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l’Alternative Fuels Certification Division – sta sperimentando i

carburanti sintetici e biocarburanti.

Nel gennaio 2012, ha volato nella base aerea di Buckley un jet

propulso a biocarburante. Nel giugno 2012 ha volato un A-10

Thunderbolt II propulso da una miscela 50-50 di propellente

tradizionale JP-8 e Alcohol-to-Jet, che è un cherosene derivato

dall’isobutanolo, che data la struttura chimica simile può essere

utilizzato indifferentemente al posto del JP-8.

Nel 2016, l’USAF prevede di acquistare almeno il 50% dei

propellenti aeronautici con un carburante alternativo più

ecologico del combustibile fossile. Così gli standard dell’USAF

trascinano anche il settore dell’aeronautica commerciale.

Airbus sta progettando un “aereo verde” per le compagnie

aeree e un progetto di EADS sulle nanotecnologie per

modificare la composizione dei materiali dei serbatoi di aerei e

auto in modo da poterli utilizzare con idrogeno allo stato solido

prevede di collaudare un UAV propulso da fuel cells a idrogeno

allo stato solido nel 2014.

L’Esercito degli Stati Uniti ha deciso con la QDR di trasformare

in veicoli a bassa emissione inquinante tutti i suoi veicoli non

tattici negli Stati Uniti, tra cui nel 2010 c’erano già 500 veicoli a

propulsione ibrida e 4.000 veicoli elettrici.

Dal 2010, c’è un programma pilota in sei basi negli Stati Uniti

di “vehicle-to-grid” che deriva dall’idea che le auto elettriche

sono utilizzate solo per il 3,5% della vita operativa, quindi

quando sono parcheggiate possono pluggarsi ad una microgrid

e restituire elettricità alla rete.

Molte delle tecnologie dei microgrid o delle piattaforme a

propulsione ibrida o elettrica o a biocombustibili possono

essere utilizzate in campo civile. Ad esempio, lo U.S. Army

Research, Development and Engineering Command ha scoperto

che l’uso civile di tecnologie militari trova molte altre

applicazioni alternative alle tecnologie.

La ricerca e sviluppo e le tecnologie utilizzate in campo militare

per creare generatori più efficienti, batterie più a lunga durata,

materiali più leggeri e fonti di energia più facilmente

trasportabili, creano degli spill-over tecnologici che migliorano

le tecnologie ad uso civile.

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Le batterie o comunque i sistemi portatili o aviotrasportati di

immagazzinamento dell’energia sono una delle grandi questioni

da risolvere per l’efficienza energetica. Ad esempio per il

programma “soldato futuro” che utilizza una serie di sistemi di

comunicazione e di puntamento per arma individuale, il

problema è rendere le batterie trasportabili dal soldato,

renderle a lunga durata o facilmente ricaricabili, per limitare gli

scarti e i rifiuti di batterie e il loro smaltimento.

L’Esercito statunitense ad esempio ha un programma per uno

zaino generatore di corrente: Rucksack Enhanced Portable

Power System (REPPS).

I Marines stanno testando il VPM-402 (Vest Power Management

System) per il “Marine Austere Patrolling System” (MAPS) che

ha un pannello ad energia solare più performante del 22% dei

normali pannelli e funziona come un microgrid portatile che

può essere “pluggato” e ricaricato.

I Marines sono ben consci della necessità di limitare al minimo i

pesi da trasportare a spalla sul campo di battaglia, perché sono

di solito impiegati in squadre di fanteria appiedata per pattuglie

di 96 ore, con un fardello di 27 kg a persona, di cui 9kg

costituiti da batterie per radio, GPS, visori notturni e altri

apparati.

In Afghanistan, utilizzando pannelli solari e altre energie

rinnovabili, i Marines hanno diminuito di più di 300 kg il carico

di batterie di una pattuglia appiedata, che ha operato per 3

settimane senza rifornimento di batterie.

L’efficienza energetica in Afghanistan

La logistica associata al trasporto di energia in zona di

operazioni fuori area costituisce un eccellente banco di prova

per sviluppare nuove soluzioni.

