La Sapienza - PASSIOCHRISTI

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Rivista quadrimestrale di cultura e spiritualità della Passione a cura dei Passionisti italiani e della Cattedra Gloria Crucis della Pontificia Università Lateranense Direttore responsabile Gianni Sgreva c.p. Direttore amministrativo Vincenzo Fabri c.p. Cattedra Gloria Crucis Comitato scientifico Fernando Taccone c.p. - Antonio Livi Lubomir Zak - Riccardo Ferri Denis Biju-Duval - Angela Maria Lupo c.p. Gianni Sgreva c.p. - Adolfo Lippi c.p. Segretari di redazione Leopoldo Boris Lazzaro cmop, Carlo Baldini c.p. - Flavio Toniolo c.p. Lorenzo Baldella c.p. - Vittorio Lucchini Lucia Ulivi - Franco Nicolò Collaboratori Tito Amodei c.p., Vincenzo Battaglia ofm, G. Marco Salvati op, Tito Paolo Zecca c.p., Maurizio Buioni c.p., Max Anselmi c.p., Giuseppe Comparelli c.p., Mario Collu c.p., Alessandro Ciciliani c.p., Carmelo Tur- risi c.p., Roberto Cecconi c.p., Lorenzo Mazzocante c.p. Redazione: La Sapienza della Croce Piazza SS. Giovanni e Paolo, 13 00184 Roma Tel. 06.77.27.11 Fax 06.700.81.92 e-mail: [email protected] Abbonamento annuale Italia E 20,00, Estero $ 30 Fuori Europa (via aerea) $ 38 Singolo numero E 10,00 C.C.P. CIPI n. 50192004 - Roma Finito di stampare Ottobre 2012 Stampa: Tipografia CSR - Roma Progetto grafico: Filomena Di Camillo Impaginazione: Serena Pico ISBN 978-88-85421-43-1 ANNO XXVII - N. 2 MAGGIO-AGOSTO 2012 145-148 Autorizzazione del tribunale di Roma n. 512/85, del 13 novembre 1985 - Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 2 e 3, Teramo Aut. N. 123/2009 LA SAPIENZA CROCE della 149-170 171-195 197-229 231-276 277-324 325-356 357-372 EDITORIALE Esegesi scientifica ed esegesi teologica della Parola della Croce GIANNI SGREVA cp SACRA SCRITTURA E TEOLOGIA Ritrovare il primitivo ebraismo messianico. La Chiesa di Gerusalemme, madre di tutte le Chiese. ADOLFO LIPPI cp L’esserci dell’Amore che vede ANGELA MARIA LUPO cp «E subito uscì sangue e acqua» (Gv 19,34): una concentrazione di allusioni all’AT FRANCESCO VOLTAGGIO L’Ora in Gv 2,1-11: anticipazione o inizio? Lettura giudaico-patristica delle nozze di Cana GIANNI SGREVA cp PSICOLOGIA E TEOLOGIA Quando l’amore è legge. Il rapporto tra l’indicativo di salvezza e l’imperativo morale GIUSEPPE DELLA MALVA SPIRITUALITÀ La congregazione tra passato e futuro: fecondità della Regola TITO PAOLO ZECCA cp RECENSIONI a cura di LEOPOLDO BORIS LAZZARO cmop 2 la sapienza 2012 ciano.indd 143 04/02/13 09:38

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Rivista quadrimestrale di cultura e spiritualità della Passionea cura dei Passionisti italiani e della Cattedra Gloria Crucis della Pontificia Università Lateranense

Direttore responsabile Gianni Sgreva c.p.Direttore amministrativo Vincenzo Fabri c.p. Cattedra Gloria Crucis Comitato scientifico Fernando Taccone c.p. - Antonio Livi Lubomir Zak - Riccardo Ferri Denis Biju-Duval - Angela Maria Lupo c.p. Gianni Sgreva c.p. - Adolfo Lippi c.p.Segretari di redazione Leopoldo Boris Lazzaro cmop, Carlo Baldini c.p. - Flavio Toniolo c.p. Lorenzo Baldella c.p. - Vittorio Lucchini Lucia Ulivi - Franco NicolòCollaboratoriTito Amodei c.p., Vincenzo Battaglia ofm, G. Marco Salvati op, Tito Paolo Zecca c.p., Maurizio Buioni c.p., Max Anselmi c.p., Giuseppe Comparelli c.p., Mario Collu c.p., Alessandro Ciciliani c.p., Carmelo Tur-risi c.p., Roberto Cecconi c.p., Lorenzo Mazzocante c.p.Redazione: La Sapienza della Croce Piazza SS. Giovanni e Paolo, 13 00184 Roma Tel. 06.77.27.11 Fax 06.700.81.92 e-mail: [email protected] annualeItalia E 20,00, Estero $ 30 Fuori Europa (via aerea) $ 38 Singolo numero E 10,00 C.C.P. CIPI n. 50192004 - Roma Finito di stampare Ottobre 2012Stampa:Tipografia CSR - RomaProgetto grafico: Filomena Di CamilloImpaginazione: Serena Pico

ISBN 978-88-85421-43-1

Anno XXVII - n. 2mAggIo-Agosto 2012

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Autorizzazione del tribunale di Roma n. 512/85, del 13 novembre 1985 - Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 2 e 3, Teramo Aut. N. 123/2009

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EDITORIALE Esegesi scientifica ed esegesi teologica

della Parola della CroceGianni SGreva cp

SACRA SCRITTURA E TEOLOGIARitrovare il primitivo ebraismo messianico.

La Chiesa di Gerusalemme, madre di tutte le Chiese.

adolfo lippi cp

L’esserci dell’Amore che vede anGela Maria lupo cp

«E subito uscì sangue e acqua» (Gv 19,34): una concentrazione di allusioni all’AT

franceSco voltaGGio

L’Ora in Gv 2,1-11: anticipazione o inizio? Lettura giudaico-patristica

delle nozze di CanaGianni SGreva cp

PSICOLOGIA E TEOLOGIAQuando l’amore è legge.

Il rapporto tra l’indicativo di salvezza e l’imperativo moraleGiuSeppe della Malva

SPIRITUALITÀLa congregazione tra passato e futuro:

fecondità della Regola tito paolo Zecca cp

RECENSIONIa cura di

leopoldo BoriS laZZaro cmop

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Il sinodo dei vescovi del 2008 sulla Parola di Dio con l’esorta-zione post-sinodale di Papa Be-nedetto XVI, Verbum Domini hanno messo a fuoco l’esigenza di riagganciare l’esegesi scien-tifica all’esegesi teologica della

scrittura. La Parola è parola di salvezza, è messaggio dello spirito che la Chiesa ha rico-nosciuto depositario e veicolo della pienezza della Rivelazione divina. L’obbiettivo di ogni esegesi è quello di condurre a scoprire tra le righe della Parola ciò che Dio rivela per la sal-vezza. L’esegesi, pertanto, non può limitarsi a sondare il testo della lettera, anzi questa ope-razione previa è esigita al fine di giungere al significato teologico-spirituale di ogni testo rivelato. ossia, è necessaria l’esegesi scien-tifica/letterale che, lungi dal rinchiudersi in se stessa, costituisce il presupposto in vista dell’esegesi teologica/spirituale.

Proprio per raggiungere il fine teologico-spirituale l’esegesi deve riandare alle fonti della scrittura stessa che si ritrovano nel contesto giudaico e rabbinico ripreso dall’ermeneutica patristica.

Quest’ultima, infatti, si rivela capace di unire la lettura scienti-fica-letterale con il suo punto di arrivo che è il livello teologico-spirituale del testo. Infatti, proprio accogliendo nella ricerca dell’e-segesi scientifica il sottofondo giudaico e la prima interpretazione patristica, si entra già nell’esegesi teologica.

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La prima esegesi organica inaugurata nella Chiesa dal grande origene, sia quello di Alessandria, come quello di Cesarea, ha visto questa sintesi dei due livelli, quello letterale e quello spirituale, quello scientifico e quello teologico, in simbiosi e sinergia con l’humus giudaico-rabbinico.

La grande esegesi patristica ha poggiato su questa sintesi, dall’o-riente origeniano all’occidente ambrosiano ed agostiniano. se c’è stato un freno a questa sintesi per una maggiore preoccupazione di stampo scientifico-letterale (vedi la scuola di Antiochia con Diodoro di tarso, teodoro di mopsuestia e giovanni Cristostomo) questo fu dovuto al timore che tra i due livelli ci fosse una sproporzione, del livello spirituale-teologico a scapito del suo punto di partenza che è il livello scientifico-letterale.

In realtà origene non conobbe questa sproporzione, ma i due mo-menti in lui rimasero chiari e saldi, affinché il primo fosse base per il secondo, il livello scientifico base del livello teologico-spirituale.

Per questo Origene ci teneva all’esegesi scientifica, ossia a ben identificare il testo, sia ebraico come greco delle Scritture Sacre, e per questo attingeva all’Antico testamento e alle letture viventi e orali del medesimo fatte dai rabbini e dagli ebrei in genere da lui consultati, non essendoci ancora nel III secolo una vera e propria let-teratura rabbinica scritta. solo così origene ci ricorda, ad esempio, il significato di Calvario, come “luogo del cranio”, perché aveva at-tinto la notizia dai rabbini, così pure il significato salvifico della Tav di Ez 9,4.

Poi, in particolare, per quanto concerne la teologia della croce, come potremmo capire Paolo senza Dt 21, 22-23 (Gal 3, 13-14)? Paolo si appropriò della vera identità del gesù entrato nell’orizzonte della sua vita di ebreo sulla via di Damasco allorché dovette am-mettere che il maledetto di Dt 21, 22-23 si identificava con Gesù, il Messia crocifisso. Senza la luce proiettata da Dt 21, 22-23 Paolo non avrebbe mai dichiarato di non conoscere nessun altro se gesù il Messia, il Messia crocifisso (1 Cor 2,2).

E prima di Paolo, come capire lo stesso gesù senza legarlo alle radici dell’insegnamento della halakah dei padri dell’ebraismo? Pur-troppo, molta esegesi scientifica è stata condotta sulla falsariga della cultura greco-romana e approfondita alla luce di categorie ermeneu-tiche appartenenti a filosofie occidentali, antiche moderne e contem-

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poranee, senza anzitutto preoccuparsi di conoscere il milieu cultu-rale di gesù fedele alla torah. Così ancora l’esegesi, allontanatasi dalle sue fonti “naturali” giudaiche e patristiche, stenta a offrire alla teologia un fondamento sicuro pertinente all’area culturale giudaica. si citano i passi del nuovo testamento accanto a quelli dell’Antico testamento senza la preoccupazione di far derivare i primi dai se-condi. In fin dei conti, l’ideologia marcionita non è ancora rientrata. Persiste l’allergia verso l’Antico testamento e la scarsa conoscenza, per non dire il disinteresse, per la tradizione ebraica e rabbinica. A soffrire per la mancanza di questo innesto del nt nell’At e della presa di coscienza della germinazione del nuovo dal e nell’Antico è alla fine il messaggio teologico-spirituale che è il vero obbiettivo dell’esegesi stessa. spesso gli stessi teologi, privi della conoscenza dei risultati di una esegesi scientifico-teologica poggiata sulle fonti giudaico-patristiche, incorrono in incomprensioni o in veri errori di prospettiva, dovuti a una maggiore fiducia poggiata sull’interpreta-zione ellenistica che sui fondamenti semitici della scrittura.

In questi ultimi tempi ci sono stati offerti dei preziosi contributi per scavare e trovare il messaggio teologico-spirituale a partire dal pozzo stesso da cui zampilla l’acqua salvatrice della scrittura, le vene sotterranee dell’AT e della riflessione rabbinica. Tra i primi precursori filosemiti ricordiamo Joseph Bonsirven (1880-1958)1. tra gli altri ricordiamo la ricerca sulla teologia di Dio condotta da Pierre Lenhard: L’Unité de la Trinité. À l’écoute de la Tradition d’Israël, 2 che evidenzia come il nuovo testamento e la tradizione della Chiesa sono illuminati dall’insegnamento di Israele sull’Unità ineffabile del Dio Uno e Unico. E per gesù il recente lavoro di P. michel Remaud, Paroles d’Évangile, paroles d’Israël3, mette in luce che il contesto dell’azione e della predicazione di gesù era la tradizione ebraica del suo tempo e che la stessa interpretazione della scrittura di gesù era debitrice delle categorie di pensiero rabbiniche. molti passaggi e pa-

1 cf Th.-M. anDrevOn, Joseph Bonsirven et le « mystère d’Israël, in NRT 133/4 (2011), 547-567.

2 p. LeHnarD, L’Unité de la Trinité. À l’écoute de la Tradition d’Israël, col. essai 9, paris, collège des Bernardins, parole et Silence, 2011.

3 M. reMaUD, Paroles d’Évangile, paroles d’Israël, paris, collège des Ber-nardins, parole et Silence, 2012.

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role di gesù restano incomprese e incomprensibili se non sono lette dentro la ricchezza dell’At e della tradizione di Israele.

In questo numero della rivista abbiamo voluto ospitare alcuni contributi elaborati alla luce delle convinzioni espresse fin qui, con il desiderio che quanto papa Benedetto XVI propone nella sua Verbum Domini trovi la sua attuazione e quindi l’esegesi scientifica approdi veramente al patrimonio fondante delle scritture, disveli le poten-zialità della religiosità e del pensiero ebraico, per proseguire nel suo servizio di indagine e di offerta del messaggio teologico e spirituale della Parola. La stessa Parola della Croce, allora, si farà autentica “sapienza” della Croce.

A questo proposito ci piace menzionare in casa passionista un ottimo lavoro di rielaborazione biblica e di ricerca dei fondamenti biblici di un carisma spirituale come quello della Passione in s.Paolo della Croce. si tratta della ricerca di sr. Angela maria Lupo, cp, membro del Comitato scientifico della cattedra “Gloria Crucis” e professore invitato di Antico testamento all’IsCsm della Ponti-fica Università Urbaniana, La mistica del Calvario in S.Paolo della Croce: Per essere i nuovi santi del terzo millennio4, che volentieri e con sincero piacere teologico-spirituale proponiamo alla lettura e all’apprezzamento dei nostri lettori.

Insomma, da un’esegesi scientifica, che nel riferimento alle radici ebraiche della Rivelazione già si scopre aperta all’esegesi teologica, di cui i Padri sono i primi protagonisti, emerge il Dio cristiano pro-veniente essenzialmente dalla Croce. si ricava, cioè, non solo una teologia della croce, ma una teo-logia dalla Croce.

Gianni Sgreva [email protected]

4 a. M. LUpO, La mistica del Calvario in S.Paolo della croce. Per essere i nuovi santi del terzo millennio, ed OcD, roma 2012.

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marco Cassuto mor-selli e gabriella ma-estri stanno portando avanti una ricerca per ricostruire la fisio-nomia autentica della primitiva comunità

cristiana, quella chiesa di gerusalemme, tutta quanta ex circumcisione (non esisteva ancora la ecclesia ex gentibus), dalla quale hanno avuto origine tutte le altre chiese. osservo io a questo proposito che, più o meno inconsciamente, si è portati a proiettare su quella comunità caratteristiche e categorie mentali che si sono sviluppate più tardi nel cristianesimo, più tardi ed anche in ambienti culturali assai diversi, soprattutto ambienti non ebraici, ellenistici, romani e bizantini. Cassuto morselli e maestri si esercitano a riportare documenti antichissimi del cristianesimo all’ambiente cul-turale nel quale sono sorti ed al quale si rivolgevano. Hanno fatto questo, finora, per la Didachè e per la Lettera di Giacomo1. stanno lavorando alla Lettera agli Ebrei, un documento indubbiamente più

1 Didachè. La Torah del Messia attraverso i Dodici Apostoli ai goyim, a cura di Gabriella Maestri e Marco Morselli, Marietti 1820, Genova-Milano 2009; Lettera di Giacomo alle Dodici Tribù della Diaspora, a cura di Marco cassuto Morselli e Gabriella Maestri, Marietti 1820, Genova-Milano2011.

ritroVarE il PriMitiVo EBraisMo MEssianicola chiesa di gerusalemme, madre di tutte le chiese

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impegnativo sul quale, però, ha già lavorato, con un intento simile, lo studioso svedese Jesper Svartvik2. scrivono i due studiosi:

“I primi discepoli di Yehoschua, che i testi canonici della Chiesa definiscono ‘cristiani’ erano ebrei messianici che molto si sareb-bero stupiti se avessero potuto conoscere quali cambiamenti si sa-rebbero prodotti nel corso di pochi decenni in seno a quella Comu-nità a cui appartenevano e che ben presto li avrebbe emarginati e ripudiati”3.

sembra proprio che questa storia sia stata deformata leggendola secondo teorie preconcette o anche concezioni dogmatiche che si sono sviluppate in seguito. Bisogna ripartire dai fatti, che natu-ralmente precedono ogni riflessione. La nostra storia di cristiani è quella che è stata e così la storia degli ebrei. È necessario oggi, per il compito che si ha davanti, ripercorrere i processi storici, allo scopo di disinnescarne i fattori di incomprensioni e conflitti e aprire la strada del dialogo, del reciproco interesse e della reciproca cura, gli uni per gli altri. nel corso di pochi decenni si passò dalla concezione del rapporto degli ebrei messianici con la radice di Israele espressa nella Didachè e nella Lettera di giacomo a quella espressa nella Let-tera di Barnaba. nel corso di qualche secolo, poi, esauritasi per le vicende che vedremo la ecclesia ex circumcisione, la Chiesa oramai composta di soli gentili svilupperà la ben nota teologia della sostitu-zione, ma svilupperà anche una teologia conseguente all’incultura-zione della fede nelle categorie proprie dell’ellenismo, una vera on-toteologia, che risulterà diversa e lontana per coloro che erano voluti rimanere fedeli al linguaggio e alle tradizioni bibliche, limitandosi a commentarle.

La Lettera di Barnaba contiene già una vera e propria teologia della revoca dell’Alleanza e un certo insegnamento del disprezzo, ma possiamo osservare che essa parte dal rilevare che gli ebrei non passati alla fede cristiana intendevano delegittimare i cristiani nel

2 J. SvarTiK, Reading the Epistle to the Hebrews Without Presupposing Su-persessionism, in aa. vv. Christ Jesus and the Jewish People today, eerdman-GUp, Grand rapids-rome 2011, 77-91.

3 Lettera di Giacomo, cit., 55.

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loro richiamarsi alle scritture ebraiche, dicendo: l’alleanza è nostra4. È come se avessero detto: è nostra proprietà, voi siete degli intrusi. L’autore della Lettera di Barnaba è molto preoccupato della fede di coloro ai quali scrive, conosce molto bene l’Antico testamento che cita moltissimo, ma lo fa dandone un’interpretazione funzionale alla finalità di incoraggiare i cristiani nella loro fede. Non c’è più posto per la coesistenza. Ben presto si svilupperanno teorie gnostiche che, con marcione, arriveranno alla demonizzazione dell’Antico testa-mento. C’è da meravigliarsi ed anche certamente da rallegrarsi che l’ortodossia cristiana non abbia mai accolto l’invito a sradicarsi to-talmente dalla storia ebraica e dalle sue scritture, anzi abbia conti-nuato a cercare e trovare in esse l’ispirazione fondamentale per la propria teologia e spiritualità.

I due commentatori mettono in rilievo alcuni elementi fondamen-tali per comprendere la condizione degli ebrei messianici della pri-mitiva chiesa di gerusalemme. Essi sono:

1. la fortissima tensione escatologica che caratterizzava le comu-nità cristiane primitive, attesa condivisa anche da Paolo e dalle sue comunità, attesa che comportava anche problemi pastorali. L’atten-zione delle comunità non era tanto volta al messia venuto quanto al messia venturo. gli ebrei messianici cristiani erano tesi verso il ritorno del messia-gesù morto e risorto, mentre tutta la società ebraica era suggestionata da attese apocalittiche.

2. La grande autorevolezza di cui godeva “Giacomo, fratello dell’Adon-Signore” tanto nella comunità ebraico-messianica, quanto, al di fuori di essa, tra i giudei di gerusalemme. non c’è motivo, infatti, di dubitare di quanto racconta giuseppe Flavio, con-temporaneo di giacomo e protagonista in prima persona della guerra giudaica, intorno al martirio di giacomo nell’anno 62 d. C. Il sommo sacerdote Anano fece condannare Giacomo alla lapidazione. “Ma le persone più equanimi della città, considerate le più strette osservanti della Legge, si sentirono offese da questo fatto”. Ci furono ricorsi al

4 cf Lettera di Barnaba, iv, 1, 6-7; in I Padri apostolici, a cura di a. Quac-quarelli, città nuova, roma 1978, 190 ss.

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procuratore Albino e al re Agrippa, il quale depose Anano5. molti ri-tengono che a protestare contro il sadduceo Anano fossero i farisei6.

3. La discreta integrazione degli ebrei messianici all’interno della società giudaica dell’epoca, che era assai più variegata e tollerante di quello che sarà dopo la distruzione del secondo tempio.

4. L’enorme devastazione prodotta dalle due guerre giudaiche del 66-70 e del 132-135, che produssero una vera Shoah, riducendo l’ebraismo a un decimo di quello che era precedentemente. Questa situazione può far comprendere il rigore con cui si procedé nella ri-cerca di una sopravvivenza e di una più rigida identificazione dell’e-braismo. Questa si sviluppò nella corrente talmudica e rabbinica: come affermava Lévinas senza il Talmud non ci sarebbero stati più ebrei7, ma è anche vero che non poté più esserci la tolleranza prece-dente.

5. La notevole integrazione fra ecclesia ex circumcisione ed ec-clesia ex gentibus che esisteva precedentemente: gli ebrei messianici continuavano a frequentare il tempio, a circoncidersi e ad osservare le mitzvot, ma non pretendevano che questo fosse fatto anche dai fratelli provenienti dalla gentilità. D’altra parte i fratelli gentili rac-coglievano e inviavano elemosine che erano ben accette alle chiese della Palestina.

La proiezione a l l ’ i n d i e t r o degli sviluppi

posteriori della fede

5 GiUSeppe fLaviO, Antichità giudaiche, 2, Utet, Torino 2006, p. 1247. nella Storia ecclesiastica di eusebio di cesarea sono raccolte varie tradizioni riguardanti Giacomo e il suo martirio, anche contraddittorie. esse tuttavia pos-sono rappresentare una conferma dell’importanza storica di questo uomo, chia-mato in varie tradizioni il Giusto, elogiato per ascetismo e serietà. Si arrivava a dire che l’assedio e la distruzione di Gerusalemme, accadute dopo la sua uccisione, non fossero state altro che il castigo di Dio per tale delitto (ii, XXiii, 19-20).

6 cf ad es. e. p. SanDerS, Il Giudaismo: Fede e prassi (63 a. C.-66 d. C.), Morcelliana, Brescia 1999, 635.

7 cf S. MaLKa, Leggere Lévinas, Queriniana, Brescia 1986, 59.

1. dal mondo come è al mondo che viene

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cristiana fa pensare alla tensione escatologica della Comunità ge-rosolimitana come attesa di una prossima fine del mondo. Invece ciò che la Comunità degli ebrei messianici anzitutto aspettava era il passaggio da questo mondo – Olam ha-zeh – al mondo che viene – Olam ha-ba -, pieno della conoscenza del Dio vivente (cf Ger 31, 11). Ciò che accade nella storia reale determina la trasformazione delle Weltanschauung teologiche assai più di quanto queste influi-scano sui fatti. Alla fine dei sacrifici del tempio di Gerusalemme, gli Israeliti sopravvissuti e desiderosi di mantenere viva la fede nel Dio che ha scelto Israele reagiscono con la creazione del talmud, con la halakah, col sospetto verso il messianismo. Anche tra i cristiani, il mancato ritorno del messia durante la prima generazione cristiana porta a sviluppare una diversa visione del mondo e della sua con-sumazione. già nella prima Lettera di Pietro si ricorre ad un salmo per dire che davanti a Dio un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno: quindi, anche se sembra che il signore ritardi a ve-nire, di fatto non ritarda (cf 1Pt, 3, 8). Questa nuova teologia porta a leggere certe frasi del nuovo testamento in un senso diverso da come venivano lette dai destinatari di quegli scritti. Ad esempio l’e-spressione passa la scena (o la figura) di questo mondo (1Cor, 7, 31) significava per loro che sta per venire un mondo diverso da questo, che cioè stiamo per passare dall’ olam-ha-zeh all’ olam-ha-bah. noi la leggiamo spontaneamente nel senso della fragilità umana: passa la scena di questo mondo in quanto da un momento all’altro possiamo morire e questo stesso mondo è destinato a finire per dar luogo alla vita eterna dopo la morte.

La Weltan-s c h a u u n g greca è ten-

denzialmente statica. Può essere ben rappre-sentata con l’idea del

mondo eterno e sempre uguale a se stesso di Aristotele o con la te-oria dell’eterno ritorno del nostalgico nietzsche. La Weltanschauung ebraico-biblica è tendenzialmente dinamica. Il messianismo, l’attesa di una nuova creazione, dei cieli nuovi e della terra nuova pervade

2. cultura ebraico-biblica e cultura greca

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tutta quella cultura. È una cultura dell’attesa e della speranza. Di conseguenza il profetismo tende alla trasformazione della società, così come le religioni antropologiche tendono essenzialmente alla stabilizzazione degli equilibri sociali esistenti mediante la loro sa-cralizzazione.

non dimentichiamo mai, peraltro, che noi tutti, ebrei o cristiani che accettiamo di far discorsi accademici sulla fede e la storia della salvezza, utilizziamo categorie e procedimenti logici di tipo greco e occidentale, non ebraico o orientale, e che dal movimento e dal con-fronto delle idee è sempre facile scadere nelle ideologie8. soltanto la disponibilità al dialogo ci salva da questo pericolo. Lévinas ricono-sceva di adoperarsi per esprimere i contenuti della Bibbia ebraica in categorie greche. La disponibilità a che ebrei e cristiani si confron-tino su testi dell’Antico e del nuovo testamento ben conosciuti da entrambi, come attesta ad esempio il volume Christ Jesus and the Jewis People Today già citato, è da considerarsi una grazia di Dio per il nostro tempo.

non fa meraviglia, quindi, che la cultura ebraica, della quale stiamo trattando, sia stata in perenne movimento, né che si siano verificati sviluppi diversi di uno stesso evento, quale può essere stato la vita di Cristo, la sua morte voluta e la sua risurrezione proclamata nella predicazione. Questo non significa relativismo. Infatti, di fronte ad alcuni di quegli sviluppi i responsabili delle comunità cristiane reagiscono rifiutandoli come pericolose devia-zioni. L’esempio più evidente, forse, è l’orgoglio dei nuovi cri-stiani provenienti dal paganesimo di fronte al popolo dell’Alleanza, contro cui reagisce duramente proprio l’Apostolo dei gentili nei capitoli 9-11 della Lettera ai Romani. Questa reazione, purtroppo, fu poco ascoltata.

8 ad esempio la fede ebraica di cui parla Y. Leibowitz (La fede ebraica, La Giuntina, firenze 2001) potrebbe rapportarsi maggiormente all’amor puro su cui si dissertava al tempo del Giansenismo (amare Dio senza pensare al para-diso, amarlo anche all’inferno) che alla fede ebraico-biblica nella quale la sof-ferenza, il male, sono segni chiari della lontananza del Dio o dal Dio di israele. L’approdo alla profezia del Servo Sofferente (is 53) non avviene a causa di una teoria, ma di un’illuminazione, la quale, peraltro, mantiene viva la certezza di un imprevedibile trionfo finale.

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Un vero gioiello di cultura ebraico-biblica sono i vangeli dell’in-fanzia di Luca e di matteo. tutta la terminologia ivi usata è tipica-mente ebraica, così come i concetti e le proposizioni. scelgo alcune di tali espressioni: a gesù Dio darà il trono di Davide suo padre per re-gnare per sempre sulla casa di Giacobbe (Lc 1, 32-33); Iddio soccorre Israele suo servo ricordandosi della sua misericordia (Lc 1, 54); Il Dio di Israele visita e redime il suo popolo (Lc 1, 68); concede misericordia ai nostri padri (Lc 1, 72). Gesù salverà il suo popolo dai suoi peccati (Mt 1, 21) ed è chiamato fin dall’inizio “re dei giudei” (Mt 2, 2), viene per pascere il popolo di Dio Israele (Mt 2, 6). Otto giorni dopo la sua nascita gesù fu regolarmente circonciso come ogni altro israelita e quaranta giorni dopo fu portato al tempio per la purificazione secondo la legge di mosè. Ivi il santo vecchio simeone apre una prospettiva universale (del resto presente, come è ormai pacifico, in tutta la bibbia ebraica) dicendo che gesù è salvezza preparata da Dio davanti a tutti i popoli, non senza però rilevare che mentre per i popoli è salvezza, per Israele è gloria (Lc 1, 32). Questa affermazione fa pensare alla celebre teoria di Rosenzweig secondo la quale Israele non ha bisogno di venire al Padre perché è già presso il Padre9, teoria che è certamente in contrasto con altre affermazioni del nuovo testamento secondo le quali gesù è salvezza per tutti, ebrei prima e poi gentili.

Resta da spiegare come siano arrivati a essere inseriti nei vangeli questi testi così tipicamente ebraici, addirittura poetici, oltretutto perché Luca, secondo una verosimile tradizione, non era nemmeno ebreo. La spiegazione tradizionale offre certamente minori difficoltà delle varie teorie storico-critiche. Il greco Luca, infatti, si presenta come un uomo colto, di mentalità greca, che ha fatto ricerche ac-curate presso i testimoni (cf Lc 1, 1-4). Di una di loro, Maria, Luca rileva che conservava nel cuore la memoria di quanto accadeva, me-ditandovi sopra (cf Lc 2, 19; 2, 51). L’ebrea Maria, o altri testimoni, avrebbero riferito pari pari eventi e cantici, così come erano accaduti ed erano stati pronunciati, senza quelle interferenze antigiudaiche che si notano nei vangeli e, ancor più, senza aggiunte provenienti da teologie sviluppatesi sul semplice kerigma primitivo.

9 cf Lettera di Rosenzweig a R. Ehrenberg, del 31-10-1913, in f. rO-SenZWeiG, La Scrittura. Saggi dal 1914 al 1929, città nuova, roma 1991, 288.

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B. D. Ehrman parla di vari cristianesimi

primitivi10. L’espres-sione può fare un’im-pressione negativa o scandalizzare. L’impor-

tante è comprendere quella realtà. C’erano vari modi di percepire e vivere il Cristianesimo come c’erano vari modi di percepire e vi-vere l’ebraismo. D’altra parte nel mondo ebraico in genere non c’era quella preoccupazione per l’ortodossia che caratterizzerà la Chiesa nel mondo greco, portando a lotte interne, ad aggressioni e reciproche per-secuzioni. si suole dire che nell’ebraismo non ci si occupa tanto di co-noscere come è Dio, ma di sapere ciò che Lui vuole da noi. All’ebreo della Bibbia interessa più l’ortoprassi che l’ortodossia. L’espressione biblica faremo ed ascolteremo può far capire la differenza fra la men-talità ebraico-biblica e quella occidentale, tendenzialmente scientifica, dove prima si comprende e si programma e poi si agisce. ma nel cri-stianesimo primitivo ed anche nel cammino mistico dei santi avviene proprio così: prima si è spinti ad operare, poi si riflette e si esplicita ciò che si era intuito nell’agire.

I manuali di teologia ci avevano insegnato a proiettare indietro la dogmatica affermatasi successivamente nella vita della Chiesa, cercando appoggi e prove nei testi primitivi e portandoci così a leg-gere quei testi alla luce degli sviluppi posteriori. ma non c’è niente di strano nel pensare che ciò che oggi si recepisce della Rivela-zione cristiana (che non è affatto tutto quello che si comprenderà in futuro) sia stato compreso progressivamente11. E non c’è niente di strano nel pensare che ci siano stati adattamenti alle culture che oggi possono aver perso la loro utilità. stando ai testi del nuovo te-stamento, all’inizio si comprese (non senza fatica) il kerigma della risurrezione. Gesù di Nazareth, che era stato crocifisso, è vivo ed effonde lo spirito santo con i suoi carismi. È passato per prove e

10 B. D. eHrMan, I Cristianesimi perduti. Apocrifi, sette ed eretici nella bat-taglia per le Sacre Scritture, carocci, roma 2005.

11 Un capolavoro di J. H. newman esprime bene questo sviluppo: è An Essay on the Development of Christian Doctrine,tradotto in italiano col titolo Lo sviluppo della Dottrina cristiana, Jaca Book, Milano 2003.

4. la varietà dei punti di vista sulla fede

e i loro sviluppi

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tormenti per arrivare alla sua gloria. non c’è niente di dirompente in questo annuncio: il passare per la prova è un chiaro insegnamento delle scritture ebraiche. C’è certamente di nuovo l’annuncio di un fatto: la risurrezione di gesù. Poi Paolo, l’autore della Lettera agli ebrei e Giovanni riflettono e sviluppano ciascuno per proprio conto, ma non senza reciproche influenze, una profonda teologia di questi eventi. sarà una teologia sempre confrontata con la vita pratica delle comunità delle quali si occupano, una teologia che non si sviluppa, quindi, a tavolino o sulle cattedre universitarie, ma nella pastorale.

La frettolosa unificazione delle teologie di Paolo, della Lettera Ebrei e di Giovanni dentro l’unica categoria della riflessione teolo-gica opposta alla categoria delle narrazioni che sarebbe propria dei sinottici o dell’etica propria di giacomo e così via, non fa giustizia alla storia. si suppone che gesù fosse anzitutto il Verbo preesistente e poi incarnato, diventato uomo nella pienezza dei tempi, Uomo-Dio che sa tutto, anche ‘i nostri pensieri’. Stridono con questa conce-zione vari passi del nuovo testamento, quali ad esempio: Rom 1, 4, secondo cui Gesù fu “costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti”; Eb 5, 8, secondo cui “imparò l’obbedienza dalle cose che patì”; Lc 2, 52, secondo cui il fanciullo Gesù, sottomesso ai suoi genitori, “cresceva in sapienza età e grazia davanti a Dio e davanti agli uomini”.

giacomo e la Chiesa di gerusalemme continuarono a fare quello che aveva fatto gesù, che si riconosceva mandato alle pecore per-dute della casa di Israele e rifiutava almeno in linea di principio di occuparsi del gentili (cf Mt 15, 24). Il ricondurre Israele alla Torah, l’accogliere la torah nel cuore, il circoncidere il cuore era un com-pito assai impegnativo e avrebbe sviluppato una forza di vita capace di trasformare l’intera umanità. shaùl-Paolo sentì di andare ai gen-tili, sentì che questo era un grande mistero implicito in tante espres-sioni della Bibbia ebraica ma solo allora attuato e svelato (cf Ef 3, 1-13). Poi rifletté e solo lui, fra tutti, percepì un pericolo collegato a questa sua missione: il pericolo dell’orgoglioso sradicamento dei gentili dalla radice ebraica.

non c’è motivo di riprovare la posizione di giacomo o quella di Paolo. La loro coesistenza però poteva produrre dei conflitti. Questi vennero contenuti finché non accadde quell’evento terribile che i cu-ratori dei nostri testi descrivono come una vera e propria Shoah, la

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distruzione del tempio di gerusalemme, la dispersione del popolo ebraico e la strategia usata dai superstiti per conservarne l’identità di fede e di azione mediante la halakah, probabilmente l’unica strategia in grado di impedire la totale assimilazione dell’ebraismo nelle cul-ture mondanamente vincenti.

È molto verosimile che gesù abbia detto frasi come quelle conte-nute nei vangeli: vi sarà tolto il Regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare (cf Mt 21, 43). Ma non è detto che l’interpre-tazione corretta di questo e di altri brani simili sia quella data dalla teologia della sostituzione. Anche i profeti di Israele, ammonendo, avevano detto cose terribili contro il popolo a cui appartenevano. A questo proposito fa impressione leggere i primi capitoli di Eze-chiele: ti mando a un popolo di ribelli, testardi dal cuore indurito, genia di ribelli… (cf Ez 2). Alcuni antisemiti che si dicevano cri-stiani trovavano in essi più che nel nuovo testamento argomenti per disprezzare il popolo ebraico. Checché i critici pensino della di-vinità di gesù Cristo, si deduce dai vangeli che lui aveva una perce-zione chiara delle forze che operavano nell’ambiente ebraico in cui viveva: sapete leggere i segni del tempo atmosferico, possibile che non capite questo tempo? (cf Mt 16, 1-4); “Non piangete su di me, ma piangete su di voi e sui vostri figli (Lc 23, 28). Quando, però, lui faceva quelle ammonizioni e proferiva quelle minacce, lo faceva soffrendo, come dimostra il suo amaro pianto sulla città di gerusa-lemme (cf Lc 19, 41 e anche 23, 28). Nulla in lui della rivalsa sopra i suoi avversari che caratterizzerà l’atteggiamento di tanti cristiani verso gli ebrei e che shaùl-Paolo, in sintonia col maestro, percepisce come un enorme pericolo in Rom 9-11.

Il testo fondamen-tale che parla di una nuova alle-

anza è ger 31, 31-33:“Ecco verranno

giorni – oracolo del signore – nei quali

con la casa di Israele e con la casa di giuda concluderò un’alleanza nuova. non sarà come l’alleanza che ho concluso con i loro padri,

5. che cosa significa parlare di antica e nuova alleanza

se la primitiva alleanza non è stata mai revocata?

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quando li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto, alleanza che essi hanno infranto, benché io fossi loro Signore. Oracolo del signore. Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa di Israele dopo quei giorni – oracolo del signore -: porrò la mia torah nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo”.

non c’è traccia qui della riprovazione di Israele come popolo e della sua sostituzione con altri popoli. Anzi c’è l’affermazione che Israele sarà confermato per l’eternità, superando tutte le sue resi-stenze. È vero che c’è una variazione nella traduzione di questo passo riportata dalla Lettera agli Ebrei, presa, sembra, dalla tradu-zione dei LXX, che direbbe “poiché essi non sono stati fedeli alla mia alleanza, anch’io non ebbi più cura di loro”12. Anche così, però, resta vero che Dio stipula la nuova alleanza col suo popolo e che questo sarà per sempre tale.

La promessa della nuova Alleanza inscindibile e della torah nel cuore è la più grande promessa mai fatta da Dio all’uomo. Israele si caratterizza per il rapporto fra il Dio vivente e il popolo che sceglie per dargli vita, si caratterizza per una relazione viva fra Dio e il po-polo, ma si caratterizza anche per una proiezione verso il futuro che è speranza e messianismo, attesa del Dio che viene, l’Emanuele. La promessa di una liberazione dall’oppressione di popoli stranieri, la promessa della terra, la promessa di una felicità comprensibile per un popolo oppresso ed affamato, si amplia con i profeti nella pro-messa di un’intimità fra Dio e il suo popolo. L’insegnamento paolino sull’alleanza mai revocata poggia su questa manifestazione di Dio tramite i profeti: l’iniziativa di salvezza dell’onnipotente non può essere vanificata dalla resistenza dei cuori duri. Dio è più potente dei cuori duri, il Creatore vince gli spiriti della morte. Questo non implica l’abolizione della libertà dell’uomo, perché la Torah viene infusa nell’interiorità, nel cuore, cioè nella parte più intima e propria della coscienza intelligente e libera. Facendo un grande salto, pos-siamo collegare questa profezia al modo con cui il teologo cattolico Balthasar interpreta l’affermazione neotestamentaria: Dio vuole che

12 rimando alla spiegazione data da J. Svartvik nello studio citato: Reading the Epistle to the Hebrews…, cit., 81 ss.

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tutti gli uomini siano salvi e giungano alla coscienza della verità (1Tim, 2, 4) e tante altre affermazioni analoghe, col pensiero che, mediante il desiderio e la preghiera di tutti, l’inferno possa essere svuotato13. La forza della Vita proveniente da Dio vincerà così i po-teri di morte scatenati dalle deviazioni della libertà.

si tratta di credere che il Dio Vivente c’è – quaggiù sulla terra, cioè nella storia dell’uomo - e non soltanto è lassù nel cielo, lontano dalla vita, come pensavano i deisti. si tratta di attuare il comando primo: ama il Dio Vivente. L’uomo ama Dio quando lo disseppel-lisce14 dal suo nascondimento, lo ingrandisce, per usare un termine veterotestamentario che entra nel cantico di maria, forse un po’ ve-lato nella liturgia dal conservarne l’etimo latino: Magnifica. Dio fa crescere l’uomo nella misura in cui questi ingrandisce Dio. C’è una reciprocità dinamica fra il Dio vivente e l’Israele (l’uomo) vivente.

Paolo vede un mistero in Israele che opera persino attraverso il velo e il rifiuto. La sua esclamazione sulla profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio riguarda proprio il mistero di Israele col quale l’alleanza non viene mai revocata (cf Rom 11, 33). Come per Isaia, anche per lui il Regnare di Dio va ben al di là delle nostre vedute miopi (cf Is 55, 8-9; 40, 13-28). Per vari anni, tenendo presente soprattutto l’ebraismo strettamente rabbinico, ho pensato l’Alleanza mai revocata alla maniera di Rosenzweig. Questo uomo di Dio, vero profeta nel senso che annunciava la verità di Dio e an-ticipava il futuro, ha mostrato nei suoi scritti come ebrei e cristiani possono vivere e operare concordemente per il Regno di Dio sulla terra. scriveva all’amico Ehrenberg, commentando il passo di gv 14, 6: “Nessuno viene al Padre – è però diverso se uno non ha più bi-sogno di venire al Padre, perché è già presso di lui. E questo è il caso del popolo d’Israele”15. sulla base di questa intuizione, Rosenzweig

13 rimando in particolare e H. U. v. BaLTHaSar, Breve discorso sull’inferno, Queriniana, Brescia 1988.

14 Questo termine molto significativo era caro a e. Hillesum. cf a. Lippi, Conoscere il Dio vivente con la figlia più vulnerabile del popolo più vulnerabile: Etty Hillesum, in SapCr XXiii (2008), 49-72.

15 La lettera è riportata integralmente in f. rOSen ZWzweig, La Scrittura. Saggi dal 1914 al 1929, città nuova, roma 1991, 286-291, qui 288. vedi anche f. rosenzweig-e. rosenstock, La radice che porta. Lettere su ebraismo e cristianesimo, 16-17.

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svilupperà la sua teologia della coesistenza fra ebraismo e cristiane-simo e della reciproca implicazione che esporrà specialmente ne La Stella della Redenzione. senza dover riprodurre necessariamente il sistema di pensiero di Rosenzweig, il suo Neues Denken, pensavo che esso rappresentasse un ottimo tentativo di proporre una visione teologica nella quale ebrei e cristiani trovino un loro posto impor-tante e onorevole.

Poi un giorno lessi una frase, che è addirittura il titolo di una sezione di un’opera di David H. stern, che mi fece l’effetto di un pugno nello stomaco: Rifiutare o trascurare di portare il vangelo agli Ebrei è antisemita16. Approfondendo lo studio dell’ebraismo attuale rimasi impressionato dal numero di ebrei messianici che ci sono anche oggi. Ho pensato allora che l’ebraismo è una realtà assai più complessa di quella che viene presentata dal rabbinato e che essa va tenuta presente tutta. È, inoltre, una realtà misteriosa, dove tutto parte dall’iniziativa di Dio e ad essa ritorna.

nella profezia di geremia, come ab-

biamo visto, non c’è traccia dell’opposizione fra un popolo e un altro popolo, di una deli-mitazione che potremmo chiamare verticale. C’è, invece, la separa-zione fra chi viene preso dal Dio vivente e riceve l’ ‘infusione della torah nel cuore’ e chi non la riceve, una delimitazione orizzontale, che può verificarsi dovunque. C’è la passione per la Torah, che ca-ratterizza il profetismo di Israele, la battaglia per la torah. Dentro questa battaglia per la Torah operano chiaramente la Didaché – tra-duzione esatta, come fanno osservare i due commentatori, del ter-mine torah, ben più di quanto lo sia la parola Nomos, preferita dai LXX – e la Lettera di giacomo.

I profeti lottano contro l’indifferenza verso Dio e la sua giustizia, l’idolatria che continuamente tenta Israele, ma anche l’ipocrisia per

16 D. Stern, Ristabilire l’ebraicità del Vangelo. Un messaggio per i cristiani, ed. Beth-lehem, cremnago (cO), 2004, 71.

6. la battaglia per la torah

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cui si crede di soddisfare la Divinità con le pratiche cultuali, trascu-rando la giustizia verso i fratelli più deboli, l’amore. In questo linea gesù lotta contro le ipocrisie, smascherandole. non è la battaglia a favore di un gruppo di credenti contro un altro, dove i gruppi sareb-bero definiti con criteri cultuali, dottrinali o addirittura etnici, ma una battaglia a favore del Regno di Dio e del suo insegnamento. Pos-siamo oggi sperimentare, di fatto, che molte volte ci si ritrova con persone lontane dal proprio gruppo di appartenenza a lottare per la giustizia e la verità e si converge su persuasioni condivise, alle quali non sono sensibili, invece, altri membri del proprio gruppo di appar-tenenza. Bonhoeffer fece sulla sua propria pelle questa esperienza.

La battaglia per la torah è la battaglia dei senza-potere contro i potenti della terra. I profeti del Dio vivente lottano con la sola arma della parola contro re, sacerdoti e falsi profeti. Prima di essere teo-logia della Croce, la forza della debolezza è teologia dei profeti di Israele, teologia della torah. Le potenze della terra si appoggiano sugli idoli delle genti, sono idolatriche. La fede poggia su Dio, sulla sua Paola, sulla sua promessa.

I due documenti finora pubblicati da Cassuto Morselli e Maestri – La Didachè e la Lettera di giacomo - sono due testimonianze stra-ordinarie della battaglia per la Torah. Dall’inizio alla fine lottano per la giustizia davanti a Dio, per la via della vita che si oppone alla via della morte, per una rettitudine del cuore – la torah nel cuore – che si tiene lontana da qualsiasi forma di ipocrisia. non si contentano delle apparenze. Vogliono veramente sradicare dai singoli e dalle co-munità ogni astuzia demoniaca, ogni violenza, ogni approfittamento della propria superiorità. nel nome dell’Adon obbediente fino alla morte si propone ascolto, obbedienza ed anche autentica gioia.

nel senso qui indicato, Paolo, più che essere, come viene de-scritto, un apostolo che ha sciolto i cristiani dalla torah, è un apostolo che – d’accordo con Pietro e giacomo, le colonne -, ha introdotto i gentili nella torah, senza farne, per questo, degli ebrei. Ha offerto il dono supremo della torah, che ha strutturato la stessa vita e morte di gesù, a coloro che non la conoscevano e non potevano goderne17.

