La seconda visita pastorale di Benedetto XVI in Africa Il ... 10 ITALIANA...Il continente africano...

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Il continente africano «polmone» spirituale dell’umanità La seconda visita pastorale di Benedetto XVI in Africa Riflessioni del cardinale Robert Sarah ANNO XXIX N. 10 - 2011 - 5 nella Chiesa e nel mondo Diretto da Giulio Andreotti www.30giorni.it MENSILE SPED. ABB. POST. 45% D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/04 N.46) ART.1, COMMA 1 DCB - ROMA. In caso di mancato recapito rinviare a Ufficio Poste Roma Romanina per la restituzione al mittente previo addebito. ISSN 0390-4539 GIULIO ANDREOT TI RICORDA DON LUIGI GIUSSANI

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Il continente africano«polmone» spirituale dell’umanità

La seconda visita pastorale di Benedetto XVI in Africa

Riflessioni del cardinale Robert Sarah

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nella Chiesa e nel mondo Diretto da Giulio Andreotti

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In copertina:

una ragazza africana in preghieraEDITORIALE

Don Giussani e la presenza del laicato nella Chiesa— di Giulio Andreotti 4

COPERTINA

LA SECONDA VISITA PASTORALE

DI BENEDETTO XVI IN AFRICA

Il continente africano «polmone» spirituale dell’umanità— del cardinale Robert Sarah 24

IN QUESTO NUMERO

ANNO DELLA FEDE 2012-2013

Un dono, non un possessointervista con il cardinale Walter Kasper

— di G. Valente 32

CHIESE ORIENTALI

«La nostra è la fede degli apostoli, tramandata da san Tommaso» intervista con George Alencherry,

arcivescovo maggiore della Chiesa siro-malabarese

— di R. Rotondo e G. Valente 48

COLLEGI ECCLESIASTICI DI ROMA

L’India che è nel cuore di Roma— di P. Baglioni 54

AFRICA

La siccità attanaglia il Corno d’Africa— di D. Malacaria 62

MAROCCO

Quando tradizione e modernità si uniscono— di Hassan Abouyoub 66

LIBRI

Quella volta che ho visto piangere Montaleintervista con Leone Piccioni — di P. Mattei 72

RECENSIONE

Lealtà dei cristiani e tolleranza di Roma— di L. Bianchi 78

RUBRICHE

LETTERE DA TUTTO IL MONDO 10

LETTURA SPIRITUALE 14

30GIORNI IN BREVE 40

330GIORNI N.10 - 2011

Chiese orientaliIncontro conGeorge Alencherry, arcivescovomaggiore della Chiesa siro-malabarese

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Sommario

DIREZIONE E REDAZIONE

Via Vincenzo Manzini, 45 - 00173 Roma - ItaliaTel. +39 06 72.64.041 Fax +39 06 72.63.33.95Internet:www.30giorni.it E-mail: [email protected]

Vicedirettori

Roberto Rotondo - [email protected] Cubeddu - [email protected]

Redazione

Alessandra Francioni - [email protected] Malacaria - [email protected] Mattei - [email protected] Quattrucci - [email protected] Valente - [email protected]

Grafica

Marco Pigliapoco - [email protected] Scicolone - [email protected] Viola - [email protected]

Ricerca iconografica

Paolo Galosi - [email protected]

CollaboratoriPierluca Azzaro, Françoise-Marie Babinet, Pina Baglioni, Marie-Ange Beaugrand, Maurizio Benzi,Lorenzo Bianchi, Lorenzo Biondi, Massimo Borghesi, Lucio Brunelli, Rodolfo Caporale, Lorenzo Cappelletti, Gianni Cardinale, Stefania Falasca, Giuseppe Frangi,Silvia Kritzenberger, Walter Montini, Jane Nogara, Stefano M. Paci, Felix Palacios, Tommaso Ricci, Giovanni Ricciardi

Hanno inoltre collaborato a questo numero:

Hassan Abouyoub (ambasciatore del Marocco),il cardinale Robert Sarah

Segreteria

[email protected]

Ufficio legale

Davide Ramazzotti - [email protected]

3OGIORNI nella Chiesa e nel mondoè una pubblicazione mensile registrata presso il Tribunale di Roma in data 11/11/93, n. 501.La testata beneficia di contributi statali diretti di cui legge 7 agosto 1990, n. 250

Società editrice

Trenta Giorni soc. coop. a r. l. Sede legale: Via V. Manzini, 45 - 00173 Roma

Consiglio di amministrazione

Giampaolo Frezza (presidente) Massimo Quattrucci (vice presidente)Giovanni Cubeddu, Paolo Mattei, Roberto Rotondo, Michele Sancioni, Gianni Valente

Direttore responsabile

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Stampa

Arti Grafiche La Moderna Via di Tor Cervara, 171 - Roma

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Questo numero è stato chiusoin redazione il 7 novembre 2011

Finito di stampare nel mese di novembre 2011

3OGIORNInella Chiesa e nel mondo

Direttore Giulio Andreotti

CREDITI FOTOGRAFICI: Godong/Corbis: Copertina; Paolo Galosi: pp.3,25,26,52,54,55,56,57,58-59; Per gentile concessione di padre Marko Ivan Rupnik: p.7; Fototeca Messaggero di SantʼAntonio: p.15; Foto Scala, Firenze: p.17; Osservatore Romano: pp.24,32,35,40,48; M.Merletto/Nigrizia: p.25; Associated Press/LaPresse: pp.27,44,45,62-63,66,67; AFP/Getty Images: pp.27,28,29,31,49,53,68; Pepi Merisio: p.30; Foto Felici: p.31; Romano Siciliani: pp.32,44,45; Franco Cosimo Panini Editore su licenzaFratelli Alinari: pp.33,34,37; National Geographic/Getty Images: p.43; Reuters/Contrasto: pp.43,69; Per gentile concessione di Sua Beatitudine George Alencherry: p.50; Per gentile concessione di padreVarghese Kurisuthara, rettore del Pontificio Istituto San Giovanni Damasceno: p.55; Michael Horowitz/Anzenberger/Contrasto: p.58; James Estrin/Redux/Contrasto: p.58-59; Shobha/Contrasto: p.59; Archivio Giovannetti/Effigie: pp.72,74; LaPresse: p.79.

Il continente africano«polmone» spirituale dell’umanità

La seconda visita pastorale di Benedetto XVI in Africa

Riflessioni del cardinale Robert SarahAN

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nella Chiesa e nel mondo Diretto da Giulio Andreotti

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GIULIO ANDREOTTI RICORDA DON LUIGI GIUSSANI

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La mia conoscenza personale didon Luigi Giussani risale al periodo

a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, ma sape-vo già da tempo chi era, soprattutto per l’impres-sione positiva suscitata in me dal sapere che, inmodo particolare a Milano, nelle università final-mente qualcuno aveva reagito a un certo climaideologico. Avevamo allora la sensazione di unaMilano fortemente contestativa e con espressionipolitiche di infimo livello. C’era molta paura per

l’attività delle Brigate rosse, le gambizzazioni e gliomicidi, ma anche a destra c’erano dei fermentiinquietanti. Nelle istituzioni c’era l’illusione che ilmetodo democratico, cui noi eravamo legati e dalquale non volevamo assolutamente uscire, in defi-nitiva potesse combattere da sé stesso il comuni-smo, ma, forse, in quel momento non bastava più,e quando i violenti pensarono di poter dominare,cominciò da don Giussani e da quelli che lo segui-vano la riscossa. In realtà quella di Giussani fu unaspecie di svolta, di “inversione a U”: non più l’ac-quiescenza all’ideologia dominante ma neanchela reazione opposta, ovvero l’opposizione visce-rale al comunismo.

Prima di parlare di don Luigi vorrei però chiarireun punto: in maniera non corretta l’esperienza didon Giussani è stata letta da più parti come in con-correnza con l’Azione cattolica di quegli anni. Hosempre pensato che fosse una lettura sbagliata giàallora, proprio perché, per quello che intuivo dall’e-sterno, Giussani non partiva mai da un’opposizio-ne a qualcosa ma da un positivo.

L’Azione cattolica aveva sempre avuto un’or-ganizzazione composta da uomini, donne, giova-ni, aspiranti, piccoli, e due movimenti: i laureati egli universitari (la Fuci). Durante il periodo fascista,questa forma di organizzazione era andata piutto-sto bene perché consentiva quel tanto di autono-

di Giulio Andreotti

Editoriale

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Don Giussani e la presenzadel laicato nella Chiesa

Don Giussani e Rose Busingye

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mia e orgoglio di diversità senza creare difficoltà. Efu importante averla realizzata in quella forma ca-pillare, quasi “irreggimentata”. Ricordo che duran-te una delle celebrazioni delle giovani dell’Azionecattolica (i “baschi marrone”) al Foro Mussolini, ilsocialista Saragat disse: «Voglio venire a vedere», ene rimase ben impressionato. L’intuizione giustadi Pio XI era stata quella di aver creato i movimentie i rami, ma lasciando che la base restasse parroc-chiale. Poi, con il tempo si intravvide una certastanchezza. Questo non voleva dire che l’esperien-za delle parrocchie non fosse ancora valida, ma siera interrotto il filo della formazione. Una decina dianni fa, al centenario della Fuci, rimasi quasi scan-dalizzato perché emergeva questa impostazione difondo: “Sia chiaro che noi non siamo un movi-mento di formazione ma di ricerca”. Ma non erastato così per noi che eravamo cresciuti nella Fuci!Per noi i principali obiettivi erano proprio formati-vi: la liturgia, lo studio del Vecchio e del Nuovo Te-stamento, una presenza coraggiosa nelle univer-sità, una collaborazione attenta con gli altri studen-ti e con i professori – dai quali dovevamo farci ap-prezzare in termini qualitativi –, poi il collegamen-to internazionale attraverso “Pax Romana” e unasensibilità sociale coltivata con le missioni assisten-ziali nella Conferenza di San Vincenzo. A questoproposito, ricordo spesso che io devo alle famigliepovere di Pietralata – da cui andavamo con la SanVincenzo – alcune tra le più importanti lezioni di vi-ta che ho imparato. Giulio Andreotti e don Luigi Giussani ¬

Prima di parlare di don Luigi vorrei però chiarire un punto:

in maniera non corretta l’esperienza di don Giussani è stata

letta da più parti come in concorrenza con l’Azione cattolica

di quegli anni. Ho sempre pensato che fosse una lettura

sbagliata già allora, proprio perché, per quello che intuivo

dall’esterno, Giussani non partiva mai da un’opposizione

a qualcosa ma da un positivo

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Negli anni più gloriosi dell’Azione cattolica, comepuò testimoniare il cardinale Angelini, le manifesta-zioni di massa avevano mostrato anche una certaforza ed erano utili, ma erano legate a un momentostorico: la stessa mobilitazione dei Comitati civici nel1948 aveva un fine specifico, e metteva insieme ter-ziari francescani, professori universitari e casalin-ghe. Ma queste manifestazioni, pur positive, se fuoricontesto, erano una specie di antidoto, e il rischioera che l’unico criterio che venisse apprezzato fosseil numero, la massa, considerata tutto, mentre l’indi-viduo, secondo i dettami dell’ideologia extracattoli-ca di allora, non era considerato affatto.

Don Giussani, dicevo, dava il senso della non ac-quiescenza, di non aver paura. Dava la sensazioneche si potesse reagire, anche ideologicamente,portando idee, formazione, aggiornamento. Guar-dando anche al cattolicesimo negli altri Paesi e aquello che stava accadendo nel mondo. Don Gius-sani ha innovato con una sua impostazione chepenso avesse chiara sin dall’inizio, ma che ha intro-dotto gradualmente perché, forse, una predicazio-ne immediata, diretta, come quella che io ho avutomodo di ascoltare, poteva sì suscitare fascino, maaveva bisogno anche di preparazione. E una certaevoluzione c’è stata.

Un altro punto: don Giussani, le opere di Cl, lapresenza dei laici cattolici nella società. Mi per-metto un paragone: pensate a Marta e Maria nelVangelo. Maria ascoltava Gesù e, se Marta non sifosse occupata della cucina – anche se nessunosarebbe comunque morto di fame quella sera per-ché c’era Gesù con loro –, qualche problema ci sa-rebbe stato, perché qualcuno doveva pur prepara-re la cena. Una delle prime volte che ho assistito aun incontro tra i quadri di Cl e don Giussani, mitornò in mente questo episodio del Vangelo, per-ché anche se ero colpito dall’atmosfera dell’in-contro e da quello che si diceva, mi sembrò di co-gliere una distinzione, una differenza tra don Gius-sani e le opere, la Compagnia delle Opere. Que-

ste erano una cosa bellissima e positiva, peròmi sembrava che lui si riconoscesse di più nellafigura di Maria. Quindi era saggio e positivoche qualcuno si occupasse degli aspetti orga-nizzativi, però a lui interessava altro. Una voltaho sentito una sua relazione sul concetto diopera che, se non è radicata e sostenuta dagrandi idee, isterilisce, avvizzisce e muore. Micolpì il punto centrale di questa sua osservazio-ne che non era assolutamente una critica alleopere. Però diceva: «Attenzione, non dobbia-mo essere presi solo dalla materialità». Questotema torna di attualità oggi che riscontriamoun certo “abbacchiamento” nelle università –ma anche in altri ambiti della vita quotidiana –e una certa vivacità si è di nuovo smarrita.

Un terzo elemento: Giussani aveva una co-municativa particolare, ma all’inizio non riusci-vo a capirne lo spirito. Ci sono arrivato coltempo, perché all’inizio era come se parlasseuna lingua diversa dalla mia: diceva delle cosebellissime, che rimanevano nel cuore, ma nonavevo la chiave di lettura di queste cose. Avevaun’espressione carismatica, questo sì, vedeviche era diverso, che c’era qualcosa di diversoin lui; dovessi equipararlo a qualcuno, direi aMazzolari ma anche a don Gnocchi. C’eraqualcosa di diverso in loro, si muovevano sem-pre con un orizzonte più ampio. Di natura in-vece io sono un burocrate, sono portato ad ap-prezzare l’ordinaria amministrazione. Ho sem-pre pensato che i ministri più meritevoli sianoquelli che invece di affannarsi nell’ennesimariforma cercano di far funzionare con umiltà ilmeccanismo che c’è.

Gesù con Marta e Maria,

particolare del mosaico

Mensa di Betania, Marko Ivan Rupnik,

refettorio del Centro Aletti, Roma

Editoriale

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Editoriale

E per capire integralmente don Giussani mi so-no giovate due cose. La prima è stato assistere al-l’elogio funebre fatto da Ratzinger ai suoi funerali.Rimasi molto impressionato perché l’allora cardi-nale Ratzinger fece una fotografia esatta di donGiussani. Non era solo un discorso funebre, si ve-deva che sentiva molto quello che stava dicendo e,secondo me, anche certe linee del pontificato so-no riconoscibili in quel modello di apostolato cheindicava don Giussani. Da come parlò al funeralee anche successivamente, si intuisce che non erasolo ammirazione o senso di amicizia che lo legavaa Giussani, ma anche concordanza sul modello divita cristiana da predicare.

Solo una nota a questo proposito: per me Rat-zinger è un papa autenticamente moderno e lacritica che giustamente muove alla falsa idea dimodernità che oggi invece impera, credo sia lastessa che insegnava Giussani. La nostra genera-zione non era preparata ad affrontare l’idea chela modernità consistesse solo nel non avere rego-le. Mentre sul piano economico e sociale erava-mo abbastanza preparati – penso al Codice di Ca-maldoli, penso alla modernità della riforma agra-ria –, su altri fronti abbiamo aderito a determinatecose perché sembravano segno di modernità,

senza intuirne le conseguenze a lungo termine.Penso, ad esempio, alla modifica nel Codice degliarticoli sul matrimonio, dove il concetto di padredi famiglia, l’autorità, scompare. Le abbiamo su-bite per non sembrare poco moderni.

Ecco, Giussani e Ratzinger sono personalità chesanno indicare una strada. E non tutte le grandi fi-gure del cattolicesimo, al di là della loro fede perso-nale, hanno questo dono. Per esempio Lazzati, chesarà certo in paradiso, perché io l’ho visto qualchevolta a messa, la mattina presto, alla Chiesa del Ge-sù, e sembrava veramente in estasi, però – lo affer-mo con la coscienza di fede di un popolano roma-no quale sono – non direi che sia riuscito a dare unindirizzo all’Università Cattolica.

E per capire integralmente don Giussani mi sono giovate

due cose. La prima è stato assistere all’elogio funebre fatto

da Ratzinger ai suoi funerali. Rimasi molto impressionato

perché l’allora cardinale Ratzinger fece una fotografia esatta

di don Giussani. Non era solo un discorso funebre, si vedeva

che sentiva molto quello che stava dicendo e, secondo me,

anche certe linee del pontificato sono riconoscibili

in quel modello di apostolato che indicava don Giussani

Il cardinale Joseph Ratzinger durante l’omelia in occasione

dei funerali di don Giussani, Duomo di Milano, 24 febbraio 2005

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Ma, tornando a don Giussani, l’altra cosa chemi ha permesso di capirlo meglio è stato parteci-pare molte volte in questi anni alla messa nella Ba-silica di San Lorenzo fuori le Mura che celebra donGiacomo Tantardini, un sacerdote che ha sempremanifestato nei confronti di don Giussani ammira-zione e devozione; presentandolo sempre come ilpunto di riferimento al quale guardare. Mi è capita-to molte volte, da quando sono diventato direttoredi 30Giorni, di partecipare a queste messe del sa-bato sera, ai battesimi, alle cresime, e ogni volta hovisto qualcosa di unico: studenti e lavoratori, giova-ni sposi con i bambini per mano che vanno insie-

me a ricevere la comunione, una cosa veramenteparadisiaca. Mi sono chiesto, anche grazie a unafortunata copertina di 30Giorni del 2008 dedicataa Lourdes, se non fosse poi questo il futuro del cri-stianesimo, il modello del laicato per i prossimi an-ni. Di certo mi ha permesso di comprendere ed en-trare più in sintonia con le parole ascoltate in pas-sato da don Giussani.

(Relazione per il XV Congresso internazionale

sul Volto Santo che si è svolto

presso la Pontificia Università Urbaniana

il 22 e il 23 ottobre 2011)

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Ma, tornando a don Giussani, l’altra cosa che mi ha permesso

di capirlo meglio è stato partecipare molte volte in questi anni

alla messa nella Basilica di San Lorenzo fuori le Mura

che celebra don Giacomo Tantardini, un sacerdote

che ha sempre manifestato nei confronti di don Giussani

ammirazione e devozione; presentandolo sempre come

il punto di riferimento al quale guardare

La copertina di 30Giorni, n. 1 - 2008; don Giacomo Tantardini e don Giussani in piazza San Pietro, Domenica delle Palme,

Anno Santo, 23 marzo 1975

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MESSICOADORATRICI PERPETUE DEL SANTISSIMO SACRAMENTO

La Paz, Bassa California del Sud, Messico

Siamo entusiaste di riprendere il cantogregoriano, soprattutto nelle solennità

La Paz, 4 agosto 2011

Stimato signor direttore,sia lodato il Santissimo Sacramento!Riceva un affettuoso saluto da queste lontane terredella Bassa California del Sud, dove riceviamo co-

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Da tempo giungono a 30Giorni let-tere provenienti non soltanto dai

monasteri di clausura, dai missionari,dai seminari, ma anche da vescovi e sa-cerdoti, da religiosi e religiose, dasemplici fedeli di ogni parte della ter-ra. Abbiamo quindi ritenuto opportu-no intitolare questa rubrica “Lettereda tutto il mondo”, contrassegnando-la con l’immagine di Gesù con gli apo-stoli Pietro, Giacomo e Giovanni trattadall’Ultima Cena, uno dei nuovi mosai-ci della facciata della Basilica del Rosa-rio, a Lourdes, realizzati da padreMarko Ivan Rupnik s.j. in occasione deicentocinquant’anni dalle apparizionidella Madonna a Bernadette. La sceltadell’immagine di Gesù con i discepoliprediletti nell’Ultima Cena desiderasuggerire come anche queste letteresiano un piccolo segno del grande mo-saico di comunità eucaristiche nellequali si rende presente il sacrificio diamore di Gesù, come accennava papaBenedetto XVI mercoledì 26 ottobre.

Le lettere che giungono ogni mesein redazione sono tante. Ci dispiacenon poterle pubblicare tutte, e ce nescusiamo con gli interessati. Ci pre-me però assicurare che tutte vengo-no lette e che a tutte si tenta di ri-spondere, provando, laddove possi-bile, a esaudire le richieste eventual-mente contenute.

Let tere da tut to i l mondo • Let tere da tut to i l

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stantemente la sua bella rivista 30Giorni, grazie allaquale veniamo a conoscere le notizie più varie dellaChiesa e del mondo. Per questo ringraziamo lei etutti coloro che lavorano nella redazione.

Vogliamo ringraziarla anche per il libro «El Hijono puede hacer nada por su cuenta», e per quellocon il cd dei canti gregoriani, che ci hanno dato l’en-tusiasmo per riprendere il canto gregoriano soprat-tutto nelle solennità.

Siamo una comunità di ventuno suore; l’anno scorsosono tornate alla Casa del Padre la fondatrice della co-munità, la reverenda madre María Angélica, e suorMaría de San José, così che, a 46 anni dalla fondazione,nella comunità rimane solo una delle fondatrici.

La salutiamo assicurandole le nostre preghiere eporgendole le nostre congratulazioni per la rivista,

la superiora madre Luisa Beltrán C.

Le immagini che illustrano le pagine delle Lettere da tutto il mondo e quelle della Lettura spirituale sono tratte da affreschi

della Basilica di Sant’Antonio, a Padova. Qui sopra, Crocifissione, Altichiero, cappella di San Giacomo

mondo • Let tere da tut to i l mondo • Let tere da tut to i l mondo •

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MALAWISUORE SACRAMENTINE DI NTCHEU

Ntcheu, Malawi

Chiediamo un contributo per costruire un ostello per ragazze orfane o povere

Ntcheu, 22 agosto 2011

Carissimo signor Andreotti,mentre ero in Italia per un breve periodo, ho avuto lafortuna di trovare e leggere la vostra bellissima rivista30Giorni e di apprezzarne i contenuti.

Quanto avremmo bisogno anche noi, che rise-diamo in terra di missione, dove le notizie non arri-vano mai nella prospettiva reale, di imparare lechiavi di lettura di quanto succede nel mondo e diconoscere quanto avviene di bello anche nel mondodella Chiesa!

È per questo che mi permetto di rivolgermi a leiper chiedere di poter ricevere anche nella mia comu-nità una copia della vostra rivista, che considero unimportante mezzo non solo di informazione ma an-che di formazione!

Inoltre mi permetto di rivolgerle un’altra richiesta:in missione siamo dedite all’educazione, convinte cheoffrire istruzione ed educazione sia il mezzo miglioreper aiutare un Paese a crescere nella direzione di unprogresso lento ma rispettoso della dignità dell’uomo.Vorremmo riuscire a ospitare vicino alla scuola delgrande borgo di Nsumbi (nella diocesi di Mangochi)un centinaio di ragazze orfane o poverissime, per per-mettere loro di frequentare regolarmente la scuola ededicare tempo allo studio, cosa ancora raramentepossibile nei loro villaggi.

Ci stiamo impegnando a costruire un ostello per po-terle ospitare tutto l’anno, quindi dormitori e una cucinacon refettorio, perché trovino un ambiente essenzialeper una vita dignitosa e serena.

Tutto sta diventando così difficile in Africa, ancorpiù in questi tempi in cui sembra che le ingiustizie sui

più deboli si moltiplichino, al punto che il nostroprogetto incontra ogni momento sempre nuoviostacoli! Solo la certezza della necessità di questaopera a favore delle donne d’Africa ci dà il coraggiodi non desistere, anche se le spese si moltiplicano ol-tre i bilanci previsti.