Per le basi si è cercato di ridurre i combustibili fossili dei

generatori di elettricità attraverso pannelli solari montati su

tende e zaini o soluzioni più banali come sigillare le tende con

isolanti termici ha permesso di risparmiare $ 20 miliardi

all’anno di elettricità per l’aria condizionata.

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Il Rapid Equipping Force dell’Esercito aveva un programma

“Energy to the Edge” per rifornire con tecnologie ibride o

rinnovabili direttamente le Forward Operating Base (FOB) o gli

avamposti.

A Camp Sabalu-Harrison è stato installato un microgrid da 1

megawatt che ha ridotto il consumo di carburante del 17% e i

costi del 67%.

In una audizione alla Commissione House Armed Services del

29 marzo 2012, Katherine Hammack, Assistant Secretary of

the Army for Installations, Energy and Environment ha

affermato che il genio dell’Esercito ha installato microgrid nelle

basi militari in Afghanistan creando un risparmio di 50 milioni

di galloni all’anno, ovvero 20.000 autocarri in meno nei

convogli.

Rispetto alla seconda guerra mondiale il consumo di carburante

per soldato è aumentato di 20 volte e in Afghanistan gli

americani consumano 45 milioni di galloni di carburanti al mese,

ovvero quanto un anno di risparmio dichiarato dalla Hammack.

I marines per dare il buon esempio, investendo in tecnologie

più efficienti hanno risparmiato 5,4 milioni di galloni di gas

riducendo di 208 autocarri i convogli106. Secondo le statistiche

un Marine è ucciso o ferito ogni 50 convogli107.

Un risparmio di carburante significa meno convogli che

costituiscono uno dei compiti più rischiosi in Afghanistan per il

rischio imboscata. Nel 2011, secondo lo U.S. Transportation

Command ci sono stati 1000 attacchi ai convogli di rifornimento

di carburante108.

Secondo uno studio del 2009 del Environmental Policy Institute

dell’Esercito, un soldato dell’Esercito è ferito o ucciso ogni 24

convogli di rifornimento di carburante in Afghanistan. Tra il

2003 e il 2007, più di 3.000 soldati americani e contractor sono

stati uccisi o feriti nei convogli di rifornimento di carburante o

d’acqua in Iraq e Afghanistan.

106 Velandy, op.cit.. 107 Keith Johnson “Military Aims for Energy Efficiency” in the Wall Street

Journal, 9 marzo 2012. 108 Lt Col. Alan Samuels “Seeking Energy-Efficient Solutions for Military Operations” Blog Casa Bianca, 19 aprile 2012.

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Oltre alle perdite di vite umane, il carburante in zona di

operazioni ha costi molto più elevati, rispetto al prezzo iniziale

di $ 2 a gallone. Il trasporto via aerea, autocarro o elicottero

può portare il prezzo finale fino a $ 400 a gallone. Tuttavia

secondo il Marine Energy Assessment Team, (MEAT) nel 2009

dai $ 2,19 a gallone iniziali, si raggiungevano i $ 6,39 a gallone

per l’uso operativo nelle FOB, mentre il massimo era di $ 11,7

per rifornire le unità negli avamposti più avanzati e isolati109.

Conclusioni

Alla luce di queste considerazioni, l’efficienza energetica

rivestirà sempre maggiore importanza nella pianificazione

logistica e nella progettazione di nuove piattaforme, oltre

all’uso di energie rinnovabili nelle infrastrutture militari al pari

di quelle civili.

Chiaramente piattaforme militari che sono più performanti dal

punto di vista dei consumi rappresentano un risparmio di costi

nel bilancio, che possono essere reinvestiti in altre voci più

importanti per il mantenimento dello strumento militare.