17 cf ad es. come rosenzweig esprime questa verità per quanto riguarda l’ingenuità propria del paganesimo antico: “Gli ebrei sono gli unici non-ingenui nel mondo dell’antichità, e perciò è senza dubbio il cristianesimo, in quanto

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163toglie a questo mondo dell’antichità la spregiudicatezza del suo pou stw, a co-stituire una ‘giudaizzazione dei pagani’” (f. rOSenZWeiG- e. rOSenSTOcK, La radice che porta, Marietti, Genova 1992, 108).

oggi la torah è là dove regna il Dio vivente, il Dio d’Israele, dove Dio non è dimenticato, ma disseppellito, come diceva Etty Hillesum, e dove di conseguenza regna l’amore, la giustizia, l’accoglienza, la cura dell’orfano, della vedova, dello straniero. gesù è Colui che si è reso conto che per la battaglia per la torah non bastava insegnare, ma bisognava sacrificarsi, cioè inverare tutti i sacrifici del tempio, l’alleanza nel sangue, attraverso la propria immolazione, come l’Israele santo è sempre chiamato a fare.

Questa partecipazione della torah ai gentili diventa evidente se si riflette a come si sono dileguate di fronte all’annuncio ebraico-cri-stiano le religioni del mediterraneo e del nord Europa. Esse hanno perso stima in una maniera tale che a nulla sono valse le nostalgie di uomini come Rutilio namanziano o i tentativi di rivitalizzazione di uomini come giuliano l’Apostata. Per comprendere la portata di questa vittoria, però, bisogna decostruirla, riprendendo coscienza di ciò che significava quella religione per la cultura e la società del tempo. La religione politeista e idolatrica era il fondamento di quella cultura e di quella società. non era del tutto stupido considerare ebrei e cristiani empi in quanto proponevano di abbattere quella pietas verso gli dèi che era il fondamento dell’etica sociale. I miti cultu-rali sono miti fondanti. Con la vittoria del cristianesimo, di fatto, la fondazione mitologica pagana è stata sostituita da una fondazione mitologica proveniente dalla cultura ebraica. Figure come quelle di Adamo ed Eva, Caino e Abele, Noè e i suoi figli, Abramo, Isacco, giacobbe, i profeti e certamente gesù, maria, gli apostoli, i martiri, hanno sostituito le mitologie pagane privandole del loro ruolo di fon-dazione della coesione sociale.

Certamente gli ebrei rabbinici possono trovare dei difetti in questa accoglienza della torah da parte delle genti. ma loro stessi dovranno riconoscere che la tesi fondamentale della torah viene ac-colta: il rifiuto delle idolatrie, intese anche in senso profondo, oltre il semplice rifiuto delle immagini, l’adorazione del Dio unico che non è, come spesso si dice, la semplice sostituzione del politeismo col monoteismo (questi termini appartengono ancora all’ambito della

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ontoteologia), ma l’accoglienza del Dio vivente e, più esattamente ancora, del Dio di Israele, quel Dio al quale il rabbino Emil Facken-heim fa dire rivolto a Israele: “se voi non siete il mio popolo, io, per così dire, in quanto possibile, non sono più Dio”18.

La passione per il Regno di Dio e la torah è espressa da gesù di nazareth nella prima parte della sua preghiera del Padre nostro: la santificazione del Nome, il Regno di Dio, la volontà del Padre, questo era tutto nella mente e nella vita di gesù di nazareth e questo deside-rava che fosse nei suoi discepoli, tutti. Per questo sacrificava se stesso, totalmente perduto nel Dio vivente, Padre di Israele, Padre suo che per mezzo di Lui sarebbe diventato Padre per tutti gli uomini.

Cassuto mor-selli e maestri, perciò, come

molti altri, trovano ina-datta la parola conver-sione per parlare della

trasformazione che fece di shaul un credente nel messia gesù. Paolo non ha lasciato niente della sua fede nel Dio vivente di Israele. non ha diminuito, ma aumentato la sua devozione e dedizione. Diversi altri ebrei, tra i quali Edith stein e il cardinal Lustiger hanno affermato che la fede nel messia gesù non implicava l’abbandono della propria fede ebraica19. Purtroppo, con la teologia della sostituzione si arrivava a pensare la fede ebraica come empietà e si esigevano atti di ripudio, a volte anche banali e veramente offensivi. Veniva a mancare anche il rispetto della buona coscienza che tuttavia poi, nella Morale, si defi-niva l’ultimo giudizio pratico per l’azione da compiere. Ricordo qui il grande insegnamento dato da Newman sulla coscienza. Se si riflettesse sul valore che ha la coscienza come la più autentica partecipazione a ciò che Dio stesso è, non sarebbe difficile la pace fra le religioni, che è condizione della pace fra i popoli. La mancanza del rispetto della

18 i e. facKenHeiM, Judaïsme au présent, Michel, paris 1992, 395-398.19 È noto che il cardinal Lustiger volle che prima del rito cristiano delle sue

esequie svoltosi nella cattedrale di notre Dame, si recitasse, all’esterno, il kad-dish ebraico.

7. il senso della parola conversione

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coscienza manifesta un’ignoranza non sempre innocente perché frutto della pigrizia mentale che rifiuta lo studio ed è certamente una contro-testimonianza, che allontana tante persone dal culto a Dio e dalle pra-tiche della propria religione.

Newman è anche un testimone della difficoltà di quella che era chiamata conversione, termine che anche nel suo caso sarebbe stato meglio non usare, trattandosi del passaggio da una chiesa cristiana ad un’altra. La esprime particolarmente nel romanzo autobiografico Loss and Gain20. ogni religione o appartenenza è anzitutto fedeltà alla paternità, esercizio di figliolanza, la passività della quale parlava Lévinas, che fonda l’efficacia di ogni attività. Shaùl-Paolo non rin-negò affatto la paternità della Rivelazione ebraico-biblica.

L’u n i v e r s a -lismo cri-stiano sra-

dicato dalla dottrina e dall’esperienza dell’e-lezione di Israele e professato come una

dottrina teoretica, insieme con l’inculturazione della Rivelazione ebraica nell’Ellenismo, hanno condotto al vicolo cieco della cultura illuminista e deista, che pervade tutto l’Occidente e influisce su tutti noi, non escluso lo scrivente. È necessario riscoprire le radici ebraiche della fede, riflettendo sopra una storia nella quale si esprime, non senza immani sacrifici, l’Alleanza mai revocata né revocabile.

C’è un Israele santo all’interno della cristianità, l’Israele di Dio di cui parla Paolo (Gal 6, 16), che non permette che il cristianesimo si riduca a gnosticismo (Buber) o anche a istituzione e dottrina. È l’I-sraele spesso non compreso non soltanto all’esterno ma a volte anche all’interno della Chiesa, spesso perseguitato. La cristianità istituzio-nalizzata e dottrinalmente definita, beneficia di questo Israele santo ed è per questo che la sua vitalità sempre si rinnova, non si esaurisce,

20 Trad. ital. J. H. neWMan,, Perdita e guadagno, Jaka Book, Milano 1996.

8. l’albero porta in se stesso e restituisce il seme

da cui è nato

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non diventa vecchia così che stia per morire. È l’Israele che non prega per sé, non desidera qualcosa per sé (Leibovitz), ma prega per Dio, come nella prima parte del Padre nostro, desidera per Dio e basta. L’Israele della fede, del rapporto mistico con Dio e del sa-cerdozio secondo l’ordine di Melchisedech, senza padre né madre, senza interessi da custodire.

sarà ancora Rosenzweig a esprimere bene il contenuto di questo pensiero, avendo la precauzione di liberarlo dalle rigidità legate all’epoca dei nazionalismi esacerbati ed anche alla polemica tra lui e l’ebreo convertito Rosenstock:

“Così il cristianesimo come potenza che riempie il mondo (se-condo le parole di uno dei due esponenti della Scolastica, Yehudah ha-Levy: l’albero che cresce dal seme dell’ebraismo e fa ombra su tutta la terra, ma il suo frutto conterrà di nuovo il seme di cui nessuno però, vedendo l’albero, seppe accorgersi) è un dogma ebraico tanto quanto l’ebraismo come ostinata origine ed ultimo dei convertiti, è un dogma cristiano”21.

si lamenta a volte che nella liturgia ci siano ancora

vestigia della teologia della sostituzione. sarà bene toglierle quando è possibile. Ma perché

non pensare a inserire testi che esprimano in positivo la concezione dell’Alleanza mai revocata, che sfaterebbero automaticamente le paure? Se, ad esempio, si prega per la Chiesa sacramento di salvezza per l’umanità, non si potrebbe fare qualcosa di simile per Israele? L’a-bolizione della festa della Circoncisione, celebrata dalla più remota antichità, a parte il fatto che non è stata gradita, ovviamente, dai fratelli ebrei, non sembra di valore positivo neanche per noi cristiani. L’appro-fondimento del significato del berit-milah per l’Alleanza stipulata da

21 f. rOSenZWeiG- e. rOSenSTOcK, La radice che porta. Lettere su ebraismo e cristianesimo, Marietti, Genova 1992, 90.

9. conclusione: una liturgia adeguata alla concezione

dell’alleanza mai revocata

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Dio con Abramo, radice di ogni altra Rivelazione ed Alleanza, rompe veramente la tirannia del piatto egualitarismo illuminista22. Da parte ebraica, auspicava qualcosa del genere, cioè la reciprocità dell’auten-tica preghiera che sale al Dio vivente, quell’altro uomo di Dio che fu Abraham Joshua Heschel, scrivendo: “Nessuna religione è un’isola. siamo coinvolti l’uno con l’altro. Il tradimento da parte di uno di noi si ripercuote sulla fede di noi tutti. non dovremmo pregare ognuno per la salute dell’altro e aiutarci reciprocamente a preservare la rispettiva eredità, preservando un’eredità comune?”23.

In una concezione della fede per cui non ci si limita a rispettare l’altro, ma si vuole andare oltre, arrivando ad avere cura dell’altro in quanto altro, concezione che è al fondo di tutta la tradizione ebraico-cristiana, ci si preoccupa della fedeltà dell’altro alla propria voca-zione come ci si preoccupa della nostra.

Quale è il posto della teologia della Croce – oggetto di ricerca di questa rivista - in questo discorso? C’è anzitutto il problema solle-vato dalla stessa parola Croce-Stauròs. Lévinas fa osservare, quasi con rammarico, che purtroppo il segno della Croce era legato ai peg-giori fra i ricordi dell’ebreo. Lui stesso, però, parla - lì come altrove - dell’esperienza della carità cristiana durante la Shoah e della vici-nanza fra il concetto cristiano della kenosi e la sensibilità ebraica24. Chi sa leggere in profondità trova che l’immagine kenotica di Dio e la teologia della Croce sono presenti dappertutto nel discorso che ho fatto. Basta ricordare che la battaglia per la torah è la battaglia dei senza-potere contro i potenti della terra. ma l’insieme del discorso evidenzia che la Croce viene svuotata quando si sceglie la strada della contrapposizioni dei gruppi e dei poteri, radice di ogni specie di violenza. Alla base di tutto questo c’è la paura, la preoccupazione di sé, la paura della morte che è potere di Satana, l’oppressore (cf Eb 2, 14-15). Noi crediamo che una morte ha distrutto da dentro questo

22 cf ad es. lo studio di a. BUcKenMaier, Abramo padre dei credenti, Marietti 1820, Genova-Milano 2011, 64 ss. cita dallo Zoar: “finché israele mantiene la tradizione della circoncisione, i cieli e la Terra proseguiranno nel loro cammino ordinato, ma se israele trascurerà la sua alleanza, i cieli e la Terra saranno distrutti” (67).

23 riportato da n. Ben HOrin, in Nuovi orizzonti fra ebrei e cristiani, Mes-saggero, padova 2011, 78.

24 cf e. LevinaS, Nell’ora delle nazioni, Jaca Book, Milano 2000, 190-191.

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potere della paura ed è questo il tema di tutta la Lettera agli Ebrei. I sacrifici del tempio non appartengono a uno stadio ormai superato della vita di Israele. Restano come Eucaristia, ma questo è un tema che spero di trattare quando marco Cassuto morselli e gabriella ma-estri avranno concluso il loro studio sulla Lettera agli Ebrei.

Ancora Lévinas scriveva di aver pensato che la vera Eucaristia sta nell’incontro con altri – gli ultimi - piuttosto che nel pane e nel vino (e cita Mt 25)25. Ma, anche qui, nel fondo, non c’è differenza, purché si tenga presente quanto insegna Benedetto XVI: che l’Eucaristia si riceve degnamente quando si diventa a nostra volta Eucaristia - pane che viene mangiato - per gli altri. non c’è Eucaristia senza Croce. L’Eucaristia non è fede in una trasformazione metafisica e quasi ma-gica o in una presenza di Dio in certi oggetti corporei, ma è fede in un Dio che essendo, nel suo mistero profondo, agàpe cioè dono, si dà in cibo. Questo è il senso sociale dell’Eucaristia, non un corollario, ma un senso intrinseco. “L’Eucaristia ci attira nell’atto oblativo di gesù. noi non riceviamo soltanto in modo statico il Logos incarnato, ma veniamo coinvolti nella dinamica della sua donazione”26.

Concludo questo discorso tornando a come Cassuto morseli e maestri traducono – o ritraducono - l’intervento di giacomo al co-siddetto Concilio di gerusalemme, narrato dagli Atti degli Apostoli. Queste parole possono offrirci il senso primordiale, sorgivo e vitale, dell’espandersi della Torah verso i gentili:

“Fratelli, ascoltatemi. Shimon ha narrato come all’inizio D. ha avuto cura di scegliersi fra i goyim un popolo consacrato al suo nome. Con ciò concordano le parole dei Neviim, come sta scritto: ‘Dopo di ciò ritornerò e ricostruirò la capanna di David che è caduta, ricostruirò le sue rovine e la rialzerò, affinché gli altri uomini cerchino Ha-Shem e tutti i goyim che portano (sui quali è stato invocato) il mio Nome’. Così dice Ha-Shem che fa queste cose conosciute dai tempi antichi” (At 15, 13-18).

Adolfo Lippi [email protected]

25 Ibidem, 190.26 BeneDeTTO Xvi, Deus caritas est, 13, cf anche ib., 14-18; Sacramentum

caritatis, 14-15, e altrove.

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ItA Ritrovare il primitivo ebraismo messianicodi Adolfo Lippi, cp

Partendo da due pubblicazioni di marco Cassuto morselli e di ga-briella maestri, l’autore, che ha già pubblicato molti articoli sull’e-braismo e i suoi rapporti con la cristianità, offre alcune sue riflessioni sull’argomento e sullo stato di questi studi negli ultimi anni, come propria personale ricerca e invito alla ricerca di altri.

fRA Retrouver le premier hébraïsme messianiquede Adolfo Lippi, cp

Partant de deux publications de marco Cassuto morselli et de ga-briella Maestri, l’auteur, qui a déjà publié de nombreux articles sur l’hébraïsme et ses rapports avec la christianité, offre quelques-unes de ses réflexions sur le thème et sur l’état de ces études entreprises ces dernières années comme recherche personnelle propre ; il invite à poursuivre cette recherche.

EnG Finding the Primitive Messianic JudaismAdolfo Lippi, cp

Using two publications by Cassuto marco morselli and gabriella Masters, the author – who has published many articles on Judaism and its rapport with Christianity – offers some of his reflections on the status of these studies in recent years, as their own personal rese-arch and invitation in search of others.

SPA Reencontrar el primitivo ebraísmo mesiánico.de Adolfo Lippi, cp

Partiendo de dos publicaciones de marco Cassuto morselli y de gabriella maestri, el autor, que ya ha publicado muchos artículos sobre el ebraísmo y su relación con la cristiandad, ofrece algunas reflexiones suyas sobre el argumento y sobre el estado de estos estu-dios en los últimos años, como búsqueda personal propia e invita-ción a otros a la investigación.

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Pol Odnaleźć pierwotny hebraizm mesjański Adolfo Lippi CP

Opierając się na dwóch publikacjach Marca Cassuto Morselliego i Gabrielli Maestri, autor, który opublikował już wiele artykułów o hebraizmie i jego relacjach z chrześcijaństwem, przedstawia kilka refleksji na temat studiów nad tą problematyką i o ich stanie. Jest to owoc jego badań własnych i zaproszenie do innych by podjęli podobny wysiłek.

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Premessa

nel nostro mondo, desacralizzato e secolarizzato, sembra che non ci sia più posto per Dio e perciò es-sere credente o non credente non sarebbe un affare importante, conterebbe poco, dal momento che la cultura contemporanea non si erge più contro Dio ma modella un’umanità senza Dio. tuttavia, mentre l’uomo distoglie il suo sguardo da Dio e si ripiega su se stesso e sulle cose, Dio invece non allontana mai il suo sguardo dall’uomo, è sempre presente a lui e la sua presenza si manifesta in quell’offrirsi che è Lui stesso.

Dio continuerà sempre a sconvolgere l’uomo di ogni tempo e a svegliarlo dal suo letargo, poiché Egli non cesserà mai di essere coinvolto nelle vicende umane. Paradossalmente possiamo dire che, mentre si può pensare all’uomo senza far riferimento a Dio, dire Dio significa invece parlare anche dell’uomo: non si può speculare su Dio, pensare a Dio escludendo l’uomo, dal momento che Dio non solo è entrato nella nostra storia ma nel suo manifestarsi è sempre il Dio di qualcuno, di Abramo, di Isacco, di giacobbe, di mosè, del popolo...

Partendo dall’affermazione di Ugo di san Vittore: «Ubi amor, ibi oculos»1, per cui l’amore è occhio e amare è vedere, considereremo, alla luce di alcuni testi dell’Antico Testamento, che Yhwh, fin dalle

1 Benjamin minor 13: pL 196, 10a-B.

l’EssErci dEll’aMorE cHE VEdE

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prime pagine della Bibbia è Colui che vede e che apre gli occhi degli uomini affinché questi possano comprendere chiaramente la realtà2. Il primo racconto della creazione ci segnala che il vedere di Dio fonda la bontà insita nel creato, cioè la sua rispondenza allo scopo per cui ogni cosa è stata creata e il suo senso intrinseco: «… e Dio vide che era cosa buona»3; allora, come scriveva il cardinale Cusano, si può dire che «l’essere della creatura è il tuo vedere e l’essere visto insieme»4.

nella Bibbia ebraica per esprimere il vedere è utilizzata soprat-tutto la radice r’h che compare 1303 volte; a differenza di altri verbi che si riferiscono alla percezione visiva, «rā’â descrive l’esperienza del vedere come una totalità nella quale sensazione e percezione si fondono in una sola unità»5. Il «vedere» di Dio traduce, in maniera molto originale, la sua realtà più profonda, il suo essere Amore, cioè Colui vedendo una realtà che opprime il giusto, vedendo l’afflizione, penetra nelle ferite dell’uomo, le assume e le trasforma, facendone l’epifania del suo amore.

Alla luce di alcuni testi del libro dell’Esodo considereremo che il Dio-Amore presentato nell’At è una realtà che avviene e che manifesta la verità di Sé in rapporto con l’uomo in un infinito darsi che crea uno spazio proprio, lo spazio della libertà, che suscita la risposta umana. L’’ehyeh che si rivela a mosè è il Dio-Amore che si fa vicino, che crea una relazione di alleanza, che vede e interviene a favore di chi è oppresso, perché è proprio dell’amore di Dio iden-tificarsi con l’amato. La certezza che l’amore «vedente» di Dio non finirà mai è ben espressa dal profeta Isaia: «Nel riversarsi dell’ira, per un istante ho nascosto il mio volto da te ma per amore eterno ho avuto pietà di te, dice il tuo redentore, il signore… sì, i monti verranno meno e le colline vacilleranno, ma la mia carità non verrà meno e il mio patto di pace non vacillerà» (Is 54,8.10).

Alla fine della presente riflessione potremo affermare che proprio in forza del vedere di Dio, le diverse vicende storiche sono cariche

2 cf Gen 21,9; 2re 6,17.20; pv 20,12.3 cf Gen 1,4.10.12.18.21.25.31.4 N. CusaNo, Opere filosofiche, Torino 1972, 564.5 H.-F. FuHs, «rā’â», in Grande Lessico dell’Antico Testamento, viii, paideia,

Brescia 2008, 69.

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di un profondo significato salvifico, perché chi ama vede e rende visibile il suo amore intervenendo. Protetto dall’occhio misericor-dioso del signore, ogni uomo non solo è chiamato a volgere il suo sguardo verso di Lui per invocare protezione e salvezza: «… tengo i miei occhi rivolti al Signore, perché libera dal laccio il mio piede» (Sl 25,15); «… a te, Signore, mio Dio, sono rivolti i miei occhi, in te mi rifugio, proteggi la mia vita» (Sl 141,8); «… gli occhi di tutti sono rivolti a te in attesa e tu provvedi loro il cibo a suo tempo» (Sl 156,15); ciascuno deve essere altresì prolungamento dello sguardo amante del signore facendosi carico delle debolezze altrui.

nei testi dell’At il vedere di

Dio è espresso con il verbo rā’â ed è un processo complesso, un antropomorfismo che accentua la sua conoscenza universale e implica un suo intervento che fa percepire la sua presenza; ricorre come motivo costante nella preghiera e nella lamentazione6, nella lode e nel ringraziamento7 e come promessa divina8.

mentre l’empio pensa: «Il signore non mi vede affatto»9, Dio invece vede tutti gli uomini, vede l’ingiustizia, l’oppressione, l’i-dolatria. Dio si rende perfettamente conto delle trasgressioni di un individuo o del popolo. Dinanzi alla dichiarazione di gen 6,3: «… il signore vide che la malvagità degli uomini era grande», che motiva la decisione di Dio di annientare l’umanità, la corruzione dell’uomo è la causa del suo profondo dolore (Gen 6,5). Dio vede il sangue di Nabot (2Re 9,26), gli abomini commessi a Betel (Os 6,10), gli ob-brobri tra i profeti di Samaria (Ger 23,13ss), l’impurità di Israele (Ez 23,13; cf. Dt 23,15), le sue abominazioni sulle colline e nei campi (Ger 13,27), l’oltraggio dei suoi figli e delle sue figlie (Dt 32,19),

6 1Sam 1,11; 2Sam 16,12; Sl 10,14; 25,18.19; 59,5; 119,153.7 Sl 9,14; 31,8.8 Gen 31,12; 2re 20,5; is 38,5.9 Sl 10,11; 94,7; Gb 22,14; Ger 12,4.

1. Yhwh è un dio che vede

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che «non c’è più giustizia» e nessuno interviene (Is 59,15ss), e tutte queste realtà determinano la sofferenza di Dio. nel suo giudizio Dio stesso soffre: «Dio mandò un angelo in gerusalemme per stermi-narla; mentre Egli stava per sterminarla, il Signore volse lo sguardo e si pentì della sciagura minacciata» (1Cr 21,15).

talvolta il vedere di Dio è legato alla nascita di un bambino: «Il signore vide che Lia era trascurata e aprì il suo grembo, mentre Rachele fu sterile. Così Lia concepì e partorì un figlio e lo chiamò Ruben, perché disse: “Il Signore ha guardato la mia afflizione; ora mio marito mi amerà”» (Gen 29,31-32). Anche in Gen 22,8 il nome Yhwh jr’h è la risposta di Abramo al figlio Isacco che gli chiedeva dove fosse l’agnello per l’olocausto: «Dio vedrà per sé l’agnello per il suo sacrificio»; e alla fine del racconto, nel v. 14 leggiamo che «Abramo chiamò quel luogo: “Il Signore vede”, perciò oggi si dice: “Il Signore si è fatto vedere”». Il Signore vede (all’attivo), il Signore si è fatto vedere (al passivo). Che cosa il Signore vede? L’obbe-dienza di Abramo? Come nel contempo si può dire che Dio si è fatto vedere? La duplice affermazione non può che insinuare una cosa di grande importanza: lo scopo della prova di Abramo non è soltanto che «Dio vede», ma che «Dio si è rivelato» ad Abramo, si è manife-stato a lui indicandogli come vivere la sua paternità.

L’occhio scrutatore di Dio riconosce chi tra gli uomini possa so-stituire il re Saul e tra i figli di Iesse «ha visto Davide come re» (1Sam 16,1; cf. 2Re 8,13). La stessa storia della salvezza comincia con la promessa di Dio che è pronto a intervenir dopo aver visto l’afflizione del suo popolo in Egitto (cf. Es 3,7.9).

Considereremo che l’atto del vedere in Dio è espressione del suo infinito ed eterno amore, poiché in esso non sono inclusi soltanto il processo della riflessione e della decisione; il vedere non sottin-tende solo il rendersi conto, il valutare, ma implica anche gli affetti emotivi, la partecipazione e il dolore, dal momento che le viscere di Dio si commuovono per la miseria e l’oppressione del suo popolo: «Guardò (ar>Y:w:) nell’angustia a essi, quando udì il loro grido; si ri-cordò del suo patto con loro e nella sua gran misericordia si pentì» (Sl 106,44-45).

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1.1. L’intervento decisivo di Dio (Es 2,23-25)

I primi capitoli del libro dell’Esodo ci presentano il volto di un Dio diverso non soltanto dalle divinità egiziane ma anche dalle di-vinità degli altri popoli: un Dio che, pur non essendo rappresentato con caratteristiche umane e nonostante sieda in alto, osserva tutto sin nel profondo (cf. Sl 113,6), fino ai confini della terra (cf. Gb 28,24) e nessuno può nascondersi al suo sguardo (cf. Ger 23,24). Yhwh è un dio che raccoglie il grido di coloro che soffrono avendo l’orecchio teso e l’occhio vigile e quando vede il bisogno e la miseria, la sua percezione coincide con la sua compassione, cosicché l’aiuto e il bisogno vengono subito soddisfatti10.

Dio è l’esserci, presenza dentro la storia umana che si prende cura dell’uomo. tutto ciò emergerà chiaramente dalla lettura del testo di Es 2,23-2511:

23Dopo un lungo tempo il re d’Egitto morì. gli israeliti gemevano sotto la schiavitù e gridavano per essere aiutati, e le loro grida sotto la schiavitù arrivarono a Dio. 24Dio udì i loro gemiti e Dio si ricordò del suo patto con Abramo, Isacco e giacobbe. 25E Dio vide gli israeliti e Dio ne prese cura (~yhil{a/ [d;YEw: laer’f.yI ynEB.-ta, ~yhil{a/ ar>Y:w:).

Il grido degli israeliti, che segnala un atto di querela da parte di Israele contro l’Egitto, giunge fino a Dio12. si tratta del grido dell’op-presso, dello schiavo, un grido inarticolato che si alza senza una di-rezione ben precisa verso la quale rivolgersi. Eppure Dio lo ascolta, perché Egli non ha dimenticato la sua fedeltà ai padri ma si ricorda del giuramento fatto ai patriarchi (cf. Gen 17), cioè si ricorda del legame in virtù del quale si sente obbligato ad agire in favore del suo

10 L’atteggiamento di Dio che ascolta il grido di israele in egitto è ricordato in nm 20,16; Dt 26,7; ne 9,9, nei tre piccoli «credo» storici. in altre occasioni Dio promette di ascoltare il grido delle vittime dell’ingiustizia: es 22,22.26; 2cr 20,9; ne 9,27-28; Sl 34,18; Gb 27,9; is 30,9.

11 per l’analisi minuziosa delle varie tappe di formazione del testo vd. P. Weimar, Die Berufung des Moses. Literaturwissenschaftliche Analyse von Exodus 2,23-5,5, freiburg 1980.

12 cf P. Bovati, Ristabilire la giustizia. Procedure, vocabolario, orientamenti (anBib 110), piB, roma 1986, 289-290.

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popolo, della berît con Abramo, Isacco e giacobbe che stabilisce un legame giuridico fra i contraenti e Dio, e lo vincola al suo popolo.

Nel v. 25 leggiamo che Dio «vide e conobbe»: dopo aver sentito il grido del popolo, Dio inizia l’indagine13. I verbi r’h e yd‘ si tro-vano spesso insieme in contesti giuridici per descrivere queste due operazioni del giudice che precedono la discussione e la sentenza14. Il vedere implica il muoversi con amabilità verso l’altro che è nel bisogno15: si tratta di controllare, verificare, rendersi conto e arrivare alla conclusione16.

Chi ama soffre per l’amato e vuole sosti-

tuirsi all’amato nella sofferenza che questi patisce. tale è l’amore di Dio per il suo po-

polo, un amore che soffre, poiché Dio non è indifferente alle soffe-renze umane ma partecipa in prima persona a ogni dolore delle sue creature. Come si può intendere il soffrire di Dio per l’uomo? Come partecipa Egli alla sofferenza di chi soffre? La vocazione di Mosè è

13 Ibid., 292: «Questo “grido” non è solo uno sfogo personale o la sem-plice reazione istintiva alla sofferenza: esso è essenzialmente rivolto a qualcuno (’el…), e chiede di essere ascoltato in nome del diritto».

14 cf P. Bovati, Ristabilire la giustizia, o.c., 58-59. vedi i testi di Gn 18,21; Lv 5,1; Ger 2,23; 5,1; 1Sam 12,17; 14,38; 23,22-23; 1re 20,7; 2re 5,7; is 29,15; 41,20.

15 G. azou, Dalla servitù al servizio. Il libro dell’Esodo, Dehoniane, Bologna 1975, 108: «Dire che Dio “guarda” è manifestare che egli entra in rapporto, che il suo sguardo è attivo e che si prende tutto a carico».

16 F. miCHaeli, Le livre de l’Exode, Delachaux et niestlé, paris 1974, 401: «Le texte dit exactement: Dieu regarda le fils d’Israël et Dieu connut… plutôt que d’imaginer un ou plusieurs mots qui auraient disparu du texte, le sens théolo-gique du verbe connaître en hébreu donne ici une possibilité d’interprétation très riche: connaître, c’est reconnaître l’existence de l’autre, c’est lui apporter son soin, c’est se lier à lui, l’aimer, lui être attaché totalement, c’est parce que Dieu a entendu la souffrance de son peuple, parce qu’il l’a vue, et parce qu’il se souvient de son alliance, qu’il met maintenant à exécution son projet de libération. eu tout cela s’exprime la connaissance que Dieu a de son peuple».

2. l’amore sofferto di dio nell’apparizione a Mosè

(Es 3,1-6)

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la risposta concreta di Dio all’appello del suo popolo e la partecipa-zione al grido di quanti erano oppressi dall’Egitto:

3,1mentre mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di madian: condusse il gregge oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l’oreb. 2Gli apparve l’angelo di Yhwh (hA’hy> %a;l.m; ar’YEw:) come una fiamma di fuoco, in mezzo ad un roveto. E vide (ar>Y:w:), ed ecco che il roveto bruciava nel fuoco, ma il roveto non era divorato. 3E mosè disse: «Voglio spostarmi per vedere questa visione (ldoG”h; ha,r>M;h;-ta, ha,r>a,w> aN”-hr’sua’): perché mai il ro-veto non si consuma». 4Yhwh vide (hw”hy> ar>Y:w:) che si era spostato per vedere (tAar>li), e lo chiamò dal mezzo del roveto e disse: «mosè, mosè!». Disse: «Eccomi!». 5Disse: «Non avvicinarti: togliti i sandali dai tuoi piedi, perché il luogo sul quale stai è suolo santo». 6E disse: «Io sono il Dio di tuo padre, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di giacobbe». mosè si coprì allora il volto perché temeva di guardare Dio (~yhil{a/h’-la, jyBih;me arey” yKi wyn”P’ hv,mo rTes.Y:w:).

tale brano si trova inserito nella sezione che inizia in Es 2,23 con la morte del faraone, che annuncia l’inizio di una nuova era17, e si conclude in 4,17 perché il versetto seguente introduce un cambia-mento di luogo: mosè lascia la zona dell’apparizione divina per tor-nare in Egitto dove ritrova suo suocero18. I vv. 1-6 sono strettamente collegati con quelli di Es 2,11-14 dove mosè prende per la prima volta l’iniziativa di aiutare il suo popolo, chiamato ad assumere su di sé il destino dei suoi fratelli19. In Es 2,11 leggiamo infatti che mosè «vede» i suoi fratelli oppressi dall’Egitto e tale visione non lo lascia indifferente; Mosè non è un osservatore disinteressato e, dopo aver visto l’oppressione del popolo, prende l’iniziativa di agire perché non tollera quella situazione e uccide un egiziano che colpiva un ebreo (v. 12).

17 cf B.s. CHilds, Il libro dell’Esodo. Commentario critico-teologico, piemme, casale Monferrato 1995, 69.

18 per la delimitazione della scena, vd. G. FisCer, Jahwe unser Gott. Sprache, Aufbau und Erzähltechnik in der Berufung des Mose (ex 3-4), vandenhoeck & ruprecht, Göttingen 1989, 85-87

19 cf J.s. BadeN, «from Joseph to Moses: The narratives of exodus 1-2», vT 62 (2012) 133-158.

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In Es 3,1-6 domina il campo semantico del «vedere»: per sei volte appare la radice r’h (3,2[2x].3[2x].4[2x] 20 e tale verbo riappare altre 3 volte nei versetti successivi (vv. 7-10) anche se non si tratta più della visione di Dio, ma di Dio che «ha visto» la situazione di Israele in Egitto e si è accorto della sua gravità. All’inizio leggiamo che mosè si inoltra nel deserto più lontano del solito e si ritrova in una regione sconosciuta, l’oreb21. «L’angelo di Dio appare come una fiamma di fuoco dal mezzo del roveto» (v. 2): l’angelo che appare a mosè non designa un’entità distinta da Dio22 ma il suo approssi-marsi che ne preserva la santità e la trascendenza23, sottolineata dal comando di non avvicinarsi24.

L’apparizione di Dio avviene in mezzo a un roveto, sěneh, ter-mine raro, accompagnato dall’articolo come se si trattasse di un ro-veto conosciuto o già citato prima. Il racconto contiene un significato simbolico relativo al roveto, come la tradizione giudaica ha voluto spiegare; infatti, nello Shemot Rabbà leggiamo: «Un tale chiese a R. Jehoshua ben Korchà: “Perché il Signore parlò con Mosè proprio da un roveto? Non avrebbe potuto rivolgersi a lui da un albero più

20 cf B.s. CHilds, Il libro dell’Esodo, o.c., 70.21 cf W.H.C. ProPP, Exodus 1-18. A New Translation with Introduction and

Commentary (The anchor Bible), Doubleday, new York 1998, 197.22 cf Gen 16,7-14; 21,14-21; 22,11.15; 24,7.40; 31,11-13; 48,15-16;

Gs 5,13-16; Gdc 6,11-24; 13,2-23. vd. W.H.C. ProPP, Exodus 1-18, oc., 198. 23 a. maNaraNCHe, Il monoteismo cristiano, Queriniana, Brescia 1988, 101-

102: «La religione di israele deve accordare insieme due esigenze; annunciare Dio come egli è nel suo mistero, rifiutando qualsiasi idolatria; e annunciarlo a un popolo in favore del quale egli si propone di intervenire e di cui è necessario conoscere la mentalità. Ora il monoteismo, se bene adempie alla prima parte del programma, rischia di trascurare la seconda, facendosi troppo astratto. Sta qui il problema. La nozione dell’angelo di Jhwh deve contribuire a risol-verlo. Lungi dal costituire una concessione fatta al politeismo, è una protezione contro il monoteismo talmente epurato da divenire disumano. Grazie ad essa, l’Unico senza cesare di essere tale, può comunicarsi una moltitudine di volte; il totalmente altro può, senza cessare di essere tale, fasi più familiare. L’angelo riveste quindi una figura difficile da identificare: è accostabile come un uomo e sfuggente come uno spirito; è vicino e lontano. Ma la sua presenza risulta indispensabile perché l’uomo possa effettivamente essere interpellato e trovare a chi rivolgersi; indispensabile anche perché gli siano spiegati eventi misteriosi che lo lasciano perplesso e inquieto».

24 a. raBatel, Une histoire du point de vue, Université de Metz, paris–Metz 1997; iD., La construction textuelle du point de vue, Delachaux et niestlé, Lau-sanne–paris 1998.

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importante?”. Rispose: “Se gli avesse parlato da un qualunque altro albero si sarebbe sempre potuto porre una domanda come questa. Ma ciò è avvenuto perché non v’è luogo in questo mondo in cui non sia presente l’immanenza di Dio, perfino in una pianta come un roveto”» 25. Più oltre leggiamo: «Disse il Signore a Mosè: “Ti rendi conto di come partecipo alle sofferenze dei figli d’Israele? Vedi, ti parlo di mezzo alle spine del roveto ed è quindi come se anch’Io partecipassi direttamente al loro dolore»26. Il Dio di mosè è un Dio solidale e compassionevole, che partecipa personalmente al dolore del popolo, per questo parla dal roveto, dalle spine: se il popolo è nel dolore anche Dio è nel dolore e, se il fuoco non consuma il roveto, è perché neppure il dolore consumerà Israele. R. Shimon Jochai di-ceva: «Perché il Signore che sta nell’alto dei cieli si manifestò a Mosè in un roveto? Come il roveto è fra le piante la più insidiosa perché per esempio se un uccello vi si introduce non ne può più uscire se non dopo aver perso penne e brandelli di carne, così il si-gnore riteneva la schiavitù egiziana la più pericolosa e insidiosa di tutte»27.

siamo sulla «montagna di Dio, l’oreb» e lo scopo del redattore è chiaro: l’ubicazione della visione non è un luogo qualunque; là Dio si rivela e quello sarà il luogo della proclamazione della legge e dell’alleanza di Yhwh con Israele. È lì che Israele, dopo l’uscita dall’Egitto, diventerà popolo di Yhwh e renderà culto a Dio. Perciò nella tradizione dell’Oreb/Sinai viene stabilita una relazione stretta fra l’avvenimento della liberazione del popolo per opera di mosè e il luogo dell’alleanza che Dio farà con il suo popolo28.

Dio «vede» Mosè avvicinarsi (v. 4) e si mostra in una «fiamma di fuoco», simbolo della sua santità29. La visione descritta è di un fe-nomeno misterioso, poco comprensibile: un roveto che brucia senza

25 Shemot Rabbà ii.5; cf. r. PaCiFiCi, Midrashim. Fatti e personaggi biblici, Marietti, casale Monferrato 1986, 59.

26 Ibid.27 Berachoth, viii.28 G. vaNHoomisseN, Cominciando da Mosè. Dall’Egitto alla terra promessa,

edizioni Dehoniane, Bologna 2004, 115ss.29 cf 1re 18,38; 2re 1,10-14; nm 11,1; 16,35; 21,28; 26,10; Lv 10,2;

Sl 8,9; 50,3; 97,3; 144,5-6; Gb 1,16.

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consumarsi. In altre parole c’è un vedere che non è veramente tale, perché quello che si vede è solo un fatto esteriore, un roveto che brucia; allora c’è un vedere che non vede veramente, perché non sa vedere al di là di ciò che vede, non sa vedere l’invisibile e tale invi-sibile si comincia a vedere solo quando interviene la parola. Il senso del fenomeno può essere capito solo quando interviene la parola di Dio a spiegare ogni cosa30. Il roveto segnala la presenza attraverso il fuoco che lo consuma, poiché il fuoco non ha contorni e sfugge a ogni tentativo di delimitazione; quindi, è qualcosa di indefinibile o afferrabile e in tal senso dice qualcosa del mistero di Dio; il fuoco è inoltre l’invisibilità di ciò che è visibile: la legna che brucia. Ve-dendo il roveto mosè non vede Dio, ma capisce qualcosa di Lui: come il fuoco, Dio non ha contorni, non lo si può limitare, non lo si può rinchiudere e se per caso si riuscisse a rinchiuderlo senza che il fuoco bruci il contenitore, allora sarà il fuoco a spegnersi31.

La parola è l’unica relazione con Dio adeguata per l’uomo e so-stenibile per lui, infatti mosè ha paura di guardare, ma non di parlare e ascoltare. Quindi, il roveto mentre segnala nasconde. È negata la visione secondo la carne, perché l’esperienza del vedere è fonda-mentalmente idolatria, oggettivizzando la cosa vista e pretendendo che ciò che si vede sia totalmente identificabile con la realtà. La visione è parziale ed esteriore e perciò non riconducibile a Dio in quanto Egli non ha un’esteriorità a cui si può riportare, non è deli-mitabile e qualunque tentativo di visione di Dio uccide l’uomo. Il roveto, soltanto alla luce della parola segnala la presenza di Dio, e allora mosè capisce di non poter vedere e si vela il viso.

Dio non solo si fa presente sensibilmente nel segno del fuoco, ma interpella mosè rivolgendogli la parola e chiamandolo per nome, volendo entrare in un rapporto personale con lui: «mosè, mosè». Colui che chiama mosè gli ricorda che c’è una distanza da mante-nere: «togliti i sandali» (3,5). Calzare i sandali è simbolo di potere: il gesto di mettere il piede in un campo o di gettarvi sopra il proprio sandalo indicava la volontà di prenderne possesso. togliersi i sandali

30 cf B. reNaud, «La figure prophétique de Moïse in exode 3,1-4,17», in rB 93 (1986), 510-534.

31 cf r. tourNey, «Le nom de “Buisson ardent”», vT 7 (1957) 410-413 ; a. laCoCque, Le Devenir de Dieu, paris 1967, 71ss.

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equivale dunque a riconoscere la propria vulnerabilità e che il diritto di riscatto di quella terra appartiene a Dio perché quella, come dice il testo ebraico, è la terra della sua santità. Il signore tuttavia riscatta quella terra per concederla in eredità a Israele come ha promesso ai loro padri.

Il testo di Es 3,7-10 prosegue la nar-razione ponendo

l’attenzione su un’im-portante dichiarazione di Dio: Egli si rivela

a mosè come Colui che, avendo visto la miseria del suo popolo, avendo ascoltato il grido di coloro che soffrono e le invocazioni di quanti subiscono ingiustizia, è pronto a intervenire:

7Il signore disse: «Ho visto, ho visto l’oppressione del mio popolo che è in Egitto (~yIr’c.miB. rv,a] yMi[; ynI[\-ta, ytiyair’ haor’ hw”hy> rm,aYOw), ho udito il suo grido di fronte ai suoi oppressori, poiché conosco le sue angosce. 8Voglio scendere a liberarlo dalla mano dell’Egitto e farlo salire da quella terra a una terra buona e vasta, a una terra dove scorre latte e miele, nel luogo del Cananeo, dell’Hittita, dell’Amorreo, del Perizzita, dell’Eveo e del gebuseo. 9E ora, ecco, il grido dei figli d’Israele è giunto fino a me, e ho visto pure l’oppres-sione con cui l’Egitto li opprime (~t’ao ~ycix]l{ ~yIr;c.mi rv,a] #x;L;h;-ta, ytiyair’-~g:w> yl’ae ha’B’ laer’f.yI-ynEB. tq;[]c; hNEhi hT’[;).10E ora va’: ti invio dal faraone per fare uscire il mio popolo, i figli d’Israele, dall’Egitto».

Dio dichiara: «Ho visto, ho visto» (v. 7): il verbo «vedere» non a caso è ripetuto due volte in questo versetto, volendo segnalare con ciò che Dio ha chiaramente visto e preso nota della situazione del suo popolo. Dio conoscendo la miseria del popolo, si schiera dalla sua parte, decide di liberarlo e di farlo salire verso una terra fertile e vasta.

mosè è chiamato a «vedere», «sentire» e «conoscere» le cose così come Dio le «vede», le «sente» e le «conosce»; infatti a Mosè Dio «fa sentire» il grido del suo popolo e gli «fa conoscere» la sua sof-ferenza. A mosè viene dato uno sguardo nuovo sulla situazione dei

3. la missione di Mosè (Es 3,7-10)

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suoi fratelli che gli fa capire le cose in modo diverso. È da questa nuova «percezione» che scaturisce la sua missione. Lo scopo del brano è quindi di mostrare chiaramente che l’iniziativa della libe-razione degli ebrei non è di mosè, bensì di Dio32. si possono no-tare forti similitudini tra il vocabolario di Es 2,23b-25 e quello di Es 3,7.9, perché il Dio che sente il grido del suo popolo è Colui che chiama mosè e lo invia dal faraone, e il motivo del suo agire è lo stesso, il grido del popolo oppresso.

Un testo vicino a Es 3,7-10 è Gn 10,20-21: «Yhwh disse: “Sic-come il grido che sale da sodoma e gomorra è grande e siccome il loro peccato è molto grave, io scenderò e vedrò se hanno veramente agito secondo il grido che è giunto fino a me; e se così non è, lo saprò”». Nel testo di Genesi leggiamo che Dio scende per un sopra-luogo e per verificare se si tratta davvero di una situazione grave, mentre in Es 3,7-10 la perizia ha avuto luogo e Dio ha iniziato la sua azione giuridica e salvifica33. La tragica situazione in cui versano gli ebrei è definita con due vocaboli: ‘anî, «povertà, debolezza, mi-seria» (v. 7) e lahas, «oppressione» (v.9). Al centro del brano risuona il termine sa‘q, il lamento legale che si indirizza ad un giudice e Dio non tarda ad intervenire: Egli «guarda» e «capisce», cioè se ne prende cura. Lo studioso greenberg ha notato la struttura chiastica che unisce il v. 7 al v. 934:

v. 7: (a) r’h (vedere) – (b) seāqâ (grido)v. 9: (b) seāqâ (grido) – (a) r’h (vedere).

Per tale motivo possiamo dire che il vedere di Dio non è il vedere di un osservatore disinteressato ma lo porta a fare esperienza e a condividere la sofferenza di chi soffre, a prendere parte al grido degli oppressi.

Ai vv. 7-8 si riallacciano i vv. 16-17, considerati come una con-tinuazione di essi: «16Va’, riunisci gli anziani di Israele e di’ loro: “Yhwh, Dio dei vostri padri, fu visto da me (yl;ae ha’r>nI ~k,yteboa] yhel{a/ hw”hy>), il Dio di Abramo, di Isacco e di giacobbe per dire: sono ve-

32 F. miCHaeli, Le livre de l’Exode. Commentaire de l’Ancien Testament, Dela-chaux & niestlé, neuchâtel 1974, 48.

33 cf 2cr 20,9; ne 9,27-28; Sl 34,18; Gb 27,9; is 30,9; Ger 11,11; 14,12; ez 8,18.

34 m. GreeNBerG, Understanding Exodus, Behrman, new York 1969, 83-84.