Chiediamo, se possibile, un contributo per portareavanti almeno nell’essenziale questo lavoro grande cheancora ci rimane da compiere.

Per qualsiasi informazione, possiamo tenerci in con-tatto usufruendo della posta elettronica a questo indiriz-zo: [email protected].

Fin da ora ringraziamo di quanto riuscirete a realizza-re per noi e vi ricordiamo davanti al Santissimo Sacra-mento nella nostra adorazione quotidiana.

Con tanta stima e riconoscenza,

suor Ornella Sala e le suore sacramentine di Ntcheu

PORTOGALLOFRATERNITÀ DI SAN FRANCESCO DI ASSISI

Beja, Portogallo

Siamo una fraternità francescana che vive nel sud del Portogallo

Beja, 7 settembre 2011

Pace e bene!Tramite un amico ho avuto la rivista 30Dias, che holetto e riletto diverse volte. Mi è piaciuta immensamen-te perché dà una visione della Chiesa e del mondo mol-to completa. Complimenti per la vostra rivista. Sia lo-dato Dio per la vostra opera di evangelizzazione.

Siamo una fraternità francescana che vive nel suddel Portogallo, in una delle diocesi più povere del Pae-se, la diocesi di Beja.

Ci piacerebbe tanto ricevere la vostra rivista, che sa-rebbe molto utile per la nostra missione e per la forma-zione dei giovani frati della nostra comunità, ma nonabbiamo possibilità economiche.

La nostra comunità si dedica principalmente all’e-vangelizzazione nella regione dell’Alentejo.

Ci piacerebbe molto ricevere anche una copia, perogni fratello, del libretto Quem reza se salva, ma è unpo’ costoso per la nostra comunità che è formata da

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Let tere da tut to i l mondo • Let tere da tut to i l

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otto giovani consacrati i quali, nella povertà e nella le-tizia, annunciano il Vangelo della pace e del bene.

Vi saluto, dandovi l’assicurazione della nostra pre-ghiera per tutta l’équipe della redazione di questa rivi-sta che è uno strumento prezioso per la Chiesa.

Un abbraccio fraterno,

padre Ricardo Borges

Beja, 19 settembre 2011

Pace e bene!Desideriamo ringraziare per l’invio dei libretti Quemreza se salva.

È un libro di preghiere fatto molto bene e sarà mol-to utile per il nostro apostolato di evangelizzazione.Rimaniamo in attesa di qualche copia della vostra ri-

Imago Pietatis, Altichiero, cappella di San Giacomo

mondo • Let tere da tut to i l mondo • Let tere da tut to i l mondo •

¬continua a p. 18

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14 30GIORNI N.10 - 2011

Fiducia!

È la mano di Gesù

che conduce tutto…

Santa Teresa di Gesù Bambino

Non stanchiamoci

di pregare. La fiducia

fa miracoli.

Santa Teresa di Gesù Bambino

Invito alla preghiera

La redazione di 30Giorni invita tutti, e in particolare le persone consacrate dei

monasteri di clausura, a pregare per don Giacomo Tantardini. Da alcuni mesi si

sta curando per un tumore a un polmone. Che il Signore doni di chiedere con fi-

ducia il miracolo della guarigione. Ai sacerdoti che stimano e vogliono bene a

30Giorni chiediamo di celebrare la santa messa secondo questa intenzione. Ai

genitori chiediamo la carità di far pregare i propri bambini.

Let tura sp i r i tua le • Let tura sp i r i tua le • Let

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1530GIORNI N.10 - 2011

Mi è sempre di conforto il brano del Van-gelo che abbiamo ascoltato (Lc 9, 57-62) che, in fondo, sotto diversi aspetti,

dice una sola cosa: e cioè che l’iniziativa nel segui-re Gesù non nasce dall’uomo, ma è di Gesù. Nes-suno può prendere da sé l’iniziativa di seguirLo.

«Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Gv15, 16). L’iniziativa è del Signore. È innanzituttoSua. L’uomo può lasciarsi attrarre, ma non puòprendere da sé l’iniziativa.

Questa cosa, nelle poche e stupende predichedel mercoledì di papa Luciani, è stata come un

Padova, Basilica del Santo, mercoledì 28 settembre 2011,

santa messa nel XXXIII anniversario della morte di papa Luciani

omelia di don Giacomo Tantardini

¬

t tura sp i r i tua le • Let tura sp i r i tua le • Let tura sp i r i tua le • Let tura

La Madonna

degli orbi,

Stefano da Ferrara

«Negli umili la grazia risplende di più»

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ritornello più volte ripetuto. Nella predica sulla fe-de, dopo aver letto in romanesco una poesia diTrilussa, dice: «Questa poesia è bella come poe-sia, ma è difettosa come catechismo», perché,spiega il Papa, la fede non nasce dall’uomo. Lafede è dono di Gesù. Tant’è vero che Gesù ha det-to: «Nessuno viene a me, se non è attirato dal Pa-dre mio» (Gv 6, 44. 65).

Nessuno può andare a Gesù, se Gesù non lo at-tira. La fede è grazia del Signore. E nella predicasulla carità dice proprio così: «Io non parto, se Dionon prende prima l’iniziativa». Noi da soli non par-tiamo, da soli non prendiamo nessuna iniziativa.L’iniziativa è del Signore. Se non incomincia Lui,noi non si parte. Se non attira Lui, noi non Lo se-guiamo. È come un ritornello, in quelle quattrostupende prediche, il fatto che la vita cristiana ègrazia, è iniziativa di grazia, e che la nostra rispo-sta è la corrispondenza a questa attrattiva.

Ma, rileggendo queste prediche del mercoledì,la cosa che più mi ha colpito, questa volta, è statache più volte il Papa dice: «Pregate per questo po-vero Papa». Usa l’espressione «povero Papa»:«Chissà se lo Spirito Santo aiuta questo poveroPapa…». «Quando il povero Papa, quando i ve-scovi, i sacerdoti propongono la dottrina…». Eancora: «Vedo qui, vicino a me, dei fratelli vesco-vi, e poi c’è questo povero Papa». Com’è bella l’e-spressione «povero Papa»! Capisco forse adessoperché il buon cardinal Gantin, commentando ilconclave che ha eletto papa Luciani, ha dettosemplicemente: «Eravamo tutti contentissimi!».Non era una sorpresa l’elezione di Luciani, eraprevedibile, ma erano tutti contentissimi, perchéuna persona povera, una persona umile era stataeletta vescovo della Chiesa di Roma. A una Chie-sa povera, a una Chiesa umile, a una Chiesa pic-colo gregge, era stato dato un Papa povero, unPapa umile e, quindi, erano tutti contentissimi.Perché, come dice sant’Ambrogio: «Negli umilirisplende di più la grazia / In humilibus magis

elucet gratia». Nei poveri, negli umili la grazia ri-splende di più. E quando risplende la grazia siamotutti contenti. Quando risplende quello che fa ilSignore siamo tutti contenti.

Così ricordiamo questo povero Papa a trenta-tré anni dalla sua improvvisa morte. Celebriamo ilricordo di questo povero Papa. Di questo «poveroPapa», povero e quindi grande agli occhi del Si-gnore e agli occhi dei suoi santi. Lo celebriamoqui a Padova, nella Basilica di Sant’Antonio.

«Si quaeris miracula / Se vuoi ottenere mira-coli», dice il canto, «prega sant’Antonio». Così, in-sieme a papa Luciani, insieme ai nostri amici inparadiso, a tutti i santi del paradiso, preghiamo inparticolare sant’Antonio per i miracoli, per tutti imiracoli. Oggi nel breviario, nei vespri, c’era que-sta frase di san Pietro: «Gettate nel Signore ognivostra preoccupazione, perché Egli ha cura divoi» (1Pt 5, 7). Bisogna chiedere tutti i miracoli.Bisogna chiedere tutte le grazie. In questi mesi – elo dico per l’affetto e l’amicizia che ci lega – tantevolte, magari quando la paura e l’angoscia si sonoaffacciate, ho ripetuto questa frase: «Gesù ti of-fro, Gesù guariscimi, Gesù rendimi umile». Biso-gna chiedere tutti i miracoli, per esempio il mira-colo della guarigione. Tutti i miracoli.

Ma l’immagine di sant’Antonio con in braccioGesù bambino suggerisce che tutti i miracoli sonochiesti all’interno di questo abbraccio. «Fuori di tenulla bramo sulla terra» (Sal 72, 25). Fuori di que-sto abbraccio di Gesù, fuori dell’abbraccio di Ge-sù, fuori della dolcezza di Gesù, uno non chiedenulla. Dentro questa dolcezza – come quando An-tonio aveva in braccio Gesù bambino – uno puòdomandare tutto. Come il bambino piccolo, chedomanda tutto al papà e alla mamma. Dentroquella dolcezza, dentro quell’abbraccio: «Fuori dite nulla bramo sulla terra».

Allora, la prima cosa innanzitutto da domanda-re è questa familiarità più che stupenda con Gesù.E la dolcezza della comunione con Gesù. «Fedele èDio, dal quale siete stati chiamati alla comunionedel Figlio suo Gesù Cristo Signore nostro!» (1Cor1, 9). Com’è dolce questa comunione!

Sant’Antonio porta il bambino Gesù in brac-cio, ma è Gesù che porta Antonio. Quante voltedopo la comunione ripeto questa preghiera disant’Ambrogio: «Veni, Domine Iesu, / Vieni,

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Signore Gesù, / ad me veni, / vieni a me,/ quaere me, / cercami, / inveni me, / trovami,/ suscipe me, / prendimi in braccio, / portame / portami». Quando si è portati dal Signore,allora si chiede tutto. Così, in questi ultimi tempidella mia vita, mi è ritornata alla memoria unagiaculatoria dal Cantico dei cantici (2, 16), diquando, piccolo, sono entrato in seminario, chedice: «Dilectus meus mihi et ego illi qui pasciturinter lilia / Il mio diletto è con me…». Il mio dilet-to, perché diletto del cuore è il Signore Gesù. Ilmio diletto è con me; e anche noi poveri peccato-ri, per rinnovata grazia, possiamo dire: «E noi con

Lui che pascola e si diletta tra i gigli». Con Lui cheè il solo santo, il solo Signore. Tu solus sanctus,Tu solus Dominus. L’unico che ci ama con unamore così dolce, così tenero, che l’amore delpapà e della mamma è una piccola immagine diquesto amore.

Chiediamo ai santi, chiediamo a papa Luciani,chiediamo a sant’Antonio, chiediamo a donGiussani, chiediamo ai santi del paradiso che fac-ciano sperimentare anche a noi sulla terra la dol-cezza dell’essere amati da Gesù e, dentro questadolcezza, chiediamo tutti i miracoli. Tutti i mira-coli, che servono a custodire e a vivere la fede. q

La Madonna in trono, Giusto de’ Menabuoi

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vista, che avete avuto la genero-sità di offrirci in abbonamento.Solo Dio potrà ricompensarvi perla vostra così grande generosità.

Vi salutiamo assicurandovi lanostra preghiera per voi.

padre Ricardo Borges

CILEMISSIONARI SALESIANI

Catemu, Cile

Un grazie dalla Terra del Fuoco

Catemu, 8 settembre

Stimatissimi redattori della rivista30Giorni,vi scrive un lettore della vostra rivista. La ricevo pun-tualmente, e trovo che sia ben fatta, utile e che man-tenga uniti alla Chiesa.

Che il Signore vi benedica per questo lavoro chefate a beneficio dei lettori, specialmente di coloro chesono lontani. Sono salesiano e mi trovo in Cile, nellaTerra del Fuoco.

Complimenti per il cd con i canti tradizionali per lamessa in latino, accompagnato dal libretto con i testi:formidabile! Mi ricorda con una certa nostalgia gli an-ni della mia gioventù, quando si usava tanto il latinonella liturgia.

Ora, per sfruttare al massimo il contenuto della ri-vista, vi chiedo il favore di mandarmela in lingua spa-gnola, così che possa circolare tra la gente, poichél’edizione in italiano posso leggerla solo io.

Qui arriva una copia destinata a Giuseppe DeMarchi (il quale si è trasferito definitivamente inItalia).

Vi faccio tanti auguri per la prosecuzione di que-sto lavoro, e per voi il mio ricordo nelle preghiere, e imiei saluti.

Ardiccio Fusi

18 30GIORNI N.10 - 2011

L’Angelo annunciante,

cappella di San Giacomo

Let tere da tut to i l mondo • Let tere da tut to i l

segue da p. 13

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COLOMBIACLARISSE DEL MONASTERO DI BELLO

Bello, Colombia

Grazie per Quien reza se salva

Bello, 24 settembre 2011

Stimato signor Giulio Andreotti,riceva il nostro saluto fraterno di pacee bene, con abbondanti benedizionidel Signore per lo stupendo lavoro dievangelizzazione che porta avanti at-traverso la rivista 30Días.

Nei giorni scorsi abbiamo ricevutodieci copie del piccolo libro Quienreza se salva. Non può immaginarela nostra gioia nel vedere le preghie-re principali del cristiano raccolte inun libretto, che condivideremo con lenuove religiose e i fedeli che ci ac-compagnano durante le celebrazioniliturgiche nel nostro monastero.

Con il nostro sincero ricordo nellapreghiera la seguiamo da vicino, con-dividendo con lei e con i suoi collabo-ratori i tesori spirituali che abbiamo ri-cevuto dal Signore.

Speriamo di ricevere presto la rivista 30Días poi-ché la consideriamo un prezioso strumento spiritualeche ci aiuta a crescere nella fede e nella risposta voca-zionale che diamo a Dio dalla vita contemplativa checi unisce.

Dio vi benedica e la Vergine Santissima vi incoraggi econforti sempre con la forza dello Spirito Santo di Dio.

Con rinnovato affetto e gratitudine,

la badessa suor Margarita María del Sagrado Corazón, osc, e comunità

COREA DEL SUDCAPPUCCINI DELLA CUSTODIA DELLA COREA DEL SUD

Seoul, Corea del Sud

Dai frati cappuccini della Corea

Seoul, 27 settembre 2011

Pax et Bonum.Innanzitutto, grazie per le due copie gratuite del men-sile 30Days. I nostri frati sono molto felici di avere lapossibilità di leggerlo. ¬

mondo • Let tere da tut to i l mondo • Let tere da tut to i l mondo •

La Vergine annunciata,

cappella di San Giacomo

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Sono fra Anthony Choi, frate cappuccino della Cu-stodia di Corea. Sono un seminarista e studio per diven-tare sacerdote. Qui nel nostro convento, che ospita chiva in seminario, ci sono in tutto tre frati seminaristi co-reani e un sacerdote irlandese.

La nostra Custodia è stata fondata dalla provinciairlandese nel 1986 e quest’anno ricorre il giubileod’argento. Nella nostra Custodia sono presenti sedicifrati e due postulanti.

Se vi sarà possibile farci avere 30Days gratuita-mente, i nostri frati ne saranno molto contenti.

Se invece non sarà possibile, va bene lo stesso.Comprendiamo la vostra situazione.

Ricorderò le vostre famiglie e i vostri amici nellemie preghiere.

Vi preghiamo di ricordare i frati cappuccini inCorea.

Dio vi benedica,

Anthony Choi

ITALIA

Noi abitiamo proprio a venti metri dalla chiesetta dove riposano le spoglie del beato don Serafino Morazzone

Chiuso di Lecco, 7 ottobre 2011

Sono abbonata da molti anni alla vostra splendida e im-portante rivista dalla quale mi “abbevero” di cultura ec-clesiale, politica e non solo!

Oggi, all’arrivo del n. 7/8, ho letto a pagina 70l’articolo firmato da Giovanni Ricciardi dal titolo «Lagrandezza della piccolezza», sulla figura del beatodon Serafino Morazzone, citato dal Manzoni nei Pro-messi Sposi (Fermo e Lucia).

Quale sorpresa! Noi abitiamo proprio a venti metridalla chiesetta dedicata a san Giovanni Battista nel rione

di Chiuso di Lecco, dove riposano le spoglie del beato! Inoltre, proprio per dare la possibilità a chi viene in

pellegrinaggio e trovare un punto di ristoro e pernotta-mento, abbiamo aperto un bed and breakfast di cui mipermetto di inviare alla redazione l’indirizzo internet:www.bebtralagoemonti.it.

Rinnovando il mio augurio affinché 30Giorni possaessere sempre di più una rivista di successo, cordialmen-te saluto.

Maria Assunta AnghileriAurelio Brusadelli

FRANCIA DOMENICANE DEL MONASTERO NOTRE-DAME DE CHALAIS

Chalais, Francia

Le assicuro la mia preghiera e quella della mia comunità

Chalais, 8 ottobre 2011

Egregio signore,la ringraziamo per 30Jours! È magnifica ed è unagioia ricevere notizie sul Santo Padre e su ciò chesuccede in Italia. Sono una suora domenicana. Lamia famiglia è originaria di Roma e dell’Abruzzo.Non parlo italiano, anche se il mio nome è Domeni-ca Benzi, Dominique in francese. Grazie per quantofate, inviandoci la rivista. Le assicuro la mia preghie-ra e quella della mia comunità, a nome della quale stoscrivendo. Prego per lei e per quanti lavorano alla ri-vista che ci piace molto.

Rinnovati ringraziamenti,

suor Dominique, op

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Incoronazione di Maria,

Giusto de’ Menabuoi

Let tere da tut to i l mondo • Let tere da tut to i l

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24 30GIORNI N.10 - 2011

L’Africa è veramente onoratadi questa seconda visita pa-storale del Santo Padre, pa-

pa Benedetto XVI, che presto sirecherà in Benin. Questa visitapastorale, senza alcun dubbio,vorrà incoraggiare il continenteafricano a prendere in mano, inmodo responsabile, il proprio de-stino, vorrà incoraggiarlo mentreattraversa così tante prove, con-solidare la fede dei cristiani e ri-chiamare la Chiesa al suo compito

missionario. L’Africa è piena-mente aperta a Cristo. Ha com-piuto un gran passo verso GesùCristo. All’inizio del Novecentonon c’erano che due milioni dicattolici in tutta l’Africa. Oggi ilcontinente ne conta 147 milioni,con una quantità impressionantedi vocazioni alla vita sacerdotale ereligiosa, e numerose conversionial cristianesimo. Ma vaste regioninon conoscono ancora «il Vange-lo di Dio» (Mc 1, 14).

Il primo Sinodo su «La Chiesain Africa e la sua missione evange-lizzatrice» e il secondo Sinodo delcontinente su «La Chiesa in Africaal servizio della riconciliazione,della giustizia e della pace» hannoaffrontato con molta serietà e im-pegno le questioni di fondo chepreoccupano e tormentano tuttala Chiesa e i popoli africani: l’e-vangelizzazione; l’inculturazione;la Chiesa “famiglia di Dio”; il dia-logo come «modalità dell’essere ¬

del cardinale Robert Sarahpresidente del Pontificio Consiglio «Cor Unum»

Il continente africano«polmone» spirituale dell’umanità

La seconda visita pastorale di Benedetto XVI in Africa

COPERTINA

Benedetto XVI durante il viaggio in Camerun e Angola nel marzo 2009; il Papa ritorna nel continente africano in occasione del viaggio apostolico in Benin dal 18 al 20 novembre 2011

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R obert Sarah è nato a Ourous, nellʼarcidiocesi di Conakry, in Guinea, il 15 giugno1945. Ordinato sacerdote il 20 luglio 1969, è stato poi inviato a Roma, dove ha otte-

nuto la licenza in Teologia alla Pontificia Università Gregoriana. A Roma ha arricchito lasua formazione culturale presso il Pontificio Istituto Biblico, approfondendola, successi-vamente, con un periodo di studio allo Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalem-me. Tornato in patria, è stato parroco, e poi rettore del seminario minore di Kindia. Nomi-nato arcivescovo di Conakry il 13 agosto 1979, è stato consacrato lʼ8 dicembre succes-sivo. In seguito è stato amministratore apostolico di Kankan, presidente della Conferen-za episcopale della Guinea e presidente della Conferenza episcopale regionale per lʼA-frica occidentale francofona (Cerao). Nellʼottobre del 2001 è stato nominato segretariodella Congregazione per lʼEvangelizzazione dei popoli, ufficio che ha svolto per noveanni, fino al 7 ottobre 2010, quando Benedetto XVI lo ha designato presidente del Ponti-ficio Consiglio «Cor Unum». È stato creato cardinale da Benedetto XVI nel concistorodel 20 novembre 2010.

D. M.

Biografia del cardinale Robert Sarah

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del cristiano all’interno della suacomunità come con gli altri cre-denti»; la giustizia e la pace; la ri-conciliazione; l’influenza massic-cia e potente dei mass media nel-l’evoluzione culturale, antropolo-gica, etica e religiosa delle nostresocietà. Queste questioni impor-tanti sono state studiate e discussein un clima di fede e di preghiera,esaminate con umile obbedienzaalla Parola di Dio e sotto la lucesempre accesa dello Spirito, checi accompagna lungo la storia.

Ho fiducia che con la pazienza,la determinazione, la forza dellafede, e con l’aiuto di Dio, il conti-nente africano conoscerà la pace,la riconciliazione, una più grandegiustizia sociale, e potrà contribui-re a ritrovare i valori umani, reli-giosi ed etici, la sacralità e il rispet-to della vita dal concepimento allamorte naturale, la grandezza delmatrimonio tra uomo e donna, ilsignificato e la nobiltà della fami-glia, che le società moderne – so-prattutto occidentali, indebolitedall’“apostasia silenziosa” – “de-costruiscono” e rendono sfocati einconsistenti. Potrà contribuire a

ritrovare Dio, il senso del sacro ela realtà del peccato, nelle sue for-me individuali e sociali.

Oltre alle sue favolose risorsenaturali, il continente africanopossiede una straordinaria ric-chezza umana. La sua popolazio-ne è giovane e in costante cresci-ta. L’Africa è una terra feconda divita umana. Sfortunatamente,malgrado le ricchezze naturali eumane, è tragicamente colpita dapovertà, instabilità e disordini po-litici ed economici. Conosce an-cora gli effetti della dominazione,del disprezzo, del colonialismo, unfenomeno che – benché in appa-renza concluso sul piano politico –non è affatto estinto: oggi è piùsottile e dominante che mai. Acausa delle debolezze tecnologi-che, economiche e finanziarie del-l’Africa, i potenti e astuti espertidel mondo economico hanno or-ganizzato la rapina e lo sfrutta-mento anarchico delle sue ric-chezze naturali, senza nessun be-neficio per i popoli del continen-te. L’Africa è povera e senza de-naro, ma compra armi con le suerisorse naturali per ingaggiare

guerre fomentate con la compli-cità di certi leader africani corrotti,disonesti e che non si curano delleatroci sofferenze dei loro popoli,continuamente profughi e in fugadavanti alle violenze, agli scontrisanguinosi e all’insicurezza.

Bisogna tuttavia ringraziareDio. Oggi l’Africa, nel suo com-plesso, sembra vivere una certacalma rispetto alle acute tensioniche hanno segnato il continentenegli ultimi due decenni. Anche sein certi luoghi la pace e la sicurezzadelle popolazioni rimangono an-cora fragili e minacciate, è perce-pibile una reale evoluzione verso lapacificazione. Una volta finita – oquasi – la guerra, bisogna ora in-traprendere il cammino della ri-conciliazione. Il secondo Sinodosull’Africa è arrivato al momentogiusto per ricordare ai cristiani chedevono essere artefici di pace e diriconciliazione. Per aiutarla ad af-frontare questa immensa sfida equesta difficile battaglia contro lapovertà, per lo sviluppo economi-co e per un’esistenza umanamen-te più degna e più felice in cui laChiesa deve collaborare con altrestrutture, il Santo Padre, papa Be-nedetto XVI, torna in Africa conl’obiettivo di ribadire agli africanitutta la sua fiducia nella loro capa-cità di uscire autonomamente daquesta lunga e penosa crisi socioe-conomica e politica col lavoro, l’u-nità e la comunione degli animi, ericordare ai cristiani d’Africa cheDio ci ha riconciliati con Lui trami-te Cristo, e ci ha affidato il ministe-ro della riconciliazione (cfr. 2Cor5, 18). Il Santo Padre stimolerà leenergie del continente africano e,come un padre, spingerà gli africa-ni a uscire dalla “riserva” e a entra-re nei grandi circuiti mondiali peraffermarsi e manifestare pubblica-mente i valori culturali e le inesti-mabili qualità umane e spiritualiche possono offrire alla Chiesa e atutta l’umanità.