Se fino a poco tempo fa, in base al principio di ridondanza, i

consumi non erano una priorità rispetto alla capacità operativa,

il basso consumo di carburanti inizierà ad essere inserito nei

requisiti operativi delle piattaforme. Se ad esempio uno dei

requisiti fondamentali per una jeep militare era di poter

continuare a marciare con quattro gomme a terra, ora il

requisito di fare 25 km con un litro o la propulsione ibrida

potrebbero diventare altrettanto importanti. Sono finiti i tempi

della seconda guerra mondiale delle “Sahariane” con le fiancate

ingombre di taniche di carburante. Nel futuro i veicoli dovranno

attraversare il deserto con sole due taniche o con una batteria.

109 Rogers op. cit.

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Pentagono: Sicurezza e risparmio energetico Lucio Martino – Ricercatore Ce.Mi.S.S.

Negli Stati Uniti, come in gran parte del resto del mondo, la

crisi energetica è in buona parte il prodotto del concorrere di

due particolari dinamiche: il riscaldamento globale e

l’autosufficienza energetica. Il problema dell’autosufficienza

non è conseguente alla scarsità delle risorse energetiche

perché quest’ultime sono in realtà più che abbondanti, quanto

al divario che intercorre tra la produzione nazionale di raffinati

e la domanda interna di carburanti. Il problema del

riscaldamento globale sembra riconducibile dall’impennata

nell’utilizzo del carbone nei paesi di nuova industrializzazione.

La mancanza di carburanti raffinati ha costretto una non meno

importante impennata delle importazioni, e ha causato un

pericoloso squilibrio nella bilancia commerciale e un senso

d’incertezza che non ha risparmiato neppure il governo federale

statunitense che, da ultimo, si è impegnato nella valutazione

della fattibilità di misure volte a ridurre i consumi energetici di

quello che rimane il più grande dispositivo militare del mondo.

La cosa non può certo sorprendere. Il sistema militare

americano è oggi più che mai dipendente dai vari tipi di

combustibili fossili necessari per il funzionamento di un grande

numero di unità navali e di un’ancora più grande numero di

mezzi aerei e terrestri oltre che, naturalmente, per

l’alimentazione di un non meno importante numero

d’infrastrutture fisse.

La capacità degli Stati Uniti di proiettare la propria potenza

militare in qualsiasi punto del globo richiede quantità incredibili

d’idrocarburi e la fonte primaria di questi idrocarburi è un

mercato economicamente e politicamente instabile. Il prezzo

pagato dagli Stati Uniti per questo stato di cose è molto più

alto di quanto s’immagina, perché non include solo il costo del

carburante, ma anche quello di una logistica che impiega

decine di migliaia di persone, richiede innumerevoli impianti di

stoccaggio e schiera diversi mezzi la cui missione è quasi

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esclusivamente quella di fornire ai sistemi d’arma statunitensi il

carburante necessario per portare a termine la loro missione. Il

combustibile ha quindi un costo aggiuntivo quasi impossibile da

quantificare, perché incide direttamente sull’intera capacità di

combattimento di una moderna forza armata. In questo quadro,

quattro priorità fondamentali dovrebbero teoricamente ispirare

l’azione del dipartimento della Difesa. La prima è una tendenza

alla riduzione dell’uso dei combustibili fossili in tutte le loro

forme; la seconda è la conversione dei sistemi d’arma propulsi

a idrocarburi ad altre forme di propulsione; la terza è la

sostituzione del petrolio con altri tipi di carburanti; la quarta è

l’inserimento dei consumi d’energia tra le variabili riguardanti

l’opportunità di sviluppare un dato sistema d’arma.

Almeno per il momento, il dipartimento della Difesa sembra

intravedere la possibilità di ridurre i propri consumi soprattutto

nello sviluppo di tecnologie a più alta efficienza energetica. Un

ruolo particolare sembra destinato a svolgerlo la U.S. Air Force.