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nuto a vedere voi e ciò che viene fatto a voi in Egitto, 17e ho detto: vi faccio salire dall’oppressione dell’Egitto…». nel v. 16 troviamo un accenno all’apparizione divina di Es 3,1-6 con il verbo chiave r’h, la menzione del Dio dei tre patriarchi (cf. 3,6) e dell’oppressione in Egitto (cf. 3,7.9). L’espressione generica «quello che vi è stato fatto in Egitto» è un modo semplice di riassumere quanto detto nei vv. 7.9 senza ripetersi. Il verbo ‘śh, «fare» è generico e può rinviare senza difficoltà a quanto è stato detto in modo più preciso sull’oppressione degli egiziani nei vv. 7.9.35

Il vedere di Dio implica perciò un prendere coscienza e un par-tecipare a quella situazione a cui segue un intervento concreto. A tale proposito è molto significativo il testo di 1Sam 9,15-16: «Yhwh aveva rivelato ciò a samuele un giorno prima dell’arrivo di saul: “Domani, a quest’ora, ti invierò un Beniaminita; lo ungerai come capo sul mio popolo; egli salverà il mio popolo dalla mano dei Fili-stei, perché ho visto il mio popolo e perché il suo grido è giunto a me (yl’ae Atq’[]c; ha’B’ yKi yMi[;-ta, ytiyair’ yKi)». Anche in questo testo la risposta concreta di Dio al grido del popolo è la chiamata di un personaggio, Saul, colui che dovrà liberare dall’oppressione dei filistei e manife-stare con ciò la presenza operante e amante di Dio a favore dei suoi.

Il capitolo 3 del libro dell’Esodo prosegue come un

racconto di vocazione presentando, dopo l’irruzione divina,

gli elementi che si possono trovare in altri racconti di tale genere: l’obiezione del chiamato, la promessa di assistenza e il segno dato come pegno dell’aiuto divino:

11mosè disse a Dio: «Chi sono io per andare dal faraone e far uscire dall’E-gitto i figli d’Israele?». 12E Dio disse: «Va’, perché io sarò con te (%M’[i hy<h.a,-

35 J.C. Gertz, Tradition und Redaktion in der Exoduserzählung. Untersuc-hungen zur Endredaktion des Pentateuch, vandenhoeck & ruprecht, Göttingen 2000, 334-335.

4. l’esserci dell’amore (Es 3,11-15)

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yKi). Questo sarà il segno che sono io che ti ho mandato: quando avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto, voi servirete Dio su questo monte». 13mosè disse a Dio: «Ecco, quando sarò andato dai figli d’Israele e avrò detto loro: “Il Dio dei vostri padri mi ha mandato da voi”, se essi dicono: “Qual è il suo nome?” che cosa risponderò loro?». 14Dio disse a mosè: «Io sono colui che sono». Poi disse: «Dirai così ai figli d’Israele: “Io Sono mi ha mandato da voi”» (`~k,ylea] ynIx;l’v. hy<h.a, laer’f.yI ynEb.li rm;ato hKo rm,aYOw: hy<h.a, rv,a] hy<h.a, hv,mo-la, ~yhil{a/ rm,aYOw:14). 15Dio disse ancora a Mosè: «Dirai così ai figli d’Israele: “Yhwh, il Dio dei vostri padri, il Dio d’Abramo, il Dio d’Isacco e il Dio di Giacobbe mi ha mandato da voi”. Tale è il mio nome in eterno; così sarò invocato di generazione in generazione» (`rDo rdol. yrIk.zI hz<w> ~l’[ol. ymiV.-hz< ~k,ylea] ynIx;l’v. bqo[]y: yhel{awE qx’c.yI yhel{a/ ~h’r’b.a; yhel{a/ ~k,yteboa] yhel{a/ hw”hy> laer’f.yI ynEB.-la, rm;ato-hKo

hv,mo-la, ~yhil{a/ dA[ rm,aYOw:15).

Alla prima obiezione di mosè, «chi sono io per andare dal faraone…» (v.11), Dio risponde donando a lui una solenne rassicu-razione: %M’[i hy<h.a, kî ’ehyeh ‘immak, Dio sarà con mosè, sarà una presenza attiva al suo fianco che garantirà la missione a lui affidata; poi dà un segno, un po’ difficile da capire, perché il segno è il futuro culto che Israele avrebbe reso a Dio su quel monte. La difficoltà è che il segno sarà efficace solo quando Mosè avrà compiuto la sua missione36.

La seconda obiezione di Mosè, «… se essi dicono: “Qual è il suo nome?” che cosa risponderò loro?» (v. 13), è una domanda di identità un po’ strana in quanto, alla presenza di mosè, Dio si era già nomi-nato: Egli è l’Elohim di suo padre Abramo, di Isacco e di giacobbe (v. 6), ma ciò che il testo segnala è che Mosè vuole conoscere il nome di colui che lo invia come messaggero. nell’ambiente biblico il nome è la realtà stessa, non è una semplice indicazione esteriore ma identifica ciò a cui si riferisce: è presenza e azione dell’essere nominato37. Pronunciare il nome di qualcuno ha l’effetto di rendere

36 a. Cazelles, «pour une exégèse de ex 3,14», in Dieu et l’Être, Études augustiniennes, paris 1978, 29.

37 r.e. ClemeNts, Exodus (new century Bible), Oliphants, London 1971, 75: «among the Hebrews, as among ancient Semites generally, possession of a name was important, for nothing existed without a name. To “call a name” is sometimes equivalent to “create”. Gods as well as men had names, and their

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la sua presenza attuale e operante38, per tale motivo è impossibile che l’uomo conosca il nome di Dio, poiché sarebbe come vedere Dio, aver capito il senso più profondo di Lui, il suo mistero. Conoscere il nome di Dio equivarrebbe a identificarsi con Lui; soltanto Dio può dire all’uomo: «Io ti conosco per il tuo nome» (Es 33,12), cono-scenza che implica un’azione di Dio nell’uomo.

La domanda di Mosè riceve una duplice risposta nei vv. 14-15, che sono i versetti più discussi e più commentati di tutto il Penta-teuco39, segno della complessità del lavoro redazionale, ma anche della difficoltà di parlare del mistero così rivelato: «Dio disse a mosè: ’ehyeh ’ăšer ’ehyeh (hy<h.a, rv,a] hy<h.a)», costruzione molto diffi-cile da interpretare, che erroneamente è tradotta in italiano: «Io sono colui che sono», mentre in ebraico non figura il pronome personale ’ni. nella formulazione ebraica due volte troviamo il verbo «essere», hyh, sotto la stessa forma e tra le due menzioni c’è il relativo ’ăšer. La ripetizione del verbo essere, senza che esso abbia alcun attributo, esclude la possibilità che hyh sia inteso come copula, ma il verbo così costruito afferma solo l’azione; il soggetto, colui che parla, si afferma con questa azione40. È importante perciò notare che il verbo hyh, usato alla prima persona singolare, si trova all’imperfetto nella forma qal che corrisponde al nostro futuro41, cioè si vuol indicare che l’azione espressa è continua, non compiuta.

mentre l’occidentale considera il tempo una realtà oggettiva in tre dimensioni, passato, presente e futuro, per l’orientale il tempo

names had meaning. a name indicated the nature and character of its bearer. To pronounce the name of a deity meant to call upon his power».

38 cf G. azou, Dalla servitù al servizio, o.c., 125.39 cf r. de vaux, Historie ancienne d’Israël. Des origines à l’installation en

Canaan, Gabalda, paris 1971, 312-337.40 F. miCHeeli, Le livre de l’Exode, Delachaux et niestlé, paris 1974, 51:

«Lorsque Dieu dit: «Je suis», il exprime la réalité de sa présence agissante et puissante, de son intervention directe et de sa relation avec les hommes, aussi bien maintenant que dans l’avenir. c’est un Dieu vivant, par opposition aux idoles qui sont mortes».

41 La bibliografia su questo argomento è immensa. per un primo orienta-mento si vedano i commentari, in particolare, B.s. CHilds, Il libro dell’Esodo, o.c, 70ss.; G. FisCHer, Jahwe unser Gott. Sprache, Aufbau und Erzähltechnik in der Berufung des Mose (ex 3-4), freiburg Schweitz-Göttingen 1989, 134-154; W.H. sCHmidt, Exodus, neukirchener verlag, neukirchen-vluyn 1988, 169-180.

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non ha realtà oggettiva e perciò il verbo è per essenza atemporale e si coniuga in rapporto all’azione che descrive42. Il verbo hyh si può tradurre con essere, esistere, accadere, divenire; significa l’esistenza in quanto si esercita e si manifesta con la sua attività. Essere equivale ad essere in rapporto agli altri esistenti, essere in relazione, vivere con, agire su, agire per43.

La formulazione all’imperfetto vuole perciò indicare la presenza attiva di Dio in tutte le dimensioni concepibili, cioè che Dio è sempre presente e operante nella storia e perciò tutti possono conoscerlo44, poiché Egli è sempre accanto all’uomo ma non permette di catalo-garlo, poiché Lui rimane invisibile45.

Inoltre è da notare che la dichiarazione ’ehyeh ’ăšer ’ehyeh non afferma soltanto la presenza attiva e dinamica di Dio, dal momento che tale presenza è rafforzata dal raddoppiamento del verbo hyh46. Considerando che il pronome relativo ’ăšer, che collega i due ’ehyeh, si può correttamente tradurre con i due punti: «sono: sono», allora

42 a. CHouraqui, Mosè. Viaggio ai confini di un mistero rivelato e di una utopia possibile, Marietti, Genova 1996, 122.

43 m. BuBer, Moïse, presses Universitaires de france, paris 1957, 59: ««Je suis celui qui suis», avec la signification que YHvH se désigne comme l’existant ou même l’éternellement existant, celui qui persiste immuablement dans son être. Mais outre qu’il y aurait là un genre d’abstraction qui n’a pas coutume de se manifester à une époque de vitalité religieuse en expansion, on ne peut tirer du verbe, dans la langue biblique, ce sens d’existence pure. il signifie: se produire, devenir, être là, être présent, être de telle ou telle façon, mais non pas: être en soi».

44 r.e. ClemeNts, Exodus, o.c., 76: «We must see in the phrase here, that kind of indefiniteness “which leaves open a large number of possibilities” in which the deity implies, “i am whatever i mean to be”».

45 N.m. sarNa, Exploring Exodus. The Heritage of Biblical Israel, new York 1986, 52: «La persona divina può venir conosciuta solo in quanto Dio decide di rivelare se stesso, e può essere veramente qualificata solo nei termini suoi propri, non per analogia con alcunché d’altro. È questo l’equivalente in forma articolata dello spettacolo del fuoco nel roveto ardente, un fuoco che si autoge-nera e si autosostiene».

46 J.i. durHam, Exodus (Word Biblical commentary 3), Word Books, Waco, Texas 1987, 39: «“i am being that i am being”, or “i am the is-ing One”, that is, “the One Who always is”. not conceptual being, being in the abstract, but active being, is the intent of this reply. it is a reply that suggests that it is inap-propriate to refer to God as “was” or as “will be”, for the reality of this active existence can be suggested only by the present: “is” or “is-ing”, “always is”, or “am”.

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la doppia affermazione risulterebbe alquanto significativa perché esprimerebbe un doppio senso, implicherebbe l’interrogante mosè e Dio che è interrogato: «sono» implicherebbe Colui che ha pronun-ciato questo nome e colui che lo ascolta e lo ripete47. Dio infatti non è qualcuno che abita nel fondo dei cieli o al di là dei mari, ma è vicino all’uomo ogni volta che è invocato (cf. Dt 4,7), e l’’ehyeh ricorda a ciascuno che Dio è Colui che non può dire il suo essere in modo che ci si possa servire di lui48; Egli esiste indipendentemente da tutto ed è la sorgente di ogni esistenza; è la Presenza attenta e totalmente libera che ricorda all’uomo la sua identità: Dio è l’’ehyeh di ogni essere49.

L’Io Sono, hw”hy>, possiede la forza divina e spirituale non di an-nullare i sé individuali, ma di rammentarci che mai, fin dall’inizio, siamo stati indipendenti. ogni Io sussiste grazie al fatto che parte-cipa di un Sé più grande, di un Io più grande. Il nostro sé è una parte essenziale del Santo, del Sé di Dio. La rivelazione del Nome dice quindi qualcosa, perché dice: «Sono», ma non permette di catalogare Dio, perché il Dio invisibile accetta la mediazione del visibile che è mosè50.

4.1 L’’ehyeh nel fuoco del roveto

L’affermazione della presenza di hw”hy> nell’uomo e a favore dell’uomo è la rivelazione centrale di Dio che viene e che interviene a motivo della sua presenza attiva; essa spiega bene l’affermazione presente nel v. 12: %M’[i hy<h.a, Dio è con mosè ed è per questo che «sarà con la sua bocca» (4,12.15), in tutto il suo essere e agire.

Dio è Colui che si fa presente, che è e rimane presente e che si mostra efficace; il nome di Dio andrebbe perciò tradotto: «Sono colui che è qui con voi e per voi», come è esplicitato in Es 3,12; op-pure, secondo la radice araba hwj che significa «essere ardente», il nome potrebbe essere tradotto anche come «sono colui che ama con

47 a. CHouraqui, Mosè, o.c., 123.48 e. zurro, El misterio de la Palabra, cristiandad, Madrid 1983, 150-151. 49 cf W.H. sCHmidt, Exodus, Sinai und Mose: Erwägungen zu Ex 1-19 und

24, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1983, 124-129.50 cf D.J. mCCartHy, «exod 3:14: History, philology, and Theology», in cBQ

40 (1978), 311-322.

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passione». Dio infatti rivela la sua efficace prossimità e misericordia, è Colui che si pone in relazione, attraverso mosè, con Israele per liberarlo, chiedendogli una risposta di esclusivo amore e fedeltà51. L’Io Sono è un invito a non fermarsi al nome; il tetragramma non è una formula dogmatica filosofica, ma sottolinea la realtà attuale di Dio: Io sono qui realmente, Io sono Colui che si fa riconoscere, perché si prende cura dell’altro, totalmente coinvolto con l’uomo52.

Tale significato è confermato dalla rivelazione del nome che av-viene dopo la visione di un roveto che brucia ma non si consuma, come il dolore che opprimeva il popolo: Dio manifesta il suo essere lì, in quella sofferenza e in quel dolore del suo popolo. Il nome rende sensibile e costante la relazione di Dio con il popolo, è segno effi-cace della sua presenza che entra i rapporto con Israele e lo salva, poiché Dio non si limita ad aprire un dialogo con le sue creature ma si fa carico del loro destino.

Risulta pertanto che il nome di Dio è teofanico e performativo, dal momento che i destinatari sono oggetto di un atto di salvezza53: non è questione di definire l’essenza di Dio, ma si tratta della pro-messa di Dio che si realizza sul popolo, che inizia con mosè e che man mano si compie come un processo. Il nome di Dio è un evento e perciò conoscere Dio significherà sperimentare il suo intervento li-beratore e salvatore, l’efficacia della sua azione. Possiamo chiederci allora: in che modo si manifesta l’esserci di Dio? Leggendo bene il testo si comprende che l’incontro con l’automanifestazione di Dio realizza il contenuto del tetragramma in mosè che è chiamato ad essere «Dio» per Aronne, per il faraone e per il popolo di Israele, dal momento che Dio opera attraverso strumenti umani.

Dio dice a Mosè: «Io sarò con te» (v. 12a): Dio impegna tutto se stesso nella storia del suo inviato, condivide se stesso con l’uomo,

51 m. BuBer, Moïse, o.c., 61: ««YHvH est celui qui sera là» ou «qui est là», celui qui n’est pas seulement présent n’importe quand et n’importe où, mais à chaque moment du présent et à chaque place où l’on se trouve… Ehyeh n’est pas un nom, on ne peut pas nommer ainsi le Dieu».

52 W. eiCHrodt, Teologia dell’Antico Testamento, i, Brescia 1979, 191: «io sono effettivamente e veramente qui, sono pronto ad aiutare e ad agire, così come sempre lo sono stato».

53 cf a. laCoCque – P. riCoeur, Come pensa la Bibbia. Studi esegetici ed ermeneutici, paideia, Brescia 2002, 309.

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nella relazione con mosè manifesta il suo essere. Quando mosè incontra per la prima volta il Faraone, simbolo di tutto ciò che si oppone a Dio e che rende schiavo l’uomo, e questi si rifiuta di con-cedere al popolo il permesso di partire, così come aveva chiesto mosè, è interessante considerare in che modo il Faraone replica alla richiesta di Mosè: «Il Faraone rispose: chi è il Signore perché io debba ascoltare la sua voce per lasciar partire Israele? Non conosco il Signore e neppure lascerò partire Israele» (Es 5,2). Il rifiuto è du-plice. Non soltanto il Faraone si rifiuta di dare al popolo il permesso di partire, ma il suo rifiuto assume i tratti della negazione stessa di Dio: «non conosco il signore!». Anche in questo caso la tradizione ebraica rilegge questo episodio in modo estremamente significa-tivo. Ci sono due midrashim che interpretano questo testo. Il primo dice che il Faraone, quando udì l’espressione «il Dio degli ebrei», esclamò con meraviglia: «Da quando gli schiavi hanno un Dio?». nella sua mentalità era inconcepibile che gli schiavi avessero un Dio. Invece, il Dio che si rivela a mosè non è neutrale, non inter-viene nella storia in modo generico; Egli si schiera, prende sempre una posizione precisa e la posizione che prende è di stare dalla parte degli oppressi; è il Dio degli schiavi che stabilisce con l’uomo un rapporto di libertà. Un secondo midrash, riferito sempre a questo versetto, racconta che il Faraone afferma di non conoscere il Dio degli ebrei e dice: «“Non lascerò partire il popolo che ha un Dio senza nome, dunque un Dio che non esiste”. E dice così, perché in precedenza aveva mandato i suoi servi a consultare negli archivi e a cercare il nome del Dio di mosè, ma i servi non riuscirono a trovare negli achivi tale nome. Quindi, se il suo nome non era conservato, evidentemente era un Dio che non esisteva. ma mosè prese la parola e rispose al Faraone: “Non puoi trovare il nome di Dio negli archivi e negli elenchi, perché quelli sono il cimitero degli dei. Il nostro Dio non ha nome, vive eternamente e riceve il nome dalle azioni che compie, dalla storia che fa”»54. Ancora una volta appare che Dio si rivela nella storia e che noi non possiamo conoscere il nome di Dio prima di averlo visto agire. Per questo il nome che Israele dà a Dio è: Colui che ha liberato i padri dalla schiavitù dell’Egitto. Appunto,

54 Shemot Rabba v.14.

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il Dio che ascolta il grido degli oppressi e si mostra solidale è anche un Dio che libera.

Da tutto ciò ne consegue Dio si rende vulnerabile per il fatto stesso che avvia una relazione con qualcun altro; quando Yhwh si coinvolge nella storia dell’uomo, l’Io divino diviene nel tu umano, poiché l’Io pone un’altra persona, esterna a lui, che diventa sua eco alla quale dice tu. Dio è Colui che sta di fronte a un tu e i due sono in un contrasto reciproco che li definisce entrambi: «Che sia l’Essere o il signore dell’ente, Dio stesso è, appare come quello che è nella differenza, vale a dire come la differenza e nella dissimulazione»55.

4.2 Il Nome ineffabile di Dio

La rivelazione inaudita che mosè riceve sull’oreb lega l’Io di Dio all’io dell’uomo, unisce l’Io al tu. Dio si rivela e si incarna nell’uomo che è chiamato a parlare a suo nome. mosè apparirà dunque al suo popolo come hw”hy>, come l’’ehyeh che lo invia e che è presente in lui. senza perdere la sua trascendenza, Dio assume l’umanità di colui al quale si rivela, è presenza vivente nell’uomo: l’’ehyeh è il nome ineffabile dell’Essere presente in ogni essere.

Di particolare interesse per l’interpretazione di Es 3,14 è il testo del Targum Onqelos che traduce: «Io sono come colui con cui io sono»; mentre lo Zohar Wajjiqra legge: «’ehyeh è il supremo occultamento… “Io è me stesso”… ’ăšer ’ehyeh, sono in procinto di rivelare me stesso…’ehyeh è “la madre divenne gravida” … yhwh il momento della fioritura del Tutto». tali riferimenti ci fanno consi-derare che il verbo ebraico hyh non è usato per sottolineare la realtà di un soggetto ma per esprimere un rapporto da persona a persona, tra Dio e colui in favore del quale Egli è; la sfumatura espressa dal verbo hyh è significante una presenza, un’apertura verso un altro soggetto.

secondo il midrash Shemòth Rabbà, mosè avrebbe invece detto: «Ecco, d’accordo, io vado dai figli d’Israele a parlare a Tuo Nome. se mi chiedono chi mi manda, io devo sapere qual è il tuo nome». Rispose il signore: «tu, dunque, vuoi sapere il mio nome. sappi

55 J. derrida, La scrittura e la differenza, Torino 1967, 92.

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dunque che Io sono conosciuto secondo le mie opere. ora mi chiamo El-Shaddai; ora Zevaoth, ora Elohim, ora Yhwh; allorché io esercito la giustizia mi chiamo Elohim, allorché combatto contro la malva-gità degli uomini mi chiamo Zevaoth, quando indulgo al peccato mi chiamo El-shaddai, quando dimostro la mia pietà verso il mio mondo mi chiamo Yhwh»56. tale interpretazione midrashica è si-gnificativa perché segnala che il tetragramma hw”hy> denota sempre l’attributo della divina misericordia, esprime Dio in quanto Amore.

Dio fa sapere al suo popolo, tramite mosè, che Egli si impegna a loro favore, che è sempre vicino e presente dovunque si soffre e che vuole instaurare con il popolo dei rapporti particolari; man mano gli israeliti comprenderanno che Yhwh è il donarsi di Dio per loro e in loro, e conosceranno Dio attraverso le sue manifestazioni. Il nome di Dio rende sensibile e costante la relazione di Dio e del popolo: Yhwh è il Dio che viene e che interviene sempre.

Alla luce di al-cuni testi del libro dell’E-

sodo abbiamo consi-derato che il nucleo centrale della rivelazione biblica di Dio non è la sua trascendenza ma la sua condiscendenza, perché Dio è colui che si china dai cieli a guardare sulla terra, ascolta, si ricorda, guarda e si prende cura delle sue creature. L’immagine dell’occhio vigile, simbolo dell’onniscienza, della vigilanza e dell’onnipresenza pro-tettiva di Dio, diventa espressione della sua bontà e del suo amore: «Ecco, l’occhio del signore veglia su chi lo teme, su chi spera nella sua grazia, per liberarlo dalla morte e nutrirlo in tempo di fame» (Sl 33,18-19); «Il Signore… volge sul mondo il suo sguardo, i suoi occhi scrutano l’uomo. Il signore giudica giusti e malvagi, disprezza chi ama la violenza» (Sl 11,4-5).

Chi ama non può non vedere i bisogni della persona amata e anche in Dio amare è vedere, l’amore che vede manifesta il movimento di condiscendenza di Dio che non rimane chiuso nel mistero della sua

56 Testo citato da a. seGre, Mosè nostro maestro, fossano 1975, 95.

conclusione

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assolutezza, ma si china sull’uomo mostrandosi a lui. Dio non può non vedere perché è Amore ed è proprio l’amore all’origine di ogni cosa, della stessa creazione con cui Dio è uscito dal suo mistero as-soluto; senza l’amore non si comprenderebbe la mirabile storia nar-rata nella sacra scrittura, storia di un Dio che si comunica amando.

Mi piace concludere questa riflessione riportando sinteticamente alcuni brani del libro di m. Buber, che riguardano le vicende di Rabbi Sussja, discepolo di un grande spirituale del suo tempo57. Vedendolo pieno di discernimento, capace di aiutare tutti quelli che venivano a lui, Sussja aveva chiesto al suo maestro di pregare il Signore di concedergli la visione del bene e del male nei cuori. E Dio gli aveva concesso questa grazia. Poco dopo un commerciante venne a trovare il maestro di Sussja; la vita di quest’uomo era profondamente con-trassegnata dal male, e il giovane discepolo a prima vista scorge lo stato di quell’anima e pieno di orrore grida: «Come osi tu presentarti davanti al volto di un santo, impuro come sei?». E il commerciante se ne andò. Il maestro richiamò allora Sussja e gli disse: «Poco fa è venuto un uomo che tu hai scacciato e tuttavia era la sua ultima spe-ranza di salvezza!». Allora il discepolo inorridito supplicò di ottenere da Dio che egli non vedesse più il male. ma il maestro gli rispose di no, perché i doni di Dio sono irrevocabili, ma che avrebbe pregato il signore di aggiungere un nuovo dono a quello che gli aveva fatto, di scorgere cioè con una tale forza la sua identità con il fratello in modo da vedere il male non più come colpa dell’altro, ma come sua propria. Dopo vari giorni di viaggio Sussja arriva a un’osteria, getta gli occhi sull’oste e lo vede come Dio lo vede, nell’orrore del male in cui viveva. L’oste gli chiede quali siano le sue esigenze e il giovane rabbino risponde: «niente… voglio semplicemente un an-goletto dove poter pregare». gli si mostra un piccolo bugigattolo… e poi l’oste dice alla moglie: «Che uomo è questo? Dopo una lunga strada, stanco, tutto impolverato, certamente affamato, non chiede né cibo né riposo, ma soltanto un posto dove poter pregare. Vado a vedere cosa fa». Egli arriva fino alla porta, la socchiude piano e trova il giovane rabbino che prega Dio e gli fa il racconto di tutta

57 cf m. BuBer, I racconti dei hassidim, Ugo Guanda editore, parma 1992, 214-217.

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la vita dell’oste come se fosse la sua, perché nella solidarietà totale che vi è tra gli uomini l’ha sentita come un peccato suo proprio. E l’oste si trova tutto a un tratto di fronte alla propria vita, così come Dio la vedeva. Il suo cuore si spezza, si è pente e comincia una vita nuova. Più tardi egli chiese allo stesso rabbino come mai tutti quelli che venivano da lui, alla fine erano indotti al pentimento e cambia-vano vita. E il rabbino diede la risposta seguente: «Quando viene a vedermi un uomo che non vuole pentirsi, scendo scalino per scalino nel più profondo del suo peccato e quando ho raggiunto il fondo della sua anima, lego la radice della mia anima alla radice della sua e unito a lui comincio a pentirmi del nostro peccato ed egli non può non pentirsi con me perché siamo diventati uno solo».

Le vicende di questo rabbino ci portano a concludere che, es-sendo il tetragramma il cuore del mistero divino rivelato a mosè, allora ogni uomo è vivente quando il nome si impadronisce di lui nella trascendenza dell’Essere creatore, come è stato per mosè, per Sussja e per quanti, in ogni tempo, sono diventati presenza di Yhwh nel mondo, ’ehyeh di ’ehyeh.

Angela Maria Lupo [email protected]

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ItA L’esserci dell’Amore che vede di Angela maria Lupo, cp

Partendo dall’affermazione di Ugo di san Vittore: «Ubi amor, ibi oculos», l’autrice analizza alcuni testi del libro dell’Esodo (2,23-25; 3,1-6; 3,7-10; 3,11-15) nei quali emerge che il Dio di Abramo, di Isacco e di giacobbe, nel rivelare a mosè il suo nome, ’ehyeh ’ăšer ’ehyeh, afferma la sua presenza attiva e dinamica a favore del suo popolo che «vede» oppresso dalla schiavitù. Il confronto con altri testi dell’At mette in luce che il nome di Dio è teofanico e per-formativo poiché traduce la sua realtà più profonda, il suo essere Amore. In Dio amare è vedere e l’Amore che vede non può rimanere chiuso nel mistero della sua assolutezza ma si china inevitabilmente sull’uomo per liberarlo e salvarlo.

fRA L’y être de l’Amour qui voitde Angela maria Lupo, cp

Partant de l’affirmation de Ugo di san Vittore « Ubi amor, ibi oculos », l’auteur analyse quelques textes du livre de l’Exode (2,23-25 ; 3,1-6 ; 3,7-10 ; 3,11-15) desquels il ressort que le Dieu d’Abraham, d’Isaac et de Jacob, en révélant son Nom à Moïse, ‘ehyeh ‘aser ‘ehyeh, affirme sa présence active et dynamique en faveur de son peuple qu’il « voit » opprimé par la servitude. Le parallèle avec d’autres textes de l’AT met en lumière que le Nom de Dieu est théo-phanique et efficace car il traduit sa réalité la plus profonde, son être Amour. En Dieu aimer c’est voir et l’Amour qui voit ne peut rester enclos dans le mystère de son absoluité mais se penche inévitable-ment sur l’homme pour le libérer et le sauver.

EnGThe being of the Love who seesAngela maria Lupo, CP

Starting with the premise of Hugh of Saint Victor, “Ubi amor, ibi oculos”, the author analyzes some texts of the Book of Exodus (2.23 to 25, 3.1 to 6, 3.7 to 10, 3, 11-15) in which it appears that the God of Abraham, Isaac, and Jacob, by revealing his name to Moses, ’ehyeh ’ăšer ’ehyeh, affirms his active and dynamic presence in favor of his people whom he “sees” oppressed by slavery. The comparison with

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other texts of the old testament shows that god’s name is both theophanic and performative because it represents his most profound reality, i.e., his being Love. In god to love is to see and the love that sees cannot be closed in the mystery of his absoluteness, but is inevi-tably inclined to man to free and save him.

SPA El estar ahí del Amor que vede Angela maria Lupo, cp

A partir de la afirmación de Hugo de san Víctor: “Ubi amor, ibi oculos”, la autora analiza algunos textos del libro del Éxodo (2,23-25; 3,1-6; 3,7-10; 3,11-15) en los cuales emerge que el Dios de Abraham, de Isaac y de Jacob, al revelar a Moisés su Nombre, ’ehyeh ’ăšer ’ehyeh, afirma su presencia activa y dinámica en favor de su pueblo al que “ve” oprimido por la esclavitud. La confronta-ción con otros textos del At pone en claro que el nombre de Dios es teofánico y performativo porque traduce su realidad más profunda, su ser Amor. En Dios amar es ver, y el Amor que ve no puede per-manecer cerrado en el misterio de su absoluto, sino que se inclina inevitablemente sobre el hombre para liberarlo y salvarlo.

Pol Obecność Miłości, która widzi Angela maria Lupo CP

Wychodząc od stwierdzenia Hugona od Św. Wiktora Ubi amor, ibi oculos, autorka analizuje kilka tekstów z Księgi Wyjścia (2,23-25; 3,1-6; 3,7-10; 3,11-15), z których wynika, że Bóg Abrahama, Izaaka i Jakuba, objawiając Mojżeszowi swe imię ’ehyeh ’ăšer ’ehyeh, po-twierdza swą aktywną i dynamiczną obecność, przez którą wspiera swój lud, który “widzi” uciśniony w niewoli. Zestawienie z in-nymi tekstami Starego Testamentu czyni widocznym, że imię Boga jest teofaniczne i performatywne, ponieważ ukazuje Jego głęboką prawdę, Jego bycie Miłością. W Bogu miłowanie jest widzeniem i miłość, która widzi, nie może pozostać zamknięta w misterium swej absolutności, ale w sposób konieczny pochyla się nad człowiekiem, aby go uwolnić i zbawić.

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«E subito uscì sangue e acqua» (Gv 19,34): una concentrazione di allusioni all’AT197-229

Sgorgò dal costato acqua e sangue. Non prendere alla leggera, o diletto,

il mistero!s. giovanni Crisostomo

introduzione

L’evento della fuoriuscita di sangue e acqua dal costato trafitto di Gesù (Gv 19,34), cui l’autore del quarto Van-gelo dà tanta rilevanza, è da lui stesso interpretato alla luce dell’At nei vv. 36-37. oltre a due citazioni esplicite, tali versetti contengono diverse allusioni all’At. Il presente contributo intende raccogliere le evocazioni anticotestamentarie di maggior ri-lievo contenute in questo testo, per valutarne l’eventuale presenza nell’intenzione dell’autore e mostrarne la ricchezza emergente per l’esegesi.

L’interesse del presente studio dipende dalla difficoltà d’interpre-tare l’evento descritto in gv 19,34, mentre l’evangelista ne rimarca l’assoluta importanza.1 Una nuova via all’interpretazione di questo

1 a conferma di tale difficoltà, basti citare i. de la Potterie, Studi di Cristologia Giovannea (Dabar. Studi biblici e giudaistici), Torino 21986, 172: «come sono interpretati il sangue e l’acqua dai commentatori contemporanei? Bisogna rico-noscerlo: confrontato con la rigogliosità delle interpretazioni antiche, il bilancio è qui piuttosto deludente, almeno per quanto riguarda il sangue. Si ha l’impres-sione di un certo smarrimento tra gli esegeti».

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«E suBito uscì sanguE E acqua» (gV 19,34): una concEntrazionE di allusioni all’at

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testo non può essere aperta senza riferirsi all’At, che è la via stessa additata dall’evangelista, il quale, per indicare il senso profondo dell’evento, impiega il metodo a lui più congeniale: il ricorso alla scrittura. Il nostro studio si basa sulla convinzione che il nt rimane spesso un enigma senza una conoscenza approfondita dello sfondo costituito dall’intera tradizione testuale dell’At e dell’At in quanto interpretato dalla liturgia e dalla tradizione orale ebraica.2

Il presente contributo, inoltre, ha un intento metodologico più ge-nerale, giacché è volto ad approfondire il modo in cui l’autore del quarto Vangelo allude volentieri all’At, anche quando non lo cita in modo esplicito. Di fronte ad alcuni testi giovannei, ogni lettore ha potuto avvertire talvolta un senso di «vertigine». Ciò si deve, oltre che alla profondità teologica dell’autore, anche allo spazio d’inter-pretazione che egli apre, concentrando in minimi dettagli ricche evo-cazioni dell’At.

Per quanto c o n c e r n e l’andamento

di gv 19,31-37, va notato anzitutto che il v. 31 costitui- sce l’introduzione

di tutta la pericope: si tratta della richiesta dei giudei che è il mo-tore propulsore dell’azione. Considerando le indicazioni di tempo e i soggetti delle azioni (Giudei – soldati – uno dei soldati) si nota una certa progressione dal generale al particolare, come se l’evan-gelista stesse mettendo sempre più a fuoco gli eventi e i personaggi intorno al corpo esanime di gesù, e in particolare al suo costato,

2 il presente articolo si poggia sull’indubitabile (ma purtroppo non ovvia) considerazione che solo su tale sfondo, la figura e il senso del nT possano emergere in tutta la loro ricchezza. La Bibbia ereditata dagli autori del nT, lungi dall’essere un testo «nudo», era già una Bibbia interpretata dalla tradizione orale e dalla liturgia: si veda in proposito F.G. voltaGGio, La oración de los padres y las madres de Israel. Investigación en el Targum del Pentateuco. La antigua tradición judía y los orígines del cristianismo (Biblioteca Midrásica 33), estella (navarra) 2010, 39-42.

1. il costato di gesù, centro focale di gv 19,31-37,

e l’adempimento della scrittura

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centro ideale di tutta la scena. tutto tende ai due eventi narrati nei vv. 33-34. Il primo evento (v. 33) è un’azione che Gesù non subisce: «non gli spezzarono le gambe». L’importanza del secondo evento è evidenziata, nel v. 35, dall’intervento solenne del testimone oculare, cui si aggiunge la finalità della testimonianza: suscitare la fede dei lettori/ascoltatori. Nei vv. 36-37 si dà la finalità dei due eventi nar-rati: il compimento di due passi scritturistici. La prima citazione (v. 36) pare connessa al primo evento (v. 33), cioè al fatto che a Gesù non furono spezzate le gambe. La seconda citazione (v. 37) è da collegare piuttosto all’evento del v. 34, la trafittura del costato di gesù. tutto il brano è incentrato sull’adempimento della scrittura.3

Persino nel descrivere l’ordine eseguito dai soldati, l’evangelista fa convergere tutta l’attenzione su gesù, anche a scapito della suc-cessione logica delle operazioni:4 Gesù è riservato per la fine (v. 33), pur stando nel mezzo. sembra qui di vedere compiuto quanto l’e-vangelista ha messo in bocca a gesù in 12,32: «E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». tramite tale focalizzazione, l’autore rileva il fatto straordinario del non avvenuto crurifragium per gesù. Questo primo evento è da lui interpretato con la citazione del v. 36, che si riferisce anzitutto all’agnello pasquale. Anche l’insi-stenza sulla Parasceve, di per sé superflua (già in 19,14 si era notato il particolare del giorno e dell’ora) e perciò voluta, sembra alludere al fatto che proprio in quella sera, al tramonto del sole, si dava inizio all’immolazione degli agnelli pasquali nel tempio.5

3 il fatto è tanto più rilevante quanto più si considerano le divergenze dai si-nottici. Dopo la morte di Gesù, l’attenzione di Marco si rivolge allo squarcio del velo del tempio e alla professione di fede del centurione (Mc 15,38-39); Matteo inserisce tra questi due eventi lo sconvolgimento della natura (Mt 27,51-54); Luca focalizza la sua attenzione sull’affermazione del centurione e alla reazione degli astanti (Lc 23,47-49). Giovanni si sofferma invece su due eventi originali, spiegati con due citazioni dalla Scrittura. Questi eventi sono originati dalla pre-occupazione dei Giudei, rispettata da pilato, di rimuovere i cadaveri dei giusti-ziati prima del tramonto, secondo quanto prescrive la Torah (Dt 21,22-23). Tale preoccupazione doveva essere particolarmente pressante in prossimità della solennità. ciò spiega la richiesta a pilato dell’applicazione del crurifragium, per accelerare la morte dei crocifissi e la loro deposizione. il rispetto di tale prescrizione ai tempi di Gesù è confermato da Giuseppe flavio, Bell 4,317; filone, Flacc 1,83; 11Q19 LXiv,6-13.

4 così nota r. FaBris, Giovanni (commenti Biblici), roma 1992, 986.5 Si veda J. Jeremias, Gerusalemme al tempo di Gesù. Ricerche di storia

economica e sociale per il periodo neotestamentario, roma 1989, 132-133.

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Che tutta la pericope sia incentrata al compimento della scrittura è confermato anche dal contesto precedente. già in 19,24 l’evange-lista nota l’adempimento di un passo della scrittura, dando rilevanza all’evento. In 19,28 è gesù stesso che interviene proprio per adem-piere la Scrittura; ma non ci si ferma qui. Giovanni pone l’accento sul fatto che Gesù muore dicendo: «È compiuto» (v. 30). Benché quest’espressione possa avere un significato più ampio, vi è qui un chiaro riferimento al compimento delle scritture. Ciò dimostra che anche la nostra pericope, che costituisce il climax della narrazione della passione, sia tutta incentrata sull’adempimento dell’At.

L’importanza del v. 34 è r ima rca t a

dall’eccezionale «in-trusione» dell’evan-gelista e testimone oculare nel v. 35.6

Quest’ultimo versetto, tipicamente giovanneo, è ridondante e ben co-struito, per ridestare l’attenzione del lettore all’evento straordinario; come nota s. Lyonnet, l’insistenza dell’autore indica che il fatto è ricco di significato e che egli vuole comunicare questo significato ai lettori.7 La paratassi accentua la sottolineatura dell’affermazione. Il versetto raccoglie in sintesi termini chiave di tutto il vangelo: la vi-sione (o` e`wrakw,j),8 la testimonianza (memartu,rhken, h` marturi,a), la verità di quest’ultima (avlhqh/, avlhqinh,), la finalità della fede (i[na kai. u`mei/j pisteu,ÎsÐhte, che peraltro è la finalità dell’intero vangelo: cf.

6 cf a. CarmiNati, È venuto nell’acqua e nel sangue. Riflessione biblico-patris-tica, Bologna 1979, 19; i. de la Potterie, «Le symbolisme du sang et de l’eau en Jn 19,34», Did 14(1984), 213.

7 cf s. lyoNNet, «il sangue nella trafittura di Gesù: Gv 19,31ss», in F. vattioNi (ed.), Atti della settimana Sangue e antropologia biblica (Roma, 10-15 marzo 1980), roma 1981, 740.

8 così nota s. CiPriaNi, «il sangue di cristo in S. Giovanni», in F. vattioNi (ed.), Atti della settimana Sangue e antropologia biblica (Roma, 10-15 marzo 1980), roma 1981, 728: «L’episodio per l’autore è altamente significativo, se egli sente il bisogno di aggiungere, per dare maggiore credibilità all’accaduto, la testimonianza di chi tutto ha visto con i propri occhi».

2. Brevi note esegetiche al v. 34, akmè della pericope

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20,31).. Ciò induce a pensare che gv 19,34 costituisca l’akmè della pericope e che la visione del costato trafitto e la testimonianza a essa relativa siano un punto culminante di tutto il suo vangelo.9

Lo stupore dell’evangelista traspare dall’uso dell’avverbio di tempo euvqu,j («subito») sebbene Giovanni non mostri una predile-zione particolare per quest’avverbio (a differenza di Marco, che lo utilizza ben 41 volte), le rimanenti due volte che lo utilizza lo fa in momenti decisivi del vangelo, in connessione con la glorificazione di Gesù (cf. Gv 13,30.32).

Il verbo e;nuxen significa propriamente «punse», ma, unito al se-guente evxh/lqen, ha certamente il significato di «trafiggere». Il ter-mine pleura, ha il significato generale di «lato» o «fianco» (nella LXX, in Es 27,7 è riferito al «lato» dell’altare, in 1Re 6,8.15 e in Ez 41,5-9 al «lato» del tempio), ma può avere quello più specifico di «costato» o «costola» (come in Gn 2,21-22[LXX]). Questo termine ricorre per ben tre volte nei racconti della risurrezione (20,20.25.27).

Per quanto riguarda il sintagma «sangue e acqua» (ai-ma kai. u[dwr) notiamo per ora che questo è l’unico caso nel quarto Vangelo dove i due termini compaiono così uniti. Un approfondimento dei due vocaboli secondo l’uso che se ne fa in giovanni, è oggetto delle seguenti pagine. Basti qui accennare al fatto che, pur costituendo sangue e acqua una realtà unitaria, l’accento sembra cadere sul se-condo elemento. Ciò che suscita la sorpresa di chi vede (v. 35) non è tanto il sangue (è pressoché normale che questo fuoriuscisse), ma l’acqua e l’acqua unita al sangue.10

9 per questa ragione, è veramente arduo condividere l’opinione di r. Bult-mann, per cui il v. 34 sarebbe un’aggiunta redazionale, in quanto si riscontre-rebbe in esso un’assenza di temi tipicamente giovannei. concordiamo invece con l’affermazione di s. CiPriaNi, «il sangue di cristo», 728: «Direi che s. Gio-vanni vi è tutto, con la sua ricchezza di simbolismo e con gli evidenti rimandi a se stesso».

10 cf s. CiPriaNi, «il sangue di cristo», 728.

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gli autori del nt erano compenetrati

di At, sia per un mo-tivo culturale e litur-gico, ovvero a causa

del loro essere ebrei, sia soprattutto per la loro convinzione teologica dell’adempimento di tutte le scritture d’Israele in gesù Cristo.11

Il dato inconfutabile che gli autori del nt fossero «imbevuti» delle Scritture aiuta a capire perché essi si riferiscano spesso all’AT non con una rigorosa fedeltà al testo, ma volendo coglierne il suo senso pieno (a tale proposito, non va dimenticato che gli autori del nt avevano a disposizione una traduzione testuale ampia).12

se è necessario approfondire la conoscenza dello sfondo del nt nella sua ampiezza (letteratura rabbinica, scritti apocrifi, rotoli del mar morto, sfondo ellenistico, ecc.), non va dimenticato che in primo luogo «bisogna intensificare il retroterra culturale del Vangelo, che è innanzitutto l’AT nell’efflorescenza della galassia del giudaismo, in tutte le sue espressioni».13 Ciò non va dato mai per scontato.14

si lamenta che oggi qualche studioso possa asserire che, sebbene fonti del quarto Vangelo siano il tm e la LXX, l’autore stesso ri-manga indifferente a esse.15 In realtà, il rapporto del Vangelo di gio-vanni con l’AT appare notevole: benché, infatti, siano solo diciotto le citazioni giovannee esplicite dell’At, il modo di citare indica un

11 per tale ragione, è impossibile non fare i conti con das Judische am Chri-stentum, cf r. PeNNa, «appunti sul come e perché il nuovo Testamento si rap-porta all’antico», Bib 81(2000) 102-104, dove si trova un’ottima sintesi del tema.

12 per queste ragioni, s. lyoNNet, Il Nuovo Testamento alla luce dell’Antico (Lezioni tenute dall’autore alla VII Settimana Biblica del Clero, Napoli, luglio 1968), Brescia 1972, 16, insiste sul fatto che «il nuovo Testamento è spesso un enigma per chi non si riferisca all’antico».

13 m. NoBile, «alcune note sull’antico Testamento del vangelo Giovanneo», in l. Padovese (ed.), Atti del IV Simposio di Efeso su S. Giovanni Apostolo (Tur-chia: la chiesa e la sua storia 6), roma 1994, 39.

14 J. duNCaN m. derrett, The Victim: the Johannine Passion Narrative Reex-amined, Shipston-on-Stour 1993, 4, ha affermato: «Yet a general indifference to Old-Testament themes prevails, and has been made almost into a creation of “correctness”. The problem known as “The Old Testament in the new” remains meanwhile».

15 cf J. duNCaN m. derrett, The Victim, 4.

3. il riferimento all’at nel Vangelo di giovanni

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rapporto strettissimo con l’At, come vedremo.16 Per dare solo un esempio, alcuni esegeti continuano a indicare il grande ruolo giocato dal libro del profeta Zaccaria nella narrazione della passione e, più in generale, in tutto il Vangelo di giovanni.17

Riguardo alla forma concreta delle citazioni esplicite, è interes-sante notare che, mentre nella prima parte del Vangelo esse sono introdotte con la formula tradizionale «sta scritto» o «dice», da gv 12,38 in poi si ha prevalentemente la formula di citazione più so-lenne «affinché si compisse». Ciò conferma l’interesse, già da noi ri-levato, che l’autore dà al compimento delle Scritture: la fine di Gesù è, per lui, essenzialmente un compimento.

Bisogna evitare il pericolo di limitare l’uso giovanneo delle scrit-ture alla citazione esplicita. Al contrario, noi vorremmo qui foca-lizzare l’attenzione sull’ingente numero riferimenti impliciti e al-lusioni. Il Vangelo di Giovanni allude spesso a figure, personaggi, eventi e istituzioni dell’At.