Certo, oggi la maggior partedell’Africa è fuori dai grandi cir-cuiti mondiali. Viene facilmentelasciata da parte, emarginata.L’Africa è un anello trascurabiledella catena mondiale, di fronte aun mondo totalmente controllatodalle nazioni ricche e potenti dalpunto di vista economico, tecno-

26 30GIORNI N.10 - 2011

La cerimonia di apertura della seconda Assemblea speciale per l’Africa del Sinodo dei vescovi, Basilica di San Pietro, 4 ottobre 2009

COPERTINA

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logico, militare. Tutti gli esercitidei Paesi occidentali sono schiera-ti quasi interamente nei Paesi po-veri d’Asia e d’Africa, a bombar-dare e distruggere edifici, migliaiae migliaia di vite umane innocenti,per – dicono – mantenere la pacee promuovere la democrazia. L’I-raq e la sua popolazione sono di-strutti e Saddam Hussein è statoucciso. Bin Laden è stato ammaz-zato e gettato in mare. MuammarGheddafi è stato appena soppres-so con qualche altro membro dellasua famiglia, e hanno fatto sparireil ricordo di lui tra le sabbie del de-serto. La Costa d’Avorio era unPaese ben messo dal punto di vi-sta economico. Ora è stato spac-cato in due e distrutto… Non vo-glio difendere questi personaggi ele loro azioni, che certamente so-no da esecrare e condannare millevolte. Ma è barbaro e imperdona-bile che delle potenze civili si coa-lizzino e trattino così degli esseriumani creati a immagine di Dio. Ese queste persone sono state deibriganti e dei dittatori per i loropopoli, perché temere che le lorotombe diventino luoghi di pellegri-naggio? La stessa sorte forse at-tende altri capi di Stato!

Non so cosa pensi Dio, nel suosilenzio, di tanta crudeltà. Il Suocuore, probabilmente, si rattrista.Scusate questa parentesi. Nondeve più accadere che il denaro eil potere diventino gli dèi del mon-do e che a loro vengano offerte in

sacrificio delle vite umane. La ve-rità dovrà trionfare. Dio solo è laprima e più grande verità. Senzaverità, l’uomo non può cogliere ilsenso della vita; lascia allora cam-po libero al più forte (cfr. Bene-detto XVI, Gesù di Nazareth.

2730GIORNI N.10 - 2011

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Sopra, bambinicongolesi e ruandesiricevono aiutialimentari dai soldatidelle Nazioni Unitevicino al villaggio di Kimua, nel Congo orientale; a sinistra, miliziania Pekanhouebli,al confine fra Liberiae Costa d’Avorio, aprile 2011

BENIN. La seconda visita pastorale di Benedetto XVI in Africa

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Dall’ingresso in Gerusalemmealla Risurrezione). La legge delpiù forte, la violenza e le guerre diquesto mondo sono il grande pro-blema e la grande ferita della no-stra umanità al giorno d’oggi!

Il continente africano è dimen-ticato dagli uomini ma non daDio, che predilige in modo evi-dente i piccoli, i poveri e i deboli.Già papa Giovanni Paolo II disse,nel 1995, che «l’Africa di oggipuò essere paragonata all’uomoche scendeva da Gerusalemme aGerico; egli cadde nelle mani deibriganti che lo spogliarono, lopercossero e se ne andarono la-sciandolo mezzo morto (cfr. Lc10, 30-37). L’Africa è un conti-nente in cui innumerevoli esseriumani – uomini e donne, bambinie giovani – sono distesi, in un cer-to senso, sul bordo della strada,malati, feriti, impotenti, emargi-nati e abbandonati. Essi hanno unbisogno estremo di buoni Samari-tani che vengano loro in aiuto»(Ecclesia in Africa, n. 41). Perquesto, forti della loro fede in Ge-sù Cristo, i vescovi d’Africa hannoaffidato il loro continente a CristoSignore, il vero Buon Samarita-no, convinti che Lui solo, tramiteil suo Vangelo e la sua Chiesa,possa salvare l’Africa dalle sue dif-ficoltà attuali e guarirla dai moltisuoi mali.

Gesù Cristo, il suo Vangelo e lasua Chiesa sono la speranza dell’A-frica, e l’Africa è l’avvenire delmondo. Gli ultimi Papi la pensanocosì, nell’interpretazione che dodelle loro parole. E credo che il loropunto di vista meriti credito, per-ché così si sono espressi nell’eser-cizio della loro funzione profetica.

Nell’Antico Testamento, i pro-feti avevano per missione di leg-gere, interpretare e commentarela storia e gli eventi sociopolitici ereligiosi, non solo del popolo d’I-sraele ma anche dei popoli vicini.Di certo oggi i papi, successori diPietro, continuano questo mini-stero profetico per leggere, ana-lizzare e interpretare la storia dellaChiesa e le vicende umane, reli-giose e sociopolitiche del mondo.

E cosa dicono dell’Africa gli ul-timi papi? Esprimono con chia-rezza cos’è l’Africa agli occhi diDio e la sua missione presente e

futura nel mondo.Come dichiarò Paolo VI a

Kampala, nel luglio 1969: «NovaPatria Christi, Africa. La nuovaPatria di Cristo è l’Africa». Dio hasempre avuto un’attenzione parti-colare per l’Africa, facendola par-tecipare alla salvezza del mondo.È stato infatti il continente africa-no ad accogliere il Salvatore delmondo quando bambino dovetterifugiarsi con Giuseppe e Maria inEgitto per aver salva la vita dallapersecuzione del re Erode» (cfr. In-segnamenti di Benedetto XVI,V, 2, Libreria Editrice Vaticana,Città del Vaticano 2009, pp. 416-417). E poi è stato un africano, uncerto Simone originario di Cire-ne, il padre di Alessandro e diRufo, ad aiutare Gesù a portare laCroce (cfr. Mc 15, 21).

Nel 1995, il beato papa Gio-vanni Paolo II scriveva nella Ec-

clesia in Africa: «“Ecco, ti ho di-segnato sulle palme delle mie ma-ni” (Is 49, 15-16). Sì, sulle palmedelle mani di Cristo, trafitte daichiodi della crocifissione! Il nomedi ciascuno di voi africani è scrittosu queste mani» (Ecclesia in Afri-ca, n. 143).

E Benedetto XVI, nella suaomelia di apertura della secondaAssemblea speciale per l’Africadel Sinodo dei vescovi, il 4 ottobre2009, dice: «L’Africa è deposita-ria di un tesoro inestimabile per ilmondo intero: il suo profondosenso di Dio […]. L’Africa rappre-senta un immenso “polmone” spi-rituale, per un’umanità che appa-re in crisi di fede e di speranza. Maanche questo “polmone” può am-malarsi. E al momento, almenodue pericolose patologie lo stan-no intaccando: anzitutto, una ma-lattia già diffusa nel mondo occi-

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dentale, cioè il materialismo prati-co, combinato con il pensiero re-lativista e nichilista» (Insegnamen-ti di Benedetto XVI, V, 2, Libre-ria Editrice Vaticana, Città del Va-ticano 2009, pp. 328-331).

Da cui l’importanza e l’urgenzadi una più profonda evangelizza-zione delle mentalità, dei costumie delle culture africane, un lavoro

intenso di approfondimento e diappropriazione della fede e deimisteri cristiani. La formazionedel cuore, che permette di anno-dare legami d’intima amicizia conCristo e favorisce una intensa vitadi preghiera e incontri frequenti epersonali con Dio, dovrà esserepromossa e rinforzata. Per arri-varci abbiamo l’aiuto, il sostegnoe l’incoraggiamento dei modelliafricani di santità che siamo chia-mati a imitare: i martiri san CarloLwanga e compagni, il beato Ci-

priano Michele Tansi, santa Giu-seppina Bakhita, santa Clementi-na Anuarite martire, eccetera. Maabbiamo anche un altro grandemodello cristiano e un grande afri-cano che è appena tornato allacasa del Padre: il venerato cardi-nale Bernardin Gantin.

Era un uomo di Dio, un grandeuomo di preghiera, attento a Dio e

agli uomini, e di una delicataumiltà. Ecco cosa ci raccomanda:«Siano ordinate le vostre giornate,unendo il riposo al lavoro; ascolta-te il Signore e anche gli uomini, epoi pregate. Pregate soprattuttoattraverso il segno vivo dell’Eucari-stia, che è il momento divino delpiù grande amore di Dio per l’uma-nità» (omelia per un’ordinazionesacerdotale, 19 novembre 2005).La preghiera era il fulcro della suavita. Disse un giorno a un giovaneprete: «Figlio mio, dobbiamo pre-gare molto. Dobbiamo pregarechiedendo perdono per tutto ciòche avremmo potuto fare, ma chenon abbiamo potuto realizzare…Preghiera, preghiera; sì, preghieraprima di tutto e unicamente… Manmano che aumentano i compiti e leresponsabilità, la preghiera dovrà

farsi più intensa, piùlunga, più insistente».Essa deve unirci di più aDio che opera attraver-so le nostre povere per-sone. E verso la fine del-la vita, lo testimoniò di-cendo: «Avevo promes-so a papa GiovanniPaolo II di consacrare iltempo del mio pensio-namento al raccogli-mento, all’ascolto e allapreghiera» (Nozze d’oroepiscopali, Ouidah, 3febbraio 2007).

Il cardinale Bernar-din Gantin era un fedelee affettuoso servitore diDio, della Chiesa e delPapa. Un uomo di gran-de fede, totalmente in-triso dell’Amore di Cri-sto. Sottomissione, fe-deltà e amore per laChiesa e per il Papa, ec-co come viveva il suodono e il suo umile servi-zio a Dio, che gli avevafatto dono della grazia

del sacerdozio. Da cardinale, hadefinito così quell’onore e quel pri-vilegio: «Cos’è un cardinale dellaChiesa se non un servitore, mini-stro del Papa, disponibile, simile alcardine di una porta, secondo ladefinizione del suo etimo latino“cardo”, sempre felice e ricono-scente di esser stato scelto unica-mente per servire» (omelia per i

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BENIN. La seconda visita pastorale di Benedetto XVI in Africa

A sinistra, la città di Falluja, in Iraq,colpita dai pesanti bombardamenti del novembre 2004; sotto, la Cattedrale siro-cattolica di Baghdad, teatro di un sanguinoso attentato,nell’ottobre 2010

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trent’anni di cardinalato, Cotonou,27 giugno 2007). E aggiungeva:«Tutto il mio amore cristiano si rias-sume in queste semplici parole:Dio, Gesù Cristo, il Papa, la Vergi-ne. Realtà supreme che Roma miha fatto scoprire, amare e servire.Per questo, non si può mai ringra-ziare il Signore abbastanza».

Il cardinale Bernardin Gantin èstato così anche un grande africa-no. Nonostante i suoi trent’anni alservizio della Chiesa universale, aRoma, è rimasto imperturbabil-mente un africano autentico, sem-plice, umile, affabile, rispettoso ditutti, senza pomposità, desiderososoprattutto di approfondire ognigiorno il suo amore e la sua amici-zia con Cristo e di rendere il suoservizio alla Chiesa e al Papa sem-pre più vero, più totale e più umile.

È stato un ponte solido e sicurotra l’Africa e la Santa Sede. È statoun degno figlio della Chiesa. È sta-to un degno e nobile rappresentan-te dell’Africa di fronte agli altri con-tinenti e popoli del mondo. Eccoquello che Benedetto XVI ha dettodi lui: «La sua personalità, umana esacerdotale, costituiva una sintesimeravigliosa delle caratteristichedell’animo africano con quelle pro-

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A sinistra, Paolo VI davanti al monumento ai martiri ugandesi,Namugongo, 2 agosto 1969. Montini fu il primo papa a visitare l’Africa; sotto, il cardinale Bernardin Gantinin visita al seminario di Ouidah, in Benin,suo Paese natale, nel quale tornò a viverenel 2002 dopo essersi dimesso dalla carica di decano del Sacro Collegio

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prie dello spirito cristiano; della cul-tura e dell’identità africana e dei va-lori evangelici. È stato il primo ec-celesiastico africano ad aver rico-perto ruoli di altissima responsabi-lità nella Curia romana, e li ha svol-ti sempre con quel suo tipico stileumile e semplice» (Insegnamentidi Benedetto XVI, IV, 1, LibreriaEditrice Vaticana, Città del Vatica-no 2008, pp. 862-863, venerdì23 maggio 2009).

Ho avuto il privilegio di cono-scere il cardinal Gantin fin dal1971. Era allora segretario dellaCongregazione per l’Evangelizza-zione dei popoli (Propaganda Fi-de). E io, studente a Roma. Il miovescovo, sua eccellenza monsignorRaymond-Marie Tchidimbo, arci-vescovo di Conakry, in Guinea, erain prigione. La Chiesa di Guineaattraversava la tormenta della per-secuzione sotto il regime rivoluzio-nario di Sékou Touré. Io quindi nonavevo più il vescovo e avevo persotutti i contatti col mio Paese e lamia famiglia. Così monsignor Gan-tin, all’epoca, mi faceva da vesco-vo, padre, consigliere. La suaumiltà, la sua semplicità e la sua de-

l icatezza mi hanno segnatoprofondamente. Aveva un affettoimmenso per me e io per lui. Miconsiderava come suo figlio, suaprosecuzione, suo germoglio. Ungiorno, durante un ricevimento al-l’ambasciata del Senegal presso laSanta Sede, organizzato in suoonore in occasione del suo definiti-vo ritorno in Benin, disse parlandodi me: «Io oggi sono come un bana-no. Il banano, dopo che ha dato

frutto, lo si taglia e muore. Ma pri-ma che muoia, dà luogo a un grannumero di germogli che prendonoil suo posto. Ecco il mio germo-glio». Riconosco che di fronte alleimmense qualità del cardinale, ionon sono che un germoglio rag-grinzito, povero e senza gran valo-re. Ma sono fiero di averlo avutocome padre e che lui mi abbia con-siderato suo figlio spirituale.

Recandosi in Benin, BenedettoXVI fa visita all’Africa tutta intera,per confermarne la fede, risve-gliarne la speranza e la fiducia nelsuo avvenire, un avvenire luminosoperché è nelle mani di Dio. Il SantoPadre darà alla Chiesa che è inAfrica un nuovo slancio missiona-rio e un dinamismo nuovo al servi-zio del Vangelo, della riconciliazio-ne, della giustizia e della pace. Mase va in Benin, è anche il cardinalGantin, quest’uomo «pieno di spiri-to e di saggezza», questo grandeservitore di Dio, della Chiesa e delpapa, che Benedetto XVI vorrà ve-

nerare, andandosi a raccogliereper qualche momento davanti allasua tomba. Merita l’amicizia e l’at-tenzione del Papa.

Che questa seconda visita pa-storale del Santo Padre possarinforzare e rendere più filiale epiù affettuosa la devozione e la fe-deltà di tutta la Chiesa d’Africa alSuccessore di Pietro, come lo èstato il venerato cardinal Bernar-din Gantin. q

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BENIN. La seconda visita pastorale di Benedetto XVI in Africa

Giovanni Paolo II a Dakar in occasione del viaggio apostolico in Senegal, Gambia e Guinea, nel febbraio 1992

Gantin con Giovanni Paolo I, il 28 settembre 1978

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Un dono,non un possesso

Per scendere nella cripta a venerare la tomba di Francesco, Benedetto XVI attraversa la Basilica inferiore di San Francesco con alcuni capi e rappresentanti delle Chiese, delle Comunità ecclesiali e delle religioni del mondo, in occasione dell’Incontro di Assisi, 27 ottobre 2011

La fede ha il carattere di un dono che sopravviene, non si può dedurre, non si può “produrre”. Non si tratta di una nostra conquista. Intervista con il cardinale Walter Kasper

di Gianni Valente

ANNO DELLA FEDE 2012-2013

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Un «anno della fede», un«tempo di particolare ri-flessione» convocato sul-

l’esempio di quanto fece Paolo VInel 1967, con l’intento di favorire«una sempre più piena conversio-ne a Dio, per rafforzare la nostrafede in Lui e per annunciarLo congioia all’uomo del nostro tempo».La proposta di Benedetto XVI atutta la Chiesa, anticipata nell’o-

melia di domenica 16 ottobre e il-lustrata nella lettera apostolicaPorta fidei, si trova ancora nellafase germinale dell’annuncio e siconcretizzerà solo tra undici mesi,a partire da quell’ottobre 2012 incui cadono il cinquantenario del-l’inizio del Concilio ecumenicoVaticano II e il ventennale dellapubblicazione del Catechismodella Chiesa cattolica. Eppure,

fin dai preliminari – lo ha osserva-to padre Federico Lombardi, di-rettore di Radio Vaticana e dellaSala Stampa vaticana –, quellaannunciata da papa Ratzingerpuò essere considerata una delleiniziative caratterizzanti di questopontificato.

Già nei primi accenni e nellaLettera apostolica di indizione,sono disseminati tanti sommes- ¬

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È Dio che tiene aperta la porta della fede, per noi e per tutti. Per questo l’inizio della fede è sempre possibile. Il Papa nell’incontro di Assisi ha detto che gli agnostici aiutano i credenti a non considerare Dio loro proprietà… Nella secolarizzazione, Dio ha le sue vie per toccare i cuoridi ogni uomo. Di quelli che cercano e anche di quelli che non cercano. E sono vie che noi non conosciamo

In queste pagine, alcuni affreschi di Pietro Lorenzetti nella Basilica inferiore di San Francesco ad Assisi.A destra, L’ultima cena

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si, confortanti inviti a mettere daparte «ecclesiocentrismi» autore-ferenziali, e a chiedere tutto a Ge-sù Cristo, «colui che dà origine al-la fede e la porta a compimento».

«Che altro di più importantedovrebbe dirci il pastore del popo-lo di Dio in cammino?», ha com-mentato padre Lombardi.30Giorni ha rigirato la questioneal cardinale Walter Kasper, presi-dente emerito del Pontificio Con-siglio per la Promozione dell’unitàdei cristiani.

Benedetto XVI ha indettoun anno della fede. Lo avevagià fatto Paolo VI nel 1967.A quel tempo, sia lei che Jo-seph Ratzinger eravate duegiovani teologi nel fiore deglianni. Come ricorda quellascelta di papa Montini?

WALTER KASPER: Erano glianni subito dopo il Concilio. Pas-sato il grande entusiasmo, nellaChiesa sembrava di vivere unaspecie di collasso. Sembrava chela fede stesse venendo meno,proprio mentre negli ambienti ec-clesiastici si stava discutendo del-le riforme necessarie nella Chiesaper riproporre l’annuncio cristia-no nella realtà di questo tempo.Ratzinger in quel tempo scrisseIntroduzione al cristianesimo.Io ho scritto Introduzione alla fe-de. In quel contesto, Paolo VI eb-be l’intuizione di indire l’anno del-la fede, che si concluse con laproclamazione del Credo del po-polo di Dio. Voleva indicare a tut-ti che il cuore di tutto è la fede.Anche le riforme sono utili e ne-cessarie quando favoriscono la vi-ta di fede e la salvezza di tutti i fe-deli. Negli ultimi giorni ho rilettoBernardo di Chiaravalle: anche lasua grande riforma era solo unaripartenza nella fede. Come scri-veva Yves Congar, «le riforme riu-scite nella Chiesa sono quelle fat-te in funzione dei bisogni concretidelle anime».

Perché indire un anno del-la fede proprio adesso?

C’è una crisi. Lo si vede soprat-tutto in Europa. È evidente in Ger-

mania. Ma se parlo coi vescovi ita-liani, mi raccontano le stesse cose.Soprattutto tra i giovani, molti nonhanno alcun contatto reale con lavita della Chiesa e coi sacramenti.Se si parla di nuova evangelizza-zione, non si può che prendere at-to di questo. Altrimenti si finisceper far cose accademiche.

Eppure, Benedetto XVI ini-zia la Lettera di indizione diquesto anno speciale dicendoche «la porta della fede è sem-pre aperta per noi». Cosa in-dica questo incipit?

È Dio che tiene aperta la portadella fede, per noi e per tutti. Nonsiamo noi che possiamo o dobbia-

30GIORNI N.10 - 2011

ANNO DELLA FEDE 2012-2013

34

Il dono della fede non è una specie di spinta,una carica che qualcuno ci dà all’inizio, e poiandiamo avanti da soli. Assomiglia piuttostoa una lanterna che portiamo in mano, e si muove con noi illuminando il breve trattodi strada che abbiamo davanti. La sua luce è necessaria e sufficiente per compiere il prossimo passo

La crocifissione, particolare

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mo agitarci per aprirla. Per questol’inizio della fede è sempre possi-bile. Non si tratta di una nostraconquista. La fede ha il caratteredi un dono che sopravviene, nonsi può dedurre, non si può “pro-durre”. Anche per questo è statoimportante l’invito rivolto dal Pa-pa agli agnostici nella recentegiornata di Assisi. Nella secolariz-zazione, Dio ha le sue vie per toc-care i cuori di ogni uomo. Di quelli

che cercano e anche di quelli chenon cercano. E sono vie che noinon conosciamo.

Ad Assisi Benedetto XVIha parlato proprio degliagnostici in termini non certodi contrapposizione.

Il Papa ha detto che gli agnosti-ci aiutano i credenti «a non consi-derare Dio loro proprietà». Dionon è un possesso di chi crede.Della fede non si può dire: io la

possiedo, altri no… Anche i cre-denti che hanno ricevuto il donodella fede sono in pellegrinaggio.E non si può mai pretendere di an-ticipare tale dono come compren-sione posseduta di un sapere con-cettuale. A volte, nella Chiesa,proprio davanti all’incredulità e al-l’agnosticismo ci si arrocca e si dàl’impressione di considerare la fe-de come un possesso. Come se ilproblema fosse fare dispute e bat-taglie con chi non crede… Quasisi perde di vista che Cristo è mortoper tutti.

Nelle prime righe di Portafidei si sottolinea che spessoanche nella Chiesa prevale lapreoccupazione per le conse-guenze sociali, culturali e po-litiche dell’impegno dei cri-stiani, «continuando a pensa-re alla fede come un presup-posto ovvio del vivere comu-ne». Nota anche lei questascontatezza?

Innanzitutto la fede è un rap-porto personale con Dio, che s’e-sprime nella preghiera e nella fi-ducia di essere tenuti in braccio daDio in ogni situazione, o comeGesù dice: amare Dio con tutto ilcuore. I teologi parlano di unavirtù teologale. Però in questo pri-mo comandamento l’amore diDio è immediatamente connessocon l’amore del prossimo come séstessi. Così la fede ha conseguen-ze sociali, culturali e politiche sen-za le quali non sarebbe sincera.D’altra parte queste conseguenzedebbono essere animate e motiva-te dall’amore di Dio, altrimenti di-ventano una forma di ideologiaumanistica, che rimane senza fon-damento fermo. Penso alla predi-cazione nelle chiese, la domenica.Nessun’altra realtà umana ha que-sta opportunità, di raggiungerecosì tante persone che vengonospontaneamente ad ascoltare. Maa volte le omelie sembrano soloistruzioni su cosa i cristiani devo-no fare e non fare a livello morale,culturale, politico, manca spessoil lieto messaggio che Dio sempreci precede con la sua grazia.