Forti investimenti sono previsti per migliorare l’efficienza

aerodinamica dei presenti e futuri sistemi d’arma, mentre nuovi

tipi di propulsori sembrano già in grado di abbattere i grandi

consumi di carburante dei moderni aerei a reazione quasi di un

terzo, cosa questa di non poca importanza per un sistema

militare che desidera mantenere alta la propria prontezza

operativa. Indipendentemente da qualsiasi sistemazione

geografica, infatti, tutti i mezzi a disposizione delle Forze

armate statunitensi devono essere mantenuti in uno stato di

elevata prontezza, in modo da garantirne il corretto impiego e

assicurare un adeguato livello di addestramento degli

utilizzatori, cosa questa di straordinaria rilevanza per un

sistema militare interamente composto di professionisti. D’altra

parte, equipaggiare con un nuovo motore un velivolo è un

qualcosa di molto costoso che va poi a incidere direttamente su

tutti i principali sistemi di bordo, per non parlare dell’insieme

delle procedure di supporto e di formazione degli equipaggi.

Altri approcci per aumentare l’efficienza dei velivoli oggi

esistenti e incrementare il risparmio di carburante sono stati

già presi in considerazione e si sono spesso tradotti

nell’adozione di particolari accorgimenti aerodinamici, ma

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nell’insieme non sembrano in grado di abbassare sensibilmente

i presenti livelli di consumo.

Ovviamente, anche la U.S. Army intravede come

apparentemente vantaggiosa l’adozione di una nuova politica

energetica. Per far fronte a consumi destinati a raddoppiare

molto rapidamente in tempo di crisi, l’enfasi è in questo caso

posta nell’adozione di fonti d’energia rinnovabili e nello sviluppo

di fonti d’energia alternative. Il fattore più importante nella

riduzione dei consumi di carburante nei veicoli da

combattimento è il peso: mezzi più pesanti semplicemente

richiedono più energia. La U.S. Army ha riconosciuto il

potenziale guadagno di efficienza energetica associato a

materiali e strutture leggeri e sta investendo nella ricerca di

nuove tecnologie in grado di abbattere i consumi a parità di

prestazioni tecnico-operative. Con tali soluzioni si cerca anche

di contenere gli oneri di un’organizzazione logistica che

coinvolge circa ventimila uomini delle forze attive a quasi altri

quarantamila della riserva, per un costo annuo non inferiore ai

tre miliardi di dollari. Inoltre, le unità della U.S. Army

impegnate nell’Operation Iraqi Freedom si sono ben presto

ritrovate a dover considerare i propri consumi di carburante

come il principale fattore di limitazione delle proprie capacità.

Oltre il cinquanta per cento dell’intero carico logistico del

dipartimento della Difesa e almeno il settanta per cento di tutto

il materiale necessario per posizionare sul campo di battaglia le

moderne unità da combattimento è, infatti, rappresentato da

questo o dal quel tipo di carburante.

Da parte sua, anche la U.S. Navy sembra intenzionata a ridurre

la propria dipendenza dalle più tradizionali fonti d’energia. A

questo proposito, quest’ultima prevede in futuro di coprire

attraverso nuove fonti di energia almeno metà del proprio

fabbisogno. Come per i velivoli da combattimento della U.S. Air

Force, anche le piattaforme marittime della U.S. Navy sono

oggi molto più efficienti nei propri consumi d’energia di quanto

non lo fossero in passato. Nel corso degli ultimi anni, la U.S.

Navy ha registrato un aumento del quindici per cento in termini

di efficienza nei propri consumi di carburante e non ha mai

abbandonato i programmi di studio volti a convertire al

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nucleare le unità che utilizzano combustibili fossili. Ovviamente,

come nel caso della ri-motorizzazione dei velivoli della U.S. Air

Force, cambiare propulsione non è davvero un qualcosa di

facile, necessitando di un'ampia opera di riprogettazione

strutturale e di formazione professionale.