Riguardo alla forma del testo citato, si trova l’intera gamma delle possibilità: il testo può riferirsi alla versione greca della LXX, al testo ebraico, al Targum, alla forma testuale attestata nei rotoli del mar morto. tra queste possibilità, un riferimento prioritario è da attribuire «alla tradizione testuale manifestantesi nelle due versioni più importanti, quella aramaica dei Targumim e quella greca dei LXX».18

Per alcuni, ciò che rende stupefacente l’impiego delle scritture da parte dell’autore del quarto Vangelo non è tanto la quantità dei rife-rimenti, ma la loro caratteristica inconfondibile: talvolta, come nota

16 cf m. NoBile, «alcune note sull’antico Testamento», 31; ma s. Grasso, Il Vangelo di Giovanni. Commento esegetico e teologico, roma 2008, 839, ne conta quattordici; cf anche m. mazzeo, Vangelo e lettere di Giovanni. Introdu-zione, esegesi e teologia, Milano 2007, 34. per un’analisi approfondita delle citazioni scritturistiche in Gv, si veda G. reim, Studien zum alttestamentlichen Hintergrund des Johannesevangeliums (MSSnTS 22), cambridge 1974; e.d. Freed, Old Testament Quotations in the Gospel of John (nT.S 11), Leiden 1965; circa le citazioni esplicite, cf. B.G. sCHuCHard, Scripture Within Scripture. The Interrelationship of Form and Function in the Explicit Old Testament Citations in the Gospel of John (SBL.DS 133), atlanta 1992.

17 cf J. duNCaN m. derrett, The Victim, 137; F.F. BruCe, «The Book of Zechariah and the passion narrative», BJRL 43(1961), 336-353; F. maNNs, «Zacharie 12,10 relu en Jean 19,37», SBFLA 56(2006), 309.

18 m. NoBile, «alcune note sull’antico Testamento», 30.

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nobile, «la citazione non ha un riferimento univoco, tanto che si può parlare, come dice il Cothenet, di “citation confluente”».19 Egli porta come esempio la citazione in gv 6,31, che può riferirsi a Es 16,4.15, ma anche a Sal 78,24 o a Ne 9,15; ma ancora più sorpren-dente è la citazione presente in 7,38, di fondamentale importanza per noi, perché molto legata al nostro testo: tale citazione si riferisce, a suo parere, a una conflazione scritturistica formatasi intorno al tema dell’acqua zampillante nel deserto, così com’è stato sviluppato nelle tradizioni targumiche a Es 15,22.25, a Es 15,27 e Nm 33,9 e a Es 17,2-6 e nm 20,1ss, in connessione con il racconto dell’acqua sgor-gante dal tempio di Ez 47,1-12. non sembra perciò esagerato as-serire che talvolta le citazioni giovannee siano legate a conflazioni scritturistiche, già note forse nella tradizione ebraica: in conclusione, l’autore del quarto Vangelo è abile nel creare delle concentrazioni di allusioni all’At. 20

Le due citazioni dell’At co-stituiscono la

chiave indispensabile per comprendere ciò che l’autore vuole in-dicare nell’evento del

fiotto di sangue e acqua dal costato di Gesù. L’insistenza sull’impor-tanza dell’evento, espressa nel v. 35, prepara la comunicazione del suo significato. Come avviene tale comunicazione? D’importanza fondamentale è per noi il fatto che, per introdurre il suo lettore nel mistero dell’evento eccezionale del v. 34, giovanni rimanda il let-tore all’At.21

La prima citazione «Non gli sarà spezzato alcun osso» (v. 36: VOstou/n ouv suntribh,setai auvtou/) spiega anzitutto la ragione dell’i-

19 m. NoBile, «alcune note sull’antico Testamento», 31.20 Una dettagliata esposizione dei problemi principali riguardanti le forme

testuali delle due citazioni e delle soluzioni degli esegeti in proposito, si troverà in m.J.J. meNkeN, Old Testament Quotations in the Fourth Gospel. Studies in Textual Form (cBeT 15), Kampen 1996, 147-185.

21 cf s. lyoNNet, «il sangue nella trafittura di Gesù», 740.

4. il sottofondo anticotesta-mentario di gv 19,34:

le due citazioni esplicite20

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nadempienza del crurifragium per gesù. L’inadempienza dei sol-dati non si deve, per l’evangelista, alla mera constatazione che gesù fosse già morto (v. 33). Egli vede più in profondità: in questa ina-dempienza scorge un adempimento della scrittura. La citazione è in-trodotta in modo solenne: «Questo, infatti, avvenne perché si adem-pisse la Scrittura» (evge,neto ga.r tau/ta i[na h` grafh. plhrwqh/|).

È difficile stabilire con esattezza da dove provenga la citazione seguente: gli studiosi oscillano tra due riferimenti principali. Il primo possibile riferimento è Es 12,10.46(LXX), dove è descritto il rituale dell’agnello pasquale. In entrambi i versetti, si legge: kai. ovstou/n ouv suntri,yete avpV auvtou/ («e non gli spezzerete alcun osso») una traduzione abbastanza fedele a Es 12,46 del TM. La difficoltà viene dal fatto che il verbo, nella LXX, è all’attivo e alla seconda persona plurale, mentre nella citazione giovannea si trova al passivo e alla terza persona singolare. Anche in nm 9,12 il verbo è all’at-tivo. Il futuro passivo ricorre invece nel Sal 34(33),21(LXX): ku,rioj fula,ssei pa,nta ta. ovsta/ auvtw/n e]n evx auvtw/n ouv suntribh,setai. Il salmo si riferisce alla sorte del giusto. sebbene tale allusione, come vedremo tra breve, non sia da trascurare,22 il riferimento principale è all’agnello pasquale. Ciò è confermato dalla cornice pasquale in cui l’autore del quarto Vangelo colloca la morte di gesù.23 L’autore, infatti, insiste a più riprese (vv. 31.42) sul fatto che si era nel giorno della Parasceve, poco prima del tramonto del sole, tempo in cui si dava inizio al rito dell’immolazione degli agnelli nel tempio.

Un altro riferimento a vantaggio di questa ipotesi è il dettaglio dell’issopo (19,29),24 pianta che si usava proprio per l’aspersione del sangue dell’agnello, secondo quanto narrato in Es 12,21ss.25 L’evan-gelista ha quindi davanti in primo luogo Es 12,46. Va notato però

22 r. BultmaNN, Das Evangelium des Johannes, Göttingen 161959, 524, ri-tiene che nella citazione Gv ricorra sì al Sal 34, ma alludendo volutamente a es 12,46.

23 cf r. FaBris, Giovanni, 990; s. lyoNNet, «il sangue nella trafittura di Gesù», 741.

24 cf J.P. Heil, Blood and Water. The Death and Resurrection of Jesus in John 18-21 (cBQMS 27), Washington 1995, 107.

25 cf J. mateos – J. Barreto, Il Vangelo di Giovanni. Analisi linguistica e commento esegetico, assisi 1982, 772; a.m. luPo, La sete, l’acqua, lo spirito. Studio esegetico e teologico sulla connessione dei termini negli scritti giovannei (anGreg 289), roma 2003, 240.

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che, quando un autore del nt si riferisce a un evento dell’At, vuole sempre rifarsi a tutto il contesto dell’episodio come avente valore fi-gurativo.26 Così facciamo nostra l’affermazione di s. Lyonnet: «gio-vanni fa ricorso precisamente ad una circostanza secondaria dell’a-gnello ebraico per provare che gesù è il vero Agnello Pasquale».27

Degno di nota è che, nel rito dell’agnello pasquale come descritto in Es 12, il gesto principale non era quello della manducazione, ma quello dell’effusione del sangue, con cui si dovevano tingere gli sti-piti per allontanare lo sterminio e fare sì che Dio passasse oltre.28 Il sangue dell’agnello consacra così le case degli Ebrei. tutto ciò permette di entrare più in profondità nel senso dell’evento descritto nel v. 34: il sangue di Cristo consacra l’umanità così come il sangue dell’agnello consacrò le dimore degli Israeliti.

J.P. Heil nota che l’uccisione dell’agnello pasquale era interpre-tata come un sacrificio, poiché in Es 12,21.27(LXX) si usano i ter-mini qu,sate-qusi,a.29 L’autore del quarto Vangelo vuole così espri-mere l’idea che la morte di gesù come agnello pasquale non salva solo dallo sterminio, ma toglie anche il peccato del mondo. già dall’inizio del Vangelo, infatti, l’autore aveva messo in bocca a gio-vanni il Battista: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!» (Gv 1,29). Quest’affermazione prepara Gv 19,33.36.30 Così gesù è presentato qui come il nuovo e perfetto agnello pasquale, immolato per la liberazione dalla schiavitù del peccato e per la sal-vezza del mondo. D’altra parte, il fatto che la forma del verbo conte-nuto nella citazione sia letteralmente uguale a quella contenuta in sal 34(33),21(LXX) può far pensare che l’autore abbia in mente anche

26 s. lyoNNet, Il Nuovo Testamento alla luce dell’Antico, 95, accosta tale intenzione a quella dei padri della chiesa.

27 s. lyoNNet, Il Nuovo Testamento alla luce dell’Antico, 95; si veda anche m. miGueNs, «“Salió sangre y agua” (Jn 19,34)», SBFLA 14(1963-64), 5-31; J.m. Ford, «“Mingled Blood” from the Side of christ (John xix.34)», NTS 15/3(1969), 337-338; H.C. WaetJeN, The Gospel of the Beloved Disciple. A Work in Two Editions, London 2005, 405-406.

28 cf F. maNNs, L’Évangile de Jean à la lumière du Judaïsme (SBfa 33) Jeru-salem 1991, 424.

29 cf J. P. Heil, Blood and Water, 107.30 J. P. Heil, Blood and Water, 106, sostiene un affascinante collegamento

tra la nostra pericope (sangue dell’agnello – acqua che è lo Spirito) e Gv 1 (agnello che toglie/porta il peccato del mondo – battesimo di acqua e batte-simo in Spirito)

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il giusto in esso menzionato. A ciò va aggiunto che più della metà delle citazioni esplicite fatte dall’autore del quarto Vangelo sono tratte proprio dai salmi. Come tenteremo di mostrare nelle pagine seguenti, i due riferimenti all’agnello pasquale e al giusto potevano essere già uniti nella tradizione e quindi non si escludono a vicenda.

L’origine della seconda citazione «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (v. 37: :Oyontai eivj o]n evxeke,nthsan), che l’evan-gelista impiega per spiegare l’evento descritto nel v. 34, è meno dif-ficile da individuare. Si tratta senza dubbio di Zc 12,10. Sembra più arduo, invece, determinare quale forma testuale egli abbia scelto.31 Il TM ha: «Guarderanno a me, colui che hanno trafitto» (Wrq›D›-rv,a] tae yl;ae WjyBihiw>). La LXX traduce così: «guarderanno verso me, colui per il quale hanno danzato» o «colui che hanno ingiuriato» (evpible,yontai pro,j me avnqV w-n katwrch,santo). tale traduzione è spiegabile con la confusione nella grafia tra il verbo rqd («colpire, trafiggere») e dqr («danzare», «ingiuriare»); è possibile che per alcuni scribi fosse ripugnabile l’idea di un «Dio trafitto» e abbiano voluto così «tar-gumizzare» l’espressione. solo la versione di simmaco, traducendo evpexeke,nthsan, è simile a gv 19,37. La traduzione dell’evangelista era comunque nota: Ap 1,7 usa la stessa forma evxeke,nthsanÅ Il verbo evkkente,w è sempre usato nella LXX per esprimere una trafittura di lancia o di spada. L’evangelista ha scelto questo verbo per applicare il testo di Zc 12,10 a Gesù trafitto. Secondo la consueta tecnica di citazione, l’autore richiama tutto il contesto immediato di Zc 12 e non solo la frase citata.32

Alcuni vanno oltre e pensano che lo sfondo da considerare sia Zc 12-14, che rappresenterebbe un blocco fondamentale per la costru-zione di tutto il testo.33 Certo è che, come notato sopra, l’autore del

31 per un’analisi della tradizione testuale di Zc 12,10 nelle varie versioni e delle sue interpretazioni nella tradizione ebraica antica, si veda F. maNNs, «Zacharie 12,10», 302-307.

32 s. lyoNNet, Il Nuovo Testamento alla luce dell’Antico, 95, sulla base di tale convinzione sviluppa la sua esegesi di questo passo.

33 d.J. moo, The Old Testament in the Gospel Passion Narratives, Sheffield 1983, 218, usa l’espressione «building block». per F. maNNs, L’Évangile de Jean, 424, e per J. duNCaN m. derrett, The Victim, 137, il contesto da conside-rare è Zc 12-13.

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quarto Vangelo mostra una predilezione per Zaccaria34e in partico-lare per i cc. 12-14. Ad ogni modo, la tesi che l’evangelista abbia ci-tato questo testo per riferirsi anche a tutto il suo contesto immediato è facilmente dimostrabile. In Zc 12, in un contesto escatologico, si parla della morte di un personaggio misterioso, per cui si farà lutto e come un figlio unico, come un primogenito (Zc 12,10[LXX] traduce w`j evpV avgaphto.n…w`j evpi. prwtoto,kw|, che contiene due titoli che diverranno titoli cristologici). Questo giorno d’angoscia e terrore (12,2.4), di lamento e grande lutto (su cui s’insiste in modo parti-colare in 12,11-14), sarà lo stesso giorno in cui Dio riverserà sulla casa di Davide e sugli abitanti di gerusalemme «uno spirito di grazia e di consolazione» (12,10). Di tale giorno si continua a parlare nei cc. 13-14 e fin da Zc 13,1 si annuncia che proprio in quel giorno di catastrofe avverrà qualcosa di stupendo: «Vi sarà una sorgente zam-pillante per lavare il peccato e l’impurità» (Zc 13,1; la LXX traduce «luogo» invece di «sorgente»). Sulla possibile allusione a Zc 13-14 torneremo più avanti.

Vari esegeti sono con-vinti che il

rimando all’At del nostro testo non si fermi alle due citazioni esplicite.35 Intraprendendo ora un cammino difficile, si passeranno in rassegna le possibili al-lusioni, valutandone la plausibilità. Poiché la rilevanza dell’evento della fuoriuscita di sangue e acqua è massima per l’evangelista e sopravanza il fenomeno contingente, non c’è da meravigliarsi se egli voglia accumulare molti rimandi biblici nell’uso di pochi termini. Le allusioni seguenti non sono elencate in conformità a un criterio par-ticolare: talvolta esse riguardano più il sangue, talvolta più l’acqua, spesso entrambi; in non pochi casi, le stesse allusioni possono mo-

34 È interessante notare che il libro che cita e allude maggiormente al profeta Zaccaria è l’apocalisse (forse nel circolo giovanneo era un libro di profezia molto meditato, perché molto «messianico»?).

35 cf in proposito J. duNCaN m. derrett, The Victim, 8; r.e. BroWN, La morte del Messia. Dal Getsemani al Sepolcro. Un commentario ai racconti della pas-sione nei quattro vangeli (BTcon 108), Brescia 1999, 1334.

5. le possibili allusioni all’at

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strare un legame tra loro. Per questa ragione, intendiamo fornire in questo capitolo solo una carrellata in ordine sparso delle possibili allusioni, raccogliendole alla fine in una sintesi più organica.

L’acqua dalla roccia e la festa di Sukkot

Una delle allusioni bibliche più indicate dagli esegeti in gv 19,34 è quella della roccia sgorgante acqua nel deserto. Ciò proviene dal collegamento tra gv 19,34 e gv 7,37-39. La solenne affermazione di gesù contenuta in questi ultimi versetti è collocata nel «grande giorno» della festa (VEn de. th/| evsca,th| h`me,ra| th/| mega,lh| th/j e`orth/j); anche in Gv 19,31-37 siamo in una festa e nel «grande giorno» (v. 31: h=n ga.r mega,lh h` h`me,ra). In 7,37-39 gesù stesso, in una cornice solenne (il grande giorno della festa di Sukkot) e in modo solenne (levatosi in piedi e a gran voce, v. 37), cita la Scrittura: potamoi. evk th/j koili,aj auvtou/ r`eu,sousin u[datoj zw/ntoj. sebbene sia contro-versa la questione se il pronome auvtou/ si riferisca al credente o a Gesù e sia difficile stabilire esattamente da dove sia tratta questa citazione,36 i legami con il nostro testo gv 19,31-37 sono innegabili. La citazione presente in gv 7,38 è da molti collegata all’evento della fuoriuscita di acqua dalla roccia nel deserto (Es 17,1-7; Nm 20,1-13).37 Per alcuni, il riferimento a quell’evento è operato attraverso il collegamento diretto con Sal 78,15-16.20, dove nella versione greca si usa lo stesso verbo che in gv 7,38 per lo «scorrere» dell’acqua (anche in Is 48,21).

tutto ciò sarebbe confermato dalla cornice in cui l’evangelista colloca l’affermazione di gesù: la festa di Sukkot, che si protraeva per sette giorni, era un memoriale del miracolo dell’acqua nel de-serto38 e comportava libagioni d’acqua39 e preghiere per la pioggia;

36 Si segnalano come possibili fonti is 12,3; 43,20; 44,3; 55,1; 58,11; ez 1-12; Gl 3,1; 4,18; Zc 13,1; 14,8.

37 Questo è il riferimento più probabile per s. CiPriaNi, «il Sangue di cristo», 729-30.

38 cf s. lyoNNet, Il Nuovo Testamento alla luce dell’Antico, 103.39 cf J. Jeremias, Gerusalemme al tempo di Gesù, 405; si veda anche p.

259, nota 106. Durante la festa di Sukkot, il sommo sacerdote faceva libagioni d’acqua e di vino in due fori sotto l’altare, che comunicavano con le acque dell’abisso, come rito di propiziazione per la pioggia; questo sottofondo non

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la festa era accompagnata dalle letture profetiche riguardanti la sor-gente escatologica che avrebbe rigenerato sion. non va dimenticato che, fra tali letture, il profeta Zaccaria, che annuncia tale sorgente zampillante per gli abitanti di Gerusalemme (Zc 13,1) e le acque vive sgorganti da Gerusalemme (14,8), doveva avere un’importanza notevole, giacché esso termina proprio con la menzione della cele-brazione della festa di Sukkot (Zc 14,16-19).

Il collegamento tra gesù e la roccia sgorgante nel deserto era già stato fatto, prima della stesura del Vangelo, da Paolo in 1Cor 10,4. Come sopra accennato, ciò che stupisce il testimone oculare non è tanto la fuoriuscita di sangue dal corpo di Gesù (che sarebbe stata del tutto naturale), ma quella dell’acqua, o meglio del sangue unito all’acqua. L’enfasi è sul secondo elemento. In gv 7,39 si spiega la citazione dicendo che gesù intendeva fare un collegamento tra acqua e Spirito, dopo la sua glorificazione, che per l’evangelista è il momento del suo innalzamento sulla croce. ora, in gv 19,34, dopo la glorificazione e la resa dello Spirito, menziona nuovamente quest’acqua.

Come appendice, notiamo che nel Targum Pseudo-Jonathan a nm 20,11 la roccia del deserto fa uscire prima sangue e poi acqua, quando mosè la percuote con il bastone due volte.40 non conosciamo purtroppo l’antichità della tradizione sottostante a questo testo e sa-rebbe perciò audace collegarla direttamente a gv 19,34.41 Ad ogni modo, ci sono motivi per collegare gv 19,34 con gv 7,37-39 e forse, attraverso quest’ultimo, anche con il racconto della roccia colpita sgorgante acqua nel deserto.

deve essere trascurato, come nota F. maNNs, Le symbole eau-esprit dans le ju-daïsme ancien (SBfa 19), Jerusalem 1983, 292.

40 cf J. duNCaN m. derrett, The Victim, 36; occorre notare che la tradizione della fuoriuscita di sangue e acqua dalla roccia poteva essere antica, essendo basata sull’accostamento dei testi del Sal 78,20 (cf. anche Sal 105,41) e di Lv 15,25. nel primo testo, ove si fa riferimento al miracolo dell’acqua sgorgata dalla roccia, si usa il verbo bwz, che nel secondo testo del Lv è usato per indicare il flusso di sangue. Tale accostamento è esplicito in ShemR 3,13.

41 cf F. maNNs, L’Évangile de Jean, 424.

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Il sangue dei sacrifici e il sangue dell’alleanza

Per alcuni, l’evangelista ha dato rilevanza all’evento del v. 34, in riferimento non solo all’agnello pasquale, ma anche ai sacrifici dell’At.42 Vale la pena di sondare la plausibilità di questa seconda eventuale allusione. Come in molte religioni antiche, anche nell’At, il sangue è sede della vita;43 basti citare in proposito Lv 17,11: «La vita della carne è nel sangue. Perciò vi ho concesso di porlo sull’al-tare in espiazione per le vostre vite; perché il sangue espia, in quanto è la vita (vp,N<B; aWh ~D’h;, dove il bet è da interpretare come bet essen-tiae, n.d.r.)».

Nell’AT, il rito essenziale del sacrificio è l’effusione del sangue: il sangue della vittima è restituito a Dio e con esso è asperso l’altare (Es 29,16; Lv 3,2), il sommo sacerdote (Es 29,21), il velo del tempio (Lv 4,6; Nm 19,4). Il sangue della vittima sacrificale ha virtù espiatrice (Lv 16,6.15-17) e purificatrice (Lv 14,1ss), com’è testimoniato in Eb 9,22: «secondo la Legge, infatti, quasi tutte le cose vengono pu-rificate con il sangue, e senza spargimento di sangue non esiste per-dono». Nei sacrifici di purificazione e di espiazione, e specialmente nello Yom Kippur, l’effusione del sangue dava la riconciliazione con Dio. Da ciò si può dedurre che il sangue significa allo stesso tempo morte e vita.44 Ci si può così domandare: è possibile che l’autore del quarto Vangelo, pur riferendosi all’immolazione dell’agnello pa-squale, abbia voluto alludere più ampiamente al fatto che il sangue uscito dalla vittima per eccellenza, versato in remissione dei peccati e per la purificazione (l’unione del sangue con l’acqua, acqua che rende mondi), fosse il punto di arrivo dei sacrifici dell’AT e in par-

42 r.e. BroWN, La morte del Messia, 1333, esprime così questa possibi-lità: «Giovanni stava pensando qui a Gesù come l’agnello pasquale o più in generale, come alla vittima sacrificale, tentando di mostrare che egli aveva adempiuto ai requisiti che il sangue della vittima dovesse fluire al momento della morte cosicché potesse essere asperso?».

43 il sangue costituiva l’elemento divino nell’uomo: era sacro. il sangue era in un certo modo per gli ebrei ciò che era l’anima per i greci: il portatore della vita. Questo paragone di s. lyoNNet, Il Nuovo Testamento alla luce dell’Antico, 95, va comunque preso con cautela.

44 cf d.J. moo, The Old Testament, 218.

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ticolare dei riti di espiazione dello Yom Kippur?45 Quest’interpreta-zione è sicuramente presente nella Lettera agli Ebrei (cf. 9,15-28).

Il sangue non ha tuttavia solo forza espiatrice: esso santifica e consacra; in Es 29,15-21 il sacerdote e le sue vesti sono consacrati proprio dal sangue delle vittime sacrificali. È interessante notare che nel rito di consacrazione di Aronne e dei suoi figli in Es 29, il primo gesto che essi sono chiamati a fare è il lavaggio con acqua (v. 4), che li dispone a indossare le vesti. In seguito, queste vesti saranno asperse dal sangue dell’altare (v. 21). In Lv 16, il sangue riveste un’importanza essenziale (vv. 14-15), ma si menziona anche il lavaggio del sacerdote con l’acqua (vv. 23-24). Il collegamento tra sangue e acqua nei sacrifici dell’AT andrebbe approfondito. En-trambi erano usati come elementi per l’aspersione, ma qual è la dif-ferenza tra le due aspersioni? Ritorneremo sul tema più avanti, pre-stando particolare attenzione a nm 19, dove pare vi sia un legame tra aspersione del sangue – acqua purificatrice – giovenca rossa.

È impossibile far riferimento ai sacrifici dell’AT, senza consi-derare il rapporto essenziale di questi con l’alleanza. È sufficiente leggere Es 24,5-8 per notare che il rito essenziale nella stipulazione dell’alleanza è il rito del sangue.46 In Es 24,6-8 si narra che mosè fece aspergere l’altare e il popolo con il sangue dei sacrifici di co-munione, proclamando (v. 8): «Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi» (~k,M›[i hw»hy> tr;K› rv,a] tyrIB.h;-~d; hNEhi). Così «il sangue dell’alleanza» unisce Dio e il popolo in comunione di vita e in un vincolo di sangue quasi parentale. Va constatato che, per adempiere questo rito, il taglio delle vittime era talmente importante che, com’è risaputo, in ebraico l’espressione usuale per stringere un’alleanza è letteralmente «tagliare un’alleanza» (tyrb twrkl). si potrebbe pensare, pertanto, che il «taglio» del costato di gesù e il sangue uscito desti l’interesse dell’evangelista anche per un riferi-mento all’alleanza.

non c’è dubbio che nei sinottici e in Paolo, il sangue di Cristo è interpretato come «sangue della nuova alleanza» in stretto riferi-mento con la frase di Mosè sopra riportata (Mt 26,28; Mc 14,24; Lc

45 cf a. CarmiNati, È venuto nell’acqua e nel sangue, 48.46 s. lyoNNet, Il Nuovo Testamento alla luce dell’Antico, 71, insiste particolar-

mente su questo punto nell’esegesi di Gv 19,31-37.

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22,20; 1Cor 11,25). Giovanni non riporta il racconto dell’istituzione dell’Eucarestia, ma è senza dubbio al corrente della sua tradizione. Passando per tale tradizione, è difficile negare che l’evangelista non stia pensando in gv 19,34 al sangue dell’alleanza.47 se ciò è vero, il sangue di Cristo, sangue della nuova alleanza, è effuso dal suo costato in unione con l’acqua sia per lavare il peccato (sangue del sacrificio in remissione dei peccati), sia per realizzare una totale ri-conciliazione e unione tra Dio e l’uomo (sangue dell’alleanza).

L’acqua della purificazione e l’acqua dei sacrifici

Nell’AT, l’acqua è il mezzo per eccellenza per la purificazione fisica. Insieme al fuoco, al sangue e all’olio, è impiegato nelle pu-rificazioni rituali, per cancellare l’impurità. Le viscere delle vittime sacrificali dovevano essere lavate con acqua (cf. Es 29,17; Lv 1,9.13; 8,21; 9,14).

Per alcuni, l’acqua che esce dal costato trafitto e su cui natural-mente verte lo stupore dell’evangelista, significa essenzialmente per l’evangelista una purificazione.48

In nm 19, l’acqua lustrale si ottiene con le ceneri di una gio-venca rossa, immolata e arsa fuori dall’accampamento (vv. 1-10). Il rituale dell’immolazione della giovenca è minuzioso. Il sacerdote Eleazaro deve prendere del sangue dell’animale con il suo dito e spruzzare con esso la parte anteriore della tenda della riunione (v. 4). Poi deve lavarsi le vesti e il corpo con acqua (vv. 7-8). Le ceneri della giovenca rossa, preparate con questo rito, servono a cancel-lare l’impurità contratta per il contatto con un morto (vv. 11-16). Il sacrificio, le ceneri della giovenca rossa (per molti il colore vuole richiamare il sangue)49, l’acqua, sono così segni e strumenti di puri-ficazione. Nel v. 17 si dice che per l’impuro si prenderanno le ceneri e vi si porrà sopra «acqua viva»; la LXX traduce quest’espressione

47 cf J. duNCaN m. derrett, The Victim, 182-183, che vedrebbe un collega-mento anche con Mt 27,24-25. y. simoeNs, Secondo Giovanni. Una traduzione e un’interpretazione, Bologna 2000, 782, nel commentare il fiotto di sangue in Gv 19,34, conclude: «Questo sangue è il sangue dell’alleanza».

48 cf J. duNCaN m. derrett, The Victim, 183.49 in proposito, occorre ricordare l’assonanza, nella lingua ebraica, tra ~da

(«rosso») e ~d («sangue»).

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con u[dwr zw/n, un sintagma che in questa forma ricorre solo qui e in Zc 14,8 (altro passo legato a Gv 19,31-37), e che per il Vangelo di giovanni è di grande importanza. Quest’acqua lustrale è capace di purificare quanto il fuoco (cf. Nm 31,22-23): possiede in sé una grande potenza. Il fascino di tale acqua potrebbe essere stato accre-sciuto, nell’attento lettore dell’At, dal racconto che segue il testo del rituale delle acque lustrali: il miracolo dell’acqua che sgorga dalla roccia nel deserto (Nm 20), di cui abbiamo già trattato.50

L’agnello e il giusto/servo

Per alcuni autori, il sottofondo anticotestamentario più probabile per l’interpretazione giovannea degli eventi successivi alla morte di gesù, è il riferimento al giusto del sal 34. secondo la loro opinione, la prima citazione presente nella pericope non si riferirebbe tanto al rito dell’agnello pasquale, ma soprattutto alla figura del giusto per-seguitato. Questo non solo per l’impiego della stessa forma verbale (futuro passivo) in Gv 19,36 e in Sal 34(33),21(LXX), ma anche perché quando Giovanni usa il termine «Scrittura» (come in 19,36) non cita mai un passo della torah e, specialmente durante il racconto della passione, egli trae le sue citazioni esclusivamente dal libro dei Salmi e dal profeta Zaccaria.51 In questo salmo, il giusto è protetto da Dio, mentre altrove si allude al giudizio divino subito dal pecca-

50 L’importanza del rituale delle ceneri della giovenca rossa è rimarcata dall’autore della Lettera agli ebrei in 9,13-14: «Se il sangue dei capri e dei vitelli e la cenere di una giovenca, sparsa su quelli che sono contaminati, li santificano purificandoli nella carne, quanto più il sangue di cristo – il quale, mosso dallo Spirito eterno, offrì se stesso senza macchia a Dio – purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, perché serviamo al Dio vivente?». Qui, il sacrificio (sangue delle vittime) e la cenere della giovenca (collegata stretta-mente all’acqua della purificazione) santificano e purificano: il sangue di cristo è collegato a queste realtà come compimento superiore.

51 m.l. riGato, «Gesù “l’agnello di Dio”, “colui che toglie il peccato del mondo” (Gv 1,29), nell’immaginario cultuale giovanneo. Secondo Giovanni Gesù muore il 13 durante il “tamid” del pomeriggio (Gv 18,28; 19,14.31-37)», in l. Padovese (ed.), Atti del VII Simposio di Efeso su S. Giovanni Apostolo (Tur-chia: la chiesa e la sua storia 13), roma 1999, 110, conclude che «la rilettura cristologica giovannea di “un osso non sarà spezzato” è in riferimento al giusto del Sal 34».

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tore, riferendosi alle sue «ossa spezzate» (Sal 51,10).52 non si può pertanto negare che giovanni possa alludere anche a sal 34,21.53 ora, i salmi del giusto sofferente sono spesso associati ai canti del servo in Isaia.54 Basti pensare a Is 53,7, dove il giusto sofferente è paragonato a un «agnello condotto al macello». non è impossibile dunque che Giovanni voglia alludere a una conflazione di testi o faccia una «citazione confluente» (molto comune nella Scrittura e non rara in giovanni),55 in cui vi è un legame sottostante tra agnello pasquale – giusto sofferente – Servo di YHWH in Is 53. Si tratta di un’ipotesi da approfondire. menzioniamo qui solo il fatto che la tradizione dell’accostamento fra le ossa dell’agnello pasquale men-zionate in Es 12,46 e in nm 9,12 da una parte, e quelle del giusto del Sal 34,21 dall’altra, può essere molto antica, poiché è presente già nel Libro dei Giubilei 49,13 dove il precetto di non spezzare alcun osso dell’agnello pasquale è motivato dal fatto che «nessun osso dei figli d’Israele fu spezzato» (secondo la versione etiopica).

Altrettanto interessante sarebbe un’indagine su di un’altra possibile allusione al giusto sofferente in gv 19,3456. nel sal 22(21),15(LXX) si legge: w`sei. u[dwr evxecu,qhn («come acqua sono versato»). ora, se si considera che lo stesso versetto fa riferimento alle ossa del giusto e soprattutto che tutto il Sal 22(21) è il salmo che per gli autori del NT si è adempiuto per eccellenza sulla croce (lo stesso giovanni lo cita poco prima in 19,24), è davvero impossibile un’allusione almeno inconscia da parte dell’evangelista?

L’agnello e Isacco

Da menzionare è anche il possibile riferimento a Isacco, presen-tato, nella tradizione ebraica antica, come agnello e figura del giu-

52 cf G. ravasi, Il Libro dei Salmi. Commento e attualizzazione, 1: Salmi 1-50, 3 voll., Bologna 1981-1984, 624.

53 Questa è l’opinione di r.e. BroWN., Giovanni. Commento al Vangelo spi-rituale, assisi 1979, ii, 1192; si veda anche s. Grasso, Il Vangelo di Giovanni, 743.

54 Si veda G. ravasi, Il Libro dei Salmi, i, 625. 55 cf m.J.J. meNkeN, Old Testament Quotations in the Fourth Gospel. 157.56 Tale allusione è notata da J. duNCaN m. derrett, The Victim, 136

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sto.57 In gn 22, Isacco è associato all’agnello per l’olocausto e le ver-sioni targumiche «giocano» volentieri su questo particolare. nella tradizione targumica palestinese a gn 22,8.10, Isacco è chiaramente paragonato a una vittima sacrificale e in particolare a un agnello. nel Targum a Lv 22,27 il sacrificio quotidiano dell’agnello (Tamid) è interpretato in relazione alla ‘Aqedah, alla legatura d’Isacco. già l’autore del Liber Antiquitatum Biblicarum allude alla relazione tra legatura dell’agnello e legatura d’Isacco, allorché specifica in 32,4 che i piedi di costui furono legati: «Et cum obtulisset pater filium in aram, et ligasset ei pedes, ut eum occideret, festinavit». ora, secondo la tradizione ebraica antica, la ‘Aqedah d’Isacco ha avuto luogo nel monte del futuro tempio, il quattordici di nisan. Il terminus a quo di questa tradizione è almeno il I secolo a.C.: secondo il Libro dei Giubilei, infatti, il sacrificio d’Isacco è avvenuto in Sion durante la Pasqua (cf. 17,15; 18,3.13).58 Anche il Targum mette in rapporto la legatura d’Isacco con la notte di Pasqua e la ambienta nel monte del tempio.59 E cosa si sacrifica nel tempio durante la Pasqua se non l’agnello? Si può così affermare che «la legatura d’Isacco è il primo sacrificio pasquale».60

Secondo Es 12,5 l’agnello pasquale doveva essere ~ymt («in-tegro»): nell’At questo termine è riferito non solo alle vittime sacri-ficali, che dovevano essere senza difetto e immacolate,61 ma anche all’uomo integro e innocente.62 Le vittime sacrificali dovevano es-sere integre perché segno visibile dell’integra intenzione del cuore da parte dell’offerente. In particolare, la «perfezione» dell’agnello nei sacrifici era legata alla mitezza dell’animale, che non recalcitra dinanzi a chi lo sacrifica.

57 La trattazione che segue è sviluppata in F.G. voltaGGio, La oración de los padres, 144-151.

58 così afferma J. vaN ruiteN, «abraham, Job and the Book of Jubilees: the intertextual relationship of Genesis 22:1-19, Job 1:1-2,13 and Jubilees 17:15-18,19», in e. Noort – e. tiGCHelaar (edd.), The Sacrifice of Isaac. The Aqedah (Genesis 22) and its Interpretations (TBn 4), Leiden – Boston – Köln 2002, 75-76: «The association of the sacrifice of isaac with passover was important for the author of Jubilees».

59 cf Targum Neofiti e Targum Frammentario a es 12,42. 60 F. maNNs, L’Évangile de Jean, 425.61 cf Lv 1,3.10; 3,1.6; 4,3.23; 5,15.18.25; 22,19.21; 23,12; nm 6,14.62 cf Gn 6,9; 17,1; Dt 18,13; 2Sam 22,24.26

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secondo il Targum Palestinese a Gn 12,42 (Neofiti, Targum Frammentario) Isacco aveva trentasette anni al momento della sua ‘Aqedah: il fatto che egli fu portato al sacrificio quando non era più un bambino corrisponde all’antica tradizione palestinese, riportata anche da giuseppe Flavio in Antichità Giudaiche 1,227. La tradi-zione dell’offerta libera d’Isacco era diffusa nel primo secolo d.C., com’è attestato nel Quarto Libro dei Maccabei (13,12; 16,20), ove Isacco è presentato come figura esemplare di martire.

Possiamo ora tirare alcune conclusioni. In sal 34,21 si paragona il giusto sofferente all’agnello pasquale: a entrambi non è spez-zato alcun osso. Anche in Is 53,7 il Servo di YHWH è paragonato a un «agnello condotto al macello», perché dinanzi alle umiliazioni «non aprì la sua bocca». Isacco, agnello, giusto/Servo sofferente: tali figure potevano essere legate già all’epoca del secondo tempio.63 Forse l’agnello pasquale aveva già ricevuto una certa «personifica-zione» in Isacco, nel giusto sofferente, nel Servo di YHWH di Is 53.

L’immolazione dell’agnello pasquale nel tempio era compiuta «tra le due sere» (Es 12,6: ~ybr[h !yb) e il sangue dell’agnello era asperso sull’altare. nell’immolazione dell’agnello pasquale ogni israelita era chiamato a sentirsi come Abramo e Isacco che avevano dato culto sul Moria/luogo del tempio: quanto avvenuto nei Padri era un segno per i figli. Ma non solo ciò. Filone rileva che ogni ebreo nel giorno di Pasqua è elevato alla dignità di sacerdote: ogni ebreo è al tempo stesso come Abramo e come un sacerdote e perciò deve im-molare la vittima di propria mano.64 su questo sfondo Isacco poteva essere visto come un simbolo dell’agnello pasquale che si doveva scegliere bene e portare nel luogo del tempio perché fosse legato e immolato. L’autore del quarto Vangelo mostra che gesù è nello stesso tempo il nuovo Isacco e il nuovo agnello pasquale: Abramo ha visto il suo giorno e ha gioito (Gv 8,56); egli è stato legato nel giardino (Gv 18,12). Egli è anche l’Agnello di Dio che si carica del peccato del mondo (Gv 1,29.36); è portato al processo e viene «esa-

63 come asserisce a. díez maCHo, «Targum y nuevo Testamento», in Mélanges Eugène Tisserant. i. Écriture sainte – Ancien orient (StT 231), città del vaticano 1964, 162: «Los círculos teológicos judíos del s.i de la era cristiana habían asociado ‘Aqedá, Siervo de Yahveh y sacrificio del cordero pascual».

64 cf filone, VitMos 2,224; SpecLeg 2,146; Quaest in Ex 1,10; compara con m.Pes 5,6.

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minato» come un agnello. Gesù è portato al sacrificio nell’ora in cui si comincia a immolare l’agnello pasquale al tempio (Gv 19,14). sulla croce gli porgono un ramo d’issopo con una spugna imbevuta d’aceto: poiché l’issopo non si addiceva a un tale uso, si può pensare che vi sia qui un’altra allusione all’agnello pasquale (in Es 12,22 l’aspersione degli stipiti delle porte con il sangue dell’agnello si compie con l’issopo).65 Come quell’agnello e come il giusto in sal 34,21, a Gesù in croce non fu spezzato alcun osso (Gv 19,33.36). su tale ampio sfondo, non è da escludere, nel passo che è oggetto del nostro studio, un’associazione implicita delle figure dell’agnello pasquale, del giusto/servo sofferente e d’Isacco.

Il lato del tempio e il costato di Adamo

Per altri autori, il riferimento primario che l’evangelista ha in mente quando si sofferma sul sangue e l’acqua sgorgante dal costato di Gesù è Ez 47,1ss, testo ripreso da Zc 14,8 (cf. anche 13,1). Eze-chiele parla di un fiume che scende sotto il lato destro del tempio e che è fonte di vita, Zaccaria descrive le «acque vive» che sgorghe-ranno da gerusalemme nel giorno escatologico. In gv 19,34, è pos-sibile che l’autore voglia presentare gesù come «il tempio escatolo-gico, da cui sgorga l’acqua viva della salvezza».66 Vi sono elementi sufficienti per sostenere questa possibilità?

In Gv 19,34 si usa l’espressione «colpì il fianco» (th.n pleura.n e;nuxen). Il termine usato per indicare il fianco di Cristo (pleura,) è lo stesso usato in Gn 2,21-22(LXX) per indicare il costato di Adamo. I Padri hanno tratto gran parte delle loro interpretazioni di gv 19,34 da questo dato. Anche autori moderni però hanno voluto vedervi un’allusione. Anzi, ad alcuni pare plausibile che l’evangelista voglia operare un collegamento tra il giardino edenico e quello in cui è stata posta la croce. Ciò può essere confermato dall’uso dello stesso termine greco (kh/poj) per indicare il giardino da parte di giovanni

65 cf s. Grasso, Il Vangelo di Giovanni, 738.66 i. de la Potterie, Studi di Cristologia Giovannea, 178.

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(18,1.26; 19,41), della LXX in Ez 36,35, di Aquila in Gn 2,8; 3,2 e di Teodozione in gn 3,2.67

Più convincente è invece il riferimento a un’altra realtà evocata dal termine pleura,. nella LXX ricorre spesso questo termine per indicare il lato del tempio, in stretta connessione con il santo dei Santi (1Re 6,8; Ez 41,4-9). Questo può essere confermato, per M.L. Rigato, dalla «percezione che per Giovanni la trafittura del fianco-lo squarcio della carne sia un passaggio parallelo a quello dei sinottici sullo strappo dall’alto verso il basso della cortina (katapetasma) del Tempio (Mt 27,51 e par.)».68 Questo non sembra astruso, se si con-sidera che in Eb 10,20 questa cortina sia identificata con la carne di gesù, in consonanza con la linea teologica tipicamente giovannea del «tempio-corpo» di gesù. L’allusione al lato del tempio sembra più plausibile di quella al costato di Adamo. L’acqua escatologica che sgorga come una sorgente dal tempio è un tema tipicamente pro-fetico (Ez 47,1; Zc 13,1; 14,8; Gl 4,18), che per la sua rilevanza merita la trattazione particolare che segue.

L’acqua escatologica della nuova alleanza e il legame acqua-Spirito

se si considera il collegamento esistente tra l’affermazione di gesù in gv 7,38 e gv 19,34, si può concludere che, nel racconto giovanneo dell’immolazione di Cristo, è nascosto un rimando, anche se velato, alla visione messianica in Ez 47,1ss e forse agli altri testi profetici a esso correlati (basti pensare a Zc 13-14, il cui contesto è forse nella mente dell’evangelista, a causa della citazione di Zc 12,10 in gv 19,37). L’acqua escatologica sgorgante dal tempio, che feconda e vivifica, è un tema tipicamente profetico, che s’inserisce nell’uso metaforico più ampio di «sorgente» e di «fiume» nell’AT e specialmente nei Profeti; l’acqua infatti, simbolo di vita, è nell’AT

67 cf m. NoBile, «alcune note sull’antico Testamento», 39. andrebbe ap-profondita l’importanza del giardino edenico nel quarto evangelista: il kepos ricorre all’inizio (18,1), al centro (18,26) e alla fine (19,41) del racconto gio-vanneo della passione e in tal modo egli sembra voler presentare la passione come recupero del giardino edenico.

68 cf m.l. riGato, «La testimonianza di policrate di efeso su Giovanni evan-gelista. riscontri nel quarto vangelo», in l. Padovese (ed.), Atti del III Simposio di Efeso su S. Giovanni Apostolo (Turchia: la chiesa e la sua storia 4), roma 1993, 138.

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caratteristica dei tempi messianici: la benedizione dei tempi messia-nici inonderà il popolo di Dio come un fiume che irriga (Is 48,18; 66,11); anzi, Dio stesso è chiamato «fonte di acqua viva» (Ger 2,13[LXX]: phgh.n u[datoj zwh/j).69 In Is 58,11, il giusto è paragonato a un giardino irrigato e a una fonte le cui acque non inaridiscono.70 tutti questi concetti si concentrano sulle immagini profetiche del fiume degli ultimi tempi che, irrigando e purificando la terra in cui passa (Ez 47,1-12; Gl 4,18; Zc 13,1; 14,8), la rende un nuovo Eden. Anzi, la fecondità del fiume sembra trascendere quella del fiume paradisiaco di gn 2,10-14. Questa visione profetica troverà la sua massima espressione in Ap 22,1ss, in cui il fiume d’acqua viva della gerusalemme messianica scaturisce dal trono di Dio e dell’Agnello.

nella tradizione giovannea, così come nella nostra pericope, un tema centrale è il riferimento a Cristo come nuovo tempio. Ez 47 è di grande importanza per questa tradizione. non sarebbe quindi strano che giovanni in gv 19,34 voglia alludere all’acqua messianica. Degno di nota è che, con tutta probabilità, Ez 47 (insieme al racconto della roccia sgorgante acqua nel deserto: Es 17; Nm 20) si leggesse proprio durante la festa di Sukkot.71 La liturgia di questa festa preve-deva, come uno dei rituali essenziali, l’effusione dell’acqua sull’al-tare (è interessante notare che su di esso si spargeva normalmente il sangue!). Ad ogni modo, da quanto sopra notato, si può condividere, circa il sangue e l’acqua di gv 19,34, la conclusione di un com-mentario, molto attento alle allusioni anticotestamentarie: «Questo sangue è il sangue dell’alleanza. L’acqua in tal caso è l’acqua della nuova alleanza».72

Alla trattazione precedente, occorre aggiungere un legame essen-ziale: quello tra acqua e spirito.73 nel Vangelo di giovanni tale le-

69 nella tradizione sapienziale e nel giudaismo antico, anche «la Torah trova un simbolo preferenziale nell’acqua», come nota m. NoBile, «alcune note sull’antico Testamento», 38.

70 Degno di nota è anche il riferimento del testo al rinvigorimento delle ossa del giusto (la LXX v’insiste due volte nello stesso versetto; cf anche is 66,14): un altro chiaro legame giusto-ossa.

71 cf m. NoBile, «alcune note sull’antico Testamento», 38.72 y. simoeNs, Secondo Giovanni, 782.73 Si veda F. maNNs, Le symbole eau-esprit dans le judaïsme ancien (SBfa

19), Jerusalem 1983, 280-298; per quanto concerne Gv 19,34 cf special-mente pp. 291-292.