C’è chi dice: adesso biso-gna puntare più sulla fede emeno sulle opere sociali. Èquesta la “soluzione”?

3530GIORNI N.10 - 2011

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Benedetto XVI in preghiera davanti alla tomba di Francesco nella cripta della Basilica inferiore con alcuni capi e rappresentanti delle Chiese, delle Comunità ecclesiali e delle religioni del mondo

INTERVISTA CON IL CARDINALE WALTER KASPER

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Non si possono contrapporrefede e carità. Sarebbe un intellet-tualismo o una specie di misticismomale interpretato. San Paolo hadetto che la fede diventa operosanella carità. E si è sempre espressanelle opere di misericordia corpo-rale e spirituale: aiutare i poveri, icarcerati, gli oppressi, i malati…Questa è semplicemente la vita cri-stiana. Personalmente, le testimo-nianze più avvincenti della fede leho viste proprio nei viaggi che fa-cevo quando ero responsabile del-la Chiesa in Germania per gli aiutialle Chiese dei Paesi in via di svi-luppo. Noi andavamo lì portandoqualche risorsa materiale per aiuta-

re la sopravvivenza di quelle perso-ne e, nella miseria dei villaggi e del-le favelas, ci imbattevamo nell’al-legria e nella fiducia delle loro vitepredilette e consolate dal Signore.Lo stesso mi è accaduto guardandola fede di tanti fratelli incontrati neldialogo ecumenico. Tramite rap-porti fraterni si dà testimonianzadella fede cattolica.

Adesso che l’Anno dellafede è stato indetto, cosa c’èda fare?

Benedetto XVI ha chiesto solodi riflettere sul Credo in ogni dio-cesi. Non basta recitarlo, bisognaconoscerlo e comprenderlo nellasua profondità. Perché il Credo

esprime gli articoli fondamentalidella fede, che sono comuni atutti i cristiani e che corrispondo-no alle promesse battesimali. In-tanto sono costitutivi per la esi-stenza cristiana. Ma mi sembraimportante il fatto che la sempli-ce confessione di fede non espri-ma una pretesa di possesso con-cettuale della verità. Il Credo locantiamo spesso durante la mes-sa domenicale. Un sistema dog-matico-concettuale non si puòcantare. Invece noi cantiamo ilCredo, e lo cantiamo come pre-ghiera. È una dossologia, una lo-de e un riconoscimento che ren-de grazie.

Qualcuno dice che biso-gna fare di più per renderecredibile la visione antropo-logica cristiana.

Sì, senz’altro è importante an-che questo. La fede non è solo unatto intellettuale, ma un modo diessere e di vivere nelle mani di Dioe sotto la sua provvidenza. Questoimplica anche la bene intesa li-bertà cristiana. La confessione difede è preghiera perché domandaa Dio di rivelare il suo mistero. Co-me diceva san Tommaso, actus fi-dei non terminatur ad enuntia-bile, sed ad rem. L’atto di fedenon termina alla ripetizione ver-bale di formule vere. Essa rimane

aperta a riconoscere la realtà vi-vente che quelle parole indicano.E per Tommaso la «res» è Dio stes-so. È lui che agisce, non siamo noia doverlo “dimostrare”. Inoltre, ilCredo è anche il condensato dellafede delle altre generazioni. Nellafede non si è soli davanti a Dio. Siè in una comunione che abbracciatutti i secoli. In tempi come i no-stri, si percepisce ancora di piùquanto sia importante trovareconforto e godere nella compa-gnia dei santi e dei Padri dellaChiesa, e di tutti i grandi testimoniche ci hanno preceduto.

«I credenti si fortificanocredendo», scrive il Papa, ci-

tando sant’Agostino. Comesi cresce e si va avanti, nelcammino della fede?

Nella fede si è portati, sia all’i-nizio che lungo il cammino dellavita. Nelle esperienze della vita siscoprono sempre di più le ric-chezze della fede. Non siamo noia conservare la fede, come unaproprietà acquisita. Noi veniamocustoditi nella fede. Ha scrittosan Tommaso: «La grazia crea lafede non solo quando la fede na-sce in una persona, ma per tutto iltempo che la fede dura». Abbia-mo usato questa definizione nelquadro dell’accordo coi luterani,quando abbiamo riconosciuto l’i-

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ANNO DELLA FEDE 2012-2013

Nel Credo noi confessiamo di credere in DioPadre, in Gesù Cristo, nello Spirito Santo, ma non confessiamo di avere fede nellaChiesa. La Chiesa non è termine di fede.Forse è utile ricordare che i Padri della Chiesa non avevano sentito l’esigenza di elaborarealcuna ecclesiologia sistematica. Loro non avevano il problema di soffermarsisulla Chiesa, era sufficiente qualche cenno. Il cuore dei loro interessi e delle loro premurenon era certo l’istituzione ecclesiastica

Paolo VI pronuncia il Credo del popolo di Dio, piazza San Pietro, domenica 30 giugno 1968

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dentità fondamentale esistentetra la teologia di Lutero sulla giu-stificazione per fede e aspetti es-senziali della dottrina del Conciliodi Trento definita nel decreto Deiustificatione. Questo vuol direche il dono della fede non è unaspecie di spinta, una carica chequalcuno ci dà all’inizio, e poi an-diamo avanti da soli. E non ènemmeno come i sistemi di illu-minazione sulle piste degli aero-porti: luci cementate nell’asfaltoper illuminare tutto il percorso.Essa piuttosto assomiglia a unalanterna che portiamo in mano, esi muove con noi illuminando ilbreve tratto di strada che abbiamodavanti. La sua luce è necessaria e

sufficiente per compiere il prossi-mo passo.

Se la fede è all’inizio e inogni passo un dono e un rico-noscimento dell’opera gra-tuita del Signore, cosa è laChiesa?

La Chiesa è – come dice unaantica definizione – la comunionedei fedeli. Tertulliano ha detto:Unus christianus, nullus chri-stianus. Un solo cristiano nessuncristiano. Da cristiani non siamomai soli ma sempre in una comu-nità di fedeli di tutti i tempi e di tut-ti i luoghi. Nondimeno la Chiesanon è termine di fede. La Chiesaè sacramento, cioè segno e stru-mento. Nel Credo noi confessia-

mo di credere in Dio Padre, in Ge-sù Cristo, nello Spirito Santo, manon confessiamo di avere fedenella Chiesa. Si crede in Dio, ed èlui che ci rivela la Chiesa comeCorpo di Cristo e come Suo po-polo. La Chiesa è come la lunache non ha luce propria ma riflet-te solo la luce del sole, che è Cri-sto. Se non rimanda a Cristo, nonmanifesta alcuna bellezza pro-pria. La bellezza che in essa si tro-va – ad esempio, nelle liturgie – èsolo un riflesso della gloria di Dio.

Eppure, a volte sembrache la Chiesa voglia occupa-re la scena pensando in talmodo di rendere testimo-nianza al Signore.

Forse è utile ricordare che i Pa-dri della Chiesa non avevano sen-tito l’esigenza di elaborare alcunaecclesiologia sistematica. Loronon avevano il problema di sof-fermarsi sulla Chiesa, era suffi-ciente qualche cenno. Il cuore deiloro interessi e delle loro premurenon era certo l’istituzione eccle-siastica. L’ecclesiologia inizia soloalla fine del Medioevo, in reazio-ne al conciliarismo e poi a Lutero.E come disse Yves Congar, iniziacome «gerarcologia», per esporrele ragioni teologico-dottrinali del-la funzione e della supremaziadelle gerarchie nella compagineecclesiale. Da qui è partita anchela tentazione e l’insidia di un certo“ecclesiocentrismo”. Il ConcilioVaticano II, con il suo ressource-ment nei Padri della Chiesa, ha ri-preso anche l’immagine usata damolti di loro sulla Chiesa comesemplice riflesso della luce e del-l’opera di Cristo, che si ritrova an-che nel titolo della Costituzionesulla Chiesa del Concilio VaticanoII: Lumen gentium.

A proposito di gerarcolo-gia, anche adesso, almenosui media, si parla molto divescovi e cardinali.

Certo, i vescovi e i cardinalihanno il loro ruolo nella vita dellaChiesa. Ma Benedetto XVI conti-nua a ripetere che la questionecentrale non è quella della Chie-sa, ma quella di Dio. Se viene me-no la fede in Dio, la Chiesa la sipuò anche mettere da parte e di-menticare. q

3730GIORNI N.10 - 2011

INTERVISTA CON IL CARDINALE WALTER KASPER

La Risurrezione

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Spicchi Spicchi SpicchPapa/1Anno della fede 2012-2013

Benedetto XVI, nell’ome-lia della santa messa cele-brata nella Basilica di SanPietro domenica 16 otto-bre, ha annunciato l’indi-zione di un Anno della fe-de, che inizierà l’11 otto-bre 2012, giorno del cin-quantesimo anniversariodi apertura del Concil ioVaticano II, e si concluderàil 24 novembre 2013, so-lennità di Cristo Re dell’u-niverso. Il 17 ottobre è sta-to pubblicato il motu pro-prio Porta fidei con cui ilPapa ha formal izzato espiegato la sua decisione.

Papa/2Tre nuovi santi

Il 23 ottobre Benedetto XVIha canonizzato il vescovoGuido Maria Conforti, il sa-cerdote Luigi Guanella e lareligiosa spagnola BonifaciaRodríguez de Castro. «Trenuovi santi», ha detto nell’o-melia, «che si sono lasciatitrasformare dalla carità divi-na e ad essa hanno impron-tato l’intera loro esistenza».

Papa/3«Dio non è proprietàdi chi crede»

«Dio non è una “proprietà” dichi crede. Benedetto XVI

parla fra i trecento rappre-sentanti di varie religioni delmondo che ha invitato ad As-sisi, venticinque anni dopo ilprimo incontro voluto daWojtyla». Questo l’incipit diun articolo di Gian GuidoVecchi, pubblicato sul Cor-riere della Sera del 28 otto-bre, dedicato alla “Giornatadi riflessione, dialogo e pre-ghiera per la pace e la giusti-zia nel mondo” che si è tenu-ta ad Assisi il 27 ottobre.Continua l’articolo: «Bene-detto XVI tesse l’elogio degliagnostici pensanti, di coloroche “cercano la verità” e conil loro esempio tolgono agli“atei combattivi” la loro “fal-sa certezza” ma insieme“chiamano in causa” gli stes-

si credenti: perché “non con-siderino Dio loro proprietà”.Se le persone che cercano laverità “non trovano Dio”, di-pende “anche dai credenti”che hanno “una immagine ri-dotta o anche travisata diDio”. Così gli agnostici han-no un ruolo importante con-tro il “decadimento dell’uo-mo e dell’umanesimo”. Con-clude Vecchi: «Come annun-ciato, non c’è stato un mo-mento comune di preghiera.Eppure bisognava vederli,tutti quanti, quando alla finesono scesi nella cripta sottola Basilica per rendere omag-gio alla tomba di san France-sco». Titolo dell’articolo: IlPapa elogia gli agnostici:«Un aiuto per i credenti».

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A destra, per scendere nella cripta a venerare la tomba di Francesco,Benedetto XVI attraversa la Basilicainferiore di San Francesco con alcunicapi e rappresentanti delle Chiese, delle Comunità ecclesiali e delle religioni del mondo, in occasione dell’Incontro di Assisi, il 27 ottobre 2011

A sinistra, Paolo VI pronuncia il Credo del popolo di Dio, domenica 30 giugno 1968, al termine dell’Anno della fede

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Il Corriere della Sera del 17 ottobreha pubblicato ampi brani di un inter-vento di Vittorio Messori al Pontifi-cio Consiglio per la Promozione del-la nuova Evangelizzazione. Questol’incipit: «Dobbiamo tornare allaconsapevolezza che ciò in cui credia-mo, ciò da cui tutto il resto deriva, èracchiuso (così ci insegna san Paolo)in tre sole parole: “Gesù è risorto”.Da qui la conseguenza: “Dunque,Gesù è il Cristo annunciato dai pro-feti e atteso da Israele”. È ciò che iprimi cristiani chiamavano il kéryg-ma, cioè il grido dell’araldo che – perstrade e piazze – annunciava al po-polo le novità urgenti. Credo che larievangelizzazione dell’Occidente,chiestaci da Giovanni Paolo II e daBenedetto XVI, non sia che questo:non complesse dottrine, bensì il rico-minciare dal kérygma, dalla base sucui tutto si regge. Tornare a procla-mare un semplice e al contemposcandaloso: Iesùs estì kyrios, Gesùè il Signore».

Poi, rievocando i tempi del Con-cilio Vaticano II, Messori scrive: «Cisi affrontava sull’organizzazione del-l’istituzione ecclesiale, sul ruolo del papa, dei ve-scovi, dei preti, dei laici, delle donne, della litur-gia. Nessuno parlava di fede né meno che maidelle sue ragioni, la si dava come un dato sconta-to, acquisito, mentre si battagliava per quali do-vessero essere, per il cattolico, l’etica, l’impe-gno politico, sociale, economico, culturale. Maqueste non erano che conseguenze di una causaprima, il sì alla verità del Credo, che nessuno sioccupava di esaminare e verificare».

Conclude Messori: «Non si incide sulla societào sulla cultura riproponendo la prospettiva evan-

gelica, se non si affronta prima il problema diCristo e della verità del suo vangelo. I problemicon cui oggi i cattolici devono confrontarsi han-no una radice spesso inconfessata eppure dram-matica: la caduta della fede, la riduzione di Gesùa un maestro di morale, del Nuovo Testamento aoscuro pastiche di giudaismo e di paganesimo,del miracolo a mito, della speranza escatologicaa impegno secolare. Ben prima di ogni riformaistituzionale e di ogni predica morale o sociale,dobbiamo ritrovare il Credo, quello che recitia-mo nella Messa, nel senso pieno».

ANNO DELLA FEDE 2012-2013Il cristianesimo è racchiuso in tre parole: «Gesù è risorto»

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«Membra Christi et corpus sumus omnes simul; non qui

hoc loco tantum sumus, sed et per universam terram;

nec qui tantum hoc tempore, sed quid dicam? Ex Abel

iusto usque in finem saeculi / Tutti insieme siamo

membra e corpo di Cristo: non solo noi che ci

troviamo qui in questo luogo, ma noi tutti su tutta

la terra. E non solo noi che viviamo in questo

tempo, ma che dire? dal giusto Abele sino alla fine

del mondo», Agostino, Sermones 341, 9, 11; cfr.

Lumen gentium, n. 2.

«Nel brano del Vangelo che abbiamo ascoltato Gesù in-via settantadue discepoli alla grande messe che è ilmondo, invitandoli a pregare il Signore della messeperché non manchino mai operai nella sua messe (cfr.Lc 10, 1-3); ma non li invia con mezzi potenti, bensì“come agnelli in mezzo ai lupi” (v. 3), senza borsa, bi-saccia, né sandali (cfr. v. 4). San Giovanni Crisostomo,in una delle sue Omelie, commenta: “Finché saremoagnelli, vinceremo e, anche se saremo circondati da nu-merosi lupi, riusciremo a superarli. Ma se diventeremolupi, saremo sconfitti, perché saremo privi dell’aiuto delpastore” (Omelia 33, 1: PG 57, 389). I cristiani nondevono mai cedere alla tentazione di diventare lupi tra ilupi; non è con il potere, con la forza, con la violenzache il regno di pace di Cristo si estende, ma con il donodi sé, con l’amore portato all’estremo, anche verso i ne-mici. Gesù non vince il mondo con la forza delle armi,ma con la forza della Croce, che è la vera garanzia dellavittoria. E questo ha come conseguenza per chi vuoleessere discepolo del Signore, suo inviato, l’essere pron-to anche alla passione e al martirio, a perdere la propria

vita per Lui, perché nel mondo trion-fino il bene, l’amore, la pace. È que-sta la condizione per poter dire, en-trando in ogni realtà: “Pace a questacasa” (Lc 10, 5).

Davanti alla Basilica di San Pietro,si trovano due grandi statue dei santiPietro e Paolo, facilmente identifica-bili: san Pietro tiene in mano le chia-vi, san Paolo invece tiene nelle maniuna spada. Per chi non conosce lastoria di quest’ultimo potrebbe pen-sare che si tratti di un grande condot-tiero che ha guidato possenti eserciti econ la spada ha sottomesso popoli enazioni, procurandosi fama e ricchezza con il sangue al-trui. Invece è esattamente il contrario: la spada che tie-ne tra le mani è lo strumento con cui Paolo venne mes-so a morte, con cui subì il martirio e sparse il suo pro-prio sangue. La sua battaglia non fu quella della violen-za, della guerra, ma quella del martirio per Cristo. Lasua unica arma fu proprio l’annuncio di “Gesù Cristo eCristo crocifisso” (1Cor 2, 2). La sua predicazione nonsi basò “su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla ma-nifestazione dello Spirito e della sua potenza” (v. 4)».[…] «Questa stessa logica vale anche per noi, se voglia-mo essere portatori del regno di pace annunciato dalprofeta Zaccaria e realizzato da Cristo: dobbiamo esse-re disposti a pagare di persona, a soffrire in prima per-sona l’incomprensione, il rifiuto, la persecuzione. Nonè la spada del conquistatore che costruisce la pace, mala spada del sofferente, di chi sa donare la propria vita».Così papa Benedetto XVI durante l’udienza generale dimercoledì 26 ottobre 2011.

San Paolo

MIRACOLO E MARTIRIO«Come agnelli in mezzo ai lupi». La spada di san Paolo

Abele e Caino, Cappella Palatina, Palermo

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Chiesa /1Tettamanzi: il librodella vita è Gesù

«“Il libro della vita”, dice sanBernardo, “è Gesù; beatocolui al quale è dato di leg-gere in questo libro”: per luisarà grande gioia e pace». Èla conclusione di un inter-vento del cardinale DionigiTettamanzi sul Corrieredella Sera del 2 novembrein occasione della pubblica-zione del nuovo Evangelia-rio ambrosiano.

Chiesa/2Martini e i movimenti

«I movimenti possono daremolto alla Chiesa come si ve-de nel movimento ecumenicoe nel movimento biblico. Maquando in essi prevalgono ledinamiche del potere e delprofitto la Grazia può andareperduta e la Chiesa invece diarricchirsi di nuova energiaspirituale sperimenta emor-ragie debilitanti». Così il cardi-nale Carlo Maria Martini sulCorriere della Sera di dome-nica 30 ottobre in risposta auna lettrice nella rubrica che ilporporato tiene ogni mesesul quotidiano di Milano .

Sacro Collegio/1Gli ottant’anni di Law

Il 4 novembre il cardinalestatunitense Bernard Fran-cis Law, arciprete della Basi-lica papale di Santa MariaMaggiore, ha compiuto ot-tant’anni. In quella data ilCollegio cardinalizio risultacomposto da 193 porporati,di cui 112 elettori.

Sacro Collegio/2Le dimissioni di Rosales

Il 13 ottobre il Papa ha ac-colto le dimissioni del cardi-nale Gaudencio Borbon Ro-sales, 79 anni, da arcivesco-vo di Manila, nelle Filippine.Al suo posto ha nominatoLuis Antonio Tagle, 54 anni,dal 2001 vescovo di Imus.

Russia/1I doni dello Spirito o un vacuo rullo di tamburi

«Una “Chiesa politica” nonserve al mondo. La riduzio-ne della Chiesa di Cristonegli ultimi secoli ha con-dotto all’allontanamento daessa di masse di persone.

[. . . ] Se i cr ist iani non sipreoccuperanno di conse-guire gli autentici doni delloSpirito, e in primo luogo lasantità, la loro predicazionesi ridurrà a un vacuo rullo ditamburi». È un passaggiodell’intervento del direttoredella rivista del Patriarcatodi Mosca, Sergej Capnin, inun convegno organizzatodalla Fondazione Russiacristiana a Milano, presso

l’Università Cattolica delSacro Cuore, e pubblicatosull’Osservatore Romanodel 4 novembre.

Russia/2Medvedev e il miracolo della fede

«Se parliamo di ciò che è ac-caduto negli ultimi venti an-ni, nei termini del la miaesperienza di cristiano orto-dosso, è un miracolo. Fran-camente non avrei potutoimmaginare, 15-20 anni fa,che il recupero, il ritrovare lafede da parte di un numerocosì grande di cittadini sa-rebbe stato così veloce». Pa-role del presidente della Fe-derazione Russa Dmitri jMedvedev in un intervento aun convegno cui hanno par-tecipato anche il patriarca diMosca Kirill e altri autorevoliesponenti della Chiesa orto-dossa. Le parole del presi-dente russo sono state ripre-se dal vaticanista Marco To-satti nel suo blog, San Pietroe dintorni, il 7 novembre.

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hi Spicchi Spicchi Spicchi3OGIORNI IN BREVE 3OGIORNI IN BREVE 3OGIORNI IN BREVE 3OGIORNI IN BREVE 3OGIORNI

In vista della XIII Assemblea generale ordi-naria del Sinodo dei vescovi, che si svolgeràdal 7 al 28 ottobre 2012 sul tema “La nuo-va evangelizzazione per la trasmissione del-la fede cristiana”, il 22 ottobre il Papa hanominato relatore generale il cardinale Do-nald William Wuerl, 71 anni, dal 2006 arci-vescovo di Washington, e segretario spe-ciale l’arcivescovo di Montpellier, in Fran-cia, Pierre-Marie Joseph Carré, 64 anni.

SINODOWuerl relatore generale

Battesimo a Mosca

Il cardinale Donald William Wuerl

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Spicchi Spicchi SpicchItaliaSecondo la maggioranza dei cattolici un partitocattolico sarebbedannoso

Sul Corriere della Sera del23 ottobre il noto sondaggi-sta Renato Mannheimer haanalizzato quale sia l’opinio-ne dei cattolici italiani sull’i-potesi della nascita di un nuo-vo partito cattolico. Queste lesue conclusioni: «Solo pocopiù di un quarto (26%) deipraticanti (vale a dire, nellanostra tipologia, di coloroche si recano alla messa al-meno due volte al mese) di-chiara di apprezzare unrafforzamento della presenzapolitica dei credenti in quan-to tali nel nostro Paese. Addi-rittura il 44% ritiene dannosao comunque non opportunauna scelta siffatta. E tra gli“sporadici” (chi frequenta lefunzioni religiose una volta almese o meno) la quota dei fa-vorevoli a un maggiore impe-gno organizzato dei cattoliciè ancora inferiore (22%)».

Medio Oriente/1L’attacco all’Iranprodurrebbe disastriper un secolo

Israele è pronto a bombar-dare l’Iran. Indiscrezionifiltrate sulla stampa sonostate confermate dal presi-dente israeliano ShimonPeres che, in diverse occa-sioni pubbliche, ha confer-mato l’esistenza di un pia-no militare per scongiurarelo sviluppo dell’atomicairaniana. Un articolo delCorriere della Sera del 5novembre, dopo aver ac-cennato che l’ipotesi di unraid contro gli impianti nu-cleari iraniani «spacca il go-verno» israeliano, continuacosì: «Ben tre ex capi deiservizi – Efraim Levy, Yu-val Diskin e Meir Dagan[...] – lo sconsigliano aper-tamente: l’Iran non è anco-ra una minaccia, Ahmadi-nejad non è Saddam enemmeno Assad, i bom-bardamenti a sorpresa sta-volta “provocherebbero di-sastri per un secolo”».