Per quanto il dipartimento della Difesa sia responsabile di oltre

i tre quarti dei consumi energetici dell’intero stato federale

statunitense e la tentazione di ridurne i consumi, in

quest’epoca di restrizioni di bilancio, sembra quasi irresistibile

la strada per farlo davvero, senza per questo ridurne le

effettive capacità militari, è ancora molto lunga e incerta, tanto

più che il futuro degli Stati Uniti sembra molto più ricco

d’energia, di quanto generalmente ritenuto. Inoltre, anche la

particolare posizione geografica degli Stati Uniti ha svolto, e

continua a svolgere, un ruolo notevole tanto nell’aumentare

l’intero insieme dei consumi d’energia del sistema militare

nazionale quanto nell’elaborazione di misure volte a porli sotto

controllo. Isolati da due grandi oceani e confinanti con il

Canada e il Messico, due dei paesi meno armati della storia, gli

Stati Uniti si sono a più riprese ritrovati a dover riposizionare la

maggior parte del proprio dispositivo militare in località anche

molto lontane dal continente nord americano. Neanche la fine

della Guerra Fredda ha modificato un atteggiamento strategico

che dall’inizio della Seconda Guerra Mondiale si

contraddistingue per un continuo flusso di uomini e mezzi da e

per il Medio Oriente, l’Europa occidentale e l’Asia del Pacifico.

Ciononostante, o forse anche per questo, il consumo di energia

da parte del sistema militare statunitense sembra essersi

caratterizzato per un tasso relativamente alto di efficienza.

Solo per fare un esempio, negli anni immediatamente

successivi alla fine della Guerra Fredda, quindi prima

dell’impennata conseguente al lancio della Global War on Terror,

a fronte di un bilancio della Difesa pari a circa il quattro per

cento del prodotto interno lordo, il fabbisogno d’energia del

dipartimento della Difesa pesava per meno del due per cento

dell’intero consumo d’energia nazionale. Le Forze armate

statunitensi erano poi da sempre abituate ad approvvigionarsi

in modo anche relativamente casuale del carburante loro

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necessario. La U.S. Navy e la U.S. Air Force si sono spesso

rivolte direttamente al libero mercato per i propri rifornimenti

di carburante e li hanno pagati attraverso delle semplici carte

di credito. Nell’insieme, l’intero dipartimento della Difesa non si

è preoccupato di pianificare e contenere i propri consumi

energetici fino ai primi anni Settanta quando, per ovviare a un

regime di consumi sempre crescenti, gli Stati Uniti si

ritrovarono a importare il sessanta per cento del proprio

fabbisogno di greggio da paesi come il Canada, il Messico e il

Venezuela.

In valori percentuali, l’ammontare di greggio importato dagli

Stati Uniti è oggi molto più basso di allora. Nei prossimi anni,

nuove tecnologie estrattive, quali il fracking, e un maggiore

sfruttamento delle scisti bituminose, dovrebbero riportare gli

Stati Uniti nella condizione di paese esportatore di energia,

alimentando un ottimismo sconosciuto dallo scoppio della

guerra arabo-israeliana del 1973 e dalla rivoluzione iraniana

del 1979. Il peso di questi due avvenimenti nella persistenza di

una problematica percezione degli approvvigionamenti

d’energia è stato, e continua a essere, particolarmente

rilevante. Questi due particolari sviluppi internazionali hanno

per la prima volta nella storia degli Stati Uniti messo in dubbio

tanto la disponibilità dei rifornimenti di greggio quanto la

stabilità del prezzo dello stesso, cosa questa certamente

importante per gli automobilisti americani e quindi per

l’opinione pubblica nel suo insieme, ma non così

particolarmente importante per il dipartimento della Difesa e

per il resto del paese, posto che a quel tempo solo il cinque per

cento delle importazioni di greggio era utilizzato al fine di

produrre energia.

Sebbene è dal 1949 che gli Stati Uniti hanno quasi

costantemente schierato nel golfo Persico tre cacciatorpediniere

e una nave comando, fu solo con l'avvento degli anni Ottanta

che, insieme agli Alleati, presero effettivamente a pattugliarne

le acque. A spingere in questa direzione, dopo molte esitazioni,

fu la lunga guerra che per otto anni vide confrontarsi l'Iraq e

l'Iran. Quanto già più che evidente attraverso la guerra che ha

contrapposto per otto anni gli iracheni agli iraniani lo divenne

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in misura ancora maggiore nell'estate del 1990, all'indomani

dell'invasione irachena del Kuwait: gli Stati Uniti erano

fortemente interessati alla difesa dell'Arabia Saudita, il maggior

esportatore di greggio al mondo.