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game è evidente (cf. Gv 4; 7,38-39)74. ora, ci si può domandare se sia originale. A nostro parere, la risposta è negativa, poiché l’evan-gelista riprende un’idea ben presente nell’At e specialmente nei Pro-feti. L’autore del quarto Vangelo, sebbene non citi spesso la scrittura in modo esplicito, è profondamente compenetrato dall’At. Alcune sue associazioni o simbolismi, a prima vista originali, sono in re-altà frutto di una profonda comprensione dell’At. Basti ad esempio leggere Is 44,3, che mette in parallelo l’acqua e i torrenti sul luogo deserto da una parte, e l’effusione dello spirito di Dio e della sua be-nedizione, dall’altra: spandere lo spirito è come far scorrere acqua. L’irrigamento dei tempi messianici, descritto dai profeti, è figura dell’effusione escatologica dello spirito. L’acqua di gv 19,34, spie-gata dall’evangelista con la citazione di Zc 12,10, che parla dello «spirito di grazia e consolazione», può essere così collegata a Zc 13,1 (sorgente zampillante) e 14,8 (acque vive sgorganti dal tempio),75 e quindi al contesto più ampio della breve citazione. Per questa ra-gione, per vari studiosi, l’acqua uscita dal costato del trafitto è per l’evangelista segno e compimento dell’effusione dello spirito.76

si può ora fornire una sintesi del gran numero

di evocazioni antico-testamentarie sopra elencate, approfon-

dite, valutate. Per verificare la plausibilità del ricorso a esse fatto da parte dell’evangelista nel descrivere l’evento di gv 19,34, dobbiamo ora avere un occhio all’intero suo Vangelo.

74 cf ad es., s. lyoNNet, Il Nuovo Testamento alla luce dell’Antico, 101; i. de la Potterie, Studi di Cristologia Giovannea, 177.

75 cf d.J. moo, The Old Testament, 218.76 i. de la Potterie, Studi di Cristologia Giovannea, imposta buona parte della

sua esegesi di Gv 19,31-37 su questo legame giovanneo; si veda, dello stesso autore, «Le symbolisme du sang et de l’eau en Jn 19,34», 214; cf. anche u.C. voN WaHlde, The Gospel and Letters of John. Volume 3: The Three Johannine Letters, 3 voll., Grand rapids 2010, 187.

6. sintesi conclusiva circa le allusioni anticotestamentarie

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Per quanto concerne il «sangue», a eccezion fatta di gv 1,13, l›evangelista usa il termine ai-ma solo in un altro passo: in Gv 6,53-56, per quattro volte (una in ogni versetto), Gesù parla del suo sangue. La rivelazione è progressiva: nel v. 53 si usa il pronome possessivo auvtou/, perché Gesù si riferisce al Figlio dell’Uomo; nei vv. 54-56 invece, s’impiega l’aggettivo possessivo alla prima per-sona singolare (mou), per tre volte. L’accento su questo possessivo è forte: nel v. 54 e nel v. 56, esso è anticipato (mou to. ai-ma) e dunque enfatizzato. In questi versetti, il sangue di gesù, unito alla sua carne, è garanzia di vita posseduta in sé (v. 53), di vita eterna e risurre-zione (v. 54). Ora, ci chiediamo: è possibile che l’evangelista, che non riporta il racconto della Cena, non faccia alcuna allusione in gv 19,34 al «sangue della nuova alleanza», ovvero: è totalmente da escludere un riferimento eucaristico? Per molti autori, in Gv 19,34 è indubbia l’allusione eucaristica. Heil tenta di giustificare tale idea connettendo gv 19,31-37 anzitutto al miracolo di Cana narrato in gv 2 (base di ciò sarebbero i collegamenti tematici tra i due racconti: il riferimento all’ora; il vedere la gloria; la donna, ecc.), ove gesù trasforma l’acqua delle purificazioni rituali in bevanda, cioè in vino (da notare che nella tradizione ebraica il vino è spesso collegato al sangue). sulla base di tali legami, Heil conclude: «Che l’acqua dello Spirito segue e fiotta insieme con il sangue dal costato trafitto di gesù risponde all’obiezione dei giudei su come gesù avrebbe po-tuto dare loro la sua carne da mangiare e il suo sangue da bere».77 Per l’autore, pertanto, come per i Padri, vi è in gv 19,34 un’allusione eucaristica. noi non ci sentiamo di negare tale allusione. Vorremmo però precisare, a conclusione di questa indagine, che è impossibile affermare ciò senza riferirsi all’agnello pasquale, un riferimento che certamente l’evangelista ha in mente nel redigere gv 19,31-37. Questo è per noi il riferimento centrale, da cui partono le altre evocazioni, prima tra esse quella del sangue dell’alleanza. Passando per questa via marcata dall’autore, che presenta gesù come nuovo Agnello Pasquale, l’allusione eucaristica è molto difficile da negare.

77 J. P. Heil, Blood and Water, 108.

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Il sangue di gesù, segno della morte avvenuta, è al tempo stesso segno di nuova vita.78 Ciò che desta l’interesse dell’evangelista è però soprattutto l’unione straordinaria di sangue e acqua. Quell’acqua è per giovanni qualcosa di mirabile. L’acqua anzitutto lava e puri-fica: così Giovanni vuole significare che il sangue di Gesù-Agnello lava e purifica; ciò è confermato dal collegamento del nostro testo con la tradizione presente in Ap 7,14, dove il sangue dell’Agnello è interpretato come un sangue che lava e rende bianche le vesti. Quest’acqua ha tuttavia un significato più profondo e questo si può percepire essenzialmente da due fatti: in primo luogo, dalla citazione di Zc 12,10, fatta dall’evangelista, che richiama il contesto più ampio di Zc 12-14; in secondo luogo, dal collegamento con Gv 7,38, poiché i passi dell’AT che hanno influito su questo versetto (anzitutto Nm 20,11; Sal 78,15-16; Ez 47,1ss) hanno potuto influire anche sul no-stro v. 34,79 tanto che qualcuno ha affermato che lo stesso giovanni veda l’evento del v. 34 come un compimento delle parole di gesù in gv 7,37-39.80 L’acqua uscita dal costato di gesù, nuovo tempio e nuovo Agnello, in unione al sangue della nuova alleanza, costi-tuisce perciò, agli occhi dell’evangelista, l’acqua della nuova alle-anza, cioè la fonte d’acqua viva che nei tempi messianici sgorgherà dal tempio e purificherà Gerusalemme.81 Quest’interpretazione, già presente in nuce in gv 19,34, è condensata nell’impressionante sim-bolismo della visione finale di Ap 22,1-5. Qui, un fiume di acqua viva (espressione profetica presente già nel Vangelo), scaturisce dal trono di Dio e dell’Agnello (che è al tempo stesso il tempio, come si nota in 21,22), in collegamento con un albero di vita, le cui foglie guariscono le nazioni (chiaro riferimento a Ez 47,1ss). Quest’acqua, come mostrato, è lo spirito. Questo permette di comprendere l’inter-pretazione di 1Gv 5,6-8, che lega in modo mirabile sangue – acqua – spirito.

Alla luce dello sfondo dell’AT, il fiotto di sangue e acqua dal co-stato di gesù, appare come una grande aspersione. Cos’hanno in comune, infatti, il sangue e l’acqua nell’AT? Un dettaglio da non

78 cf i. de la Potterie, Studi di Cristologia Giovannea, 178.79 cf r.e. BroWN, La morte del Messia, 1335.80 cf d.J. moo, The Old Testament, 218.81 cf la conclusione di F. maNNs, L’Évangile de Jean, 425.

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trascurare è, a nostro parere, il fatto che entrambi fossero usati per l’aspersione. L’aspersione con sangue sacrificale o con acqua è un segno o meglio una realtà di purificazione nell’AT. Nello Yom Kippur, il santuario e gli oggetti cultuali erano purificati con l’a-spersione del sangue di una vittima sacrificale. Con acqua erano aspersi coloro che si erano resi impuri per il contatto con cadaveri. In Lv 13-14 si tratta di riti di purificazione, in cui erano usati insieme sangue e acqua. In Ez 36,25 l’aspersione con acqua simboleggia la purificazione che Dio attuerà nella nuova alleanza. Il sangue, sparso nel tempio, che riconcilia con Dio e l’acqua che purifica, segno dello spirito, realtà essenziali dell’At, sono ora indissolubilmente unite in gv 19,34. Questo versetto riassume dunque alcune istituzioni essen-ziali dell’AT: l’agnello pasquale, il tempio e il sangue dei sacrifici delle vittime, il sangue dell’alleanza, l’acqua dell’abluzione e della nuova alleanza. tutte queste realtà, solo velate in gv 19,34, sono indicate, in modo del tutto esplicito, come pienamente compiute in gesù Cristo dall’autore della Lettera agli Ebrei. A conferma di ciò, basta una lettura di Eb 10,19-31, dove l’autore condensa in poche frasi il riferimento al sangue dei sacrifici (e forse in particolare a quelli compiuti nel giorno dell’Espiazione, v. 19), al santo dei santi, cuore del tempio (v. 19), al velo del tempio (v. 20), al sacerdozio (v. 20), all’acqua dell’abluzione (v. 22), al sangue dell’alleanza che santifica (v. 29) e allo Spirito della grazia (v. 29).

Abbiamo in-dagato la ric-chezza con-

tenuta nel testo di gv 19,31-37, con partico-lare attenzione all’e-vento descritto nel

v.34. si è mostrato come tale ricchezza emerge in tutta la sua abbon-danza, se si prendono in considerazione non solo le citazioni espli-cite, ma anche le allusioni anticotestamentarie nascoste nel testo. Il v. 34 è apparso così come una vera e propria concentrazione di allu-sioni all’AT. Alcune allusioni ci sono sembrate con tutta probabilità volute dall’autore, mentre è difficile dimostrare che altre allusioni

7. conclusione e nuovi orizzonti metodologici

ed ermeneutici

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siano intenzionali. Alcuni rapporti intertestuali sono emersi in tutto il loro interesse. talvolta, infatti, il rapporto a un testo dell’At può essere sottostante a due testi legati nello stesso Vangelo. Altre volte, come in un gioco di specchi, una parola dell’At è indissolubilmente legata alla sua interpretazione o attualizzazione a un’altra dell’At. La scrittura ereditata dal nt, lungi dall’essere un testo morto o nudo, è già rivestita delle sue riletture all’interno della scrittura e dalle interpretazioni della tradizione orale e della liturgia.

A questo punto, sorge una questione metodologica. Fino a che punto alcune allusioni erano realmente presenti nella mente dell’au-tore al momento della redazione del testo? In conformità a quale cri-terio potremmo raggiungere la sicurezza? Tali domande riguardano una dimensione irrinunciabile (ma purtroppo presa a volte alla leg-gera) dell’ermeneutica biblica, quale il ricorso alle indicazioni che la Bibbia stessa ci dà circa l’arte d’interpretarla. Per alcuni libri del nt, tali questioni sono di enorme importanza, a causa delle frequenti citazioni esplicite o implicite dell’AT (nell’Apocalisse, ad esempio, se ne contano circa 814).

Alla luce di questa breve indagine, talvolta è arduo stabilire se una determinata allusione sia presente nell’intenzione dell’autore. spesso, del resto, il fatto di essere imbevuti di una certa cultura, ci rende inconsapevoli di un riferimento a essa. ora, è indubbio che gli autori del nt siano «imbevuti» di At. non è quindi da esclu-dere che talvolta i riferimenti all’AT possano essere inconsci (per quanto siano ispirati a uomini in pieno possesso delle loro facoltà). non solo, spesso l’evento descritto dagli evangelisti travalica il loro pensiero a tal punto che, per spiegarlo, fanno riferimento a qualche profezia, che, come visto, già all’interno dell’At ha ricevuto un’in-terpretazione, la quale, a sua volta, può essere contenuta nel riferi-mento fatto dagli stessi evangelisti. Infine, talvolta il testo può avere un senso più profondo di quello inteso dall’autore stesso. Questo fenomeno, che può avvenire in ogni tipo di creazione artistica e che è tipico dell’ispirazione umana, è presente a maggior ragione negli autori sacri divinamente ispirati. È riconosciuto, infatti, che il testo possa avere spesso un senso più profondo (certamente vo-luto da Dio), ma non presente nell’intenzione esplicita dell’autore (il cosiddetto «senso pieno»): quest’ultimo può esprimere realtà di cui egli stesso non percepisce tutta la profondità. Queste considerazioni

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consentirebbero una più ampia e feconda ricerca (ma non per questo meno rigorosa!) del sottofondo anticotestamentario nei testi del nt, senza la continua paura di essere considerati poco «critici» e apri-rebbero così nuove vie d’interpretazione più vicine all’ermeneutica dei rabbini e dei Padri,82 aiutando a superare l’empasse in cui si trova una certa esegesi attuale.

Lo stupore dell’evangelista per l’evento del fiotto di sangue e acqua dal costato di Gesù, stupore espresso nel v. 35, passa anche al lettore quando considera le citazioni esplicite, scelte accuratamente dall’evangelista come interpretazione dell’evento, e le numerose evocazioni e allusioni implicite. L’evangelista vuol mostrare che, nel momento culminante del compimento totale dell’opera di Gesù («È compiuto»), vale a dire il suo innalzamento sulla croce e la sua glo-rificazione, egli compie realtà messianiche e profetiche importanti, prefigurate nell’AT. L’evangelista, penetrando in profondità nelle «cose antiche» del tesoro delle scritture d’Israele, «tira fuori cose nuove», aprendo orizzonti immensi: gesù è il nuovo Agnello Pa-squale, il cui sangue libera dalla morte e santifica e il nuovo Tempio dal cui fianco sgorga l’acqua della nuova alleanza, ovvero lo Spi-rito (il riferimento che fecero i Padri ai sacramenti dell’Eucaristia e del Battesimo è quindi del tutto legittimo). Intorno a questa idea fondamentale, ruotano tutte le altre evocazioni: per l’autore, gesù è anche la nuova Roccia che emana acqua viva, la sorgente dell’acqua escatologica, la nuova e perfetta Vittima sacrificale il cui sangue è sparso, il servo e giusto perseguitato le cui ossa rimangono intatte, il nuovo Adamo che dona il suo costato. se ciò è vero, ci troviamo dinanzi ad un buon esempio di come l’esegesi tipologica dei Padri, che sviluppa alcuni dei temi sopra elencati, non sia meno scientifica dell’esegesi moderna. solo che i Padri non presero mai alla leggera il mistero nascosto nel testo.

Francesco [email protected]

82 Una buona sintesi tra esegesi moderna ed esegesi patristica riguardo il nostro passo, si può trovare in J.C. CarvalHo, «The Symbology of ai-ma kai. u[dwr in John 19:34: a reappraisal» Did 31/1(2001), 41-59.

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ItA «E subito uscì sangue e acqua» (Gv 19,34): una concentrazione di allusioni all’AT,

di Francesco VoltaggioIl presente studio raccoglie le evocazioni anticotestamentarie

«nascoste» in gv 19,34, che appare come una ricca concentrazione di allusioni a realtà dell’At, tra le quali: l’acqua dalla roccia e la Festa di Sukkot; il sangue dei sacrifici e dell’alleanza; l’acqua della purificazione; l’agnello e il giusto/servo; l’agnello e Isacco; il lato del tempio e il costato di Adamo; l’acqua escatologica e il legame acqua/Spirito. Si aprono così nuovi orizzonti ermeneutici: alcune allusioni all’At fatte dall’autore, per quanto inconsce, vanno te-nute in seria considerazione nell’interpretazione, giacché l’evento descritto travalica spesso la sua comprensione da parte dell’autore. Ciò permette di recuperare nell’esegesi moderna la forza dell’er-meneutica rabbinica e soprattutto di quella patristica.

fRA« Et aussitôt, il sortit du sang et de l’eau » (Jn 19,34) : une concentration d’allusions à l’AT,

de Francesco VoltaggioCette étude recueille les évocations de l’Ancien Testament « ca-

chées » en Jn 19,34 ; elle se présente comme une riche concentration d’allusions aux la réalités de l’AT, parmi lesquelles ; l’eau du rocher et la Fête de Sukkot ; le sang des sacrifices et de l’alliance ; l’eau de la purification, l’agneau et le juste/serviteur ; l’agneau et Isaac ; le côté du temple et la côte d’Adam ; l’eau eschatologique et le lien eau/Esprit. S’ouvrent alors de nouveaux horizons herméneutiques: quelques allusions à l’AT faites par l’auteur, même inconsciemment, doivent être prises en compte sérieusement dans l’interprétation, puisque pour l’auteur l’intelligence de l’évènement qu’il décrit va souvent au-delà de ce que l’on perçoit. Cela permet de récupérer dans l’exégèse moderne la force de l’herméneutique rabbinique et surtout celle de l’herméneutique patristique.

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EnG “And immediately there flowed out blood and water” (Jn 19:34): A Concentration of Allusions to the OT

by Francesco VoltageThis study collects Old Testament evocations “hidden” in Jn

19:34, which appears as a rich concentration of allusions to the old testament realities, such as water from the rock and the Feast of Sukkot; the blood of the sacrifices and covenant; the water of puri-fication; the lamb and just/servant; the lamb and Isaac; the side of the temple and the side of Adam; and eschatological water and the link between water/Spirit. This opens up new horizons of interpreta-tion. some allusions made by the author to the ot, however unaware we may be of them, must be taken into serious consideration in the interpretation, because the event described often goes beyond the comprehension of the author. this allows us to bring back in modern exegesis the strength of rabbinical, but especially patristic, herme-neutics.

SPA“Y al instante salió sangre y agua” (Jn 19,34): una con-centración de alusiones al AT.

de Francesco VoltaggioEl presente estudio recoge las evocaciones veterotestamentarias

“escondidas” en Jn 19,34, que se presenta como una rica concentra-ción de alusiones a la realidad del At, entre las cuales: el agua de la roca y la Fiesta de Sukkot, la sangre de los sacrificios y de la alianza, el agua de la purificación, el cordero y el justo/siervo, el cordero e Isaac, el lateral del templo y el costado de Adán, el agua escatológica y la unión agua/Espíritu. Se abren así nuevos horizontes hermenéu-ticos: algunas alusiones al At hechas por el autor, sin ser consciente de ello, son tenidas en seria consideración en la interpretación, ya que el evento descrito traspasa frecuentemente la comprensión de parte del autor. Esto permite recuperar en la exégesis moderna la fuerza de la hermenéutica rabínica y sobre todo de la patrística.

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Pol “I natychmiast wypłynęły krew i woda” (J 19,34): nagro-madzenie aluzji do Starego Testamentu.

Francesco VoltaggioArtykuł ten zbiera ukryte odwołania do Starego Testamentu

“ukryte” w J 19,34, który ukazuje się jako bogate nagromadzenie aluzji do rzeczywistości obecnych w Starym Testamencie, takich jak: woda ze skały, święto Sukkot; krew ofiar i przymierza, woda oczyszczenia, baranek i sprawiedliwy/sługa, baranek i Izaak, bok świątyni i bok Adama, woda eschatologiczna i związek woda--Duch. W ten sposób otwierają się nowe horyzonty hermeneu-tyczne: pewne aluzje do Starego Testament, które odkrywa autor, choć nieświadome, powinny być wzięte na poważnie pod uwagę w interpretacji, ponieważ opisane wydarzenie wykracza poza to jego rozumienie, które miał autor. Pozwala to na przywrócenie w egzegezie współczesnej osiągnięć hermeneutyki rabinistycznej a zwłaszcza patrystycznej.

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nella tradizione patri-stica1 raccogliamo due interpretazioni dell’ora alla quale fa menzione gesù nella sua risposta alla madre. C’è l’inter-

pretazione tradizionale, che possiamo chiamare tradizione agostiniana, secondo la quale, gesù non ritiene sia giunta la sua ora, e lo dice a guisa di rimprovero rivolto alla madre che gli stava sottoponendo il problema dell’assenza del vino alle nozze di Cana. È la tradizione più con-sistente, sia nella letteratura patristica, sia nella restante letteratura esegetica fino ad oggi. Basti confrontare la più recente traduzione biblica della Cei (2008) che per Gv 2, 4 dà la seguente traduzione: “Donna che vuoi da me? Non è ancora giunta la tua ora”.

Agostino, infatti, che commenta gv 2, 4, legge e spiega le parole di Gesù: “L’Ora mia non è ancora venuta”, secondo il tenore della differenza che sussiste tra la madre creatura e il Figlio Dio che co-

1 cf J. n. GUinOT, Les lectures patristiques grecques (IIIe-Ve s.) du miracle de Cana (Jn 2, 1-11). Constantes et développements christologiques, in Studia Patristica 30 (Leuven 1997), 28-41. cf anche a. SMiTManS, Das Weinwunder von Kana. Die Auslegung von Joh 2, 1-11 bei den Vätern und heute, Tübingen 1966.

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l’ora in gV 2,1-11: anticiPazionE o inizio?lettura giudaico-patristica delle nozze di cana

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nosce i tempi della salvezza, e cioè: “Non è ancora l’ora in cui io riconosco che sia opportuno che io patisca, che sia utile la mia pas-sione; allora soffrirò di mia volontà”2.

C’è l’altra tradizione che cronologicamente non solo precede Ago-stino ma che s’inserisce anche in una scuola esegetica di stampo più letteralista, rispetto alla tradizione spirituale-allegorica, ambrosiana e quindi ultimamente origeniana, cui appartiene il vescovo di Ippona. Alludiamo a teodoro di mopsuestia, il quale, esponente dell’esegesi antiochena, più fortemente interessata al tenore letterario-filologico-storico del testo biblico, studia più da vicino Gv 2,4 in sé e in chiave di coerenza con i versetti giovannei che seguono immediatamente. teodoro di mopsuestia cerca di trascinare il punto interrogativo alla conclusione della risposta che gesù dà alla madre, per cui la lettura che ne risulta è la seguente: “Perché mi solleciti e insisti con me, o donna, non è forse giunta la mia Ora?”3. In altre parole, per teodoro di mopsuestia, la domanda di gesù alla madre non suona come un rimprovero, bensì risulta essere una totale convergenza tra gesù e sua madre, anzi la domanda della madre di gesù sembra retorica, pleonastica, non necessaria. Per gesù quella era l’ora dell’inizio e sua madre non anticipa nulla dei piani del Figlio, anzi i due, Figlio e madre, mostrano una totale convergenza sull’inizio dell’ora. In altre parole, se per Agostino e la tradizione allegorico-spirituale che egli rappresenta, la madre con la sua iniziativa crea l’anticipazione dell’ora di gesù, teodoro di mopsuestia individua nella risposta di gv 4 non solo la piena convergenza tra gesù e la madre, ma anche l’inizio dell’ora.

Che il tema dell’ora sia il tema che in sede giovannea è diretta-mente connesso con la glorificazione che si compie nella Passione-morte-Resurrezione di gesù nel dono dello spirito, è una tesi con-vergente dell’unanime lettura esegetica post-patristica4. Ce ne fa fede, infatti, la lettura agostiniana poco sopra riportata, secondo la

2 aug Tr Jo viii, 12: ccL 36, 89.3 Theod Mops Co Jo ii, 4: cScO 62-63, 39-40.4 Basti citare r. BrOWn, The Gospel according to John, i, new York 1966

e c.H.DODD, The interpretation of the fourth Gospel, cambridge 1953 e c.H., Historical tradition in the Forth Gospel, cambridge 1963.

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quale, l’ora è quella della Passione. Come pure anche per gaudenzio di Brescia, l’hora concerne il tempo della Passione5.

Allora nell’esegesi patristica riconosciamo due tradizioni, quella agostiniana che è a favore dell’ “anticipazione” dell’Ora della glori-ficazione della Passione provocata dalla Madre di Gesù, e quella an-tiochena a favore dell’ “inizio” dell’Ora, fondata sul consenso pieno di gesù e di sua madre.

introduzione e piste metodologiche

se ci muoviamo secondo i criteri dell’esegesi rabbinica, se-condo cui ogni parola della Parola potrebbe essere suscettibile di almeno 70 interpretazioni6, ci dovremmo accontentare di affermare che ogni interpretazione è anche una illuminazione. Quindi tante sono le interpretazioni e tante sono le luci che vengono proiettate sulla Parola, che resta, per usare il linguaggio di Efrem il siro, una fontana d’acqua inestinguibile”7. Lo stesso Agostino nel cuore dei sermoni dedicati, nel commentario al Vangelo di giovanni, al racconto delle nozze di Cana, vorrebbe accontentare la fame di chi sta alla mensa della Parola del signore. E, lasciando la libertà di scegliere il tipo di intelligenza della Parola del Signore (Sed est et alius intellectus non praetermittendus, et ipsum dicam; eligat quisque quod placet; nos quod suggeritur non subtrahimus), ri-corda che “questa è la Mensa del Signore, e non è opportuno che il ministro defraudi i convitati, soprattutto quando sono così avidi, come vedo che voi siete: Mensa enim Domini est, et non oportet

5 Gaud Brix Tr iX, 13: cSeL 68, 78-79. cf B. DeGÓrSKi, Le nozze di Cana nell’esegesi di San Gaudenzio di Brescia, in Vox Patrum 23 (44-45/2003), 285-299.

6 nelle 70 scintille della Parola si possono rinvenire le 70 culture o nazioni, in cui la Parola, inculturata, crea un movimento di espansione ma anche di concentrazione all’unum. La Parola una, suscettibile d’essere letta e accolta dalle 70 culture e nazioni noachide (cf Gen 10), ha il potere dell’unità. Per la tradizione secondo cui la terra era abitata da 70 popoli che parlavano 70 lingue (v. tabella dei popoli in Gen 10), cf l’apocrifo cristiano del IV sec. d.C. contenente materiale anche ebraico, molto antico, La Caverna del Tesoro, 24,18 (E. Weidinger, ed., L’altra Bibbia 73).

7 ephrem, Co Diat 1,18-19: Sch 121, 52-53.

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ministrum fraudare convivas, praesertim sic esurientes ut appareat aviditas vestra”8.

salva restando che le interpretazioni possono essere molteplici, si potrebbe fare un’opzione? Nel leggere ed interpretare Gv 2, 4, ci porremo sulle linea dell’anticipazione della glorificazione o sempli-cemente sulla linea dell’inizio della glorificazione, cioè della Pas-sione-Resurrezione? Ora la risposta a questa domanda è connessa con altre prospettive aperte dalla teologia giovannea, ossia il tema della nuova creazione e della nuova ed eterna alleanza, e il ruolo della madre di gesù nella Passione, nella nuova creazione e nella nuova ed eterna alleanza.

È necessario interrogare le testimonianze patristiche, quantunque non sia sufficiente. La stessa letteratura patristica necessariamente ha conosciuto un tempo prolungato di osmosi con la letteratura in-tertestamentaria giudaica e con le tradizioni esegetiche sinagogali (I-III secolo), per cui la stessa letteratura patristica successiva, quella dal IV in avanti, resterà segnata da questo rapporto. E quindi non possiamo non tenerne conto9. non solo, ad esempio, l’esegesi ori-geniana risente dell’esegesi per lo più orale rabbinica e della lette-ratura giudaica intertestamentaria e di quella giudeo-cristiana, ma dobbiamo affermare che anche l’esegesi patristica delle varie scuole dei secoli successivi reca residui o filoni interpretativi di origine giu-daica ormai cristallizzati e assimilati dall’esegesi patristica sia orien-tale sia occidentale.

Il nuovo testamento affonda le radici non solo nell’Antico te-stamento, ma in tutta la cultura e la letteratura giudaica. non solo il nuovo testamento spiega l’Antico, ma anche l’Antico spiega il nuovo.

nel nuovo testamento è indispensabile far emergere le sue radici ebraiche, sia linguistiche, sia culturali, secondo la convinzione di Agostino per il quale: “Il Nuovo Testamento è celato nell’Antico e

8 aug Tr Jo iX, 9: ccL 36, 95. 9 f. MannS ha studiato Gv 2, 1-11 cogliendo il background giudaico in

stretto collegamento con le affermazioni patristiche: L’Évangile de Jean à la lumière du judaïsme, franciscan printing press, Jerusalem 1991, 93-110. cf anche f. MannS, L’Évangile de Jean et la Sagesse, franciscan printing press, Jerusalem 2003, 49-60.

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nel Nuovo l’Antico è svelato”10. È indispensabile, perciò situare il nuovo testamento in tutte le testimonianze del mondo ebraico, le scritture ebraiche dell’At, la letteratura giudaica intertestamentaria, la letteratura giudeo-cristiana, la letteratura rabbinica. La letteratura patristica si situa non solo accanto, ma spesso con intersecazioni con la lettura giudaica, sia quando si tratta di elementi che congiungono il complesso della letteratura ebraica con la lettura cristiana della prima ora, sia quando la letteratura cristiana precede o entra in con-flitto con la successiva letteratura rabbinica, sia quella mishnica, sia quella talmudica, o quella che rientra nel complesso della letteratura midrashica.

Il brano di gv 2, 1-11, le nozze di Cana, costituisce un esempio suggestivo della ricchezza di una pagina della Parola di Dio com-prensibile solo alla luce della tradizione e delle tradizioni, sia del giudaismo, sia del giudeo-cristianesimo, sia del cristianesimo delle nazioni.

le nozze di cana: un matrimonio secondo la tra-dizione giudaica

Partecipare alle nozze, per un ebreo, significava compiere un atto di misericordia, che consentiva di partecipare alla gioia degli sposi ebrei chiamati a rinnovare nel segno l’unità di uomo e donna, Eva ed Adamo, segno di Dio Creatore della vita nell’amore, espres-sione della sua immagine, celebrazione dell’alleanza sponsale di Dio con l’umanità pre-mosaica. Così farà Paolo quando applicherà al rapporto Cristo-Chiesa l’alleanza sponsale (Ef 5, 21-31). Questa è l’alleanza sponsale primitiva di Dio con l’umanità, l’alleanza che segna non solo l’inizio dell’umanità, ma il proposito di Dio di es-sere sempre Alleanza con l’umanità. L’Alleanza Dio e noè, Dio e Abramo, Dio e Israele in Mosè, la Nuova Alleanza dei profeti (Ger 31, 31-34), fino all’alleanza sponsale di Cristo con la Chiesa grazie al sangue di gesù. tutto questo è teologia della creazione in chiave matrimoniale, che si fa teologia della storia, non solo della storia di Israele, ma anche di tutta l’umanità.

10 aug Quaest in Heptateuchum 2, 73: pL 34, 623: “Quamquam ei in Vetere Novum lateat, et in Novo Vetus pateat”.

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Il Cantico dei Cantici è allora il canto di ogni alleanza di Dio con l’umanità.

gesù, accogliendo l’invito di partecipare alle nozze di Cana, con la sua presenza consacra il matrimonio voluto da gen 1, 22, come lo afferma Cirillo di Alessandria, che nel suo commento a giovanni sottolinea la presenza di gesù alle nozze di Cana come la presenza di chi viene a santificare l’inizio della generazione umana e a rinno-vare la stessa natura dell’uomo in rapporto a quanto si legge in gen 3, 16: “Partorirai i figli nel dolore”. E basandosi su 2 Cor 5, 17: “Se qualcuno è in Cristo è una creatura nuova”, Gesù è venuto a Cana per rendere nuove le nozze, luogo della generazione della vita11.

Cana, inoltre, in ebraico, dal verbo liqnot=acquistare, significa acquisto, proprietà. Cana è il primo luogo, in galilea, regione dalle dimensioni universali e internazionali, in cui lo sposo prende pos-sesso della primizia di una terra destinata a essere teatro delle nozze di Dio con l’umanità, per la celebrazione dell’Alleanza definitiva. Questa interpretazione la ritroviamo in gaudenzio di Brescia, che verso la fine del IV secolo, facendo l’esegesi di Gv 2, 1-11, afferma:

“E perché tu conoscessi che in questo terzo giorno queste nozze spirituali sono celebrate da Cristo tra il popolo dei pagani, esse non avvengono in Giudea, ma in Cana di Galilea; questo a prescindere dalla testimonianza del santo Isaia che citò la galilea delle genti, ap-parirà più chiaro dal significato dei nomi stessi. Cana, infatti, signi-fica possesso e Galilea corrisponde a “girevole”, a “ruota”, stando al significato della lingua ebraica”12. Da chi il vescovo di Brescia poteva conoscere questa corrispondenza del significato del nome Cana se non leggendo Girolamo, per il quale “Cana: possessio sive possedit”13? Già Origene aveva dato questa lettura di Cana: “Le due venute del nostro salvatore a Cana si possono comprendere come simbolo delle sue due venute sulla terra, terra che fu chiamata

11 cyril alex In Jo ii, 1-4: pG 73, 224D-225B.12 Gaud Brix Tr viii, 24.31: cSeL 68, 69.13 Hier Hom Hebr: ccL 72, 142. anche epifanio di Salamina conosce il

significato di “acquisto” per cana in Pan 51, 30, 11: GcS 31, 303.

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“Cana”, in quanto è una terra che è divenuta “possesso” di colui che ha ricevuto ogni potere in cielo e in terra”14.

E Cana è in galilea, e galilea è la terra delle nazioni. Eusebio di Cesarea rimarca la scelta del miracolo avvenuto a Cana e non a Gerusalemme, perché legge il miracolo di Cana alla luce di Is 9, 1-3, per affermare la priorità dei non-giudei, le nazioni, rispetto ai giudei di gerusalemme15.

Il matrimonio di Cana offre l’occasione a gesù di manifestare questo linguaggio dell’Alleanza, unito a quello della sua realizza-zione. I due sposi non sono nominati, i loro nomi sono i nomi di coloro che celebrano ogni alleanza, Dio e Adamo/Eva, Dio e Noé, Dio e Abramo, Dio e Israele, Dio/Gesù e la Chiesa. A Cana in modo specifico gli sposi sono Gesù, che in ebraico significa Salvezza, e maria, la madre di gesù, ossia la madre della salvezza. gli sposi di Cana rappresentano e significano la concentrazione di ogni alleanza con Dio.

Lo sposo è la Salvezza (Yeshua), Gesù: al matrimonio di Cana è invitata la salvezza nella persona del salvatore. Alla salvezza è dichiarato che è iniziato il suo tempo per la presenza del salvatore.

La sposa è la madre di gesù, la madre della salvezza, la madre del Salvatore, la “Donna”, la sua maternità, la sua vocazione a gene-rare la salvezza-salvatore-gesù.

gesù è l’Adam, mentre la madre è la madre dei Viventi, Eva. Come a nazareth, Luca ci dona la descrizione di un nuovo inizio, non più di una donna da un uomo (Gen 2), ma un uomo da una donna, non più Eva da Adamo, ma Adamo da Eva, così giovanni ci parla dell’alleanza matrimoniale della madre della salvezza con la salvezza stessa. segno che i tempi sono arrivati, e la madre della salvezza sollecita e accelera il compimento. “Non hanno più vino”…Fate tutto quello che Egli vi dirà”.

In mezzo, però, ci stanno le parole dell’intesa, del matrimonio, le parole della formula del consenso matrimoniale: “Ma li ve lah, isha, (gunai)”, ossia qual è il progetto, l’affare, il compito, il piano della salvezza per il quale le nostre due persone sono implicate

14 Orig Co Jo Xiii, LXii, 433: Sch 222, 272; Tr in Jo Lvii, 391-392: Sch 222, 248-220.

15 eus caes Dem Evang iX, 8, 7: GcS 23, 424.

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indissolubilmente?16”. Così la pensava anche Teodoro di Mopsuestia nel suo commento a giovanni17. se le parole di gesù fossero da leg-gere in modo occidentale, come un rimprovero di gesù a sua madre, quasi che essa si fosse discostata dalla sua vocazione di madre del salvatore, allora non si capisce come gesù abbia proseguito a dare esecuzione alla volontà-desiderio della madre. Le parole di gesù sono eco delle altre che Luca pone sulla bocca di gesù dodicenne, cioè fatto adulto nel Bar-Mitztvah nel tempio di gerusalemme: “Perché mi cercavate? Non sapevate forse che io devo stare nelle cose che riguardano mio Padre?” (Lc 2, 50). Parole che assumono il tono retorico, poiché denunciano la consapevolezza che Gesù sa-peva bene che i suoi genitori erano altrettanto consci della missione del Figlio.

Le parole di gesù alla madre sono le parole della memoria della loro Alleanza sponsale per l’incarnazione-esecuzione del Piano de-finitivo della Salvezza, di cui Ger 31, 31-34: “Ma questa sarà l’alle-anza che stipulerò con la casa di Israele alla fine di quei giorni, ora-colo del signore! Io porrò la mia torah in mezzo al loro cuore e sul loro cuore la scriverò. E io sarò per essi il loro Dio ed essi saranno per me il mio popolo” (Ger 31, 31-34, specialmente v.33). È l’Alle-anza del cuore nuovo e dello spirito nuovo di cui parla Ezechiele (Ez 36, 23-28).

Il Regno di Dio, compimento dell’Alleanza nuova, è assimilato da gesù a un banchetto. Ricordiamo la parabola delle vergini che vanno incontro allo sposo (Mt 25, 1-13) o quella del banchetto nu-ziale preparato dal re per suo figlio (Mt 22, 1-14).

Gesù è il Figlio del Re (Mt 22, 1), è lo sposo, come lo dice espres-samente Marco (2, 18-20: “Possono forse gli invitati a nozze digiu-nare mentre lo sposo è ancora con loro? Per tutto il tempo che lo sposo è con loro non possono digiunare”), che promette vino nuovo

16 O forse, come vedremo nell’analisi di Gv 2,4, si tratta semplicemente di cambiare posizione al punto interrogativo, per cui in 2,4, la prima parte non sarebbe una domanda, mentre la seconda parte invece diventerebbe una domanda retorica in bocca alla Madre di Gesù, secondo il pensiero di Teodoro di Mopsuestia.

17 Theod Mops Co Jo ii, 4: cScO 62-63, 39-40.

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in otri nuovi (Mc 2, 22: “Similmente nessuno mette vino nuovo in otri vecchi, ma vino nuovo in otri nuovi”).

giovanni sfrutta un fatto storico e ne trae un simbolismo teolo-gico. se in gv 1, 29, abbiamo nelle parole del Battista la presenta-zione dell’identità di Gesù: “Ecco l’Agnello di Dio, colui che prende su di sé i peccati del mondo”, in Gv 2, 1-11 abbiamo la presentazione del programma di Gesù, l’annuncio del suo inizio (Gv 2,11: arké) e la prefigurazione del suo compimento (Gv 13, 1: telos; sia Gv 19, 28).

analisi

ora tentiamo di analizzare i dati interni alla pericope di gv 2, 1-11 alla luce dei riferimenti giudaici e dei commenti patristici, per evidenziare il simbolismo che affiora dalla celebrazione di un ma-trimonio ebraico. Analizziamo pertanto gli elementi descrittivi del fatto storico delle nozze di Cana, che da giovanni sono presentati ed interpretati come annuncio simbolico del compimento del piano salvifico di Dio.

Il matrimonio si celebra il giorno terzo, cioè di mar-

tedì, secondo la tradi-zione ebraica.

In gen 1, 9-13, nel terzo giorno Dio separa l’asciutto dalle acque, la terra dal mare, e poi dà inizio alla fecondità della terra, e per due volte è dato il commento: “E Dio vide che questo era buono”. Il martedì, il terzo giorno, è un giorno particolarmente salvifico: è il giorno del sacrificio di Abramo (Gen 22, 4), del dono della Torah (Es 19, 16)18, dell’intercessione di Ester (Est 5, 1).

18 cf a. Serra, Contributi dell’antica letteratura giudaica per l’esegesi di Giovanni 2, 1-11 e 19, 25-27, roma 1977. f. MannS, o.c., 98. Manns menziona l’articolo di Serra che fa del Targum di es 19-24 lo sfondo giudaico di Gv 2, 1-11, con riferimento al Libro dei Giubilei 16, 17 e alla Mekilta di r. ismael, es 15,16.

1. “nel terzo giorno” (gv 2, 1)

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osea 6, 2 parla del terzo giorno in cui Dio interverrà per guarire o per risuscitarci (Bibbia greca della LXX). Sappiamo come questo passo è stato letto in chiave cristiana e applicato alla resurrezione di gesù.

E così abbiamo il ciclo completo del significato del terzo giorno: dal primo “terzo giorno”, quello della settimana della creazione, fino al terzo giorno, ma non più quello della settimana, il martedì, bensì il terzo giorno che concerne l’Ora della glorificazione del Signore con la sua morte.

teodoro di mopsuestia, esponente della scuola letterale antio-chena del secolo V, dà una spiegazione cronologica del terzo giorno. Egli dice che si tratta del terzo giorno dopo il battesimo di Gesù (Gv 1, 29) e dell’incontro di giovanni e Andrea con gesù. nel secondo giorno invece sono accaduti gli incontri con Filippo e Natanaele (Gv 1, 35), mentre il terzo giorno è il giorno dell’invito al matrimonio di Cana di galilea19.

L’espressione “nel terzo giorno”, che in Gv 2, 1 è l’unica volta ad essere usata da giovanni, è una formula che nel nt rimanda all’an-nuncio pasquale della resurrezione20.

In realtà se mettiamo insieme le indicazioni cronologiche che giovanni ci dà nei primi due capitoli, risulta che le nozze di Cana av-vennero nel giorno settimo della prima settimana di gesù. I primi tre giorni sono indicati dall’espressione “l’indomani” di Gv 1, 29.35.43. Quindi ai primi tre giorni si aggiungono altri tre giorni (Gv 2,1) che completano i primi sei giorni della settimana21. L’espressione di gv 2, 1 pone il numero tre in posizione “ordinale”, e quindi va tradotto: “nel terzo giorno”, dopo evidentemente i tre primi giorni descritti

19 Theod. Mops. Co Jo ii, 1: cScO 62-63, 39.20 cf Mt 16,21; 13,23; 20,19; Lc 9,22; 18,33; 24,7.21.46; at 10,40;

1 cor 15,4. in Giovanni si trova ancora l’espressione: “dopo tre giorni” in riferimento alla ricostruzione del tempio=corpo di Gesù: Gv 2, 19-20.

21 Origene in Co Jo X, iii, 10 (Sch 157,386-387) ritiene che sei giorni dopo il battesimo avvenne l’”economia” alle nozze di cana. inoltre in quello stesso sesto giorno, dopo la celebrazione dell’ “economia” delle nozze di cana di Galilea, Gesù discese con la madre i fratelli e i discepoli a cafarnao, campo della consolazione: Orig Co Jo X, viii, 37 (Sch 157, 406) e Xiii, XXXvii, 25, 1 (Sch 157,532) anche in Co Jo XXviii, fr., mentre in Co Jo Xiii, Lii, 347 (Sch 222, 224-226): si parla solo di terzo giorno.

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in Gv 1, 29.35.43. Allora le nozze, che avvengono dopo i tre giorni, rispetto agli altri primi tre, si celebrano, di fatto, il giorno settimo, cioè il sabato22. Il matrimonio ebraico23 si celebrava in sette giorni, da sabato a sabato. Possiamo dire che il matrimonio di Cana si col-loca di sabato e nell’ultimo giorno della settimana celebrativa del matrimonio giudaico. Infatti, la numerazione della cronologia delle nozze di Cana ci riporta alla settimana della creazione (Gen 1), e il matrimonio presso gli ebrei cominciava di sabato, allorché allo sposo era chiesto di proclamare la torah nella sinagoga, per conclu-dersi in una grande festa popolare che accoglieva tutto il villaggio, il sabato successivo, con l’incontro degli sposi, la benedizione sotto la tenda, la grande festa e la conduzione della sposa alla casa dello sposo in un corteo di fiaccole e al suono dei flauti. Se la famiglia poteva permetterselo, i due sposi erano incoronati con corone d’oro.

22 J.B. MTaMD BULeMBaT, Head-Waiter and Bridegroom of the Wedding at Cana: Structure and Meaning of John 2.1-12, in Journal for Studies of the N.T, 30/1 (2007), p. 58-59 è per il quarto giorno, ma nello stesso tempo riporta in nota 10 le altre possibile letture: 8 giorni o 7 giorni (Barnabas Lindars) o 6 giorni secondo Brodie. comunque per tutti ogni lettura rimanda a una lettura simbolica. cf anche f. MannS, o.c, 98: «Dans le cadre temporel de Jn 1, 29.29.35.43 la mention du troisième jour prend un supplément de sens: elle pourrait évoquer le schéma des sept jours».

23 Una parola sul matrimonio ebraico, che, al tempo di Gesù, era preparato dal fidanzamento. il matrimonio era prerogativa dei genitori che sceglievano la sposa o lo sposo secondo la convenienza generale della famiglia o del clan (cf Gen 21,21; 24,2-4.50.51.67; 34,1-7). raramente un giovane si sposava contro la volontà dei genitori (Gen 26,34-35). a volte il fidanzamento era contrattato da mediatori che restavano a digiuno fino alla conclusione degli accordi (Gen 24,33; 2cor 5,20). il fidanzamento si divideva in due tempi: la promessa di fidanzamento e il fidanzamento vero e proprio. La promessa del fidanzamento poteva avvenire anche molti anni prima dal fidanzamento vero e proprio che al momento della ufficializzazione diventava vincolante e aveva quasi gli stessi diritti e obblighi del matrimonio: era infatti accompagnato da un documento-contratto scritto o verbale (Gen 29,18). i fidanzati erano riconosciuti come marito e moglie e avevano l’obbligo della fedeltà (Mt 1,18-20) com’è evidente nel caso di Giuseppe di nazareth che non vuole che Maria sia accusata di adulterio, con la conseguente condanna alla lapidazione. i due promessi restavano nelle rispettive case e non avevano rapporti sessuali (Gen 29,21). L’età del fidanzamento avveniva intorno ai 13-14 anni per lei e 18-24 per lui e durava circa un anno, durante il quale il fidanzato preparava la casa e la sposa l’abito nuziale e le celebrazioni nuziale era a carico della famiglia della sposa. non era consentito il matrimonio con donne cananee, moabite e ammonite (es 34,11-12,16; Dt 23,3-4), ma era lecito quello con una schiava straniera o con una prigioniera di guerra (Dt 21,1-11).

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Il matrimonio ebraico è sempre rievocativo del matrimonio di Dio con il suo popolo e celebra il rinnovo dell’alleanza Dio e Israele. Il matrimonio ebraico è sempre una liturgia che celebra, nell’unità dell’uomo e della donna, l’unità di Dio con Israele.

Il Vangelo di giovanni è l’annuncio della nuova creazione, della nuova settimana. Il nuovo primo giorno corrisponderà, in effetti, all’ottavo giorno, il giorno della Resurrezione dello sposo nella sua Chiesa. Il Vangelo di giovanni comincia con le stesse parole della Bibbia, nella Genesi: “In principio…” (Gen 1, 1; Gv 1, 1).

La nuova creazione si realizzerà nell’Eden-giardino di gerusa-lemme, in cui è collocata la realizzazione della Passione e Resurrezione dello Sposo. Il giardino (kepos, in greco, e gan, in ebraico), menzio-nato all’inizio, nel mezzo e alla fine del racconto della Passione-Resur-rezione in Giovanni, è evocazione del giardino della Genesi: Gv 18, 1; Gv 18, 26 e Gv 19, 41; Gv 20, 15. Nel primo giardino vi era l’albero, fonte della condanna, mentre nel giardino della Passione-Resurrezione a gerusalemme fu innalzato l’albero della vita e della salvezza.