Medio Oriente/2Segev: Shalit e la storica trattativacon Hamas

«La grande novità storica èche Hamas e Israele hannofatto un accordo. E il giornodopo non è crollato il mon-do. Hanno fatto un pattocol diavolo e il sole è sorto lostesso. Le due parti hannovisto che ragionare intornoa un tavolo è possibile. Que-sto piccolo passo può por-tare un po’ di razionalità e aqualcosa di diverso, nel fu-turo. Non succederà doma-ni. Ma dopodomani, chis-sà». Così lo storico israelia-no Tom Segev, intervistatodal Corriere della Sera al-l’indomani della liberazionedel soldato di Tsahal GiladShalit da parte di Hamas incambio di 1.027 prigionieripalestinesi.

Medio Oriente/3L’Unesco riconosce lo Stato palestinese

«Mettiamoci d’accordo.Se i palestinesi si armano,

tutti gridano che la violen-za è un ostacolo alla pace.Se i palestinesi provano aforzare la via diplomatica,come hanno fatto ieri, tut-ti gridano che queste ini-ziative “unilaterali” sonoun ostacolo alla pace. Cipiacerebbe allora sapere –in particolare da Israele,Stati Uniti, e Italia – esat-tamente cosa dovrebberofare i palestinesi, a partesvanire quietamente tra lenuvole, come in Miracoloa Milano. Ieri la Palestinaè stata ammessa all’Une-sco. Vecchia storia – ognianno i palestinesi regolar-mente chiedono di essereammessi –, nuovo risulta-to: 107 contro 14, con 52astenuti. L’approvazioneè arrivata, grazie soprat-tutto al consenso del nuo-vo fronte che guida lo svi-luppo mondiale, i PaesiBr ics , Bras i le , Ind ia , iPaesi africani, arabi, la Ci-na, la Russia e qualchePaese europeo rilevantecome la Francia e il Bel-gio». Così Lucia Annun-ziata sulla Stampa del 1°novembre.

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Fedeli a una messa domenicale in parrocchia

Gilad Shalit

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TunisiaIl partito islamicocome la Dc di Moro

«Ennahda è paragonabile allaDemocrazia cristiana ai tempidi Aldo Moro. E non esiste unsolo islam, come non esistevaun solo comunismo. Non pos-siamo mettere sul medesimopiano gli estremisti radicali egli islamici moderati. Sarebbecome considerare nello stessomodo Pol Pot e Berlinguer». Èuna dichiarazione di MoncefMarzouki, leader del Cpr(Congresso per la Repubbli-ca), riportata dal Corriere del-la Sera del 27 ottobre a com-mento delle elezioni tunisinesvoltesi a fine ottobre e vintedal partito di ispirazione isla-mica Ennahda, il cui leader èRachid Ghannouchi.

Diplomazia/2Nuovi ambasciatoripresso la Santa Sede

Il 9 settembre BenedettoXVI ha ricevuto le letterecredenziali del nuovo amba-sciatore della Gran Breta-gna presso la Santa Sede.Si tratta di Nigel MarcusBaker, 45 anni, diplomati-co di carriera, negli ultimiquattro anni capomissionein Bolivia.

Il 21 ottobre è stata lavolta del nuovo rappresen-tante dei Paesi Bassi, Jo-seph Weterings, 62 anni,diplomatico di carriera, inpassato ambasciatore in Li-bia e in Zimbabwe.

Il 31 ottobre poi è tocca-to al nuovo rappresentantedel Brasile, Almir Franco de

Sá Barbuda, 68 anni, diplo-matico di carriera, negli ulti-mi anni ambasciatore inBelgio e poi console gene-rale a Washington.

Il 4 novembre è stato ri-cevuto il nuovo ambascia-tore della Costa d’Avorio,Joseph Tebah-Klah, 63 an-ni, diplomatico di carriera,che tra il 2003 e il 2006 èstato consigliere e incarica-to d’affari ad interim nel-l’ambasciata presso la San-ta Sede.

Il 7 novembre infine èstata la volta del nuovo am-basciatore di Germania,Reinhard Schweppe, 62anni, diplomatico di carrie-ra, già capomissione a Var-savia e da ultimo rappre-sentante presso la sede Onudi Ginevra. q

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hi Spicchi Spicchi Spicchi3OGIORNI IN BREVE 3OGIORNI IN BREVE 3OGIORNI IN BREVE 3OGIORNI IN BREVE 3OGIORNI

Il 15 settembre il Papa ha nominato l’arci-vescovo siciliano Giuseppe Leanza, 68 an-ni, nuovo nunzio nella Repubblica Ceca;dal 2008 era nunzio in Irlanda.

Il 15 ottobre ha poi nominato l’arcive-scovo statunitense James Patrick Green,61 anni, nuovo nunzio apostolico in Perù;dal 2006 era nunzio in Sudafrica, Namibia,Swaziland e Lesotho e dal 2009 anche ilprimo nunzio in Botswana.

Il 19 ottobre l’arcivescovo Carlo MariaViganò, 70 anni, è stato nominato nuovonunzio apostolico negli Stati Uniti; dal lu-glio 2009 era segretario generale del Go-vernatorato dello Stato della Città del Vati-cano.

Il 29 ottobre l’arcivescovo Nicola Gira-soli, 54 anni, è stato nominato nunzio apo-stolico in Antigua e Barbuda, Bahamas,Dominica, Giamaica, Grenada, Saint Kittse Nevis, Santa Lucia, Saint Vincent e Gre-nadine, Suriname, Repubblica Cooperati-vistica della Guyana e, infine, delegato apo-stolico nelle Antille; dal 2006 era rappre-sentante pontificio in Zambia e in Malawi.

DIPLOMAZIANuovi nunzi in Repubblica Ceca, Perù, Usa e Antille

Carlo Maria Viganò

Rachid Ghannouchi, leader

del partito islamico Ennahda

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Roma è lontana dal Malabar.Ma se si vuole percepire co-sa sia davvero la prossimità

che connota ed esprime la Com-munio Ecclesiarum, basta guar-dare al filo di gratuita e reciproca

riconoscenza che unisce la Chiesadi Roma e la Chiesa siro-malaba-rese. Due realtà che per quasi diecisecoli non hanno condiviso alcuntipo di legame giuridico-istituzio-nale. George Alencherry, eletto

nel maggio scorso arcivescovomaggiore di quella Chiesa indianadi rito orientale fiorita dalla predi-cazione di san Tommaso aposto-lo, nel mese di ottobre è venuto atrovare il Successore di Pietro nel-

Benedetto XVI con sua beatitudine George Alencherry, in occasione dell’udienza con la delegazione

della Chiesa siro-malabarese, nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, il 17 ottobre 2011

di Roberto Rotondo e Gianni Valente

«La nostra è la fede degli apostoli, tramandata da san Tommaso»

Chiese orientali

L’origine apostolica. La fedeltà alle proprie tradizioni. I rapporti con gli hindu e una fioritura di vita che non conosce confini. Le relazioni con Roma. Intervista con George Alencherry, arcivescovo maggiore della Chiesa siro-malabarese, in occasione della sua visita a papa Benedetto XVI

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la sua sede apostolica. In occasio-ne della sua trasferta romana, ilcapo della comunità cattolica di ri-to orientale più numerosa e rile-vante dopo i greco-cattolici ucrainiha voluto incontrare anche30Giorni.

L’intervista è stata raccolta pres-so la Domus Romana Sacerdotalisdi via della Traspontina.

Beatitudine, ci racconta delsuo incontro col Santo Padre?

GEORGE ALENCHERRY: Iosono stato eletto arcivescovo mag-giore dal Sinodo della Chiesa siro-malabarese a maggio, e poi il Papaha confermato la mia elezione.Questa procedura è stata applicataper la prima volta: infatti, i due ar-civescovi maggiori che mi hannopreceduto erano stati scelti diretta-mente dalla Santa Sede. L’elezio-ne è avvenuta il 24 maggio, e il 29maggio mi sono installato come ar-civescovo maggiore e arcivescovodella diocesi di Ernakulam – Anga-maly. Quella di ottobre è stata lamia prima visita da arcivescovomaggiore al Papa, insieme col Si-nodo permanente dei nostri vesco-vi. È stata l’occasione per rinnova-re come arcivescovo maggiore lamia dichiarazione di lealtà e obbe-dienza al successore di Pietro. Du-

rante il viaggio ho visitato anche al-tri dicasteri della Santa Sede, inparticolare la Congregazione perle Chiese orientali.

Quali argomenti avete trat-tato nei vostri incontri in Vati-cano?

Abbiamo parlato parecchio deiproblemi di giurisdizione che crea-no ostacoli alla nostra opera pasto-rale. I fedeli della Chiesa siro-mala-barese sono circa quattro milioni,di cui 3 milioni e 400mila vivononelle ventotto diocesi in India. Diqueste diocesi, diciotto si trovanonel territorio proprio (Kerala, par-te del Tamil Nadu e Karnataka) del-la Chiesa siro-malabarese. Noi ab-biamo una giurisdizione territoria-le solo in queste diciotto diocesi. Eci piacerebbe avere una giurisdi-zione territoriale che copra tutto ilterritorio dell’India: è questo unodei nostri appelli al Santo Padre, eper noi è una richiesta importante.Crediamo che sia un nostro dirit-to. Prima dell’arrivo dei missionarioccidentali – i portoghesi sono ar-rivati nel XVI secolo – la giurisdi-zione di noi “Cristiani di san Tom-maso” era estesa a tutta l’India.Poi i missionari occidentali, a cau-sa dell’influenza dei sovrani euro-pei, presero la giurisdizione del-l’India, restringendo la nostra alle

aree dove eravamo maggiormen-te concentrati.

La vostra richiesta può sem-brare una rivendicazione di di-ritti passati ormai sepolti dallastoria…

No, è una questione che riguar-da il presente, in termini molto con-creti. I nostri fedeli crescono di nu-mero e si diffondono in altre regio-ni. Ma lì succede che la nostra gen-te non trova adeguata cura pastora-le in continuità con la propria tradi-zione, e soffre per questo. I nostrifedeli sono abituati alla nostra litur-gia, ai nostri costumi, alle nostremodalità di preghiera e di parteci-pazione dei laici all’amministrazio-ne delle parrocchie. Il ruolo dei laicinella vita delle parrocchie e nellacatechesi è una peculiarità dellaChiesa siro-malabarese. In moltegrandi città ci sono grandi concen-trazioni di fedeli siro-malabaresi:settantamila a Delhi, cinquantamilaa Chennai e Bangalore, circa venti-mila a Hyderabad. Vorremmo po-ter stabilire delle diocesi almeno inquesti grandi centri urbani.

E cosa vi è stato risposto?La Santa Sede ci ha detto che in

via di principio abbiamo diritto allagiurisdizione. Ma, visto che nelle al-tre regioni si è installata la Chiesalatina, è necessario stabilire unqualche tipo di intesa concordatacon i latini. Il Santo Padre com-prende i nostri bisogni e ci ha spie-gato che sarà necessario procedereun passo alla volta. Ci ha ricordatole parole del Concilio Vaticano II,per cui ciascuna Chiesa sui iuris hadiritto a poter vivere in autonomia.C’è un’anomalia storica che va cor-retta. Noi siamo pazienti, ma non ègiusto che si vada avanti così.

Quali sono le obiezioni chevengono poste alla vostra ri-chiesta?

Già adesso la Chiesa siro-mala-barese, quella siro-malankarese equella latina hanno diocesi che sisovrappongono nel nostro territo-rio storico. Però alcuni vescovipensano che ci potrebbero esseredelle difficoltà se noi estendessimola nostra giurisdizione a territoriche cadono nelle loro diocesi. Te-nete conto che in alcune diocesilatine attualmente i siro-malabare-si rappresentano una gran parte ¬

INDIA. I siro-malabaresi

Fedeli in preghiera durante una messa nella chiesa di Nostra Signora della Salute a Hyderabad, nello Stato dell’Andhra Pradesh

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dei fedeli accuditi dai sacerdoti lati-ni. Se estendessimo la giurisdizio-ne, in alcune di quelle diocesi lati-ne potrebbero rimanere pochissi-mi fedeli di rito latino. Un altro ti-more riguarda i preti siro-malaba-resi che hanno imparato il rito lati-no e lavorano nelle diocesi latine.Ci sono più di trenta vescovi di ori-gine siro-malabarese che lavoranocome vescovi latini nelle diocesidel nord.

E fuori dall’India, come van-no le cose?

C’è un gran numero di fedeli si-ro-malabaresi fuori dall’India. NegliStati Uniti sono circa centomila, eper loro è stata istituita una diocesiche ha il suo centro a Chicago. Lagran parte dei fedeli all’estero siconcentrano nel Golfo Persico. InArabia Saudita sono più di ottanta-mila, quasi tutti lavoratori che si so-no trasferiti lì in maniera permanen-te. Il Papa ha nominato due vicariapostolici e un nunzio, ma i sacer-doti che sono stati incaricati di pren-dersi cura di quei fedeli, pur essendodi origine siro-malabarese, hannoaderito alle congregazioni latine esono latini di formazione. L’assenzadi sacerdoti del nostro rito ha creatoqualche tensione in quei Paesi. È unaltro problema che abbiamo fattopresente alla Santa Sede; speriamoche ci diano ascolto.

Come procede la collabora-zione tra le diverse Chiese cat-toliche in India?

Le tre Chiese, latina, siro-mala-barese e siro-malankarese, sono

parte dell’unica Chiesa universale, ec’è una Conferenza episcopale deivescovi delle tre Chiese. In quellaConferenza lavoriamo insieme sen-za alcun problema. La Chiesa catto-lica è comunione di diverse Chieseparticolari: ci sono ventidue Chieseorientali, che con quella latina com-pongono la Chiesa universale. Soloa partire da questa teologia è possi-bile l’ecumenismo: se i greco-orto-dossi percepissero l’esistenza di que-sta comunione, si unirebbero ai cat-

tolici. Ecumenismo non è portare laChiesa ortodossa sotto l’ammini-strazione di quella latina. Noi, dadentro, chiediamo un ecumenismoreale. Gli ortodossi lo chiedono dafuori. Ma alcuni tra i latini non locomprendono.

E i rapporti con gli hindu?In generale l’induismo è una reli-

gione che promuove pace e armo-nia. La gran parte delle persone ciguarda con simpatia, e lavoriamo in-sieme. Ma come sapete, nel passato

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Chiese orientali

George Alencherry col Sinodo che lo ha eletto arcivescovo maggiore,il 24 maggio 2011

George Alencherry cresima una bambina

Il primo arcivescovo maggiore eletto dal Sinodo

George Alencherry è nato nel 1945. Ha due fratelli sacedoti e una sorellasuora. Ha studiato nel Saint Josephʼs Pontifical Seminary di Alwaye ed è

cresciuto nellʼarcidiocesi di Changanacherry, dove ha ricoperto vari ruoli diresponsabilità prima e dopo i periodi di studi superiori trascorsi in Francia(dottorato in Catechetica presso lʼInstitut Catholique di Parigi e dottorato inTeologia biblica alla Sorbona). Nel 1996 è stato nominato primo vescovo diThuckalay, diocesi nata dalla suddivisione dellʼarcidiocesi di Changana-cherry. Quarantasei vescovi del Sinodo lo hanno eletto arcivescovo maggio-re della Chiesa siro-malabarese il 24 maggio 2011, garantendogli la maggio-ranza richiesta dei due terzi alla seconda votazione. Due giorni dopo, Bene-detto XVI ha confermato lʼelezione.

Il motto episcopale di mar George Alencherry è: «Servizio in dialogo di ve-rità e amore».

G.V.

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recente ci sono stati gruppi di fonda-mentalisti che hanno creato proble-mi. In ogni Paese, per un motivo oper l’altro, esistono i fondamentali-sti. Così come esistono gli estremistipolitici, che chiamiamo terroristi. InIndia esistono gruppi estremisti al-l’interno dell’induismo: chi credenell’autentico induismo non li ama,ma questi gruppi creano problemisoprattutto ai cristiani. Temono che icristiani, per mezzo delle conversio-ni, prendano il controllo del Paese.Ma è una paura senza fondamento eanzi i cristiani non reagiscono con laviolenza ai loro attacchi. Il governo losa e ci sta aiutando.

La Chiesa siro-malabareseè rimasta nella fede degli apo-stoli vivendo nel mezzo di unacultura radicata in altri pre-

supposti religiosi. Questa èuna splendida testimonianzadel fatto che la Chiesa è di Ge-sù Cristo (Ecclesiam Suam,scrisse Paolo VI). Cosa puòsuggerire alla cristianità inte-ra la vicenda dei cristiani siro-malabaresi?

L’eredità che ci portiamo dietro èil risultato di venti secoli di testimo-nianza della fede cattolica, a cui sia-mo sempre rimasti fedeli anchequando c’erano serie incomprensio-ni da parte dei missionari stranieri.La nostra Chiesa ha uno stile unicodi catechesi: nelle famiglie, nelle par-rocchie e nelle scuole, a tutti questitre livelli insegniamo ai bambini a cu-stodire la fede. Qui a Roma ci sonocirca seimila fedeli siro-malabaresi: il16 ottobre abbiamo celebrato una

bella liturgia nella Basilica del Late-rano. La Basilica era piena.

La Chiesa siro-malabareseha confermato la comunionecon Roma dopo secoli di as-senza di contatti. È il segnoche la comunione della Chiesanon è in primo luogo il risulta-to di rapporti giuridici…

La nostra è la fede degli aposto-li, tramandata da san Tommaso.San Tommaso non avrebbe potutoiniziare una nuova Chiesa per for-za propria. Anche in India lui fecesolo quello che Gesù gli aveva det-to di fare. Per lo stesso motivo,Tommaso e tutti quelli che da luihanno ricevuto l’annuncio evange-lico sono in comunione con Pietro,e questo è garanzia della nostra fe-de. La lealtà al Papa arriva dallanostra esperienza della fede: pre-ghiamo per il Papa nella celebra-zione eucaristica, consideriamonella liturgia i santi di tutte le Chie-se particolari insieme coi nostri.Dottrinalmente, custodiamo ciòche abbiamo ricevuto dal Credo diNicea. L’eucaristia e gli altri sacra-menti, per dono dello Spirito San-to, ci uniscono nella Chiesa una,santa e apostolica.

Ci racconta la vostra devo-zione per san Tommaso?

Dopo le feste di Nostro Signo-re, dal Natale alla Pasqua, e le festedella Beata Vergine – ImmacolataConcezione, Natività e Assunzione–, la festa più solenne nella Chiesasiro-malabarese è la “dukhrana”, ocommemorazione di san Tomma-so. La celebriamo in tutto il mon-do; anche in Arabia Saudita, dovenon si possono tenere celebrazioniufficiali, più di trecento fedeli si so-no riuniti in un luogo privato e mihanno telefonato, chiedendo unabenedizione. Secondo la tradizio-ne, Tommaso fondò sette comu-nità in India. Quei luoghi sono di-ventati altrettante mete di pellegri-naggio. E la prima domenica dopoPasqua si celebra la festa di sanTommaso che tocca il costato diGesù. È una grande festa, a cuipartecipano anche molti hindu.

Il cardinal Levada, all’ulti-mo Sinodo del le Chieseorientali, ha annunciato cheavrebbe consultato i patriar-chi orientali su una possibi-

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INDIA. I siro-malabaresi

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La nostra è la fede degli apostoli, tramandatada san Tommaso. San Tommaso non avrebbepotuto iniziare una nuova Chiesa per forzapropria. Anche in India lui fece solo quello che Gesù gli aveva detto di fare. Per lo stessomotivo, Tommaso e tutti quelli che da lui hanno ricevuto l’annuncio evangelico sono in comunione con Pietro, e questo è garanzia della nostra fede

Una processione in occasione della “dukhrana”, la commemorazione di san Tommaso,nei pressi della chiesa di San Tommaso, a Palayur, nello Stato del Kerala

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le riforma dell’esercizio delministero petrino. Cosa sug-gerisce, in particolare riguar-do ai rapporti con le Chieseorientali?

La Chiesa cattolica, attraverso ilConsiglio per l’Unità dei cristiani,ha già iniziato un dialogo sul pri-mato. Penso che si debba prose-guire in quel dialogo e cercare unaccordo comune con le Chiesed’Oriente, come c’era nei primiquattro secoli della cristianità. Aquel tempo c’era una comprensio-ne comune del primato. Ora laChiesa ortodossa obietta che è im-possibile risalire alla teologia pre-cedente al Concilio di Calcedoniaperché non possediamo nessundocumento di quell’epoca. Ma cre-do che anche a partire dai docu-menti e pronunciamenti successivial tempo di Calcedonia sia possibi-le un dialogo e un accordo sul mini-stero petrino. Perché esiste l’e-spressione primus inter pares.Noi abbiamo tutti bisogno di un mi-nistero petrino che sia riferimentodi unità per tutte le Chiese. Io ho lasperanza che si trovi un punto ametà strada dove la Chiesa cattoli-ca e le Chiese ortodosse possanoincontrarsi nella piena comunionedella Chiesa di Cristo.

Per secoli la vostra Chiesaha dovuto fare i conti con iprocessi di “latinizzazione”messi in atto nei vostri con-fronti. C’era chi vi credevaeretici o scismatici perchéavevate le vostre preghiere,le vostre liturgie e non parla-vate latino. Oggi vede ancoracircolare residui di quellamentalità?

Il modo di pensare è cambiatomolto, anche nella Chiesa latina.Tra i teologi, tra la gran parte deivescovi, e nella Sede apostolica.Padre Placid Podipara, cmi, unteologo e storico molto rinomatodella nostra Chiesa, ha detto che laChiesa siro-malabarese è cristianaper fede, hindu per cultura e orien-tale nel culto. Sfortunatamente imissionari che arrivarono nel XVIsecolo non lo compresero. Nonavevano cattive intenzioni, era l’at-titudine del tempo. Ma ora quelloche loro hanno pensato che fossesbagliato può essere restaurato.

Questo è ciò che dice il ConcilioVaticano II. Molto è cambiato, madove questo cambiamento non c’èstato, ci sono dei problemi. E que-sto capita con la mentalità di alcunivescovi latini. L’ho detto anche alPapa; ho detto: «Santità, ci sonotantissimi vescovi latini che com-prendono correttamente l’eccle-siologia di comunione, ma ce nesono altri…».

La liturgia ha avuto un ruo-lo centrale per la continuitàstorica della vostra Chiesa.Come vede l’importanza rico-nosciuta alla liturgia dal magi-stero del Papa attuale?

Il magistero del Papa attuale starealmente salvando la Chiesa delnostro tempo. Ci sono tante aber-razioni che stavano penetrandonella Chiesa, a volte nel nome delConcilio Vaticano II. C’è qualcunoche ha interpretato male quel Con-cilio, fermandosi alle cose acciden-

tali e perdendo di vista l’essenziale.Il Papa vuole seguire ciò che il Vati-cano II realmente ha voluto dire. Equando lui, piano piano, riuscirà afar passare queste cose, la Chiesasarà davvero unita. La dissipazionee la mondanizzazione della Chiesasono davvero estese, specialmentein Europa, e per la ricomposizioneoccorrerà più tempo. Ma questo èl’intento del Papa, e la Chiesa siro-malabarese è con lui.