Tuttavia, il sistema militare statunitense ha iniziato a percepire

l'esigenza di affrontare il problema costituito dai propri consumi

di energia solo in occasione dell'intervento in Afghanistan

dell'autunno del 2001 e poi, in misura ancora maggiore,

dall'intervento in Iraq della primavera del 2003. Forse è per

questo che non è mai stata davvero realizzata una complessiva

strategia di gestione dei bisogni d’energia del dipartimento

della Difesa e non è stata mai creata una singola autorità

centrale incaricata della sua gestione. In ogni caso, nel giro di

pochi mesi, il dipartimento della Difesa si è ritrovato a dover

velocemente sostenere dei flussi di rifornimento caratterizzati

per una dimensione priva di precedenti. Con lo svilupparsi delle

operazioni militari in questi due paesi, l'intero governo federale

si rese ben presto conto che un gallone di benzina, del costo di

tre o quattro dollari negli Stati Uniti, quando arrivava sul

campo di battaglia iracheno o afghano finiva con il costare

anche cento volte tanto.

Questo stato di cose ebbe l'effetto di catalizzare una condizione

di profonda preoccupazione sul presente e sul futuro degli

approvvigionamenti energetici e sulla loro gestione. Le diverse

forze armate da cui è composto il sistema militare statunitense

dal 2005 iniziarono a interrogarsi sui modi con i quali non solo

ridurre il consumo di combustibili liquidi ma anche utilizzare

carburanti alternativi quali, solo per fare un esempio l'etanolo.

A spingere in particolare la U.S. Navy e la U.S. Air Force alla

sperimentazione di biocarburanti ancora oggi estremamente

inefficienti ed estremamente costosi, un ruolo decisivo l'ha

giocato quindi il desiderio di emancipare gli Stati Uniti da una

dipendenza dal greggio mediorientale che val sempre la pena di

sottolineare è più percepita che reale, posto che già dalla fine

degli anni Novanta la stragrande maggioranza delle

esportazioni di greggio mediorientale sono dirette in Cina,

Corea del Sud, Giappone e Indonesia.

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Con la fine dell'impegno militare statunitense in Iraq e

l'approssimarsi del drastico ridimensionamento di truppe

previsto per il 2014 in Afghanistan, l'interesse del dipartimento

della Difesa verso le nuove fonti d'energia sembra radicalmente

scemato. L'attenzione sembra in prospettiva soprattutto

focalizzarsi sull'adozione di fonti alternative di energia

destinate ad alimentare vecchie e nuove infrastrutture fisse,

tanto all'interno quanto all'esterno del territorio nazionale, più

che sullo sviluppo di nuove tipologie di carburanti in grado di

alimentare e sostenere i propri mezzi da trasporto e da

combattimento. Del resto, tali infrastrutture incidono per oltre

un quarto dell'intero fabbisogno energetico del dipartimento

della Difesa e, secondo una particolare scuola di pensiero,

potrebbero rappresentare uno degli obiettivi prioritari di un, per

il vero molto improbabile, attacco cibernetico volto a disturbare

la distribuzione di energia elettrica attraverso l'intero paese. A

questo proposito sembra in questo periodo in fase di studio lo

sviluppo di sistemi di produzione d’energia completamente

contenuti all'interno delle infrastrutture che dovrebbero

alimentare, cosa questa almeno concettualmente possibile

facendo ricorso a impianti a energia solare, eolica e geotermica.

L'idea di sviluppare delle mini centrali nucleari mobili, per

quanto continui periodicamente a caratterizzare il dibattito sul

futuro rapporto con le fonti d'energia del dipartimento della

Difesa sembra ancora lontano dal coagulare quel livello minimo

di consenso necessario per iniziare a pianificarne

effettivamente la realizzazione.

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