L’”arké”, (Gv 1, 1) l’inizio del vangelo di Giovanni che rimanda alla creazione, a sua volta è rivolto al “telos” della Morte e della Re-surrezione (Gv 13,1: li amò sino al telos, sino alla fine”.

Questo rimando della creazione al giardino della Passione, che costituisce il contesto largo del segno di Cana, permette pure di dare una lettura pasquale dei tre giorni segnalati da gv 2, 1. I tre giorni rievocano pure i giorni del compiersi definitivo delle nozze della nuova ed Eterna Alleanza con la resurrezione dello sposo gesù.

tutto il Vangelo di giovanni offre, pertanto una rilettura proto-logica, con la presentazione della nuova creazione, in rapporto alla Passione e Resurrezione. Possiamo dire che tutto il Vangelo di gio-vanni sia anche una grande ed estesa celebrazione eucaristica del memoriale della Passione-Resurrezione come nuova creazione e che trova nel capitolo 6 la sua chiave di lettura (pane di vita, mangiare la carne, bere il sangue!).

Ricordiamo che giovanni per sette volte richiama la festa della Pasqua definitiva di Gesù (Gv 11, 55 (2v); 12, 1; 13, 1, 18, 28.39; 19, 14). Nella Pasqua di Gesù si compie la definitiva nuova creazione con la nuova ed Eterna Alleanza.

Vogliamo ricordare anche la lettura spirituale del terzo giorno proposta da Gaudenzio di Brescia. Egli lega il significato del giorno

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alla luce. ora la luce è il signore. Quindi il terzo giorno è il giorno del signore secondo gv 1, 9, il giorno dello sposo celeste, gesù si-gnore, che ama le anime che credono in lui, e che unisce a sé quale sposa la Chiesa proveniente dai pagani, cui dà l’anello del suo sigillo e gli orecchini della fede”. Allora il primo giorno è la fase della legge naturale, da Adamo a mosè, mentre il secondo giorno indica il tempo di mosè. E così il terzo giorno è l’epoca della grazia del salvatore24.

In questo matri-monio non si fa cenno alla sposa.

si parla solo dello sposo in modo ano-nimo, e al quale si fa

presente l’osservazione, carica di stupore, del vino migliore offerto alla fine della festa del matrimonio.

Lo sposo è l’Adamo della prima creazione che si vede raggiunto inaspettatamente da una grazia incomparabile. La sposa, non citata, sembra rimanere nascosta dietro lo sposo, perché non ci sarebbe sposo se non ci fosse una sposa. È l’Eva ancora dentro il corpo di Adamo, che nell’unità con lo sposo condivide la gioia resa possibile da altri due protagonisti, quelli veri, quelli ricordati e sottolineati da Giovanni, come se fossero non solo madre e figlio, ma soprattutto la sposa e lo sposo. La sposa, la madre di gesù, è presentata tra l’altro già presente (“c’era”: v. 2, 1), come “stava” presso l’Ora della croce: Gv 19,25. Quindi i veri protagonisti sono la Madre di Gesù e Gesù.

La Madre di Gesù, la sposa

L’identità di maria, nome che tra l’altro non appare mai nel vangelo di Giovanni, è quella della “madre di Gesù” (2, 1.3.12) e “donna” (2, 4), proprio come nella pericope di Gv 19, 25-27: presso la croce stava la “madre di Gesù” (19, 25: 2 volte; 19, 26: due volte; Gv 19, 27) e che da Gesù è chiamata “donna” (19, 26). Nel linguaggio familiare ebraico

24 Gaud Brix Tr viii, 22-23.41: cSeL 68, 69.72.

2. i protagonisti: lo sposo e la sposa

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i membri di una famiglia sono rinominati alla luce delle loro relazioni di sangue. Se Gesù non è solo il figlio di Giuseppe, ma il suo nome è “Figlio di Giuseppe =Ben Josef”, così Maria non solo è la Madre di Gesù, ma anche il suo nome è “Madre di Gesù-Em Yeshua ”. Qui Gio-vanni è fedelissimo ai linguaggi ebraici. Egli non cita mai maria con il nome di maria, ma con l’Em Yeshua=Madre di Gesù!

In oriente, infatti, e particolarmente ancora ai nostri giorni nella tradizione popolare araba, è normale chiamare la madre o il padre a partire dalla loro relazione con il figlio primogenito, o chiamare il figlio a partire dalla sua relazione con il padre e la madre.

In gv 2, le nozze di Cana sono proiettate verso il compimento dell’ora della croce. In gv 2 si parla tre volte della madre di gesù e una volta di donna; mentre sotto la croce, si parla cinque volte della madre di gesù e una volta di donna.

In altre parole, dei due brani mariani di giovanni il primo è introdu-zione del secondo, e il secondo è compimento del primo, sia per quanto riguarda l’annuncio, la teofania del sopraggiungere dell’alleanza finale di Dio con l’umanità, l’Israele senza confini in Gv 2, che ha in Gv 19 il suo definitivo compimento, sia per quanto riguarda la posizione della madre di gesù. In gv 2, la madre di gesù è colei che annuncia l’Alleanza nuova ed eterna, in gv 19, è Colei che assiste alla celebra-zione dell’alleanza definitiva nel Sangue del Figlio (Tutto è compiuto: Gv 19, 28) e accoglie le primizie della storia della “qehillàh”, della comunità, della Chiesa universale del Figlio, frutto del suo ministero iniziato alla presenza della Madre a Cafarnao (Gv 2, 12).

Il fatto che in gv 2 maria è detta madre di gesù per tre volte, mentre in gv 19 è detta madre di gesù per cinque volte, la crescita numerica nel medesimo tema mariano, sembra affermare del primo brano (Gv 2) il carattere dell’inizio, mentre del secondo (Gv 19) il carattere del compimento della presentazione della stessa identità materna di maria nei confronti di Gesù e nel contesto della glorificazione della Passione.

maria sta al matrimonio di Cana come la regina madre che, se-condo l’uso orientale presente al matrimonio del figlio, pensa ad in-coronarlo, a mettergli sul capo la corona regale, come il cantico dei Cantici lo afferma di Salomone (CC 3, 11: Figlie di Gerusalemme, uscite, contemplate, figlie di Sion, il re Salomone, adorno della sua corona, con la quale sua madre l’ha incoronato il giorno del suo spo-salizio, nel giorno della gioia del suo cuore”).

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Quindi maria a Cana ricopre il ruolo di chi è coinvolta, per il piano di Dio, in quanto “Serva del Signore, che fa il Suo Verbo”: (Lc 1, 38), nella realizzazione delle nozze messianiche, previste in modo largo e incalzante dai profeti. Le nozze messianiche, l’alleanza nuova ed eterna si compie grazie alla presenza (c’era!) della Regina-Madre-Sposa, e grazie al suo sì (Lc 1, 38).

In corrispondenza al numero tre, legato all’indicazione cronolo-gica-teologica del terzo giorno, è ribadita per tre volte, cioè in modo corrispondente al compimento perfetto del Disegno di Dio, la pre-senza di maria, come la presenza di Colei che ha la chiave dell’e-secuzione del piano di Dio, la realizzazione dell’Alleanza, nuova ed eterna, nel “Suo” Sangue. Senza di Lei non viene il vino nuovo, il vino del sangue del signore, il vino dello spirito. senza di Lei non ci sarà il sangue di gesù, che sostituisce il sangue dell’alleanza mosaica (Ex 24). Senza di Lei non ci sarà lo Spirito=vino su cui, se-condo Geremia (Ger 31, 31-34), si fonda l’Alleanza nuova ed eterna.

Ora per il fatto che l’espressione “Madre di Gesù” sia congiunto per tre volte al termine donna, l’appellativo “donna” sta come al centro di un triangolo equilatero. La donna (guné in greco-isha in ebraico) richiama la prima donna, la donna della creazione, legata intrinsecamente all’uomo, all’adam e all’ish. Prima della sua crea-zione da Adamo, la donna faceva parte della stessa adamah, terra, dell’Adam, primo uomo: un’alleanza sponsale dove veramente l’uno è carne e ossa dell’altro. Poi dall’adam-ish emerge la isha, la donna, la sua femminilità, la sua complementarietà all’uomo (Gen 2, 21-23), con la vocazione specifica, quella della maternità, perché Eva significa “Madre dei viventi-Havah”, mentre Adamo mantiene il nome di Adam (Gen 3,20.).

La tradizione rabbinica descrive la bellezza di Eva, come la madre dei viventi. Come immagine del Dio della vita, Eva è rivestita di 24 ornamenti che richiamano le perle preziose di cui parla Ezechiele riferendosi al principe di Tiro (Ez 28, 13).

Il serpente sedusse Eva a motivo della sua bellezza. Ireneo25 co-nosce questa tradizione giudaica in riferimento ad Eva. La madre di

25 iren AH v, 19,1: Sch 153, 248-250; Dem 32-33: Sch 406, 128-130. agostino afferma che se il cristo prende il corpo da Maria, anche la sinagoga

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gesù sarà l’Eva, la bella, che realizzerà anche la bellezza del popolo di Israele che ai piedi del Sinai accoglie la Torah (Ex 24 ).

Per giovanni, la madre di gesù è la nuova Eva, la madre dei vi-venti, che entra in modo indispensabile nella realizzazione non solo del matrimonio di Dio con Israele, ma di Dio con “tutti i viventi”, con tutta l’umanità. La madre di gesù a Cana riveste il ruolo di spingere gli avvenimenti verso la loro realizzazione, annunciando l’arrivo dell’ora dell’Alleanza sponsale con il sangue dello sposo, e di aprire l’Alleanza in proiezione universale, come fu predetto da geremia e da Ezechiele.

nello stesso tempo, essa è la madre dei viventi, cioè di coloro che credono. L’episodio di Cana finisce, di fatto, con la creazione dei primi cinque discepoli credenti, primizia della nuova “Torah” e della nuova qehillàh fondata sulla Torah ebraica realizzata in gesù di nazareth, con la celebrazione dell’assenso in base al sangue di gesù! Cinque sono i libri della torah mosaica, come cinque sono i primi discepoli di gesù, che rappresentano la primizia del Popolo della Torah eterna, in continuità con la Torah mosaica!

Per Efrem di siria, se lo sposo di Cana è gesù, la sposa non può essere che sua madre:

“Gridate di gioia, voi sposi e voi spose. Benedetto il Figlio la cui madre divenne una sposa per il santo. Benedetta la festa di nozze dove tu, Cristo, eri presente: anche se il suo vino verrà a mancare all’improvviso, grazie a te sarà abbondante il nuovo”26.

gaudenzio legato alla doppia lettura esegetica, afferma che maria secundum carnem è la madre di Cristo che intercede a Cana perché gli sposi abbiano il vino delle nozze, ma figuraliter maria rappre-senta tutti i giusti dell’Antico testamento, dai quali è uscito Cristo, e che hanno interceduto per i pagani al fine di ottenere loro la letizia del vino celeste27.

può essere considerata madre di cristo: Quaestiones in Hept 49, 16: ccL 33, 367 e En in Ps 44, 12: ccL 38, 502. cf B. DeGÓrSKi, art. cit., 291.

26 ephrem, Inni sulla Natività 8,18: Sch 459, 153. cf S. p. BrOcK, L’occhio luminoso. La visione spirituale di sant’Efrem, Lipa, roma 1999, 146.

27 Gaud Brix Tr iX, 15-16: cSeL 68,79.

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Gesù, lo sposo

gesù è l’invitato con i suoi cinque discepoli. marco ci dice che il primo giorno del suo ministero messianico gesù entra nella sina-goga di Cafarnao seguito dai primi quattro discepoli raccolti lungo la riva del lago: gesù è il primo libro della Torah, e quindi il primo libro di tutta la Bibbia, mentre gli altri quattro libri sono rappresen-tati dai primi quattro discepoli che per la fede (Gv 1, 11) formano l’unica Torah. tutti insieme, gesù e i discepoli, sono cinque, come cinque sono i libri della torah ebraica. Le reazioni dei giudei in sina-goga saranno quelle di chi si sta convincendo di essere alla presenza di una nuova “Torah”, insegnata con Torah-autorità, non come gli scribi (Mc 1, 21-22).

A Cana gesù inizia il suo ministero: è invitato Lui con la Torah, significata dai primi cinque discepoli. Davanti ad Hanna-Yohanan, sommo sacerdote emerito, Gesù sarà interrogato sulla “sua” Torah e sui suoi discepoli (Gv 18, 19), cioè sul su insegnamento della Torah.

In un matrimonio preso come haggadàh-racconto e simbolo del compimento del matrimonio di Dio con il suo popolo, in Cristo e la sua Chiesa, per la celebrazione dell’Alleanza definitiva, Gesù è presentato non solo come il rabbino-interprete della Torah, ma Dio stesso che porta la Torah definitiva, quella della nuova ed eterna al-leanza. gesù ci è offerto da giovanni come l’esecutore dello sposa-lizio e colui che, condiviso dalla sposa, dalla madre, espressione del nuovo popolo (infatti, le parole di Gesù alla Madre, di Gv 2, 4, sono parole di memoria e di condivisione del progetto di Dio da parte di entrambi, veri sposi del matrimonio definitivo), porta il segno del compimento, cioè il vino messianico, il vino del suo sangue e il vino dello spirito.

se teodoro di mopsuestia commenta la partecipazione di gesù alle nozze di Cana con i suoi discepoli come la decisione di gesù di far esercitare i suoi discepoli non anzitutto nelle cose dure, por-tandoli con sé a questo scopo ad una festa di nozze28, e giovanni Crisostomo semplicemente precisa che gesù è venuto alle nozze di

28 Theod Mops Co Jo ii, 2: cScO 62-63, 39.

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Cana non per ostentare miracoli ma per fare un atto di bene29, gau-denzio di Brescia invita a non meravigliarsi della presenza di gesù alle nozze di Cana, perché ciò rientra nella logica dell’incarnazione del Cristo Dio, che vivendo tra gli uomini, si rese presente nelle afflizioni umane, in base a Mt 9,1230. Cirillo insiste nel dire che la presenza di gesù alle nozze di Cana è una benedizione e l’atto di santificazione dell’esercizio della sessualità e della procreazione, in antitesi con la maledizione di gen 3,1631.

E Cristo venne alle nozze di Cana, anche secondo il vescovo di Brescia, per benedire il matrimonio legittimo che corrisponde all’in-tenzione originale del Creatore32. stessa idea è offerta da giovanni Crisostomo, per il quale contro le tendenze encratite e marcionite, gesù è presente alle nozze di Cana e le rallegra con il vino, proprio per dichiarare che il matrimonio non è male33. Per il Crisostomo è la verginità che viene, nelle nozze di Cana, a onorare con la sua presenza il matrimonio34, affinché, completa Teodoreto di Ciro, esaltando la verginità non si corra il rischio di disprezzare il matri-monio35. Così pure nella scuola alessandrina, Cirillo insiste nel dire che la presenza di gesù alle nozze di Cana è una benedizione e l’atto di santificazione dell’esercizio della sessualità e della procreazione, in antitesi con la maledizione di gen 3,1636. Efrem il siro scrive che a Cana ha suonato l’arpa della creazione37. già origene38, ancora prima, nel III secolo, in polemica contro gli gnostici, in particolare contro Eracleone, che rifiutano la bontà del matrimonio, afferma che

29 ioh crys In Jo Ho XXi, 1: pG 59, 129.30 Gaud Brix Tr viii, 2-5: cSeL 68, 64-65.31 cyril alex In Jo ii, 1-4: pG 73, 221D-225a.32 Gaud.Brix Tr viii, 10: cSeL 68, 66.33 Joh crys In Jo Ho XXii, 1: pG 95, 134.34 ioh crys In Ozias Ho iv, 3, 24-29: Sch 211.35 Theodoret cyr De incarn. 25 : pG 75, 1464 Bc.36 cyril alex In Jo ii, 1-4: pG 73, 221D-225a.37 ephrem, Hymn haer 40,7: cScO 170, 144.38 Orig Co Jo XXviii, fr.(edizione preuschen, Origenes, Der

Johanneskommentar, 1903). Sebbene preuschen ritenga che questo frammento non sia di Origene, perché sembrerebbe che sia attribuita a Origene l’opinione degli ebioniti secondo cui la creazione dell’uomo e della donna avrebbe come soggetto creatore cristo.

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gesù venne alle nozze di Cana in quanto creatore dell’uomo e della donna, il quale, dopo aver plasmato Eva, l’ha condotta ad Adamo. Quindi a Cana gesù ottempera alle stesse parole pronunciate da lui in Mt 19, 6: “L’uomo non osi separare quello che Dio ha unito”.

Efrem ci testimonia la tradizione siriaca che legge nel vero sposo di Cana gesù stesso. mentre la sposa è la madre:

“Benedetta sei tu, Cana, perché era lo Sposo dall’alto che invitò il tuo sposo, a cui il vino venne meno; egli invitò l’Ospite che invita i popoli alla festa di nozze della gioia e della vita nell’Eden”39. mentre l’anima è la sposa e il corpo la stanza nuziale, gli invitati sono i sensi e i pensieri, mentre la Chiesa è il banchetto nuziale40.

Anche per Agostino il vero sposo di Cana è Gesù. “Cosa c’è di strano che si rechi alle nozze in quella casa, lui che è venuto a nozze in questo mondo? Se infatti non fosse venuto a nozze, non avrebbe qui la sposa”. E poi, basandosi su 2 Cor 11, 2-3, prosegue: “Il Si-gnore ha qui una sposa che egli ha redento con il suo sangue, e a cui ha dato in pegno lo spirito santo. L’ha strappata dalla schiavitù del diavolo, è morto per i peccati di lei, è risorto per la sua salvezza. Chi mai offrirebbe alla sua sposa doni così grandi? Il Signore invece muore sicuro, dà il suo sangue per colei che sarà sua dopo la resur-rezione, colei cui si era già unito nel seno della Vergine. Il Verbo è lo sposo, infatti, e la sposa è la carne umana; ed entrambi sono un solo Figlio di Dio, un solo e medesimo Figlio dell’uomo. Il seno della Vergine è il letto nuziale dove egli divenne capo della Chiesa, e donde si leva come lo sposo dal suo letto nuziale, come la scrittura aveva predetto: “Esce come uno sposo dal suo letto nuziale, lieto, come un eroe, di percorrere la via” (Ps 18, 6) Egli è uscito dal letto nuziale come uno sposo e, invitato, viene a nozze”41. Agostino ha di mira le nozze del Verbo con l’umanità, nozze che si celebrano già nel corpo di maria. E intanto precorre i linguaggi cristologici di Efeso.

39 ephrem, Inni sulla Verginità 16,2 (tr. S. p. BrOcK, L’occhio luminoso. La visione spirituale di sant’Efrem, Lipa, roma 1999, p.141). cf anche Inni sulla verginità 33,4 (BrOcK, o.c., 141-142). Inni sulla Fede 14, 1-5 (BrOcK o.c., 142-143)

40 cf ephrem, Inni sulla fede 14, 1-5 (BrOcK o.c., 142-143).41 aug Tr Jo viii, 4-5: ccL 36, 83-84: “verbum enim sponsus, et sponsa caro

humana…de thalamo processit velut sponsus, et invitatus venit ad nuptias” (Tr in Jo viii, 4: ccL 36, 84).

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Il mistero dell’incarnazione in maria fa sì che il Verbo sia e Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, ma un solo Figlio e di Dio e dell’uomo. E ancora Agostino ribadisce: “Il Signore dunque accettò l’invito ed andò a nozze, per confermare la castità coniugale, e palesare il mi-stero (sacramentum) che è figurato dal matrimonio: in quello sposo delle nozze era figurata la persona del Signore, cui fu detto: “Hai riservato il buon vino fino a questo momento, cioè il Vangelo”42.

La medesima lettura si ritrova in Cirillo di Alessandria, per il quale le nozze di Cana sono le nozze del Logos con l’umanità: “Il Logos di Dio è disceso dal cielo. Come lui stesso lo dichiara in un passo, al fine di persuadere la natura umana, che aveva resa propria, a ricevere in sé i semi spirituali della saggezza. Per questo giustamente l’uma-nità è detta “sposa” e il Salvatore “sposo”, perché la divina Scrittura eleva il suo discorso dalla nostra realtà a una comprensione che ci supera. Il matrimonio accade il terzo giorno che rappresenta l’inizio, la metà e la fine”43.

Pure gaudenzio di Brescia parla di matrimonio di Cristo con la Chiesa, al momento in cui Cristo le offre il vino nuziale44.

origene sovrappone alla historia la lettura teologico-allegorica del brano di Cana, unendo questo al secondo episodio di Cana che vede gesù operare un secondo miracolo, quello della guarigione a distanza del servo del funzionario regio di Cafarnao (Gv 4, 43-54). origene mette in parallelo entrambi gli episodi, il miracolo della trasformazione dell’acqua in vino è allegoria della prima venuta di gesù con l’incarnazione, mentre il miracolo della guarigione del servo è allegoria della seconda venuta di gesù nel tempo del giu-dizio. I convitati alle nozze sono figura di tutte le Nazioni, mentre il servo del funzionario regio è figura del popolo ebraico, l’ultimo a essere salvato alla fine dei tempi.

42 aug Tr Jo iX, 2: ccL 36, 91.43 cyril alex In Jo II, 11-13: pL 73, 228-229.44 Gaud Brix Tr viii, 31 : cSeL 68, 69.

3. il Vino messianico, il vino delle nozze:

“Non hanno più vino!” (gv 2, 3)

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La madre di gesù dice: “Non hanno

più vino” (Gv 2, 3). L’affermazione della madre di gesù solleva una mentalità che af-

fonda le radici nella letteratura antico- testamentaria, investe il tema del vino nel nuovo testamento, ed è accolta dai padri come simbo-lica eucaristica. nel brano di gv 2,1-11 la parola vino ritorna ben cinque volte. Questo dice l’importanza teologico-simbolica rimar-cata dall’autore del IV Vangelo.

Il vino è simbolo della gioia messianica (Ps 104, 14) o della le-tizia spirituale, ricorda gaudenzio di Brescia45. Il profeta Amos parla dell’abbondanza del vino quando si sarebbe stabilita l’alleanza (Am 9, 13-14). Il profeta osea aggiunge che la qualità del vino nuovo sarebbe stata superiore a quella del vino del Libano (Os 14, 8). Isaia diceva che nel banchetto escatologico il vino sarà abbondante e dato gratuitamente (Is 25, 6; 55, 1). Nell’Apocalisse di Baruch si dice che ai giorni del messia le vigne produrranno mille pampini ed ogni pampino mille grappoli d’uva46.

Ed è la madre che si occupa di far realizzare l’alleanza, il matri-monio definitivo: “Non hanno più vino” (Gv 2, 3).

Un’immagine cara ai profeti è quella del popolo-vigna (cf Is 5, 7 riflettuto in Ps 80).

si parla per la prima volta di vino nella Bibbia con l’alleanza con-clusa da Dio con Noè: (Gen 9, 20-21). Noè piantò la vigna e bevve di quel vino. secondo il targum47 la pianta della vite veniva dal Pa-radiso. Il diluvio l’aveva sradicata. Ancora il targum suggerisce che dopo aver creato la vite Dio volle mettere da parte del vino, sotto il suo trono, per i tempi del messia. La missione del messia sarebbe stata appunto quella di dare questo vino conservato da Dio48. I grap-

45 Gaud Brix Tr viii, 6: cSeL 68, 66: virtus laetitiae spiritalis.46 cf 2 Bar 29, 5-8: Sch 144, 483.47 cf J. BOWKer, The Targum and rabbinic literature. An introduction to the

Jewish interpretation of Scriptures, cambridge 1969, 173-175.48 cf il Targum di ct 8,2.

3. il Vino messianico, il vino delle nozze:

“Non hanno più vino!” (gv 2, 3)

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poli di Ebron saranno i segni della ricchezza della terra Promessa (Nm 13, 23; Dt 7, 13; 28, 51).

L’insediamento nella terra sarà dato dall’abbondanza di vigneti e di vino (Am 9, 13-14). Ci sarà molto vino nelle nozze di Jhwh con il suo popolo, come assicura Osea (Os 14, 8). Il Cantico dei Cantici evoca le grazie della sposa che sono espresse dalla dolcezza ine-briante del vino (Ct 2,4). Il Midrash CtR 2, 4, 149 dice che lo sposo ha introdotto la sposa nella cantina, nella casa del vino. nello stesso testo midrashico si legge che il monte sinai era come una grande cantina dove era riposto il vino della Torah, perché la Torah è il vino, infatti, la Torah e il vino rallegrano il cuore dell’uomo (Cf anche CtR 1,2,750).

Anche l’identità del messia, della tribù di giuda, sarà legata al vino nella benedizione di Giacobbe: “Egli lega alla vite il suo asi-nello e a scelta vite il figlio della sua asina, lava nel vino la veste e nel sangue dell’uva il manto” (Gen 49, 11).

Nel Targum di Gen 49, la figura del Messia è legata al vino: “Le sue vesti sono bagnate nel sangue, è simile a chi pigia l’uva. Come sono belli gli occhi del re Messia, come il vino puro”51.

Nel libro del Siracide la vite è assimilata alla sapienza (Sir 24, 17-18), mentre il vino delle quattro coppe del seder pasquale corri-spondono alle quattro espressioni della redenzione di Israele che si trovano in Ex 6, 6: “…Vi farò uscire dalle fatiche di Egitto, vi libe-rerò dalla loro schiavitù, e vi riscatterò con braccio teso e con grandi prodigi”, secondo l’esegesi di Rabbi Banaya.

Ireneo di Lione menziona che “i presbiteri che videro Giovanni, il discepolo del signore, ricordano di aver udito da lui come il signore, a proposito dei tempi, insegnava e diceva: verranno giorni in cui na-sceranno vigne, con diecimila viti ciascuna. ogni vite avrà diecimila tralci e ogni tralcio diecimila poppaioni. ogni poppaione avrà die-

49 Song of songs. An analytical translation (by J. neusner), Brown Jewish Studies 197, atlanta 1989, p. 160. Midrash Rabba, Song of the Songs II,4 (tr. M. Simon),The Soncino press, London-new York, 102-103.

50 Songs of Songs. An analytical translation (by J. neusner), Brown Jewish Studies 197, atlanta 1989, p.69-71. Midrash Rabba, Song of the Songs I, 2, 7 (tr. M. Simon),The Soncino press, London-new York, 35.

51 cf J. BOWKer, The Targum and rabbinic literature. An introduction to the Jewish interpretation of Scriptures, cambridge 1969, 278.284.

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cimila pampini, e ogni pampino diecimila grappoli. ogni grappolo avrà diecimila acini e ogni acino spremuto darà venticinque metrete di vino. Quando uno dei santi prenderà un grappolo, un altro grap-polo griderà: Prendi me, io sono migliore e per mio mezzo benedici il Signore”52.

Per Ippolito di Roma, commentando la benedizione di Neftali: “Il vino è la potenza dello Spirito Santo”53. Anche gaudenzio di Bre-scia dirà che il vino mancante era il vino dello Spirito Santo, perché “non c’era alcuno che fosse in grado di dissetare con il vino spiri-tuale le genti assetate, ma si attendeva il signore gesù che riempisse mediante il battesimo col vino nuovo otri nuovi”54. gaudenzio pre-cisa che con il venir meno dei profeti nel popolo di Israele il popolo ebraico non aveva più il vino, cioè lo spirito santo. non potendo quindi dar da bere ai pagani, venne gesù a riempire di vino nuovo, di spirito santo, i nuovi otri, le nazioni, i non ebrei, grazie al batte-simo55.

Per il libro dei Proverbi il vino è anche simbolo della Parola e della sapienza generata dalla Parola (Pr 9, 5-6). Quindi la mancanza di vino indica la mancanza della Parola, la mancanza della sapienza, e del maestro-profeta che la possa offrire (Ps 74, 9). Gesù è venuto a portare il vino della Parola e della sapienza, inaridite nel giudaismo rabbinico al tempo di gesù. oppure come afferma origene, l’acqua trasformata in vino è la trasformazione compiuta da Cristo della let-tera della scrittura in spirito56.

52 iren AH v, 33, 3: Sch 153, 414-415.53 Hipp rom Bened Patriar (Gen 49, 21), XXv: pO 27, 98.54 Gaud Brix Tr viii, 46-47: cSeL 68, 73. cf B. DeGÓrSKi, Le nozze di Cana

nell’esegesi di San Gaudenzio di Brescia, in Vox Patrum 23 (44-45/2003) , 293. cf B. DeGÓrSKi, art. cit, 293-294.

55 Gaud Brix Tr viii, 46-47: cSeL 68,73. il medesimo pensiero era già stato espresso da Origene per il quale in Princ i 3,7: GcS 58,22, gli otri sono immagine dell’uomo nuovo aperto a ricevere la grazia dello Spirito Santo. all’identificazione degli otri nuovi con gli uomini nuovi e del vino nuovo con lo Spirito Santo si allineano sia Massimo di Torino in Serm 28, 3, sia agostino, per il quale il vino nuovo è lo Spirito dato il giorno di pentecoste, Serm 267: pL 38,1230. Stessa idea di agostino si ritrova in Gerolamo (Jeron Adv Iovin i, 30: pL 23,265).

56 Orig Co Jo Xiii, 438: Sch 222, 272. cf anche il commento di H. De LUBac, Storia e Spirito. La comprensione della Scrittura secondo Origene,

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E Origene insiste nel suo commento al Cantico dei Cantici: “Il vino che è prodotto dalla vera vite è sempre nuovo, sempre. grazie al progresso di coloro che imparano, si rinnova la conoscenza della sapienza e della scienza divina”. Origene allude alla perfezione di chi ormai è posseduto dalla dolcezza del vino maturo, che è il sangue del nuovo testamento, in quanto il Logos, gesù, è la vera vite: “Così finalmente offre loro la dolcezza della maturità, fino a condurli ai torchi dove si espande il sangue dell’uva, il sangue del nuovo testamento, per essere bevuto al piano superiore nel giorno di festa, là dove è stata preparata una grande mensa. Così bisogna che procedano attraverso graduali progressi coloro i quali, iniziati per mezzo del sacramento della vite e del grappolo di cipro, vanno alla perfezione e desiderano bere il calice del nuovo testamento ri-cevuto da Gesù”57. Il passaggio all’Eucaristia è evidente, ma non solo come passaggio al sacramento, ma come passaggio al banchetto della piena sapienza espressa dall’Eucaristia, a cui il vino di Cana rimanda.

Infatti, Efrem il siro insisterà soprattutto sulla lettura eucaristica della trasformazione dell’acqua in vino a Cana di galilea, in quanto il signore ha fatto gustare un pane e un vino transitori, per suscitare in essi il desiderio del suo corpo e del suo sangue”, e in modo gratuito, perché si fosse attirati gratuitamente dal bene inestimabile dell’Eu-caristia che non poteva essere pagato ad alcun prezzo. “Infatti, ha nascosto la dolcezza nel vino che aveva prodotto per indicare ai con-vitati che tesoro magnifico sia nascosto nel suo sangue vivificante”. L’acqua trasformata in vino fu per donare il primo segno che il suo sangue sarebbe stato di gioia per tutte le nazioni. E da questa lettura della destinazione universale del sangue di Cristo, Efrem aggiunge un completamento per l’ambito ebraico: “L’acqua cambiata in vino

paoline, roma 1971, p. 550. anche per eusebio di cesarea, la trasformazione dell’acqua in vino è simbolo del passaggio dall’antico al nuovo Testamento, passaggio dalla realtà carnale a quella spirituale: Dem Evan iX, 8, 7: GcS 23, 424. anche cirillo di alessandria dice che la mancanza del vino è propria della Legge, mentre il vino sono i divini insegnamenti della dottrina evangelica: Co in Jo ii, 13 : pG 73, 229B.

57 Orig Co CC ii, 6-8 in cc 1,14: Sch 375,459.

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nelle anfore era il simbolo del primo comandamento portato alla perfezione”58.

Ireneo, già nel II secolo, metteva in relazione il vino creato da Dio, rispetto al quale il vino creato dal Verbo a Cana era migliore. Gesù a Cana trasse il vino dall’acqua come moltiplicò i pani, perché fossero il cibo e la bevanda per tutto il genere umano negli ultimi tempi59.

A gerusalemme, a metà del IV secolo, Cirillo conosce l’idea eucaristica della trasformazione dell’acqua in vino e del vino nel sangue, perché “ai compagni dello sposo egli dà ora di godere del suo corpo e del suo sangue”60.

Più tardi, nel V secolo, Pietro Crisologo riconosce nel vino il segno dell’Eucarestia61, mentre Agostino ritiene che il buon vino conservato per la fine delle nozze è il Vangelo62.

La madre di gesù nel dire al Figlio. “Non

hanno più vino”(Gv 2,3) dimostra ben più di una pura consapevo-lezza che gesù avrebbe potuto risolvere il pro-

blema imbarazzante che era emerso a Cana, con uno strepitoso mi-racolo, come nota nel suo commentario giovanni Crisostomo63, e anche Efrem il siro64, anche se il miracolo della trasformazione dell’acqua in vino effettivamente accadde. La cosa più significativa di Cana non è il miracolo del vino, per cui, ad una lettura diremmo

58 ephrem, Comm Diat Xii, 1-2: Sch 121, 213-21459 iren, AH iii, 11, 5: Sch 153, 152-154.60 cyril Jerus Cat iv/XXii, 2, 2: Sch 126, 136-137.61 petrus chrys Serm 160: pL 52, 622 B.62 aug Tr Jo iX, 2: ccL 36, 91.63 Joh chrys, In Jo Ho XXi, 2: pG 59, 130 (ebouleto gar … eauten lamproteran

poiesai dià tou paidòs).64 ephrem, Diat v, 10: Sch 121, 111.

4. “cosa è in comune tra me e te, donna (?).

non è giunta la mia ora (?)(gv 2, 4)

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superficiale, emergerebbe il problema dell’opportunità o dell’au-dacia della madre di gesù nel chiedere e strappare in quella cir-costanza un miracolo. In realtà possiamo cogliere il significato di Cana, dopo il tentativo di lettura delle parole espresse nella risposta di gesù a sua madre in gv 2,4.

Come già l’abbiamo affermato, possiamo avere due letture, una polemica, quella maggiormente seguita, e quella di impronta posi-tiva.

“Cosa c’è in comune a te e a me, donna? Non è giunta la mia ora” (lettura polemica)

“Ciò che appartiene a te appartiene a me, donna. Non è forse giunta la mia ora?”(lettura positiva).

mai come questa obiezione di gesù è stata staccata dal suo natu-rale e familiare contesto semita e biblico. sembra che la traduzione greca dall’ebraico/aramaico originale abbia favorito un’interpreta-zione riduttiva, fino a renderla un rimprovero da parte di Gesù nei confronti della madre. ma nulla di tutto questo65. Una semplice let-tura del testo greco alla luce di quello che sarebbe potuto essere stato il testo originale ebraico/aramaico, può suggerire non solo una inter-pretazione positiva di queste parole di gesù, ma, anzi, la risposta di gesù suonerebbe come l’annuncio che il Figlio fa alla madre del loro mutuo consenso circa il comune piano di salvezza che vede Cana come il luogo dell’inizio della sua realizzazione. mentre il Figlio è l’esecutore del compimento degli ultimi tempi, la madre diventa lo strumento, esattamente la “mediatrice” del compimento dell’Ora di Gesù. Per cui, non solo la Madre fa bene a ricordare che sono finiti i

65 Questa espressione di Gv 2,4 è stata studiata da a. GOMeZ fernanDeZ, Ti moi kai soi. Que hay entre tu y yo? Jo 2,4a. Nuevas perspectivas, Salamanca 2003. prima di lui da p. GaecHTer, Maria in Erdenleben, innsbruck 1953, 155-200; da J.cOrTeS QUiranT, “Las bodas de Caná”: la respuesta de Cristo a su Madre (Jn 2,4), in Marianum 20 (1958), 157-158; da M. peinaDOr, La respuesta de Jesús a su Madre en las Bodas de Caná, in Eph Mar 8 (1958), 61; da ch.p.cerOKe, The problem of ambiguity in John 2,4, in Catholic Biblical Quartely 21/3 (1959), 316-340, il quale esamina in dettaglio il possibile dilemma del diniego o dell’assenso espresso nelle parole di risposta di Gesù a sua Madre; e anche da W. H. riTva, The Mother of Jesus at Cana: a social-science interpretation of John 2:1-12, in Catholic Biblical Quartely 59/4 (1997), 679-692. e più recentemente da J.B. MTaMD BULeMBaT, Head-Waiter and Bridegroom of the Wedding at Cana: Structure and Meaning of John 2.1-12, in Journal for Studies of the N.T, 30/1 (2007), 55-73.

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tempi dell’attesa (Non hanno più vino!), ma Gesù ricorda alla Madre che questo era “l’affare da portare a termine insieme”.

L’espressione: ti emoi kai soi, gynai; oupo ekei e ora emou, τί ™μοˆ καˆ σο† γÚνα‡ οßπω ¼κει ¹ éρα μου, corrispondente all’e-braico: ma li va lakh… ךלו יל־המ, nel nt torna in mt 8, 29, mc 1, 24, Mc 5,7, Lc 16, 10 e Lc 8, 28, mentre nella LXX la troviamo in Gs 22,24; Gd 11, 12; 2 Sam 16, 10; 19, 23; 1 Re 17, 18; 2 Re 3, 13; 2 Cr 35, 21 e in Esdra 1, 24.

Come osserva Matand Bulembat, la decifrazione del significato dipende molto dal contesto, o positivo o polemico66. se il contesto è positivo il significato è: quello che è mio è tuo. se il contesto è polemico il significato viene ad essere: che c’entri tu con me? Ma tutto fa pensare che tra gesù e sua madre non ci fosse nessun mo-mento polemico o di incomprensione. Anzitutto essa non avrebbe detto con sicurezza ai servi di fare tutto quello che il Figlio avrebbe loro detto (Gv 2, 5). Inoltre il fatto che effettivamente Gesù dia un doppio comando positivo ai servi di riempire di acqua le anfore e di portarle al maestro di tavola (Gv 2, 7-8) fa supporre che esistesse una perfetta intesa tra gesù e sua madre. Entrambi erano ben convinti che era giunta l’ora, l’inizio dell’ora di gesù, quell’ora che avrebbe raggiunto il suo compimento sulla Croce (Gv 13, 1 e Gv 19, 28). L’e-vangelista, poi, enfatizza l’accaduto e il risultato dell’intesa di gesù e sua Madre, annotando alla fine che quello fu il primo dei segni con i quali Gesù manifestò la sua gloria (Gv 2,11). Cana è il piccolo pezzetto di terra in cui Dio manifesta l’inizio del suo acquisto re-dentivo dell’umanità interna con la gloria della croce. non c’è stata nessuna opera di convincimento da parte della madre nei confronti del Figlio, tanto meno essa si sarebbe lasciata spingere dall’idea po-sitiva di dire a tutti chi fosse suo Figlio e la sua potenza. sarebbe stato troppo poco. giovanni invece illumina la perfetta alleanza tra la madre e il Figlio, impegnati entrambi a dare inizio all’ora della gloria della croce.

Dall’espressione di gv 2,4, riletta in modo positivo e in una stu-penda coerenza teologica con tutto il contesto, emerge l’unità per-

66 J.B. MTaMD BULeMBaT, Head-Waiter and Bridegroom of the Wedding at Cana: Structure and Meaning of John 2.1-12, in Journal for Studies of the N.T, 30/1 (2007), 65.

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fetta di madre e Figlio, e, a questo punto, di sposa e sposo, uniti nella celebrazione, come nuova Eva e nuovo Adamo, delle nozze dell’alleanza nuova, piena ed eterna. “Ma li valah, isha!” (= ti moi kai soi, gunai), potrebbe essere stato il pensiero e l’espressione ebraica trasmessi in greco, il greco parlato da un giudeo. In altre parole Gesù dice a sua Madre in modo affermativo: “Ciò che è mio è tuo, o donna; non è forse giunta la mia Ora?”, con la necessaria trasposizione della domanda dalla prima parte alla seconda parte del versetto di gv 2,4. La prima parte è una affermazione, mentre la se-conda parte diventa come una domanda retorica67.

non è secondario. Infatti, ricordare che a partire dalla particella oupo, οßπω, che introduce il secondo lemma di Gv 2,4, questo di-venta una interrogativa retorica e non una sentenza negativa68, per cui gesù conferma di condividere il pensiero di sua madre, in quanto è giunta l’ora dell’inizio della sua missione che si concluderà con l’Ora della glorificazione della Passione. Gesù chiede pertanto in modo retorico: “ Non è forse giunta mia ora”.

L’uso di “donna” per riferirsi alla Madre è spiegabile solo con l’alta considerazione che prende questo nome nell’ebraico isha, che non solo significa donna, ma è il modo comune quotidiano di in-dicare la moglie, la sposa da parte del marito. È vero che l’uso di donna da parte di gesù in altri contesti evangelici sembra essere le-gato a contesti più negativi che positivi (cf Gv 8, 10; Gv 20, 13 o in Mt 15,28; Lc 13, 12; Lc 22, 57), ma non in Gv 4, 21 e soprattutto in Gv 19, 26 e Gv 20, 15.

Chiaramente gv 2, 4 è associato a gv 19, 26, rispettivamente l’i-nizio e il compimento dell’ora: dove la madre di gesù sembra essere

67 anche esegeti contemporanei come M.e. BOiSMarD (Du baptême à Cana (Jo I, 19- II, 11), paris 1956, 151-154) e a. vanHOYe (Interrogation johannique et exégèse de Cana, Jn 2, 4, in Bib 55 (1974), 157-167) sono sulla stessa linea, per cui il primo lemma di Gv 2,4 è una affermazione di consenso e il secondo è una interrogazione.

68 cf f. BLaSS- a. DeBrUnner, Grammatik des neutestamentlichen Grieschich, Göttingen 1976/14, n .476, 3,3; cf anche ch. p. cerOKe, The problem of ambiguity in John 2,4, in Catholic Biblical Quartely 21/3 (1959), 326.

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considerata da Gesù come la “sposa”. La madre-sposa in Gv 2, 4 e la sposa-madre in gv 19, 2669.

Gaudenzio di Brescia afferma che “La Madre di Gesù non avrebbe mai detto ai servi :“Fate quello che egli vi dirà”, se, essendo ricolma di spirito anche dopo il parto divino, non solo avesse conosciuto la potenza della risposta di Cristo, ma anche non avesse previsto l’in-tero disegno secondo cui egli avrebbe mutato l’acqua in vino. Quale sapienza poteva mai rimanere nascosta alla madre, che era stata ca-pace di porre Dio nel suo seno e che era la dimora degnissima di così grande virtù?...Questa Madre del Signore dunque intercedette per noi pagani presso l’Eterno Figlio di Dio e figlio suo secondo la carne, affinché concedesse a noi bisognosi la gioia del vino celeste”70.

La madre, infatti, ha compreso benissimo gesù, e continua il suo compito di mediazione, trasmettendo agli inservienti l’ordine di fare quello che avrebbe detto loro di lì a poco gesù. gesù acconsente alla madre compiendo un segno che pertanto non anticipava l’ora, bensì segnava l’inizio dell’ora. L’ora di gesù sarebbe stata quella della glorificazione attraverso la morte e la resurrezione (cf Gv 1, 1), per cui il segno di Cana segna l’inizio di cui la croce sarebbe stato il compimento. La finalità era quella del sigillare con il vino-Sangue di gesù la nuova ed Eterna Alleanza profetizzata da geremia. Cana non è prefigurazione o anticipazione, è l’inizio, l’inizio dei segni dello sposalizio. Cana è il primo segno che porta a credere all’inizio del matrimonio che Dio celebra con Israele allargato fino a compren-dere tutti i go’im, tutte le nazioni del mondo.

teodoro di mopsuestia, della scuola delle esegesi letteralista di Antiochia dell’inizio del V secolo, sembra muoversi in questa dire-zione nella sua lettura di gv 2, 4. secondo lui il punto interrogativo non va messo nella prima parte della risposta di gesù, ma nella se-conda, per cui si deve leggere così: “Perché mi solleciti e insisti con me, o donna, non è forse giunta la mia ora? Non pensare che in me

69 in questa interpretazione di Gv 2, 4, ci sentiamo totalmente dissociati dal pensiero di J.B. MTaMD BULeMBaT, Head-Waiter and Bridegroom of the Wedding at Cana: Structure and Meaning of John 2.1-12, in Journal for Studiesof the N.T, 30/1 (2007), 67-68. a questo arriviamo proprio in considerazione del linguaggio ebraico soggiacente al testo di Gv 2,4 e di cui il testo greco è una traduzione.

70 Gaud Brix Tr iX, 14 : cSeL 68, 79.

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siano distinti i momenti del pensiero e dell’operare, come accadeva a mosè, il quale a seconda delle necessità dei riceventi dava la manna, la carne, e poi fece scaturire l’acqua dalla pietra”. In Gesù, -continua teodoro-, è sempre presente il potere di fare quando e come vuole, e questo non è condizionato da nessuna contingenza. Quindi gesù non si lascia muovere nel caso di Cana dal pretesto della mancanza del vino, come se il suo potere di compiere il miracolo dipendesse da una contingenza, cioè dalla mancanza del vino, ma perché egli ha la potenza di operare che può sovvenire alla necessità contingenti71.

La Madre di Gesù, sposa di Gesù-sposo, è identificata da Gio-vanni come la madre, mediatrice, che permette la realizzazione del matrimonio della Nuova Alleanza, dal suo inizio (Gv 2, 1-11) al suo compimento (Gv 19, 25-30). In Gv 2, 11 cogliamo il termine “inizio” inizio dei segni”, mentre in Gv 19,28 troviamo “tetelestai”, il verbo del compimento: “Tutto è stato compiuto”, quindi Gesù diede lo Spi-rito della nuova ed Eterna alleanza. nella sua morte gesù dà tutto il suo sangue (Gv 19, 34) e il suo Spirito (Gv 19, 30.34 “acqua dello Spirito”).

Contro questa tesi, ricordiamo la lettura polemica di Ireneo di Lyon, per il quale maria avrebbe chiesto qualche cosa di intempe-stivo, per cui con la sua risposta gesù avrebbe voluto respingere la richiesta della madre, che avrebbe voluto in questo modo anticipare in modo inopportuno l’Ora che il Padre aveva fissato per il suo Fi-glio. E a riprova di questa lettura Ireneo si rifà a Gv 7, 30: “Nessuno mise le mani su di lui, perché non era ancora giunta la sua ora”72.