Eppure ci sono state anchenella Chiesa siro-malabaresecontroversie accese tra chi so-stiene il recupero integrale delpatrimonio liturgico tradizio-nale e chi giudica questo unaforma di estetismo tradiziona-lista. Tra “caldeizzanti” e “lati-nizzanti”…

Vi dirò: se una cosa è caldea, oeuropea, o di qualsiasi altro posto,quello che è valido è valido. Ma al-cuni, in conseguenza della latiniz-

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Chiese orientali

Molti sembrano non capire che se fiorisce e prospera la Chiesa siro-malabarese, fiorisce la Chiesa universale. Perché ogni Chiesa particolare è per la Chiesa universale. E anche la Chiesalatina è una Chiesa particolare

Sua beatitudine George Alencherry durante l’intervista con i giornalisti di 30Giorni,il 17 ottobre 2011

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zazione, si sono convinti che quelloche appartiene alla cultura occi-dentale è buono e quello che vieneda Oriente non è buono. È un’im-pressione creata dalla latinizzazio-ne, a cui siamo stati sottoposti pertre secoli. Anche se la Chiesa uni-versale con il Concilio Vaticano II ciha restituito la libertà di recuperaregli elementi validi del nostro patri-monio, una buona parte dellaChiesa li ha dimenticati e non sen-te l’esigenza di questo recupero.Dicono: continuiamo ad andareavanti con quello che abbiamo ora,e se serve altro, prendiamolo dallaChiesa latina. Questa è la loro atti-tudine. Altri rispondono che percontinuare a essere ciò che siamo,dobbiamo prima di tutto recupera-re quello che ci è stato tolto e ab-biamo perduto.

Io, nel mio ufficio, proverò acreare più unità e anche una certauniformità nelle celebrazioni litur-giche. Non una uniformità inte-grale, ma una unità sull’essenziale.

Da realizzare mano a mano. Gra-dualmente. Ad esempio, primanella Chiesa latina c’era chi dicevache noi celebriamo guardando almuro. Ma guardare a Est non èavere la faccia al muro. È guardareverso dove viene il Signore. Nellateologia della nostra Chiesa, il po-polo e il celebrante offrono insie-me il sacrificio a Dio Padre, rivoltia Oriente.

L’India sta diventando unaspecie di superpotenza geo-economica. Ci sono nuoviproblemi. Questi processi co-me toccano il vostro lavoropastorale?

Il mondo che cambia, cambiaanche noi. I nostri fedeli emigrano,per studiare o cercare lavoro. Soloun terzo di essi vivono nelle diocesioriginarie. Circa due terzi sonofuori, nelle grandi città. In Americae in Europa ci sono dottori, im-prenditori, commercianti siro-ma-labaresi che stanno salendo la scalasociale. Se a noi viene riconosciutala giurisdizione universale sui nostrifedeli, noi possiamo davvero favo-rire questa energia in modo che lasua forza sia al servizio della Chiesauniversale. Altrimenti quello cheperderemo noi lo perderà la Chie-sa universale. E se i nostri fedelitroveranno difficoltà a rimanere incontatto con il proprio patrimoniospirituale, cercheranno il sensospirituale nei gruppi pentecostali oin realtà del genere. E questo stagià accadendo. Noi stiamo perden-do i nostri fedeli. Loro arrivano dal-l’India in Occidente, trovano qual-cuno che dice loro: perché devi an-dare nelle chiese dei latini? Vienicon noi, preghiamo insieme. Neabbiamo persi tanti. Noi siamo an-gosciati per questo e abbiamoespresso le nostre angosce ancheai dicasteri vaticani. Tutti sembra-no comprendere quello che dicia-mo, ma poi non si prendono deci-sioni. Si devono consultare tantepersone, e il tempo passa. E le co-se peggiorano. Molti sembranonon capire che se fiorisce e pro-spera la Chiesa siro-malabarese,fiorisce la Chiesa universale. Per-ché ogni Chiesa particolare è perla Chiesa universale. E anche laChiesa latina è una Chiesa partico-lare. Mentre nelle teste di qualcu-

no, universale coincide con latino.Questa ovviamente non è la dottri-na ufficiale. Non è il pensiero dinessun teologo serio. Ma continuaa essere mentalità diffusa in molti,e crea ritardi.

Nei giorni scorsi, presso laPontificia Università Grego-riana, si è tenuto un impor-tante Congresso internazio-nale sulla cosiddetta Anaforadi Addai e Mari. Perché que-sta anafora ha un’importanzaparticolare dal punto di vistaecumenico e liturgico?

Quella di Addai e Mari è l’a-nafora più antica nella Chiesa uni-versale. In essa noi percepiamo lapiù semplice teologia dei Vangeli,la più germinale comprensionedel mistero di Cristo, senza le for-mulazioni dottrinali venute dopo.Come il Vangelo di san Marco è ilVangelo più semplice, quella diAddai e Mari è la liturgia più sem-plice. Così, quando la celebriamo,sperimentiamo intensamente lapresenza di Gesù con noi. Anchele attese e le suppliche della Chie-sa sono integrate molto bene nel-l’Anafora. Contiene le preghiereper i deboli, gli oppressi, i martiriz-zati, i poveri, i rifugiati. Insomma,ha la bellezza della semplicità.L’Anafora di Addai e Mari è usa-ta dalla Chiesa assira d’Oriente, eha la caratteristica di non contene-re in maniera esplicita le paroled’istituzione, quelle pronunciateda Gesù nell’Ultima Cena («Pren-dete e mangiate, questo è il miocorpo… Prendete e bevete, que-sto è il mio sangue… Fate questoin memoria di me»). Anche laChiesa siro-malabarese ha usatola forma tradizionale di quell’a-nafora fino al sedicesimo secolo,senza interpolazioni. Ma i teologilatini sostenevano che senza le pa-role dell’istituzione non c’era veraconsacrazione, quindi considera-vano non valida l’Anafora di Ad-dai e Mari. Poi, nel 2001, il Ponti-ficio Consiglio per l’Unità dei cri-stiani, con il consenso della Con-gregazione per la Dottrina dellafede, ha riconosciuto la validità diquell’anafora, usata da tempi im-memorabili anche nel nostro Qur-bana, il sacrificio eucaristico se-condo il rito malabarese. q

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INDIA. I siro-malabaresi

Devozione mariana a Srinagar, nello Stato del Jammu e Kashmir

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Collegi ecclesiastici

L’ Istituto fu voluto da Pio XII e oggi ospita quaranta sacerdoti di rito siro-malabarese e di rito siro-malankarese. La nostra visita è l’occasioneper conoscere più da vicino questi due riti che, insieme a quello latino,costituiscono la Chiesa cattolica indiana, tra le più fiorenti della cristianità

La cappella del Pontificio Istituto San Giovanni Damasceno decorata con icone realizzate da don Jacob Kooroth; al centro, un mosaico di Marko Ivan Rupnik

di Pina Baglioni

L’India che è nel cuore di Roma

PONTIFICIO ISTITUTO SAN GIOVANNI DAMASCENO

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Si respira un clima di grande le-tizia all’Istituto Pontificio SanGiovanni Damasceno, la di-

mora di quaranta sacerdoti indianiche soggiornano a Roma per per-fezionare i loro studi.

Sono i figli della Chiesa di sanTommaso, fondata, secondo latradizione, dall’apostolo del Si-gnore nell’estremo sud dell’India,l’attuale Stato federale del Kerala:trentuno di loro appartengono allaChiesa cattolica siro-malabarese.Gli altri nove, alla Chiesa cattolicasiro-malankarese. Tutti e quarantahanno tra i trenta e i trentacinqueanni, con alle spalle diversi anni disacerdozio.

A guidarli, padre Varghese Ku-risuthara: è siro-malabarese e pro-viene dal Kerala. Dirige il San Gio-vanni Damasceno da quattro anni,dopo nove trascorsi come vice.Dopo gli studi e l’ordinazione sa-cerdotale in India, ha conseguitopresso l’Accademia Alfonsiana ildottorato in Teologia morale, disci-plina che oggi insegna al Teresia-num, la Facoltà teologica del Colle-gio internazionale dei Carmelitaniscalzi di santa Teresa di Gesù e disan Giovanni della Croce.

Padre Varghese appartiene allaprovincia di Malabar dell’ordinedei Carmelitani scalzi. «Il ruolo deiCarmelitani è stato estremamenteimportante nella storia dei Cristia-ni di san Tommaso», spiega il ret-tore. «Furono inviati da papa Ales-sandro VII sotto la giurisdizionedella Congregazione di Propagan-

da Fide, alla metà del XVII secolo,al fine di riunire i fedeli e di mette-re pace nelle continue dispute tra imissionari portoghesi e i Cristianidi san Tommaso. Sono stati cosìstimati dai cristiani indiani, soprat-tutto nel Kerala, da ispirare addi-rittura congregazioni carmelitaneindigene».

Tra i sacerdoti ospiti del SanGiovanni Damasceno ci sono stu-denti della Congregazione missio-naria del Santissimo Sacramento,della Congregazione Vincenzia-na, della Congregazione di SantaTeresa, della Società degli Oblatidel Sacro Cuore, dell’Ordine del-l’Imitazione di Cristo e della So-cietà missionaria di San Tomma-so Apostolo.

Tutti e quaranta i sacerdoti sonoarrivati a Roma grazie alle borse distudio concesse dalla Congrega-zione per le Chiese orientali. Alcu-ni, per conseguire la licenza; lamaggior parte, per ottenere il dot-torato: in tredici frequentano i cor-si di Diritto canonico e di Liturgiaorientale al Pontificio IstitutoOrientale. Gli altri studiano soprat-tutto teologia e filosofia in tutte le

altre università pontificie.«Quest’Istituto, inaugura-to il 4 dicembre del 1940,fu fortemente voluto dapapa Pio XII sia per i sa-cerdoti provenienti dalleChiese orientali che nonavevano case di formazio-ne proprie, sia per quelliche desideravano eserci-tare il loro ministero sa-cerdotale in Oriente. Al-l’epoca, non c’era nessunindiano», racconta padreVarghese. «Il Papa lo volleintitolare a Giovanni Da-masceno per l’affezionedel santo al papato e perla sua devozione partico-lare alla Madre di Dio».

In quegli anni i semina-risti e i sacerdoti indiani al-loggiavano in un’ala delPontificio Collegio Russi-cum. Successivamente,furono sistemati nel Colle-gio Pio Romeno, perché ilregime comunista vietavaai sacerdoti romeni di ve-nire a Roma. Poi, nel

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Sopra, gli studenti del PontificioIstituto San Giovanni Damasceno con il cardinale Leonardo Sandri,prefetto della Congregazione perle Chiese orientali, in occasionedella benedizione dell’iconostasi, il 4 ottobre 2010

Sotto, san Tommaso in un’iconaconservata nell’atrio dell’Istituto

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1993, l’Istituto fu trasferito nellasede attuale, un’ex clinica, incu-neata in una fitta rete di strade trale Basiliche di San Giovanni in La-terano e Santa Croce in Gerusa-lemme, acquistata dalla Congrega-zione per le Chiese orientali e com-pletamente ristrutturata.

Il San Giovanni Damasceno di-pende direttamente dal prefettodella Congregazione per le Chieseorientali, il cardinale LeonardoSandri. E, dall’anno accademico1996-1997, è riservato esclusiva-mente agli alunni appartenenti al-la Chiesa cattolica siro-malabare-se e alla Chiesa cattolica siro-ma-lankarese.

Un Istituto per due ChieseLa giornata dell’Istituto, ci spiega ilrettore, comincia con la messa delmattino, alle 6 e 30. Viene celebra-ta nei due riti nelle rispettive cap-pelle: in quella più grande, per imalabaresi, nel rito siro-malabare-se; in quella più piccola, per i ma-lankaresi, nel rito siro-antiocheno.«Poi si celebra la messa anche in ri-to latino, tutti insieme. Una sorta di“esercizio” per quando si va a diremessa, alla domenica, nelle par-rocchie romane, o anche a Natalee a Pasqua. Oppure d’estate,quando i sacerdoti indiani vanno adare una mano in molte parroc-chie in Italia e in Germania».

Inoltre, per testimonianza diret-ta di chi scrive, si può ben dire che

all’Istituto si può godere di un’ec-cellente arte culinaria: due volte al-la settimana d’origine indiana; peril resto, italiana.

Chiediamo a padre Varghesecosa andranno a fare questi sacer-doti, una volta tornati in India.«Una parte di loro andrà a insegna-re nei seminari, un’altra sarà im-piegata nell’ambito della curia ve-scovile, nella pastorale giovanile enella catechetica presso le diocesi.Altri ancora faranno i parroci».

In Kerala, i siro-malabaresi e si-ro-malankaresi dirigono moltissi-me scuole cattoliche di ogni ordinee grado, dove si svolgono i normalicorsi di studio statali. «E le spesesono in gran parte a carico delleChiese. Sono frequentate, oltreche dai cattolici, anche da un grannumero di studenti hindu per viadell’altissimo livello di istruzioneche vi viene impartito. E propriograzie alle scuole cattoliche, il Ke-rala è lo Stato più istruito dell’In-dia». In India, i cattolici – di rito lati-no, siro-malabarese e siro-ma-lankarese – sono in tutto 17 milio-ni: meno del 2 per cento della po-polazione indiana.

Le tre Chiese, tutte insieme, ge-stiscono venticinquemila scuole.Senza contare migliaia di case pervedove e orfani, ricoveri per leb-brosi e malati di Aids, ospedali ecase di riposo. Nel Kerala, poi, do-ve i cristiani sono il 22 per centodella popolazione, l’istruzione, an-che femminile, vanta i livelli più altidi tutta l’India. È anche lo Statocon i più alti indici di lettura. Dal2008 vi si stampa nella lingua loca-le, il malayalam, anche un’edizio-ne settimanale dell’OsservatoreRomano, a cura dei Carmelitaniscalzi della provincia del Malabar.Inoltre, il Kerala è lo Stato dove sitrova il più alto tasso di pluralismoreligioso: insomma, un esempio diconvivenza in atto.

«Nelle scuole cattoliche, apertea tutti, si svolgono i programmiscolastici previsti dall’ordinamentostatale. In più ci sono dei corsi spe-cifici per gli studenti cristiani checomprendono dottrina, etica emorale».

Qual è il motivo della grande vi-talità della Chiesa siro-malabarese,che, con oltre quattro milioni di fe-deli, rappresenta la Chiesa orien-

Collegi ecclesiastici di Roma

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Il rettore dell’Istituto, padre Varghese Kurisuthara

Santa messa in rito siro-malabarese celebrata nella chiesa romana di Santa Maria in Portico in Campitelli

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tale più vigorosa e in rapida cresci-ta dell’intera cristianità? Da solaprocura quasi il 70 per cento delle120mila vocazioni di tutta l’Indiacattolica. In questo Stato, quasi tut-te le diocesi hanno un seminariominore ed è una delle poche regio-ni in grado di “esportare” sacerdotie suore.

«Dipende dalle famiglie, dovel’attaccamento alla recita dell’An-gelus, al santo Rosario e alla santamessa, è fortissimo, commoven-te», rivela il rettore. «I papà e lemamme, ma anche i nonni, inse-gnano ai bambini, sin da piccolissi-mi, il segno della croce e le primepreghiere. Insomma, imparanotutto questo con il latte materno.Di conseguenza, la famiglia è unambiente che favorisce lo sboccia-re delle vocazioni sacerdotali, chevengono tenute in grande conside-razione in famiglia».

La diocesi di Adilabad: una Chiesa fiorenteI sacerdoti cattolici siro-malabaresivivono una situazione paradossa-le: la loro Chiesa è tra le più fioren-ti di tutta la cristianità, ma al di fuo-ri del Kerala si trovano in terra dimissione. «Per esercitare al megliola nostra missione e formare i cre-denti secondo le nostre tradizioniavremmo bisogno di eparchie no-stre. Ecco perché da molto tempo

chiediamo al Santo Padre unamaggiore giurisdizione fuori delKerala», ci dice don Prince Panen-gadan Devassy, a Roma per con-seguire la licenza in Teologia bibli-ca all’Urbaniana.

Viene dalla città di Thrissur, do-ve ha frequentato dalla prima alladecima classe, cioè dalle elementa-ri al liceo; successivamente, dueanni di seminario a Bangalore, nel-lo Stato del Karnataka, per studia-re filosofia. «Sono andato, poi, inmissione nell’eparchia di Adilabad,nello Stato dell’Andhra Pradesh,nell’India centro-orientale».

Adilabad è una delle più giovanieparchie dell’India, creata da papaGiovanni Paolo II il 23 giugno del1999. Prima di allora faceva partedella diocesi di Chanda, che siestendeva negli Stati di Maharash-tra e Andhra Pradesh, con due lin-gue e due culture diverse.

I primi sacerdoti siro-malabare-si sono arrivati ad Adilabad nel1962. Là hanno fondato strutturescolastiche per favorire l’accessoall’istruzione delle bambine e deibambini più poveri.

Nei villaggi, poi, i missionarihanno lavorato intensamente permigliorare le condizioni socialidella gente. Specialmente nel-l’ambito della sanità e dell’alimen-tazione. E molte persone, attrattedalla splendida testimonianza dei

missionari, hanno scelto la vitacristiana. Oggi la Chiesa di Adila-bad conta 15mila cattolici, consessanta sacerdoti tutti indiani,ventiquattro dei quali diocesani, econ sette vocazioni locali.

Don Prince è un testimoneoculare di tanta bellezza. «Per po-ter comunicare con questa genteho dovuto studiare la loro lingua.Da noi, in Kerala, si parla il ma-layalam. Nello Stato dell’AndhraPradesh, il telugu. Anche la scrit-tura è completamente diversa»,racconta.

Dopo gli anni trascorsi ad Adila-bad, don Prince è dovuto salire

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A sinistra, gli studenti dell’Istituto nel refettorio

Sotto, san Giovanni Damasceno in un’icona dipinta da Lauretta Viscardi,conservata nell’atrio dell’Istituto

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al nord, nel Madhya Pradesh, perstudiare teologia per quattro anni.Poi è stato ordinato sacerdote e dinuovo è tornato ad Adilabad peraltri due anni. Gli chiediamo, allo-ra, cosa significhi fare missione inmezzo a un oceano di hindu e a ungran numero di musulmani. «È lameraviglia della cultura indiana.

L’India ha dato origine a diversereligioni e ha accolto tutte le reli-gioni del mondo. Gli indiani sonotolleranti, pacifici e accolgono tut-ti. Rispettare le altre religioni e ac-cogliere a piene mani il bene, daqualsiasi parte questo arrivi, è lacaratteristica della cultura indiana.Ognuno ha la libertà di credere nel-la religione che preferisce», ag-giunge il giovane sacerdote. «Pernoi fare missione vuol dire innanzi-tutto andare semplicemente a visi-tare i villaggi sparsi nelle grandiaree rurali abitate da bracciantiagricoli e allevatori di bestiame.

Non diciamo nulla di Gesù e delVangelo, ma assistiamo i malati eaiutiamo i più poveri. Poi chiedia-mo ai genitori se vogliono affidarcii loro figli per farli studiare gratuita-mente. Quasi tutti acconsentono.E quindi portiamo i bambini nellenostre scuole, dove insegniamo lematerie curricolari. È questa la pri-

ma fase della missione. Vale a direquella in cui cerchiamo di costruireun rapporto forte con le personeattraverso l’aiuto ai loro bisogni.Molti missionari si sono prodigatiper portare l’elettricità e l’acquanei villaggi isolati.

In seguito, solo quando si è sta-bilito un rapporto di fiducia vicen-devole, cerchiamo di renderli con-sapevoli della dignità della vita edei diritti umani. A volte collaboria-

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Collegi ecclesiastici di Roma

Sopra, bambini nella scuola cattolica di Champakulam, nel Kerala, durante il pranzo; a destra, L’ultima cena, iconadipinta da don Jacob Kooroth, conservata nel refettorio dell’Istituto

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mo per emanciparli dallo sfrutta-mento e dall’ingiustizia», dice an-cora don Prince Panengadan De-vassy. «Dopo qualche tempo diservizio nei villaggi e nelle scuole,capita, molto spesso, che la genteci chieda della nostra religione edel nostro Dio. A quel punto noiparliamo esplicitamente di Gesù.Non predichiamo Gesù con la for-za e non cerchiamo di convertirenessuno con degli incentivi. Ma

cerchiamo di renderetestimonianza a Gesùattraverso la nostra vita,amando tutte le perso-ne senza nessuna distin-zione. Questo nostromodo di vivere attrae lepersone, che sono spin-te a chiederci da doveviene la nostra capacitàdi accogliere tutti, ricchie poveri, chi è vera-mente Gesù e cos’è ilVangelo. Per facilitarela comprensione dellanostra fede, a volteproiettiamo dei film sul-la vita del Signore inqualche sala o nel lospazio pubblico del vil-laggio, visto che quasinessuno possiede un te-levisore. La cosa bellis-sima è che molte di que-ste persone, soprattut-

to i bambini, fanno personaleesperienza di Gesù. Perché graziealla preghiera e al rapporto perso-nale con Lui, vedono una corri-spondenza nella loro vita, hannouna risposta alle loro domande, co-me mai era capitato loro prima.Certo, molti non ne vogliono sape-re di Cristo. Ma quelli che dicono“sì”, ricevono una fede fortissima.Insomma, noi non convertiamonessuno, ma le persone stesse siconvertono sotto l’azione dellagrazia divina. È una loro scelta. E inquesto contesto lo Stato garantiscela libertà di credere nella religionescelta da ognuno. Questa è la terzafase della missione», conclude donPrince. «È comprensibile che tuttele persone da noi servite e aiutatenon arrivino allo stesso punto.Molti rimangono nella prima o se-

conda fase. Nonostante ciò, nonsmettiamo di svolgere il ministero.Continuiamo a servire quella gen-te, perché le nostre attività non so-no mirate alla conversione, che èopera dello Spirito Santo, ma allaproposta rispettosa e libera».

Si unisce intanto alla conversa-zione Benedict Kurian, della Chie-sa cattolica siro-malankarese. Pro-viene dall’eparchia di Mavelikara,suffraganea dell’arcieparchia di Tri-vandrum. Ordinato nel 2002, hafatto il parroco per quattro anni adAmburi, nel Kerala. A Roma dal2007, sta per conseguire il dottora-to in Diritto canonico orientale conuna tesi sui diritti e i doveri dei laici.«Roma mi piace moltissimo. Ancheperché, in India, a scuola, studiamola storia dell’Impero romano in ma-niera approfondita», racconta.

Gli chiediamo cos’hanno di tan-to particolare i cattolicisiro-malankaresi, tor-nati in comunione conRoma solo dal 1930.«La differenza con i no-stri fratelli malabaresista solo nella liturgia; lanostra è siro-antioche-na. Invece quella dellaChiesa siro-malabareseproviene dalla tradizio-ne caldea. Una delleparticolarità nella no-stra liturgia sta nel fattoche da noi si celebra lamessa con il sacerdoterivolto sempre verso

l’altare, e i nostri fedeli sono attac-catissimi alla nostra tradizione litur-gica», spiega don Benedict.

«La riunificazione con il succes-sore di Pietro, il papa, l’hanno rea-lizzata cinque persone. Oggi siamo500mila. E nella nostra Chiesa so-no nate anche due congregazionifemminili – denominate Sisters ofthe Imitation of Christ e Daugh-ters of Mary – e una congregazio-ne maschile, Order of Imitationof Christ.