71 Theod Mops Co Jo ii, 4: cScO 62-63, 39-40: “Sensu contrario legendum est hoc: Nondum venit hora mea? id est: quare me sollicitas et quid molesta es mihi? noli cogitare distincta mihi adesse momenta cognitionis atque operum, prout contingebat Moysi…Haud ita mihi contingit. Semper adest mihi potentia operandi quandocumque et quomodo voluero…et non e contrario quia potens sum, ideo haec necessitas locum haberet ». e ancora: Theod Mops Co Jo ii, 7: cScO 62-63, 40: “Si autem verba: Nondum venit hora mea, imperative seu definite essent dicta, prout quidam putaverunt, perinde acsi recusaret opus facere, destitisset mater eius; neque e contrario, ut oboedirent ei ministri praecepisset ».

72 iren AH iii, 16, 7: Sch 211, 314-316.

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teodoro di mopsuestia respinge invece proprio questa lettura di Ireneo commentando che gesù era libero di non seguire la legge dei tempi essendo il creatore del tempo73.

Anche giovanni Crisostomo, appartenente alla stessa scuola ese-getica antiochena, rimarca il fatto che gesù non era sottomesso alle leggi del tempo, in quanto creatore dei tempi e dei secoli74. Inoltre rileva il rispetto di gesù verso la madre75, volendo con la sua ri-sposta polemica ricordare che la fede e la virtù sono un titolo più grande di quello di essere madre o fratello76. Si chiede inoltre (e ne riassumiamo il pensiero!) che cosa abbia spinto la madre di gesù a chiedere al Figlio di fare un miracolo, allorché essa fino a quel mo-mento non vide mai un miracolo del Figlio. Cerca di giustificare la madre ricordando che maria non poteva aver dimenticato la conce-zione verginale del Figlio, il suo modo di essere nato, il fatto che il Figlio fu preannunciato dal Battista. tutto questo deve aver indotto la Madre ad avere sicura fiducia che il Figlio avrebbe fatto un mira-colo. La madre non è importante per gesù in quanto madre, anche se ad essa doveva il rispetto e l’onore obbedienziale di Figlio, anzi in questo caso sarebbe stato meglio che nessuno dei parenti, tanto meno la madre avesse indotto il Figlio a compiere un miracolo. non sa-rebbe stato, infatti, credibile questo miracolo. Piuttosto della madre gesù aveva una grande considerazione in base alla beatitudine che le riguardava, e che gesù aveva proclamato quando l’aveva esaltata come colei che ascolta la Parola di Dio e la mette in pratica (cf Mc 3, 33). D’altronde quello di gesù non è da intendersi come un rim-provero rivolto alla madre. gesù esaltava non tanto il fatto di essere stato partorito da Lei, quanto piuttosto la sua fede e la sua virtù77.

Cirillo di Alessandria, pur muovendosi secondo l’interpretazione del non consenso tra gesù e la madre, preferisce leggere positiva-

73 Theod Mops, Co Jo ii, 4: cScO 62-63, 39- 40.74 Joh crys In Jo Ho XXii, 1: pG 59, 135. J.-n. GUinOT, in art.cit, p.29 n

32 riferisce anche di efrem (Diat v, 2: Sch 121, 108) e di Gregorio di nissa (In 1 Cor 15,28: pG 44, 1308D) che presenterebbero una identica lettura. L’interrogazione sarebbe per il cristo un modo di far comprendere che la sua ora era venuta.

75 Joh chrys In Jo Ho XXii, 1: pG 95, 134.76 Joh chrys In Jo Ho XXi, 3: pG 59, 131-132.77 Joh chrys In Jo Ho XX, 2: pG 59, 130-131.

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mente la reazione di gesù che per rispetto e onore della madre compie il miracolo che lui personalmente avrebbe preferito differire78.

Agostino pure propende per la spiegazione tradizionale e pole-mica di Gv 2, 4: “In quanto Signore del mondo, Signore del cielo e della terra, egli è certamente Signore anche di Maria; in quanto crea-tore del cielo e della terra, è creatore anche di maria. non ti meravi-gliare che Egli, insieme, figlio e Signore, è chiamato figlio di Maria come anche è chiamato figlio di David perché è figlio di Maria…E poiché ella non era la madre della divinità, e il miracolo che essa chiedeva doveva essere opera della divinità, per questo le rispose: Che c’è tra me e te, o donna. D’altra parte, affinché tu, Maria, non credessi che egli ti rinnegava come madre, egli aggiunse: “L’ora mia non è ancora venuta”; allora ti riconoscerò, quando l’infermità di cui sei madre penderà dalla croce”79. E le parole di Gesù: “L’Ora mia non è ancora venuta”, Agostino le legge e le spiega ancora secondo il tenore della differenza che sussiste tra maria creatura e Lui Dio che conosce i tempi della salvezza: “Non è ancora il momento in cui io riconosco che sia opportuno che io patisca, che sia utile la mia passione; allora soffrirò di mia volontà”80. Facciamo semplicemente notare come Agostino che legge giovanni solo in traduzione latina, contribuirà per dare l’interpretazione di gv 2, 4 che resterà poi tradi-zionale nell’esegesi cristiana fino ad oggi.

Cioè, “Tutto quello che dovrebbe dirvi, fatelo crea-

tivamente!”. Gv 2,5 pare rimandare a Gen 41, 55 che riporta le parole del

Faraone che invita tutto l’Egitto, oppresso dalla carestia, a rivolgersi a Giuseppe: “Andate da Giuseppe, fate quello che vi dirà”. E Giu-seppe salvò sia gli egiziani sia i suoi fratelli e suo padre giacobbe.

78 cyril alex In Jo ii, 4: pG 73, 225c.79 aug Tr Jo viii, 9: ccL 36, 88.80 aug Tr Jo viii, 12: ccL 36, 89.

5. “fate tutto quello che egli vi dirà” (gv 2, 5)

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Così, possiamo riscontrare nelle parole della madre di gesù quelle che il popolo disse a mosè per accogliere il dono della torah del Sinai: “Noi faremo tutte le cose che il Signore ha detto” ( Ex 24, 3). gesù non stava forse dando a Cana la nuova torah, quella fon-data sul suo sangue, di cui l’acqua trasformata in vino era il simbolo?

teodoro di mopsuestia trova molto coerente l’ordine impartito da gesù, in quanto, avendo egli sempre il potere di operare, non es-sendo condizionato dalle circostanze, egli poteva fare qualsiasi cosa. Di conseguenza anche sua madre, conoscendo il potere del Figlio, ha impartito ai servi un comando con maggiore fiducia81.

stesso pensiero ritorna in giovanni Crisostomo che proviene dal medesimo indirizzo esegetico antiocheno di teodoro di mopsuestia. Cristo non è sottoposto alla necessità del tempo ed Egli operava sempre nel tempo giusto82.

I servi cui si rivolge la madre di gesù sono gli apostoli e i loro successori, secondo gaudenzio di Brescia, ai quali è impartito il mandato apostolico, rappresentato dall’ordine di riempire le giare dell’acqua83.

Erano le giare piene d’acqua che servivano

per la purificazione dei giudei secondo la legge giudaica, prima dei pasti e degli atti

cultuali.Erano sei, numero debole, che rimanda facilmente ai sei giorni

della creazione, culminati nel giorno settimo della conclusione della creazione e del riposo di Dio. Così osserva Origene: “Ben a ragione sono sei le idrie per coloro che si purificano nel mondo, poiché il

81 Theod. Mops Co Jo ii, 5: cScO 62-63, 40.82 Joh crys In Jo Ho XXii, 1: pG 59, 133-134.83 Gaud Brix Tr iX, 32: cSeL 68, 85.

6. c’erano là sei giare di pietra, ed essi le

riempirono fino all’orlo (gv 2, 5s)

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mondo è stato creato in sei giorni, numero perfetto”84. sono i sei giorni della preparazione alla venuta della sposa, preparazione allo Iom Shabbat, il giorno in cui ogni fine settimana il popolo giudaico celebra l’alleanza nuziale di Dio con il suo popolo. Le giare allora parlano della storia uscita dalle mani del Creatore, ma una storia legata ancora alla necessità della purificazione perché incompleta, perché non ancora del tutto abitata dalla sovranità del Signore, e alla quale il popolo di Israele e con esso l’umanità tutta che risale al tempo noachide prima di Abramo e di mosè si deve ancora del tutto consegnare.

se per origene le sei giare sono simbolo dei sei giorni della cre-azione del mondo, si ha qui un rinvio, nel vangelo di giovanni, allo schema della settimana iniziale.

Per Agostino, invece, le sei giare rappresentano le sei età della storia del mondo che Cristo riempie con la sua grazia e sovranità salvi-fica (prima età: da Adamo ed Eva all’arca di Noé; seconda età: da Noé ad Abramo; terza età: da Abramo a Davide; la quarta età da Davide all’esilio in Babilonia; quinta età fino a Giovanni Battista e richiama la roccia del profeta Daniele, simbolo della pietra che è Cristo che scende dal monte del regno dei giudei, la sesta è l’epoca di giovanni Battista dal cui battesimo dalle pietre, simbolo della solidità della fede, vengono fuori i nuovi figli di Abramo. La sesta età prosegue fino alla fine del mondo85. In realtà, esse rappresentano fondamentalmente le sei età della storia ebraica che parte dalla creazione fino alla venuta di gesù. Ciò di cui si preoccupa Agostino è di rilevare che le sei età, se possono essere considerate come l’evoluzione delle sei tappe della storia del giudaismo, in effetti, esse sono come sei gradini che prepa-rano l’allargamento dell’ebraismo a tutta l’umanità.

Per Gaudenzio di Brescia, che conosce l’identificazione spirituale dell’acqua della purificazione dei Giudei con il lavacro battesimale, le sei giare sono simbolo dei sei sensi dell’uomo (vista, udito, odo-rato, bocca, mani e piedi) che passano dalla morte dell’idolatria alla vita con Cristo86.

84 Orig Princ iv, 2, 5: Sch 268, 318.85 aug Tr Jo iX, 6. 9-17: ccL 36, 93-94.96-100.86 Gaud Brix Tr 27-28: cSeL 68, 82-83.

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analisi

mentre teodoro di mopsuestia nota che le giare furono riempite fino all’orlo affinché non si potesse dire che se l’acqua fosse stata poca, fosse stato aggiunto del vino prima del miracolo, e quindi il vino fu trasformato abbondantemente grazie all’abbondanza del potere di Gesù, affinché fosse servito anche in futuro87. E poi, le due o tre metrete, ossia le due o tre misure di acqua, alludono al binomio Padre e spirito oppure al trinomio Padre Figlio e spirito santo, quindi alla pienezza della rivelazione del monoteismo ebraico avvenuto in gesù88.

origine vede nelle due o tre misure come due o tre possibili let-ture delle Scritture: “Forse per questo le idrie pronte per la purifica-zione dei giudei, di cui leggiamo nel vangelo di giovanni, contene-vano due o tre misure d’acqua, in quanto questa espressione allude a quelli che l’apostolo definisce Giudei nell’intimo (Rom 2, 29). Co-storo vengono purificati dal senso delle Scritture, che contengono a volte due misure, cioè il senso psichico e il senso spirituale; a volte tre, là dove, oltre ai due sensi predetti, contengono anche il senso corporeo capace di edificare”89.

Agostino vede nell’acqua contenuta nelle sei giare il simbolo delle profezie non ancora adempiute: “Ora, le profezie, (significate dall’acqua contenuta nelle sei giare), che sono enunciate fin dai tempi antichi, mirano alla salvezza di tutte le genti. Certo, mosè fu inviato al solo popolo di Israele e solo a quel popolo per mezzo di lui fu data la Legge; è solo da quel popolo che uscirono i profeti, e la stessa divisione delle età del mondo è fondata sulla storia di quel popolo. Per questo è detto che le anfore erano là preparate per l’abluzione dei giudei. ma è chiaro che quelle profezie erano annunziate a tutte le genti, perché Cristo era celato in colui, nel cui nome sono benedette tutte le genti, secondo la promessa del signore ad Abramo: nella tua discendenza si diranno benedette tutte le genti” (Gen 12, 1 e 22, 18).

87 Theod Mops Co Jo ii, 7: cScO 62-63, 40: “Haud frustra addidit: usque ad summum; sed ne oriretur suspicio, si pauca fuisset aqua, vinum fuisse admixtum »

88 aug Tr Jo iX, 7-8: ccL 36, 94-95.89 Orig Prin iv, 2, 5: Sch 268, 316.

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Ciò ancora non si comprendeva, perché ancora l’acqua non era stata tramutata in vino. Dunque le profezie erano rivolte a tutte le genti”90.

giovanni Crisostomo rileva che gesù avrebbe potuto semplice-mente creare il vino dal nulla, e invece ha ordinato ai servi di riem-pire le giare di acqua, affinché essi potessero essere testimoni che non si è trattato di un atto di magia sotto la spinta di un’altra divi-nità. Ugualmente ordina al direttore di tavola, non a tutti di provare il vino, affinché il direttore di mensa, che non poteva essere brillo come gli invitati, e quindi, in quanto padrone di se stesso, avrebbe potuto dare la propria testimonianza valida a favore dell’autenticità del segno dato da gesù91.

Il fatto, poi, che le sei giare erano di pietra è un richiamo alle due tavole della torah che erano di pietra o anche vi ci si può trovare l’al-lusione al cuore di pietra che attende d’essere trasformato in cuore di carne nella Nuova Alleanza (Ez 36, 26). La pietra evoca anche quella pietra da cui è scaturita l’acqua che è Cristo (1 Cor 10, 4). Per gaudenzio di Brescia, le giare di pietra sono simbolo dei pagani che ricevono il battesimo nel nome delle tre persone della trinità92.

Agostino precisa che l’acqua è simbolo delle profezie dell’Antico Testamento. Esse sono solo acqua finché non sono lette in Cristo. In base a 2 Cor 3, 14-16, in cui Paolo parla del velo di mosè che copre i giudei, commenta: “L’immagine del velo sta a significare l’oscurità che avvolge la profezia, così da farla inintelligibile. Il velo è tolto, quando ti volgi al signore, è tolta l’insipienza, e ciò che era acqua diventa vino. Cosa c’è di più insipido, di più fatuo di tutti i libri profetici se li vedi senza vedere in essi Cristo?”93. Più avanti Agostino si premura di chiarificare che le giare non furono svuotate dell’acqua per essere riempite di vino, ma che il miracolo consi-stette nel fatto che proprio l’acqua che era presente nelle giare, cioè l’acqua delle profezie, l’acqua delle scritture dell’Antico testa-mento, sono queste che diventano vino in Gesù. “La profezia è esi-stita fin dai tempi antichi, e non c’è stata epoca che non abbia avuto

90 aug Tr Jo iX, 9: ccL 36, 95-96.91 Joh crys In Jo Ho XXXii, 3: pG 59, 135-136.92 Gaud Brix Tr IX, 33-34: CSEL 68, 84-85.93 aug Tr Jo iX, 3: ccL 36, 92.

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le sue profezie. In un certo senso il vino è nascosto nell’acqua…”94. E se il signore avesse gettato via l’acqua per sostituirla con il vino, “se così avesse fatto avrebbe fatto credere che disapprovava le an-tiche scritture. Cambiando invece l’acqua in vino, ci mostrò che le scritture antiche hanno anch’esse origine da lui: infatti, per suo comando furono riempite le anfore. Dunque anche quelle scritture sono del signore: ma non sanno di nulla se non si vede Cristo in esse”95. E come esempio di questo miracolo adduce il servizio di gesù cha aiuta i due discepoli di Emmaus a leggere mosè profeti e salmi alla luce di Cristo. origene già aveva pensato che l’acqua della lettera della scrittura fu cambiata da Cristo nel vino della let-tura della Parola nello spirito96.

E a proposito del miracolo del vino proveniente non ex nihilo, ma dall’acqua, Ireneo97, e dopo di lui anche in Epifanio di salamina98, ritengono che sarebbe un modo di denunciare la tesi manichea se-condo cui il Dio della creazione sarebbe diverso da gesù. A sua volta gaudenzio di Brescia sottolinea che il miracolo di Cana non è mi-racolo ex nihilo, ma dalla materia preesistente dell’acqua, simbolo dell’At. Il vino della Parola del nuovo testamento è continuazione e pienezza dell’Antico, nella continuità della Parola99. Bello, a questo punto, il rilievo del vescovo di Brescia sul valore della lettera della Legge, dell’At, alla quale gesù ha attinto lo spirito santo100. gau-denzio è l’unico a vedere nel maestro di tavola la figura di Mosè, al quale gesù manda i servi per annunciargli il nuovo nella continuità

94 aug Tr Jo iX, 3: ccL 36, 91: “In aqua enim vinum quodammodo latet”.95 aug Tr Jo iX, 5: ccL 36, 93: “Cum autem ipsam aquam convertit in vinum,

ostendit nobis quod et scriptura vetus ab ipso est; nam iussu ipsius impletae sunt hydriae. A Domino quidem et illa scriptura; sed nihil sapit, si non ibi Christus intelligitur“.

96 Orig Co Jo Xiii, X, 59-62: Sch 222, 64-66. 97 iren AH iii, 11, 5: Sch 211,152-154.98 epiph Pan 51, 30, 13: GcS 31, 30399 Gaud Brix Tr viii, 48: cSeL 68, 73: Sic tamen facta sunt omnia nova, ut

origo maneret ex veteri, cum non ex nihilo vinum, sed ex antiquo aquae gignitur elemento“.

100 Gaud Brix Tr viii, 49: cSeL 68, 73: “Nec legem litterae existimes esse temnendam, unde Spiritus Sanctus Iesu operante per fideles ministros haurit”.

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dell’Antico. mosè a sua volta rimanda allo sposo, gesù, che ha pre-parato per i non giudei il vino molto buono dello spirito101.

Allora nel matrimonio di Cana, è arrivata la sposa, assimilata allo iom Shabbat. Per giovanni la sposa è la madre di gesù, la Fi-glia di sion, che consegna Israele e tutta l’umanità allo sposo, che viene a trasformare l’acqua delle giare nel vino messianico delle nozze. si deve fare attenzione che le giare non sono riempite di vino frutto di un miracolo, cioè di una creazione dal nulla, in so-stituzione dell’acqua. Le giare restano piene di acqua, ed è questa medesima acqua già esistente ad essere trasformata in vino. ossia non c’è la sostituzione, ma la medesima materia, la stessa storia, lo stesso Israele, la stessa umanità è trasformata e assunta nello sposalizio messianico. non è sostituita la storia dell’umanità con un’altra storia, non è sostituita la creazione, non è sostituito Israele, piuttosto ora, la trasformazione dell’acqua in vino, nel vino mes-sianico, annuncia che la creazione, la storia noachide, il popolo di Israele entrano nella nuova ed Eterna Alleanza grazie al sangue e allo spirito. Qui si allude alla tematica della non sostituzione del popolo ebraico, della sua permanenza, ma anche della novità di un Israele, di un nuovo Israele che non è un altro, perché la Chiesa non sostituisce Israele, ma è lo stesso Israele visitato dallo sposo e dalla sposa, dotato del segno della novità delle nozze, il vino del sangue dello sposo e il dono del suo spirito. Quindi la madre di Gesù e Gesù, Sposa e Sposo, inaugurano il sabato definitivo, il tempo della sovranità esclusiva dell’unico Dio ebraico. Vi risuona l’eco delle parole del Prologo del Vangelo di Giovanni: “La Torah fu data per mezzo di mosè, mentre la grazia e la verità si presenta-rono attraverso Gesù Cristo” (Gv 1, 17).

si insinua, infatti, anche questa lettura giudaico-cristiana: la torah mosaica resta valida, non viene abolita (cf Mt 5, 17), ma è anche incompleta. La stessa acqua della torah ebraica che serviva per la purificazione dal peccato, ora è trasformata nel vino del Sangue di Gesù che veramente purifica.

E qui si aggancia anche la tematica e la lettura eucaristica delle nozze di Cana. mentre si insiste sul tema delle nozze messianiche

101 Gaud Brix Tr viii, 49: cSeL 68, 73 ; Tr iX, 40-43 : cSeL 68, 87-89.

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e della nuova ed Eterna Alleanza, il linguaggio si trasferisce facil-mente nell’ambito eucaristico. nell’Eucaristia abbiamo il vino che non solo è simbolo, ma è il Sangue di Gesù che purifica. Pertanto il vino-sangue dona all’Eucaristia una lettura essenzialmente sacrifi-cale, in cui si realizza in modo “presente” la nuova ed eterna Alle-anza. Il rito della brakha ebraica sfocia nell’Eucaristia cristiana.

Quando gesù incontra la s a m a r i t a n a

al pozzo di giacobbe, questa gli chiede se avesse un mezzo per prendere l’acqua…

(Gv 4, 11). Il termine usato (antlema) richiama il verbo usato da Gesù con cui si è rivolto ai servi (antlesate), e mentre in gv 2 ci si riferisce al vino proveniente dall’acqua, in gv 4, 11 il discorso verte sul simbolismo del dono dell’acqua viva dello spirito, che gesù darà nella sua morte in croce (Gv 7, 29 e 19, 30).

Riprend iamo qui ancora l ’ immagine

del targum che sug-gerisce che dopo aver creato la vite Dio volle mettere da parte

del vino, sotto il suo trono, per i tempi del messia. La missione del messia sarebbe stata appunto quella di dare questo vino conservato da Dio.

Allora, giovanni sembra alludere a questa tradizione conosciuta ai suoi tempi. A Cana è tolto da sotto il trono di Dio il vino nuovo per i tempi messianici. La madre di gesù sollecita l’inizio di questi tempi messianici, e gesù adempie le attese e apre la stagione messianica delle nozze della nuova ed Eterna Alleanza. Anche una tradizione sul Cantico dei Cantici insiste su questa lettura del vino messo fuori

7. “Prendete e portate al direttore della mensa…”

(gv 2, 7-8)

8. “tu hai conservato il vino buono-bello”

(gv 2, 10)

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per i tempi messianici102. È veramente lo sposo che ha fatto questo, che ha riservato il vino buono nei tempi maturi, il vino conservato a parte fin dall’epoca della creazione, prima di Abramo e di Mosè.

Facciamo notare che il greco per dire buono usa kalos, bello, il vino bello, il vino della bellezza nuziale.

Il vino di Cana è il vino della sapienza, osserva Agostino: “A parte il miracolo, la circostanza stessa nasconde qualche mistero nascosto. Bussiamo perché ci apra, e ci inebri del vino invisibile; anche noi eravamo acqua e ci ha fatti vino, ci ha resi sapienti; gustiamo, infatti, la sapienza della fede che egli ci ha donato, noi che prima eravamo insipienti. E forse è proprio per la sapienza, unita all’onore di Dio e alla lode della sua maestà, e all’amore della sua potentissima mise-ricordia, è proprio per la sapienza che capiremo il senso nascosto di questo miracolo”103.

E il buon vino dell’ultimo momento è il Vangelo, aggiunge Ago-stino104.

Efrem ha un’interpretazione tutta cristologica dell’acqua trasfor-mata in vino, cioè la trasformazione dell’umanità nella divinità e il mistero del concepimento e della nascita verginale di gesù105.

Con la celebrazione delle nozze di Cana, tutto era pronto. Con la discesa a Cafarnao (Gv 2, 12) si assiste al passaggio dal simbolo evocativo alla materializzazione della storia della nuova ed Eterna Alleanza. Questa storia per Giovanni come per i sinottici (Mc 1, 21; Mt 4, 13; Lc 4, 31) inizia a Cafarnao, dove Gesù scende, con sua madre e con i primi cinque discepoli diventati credenti. Cioè, se Cana è l’inizio simbolico della storia della glorificazione di Gesù che culmina sulla croce, Cafarnao segna l’inizio materiale della sua missione, con la presenza ancora della madre, e che si concluderà sul Calvario, alla presenza della Madre. E portando con sé i primi cinque discepoli diventati credenti, gesù arriva a Cafarnao reca con sé il libro della Torah rinnovata grazie alla fede in Lui (Gv 2, 11-12). Il “discendere” di Gesù verso Cafarnao richiama tra l’altro la

102 Tg I Gen 27,25; Tg Ct 8,2; Ber 34,b; Sanh 99.103 aug Tr Jo viii, 3: ccL 36, 83.104 aug Tr Jo iX, 2: ccL 36, 91.105 Ephrem Diat V, 6-7: SCh 121, 109-110.

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discesa di mosè dal monte sinai, mentre tiene nelle mani la torah (Es 32,15).

Agostino commenta gv 2, 12. Chi sono i fratelli che con la madre accompagnano gesù nella sua discesa verso Cafarnao. non sono certo i figli di Maria o i fratelli di Gesù secondo i legami diretti del sangue, come lo suggerisce il linguaggio orientale e semita, ma piuttosto per Agostino questa parentela, madre e fratelli di gesù, va letta alla luce di Mt, 12,46-50: “Ecco qua… i miei fratelli:; poiché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, quegli mi è fratello, sorella e madre!”. “Anche Maria, dunque, perché fece la vo-lontà del Padre. Questo Dio lodò in lei, non il fatto di aver generato dalla sua carne del Figlio di Dio, quanto l’aver fatto la Volontà del Padre. Fate attenzione”.

Così, continua ancora il vescovo di Ippona, in base a Lc 11, 27-28: “Come a dire: anche mia madre, che voi avete chiamata beata, è beata perché osserva la Parola di Dio, non perché in Lei il Verbo si è fatto carne ed abitò fra noi; perché ha custodito il Verbo di Dion per mezzo del quale è stata creata e che in Lei si è fatto carne”106.

giovanni ci tiene a precisare che quello fu non solo l’inizio dei “segni”, bensì l’inizio della nuova storia, sponsale e messianica, di cui Cana fu il primo segno. E quindi è iniziata la storia della gloria della Croce, nel matrimonio, nella solidarietà, nell’azione comune della madre e del Figlio, della sposa e dello sposo, della gloria di Dio e della fede in gesù da parte dei discepoli.

Conclusione

L’Ora di Gesù inizia a Cana di Galilea non semplicemente perché la Madre di Gesù ne ha anticipato l’inizio, ma piuttosto perché la madre si è rivelata pienamente partecipe e collaboratrice dell’inizio della missione del Figlio il cui compimento accadrà nella sua Pas-sione e morte.

Per gaudenzio di Brescia e per Agostino si tratta dell’inizio dell’ora della Passione.

106 aug Tr Jo X, 3: ccL 36, 101-102.

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Quindi a Cana la madre è testimone dell’inizio dell’ora, come lo sarà del suo compimento, in piedi, presso la croce,

Una missione che segna lo sposalizio di gesù con Israele aperto alle nazioni, che purificate dall’acqua del battesimo ricevono il vino dello spirito.

Missione che significa passaggio e compimento delle Scritture ebraiche in Gesù e nel Vangelo. Compimento ed esegesi definitiva della Parola che, iniziata nell’antico, si compie per la grazia dello spirito nel nuovo.

Gianni Sgreva [email protected]

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ItA L’Ora in Gv 2,1-11: anticipazione o inizio? Lettura giu-daico-patristica delle nozze di Cana

di gianni sgreva, cp La più recente (2008) traduzione di Gv 2,4 nella Bibbia della

CEI: “Donna che vuoi da me? Non è ancora giunta la tua ora”, ha stimolato l’autore dell’articolo, specialista in patristica ed esperto di giudaismo, a fare una ulteriore ricerca, tenendo presenti la biblio-grafia esegetica e patristica finora apparsa sull’argomento. Infatti, l’interpretazione del testo giovanneo apre ad interpretazioni che si elidono tra loro. Una lettura polemica, che punta sul disaccordo Madre-Figlio, ha una ricaduta sulla “cronologia” dell’Ora della Passione e morte di gesù il messia, per cui ne risulta, su istanza della madre, una anticipazione cronologica dell’ora. Una lettura di consenso, invece, conduce alla evidenziazione della condivisione di madre e Figlio sull’ora della Passione redentiva, e quindi all’af-fermazione che Cana segna l’inizio dell’Ora della glorificazione della Croce. L’autore insiste su questa seconda tesi, fondandosi, oltre che sulle suggestioni patristiche, anche sul fondo ebraico del greco di giovanni, per cui ne risulta che le parole di gesù rivolte alla Madre dovrebbero essere: “Quello che è tuo è mio, o donna/sposa. Non è forse giunta la mia Ora?”. Cana allora segna l’inizio dell’Ora della glorificazione della Croce.

fRA L’Heure en Jn 2,1-11 : anticipation ou commencement ? Lecture judaïco-patristique des noces de Cana

de gianni sgreva, cp La plus récente traduction (2008) de Jn 2,4 dans la Bible de

la CEI : « Femme que me veux-tu ? Mon heure n’est pas encore venue » », a poussé l’auteur de cet article, spécialiste en patri-stique et expert du judaïsme, à réaliser une autre recherche, tenant présente la bibliographie exégétique et patristique apparue jusqu’à présent sur ce sujet. De fait, l’interprétation du texte johannique ouvre à des interprétations qui se neutralisent l’une l’autre. Une lec-ture polémique, qui met l’accent sur le désaccord Mère-Fils, a une «retombée» sur la « chronologie » de l’Heure de la Passion et Mort de Jésus le Messie ; il en résulte alors, sur l’instance de la Mère, une anticipation chronologique de l’Heure. Une lecture qui va dans

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le sens d’un consensus, au contraire, conduit à mettre en évidence pour la Mère et le Fils la même perception de Heure de la Passion rédemptrice, et donc revient à affirmer que Cana signe le commen-cement de l’Heure de la glorification de la Croix. L’auteur insiste sur cette seconde interprétation, se fondant, à la fois sur les suggestions patristiques, et aussi sur le fond hébraïque du grec de Jean, d’où il résulte que les paroles de Jésus à sa Mère devraient être : «Ce qui est tien est mien, oh femme/épouse. Mon heure n’est-elle pas venue ? ». Cana signe alors le commencement de l’Heure de la glorification de la Croix.

EnG The Hour in Jn 2:1-11: Anticipation or Beginning? A Ju-deo-Patristic Reading of Cana

by gianni sgreva, cpThe most recent (2008) translation of Jn 2:4 in the Bible of the

CEI, where Jesus says, “Woman, what do you want from me? My hour has not yet come”, has motivated the author, a specialist in pa-tristic and expert in Judaism, to do further research on it, bearing in mind the exegetical and patristic literature on the subject. The inter-pretation of the text of John opens to interpretations that cancel each other out. A reading debate that points to a disagreement between Mother-Son has an effect on the “history” of the Hour of the Pas-sion and Death of Jesus, the Messiah. At the request of the Mother, this results in a chronological anticipation of the Hour. A consensus reading, however, underscores both mother and son as sharing the Hour of the redemptive Passion and to the fact that Cana marks the beginning of the Hour of the glorification of the Cross. The author emphasizes this second approach, relying, not only on patristic sug-gestions, but also on the Hebrew background of John’s Greek. The result is that the words of Jesus addressed to the Mother should be: “What is yours is mine, oh Woman/Spouse. Has not my hour come?”. Cana then marks the beginning of the Hour of the glorification of the Cross.

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SPA La Hora en Jn 2,1-11: ¿anticipación o inicio? Lectura ju-deo-patrística de las bodas de Caná

de gianni sgreva, cpLa traducción más reciente (2008) de Jn 2,4 en la Biblia de la

Conferencia Episcopal Italiana: “Mujer, ¿qué quieres de mí?, No ha llegado aún mi hora”, ha estimulado al autor del artículo, especialista en patrística y experto en judaísmo, a hacer una búsqueda, teniendo presente la bibliografía exegética y patrística aparecida hasta la fecha sobre este argumento. En efecto, la interpretación del texto joáneo abre a otras interpretaciones contrapuestas. Una lectura polémica, que se centra en el desacuerdo Madre-Hijo, tiene una recaída en la “cronología” de la Hora de la Pasión y Muerte de Jesús el mesías, que nos daría como resultado una anticipación cronológica de la Hora a instancias de la madre. Una lectura consensuada, sin embargo, conduce a poner en evidencia la condivisión de madre e Hijo sobre la Hora de la Pasión redentora, y por lo tanto a la afirmación que Caná marca el inicio de la Hora de la glorificación de la Cruz. El autor insiste sobre esta segunda tesis, basándose, además de las sugerencias patrísticas, sobre el trasfondo hebreo del griego de Juan, por el cual resulta que las palabras de Jesús dirigidas a la Madre deberían ser: “Lo que es tuyo es mío, oh mujer/esposa. ¿No ha llegado acaso mi Hora?” Caná entonces señala el comienzo de la Hora de la glorificación de la Cruz.

Pol Godzina w J 2,1-11: antycypacja czy początek? Lektura judaistyczno-patrystyczna wesela w Kanie

gianni sgreva, cp Najnowsze (2008) tłumaczenie J 2,4 w Biblii CEI (Konferencja

Episkopatu Włoch): “Niewiasto, czego ode mnie chcesz? Nie na-deszła jeszcze moja godzina” pobudziła autora artykułu, specjalistę w dziedzinie patrystyki i znającego judaizm, by podjąć dalsze ba-dania, biorąc pod uwagę opracowania egzegetyczne i patrystyczne, które do tej pory ukazały się na ten temat. Interpretacja tekstu Jano-wego otwiera się na rozwiązana, które się wykluczają. Odczytanie go w duchu polemicznym, który podkreśla niezgodę między Matką a Synem, wiąże się z chronologią „godziny” Męki i Śmierci Jezusa Mesjasza, z czego wynika, że Matka chciała antycypować „go-

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dzinę”. Lektura oparta na domniemaniu zgody prowadzi natomiast do podkreślenia, że Matka i Syn są zgodni co do „godziny” zbawczej Męki, a więc potwierdza to, że Kana jest początkiem „godziny” wy-wyższenia na krzyżu. Autor idzie raczej za tą drugą tezą, opierając się na materiale patrystycznym oraz na hebrajskim podłożu greki Janowej, z czego wynika, że słowa Jezusa skierowane do Matki po-winny brzmieć: „To, co jest twoje, jest moje, niewiasto-oblubienico. Czyż nie nadeszła moja godzina?”. Kana wyznacza więc początek „godziny” wywyższenia na krzyżu.

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introduzione

“Dio lo vuole”. Al grido di queste parole, si sa, la storia umana più volte ha visto tragicamente aprirsi le dighe della violenza e dell’odio. Fiumi di sangue sono scorsi e, purtroppo, scorrono ancora. In nome della volontà di Dio. Già, perché è questo il nodo della questione: la volontà di Dio. Che cosa voglia Dio: è questa la prima ineludibile domanda. messa da parte la malafede di chi strumentalizza i testi sacri per legit-timare la propria volontà di potenza e di sopraffazione, rimane da illuminare la coscienza di chi si chiede one-stamente quale sia il volere di Dio sull’uomo e che cosa ne pensino le religioni. Può Dio chiedere il male? Può egli confezionare una morale a-morale e imporla all’uomo? Può rendere lecito ciò che la coscienza umana avverte già in se stesso illecito e dannoso? Il nominalismo più radicale risponderebbe di sì. Ciò che Dio comanda è legge. E non perché sia giusto in sé ma perché è lui a comandarlo. Ne de-riva che quanto comanda oggi potrebbe essere l’opposto di ciò che comanderà domani. In tal caso, la legge morale sarebbe la versione aggiornata del capriccio di Dio e l’uomo un cameriere a tempo de-terminato, tanto più disorientato quanto meno conosce il menù del giorno da servire all’onnipotente. È evidente che una morale teo-logica senza fondamento oggettivo suggerisce a proprio riguardo un’altra decisiva domanda: a che cosa serve? O meglio, a chi serve: a Dio o all’uomo?

GiUSeppe DeLLa MaLva

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Quando l’amore è legge277-324

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quando l’aMorE È lEggEil rapporto tra l’indicativo di salvezza e l’imperativo morale

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Per rispondere a tali domande dobbiamo indagare sul peculiare rapporto tra la legge morale proposta e il contenuto di salvezza of-ferto. se infatti non possiamo parlare di un’oggettività in astratto, non possiamo allo stesso modo parlare di un credo generico. tutte le grandi religioni della terra contengono un nucleo di fede ed uno morale. Ciò appare chiaro anche ai non esperti del settore. Altret-tanto agevole è rilevare come i due nuclei siano contemperati, di volta in volta, in modo diseguale: in alcune religioni appare più marcato il primo, in altre il secondo; talora la morale ha il compito esplicito di portare l’uomo alla coerenza rispetto alla salvezza o alla credenza proposte, talaltra essa è quasi implicita, fondamentale ma poco enfatizzata. La constatazione generale è che il rapporto tra le due dimensioni, in ogni caso, non è mai un dato scontato. Ora, la seguente riflessione, sebbene possa offrirsi come spunto metodologico per indagare su tutte le grandi religioni, è interessata esplicitamente alla rivelazione cristiana e cattolica (che - va pre-cisato contro ogni angusta interpretazione settaria - significa “uni-versale”). Ci chiediamo, più precisamente, quale rapporto esista nella religione cristiana tra gli eventi di salvezza (biblicamente formulati all’indicativo) e la loro ricaduta morale (espressi all’im-perativo). Presentare prima (o solo) gli uni e poi (o solo) l’altra è pura scelta arbitraria? È forse un’opzione non riferibile alla rivela-zione biblica, senza alcuna conseguenza teologica e irrilevante dal punto di vista psicologico? Le riflessioni di seguito proposte non conducono ad una risposta affermativa. Esse anzi asseriscono con forza la priorità dell’indicativo di salvezza rispetto all’imperativo morale e la motivano da diversi punti di vista.

Vedremo che propendere per l’indicativo o per l’imperativo è tutt’altro che mera scelta linguistica. È cosa ben diversa che disqui-sire oziosamente di due modi verbali e della presunta inderivabilità, sul piano logico-grammaticale, del secondo dal primo (Hume). È piuttosto ritornare al cuore dell’annuncio cristiano, che è la gratuità/libertà dell’amore di Dio rivelatosi nella Pasqua di gesù. A partire da qui poi, è cercare di balbettare qualche parola, forte ma pur sempre umanamente limitata, sulla natura di Dio e, in lui, dell’uomo. Ed evidenziare infine che la gratuità/libertà dell’amore si riflette anche nel modo con cui Dio da sempre dialoga con l’uomo, nel rispetto della sua struttura psicologica. noi partiremo da quest’ultimo punto,

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prendendo in prestito il kerygma1, frutto maturo della rivelazione cristiana, e mostrando, in negativo, quali ricadute esso avrebbe nel dialogo Dio-uomo se coniugato originariamente ed esclusivamente all’imperativo, prescindendo dall’indicativo che lo fonda (approccio conversazionale). Apriranno la strada le acquisizioni della pragma-tica della comunicazione umana, a partire dalle quali alcuni autori (Girard, Žižek) hanno tratto conclusioni che noi riteniamo utili e il-luminanti per il nostro tema. Lasciandoci condurre dal biblista V. spicacci prima e dal teologo H.U. von Balthasar poi passeremo, rispettivamente nella seconda e nella terza parte, all’enucleazione dell’annuncio evangelico, come “buona notizia” (approccio keryg-matico), il quale a sua volta retroproietta un fascio di luce intensa sull’identità di Dio e dell’uomo (approccio sistematico). Si parte, insomma, da quanto ci appare più evidente perché quotidiano, si prosegue su ciò che solo Dio poteva annunciare e si conclude con l’inevidenza di quanto solo la speculazione può, con umiltà e pa-zienza, accostare2. Il cammino globalmente ci porterà a scoprire che il terreno comune alla salvezza e alla morale cristiane è l’amore, ma

1 “Kerygma è una parola greca, che vuol dire ‘annuncio’. nel mondo greco il kerygma non è un annuncio qualunque. È l’annuncio del banditore, dell’araldo, che va per le strade e per le piazze di questo mondo, per comunicare ai sudditi i messaggi del re. La tradizione cristiana ha adottato, sin dall’inizio, questo termine per indicare il nucleo centrale del messaggio cristiano. Tale nucleo si identifica con il cosiddetto ‘vangelo’” (v. Spicacci, La buona notizia di Gesù, Monti, varese 2000, 5).

2 in realtà, la speculazione deve abbandonare la dispotica pretesa di possedere Dio e lasciarsi guidare dagli “occhi semplici” dei mistici, ai quali è dato di penetrare la caligine che, ad un certo punto, si frappone fra la ragione ed il mistero di Dio, partecipando essi per grazia alle profondità che contemplano. pertanto la teologia va fatta “in ginocchio”, umilmente, imparando anche dai santi: “Quelli che amano conoscono Dio meglio di tutti e perciò il teologo deve ascoltarli” (U.H. von BaLTHaSar, Solo l’amore è credibile, 14; cf G. SOMMaviLLa, Balthasar in Italia, testimonianza di un traduttore, in Communio 120 (1991), 53). Balthasar, cui ci riferiamo nella terza parte del nostro studio, ne era convinto. Lo testimonia l’intreccio tra la sua indagine speculativa e la “semplicità di sguardo” della mistica a. von Speyr, operato anche a spese di un certo rigore del linguaggio teologico e malgrado le non rare critiche che, al riguardo, gli piovvero dal mondo accademico (cf U.H. von BaLTHaSar, Con occhi semplici, Morcelliana, Brescia 1970, 11-29; iD., Teologia e santità, in Communio 96 (1987), 7-16; iD., Il nostro compito, Jaca Book, Milano 1991; iD., La vita, la missione teologica e l’opera di Adrienne von Speyr, in a. SpeYr, Mistica oggettiva, Milano 1975, 9-63).

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che è soltanto la libertà il criterio capace di discriminare chi, tra le due, può seminare e chi raccogliere.

1.1. Comunicazione umana e comunicazione della fede

La scelta di partire da una prospettiva psicologica è dettata dalla convinzione che l’esperienza religiosa non sia altra cosa rispetto a quella umana quotidiana e che il linguaggio della fede sia profon-damente intrecciato con quello di tutti i giorni. È un dato di fatto incontrovertibile che la nostra quotidianità sia costituita prevalente-mente di comunicazione, verbale e non verbale. Le parole che sce-gliamo di dire o non dire, i racconti che costruiamo e i modi con cui li intessiamo, le spiegazioni che offriamo oppure omettiamo, tutto questo non è solo “parola” (o silenzio): è la nostra realtà. Noi siamo le storie che abitiamo, le parole e le modalità con cui le narriamo. Perché è mediante quelle che selezioniamo la realtà, mai del tutto circoscrivibile, ed è a partire da quelle che organizziamo l’esistenza e cerchiamo di consegnarle un senso unitario e coerente. Parlare è molto di più che parlare: è “fare cose con le parole”3, produrre re-altà. Dunque, la comunicazione e le modalità con cui essa si esplica sono decisive per l’uomo. Giacché questi è fondamentalmente homo fabulus4.

La questione ora è: la comunicazione della fede (biblico-cristiana) sfugge alle dinamiche della più generale comunicazione umana? Se “Dio nella sacra Scrittura ha parlato per mezzo di uomini alla ma-

3 cf J.L. aUSTin, Come fare cose con le parole, Marietti, Genova 1987.4 O. GOncaLveS, Narrazioni e cognizioni: implicazioni cliniche,

psicoterapia 5 (1996), 5-20.

1. l’imperativo assurdo: “ama!”

(approccio psicologico- conversazionale)

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niera di uomini”5, non dovrebbero sussistere motivi per rispondere affermativamente. Il passo appena citato, nel documento conciliare da cui è tratto apre, com’è noto, il paragrafo che si occupa dell’in-terpretazione delle Scritture. Il disegno salvifico che la Chiesa da sempre crede infallibilmente indicato in esse non è in alcun modo negoziato. La questione evidenziata qui dai padri conciliari, piut-tosto, è quella della “forma” storico-culturale del linguaggio agio-grafico e, soprattutto poi, della sua indagine/attualizzazione esege-tico-teologica. Alla luce di quanto abbiamo detto sopra, la forma, ovvero la modalità comunicativa, della teologia – particolarmente di quella cosiddetta “pastorale” che in-forma la presentazione cateche-tica ed omiletica del vangelo – è decisiva perché genera anch’essa realtà. Forse essa può persino oscurare la luminosità del contenuto di salvezza che intende trasmettere. In che modo? Presentando, ad esempio, prima l’imperativo morale, poi (eventualmente) l’indica-tivo di salvezza. Qui vogliamo sostenere l’ipotesi che tale scelta, prima di costituire un deplorevole errore teologico, anzitutto generi o possa generare un paradosso comunicativo, un doppio legame. Anzi, un duplice doppio legame.

1.2. Il doppio legame

Che cos’è, più precisamente, un doppio legame? Per compren-derlo, dobbiamo prima fare nostre le profonde intuizioni sulla co-municazione offerte della scuola di Palo Alto6. gli studiosi cui esse si devono - P. Watzlawick, J.H. Beavin e D.D. Jackson e G. Ba-teson – evidenziarono nel 1967 che la comunicazione umana, in-sieme ad un aspetto sintattico e ad uno semantico, veicola anche un aspetto pragmatico, ossia di influenza sul comportamento umano. Se io dico ad una persona: “Ti amo”, non le sto comunicando sem-plicemente un’informazione corretta secondo i codici linguistici co-muni ad entrambi (sintassi), né solamente un significato più o meno chiaro (semantica), ma sto anche prefigurando un’azione (pragma-

5 cOnciLiO vaTicanO ii, Dei Verbum, Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione, n. 12.

6 cf p. WaTZLaWicK, J.H. Beavin, D.D. JacKSOn, Pragmatica della comunicazione umana, astrolabio, roma 1967.

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tica): un perdono, un fidanzamento, un tradimento… Tale azione, tuttavia, si sottrae alle dinamiche lineari di causa-effetto proprie dei sistemi chiusi o semplici. gli studiosi di Palo Alto compresero che la comunicazione umana è, invece, un sistema aperto o complesso, perché dotato di dinamiche cibernetiche, cioè retroattive e circolari. Nel dire: “Ti amo” ad una persona, non determino necessariamente amore; lei infatti non soltanto riceverà la mia dichiarazione ma a sua volta risponderà in un certo modo (retroattività) e tale risposta ge-nererà una mia controrisposta e questa un’altra sua e così via (circo-larità), generando un’interazione complessa il cui esito è imprede-terminabile. La complessità delle interazioni comunicative, tuttavia, sembra correre ed intensificarsi lungo i binari di alcune regole impli-cite, che i succitati autori definiscono “assiomi”. Essi ne individuano cinque. Qui ne affronteremo per brevità solo due, quelli più cruciali per il proseguo del nostro studio.