Noi siro-malankaresi abbiamola stessa tradizione apostolica, lastessa origine dei siro-malabaresi.Siamo anche noi eredi dei Cristianidi san Tommaso. E anche noi, co-me i nostri fratelli malabaresi, chie-diamo alla Santa Madre Chiesa diRoma di aiutarci, di estendere lanostra giurisdizione». q

A sinistra, studentidel seminariominore Saint Paulnella diocesi di Irinjalakuda, nel Kerala

Sotto, un battesimo nella chiesa di Saint Alex, a Calangute, nello Stato del Goa

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62 30GIORNI N.10 - 2011

La siccità attanaglia il Cornod’Africa. Tredici milioni dipersone rischiano di morire

se la comunità internazionale noninterviene presto e con efficacia. Èla crisi umanitaria più tragica delmomento, secondo quanto dichia-rato dall’Onu. Monsignor GiorgioBertin ne parla accorato, ma anchecome chi ormai è abituato ad ap-procciare le tragedie che da decen-ni straziano questo angolo di mon-do. La Somalia è l’iniziale terra dimissione del francescano Bertin.Poi giunge a Gibuti dove, nel 2001,è nominato vescovo; carica che sisomma a quella di amministratoreapostolico ad nutum Sanctae Se-dis di Mogadiscio. «È stata l’Onuper prima a lanciare l’allarme suquanto si stava consumando in que-sta regione, nel luglio scorso», ri-corda Bertin, «anche se la situazio-ne era andata deteriorandosi pocoa poco e già da febbraio-marzo c’e-rano indizi sufficienti per capire chela siccità aveva iniziato a tormenta-re il Paese. Almeno io me n’ero ac-corto già allora, notando un incre-mento di sfollati all’interno dellaSomalia, non spiegabile solo con laconflittualità interna. Attualmentea causa della siccità sono a rischio

di vita circa tredici milioni di perso-ne». Una catastrofe umanitaria chein Somalia ha conseguenze più tra-giche che negli altri Paesi del Cor-no d’Africa. E i numeri, nella lorocruda realtà, sono impressionanti.Li snocciola Bertin, chiamato piùvolte a esporre questo tragico ren-diconto, nella speranza di sensibi-lizzare l’opinione pubblica: «Si trat-ta di 146mila persone a rischio nelsolo Gibuti, circa quattro milioni inSomalia e il resto distribuito traEtiopia e Kenya. La situazione piùdrammatica è però quella in cui ver-sa la Somalia centro-meridionale,dove questa catastrofe si somma aquella decennale della violenza dif-fusa e della mancanza di uno Sta-to». Già, perché da quando è cadu-to i l regime di Siad Barre, nel1991, la Somalia è sprofondata inun’anarchia generale, in una guer-ra civile tra signori della guerra in-tenti a massacrarsi e a massacrarela popolazione civile. Nel 2004,dopo diversi tentativi andati a vuo-to, la comunità internazionale erariuscita a conciliare la maggior par-te delle diverse anime del Paese e acreare una sorta di governo, pur-troppo di vita breve. Era seguitauna nuova fase di anarchia, dove

oltre ai signori della guerra, le co-munità locali si erano organizzateattorno alle Corti islamiche. È inquesto periodo che, per la primavolta, nel Paese era giunto anche ilfondamentalismo islamico, quiidentificato con gli shebab, i quali amano a mano hanno aumentato laloro influenza fino a diventare fatto-re principale dei giochi politici delPaese. Due anni fa, ancora sotto laspinta della comunità internaziona-le, si è costituito un nuovo governodi transizione, fragile e non ancorain grado di amministrare lo Stato.Una debolezza di cui gli shebabhanno saputo approfittare riuscen-do, di fatto, a prendere il controllodi parte del territorio nazionale e aimperversare nelle zone controllatedall’autorità centrale con attacchimilitari o sanguinosi attentati con-tro la popolazione civile ed espo-nenti del governo. «Tutto questoaccade nella parte centro-meridio-nale della Somalia, perchè al nord,dove si sono costituiti lo Stato delSomaliland e la regione autonomadel Puntland, la situazione è più sta-bile ed è più facile portare aiuti»,spiega Bertin, che poi racconta del-le masse di sfollati che vagano per ilPaese, in fuga dai conflitti e, ades-

Da mesi il Corno d’Africa soffre per la mancanzad’acqua. Una tragedia che, nella Somalia centro-meridionale, si somma a quella di una conflittualità permanente causata dalla mancanza di un vero e proprio Stato. Parla monsignor Giorgio Bertin, vescovo di Gibuti e amministratore apostolico di Mogadiscio

di Davide Malacaria

A frica

La siccità attanaglia il Corno d’Africa

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so, anche dai morsi della siccità. Sitratta di qualcosa come trecentomi-la o quattrocentomila persone,quantifica il presule, ai quali biso-gna aggiungere i tanti rifugiati, unmilione di persone circa, ammassa-ti nei diversi campi profughi distri-buiti in Etiopia e in Kenya, a ridossodei confini con la Somalia. Si trattadi vere e proprie città in cui folle didisperati sopravvivono solo grazieagli aiuti umanitari. Tra questi, Da-daab, in Kenya, che, con i suoiquattrocentomila occupanti, è ilcampo profughi più grande delmondo. «Questi campi sono natidopo la fine del regime di Siad Bar-re», continua Bertin, «e c’è genteche vive in queste tendopoli fin daallora... Ora in questi accampa-menti stanno confluendo nuoviprofughi, in fuga dalla siccità, che,secondo una stima di inizi ottobre,giungono al ritmo di 1.200 al gior-no. Come Caritas Somalia siamopresenti nei campi per rifugiati si-tuati all’estero, portando aiuti diogni genere. Abbiamo provato aoperare anche all’interno del Pae-se, ma ci è stato chiesto di nascon-dere la nostra identità cristiana.Sinceramente, ci è sembrata una ri-chiesta inaccettabile, così abbiamo

declinato, preferendo intervenirealtrove. Nonostante questo, sotto-traccia, collaboriamo con alcuneorganizzazioni umanitarie locali,anche islamiche, che lavorano al-l’interno del Paese, anche nelle zo-ne controllate dagli shebab...». Pro-prio nelle zone controllate dai fon-damentalisti islamici la crisi dovutaalla siccità è più forte, anche per-ché questi non accettano nei loroterritori che alcune organizzazioniumanitarie. «Si dice che gli shebabsiano di al-Qaeda, ma è alquanto ri-duttivo. In realtà, quando la comu-nità internazionale ha favorito lacreazione del nuovo governo ditransizione, anche loro hanno cer-cato un qualche sponsor interna-zionale. E l’hanno trovato in al-Qaeda. Gli shebab non nasconocome formazione terroristica, an-che se poi, di fatto, usano le stessetecniche di lotta. Tra loro, poi, cisono due anime: una più moderata,formata da gruppi islamici locali, euna più estremista, formata da per-sone che vengono per lo più dall’e-stero. Comunque, al di là di tutte ledistinzioni, religiose e altro, quelloche veramente differenzia un grup-po dall’altro, in Somalia, è il clan.La società somala è profondamen-

te clanica e senza capirequesto fattore si rischia dinon capire nulla di quantoaccade nel Paese».

Agli inizi di ottobre, an-che facendo seguito ai variappelli di Benedetto XVI afavore delle popolazionicolpite dalla siccità, il car-dinale Robert Sarah haconvocato un’assembleastraordinaria del PontificioConsiglio «Cor Unum», al-la quale ha voluto parteci-pare, con un interventoscritto, anche il primateangl icano Rowan Wil-liams, all’insegna di unnon usuale, quanto effica-ce, ecumenismo della ca-rità. Nell’assemblea, ri-corda Bertin, oltre a coor-dinare gli aiuti immediatiper la questione della sic-cità del Corno d’Africa, siè richiamata l’urgenza disuperare la logica dell’e-mergenza, tentando di

realizzare piani di intervento chepossano favorire lo sviluppo e pre-venire certe emergenze che, in al-cuni luoghi del pianeta, sembranodiventate strutturali. A complicareancora di più le cose, verso la finedi ottobre, lo sconfinamento ditruppe del Kenya in territorio so-malo. Motivo ufficiale: la messa insicurezza dei confini keniani mi-nacciati dalle incursioni degli she-bab. Non è ancora chiara la porta-ta e la durata di questa incursione,ma di certo per profughi e rifugiatil’innalzamento del livello delloscontro non è una buona notizia.

«In ogni caso», conclude Ber-tin, «i problemi della Somalianon si risolveranno finché non siuscirà da questa situazione dicaos. Senza la creazione di un ve-ro Stato, sia pure non in lineacon i nostri criteri di democrazia,non si risolverà mai niente. Pur-troppo temo che anche quest’ul-timo, fragile, governo di transi-zione, senza un aiuto vero dellacomunità internazionale possafare la fine dei precedenti. Ma, aldi là di questo, reputo che peruscire da questa situazione sia ne-cessario coinvolgere anche ladiaspora somala». q

6330GIORNI N.10 - 2011

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66 30GIORNI N.10 - 2011

Tra tutti i Paesi della regionearaba mediterranea, il Maroc-co è l’unico che dopo l’indi-

pendenza del 1956 ha avuto unaCostituzione basata su multipartiti-smo, libertà sindacale e diritto d’as-sociazione. Una peculiarità che hauna lunga storia: la nostra monar-chia dura da quasi 1.400 anni e lanostra ultima Costituzione, appro-vata dal referendum popolare del

1° luglio scorso, è l’ottava; la primabozza risale al 1906, segno di undibattito politico vivace, soffocato,in seguito, dal protettorato impo-stoci da Francia e Spagna. Questoprocesso di “negoziazione perma-nente” nel Paese ha creato un va-sto consenso verso le istituzioni, ali-mentato successivamente dallo svi-luppo della stampa. Manifestarepacificamente sarà forse qualcosa

di nuovo per i Paesi limitrofi, manon per noi. A Rabat da quindicianni si tengono ogni giorno mani-festazioni di fronte al Parlamento.Siamo un Paese normale, in cuinon c’è ragione di mettere in causala legittimità delle istituzioni, anchese alcuni modi di governare sonocontestati. E senza timori posso ri-cordare che, dopo l’indipendenzadel 1956, emersero in Marocco

di Hassan Abouyoub

Ha riformato la Costituzione dopo la “primavera araba”, con il consenso del popolo e mantenendo la monarchia. «Il Marocco gioca il gioco della democrazia, sapendo che non c’è sulla terra una città ideale. Abbiamo reso lingua ufficiale l’amazigh, quella di sant’Agostino». Incontro con Hassan Abouyoub, più volte ministro e parlamentare, oggi ambasciatore in Italia

Quando tradizione e modernità

Marocco

Mohammed VI, re del Marocco, durante unacerimonia per il dodicesimo anniversario

della sua ascesa al trono, a Tetouan, vicino a Tangeri, il 31 luglio 2011

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correnti repubblicane, che attenta-rono alla monarchia nel 1971 e nel1972 con colpi di Stato falliti. Ab-biamo partiti politici che hannosessanta, settant’anni di vita: ma-gari non sono ancora completa-mente al passo con la globalizzazio-ne, ma senza dubbio possiedono gliingredienti della modernità. Alcunenovità previste nella nuova Costitu-zione – come la regionalizzazione,la questione dell’identità, lo statusdella donna – permettono oggi alPaese di fare un salto epocale, edanno al governo gli strumenti perconfrontarsi con la globalizzazione,dopo che questa ha messo in crisi ilruolo dello Stato centrale e oltre-passato il modello dello Stato natoa Westfalia. Il Marocco gioca il gio-co della democrazia, sapendo chesulla terra non esiste la città ideale.

Nella nostra “negoziazione per-manente” siamo riusciti a conciliarei diritti universali dell’uomo con lasharia. La nuova Costituzione hasaggiamente tagliato questo nodoaffermando che non abbiamo nullasu cui dividerci e decidere, perché ilPaese è plurale, aperto alle influen-

ze di correnti politiche, religiose,culturali. Perciò il Marocco è africa-no, è arabo, è amazigh [berbero,ndr], ha una dimensione mediterra-nea, ed è legato all’Europa da cin-quecento anni – la prima ambascia-ta del Marocco in Europa risale alXVII secolo. Tra l’altro, nella Costi-tuzione del nostro Paese, arabo-musulmano, sono menzionate an-che le radici ebraiche. Il più vecchiocimitero ebraico risale a oltre due-mila anni fa ed è ancora lì, nel suddel Paese… Possiamo dire che l’o-riginalità del Marocco è stata “con-sacrata” con la Costituzione. E nelpreambolo di questa troviamo l’ele-mento centrale: la scelta del maliki-smo come spina dorsale del sistemaspirituale: un islam ortodosso eaperto, che ha sempre valorizzatola facoltà, che l’islam lascia aperta,

dell’itjihad, cioè la disponibilità arinnovare le regole. Accanto almadhhab maliki [la dottrina ma-likita, ndr], il Paese si fonda su un’i-stituzione unica nel mondo musul-mano: un re che è ufficialmenteamir al mouminine, cioè com-mendatore dei credenti, ultima

istanza arbitrale per impedire losfruttamento in ambito politico delfatto religioso. È questa la nostra ri-sposta al dibattito sulla laicità. Talequalifica del re sottrae alla dialetticapolitica la dimensione religiosa.Questo modello istituzionale con ilre al vertice – meccanismo su cuic’è il consenso nazionale – ha an-che la funzione di garantire la li-bertà religiosa, cioè proteggere an-che gli altri monoteismi. Nel centrodelle città in Marocco, infatti, sipossono visitare chiese o sinago-ghe; come a Rabat, dove c’è la Cat-tedrale di Saint Pierre, che fa partedel tessuto urbano, senza la neces-sità di misure di sicurezza particola-ri... Allo stesso modo, la comunitàebraica marocchina non patisceproblemi di identità rispetto ai nati-vi musulmani, e quegli ebrei maroc-chini che hanno abbandonato ilPaese (molto numerosi: 600milanella sola Israele), mantengono conla patria un vincolo forte – peraltrola loro cittadinanza non decade maè mantenuta. Nel sistema giudizia-rio marocchino, infine, la leggeebraica viene rispettata come fontedi diritto dalla Corte suprema, a be-neficio della comunità ebraica.

Quanto accaduto in Tunisia,Egitto e Libia, ovvero la cosiddetta“primavera araba”, prima di esserecommentato va capito. I casi tunisi-no ed egiziano sono quasi equiva-lenti, diversi da quello libico. In ge-nerale, vi sono ancora punti oscuri:non è chiaro il ruolo dei poteri ester-ni né quello dei media non nazionalinell’amplificare gli eventi. E non èchiaro il vero livello di “rivoluzione”sviluppato. Intendo con ciò il realecambiamento che una rivoluzioneopera nell’ordinamento, nella no-menclatura, eccetera. Sono do-mande che tra poco avranno una ri-sposta, perché sarà lampante che ilcaso non è chiuso né risolto. E cheforse la rivoluzione, per come la sto-ria la ricorderà, deve ancora acca-dere, perché dovrà essere non vio-lenta ma culturale, capace di mette-re in causa i sistemi di governo, ara-bi e non solo, e l’organizzazionedelle collettività. Il caso marocchinoè differente, perché abbiamo unastabilità istituzionale indiscutibile,che nessuno ha messo in forse,

6730GIORNI N.10 - 2011

¬

si uniscono

Una manifestazione per le strade di Casablanca con un cartello che dice

“sveglia!”. Domenica 18 settembre 2011migliaia di attivisti per la democrazia

in Marocco hanno manifestato in tutto il Paese

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anche nei giorni delle ma-nifestazioni. Da noi s’effet-tuavano proteste di piazzaanche prima della cosid-detta “primavera araba”.Proteste contro la corru-zione o specifiche sceltegovernative, ma nulla più.D’altronde le difficoltà delMediterraneo sono comu-ni alla sponda Sud come aquella Nord: la disoccupa-zione, la distanza tra istru-zione e tecnologia, un defi-cit di visione politica. Tuttifattori che saranno proba-bilmente motivo di instabi-lità sociale per gli anni a ve-nire, perché nessuno ancora pos-siede risposte. E mi duole dire che aquesto riguardo manca un approc-cio comune con l’Europa, che nonvuole entrare in una sintonia di lun-go periodo con la sponda Sud,condannata perciò a lavorare dasola e con pochi mezzi a disposi-zione… Sappiamo che nel prossi-mo futuro occorrerà creare nelMediterraneo ben quaranta milionidi posti di lavoro, al di là di tutti i ra-gionamenti sulla democrazia e suimodelli di governo. Non si può im-maginare una democrazia chiusadentro la povertà, dove ai giovaniviene consegnato un futuro buio.Questo è un problema che l’Euro-pa dovrebbe affrontare con urgen-za, insieme a quello della libertà dicircolazione degli uomini, che èuno dei diritti umani universali.

Nella Costituzione abbiamosancito come lingua ufficiale, ac-canto all’arabo, l’amazigh, il ber-bero, che è la lingua di sant’Ago-stino, e anche la mia lingua mater-na. Un salto epocale che ha postofine al discorso sulla nostra iden-tità. Sono convinto che tutti i Paesiche hanno compiuto il loro per-corso verso la modernità e sonoriusciti a distribuire equamente leproprie ricchezze alla popolazio-ne, alle varie etnie e categorie,hanno avuto come pregiudiziale lasoluzione della questione sull’iden-tità. L’Italia è un testimonial fan-tastico di pluralismo culturale iden-titario, che ha accettato, risolven-do così problemi secolari. Anchenoi accettando tale pluralismo ab-

biamo dato un esempio. In questocampo allora parlerei di un “mo-dello marocchino” su come gestirele minoranze nel mondo arabo-musulmano, e non soltanto. Lamappa disegnata dal colonialismooccidentale in Medio Oriente nonha ancora prodotto quella paceche tutti sogniamo. Non conosco ilfuturo, ma c’è un modo per ripara-re i guasti del colonialismo: l’auto-nomia identitaria su base regiona-le e locale. È il modello regionalesancito nella nostra ultima Costitu-zione, che anche l’Europa ricono-sce e valorizza come ottimo modu-lo di governo.

La stabilità del Marocco nellatemperie della primavera araba cre-do si debba al sincero e diretto rap-porto tra la monarchia e il popolo.

Dal re Mohammed V sino ad oggi siè mantenuta questa relazione noncomune ed è il motivo per cui lequestioni circa la legittimità del po-tere – cioè le vere premesse delle ri-volte della primavera araba – da noinon sono emerse. Quando in Ma-rocco una minoranza ha un proget-to alternativo, può esprimerlo allaluce del sole, anche in maniera or-ganizzata. La stragrande maggio-ranza del popolo, che ha votato “sì”al referendum di luglio, si è pronun-ciata in maniera chiara a favore diun “conservatorismo positivo”, chenella vita quotidiana si esprime nellenostre due dimensioni costanti: latradizione e la modernità. Dove in-vece regimi dittatoriali hanno umi-liato il popolo per decenni, la rabbiasociale ha un significato, una violen-za e un obiettivo diversi. Anche se

30GIORNI N.10 - 2011

Marocco

68

A sinistra, il giovane principe Moulay Hassan, futuro re Hassan IIdel Marocco, circondato da ufficialifrancesi e membri della “Guardia Nera”, a Casablanca, in una foto del 1936; sotto, il sultano del MaroccoMohammed V, in piedi nell’auto al centro della foto, al suo ritorno in patria dall’esilio, a Rabat, il 16 novembre 1955

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poi è necessario capire chi guida talimoti. Quello che infatti manca erende difficile prevedere l’esito dellaprimavera araba, giunta ormai al-l’autunno, è che non riusciamo a in-dividuare i timonieri delle rivoluzio-ni. In Marocco invece c’è un leaderche dal 1999, dal suo primo giornodi governo, col discorso di Casa-blanca sul “concetto di autorità”,aveva già delineato la strada da per-correre, e quello che la nostra Costi-tuzione afferma era già tutto in queldiscorso. Di alcune riforme ora at-tuate iniziammo a discutere nel

1906; e le prefigurammo nella Co-stituzione del 1962. Ci abbiamomesso tanto, ma ce l’abbiamo fatta,per ora. Una Costituzione, infatti, èun’opera umana, per sua naturaperfettibile, mai veramente ultima-ta. C’è nel mondo chi vorrebbe co-me esito finale la Costituzione dellaCittà ideale di Platone, o quella diMontesquieu o di Tocqueville, ma fi-nora non conosco genio umanoche possa inventare l’“ultima” Co-stituzione. Ciò si collega drammati-camente alla questione centrale del-la leadership dei giovani nel mondoarabo, che in questi ultimi quarantaanni di dittature è stata purtroppointerpretata da stranieri, da leader eideologie che si rifanno agli anniSessanta. Che però non sono statedi alcuna utilità, perché non hannocreato un’alternativa politica. Ho ri-

petuto sino alla noia ai miei amiciitaliani ed europei di non fare para-goni tra la sponda Sud e l’Europadell’Est: là si tratta di restaurare lademocrazia, nel Mediterraneo oc-corre invece instaurarla.

Per ricreare stabilità e sviluppo,considerato quanto è accaduto nel-l’area euro-mediterranea, occorreanzitutto gestire in modo intelligen-te la transizione democratica. Cioèmobilitare il popolo per un progettodi società che sia in sintonia con ivalori comuni del Mediterraneo de-

mocratico. Il percorsocompiuto dal Maroccoper giungere alla qualitàdel testo di quest’ultimaCostituzione ha richiestonon una “primavera”,ma cinquant’anni diriforme e sette Costitu-zioni precedenti. E un’in-tensa attività di negozia-zione tra popolo e istitu-zioni. Occorre capireche cosa significa impa-rare la democrazia: iltempo ha un senso. Ed èsu questo lungo proces-so che s’innesta la secon-da condizione, cioè l’of-ferta all’immaginariocollettivo della speranzache ai sacrifici seguirà ilbenessere. Provate aconvincere chi è da lungotempo disoccupato, ed è

laureato, della bontà di un sistemademocratico che aveva ingeneratotante speranze e della lungimiranzadel progetto politico ideato dallaclasse dirigente del proprio Paese.

Sempre a proposito di islam edemocrazia, ricordo che quando infebbraio ci furono le manifestazionidi protesta, i partiti islamici maroc-chini si divisero: uno a favore dellapiazza, l’altro a sostegno del re edella stabilità. E ciò perché il casodel Marocco, a proposito di islampolitico, è peculiare. Quando si de-cise di accettare il Pjd [il Partito dellagiustizia e dello sviluppo, una for-mazione islamica, ndr] nel nostrosistema politico-istituzionale fucreato un precedente ancora più in-teressante, a mio parere, dell’av-vento al potere dell’Akp turco, av-

venuto all’interno di una democra-zia preesistente e matura. Da noi ildibattito sull’apertura al Pjd s’è im-posto quando il consolidamento de-mocratico era ancora in corso d’o-pera: ma il Pjd fu accolto. E nel gio-co della democrazia marocchinasiede oggi all’opposizione, tenen-dosi a debita distanza da un’altraformazione islamica, che ha fattouna scelta extraparlamentare e nonaccetta la legittimità delle nostre isti-tuzioni. Il popolo ha approvato laCostituzione e le riforme che gliproponevamo, ci ha incoraggiato.Ora dobbiamo vedere sino a chepunto esso seguirà la nostra offertadi una “via media”. Media nel sensopieno del termine, comprendendotanto la religione, quanto la politicae l’economia. Una scelta non basa-ta su dogmatismi. L’elemento cen-trale della nostra Costituzione è lamoderazione: non abbiamo maiusato il dogma come fonte di ispira-zione. Ora spetta al popolo dare ra-gione di quanto abbiamo costruitoattraverso la comprensione e la me-diazione. Potremmo anche dire chetutto ciò deriva dall’origine della fi-gura del re come commendatoredei credenti. Esiste un’espressionepotente del dialogo tra il popolo e ilre, che è la Tajdid Al-baia, la festaannuale del trono, dove si rinnova ilcontratto tra il monarca e il popolo.La cultura che questa celebrazioneesprime è quella del consenso, al-l’interno di una dimensione di iden-tità nazionale in cui la dialetticamaggioranza-minoranza non do-vrebbe neppure esistere, almenoper come si esplica sovente nei si-stemi di democrazia occidentale. Sualcune questioni che toccano il be-ne supremo della nazione – è il casodelle decisioni in materia di debitopubblico sulla quale si dibatte oggiin Occidente e che vede i vari gover-ni alle prese con decisioni le cui con-seguenze ricadranno sulle genera-zioni future – l’istituzione monarchi-ca, proprio per la longevità di un re-gnante, può essere una garanziaper operare scelte con lo sguardo ri-volto al lungo termine, senza esserevincolati al contingente.

(Conversazione con Giovanni Cubeddu

rivista dall’autore)

6930GIORNI N.10 - 2011

INCONTRO CON L’AMBASCIATORE HASSAN ABOUYOUB

Mohammed VI presiede un Consiglio dei ministri per discutere la riforma costituzionale, Rabat, 17 giugno 2011

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72 30GIORNI N.10 - 2011

Nell’ultimo libro di LeonePiccioni stanno insieme co-se antiche e cose nuove. Ai

ritratti e ai ricordi di scrittori le cuivicende ebbero prologo ed epilogotra l’Ottocento e il Novecento, siaffiancano i profili di poeti e narra-tori tuttora nel pieno del lavorocreativo. In Vecchie carte e nuoveschede – questo il titolo del libro, lecui pagine scorrono, senza aspe-rità, tra analisi delle opere e flashbiografici – l’autore ha raccoltouna piccola ma emblematica por-zione del suo più che sessantenna-le lavoro di critico letterario, un’an-tologia di saggi e articoli sugli scrit-tori più amati, molti dei quali sonostati e sono suoi amici. Amicizie di

lunga durata o balenanti per unistante come rapide scintille.

Nato a Torino nel 1925, Piccio-ni è stato docente universitario eoperatore dell’informazione. Do-po aver studiato con Giuseppe DeRobertis a Firenze e con GiuseppeUngaretti a Roma, nel ’46 iniziò alavorare alla Rai, diventandonesuccessivamente vicedirettore ge-nerale. Per molti anni curatore del-l’Approdo letterario, storica tra-smissione radiofonica inauguratanel 1945, ha pubblicato, a partiredal 1950, numerosi libri di viaggioe articoli di critica letteraria. Lapoesia di Ungaretti è stata una del-le passioni predominanti: sua la cu-ratela della prima edizione dedica-

ta ad “Ungà” dei “Meridiani” dellaMondadori.

Ci siamo fatti raccontare qual-cuno degli incontri con gli scrittoripiù amati.

Iniziamo da Gadda, di cuinei primissimi anni Cinquantalei ha detto: «È lo scrittore ita-liano più amaro che io oggi co-nosca in Italia».

LEONE PICCIONI: Gadda pos-sedeva l’ineguagliabile capacitànarrativa di deformare la realtà. Diriempirla, gonfiarla, poi svuotarlae disseccarla. Il risultato è però unadesolante verità umana. Era guida-to dall’ironia e dalla disperazionedel suo sguardo sul mondo.

Quella volta che ho vistopiangere Montale

L ibri

Leone Piccioni

ha raccolto in un libro

saggi e articoli,

frutto del suo più

che sessantennale lavoro

di critico letterario.

Un viaggio tra i poeti

e i narratori

più importanti

del Novecento italiano,

molti dei quali

suoi amici. Intervista

Giuseppe Ungaretti

di Paolo Mattei

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In che rapporti era con lui?Fummo amici. Dal 1950 lavo-

rammo per alcuni anni assieme allaRai, nella sezione letteraria delgiornale radio, e con noi c’era an-che Pasolini. Gadda era un uomodi grande ironia. Quando gli capi-tava qualche inconveniente, dice-va: «Talvolta la Provvidenza mi usadi questi riguardi». La Provviden-za… Gadda amava immensamen-te il romanzo della Provvidenza,quei Promessi sposi che si facevaleggere anche sul letto di morte.

L’ironia fu tratto fonda-mentale anche del carattere diEmilio Cecchi.

Un’ironia diversa da quella diGadda. Quella di Cecchi, uno deimaggiori scrittori del nostro Nove-cento, era arguta e strettamenteimparentata alla sua toscanità. Iodo molta importanza a certe battu-

te di artisti e poeti perché sono se-gni di grande forza ironica e diconomolto, con l’efficacia della sintesi,del carattere della persona. Ricor-do quella volta che, tornando in tre-no a Roma da Firenze, trovammoad aspettarci alla stazione mio pa-dre, allora membro del governo.Mio padre, pur non conoscendolo,era un grande ammiratore delloscrittore fiorentino. Un attimo do-po essersi presentati, Cecchi gli dis-se: «Onorevole, dica a Fanfani chesi cambi il cappello»: non sopporta-va il fatto che lo portasse all’insù,forse per apparire più alto.

Nel 1950 incontra CesarePavese.

Sì, lo conobbi dapprima episto-larmente, poco prima della suamorte. Avevo pubblicato un saggiosulle sue opere, e lui mi inviò unalettera in cui mi ringraziava, ancheper i suggerimenti che trovava inquel mio scritto. Poi qualche mesedopo ci incontrammo di persona, aForte dei Marmi, dove io ero in va-canza. Fu un’amicizia improvvisa,e brevissima. In quell’occasioneparlammo a lungo. Era piuttosto ti-mido e sofferente. E anche delusodirei, perché stava vivendo un mo-mento molto difficile. Ci incon-trammo ancora, sempre in quellostesso anno, al Premio Strega, chesarebbe stato proprio lui a vincerecon La bella estate. Di lì a pochigiorni, a luglio, ricevetti un’altrasua missiva, anche stavolta in se-

guito a un mio articolo, nella quale,avendo saputo del mio matrimo-nio, tra l’altro scrisse: «Ti faccioogni augurio, se pure non condivi-do la fede, di cristiana felicità». Po-chi giorni dopo si tolse la vita. Mi èrimasto un grande dolore, un’im-mensa amarezza.

Naturalmente alcune pagi-ne del libro sono dedicate aGiuseppe Ungaretti, col qua-le lei ebbe una lunga consue-tudine.

Il nostro legame era come quel-lo tra un padre e un figlio. Lo co-nobbi quando arrivai a Roma, ne-

gli anni Quaranta. Venivo da Fi-renze, col desiderio di studiare elaurearmi con lui. Avevo con meuna lettera di presentazione di Giu-seppe De Robertis, che era un suoamico. Scrissi la mia tesi sulle diecicanzoni di Giacomo Leopardi epoi feci per qualche anno il suo as-sistente all’Università La Sapien-za, dove insegnava. Nacque in-somma un rapporto di confidenzae amicizia che non sarebbe mai ve-nuto meno. Conservo un epistola-rio di più di duecento lettere.

Lei curò il “Meridiano” del-la Mondadori a lui dedicato…

Considero Ungaretti uno dei treo quattro poeti più importanti delmondo. Ricordo che fui invitato aun convegno dedicato all’illusionee mi chiesero di parlare di lui. Dissiche non era il poeta dell’illusione,ma della speranza. Il suo canzonie-

re è un diario di viaggio ver-so la speranza, sentimentotrasparente già nelle lirichededicate alla tragedia dellaguerra: «Un’intera nottata/ buttato vicino a un com-pagno massacrato […] /ho scritto lettere piene d’a-more. / Non sono mai sta-to / tanto / attaccato allavita». Stupendi in questosenso sono anche i dicias-sette frammenti di Giornoper giorno, scritti tra il ’40e il ’46, dedicati al figliomorto a nove anni in Brasi-le. In quello finale, immagi-na che il bambino gli cam-mini accanto e gli sussurri:«“Questo sole e tanto spa-zio / Ti calmino. Nel purovento udire / Puoi il tempocamminare e la mia voce. /

Ho in me raccolto a poco a poco echiuso / Lo slancio muto della tuasperanza. / Sono per te l’aurora eintatto giorno”». La speranza delpoeta è “slancio muto”, lui non sada solo trovare le parole e allora af-fida a un altro la propria preghiera.Sa che «dalle sue mani febbrili /Non escono senza fine che limiti»,come si legge nella Pietà.

Anche con Montale fu inamicizia.

Sì. Lo andavo a trovare spessonella sua casa milanese di via Bigliquando insegnavo allo Iulm, la Li-bera Università di Lingue e Co- ¬

7330GIORNI N.10 - 2011

Sopra, Cesare Pavese; a destra, il caffè Giubbe Rosse, a Firenze, famoso luogo d’incontro di molti protagonisti della vita culturale italiana tra le due guerre. Seduti al centro si riconoscono Mario Luzi ed Eugenio Montale

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municazione, dove tenevo un corsodi letteratura moderna e contem-poranea. Ricordo un anno – era il’68 o il ’69 – in cui avevo scelto co-me tema monografico gli Ossi diseppia. Dopo una lezione, andai acasa sua. Come sempre, c’era solola fedele domestica Gina a farecompagnia al poeta, seduto sullapoltrona con il plaid sulle gambe.Era molto contento di quelle mie vi-site serali. Gli raccontai che avevoappena terminato di commentareai ragazzi Spesso il male di vivereho incontrato, uno degli Ossi piùbelli, e che gli studenti avevano di-scusso con me per più di un’ora suquegli otto versi. Mi chiese se li sa-pevo a memoria. Naturalmente liconoscevo. Mi pregò allora di reci-tarli assieme a lui: «… Bene nonseppi, fuori del prodigio / cheschiude la divina Indifferenza: / erala statua nella sonnolenza / del me-riggio, e la nuvola, e il falco alto le-vato». Alla fine i suoi occhi eranopieni di lacrime. Vedevo l’algido eironico Montale piangere, davantia me, come un bambino… È unapoesia commovente. Le cose e leoccasioni più feriali della realtà pos-sono talvolta suggerire, accennare,il miracolo della presenza di Dio. Ela poesia sembra farsi, anche qui,preghiera che quelle occasioni ecose non vengano meno.

Montale frequentava neglianni Trenta lo storico caffè“Giubbe Rosse” di Firenze,punto di riferimento di un al-tro amico di cui si parla nel li-bro: Carlo Bo.

Il silenzioso Bo… Bargellini lo gratificava del

soprannome che era stato at-tribuito a san Tommaso d’A-quino: “Bue muto”…

Le nostre conversazioni eranocolme di silenzi. Potevi fargli do-mande di ogni tipo e lui ti rispon-deva con un’occhiata più elo-quente dei molti discorsi che altriavrebbero fatto.

Un carattere particolare…Complesso, vario e affascinan-

te. Negli anni Trenta scrive dap-prima sul Frontespizio dei cosid-detti “tradizionalisti”, Bargellini,appunto, e Papini, introducendonell’ambiente della rivista cattoli-ca fiorentina – i cui componenti siriunivano soprattutto nel chiusodi librerie e case editrici – i giovaniLuzi, Macrì, Bigongiari e Parron-chi, che con lui costituiranno ilgruppo, diciamo così, di “sinistra”all’interno del periodico. Contem-poraneamente stringe amicizieforti con persone che, invece diincontrarsi in luoghi chiusi, ama-no ritrovarsi all’aperto, al caffè: il“San Marco” prima, le “GiubbeRosse” poi. Gente che con quellidel Frontespizio ha ben poco ache fare: Montale, appunto, poiGadda, Rosai, Bilenchi, Vittorini,Pratolini… Queste dimestichezzesu fronti diversi chiariscono subitoil carattere di Bo: di sé amava ri-petere che era «cattolico, apostoli-co, romano», e proprio questa fe-deltà alle cose essenziali della fedegli permise a mio avviso di intrec-ciare profondi rapporti e duratureamicizie anche con chi la fede nonaveva avuto in dono, con i “liberipensatori” di quei tempi. Amicizieche gli consentirono di aprirsi alla

comprensione – piena di ironia edi pietà – di sé stesso e degli altri.

Ironia… come nell’episo-dio accennato dallo stesso Bodei pantaloni di Montale…

Sì, per spiegare la precarietàdi quegli anni, da tutti i punti di vi-sta, racconta come un suo grossotomo su Sainte-Beuve fosse utiliz-zato da Montale per stirarsi i cal-zoni… Ma un ricordo di Bo chemi rimane nel cuore fu un viaggioche feci con lui a Cremona. Loaccompagnai là perché doveva

tenere una commemorazione didon Primo Mazzolari, che avevaconosciuto di persona. Disse cheincontrandolo aveva conosciutoun santo e che «quando si incon-tra un santo tutti gli altri valoriperdono quota e sembrano benpoca cosa».

Di molti altri poeti si parlanel suo libro, come quelli dellagenerazione di Bertolucci, Se-reni, Caproni, Parronchi e Lu-zi, nati tutti tra il ’10 e il ’20…

Un gruppo di poeti straordina-ri, del tutto degni della tradizionedi Montale, Ungaretti e Saba.Poeti che non si sottrassero alleesperienze più dure e prosaichedella vita: lavoro, impegni, fami-glie da mantenere. L’abbracciodell’esperienza fu brusco e talvol-ta soffocante per loro. Furonoprovati dal «fuoco della contro-versia», per dirla con Luzi, e daquella vita nacque la più bellapoesia del Novecento. q

30GIORNI N.10 - 2011

L ibri

Leone Piccioni,Vecchie carte e nuove schede.1950-2010,Nicomp, Roma 2011 224 pp., euro 16,00

La copertina dell’edizione del 1948 di Ossi di seppia di Eugenio Montale,Mondadori, Milano

Carlo Bo

74

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78 30GIORNI N.10 - 2011

Il piccolo e recentissimo volumedi Ilaria Ramelli, filologa e stori-ca, studiosa del cristianesimo

antico, contiene, come ella stessaindica nella prefazione, una selezio-ne di brevi articoli divulgativi appar-si negli anni 2009 e 2010 su Avve-nire. Non si tratta però affatto, co-me si potrebbe credere, di una sem-plice riedizione di interventi aggre-gati per affinità di argomento, né diun mero lavoro compilativo, ma diun accurato e densissimo riassunto,che illustra in estrema sintesi, masenza omettere nulla di necessarioo fondamentale, i risultati degli studisul primo cristianesimo da lei con-dotti, con rigorosa metodologiascientifica (in particolare per quelche riguarda l’analisi filologica deitesti e la valutazione delle fonti stori-che), negli ultimi venti anni.

Dunque, pur rivolgendosi princi-palmente a lettori non specialistidella materia, il volume risulta digrande utilità anche per lo studioso,per il quale si configura – e questo èin particolare il merito dell’autrice eil pregio dell’opera – come un este-sissimo indice ragionato, che ordi-na e sistematizza una vastissimaproduzione (è sempre indicata, alluogo opportuno, ogni necessariaindicazione bibliografica), e dal qua-le emerge il filo conduttore della ri-cerca, coerente e unitaria anche se“dispersa” in una quantità di rivistescientifiche specializzate.

Data la struttura dell’opera, nonè possibile, in una recensione, se-

gnalare ogni argomento trattato,se non facendone una lunga elen-cazione: cosa che non vogliamo fa-re, limitandoci a indicare le temati-che che paiono più originali e si-gnificative.

Diremo dunque innanzitutto cheil volume si articola in quattro distin-te sezioni.

Nella prima, che tratta della figu-ra di Gesù nelle fonti non cristianedel I secolo, si evidenziano due testi,dei quali si dimostra l’autenticità,che si collocano in un periodo benprecedente ai noti passi di Tacito: lalettera di Mara Bar Serapion, unostoico pagano, scritta verso il 73, eun passo delle Antichità giudaiche(XVII, 63-64) dello storico Giusep-pe Flavio, fariseo che scrive all’in-domani della caduta di Gerusalem-me (avvenuta nel 70); «proprio l’e-straneità delle due fonti al cristiane-simo», scrive l’autrice (p. 10), «ren-dono Mara e Giuseppe testimonipreziosi e non “sospetti” della figu-ra storica di Gesù: e anche se essinon credono alla sua risurrezione fi-sica, testimoniano della fede chehanno i cristiani “poiché apparveloro di nuovo vivo, dopo tre giorni”»(Antichità giudaiche XVII, 64).

Più avanti, nella terza sezione,verrà evidenziata la presenza di unaserie di richiami al cristianesimo neiromanzi e nelle satire pagane di I-IIsecolo: il Satyricon di Petronio, ilRomanzo di Calliroe di Caritone,le Metamorfosi di Apuleio, operenelle quali si trovano allusioni, a vol-

te evidenti, ai fatti narrati dai Van-geli. E nella quarta si ricercherannole tracce storiche della prima diffu-sione del cristianesimo dal VicinoOriente all’India: in particolare le vi-cende del re Abgar di Edessa (di cuiappare fondato il rapporto conl’imperatore Tiberio), l’evangelizza-zione di Edessa ad opera di Addai(nome siriaco di Taddeo, uno deisettanta discepoli di Gesù, inviatodall’apostolo Tommaso), quella del-la Mesopotamia ad opera di Mari(discepolo di Taddeo, da lui conver-tito), la menzione del mandylion(l’immagine achiropita di Gesù cheviene avvicinata alla Sindone), lamissione di Panteno in India (com-piuta dal filosofo stoico, convertitoal cristianesimo e maestro di Orige-ne e Clemente Alessandrino, tra il180 e il 190).

Ci vogliamo però soffermarepiù estesamente sulla seconda se-zione, che tratta del primo cristia-nesimo a Roma.

In essa l’autrice dimostra che ilcristianesimo venne da subito co-nosciuto a Roma: ne è testimonian-za la notizia del senatoconsulto del

L ibri

Lealtà dei cristiani

e tolleranza di Roma

Ilaria Ramelli, I cristiani e l’imperoromano. In memoria di Marta Sordi,Marietti 1820, Genova – Milano 2011, 96 pp., euro 12,00

Le fonti antiche sul rapporto fra

il primo cristianesimo e Roma, discusse

negli studi della storica Ilaria Ramelli,

contraddicono la vulgata di un potere romano

ideologicamente nemico dei cristiani

di Lorenzo Bianchi

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35, riportata da Tertulliano, con ilquale il Senato rifiutò la propostadell’imperatore Tiberio di dare le-gittimità al credo cristiano. Ritenutada molti dubbia, essa è stata da Ila-ria Ramelli confermata come stori-ca con nuovi argomenti aggiunti aquelli già portati da Marta Sordi e daCarsten Thiede, e in particolare sul-la base di un frammento del filosofoneoplatonico Porfirio (233-305),che certo non può essere sospetta-to di intendimenti apologetici comeinvece Tertulliano. Porfirio, nel ri-fiutare la risurrezione di Gesù, affer-ma che, se fosse davvero risorto,non sarebbe dovuto apparire a per-sone oscure (quali erano gli aposto-li), ma «a molti uomini contempora-nei e degni di fede, e soprattutto alSenato e al popolo di Roma, ondeessi, stupiti dei suoi prodigi, non po-tessero, con un senatoconsultounanime, emettere sentenza dimorte, sotto accusa di empietà,contro quanti gli erano obbedienti».

La legislazione anticristiana diRoma fu dovuta al Senato, ma Ti-berio non diede corso alle accuse;e fino al 62, i cristiani non furonocondannati da alcuna autorità ro-mana come tali. L’atteggiamentodi tolleranza dell’ambiente dellacorte imperiale verso i cristiani ètestimoniato anche dalla corri-spondenza tra san Paolo e Seneca,giunta fino a noi per una via diver-sa da quella del corpus paolino.Sbrigativamente accantonata co-me apocrifa nella vulgata della cri-tica moderna, viene qui invece ri-valutata, sulla base di nuove e ab-bondanti considerazioni filologi-che e lessicali particolarmenteconvincenti, come probabilmenteautentica, almeno nella maggiorparte delle lettere (o meglio brevibiglietti) pervenuteci, che portanole date degli anni 58 e 59. Sono glianni in cui (se si accetta la cronolo-gia alta) Paolo era appena giunto aRoma per essere sottoposto al giu-dizio dell’imperatore; e, in attesadel processo, godeva di una custo-dia militare benevola ed era liberodi predicare, diffondendo il cristia-nesimo anche nel pretorio («in tut-to il pretorio e dovunque si sa chesono in catene per Cristo», Fil 1,13) e nella corte imperiale («vi salu-tano tutti i santi, soprattutto quellidella casa di Cesare», Fil 4, 22).

Il rapporto di tolleranza e anzi dibenevolenza del potere imperialeromano verso i primi cristiani – al-meno fino alla svolta autoritaria ne-roniana del 62 e allo scatenarsi del-la persecuzione dopo l’incendio diRoma scoppiato il 19 luglio 64(persecuzione che, come ci traman-dano Tacitos, Annales XV, 44, eClemente Romano, I Corinzi V, 3-7 – VI, 1, fu alimentata per l’invidiae la denuncia di cristiani) –, descrittoda Ilaria Ramelli nella seconda se-zione, ci rimanda necessariamente

al titolo stesso del suo volume. In es-so infatti l’autrice riprende alla lette-ra quello di una fondamentale ope-ra della sua maestra, Marta Sordi,per più di due decenni titolare del-l’insegnamento di Storia antica al-l’Università Cattolica del SacroCuore di Milano (I cristiani e l’im-pero romano, pubblicata nel 1984,che segue, sintetizza e aggiorna ilprecedente volume Il cristianesi-mo e Roma, edito nel 1965). Dellasua maestra Ilaria Ramelli segue, at-traverso il metodo del vaglio rigoro-

so, analitico e attento delle fonti sto-riche, anche l’idea di fondo: checioè l’opposizione, che le persecu-zioni senz’altro dimostrano, tra chiamministrava il potere romano e icristiani, non fu l’esito, almeno nel-le sue radici più profonde, di unoscontro politico o di una lotta diclassi, come afferma un pregiudizioancora molto diffuso; ebbe invececause diverse, cause legate perlopiùalla sfera religiosa. Proprio i docu-menti storici dimostrano che l’atti-tudine dei cristiani dei primi secoliverso il potere imperiale fu sempreimprontata, fin dall’inizio, a lealtà eal rispetto della sua autorità. È dun-que storicamente errato vedere nel-l’impero romano un’incarnazioneparticolarmente maligna del poteree il nemico della Chiesa; anzi, alcontrario – aggiungiamo noi –, èproprio l’impero romano, comesuggerisce l’interpretazione chesan Giovanni Crisostomo (IV ome-

lia, Sulla II Lettera ai Tessalonice-si, PG 62, 485) ) diede alle parole disan Paolo, ciò che sembra frappor-si come ostacolo al vero nemicodella Chiesa, l’anticristo: «E ora sa-pete ciò che impedisce la sua mani-festazione [dell’anticristo], che av-verrà nella sua ora. Il mistero dell’i-niquità è già in atto; ma è necessa-rio che sia tolto di mezzo chi finoralo trattiene» (2Ts 2, 6-7). Ciò che, ochi, trattiene il mistero dell’iniquità,secondo san Giovanni Crisostomo,è il potere imperiale di Roma. q

7930GIORNI N.10 - 2011

Sopra, san GiovanniCrisostomo (ca. 344-407); a destra,il Colosseo

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«Sono molto contento che 30Giorni faccia una nuova edizione di questo piccolo librocontenente le preghiere fondamentali dei cristiani maturatesi nel corso dei secoli.A questo piccolo libro auguro che possa diventare un compagno di viaggio per molticristiani».

dalla presentazione del cardinale Joseph Ratzinger del 18 febbraio 2005 (eletto Papa il 19 aprile 2005 con il nome di Benedetto XVI)

CHI PREGA SI SALVA

EDIZIONI ESTEREin lingua portoghese, inglese, francese, spagnola, tedesca e cinese.Misura 13,6x19,8 cmCOSTA €1 A COPIA+ spese di spedizione

È possibile richiedere copie sia dell’edizione grande che di quella piccola e delle edizioni estere telefonando al numero verde gratuito

oppure scrivendo a 30GIORNIvia Vincenzo Manzini, 45 - 00173 Roma o all’indirizzo e-mail: [email protected]

Il piccolo libro, di cui 30Giorni ha già distribuito centinaia di migliaia di copie,contiene le preghiere più semplici della vita cristiana,

come quelle del mattino e della sera, e tutto ciò che aiuta a fare una buona confessione

FORMATO PICCOLOTascabile, misura 10,5x15 cm COSTA €1 A COPIA+ spese di spedizione

FORMATO GRANDEPiù leggibile e adatto ad essere lasciato in chiesa sul banco, misura 13,6x19,8 cm COSTA €1,50 A COPIA + spese di spedizione