Il secondo assioma della pragmatica della comunicazione umana evidenzia che ogni segmento comunicativo tra due interlocutori non trasmette solamente un contenuto, ma anche una particolare defini-zione della relazione in corso e che è questa a fungere da contesto di quello; definizione della relazione che, secondo il quinto assioma, dispone i due comunicanti in posizione o simmetrica o complemen-tare. Un banale esempio servirà a chiarire i due assiomi congiunti.

Una coppia di giovani sposi, di comune accordo molto disponibile ad in-contrare amici in casa propria, si trova a litigare, in modo apparentemente incomprensibile, a proposito di tale consuetudine. Ciò accade un giorno in cui il marito, di propria iniziativa, propone a marco, un amico comune, di condividere una cena a casa loro. Alla sera, appena ritornato dal lavoro, informa del fatto la moglie. Ed è allora che scoppia il diverbio. L’infor-mazione: “Ho invitato Marco a casa nostra” (contenuto) sembra il motivo del disaccordo; in realtà, i due stanno discutendo, forse senza saperlo, dell’autonoma iniziativa di lui, la quale ha definito la relazione coniugale in termini complementari: lui in posizione di superiorità (“one-up”), lei d’inferiorità (“one-down”). Il litigio, in tal senso, è un tentativo di ridefinire simmetricamente la relazione.

Nel 1956 Gregory Bateson, in collaborazione con Jackson, Haley e Weakland, aveva già dimostrato che molti disastri psichici si si-

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tuano proprio qui, nella confusione tra i due livelli comunicativi7. Ed eccoci al punto. Si assiste ad un “doppio legame” (double bind), vero e proprio paradosso comunicativo, quando la gerarchia tra relazione e contenuto si dissolve ed il soggetto non sa più quale dei due livelli è il contesto entro cui interpretare l’altro.

L’imperativo: “Sii spontaneo” è il tipico esempio di doppio legame. Qui, infatti, il contenuto (la spontaneità) è incomponibile con l’aspetto relazio-nale che lo accompagna (si tratta di un imperativo).

Più precisamente, il doppio legame consterebbe di tre elementi fondamentali:

1. una relazione intensa, vitale fisicamente e/o psicologicamente per una o per tutte le persone coinvolte (paradigmatica è la situa-zione genitore-figlio);

2. un messaggio, a sua volta costituito a) da un’asserzione b) da un’asserzione sull’asserzione c) dalla contraddizione tra a) e b): se il messaggio è un imperativo esso dev’essere disatteso per poter essere rispettato;

3. la condizione di colui che riceve il messaggio: essa non per-mette né di abbandonare il campo né di uscire dallo schema cogni-tivo.

non ci si può sottrarre al doppio legame se non attraverso la me-tacomunicazione, ossia comunicando sulla comunicazione8. ma è proprio questa che, nei modelli interattivi sistematicamente caratte-rizzati da doppio legame, è preclusa. Così la riflessività che ne scatu-risce, se da una parte può diventare la culla dell’arte, dell’umorismo e del gioco, dall’altra può più facilmente trasformarsi nel letto di Procuste che torce il significato delle sequenze comunicative in dire-

7 cf G. BaTeSOn, D.D. JacKSOn, J. HaLeY, J.H. WeaKLanD, Verso una teoria della schizofrenia, in iD., Verso un’ecologia della mente, adelphi, Milano 1977, 244-274.

8 È quello che facciamo normalmente quando, a chi ci ha trasmesso un messaggio paradossale, chiediamo: “Ma stai scherzando?”, oppure: “cosa intendi dire?”, o qualcosa di simile ancora.

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zioni contrastanti, fino all’indecidibilità. Non a caso, qui nascerebbe, a parere di Bateson, la schizofrenia9.

9 L’incapacità di discriminare situazioni universali di doppio legame portò rapidamente la teoria batesoniana dal plauso iniziale del mondo accademico all’obsolescenza. nel 1982 tre studiosi della comunicazione umana, cronen, Johnsonn e Lannamann, rivisitando le premesse epistemologiche della teoria, scoprirono che la sua fragilità non consisteva nell’incapacità discriminativa oggettiva, ma nella pretesa di possederla. contro le sue stesse intuizioni iniziali e forse senza rendersene conto, Bateson aveva costruito la teoria su una concezione realista della comunicazione. Quest’ultima di per sé avrebbe il compito di “rappresentare” una realtà esterna pre-organizzata secondo livelli discreti, privi di intrecci o grovigli, che il doppio legame, invece, quale trasmissione fallace, disorganizzerebbe. in sostanza, prima ci sarebbero contenuti e relazione, poi il doppio legame ne inquinerebbe purezza e gerarchia mediante comunicazione paradossale. pertanto la riflessività andrebbe bandita dal linguaggio attraverso una specie di “decreto”, proprio come, su un altro piano, avevano già fatto col paradosso logico Withehead e russel (confusione dei “tipi logici”), cui Bateson si era ispirato. Tale visione rappresentazionalista della comunicazione (quotidiana e scientifica) oggi - alla luce della recente rivoluzione epistemologica apportata nei saperi in modo congiunto dalla teoria generale dei sistemi (L. von Bertalanffy), dall’epistemologia genetica (J. piaget), dalla seconda cibernetica (H. von föerster), dal principio d’indeterminazione (W.K. Heisenberg), dai teoremi d’incompletezza (K. Gödel), nonché dalla fisica del novecento (teoria della relatività di a. Heinstein, fisica del caos e dei quanti di H. poincarè) – appare del tutto insostenibile. essa piuttosto, a parere di cronen, Johnsonn e Lannamann, deve fare spazio ad una visione costruzionista della stessa. La comunicazione non “rappresenta” la realtà esterna né veicola contenuti mentali preesistenti (sentimenti, emozioni, credenze…) alla relazione ma li costruisce essa stessa. e ciò non “contro” una possibile oggettività del reale, ma “dentro” di essa. L’uomo, infatti, seleziona il reale in base a precise dimensioni semantiche salienti nell’interazione conversazionale, rispetto alle quali àncora la propria identità a quella degli altri. Ora, se la gerarchia dei livelli di significato (contenuto, relazione, cui i tre autori aggiungono i livelli della biografia personale e dei modelli culturali) non è data a priori rispetto all’interazione conversazionale, la riflessività, che ad un certo punto necessariamente si instaura tra i livelli, risulta una componente normale del processo comunicativo e addirittura indispensabile alla sua evoluzione. ciò non impedisce che in taluni casi – mai tuttavia predeterminati e universalmente riconoscibili – la riflessività possa generare situazioni patogene. in quanto elemento normale/indispensabile alla comunicazione umana, la riflessività sortisce “circuiti armonici” (charmed loops); in quanto elemento patogeno, predispone invece a “circuiti bizzarri” (strange loops). Sarebbe interessante e certamente più fecondo agganciare il tema generale della nostra riflessione alla revisione costruzionista del doppio legame. ciò, tuttavia, a motivo della complessità dell’argomento, chiederebbe di dare molta più attenzione all’approccio psicologico, finendo per sbilanciare l’economia globale dello studio che intende, invece, contemperare anche altri approcci. ci basti qui essere avvertiti dell’equivoco di fondo presente nella primitiva teoria del doppio legame ed evitare di edificare proprio su di esso le nostre successive riflessioni. per un approfondimento, cf v.e. crOnen, K.M. JOHnSOn, K.M. LannaMann, Paradossi, doppi legami e circuiti riflessivi:

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1.3. Ama Dio e il prossimo

Cosa ha che fare tutto questo con l’indicativo di salvezza e l’im-perativo morale? Il “doppio double bind”, che abbiamo prefigurato possibile in una trasmissione della fede che ignori le suddette regole della comunicazione umana, è comprensibile solo alla luce del pecu-liare messaggio biblico-cristiano. Il suo cuore pulsante, il kerygma, annuncia che Dio è amore gratuito e che proprio tale gratuità libera l’uomo. ora, ci sembra che comunicare questo annuncio non come indicativo di salvezza ma anzitutto nella forma del conseguente im-perativo morale (ama Dio/il prossimo e vivi da libero) possa gene-rare10, sotto un profilo psicologico, una duplice situazione d’insana-bile indecidibilità. Se ciò è vero, dobbiamo almeno poter verificare, in tale ingiunzione, la presenza dei tre elementi fondamentali costi-tutivi del doppio legame batesoniano, precedentemente elencati.

1. La relazione intensa è quella tra il fedele e Dio, rappresentato da chi parla “a nome suo”. Essa è ritenuta vitale psicologicamente (in ordine al senso ultimo del vivere: qui Dio è visto quale salvatore) e/o fisicamente (in ordine ai bisogni materiali quotidiani: qui Dio è visto quale creatore).

2. Il messaggio è così strutturato: a) ama Dio/il prossimo b) l’a-more vero è gratuito/libero c) ama gratuitamente/liberamente su in-giunzione.

una prospettiva teorica alternativa, Ter. fam. vol. 14 (1983), 87-120; v. UGaZiO, Storie permesse, storie proibite, Bollati Boringhieri, Torino 2008, 104-135.

10 il modo del verbo esprime eventualità e non determinismo. esso ci pare d’obbligo per due motivi: in primo luogo perché la nostra, come già dichiarato, è un’ipotesi speculativa; in secondo luogo, per le ragioni, già in parte su esposte, in base alle quali cronen, Johnsonn e Lannamann ritengono che non esistano situazioni di doppio vincolo universali, ma che il loro evolvere verso una riflessività armonica o bizzarra dipenda da meta-regole, sintesi a loro volta dei diversi modelli culturali e dei diversi posizionamenti semantici di ciascun individuo nei contesti di appartenenza. Da questo punto di vista, per esempio, sempre ragionando in astratto - e secondo una prospettiva squisitamente psicologica, non ancora biblica o teologica – si può ipotizzare che l’imperativo: “ama il tuo Dio” rivolto ad un israelita dell’epoca monarchica, e sganciato dall’indicativo di salvezza che lo fonda (esodo e dono della terra), potrebbe risultare non del tutto intransitivo con il livello della biografia personale del soggetto (già improntata ad un atteggiamento di subordinazione) né questo con il livello della relazione con Dio (percepita in termini di sudditanza), a sua volta contestualizzato da un modello socio-culturale di tipo teocratico.

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3. Colui che riceve il messaggio, infine, è in una condizione che non gli rende agevole né abbandonare il campo – in questo caso la propria religione, le tradizioni popolari e familiari, gli abituali con-testi formativi e socializzanti, etc… - cui spesso è emotivamente molto legato, né uscire dallo schema cognitivo, opzione che in tal caso esigerebbe la capacità e la competenza di metacomunicare sul messaggio così autorevolmente ricevuto (“La volontà di Dio è questa: tu devi…”).

La riflessività che connota tale messaggio è molto visibile. Pro-viamo, tuttavia, a ricondurla ad un esempio più vicino a noi. Cosa penseremmo di una persona che ci intimasse perentoriamente: “Amami”? Se completamente sconosciuta, è assai probabile che la riterremmo una persona malata di mente e la eviteremmo; se sem-plicemente conosciuta, è probabile che anziché amarla di più, la ameremmo di meno; se per noi figura vitale, è probabile che conti-nueremmo ad amarla, non sapendo però più decidere in quale posi-zione: se a partire dalla relazione (ma in tal caso dovremmo ignorare il comando-contenuto) o se a partire dal comando-contenuto (ma in tal caso contro la relazione). Il detto popolare: “Al cuor non si comanda” accoglie molte più verità di quelle che l’interpretazione romantica, anch’essa popolare, ne estrae. Al cuore non si comanda non tanto perché esso spesso sembri innamorarsi per capriccio o per un codice estetico del tutto personale, misterioso ed incomunicabile (“È bello non ciò che è bello ma ciò che piace”), ma anzitutto perché il binomio amore/comando è un assurdo, una sorta di aporia rela-zionale (nella cultura occidentale contemporanea più che mai). L’a-more è per sua natura incoercibile, poiché nasce da una libertà e si comunica ad un’altra libertà. Il passaggio dall’una all’altra consta di gratuità. È proprio questa che si dissolve in un amore “a comando”, dove l’esperienza umana più libera e liberante si trasforma in una specie di prigione (nella quale, per la verità, si può anche soprav-vivere – quante donne lungo la storia lo hanno fatto! – ma molto probabilmente abdicando al desiderio di felicità11).

11 L’allusione è chiaramente alla consuetudine, oggi superata in Occidente, dei cosiddetti “matrimoni combinati”. Qui, tuttavia, l’accenno alla questione femminista non è casuale né vuole fermarsi a questa prassi. infatti, la

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1.4. Ama Dio e il prossimo come ha fatto Gesù

Il possibile doppio legame appena mostrato, come appare evi-dente, potrebbe riguardare ogni forma di etica dell’amore che non esplicitasse il fondamento su cui si erige. L’imperativo morale cri-stiano però, a motivo della sua specifica originalità, evidenzia un secondo possibile paradosso, legato al messaggio: “Ama Dio/il pros-simo come ha fatto Gesù”.

Rimanendo invariati il primo e il terzo elemento del doppio le-game sopra elencati, analizziamo solamente il secondo, ovvero il messaggio trasmesso. Esso implicitamente si compone delle seguenti sottoparti: a) ama come gesù b) gesù era capace di un amore illimi-tato perché Figlio di Dio c) ama da creatura finita in modo infinito.

Qui oggetto del comando è non solo la libertà/gratuità dell’a-more ma anche la sua intensità, secondo gradi che travalicano le possibilità umane perché propri delle capacità divine. Ci verrebbe prescritto, in sostanza, un modello di amore col quale a priori ci è impossibile identificarci. Ne scaturirebbe un “desiderio mimetico” che, come ha acutamente mostrato girard a proposito del complesso edipico, espone puntualmente ad una situazione di doppio legame quando oggetto della tensione ideale è un modello che avvicina e al contempo respinge: “Sii come il modello, non essere come il modello”12. nel nostro caso, a contraddire violentemente l’invito alla mimesis del modello (Dio illimitato) è addirittura un’impossibi-lità costitutiva, ontologica, di colui che è invitato (la creatura limi-tata) e che porta a riformulare così il double bind finale: “Sii come il modello, non puoi essere come il modello”; ovvero: “Sii come Dio, non puoi essere come Dio (sei una creatura)”. Se la legge dell’amore

subordinazione cui la cultura patriarcale l’ha per secoli costretta sotto molteplici aspetti, ha reso la donna occidentale destinataria elettiva di messaggi paradossali ed invivibili. Una psicologia clinica fondata sull’approccio conversazionale non può non leggere in certe psicopatologie tipicamente femminili (vedi l’isteria di fine Ottocento o l’anoressia/bulimia moderna) un tentativo estremo, in interazioni caratterizzate da doppio legame, di metacomunicare mediante “la sintassi del corpo” e di “avere voce in capitolo” (cf per es., M. OLSOn, Ascoltando le voci dell’anoressia: il ricercatore come testimone esterno, in p. BarBeTTa, p. Benini, r. nacLeriO, (a cura di), Diagnosi della diagnosi, Guerini Studio, Milano 2003, 43-74).

12 cf r. GirarD, La violenza e il sacro, adelphi, Milano 2005, 235-265.

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cristiano si presentasse in questi termini, prescrivendo all’uomo un comportamento di cui lo discoprisse immediatamente incapace, essa meriterebbe le conclusioni cui giunge Žižek sempre a proposito del triangolo edipico. Nella “legge del padre” – egli nota – esiste una componente di “oscenità”, perché essa prima impone al bambino il superamento di un limite (amare incestuosamente la madre), poi gli addita beffardamente la sua costitutiva impossibilità ad obbedire (l’impotenza sessuale). Il messaggio paterno in pratica è: “Sii come me, non puoi essere come me (vedi che sei impotente?)”13.

se il messaggio biblico-cristiano, insomma, fosse presentato in termini imperativi in modo previo o addirittura indipendente rispetto al suo indicativo di salvezza, se ne otterrebbe una duplice parados-salità. Ma che ne sarebbe della suprema “legge dell’amore” cristiano se, oltre ad esibirsi paradossale, risultasse anche “oscena”?

L’approccio b i b l i c o -kerygma-

tico sembra assestare un colpo ancora più duro alla legge: essa, da dono di Dio, si tra-

sforma in Paolo nella “forza del peccato” (1Cor 15,56), addirittura in sorgente di “maledizione” (cf. Gal 3,13). Ora, com’è possibile per un Ebreo osservante, quale Paolo si professa, arrivare a pronunciarsi in termini così scandalosi e blasfemi? Che cosa nasconde questo con-flitto con la legge?

Se la riflessione precedente, anticipando il contenuto del kerygma, ha mostrato la duplice paradossalità cui espone a livello psicolo-

13 cf S. ŽiŽeK, Violencia en acto. Conferencias en Buones Aires. paidos, Buenos aires 2004, cit. in p. BarBeTTa, Anoressia e isteria. Una prospettiva clinico-culturale, raffaello cortina editore, Milano 2005. in realtà, l’oscenità che Žižek ravvisa nella legge del padre è duplice; nel “ti vieto di essere come me” (cioè di avere lo stesso mio desiderio: la madre) è inclusa l’ingiunzione: “trasgredisci” (primo messaggio osceno), poiché la proibizione si afferma per provocare la sua trasgressione, la quale, necessariamente inadempiuta, svergogna il figlio nel suo limite: “Sei impotente” (secondo messaggio osceno).

2. L’indicativo liberante: “Gesù è morto e risorto”

(approccio biblico-kerygmatico)

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gico-conversazionale la prescrizione di un amore gratuito - e pre-cisamente di un amore gratuito illimitato - è soltanto un percorso a ritroso lungo l’esperienza biblico-cristiana che è capace di attraver-sare gli abissi che soggiacciono a tali contraddizioni. Abissi che, a partire dal tema della legge, a mano a mano si disvelano nell’espe-rienza religiosa ed umana di Israele e della prima comunità cristiana e che solamente dai vertici dell’azione storica di Dio, raggiunti nella Pasqua di Gesù, sono specularmente colmati e superati. La rifles-sione biblica così, se da un lato addirittura approfondisce la pars destruens precedentemente abbozzata, dall’altro è l’unica veramente autorizzata ad edificare una pars costruens a livello antropologico e teologico cristiano14. E mostra come soltanto l’annuncio (kerygma): “Gesù di Nazareth è morto e risorto” costituisca l’indicativo di sal-vezza capace di sciogliere le aporie in cui la legge religioso-morale ha fatto incappare Israele nel rapporto con Dio. L’annuncio della morte e della risurrezione di gesù ha che vedere, in negativo, col bisogno dell’uomo di autogiustificarsi, di fare a meno della mise-ricordia gratuita di Dio, della quale si dubita a motivo della morte quale limite supremo (se Dio amasse davvero l’uomo perché mai lo lascerebbe morire?); e, in positivo, ha a che fare con l’amore gratuito e illimitato di Dio che rende capace di tanto anche l’uomo che se ne lascia investire. Ecco perché l’annuncio della Pasqua di Gesù è una “buona notizia” (eu-anghelion in greco, da cui il termine italiano “vangelo”)15. Anzi, la buona notizia per eccellenza rivolta all’uomo.

14 Se è vero che le fonti della teologia non consistono unicamente nel dato biblico rivelato, è altrettanto vero che ogni esposizione teologica cristiana non può assolutamente prescindere da esso né subordinarlo ad altre fonti. La sacra Scrittura, infatti, è l’anima della teologia (cf Dei Verbum 24; Optatam Totius 16). Superfluo, dunque, aggiungere che anche la riflessione di H.U. von Balthasar, che proporremo nella terza parte come esemplificativa dell’approccio teologico-sistematico, suppone anch’essa il kerygma e lo sviluppa da un punto di vista speculativo.

15 in quanto “annuncio”, il kerygma – a parere di v. Spicacci cui monograficamente ci riferiamo in questa parte – si dà in modo originario ed efficace nella narrazione. Un indicativo, insomma, che connota non solo il contenuto dell’annuncio ma anche la sua forma. per ragioni di brevità, qui siamo costretti, oltre che a sintetizzare per sommi capi gli studi del nostro autore, anche a tradirne in gran parte la forma espositiva (che, peraltro, si porrebbe in perfetta sintonia con l’approccio psicologico-conversazionale che ha aperto la nostra riflessione). i principali lavori, oggetto della nostra sintesi, sono: v.

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2.1. La legge come “forza del peccato”

Partiamo dal fondovalle dell’esperienza religiosa di Israele. Che cosa ha precipitato qui la legge agli occhi di Paolo? Essa è dono di Dio. Precisamente, è il prezioso insegnamento di Dio16, l’insieme dei principi e delle norme che oggettivano l’alleanza tra il signore e il suo popolo (cf. Es 19,5; 34,10; Dt 4,13; 5,2; 29,12), fonte di vita e di benedizione per chi la osserva (cf. Lv 18,5). Dunque, necessaria e benefica. Da dove, allora, la drastica conclusione paolina?

In verità, ogni positività suppone una polarità opposta. Anche la benedizione di Dio, pertanto, ha un suo possibile contrario e Israele non teme di prefigurarlo: chi trasgredirà la legge sarà maledetto (cf. Dt 27,26). Così la legge impone all’uomo un’inevitabile scelta dire-zionale tra la vita e il bene da una parte, la morte e il male dall’altra (cf. Dt 30,15; Sir 15,13-20). Nonostante la proclamata volontà di aderire fedelmente all’alleanza di Dio (cf. Gs 24,24), Israele scopre, dopo una serie ininterrotta di infedeltà, la propria cronica incapacità di osservare la legge (cf. Is 59,12s; Ger 14,7; Bar 1,15-18; Dn 3,29-30; 9,5-10.20; Ne 1,6s; 9,34). È una dolorosa assunzione di consa-pevolezza che nella coscienza di Israele innesca e allo stesso tempo acuisce una serie di dinamiche disgreganti. A queste Paolo sembra alludere quando inauditamente definisce la legge “forza del peccato” (1Cor 15,56). Possiamo ricondurle sostanzialmente a tre:

Spicacci, Gesù di Nazareth: una buona notizia?, ancora, Milano 1997; iD., La buona notizia di Gesù, o.c.

16 il termine ebraico Torah deriva dal verbo jarah, insegnare, e significa quindi “l’insegnamento (di Dio)”, che in quanto tale è normativo. nella Bibbia dei Settanta il termine greco nómos che traduce Torah coglie di questo certamente l’aspetto normativo ma ne disperde la globale ricchezza semantica. il termine italiano legge traduce letteralmente quello greco.

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1. la devastante autocoscienza della propria fallibilità: la legge inchioda ogni uomo17 - anche coloro che la predicano18 – alla propria debolezza e ne addita, inesorabile, il peccato19;

2. il seducente desiderio del male20: è la cosiddetta “concupi-scenza”, la brama del “frutto proibito”, che proprio la conoscenza della legge scatena nell’uomo21;

17 paolo scrive così: “Dio ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per usare a tutti misericordia!” (rm 12,32); “…la Scrittura ha rinchiuso ogni cosa sotto il peccato, perché ai credenti la promessa venisse data in virtù della fede in Gesù cristo” (Gal 3,22); “…noi sappiamo che tutto ciò che dice la legge lo dice per quelli che sono sotto la legge, perché sia chiusa ogni bocca e tutto il mondo sia riconosciuto colpevole di fronte a Dio” (rm 3,19).

18 avverte Gesù in Mt 23,2-4: “Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Quanto vi dicono, fatelo ed osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno. Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito” e in Lc 11,46: “Guai anche a voi, dottori della legge, che caricate gli uomini di pesi insopportabili, e quei pesi voi non li toccate nemmeno con un dito”. vi fa eco paolo: “…se tu ti vanti di portare il nome di Giudeo e ti riposi sicuro sulla legge e ti glori di Dio, del quale conosci la volontà e, istruito come sei dalla legge, sai discernere ciò che è meglio, e sei convinto di essere guida dei ciechi, luce di coloro che sono nelle tenebre, educatore degli ignoranti, maestro dei semplici, perché possiedi nella legge l’espressione della sapienza e della verità…, ebbene, come mai tu che insegni agli altri non insegni a te stesso? Tu che ti glori della legge, offendi Dio trasgredendo la legge?” (rm 2,17-23). cf. rm 14,4; at 15,10; Gc 4,11s.

19 nota paolo che “…in virtù delle opere della legge nessun uomo sarà mai giustificato davanti a lui, perché per mezzo della legge si ha solo la conoscenza del peccato” (rm 3,20) e che “…la legge poi sopraggiunse a dare piena conoscenza della caduta” (rm 5,20).

20 Questo disordine del cuore costituisce per paolo la “legge del peccato”, opposta alla legge di Dio: “io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto. Ora, se faccio quello che non voglio, io riconosco che la legge è buona; quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra” (rm 7,15-24).

21 in rm 7,7s, paolo scrive: “…che diremo dunque? che la legge è peccato? no certamente! però io non ho conosciuto il peccato se non per la legge, né avrei conosciuto la concupiscenza, se la legge non avesse detto: non desiderare (es 20,17). […] Senza la legge il peccato è morto”. e poi continua: “prendendo

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3. il disperato tentativo di autogiustificazione22: impugnare la pra-tica della legge permette all’uomo di vantare una propria illusoria giustizia davanti a Dio, che lo dispenserebbe dall’aver bisogno della sua misericordia23.

Quest’ultima dinamica pare essere quella decisiva, quella che tra-scina con sé le prime due e che maggiormente motiva la dura espres-sione di Paolo. Tale è infatti il capolavoro del peccato: sfigurare la legge, dono immenso di Dio, fino a deformarla nell’idolo della pro-pria giustizia per fare a meno di Dio stesso. La legge diventa vera-mente, in questo senso, la “forza del peccato”. L’esperienza religiosa dell’antico Israele, specchio della più generale esperienza religiosa umana, racconta che l’autogiustificazione si traveste ora di legalismo ora di formalismo ora, infine, di servilismo24.

ma non è tutto qui. Alla luce buona del kerygma, che rischiara l’occhio di Paolo, l’autogiustificazione appare, in qualche modo, un abisso che richiama altri abissi. metaforicamente parlando, l’autogiu-stificazione è la “sindrome” che affligge il cuore dell’uomo e che si compone dei sintomi del legalismo, del formalismo e del servilismo,

pertanto occasione da questo comandamento, il peccato scatenò in me ogni sorta di desideri… Ma, sopraggiunto quel comandamento, il peccato ha preso vita e io sono morto; la legge, che doveva servire per la vita, è divenuta per me motivo di morte. il peccato infatti, prendendo occasione dal comandamento, mi ha sedotto e per mezzo di esso mi ha dato la morte” (rm 7,8-11). cf anche Gc 1,14s.

22 annuncia in negativo paolo: “…dalle opere della legge non verrà mai giustificato nessuno” (Gal 2,16); e poi in positivo: “vi sia dunque noto, fratelli, che per opera di lui [Gesù] vi viene annunziata la remissione dei peccati e che per lui chiunque crede riceve giustificazione da tutto ciò da cui non vi fu possibile essere giustificati mediante la legge di Mosè” (at 13,38s)

23 cf Lc 18,9.14: “Disse ancora questa parabola per alcuni che credevano di essere giusti e disprezzavano gli altri […] io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato”; Mt 6,1-5; 23,5-32; Lc 11,39-48.52 (ammonimenti di Gesù contro l’ipocrisia ed il formalismo religioso); Lc 16,14s (ammonimento di Gesù ai farisei che si ritenevano giusti); Lc 15,7 (la parabola della pecorella smarrita).

24 Dio denuncia queste tre forme devianti della fede nell’a.T., emblematicamente, in Sam 15,22; is 1,10-16; 29,13s; 58,1-8; Ger 6,20; 14,12; Os 6,6; 8,13; Mi 3,4; 6,5-8; Gl 2,13; Zc 7,4-6; Sl 40,7-9; 50,5-15; 51,18-19 e nel n.T., con Gesù, in Lc 11,41s; Mt 7,21; Gv 4,21-24, (cf anche i passi già citati sopra).

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ma non è essa stessa la causa della malattia. L’“eziopatogenesi” è da collocare, piuttosto, nei movimenti più recessi ed oscuri del cuore umano, laddove il male scopre le proprie radici: lo scandalo del li-mite, la paura della morte, la paura di Dio e, alla base, il sospetto sulla gratuità del suo amore.

2.1.1. Servilismo, formalismo e legalismo

Il servilismo, il formalismo e il legalismo della coscienza cre-dente nascono dall’incontro-scontro tra il bisogno e la paura di Dio. L’uomo ha indiscutibilmente bisogno di Dio. I limiti personali ed esistenziali pedinano la sua vita, la assediano, la incalzano. Di essi la morte costituisce il sigillo ultimo e allo stesso tempo più rappre-sentativo: ogni limite, infatti, “mortifica” l’uomo, genera in lui una specie di morte. L’uomo istintivamente si rivolge a “Qualcuno” che avverte superiore a sé, che possa colmare i suoi deficit e permettergli di varcare come d’incanto la soglia altrimenti invalicabile del limite.

ora, l’uomo potrebbe vivere questo bisogno in modo disteso e rilassato, poggiandolo su un rapporto di fiducia. Ma accade esatta-mente il contrario. Egli tende a soddisfare questo bisogno in modo avido, smodato, possessivo. In questa avidità la coscienza credente mira unicamente ad uno scopo: usare di Dio in funzione della pro-pria auto-conservazione e della propria auto-realizzazione, impadro-nirsi di Dio per fare a meno di lui, dare la scalata al cielo e afferrare il suo potere per salvarsi da sola25. In breve, essere come Dio ma senza Dio. È il delirio dell’onnipotenza26.

Il bisogno di Dio, così morbosamente vissuto, malcela a sua volta la paura di Dio. Essa prende forma nella coscienza credente a partire dallo stridente contrasto tra la felice onnipotenza divina e la miserrima impotenza della condizione creaturale. I motivi di diffidenza nel cuore dell’uomo, a tale riguardo, sono molti. Due in

25 vedi, per es., il racconto biblico della torre di Babele (cf Gen 11,1-9) ma anche quello extra-biblico, mitologico, di icaro.

26 alla base di questa riflessione sta la rilettura kerygmatica di Gen 3, in cui più che stigmatizzare un peccato originale come un quid che riguarda “gli inizi” e fondamentalmente “altri”, è necessario riconoscere una logica che perpetua se stessa attraverso ogni singola azione peccaminosa degli uomini.

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particolare sembrano quelli decisivi. In primo luogo, l’onnipotenza rende Dio il “totalmente altro”, il “diverso” per antonomasia rispetto all’uomo, “la nube” cui è pericoloso avvicinarsi. In forza dei suoi smisurati poteri, egli da una parte è “l’imprevedibile” che sfugge ad ogni controllo dell’uomo, numinoso, misterioso, inafferrabile; dall’altra egli è “colui che tutto vede” e “prevede” e ai cui occhi nulla può sfuggire. Il potere del controllo, dunque, è a senso unico. La coscienza credente si percepisce braccata dal suo sguardo pene-trante e pervasivo. L’uomo, ogni uomo, è una specie di “sorvegliato speciale” e lo sguardo divino, per ciascuno, una minacciosa spada di Damocle. L’onnipotenza di Dio, in secondo luogo, suggerisce al cuore dell’uomo un motivo di diffidenza ancor più grave. Essa, a fronte dei numerosi limiti umani, appare scandalosa, quasi sadica: come può Dio starsene a guardare tranquillo le proprie creature de-turpate e vinte dagli affanni quotidiani e infine dalla morte? Una luce sinistra è gettata così sulle intenzioni di Dio. Esse certamente non possono essere benevole. Il sospetto inoculato è il seguente: Dio non partecipa la sua onnipotenza all’uomo perché lo ritiene un proprio potenziale concorrente. Il “progetto” sull’uomo che gliene deriva non può che essere un’esistenza mortificata e mortificante. Ecco il nodo gordiano della coscienza credente: la morte. Come comporre la sua esistenza con un presunto amore di Dio?

Un Onnipotente dai connotati siffatti, imprevedibile e mortifica-tore, del quale tuttavia si ha un profondo bisogno, impone alla co-scienza credente un rapporto cautelativo e contrattuale – tutt’altro che gratuito dunque – laddove l’osservanza della legge è merce di scambio e arma di difesa insieme. L’obbedienza alla legge, difatti, garantisce all’uomo un duplice vantaggio: l’imprevedibilità di Dio è addomesticata dalla regola do ut des – ti do tanto per tanto, né più né meno: non è ammessa slealtà alcuna – e i suoi immensi poteri gradualmente estorti. In pratica: osservanza servile, formale, le-galistica in cambio dei dovuti favori divini. Una propria giustizia, insomma, comprata a caro prezzo, col sudore dell’osservanza reli-gioso-morale.

Il servilismo si distinguerebbe per i suoi modi untuosi, striscianti ed ipocriti, tipici del servo, appunto, che finge ossequio e devozione, ma non aspetta altro che il padrone si allontani per colpirlo alle spalle e coltivare i propri interessi.

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Il formalismo evidenzia, invece, la “distanza di sicurezza” da te-nere nei confronti di un simile Dio, indispensabile e tuttavia perico-loso, e rimarca la necessità di salvaguardare un prudente equilibrio tra bisogno e paura di lui. Ogni confidenza nei confronti di Dio qui è vietata. È invece raccomandata una condotta religioso-morale aset-tica - comprensiva di formule, gesti stereotipi e convenzionali che assolvano alle norme prescritte - che eviti di manifestare a Dio i propri sentimenti, compresa la propria paura di lui: permaloso e ira-condo quale l’immaginazione lo ritrae, chissà che reazioni potrebbe manifestare a tale confessione! Il formalismo, in tal senso, esprime addirittura “la paura della paura di Dio”.

Il legalismo è l’artefatto migliore dell’infelice e contrastante con-nubio tra bisogno e paura di Dio che si celebra nel cuore umano. Esso consiste nell’osservare scrupolosamente “le regole” della legge perché Dio non abbia più niente da recriminare. Lo scopo non è as-solutamente incontrare Dio, bensì tenerlo il più lontano possibile, fino ad estrometterlo dalla propria vita in nome della giustizia per-sonale. Se Dio concede qualcosa all’uomo è perché questi se l’è me-ritato fino in fondo. Del resto, un contratto è un contratto. È l’uomo ora ad essere creditore di Dio, non viceversa. La legge, da potere di Dio sull’uomo, finisce per diventare così il potere dell’uomo su Dio.

2.1.2. L’esperienza religioso-morale come rapporto di potere

Un rapporto di potere con Dio, un tenergli testa sul piano morale: ecco cosa diventa l’esperienza religiosa quando la coscienza cre-dente tenta di autogiustificarsi. Un braccio di ferro, questo, disperato ed umiliante per l’uomo, che puntualmente si vede sconfitto a causa della propria ineluttabile fallibilità e che, dopo ogni défaillance, pro-meteicamente si rialza e tende di nuovo il pugno a Dio, sforzandosi di “meritare” il suo perdono. Meritare un (per)dono è però un as-surdo, almeno quanto lo è “comprare” l’amore. Entrambi, perdono e amore, appartengono infatti ad un rango relazionale assai più nobile dei rapporti commerciali. Appartengono al regno della gratuità.

Qui sta il punto di svolta. La paura di Dio, che scompagina il bi-sogno di lui nell’esperienza religiosa, rivela che l’uomo non crede al suo amore né alla presunta gratuità con cui egli avrebbe dato vita al mondo e a tutte le creature. sarebbe un atto irresponsabile, quindi,

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abbandonarsi con tutti i propri limiti ad un tale Dio, di cui si sospet-tano fini reconditi e inconfessati. Le torbide intenzioni di Dio sono smascherate dalla morte, limite estremo, e dai limiti, quali piccole morti quotidiane. Se Dio non elimina né l’una né gli altri, lui che tutto potrebbe, è perché evidentemente gli sono necessari per tenere sotto scacco l’uomo, per ricattarlo ed estorcergli qualcosa, se non altro subordinazione. L’uomo allora gli concede quanto vuole: si sottomette obtorto collo alla sua legge, ma in cambio naturalmente esige le sue grazie, la sua pur costosa giustizia ovvero il suo po-tere contro la morte e le morti. Una gavetta estenuante ma neces-saria. Con un obiettivo finale: arrivare ad essere come Dio per fare a meno di Dio. E con un’attesa nascosta, inconfessabile: la morte di Dio stesso. morte dalla quale l’uomo ricaverebbe due inestimabili vantaggi: l’incameramento dell’incalcolabile eredità di Dio, che è la vita, e la propria totale emancipazione27. La logica ivi sottesa è scandalosa per la stessa coscienza credente che la nutre ma, sembra, non per la natura che ad essa affida l’istinto di auto-conservazione e la vittoria dei “più adatti” nel processo di selezione naturale: mors tua, vita mea.

2.2. Il giogo leggero di Gesù

2.2.1. L’amore gratuito

La contrattualità che sfocia nella competizione pervade, dunque, l’esperienza religiosa. ma non solo quella. Essa domina anche i rap-porti sociali. Persino l’amore tra l’uomo e la donna sembra non ri-uscire a sottrarvisi28. Questo infatti è sempre “a condizione che” ci sia reciproca attrazione, precise caratteristiche fisiche e psicologiche, fedeltà e rituali di conferma. È, in breve, un “amore di desiderio” (eros), sempre sottoposto alla tirannia delle condizioni e tendente più al possesso che al dono. ora, se la dura legge della vita sociale in-

27 È questo desiderio che sembra strisciare sotterraneo nella cosiddetta parabola del “figliol prodigo” (Lc 15,11-32), confessato nella richiesta del figlio minore, a lungo inconfessato e tuttavia centrale nell’atteggiamento formale-legalistico del figlio maggiore.

28 cf v. Spicacci, Gesù di Nazareth: una buona notizia?, o.c., 161-194.

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segna che “nessuno dà niente per niente”, la paura della morte sugge-risce che neppure Dio sfugge a tale postulato. nessuno ama in modo del tutto incondizionato, neppure Dio. tanto meno Dio. La paura della morte insegna opportunamente ad ogni uomo che nessuno ama la sua vita più di quanto la ami lui stesso. In tutto l’universo, anzi, solo lui la ama davvero. nessuno infatti darebbe la vita per lui. nes-suno si addosserebbe i suoi limiti e la sua morte, poiché ciascuno è già fin troppo impegnato a lottare contro i propri limiti e la propria morte. non rimane che una sola via percorribile: salvarsi con le pro-prie forze. Dare la vita per salvare la propria vita. Ansia, preoccupa-zione e affanno diventano così gl’immancabili compagni di viaggio, ingombranti ma inevitabili, il prezzo da pagare per non morire, per non perdersi. Fidarsi unicamente di se stessi e della paura della morte per non perdere la vita. Ecco tracciata la via per l’autosalvezza.

Il signore della Buona notizia, gesù, sembra conoscere molto bene queste dinamiche del cuore umano. Le ritrova nel costante af-fanno per il cibo (cf. Mt 6,25,28.31) e per il domani (cf. Mt 6,34a); nella vana pretesa di poter gestire la durata della propria vita (cf. Mt 6,27; Lc 12,25); nella pesantezza che soffoca l’ascolto della Parola (cf. Mt 13,22), impedisce la vigilanza (cf. Lc 21,34) e distrae dall’essen-ziale (cf. Lc 10,41) che è poi la giustizia di Dio (cf. Mt 6,33). Le rico-nosce, in particolare, nella coscienza credente schiacciata dai gravami religioso-morali di un’osservanza servile e legalistico-formale della legge. E propone di abbandonare questo giogo per accogliere il suo, che è leggero (cf. Mt 11,29). Un giogo che Gesù autorevolmente con-trappone a quello della torah. È il giogo dell’amore gratuito di Dio, che la sua presenza incarna nella storia. Esso non chiede come pre-requisito alcuna giustizia morale. non esige condizioni previe e nep-pure, inauditamente, una condotta consequenziale. non va meritato. Chiede unicamente fiducia nel Messia inviato da Dio. E in nome di questa fiducia di rinunciare a salvare la propria vita, di disubbidire alla paura della morte che costantemente sussurra al cuore umano l’equa-zione: fidarsi di Dio è uguale a “perdersi”. Gesù avverte che è proprio qui che si gioca il destino dell’uomo: nel decidere a chi dare fiducia. se questa verrà accordata alla paura della morte, l’uomo cercando di salvare la propria vita la perderà (cf. Lc 17,33a), perché combatterà contro lo strapotere della morte e proprio l’ansia, la preoccupazione e l’affanno che accompagnano questa lotta lo uccideranno. L’uomo in-

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vece che riporrà la fiducia in Dio e nel suo amore gratuito, beffandosi della paura di perdersi in tale atto di abbandono, salverà la propria vita (cf. Lc 17,33b). Il giogo di Gesù è leggero perché è un invito a gettare in Dio ogni pesante affanno. A scagliare su lui stesso, gesù, la nostra morte. A credere che il suo amore è unico, più forte della morte, più te-nace della paura che essa genera. Un amore diverso, non di desiderio, senza volontà di possesso, senza secondi fini, senza condizioni, senza tornaconto alcuno; un amore assolutamente gratuito (agape)29 che, in contrasto con la logica comunemente osservata in natura e nelle rela-zioni sociali, propone: mors mea, vita tua.

2.2.2. L’amore gratuito e illimitato

È proprio qui, nel binomio morte-vita, che si colloca il kerygma, il cuore di tutto il Vangelo. Ora, perché mai la “buona notizia” per eccellenza rivolta all’uomo riguarda una morte? La risposta in parte è già stata data ma va precisata in ordine al morire storico di gesù narrato nei vangeli.

La morte di Gesù è buona notizia anzitutto perché è diversa da tutte le altre. La sua diversità sta tutta nella libertà con cui gesù la accoglie, pur amando immensamente la vita. Anzi, proprio perché ama in questo modo la vita. È infatti una buona notizia che un uomo, almeno uno nella storia, abbia disobbedito alla paura della morte e l’abbia apertamente contraddetta. In nome di che cosa? In nome del sogno d’instaurare il Regno di Dio e di realizzare sulla terra una fra-ternità universale. In nome, cioè, dell’amore.

ma per noi è una notizia anche migliore che la morte di gesù, libera dalla paura di perdersi, abbia liberato dallo stesso giogo molti tra co-loro che assistevano al suo “spettacolo” (cf. Lc 23,48), attestando già, mentre ancora si consumava, una propria efficacia salvifica.

29 La Bibbia distingue accuratamente l’amore gratuito (riconducibile all’agape) dall’amore di desiderio (riconducibile all’eros). La distinzione tuttavia non avviene in forza di una connotazione morale, ma in ordine alla loro diversa origine e alle specifiche dinamiche relazionali che ciascuno di essi comporta. in questo senso, l’eros, con la sua passionalità, è tipico del rapporto uomo-donna (si veda emblematicamente l’intero libro del cantico dei cantici, nella sua traduzione greca); l’agape, invece, è tipico di Dio e della carità cristiana (si veda, per es., il celeberrimo testo di 1cor 13).

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I racconti della Passione narrano di due malfattori condannati con gesù, uno dei quali, contro tutto un presumibile vissuto di violenza, di distruzione e di morte, inaspettatamente si rivolge al suo vicino, morente come lui e in nulla somigliante a Dio, e lo implora: “Gesù ricordati di me, quando entrerai nel tuo Regno” (Lc 23,42). Su di lui egli sembra gettare l’ansia per la vita e la sua paura della morte, riconciliandosi ad un tempo e con la vita e con la morte, con gli uo-mini e con Dio.

Siamo autorizzati ad immaginare che la crocifissione di Gesù sia stata davvero uno “spettacolo” che abbia irriso, col suo amore tra-volgente, il potere della morte sull’uomo, se marco può narrare di un altro, apparentemente inspiegabile, episodio. si tratta del centurione30 che stava sotto la croce. Egli, racconta l’evangelista, “visto morire Gesù in quel modo, disse: ‘veramente costui era Figlio di Dio’” (Mc 15,39). Un simile fatto suppone la dirompente novità della morte di Gesù, la sua inconfondibile diversità. Solo questa infatti può giustifi-care, nel cuore del soldato, il passaggio dall’implicita constatazione: “È un criminale, o un pazzo, condannato a morte dal suo popolo e dai Romani” alla folgorazione: “È il Figlio di Dio”. La novità assoluta, sconvolgente, è quell’amore che percorre “fino-alla-fine”31 la morte, la propria e quella dei presenti. Presumibilmente corazzatosi, lungo gli anni, contro tutto l’odio e la paura di morire vomitatogli addosso dai condannati al patibolo e avvezzo al cinismo per mestiere, quel cen-turione non aveva mai visto, in tutta la sua carriera, un uomo morire così: benedicendo i suoi aguzzini ed invocando su di essi il perdono di Dio. Quell’amore gratuito e a fondo perduto, che sempre aveva pen-sato inesistente, ora era lì e gli trapassava la corazza del cuore.

Buona notizia è anche la risurrezione di gesù. si badi, però: non in quanto gloriosa antitesi rispetto alla sua ignominiosa fine, ma in quanto conferma dell’invincibile potenza di vita presente in quella morte.

30 il centurione fu colui che comandò il drappello dei soldati incaricati dell’esecuzione materiale della crocifissione di Gesù (cf Mt 27,54).

31 “prima della festa di pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo li amò sino alla fine [eis tèlos]” (Gv 13,1).

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“La risurrezione di Gesù è una buona notizia, perché è la conferma del fatto che un amore così, il cui vivere è perdersi continuamente in favore della vita, non poteva e non può morire, giacché è la forza stessa della vita: l’afflato dell’amore è l’afflato della vita, il respiro dell’amore è il respiro della vita”32.

La tendenza a vedere nella risurrezione di gesù una muscolosa prova di forza, una dimostrazione dell’onnipotenza divina opposta all’impotenza della croce, un doveroso “happy end” ad una recita fin troppo drammatica, rivela una logica ancora governata dalla paura di perdersi.

“Il confronto con la morte di Gesù rivoluziona questa logica: l’immor-tale, ciò che ‘non muore mai’, non è ciò che ‘non muore’, ma ciò che ‘muore sempre’, perché ‘si perde sempre’. La pienezza della vita non è l’immortalità, ma l’assoluta, radicale libertà di perdersi, ossia di morire, dell’amore”33.

Ciò significa anche che, benché la morte di Gesù sia un efapax34, un unicum irripetibile nella storia del mondo, essa non è “il picco” dell’amore-dono di Dio da cui consegue il ritorno ad una sorta di omeostasi.

“La morte di Gesù non è il segno che in quel momento della storia l’amore-dono ha amato di più. Più di prima e più di dopo. È, piuttosto, la rivelazione agli uomini della stoffa dell’amore-dono: il segno che io, l’amore-dono, ho sempre amato, amo sempre ed amerò sempre come gesù ha mostrato agli uomini di amare. Giacché l’amore-dono è uno solo, non ha gradazioni né intensità: è sempre un-amore-fino-alla-morte”35.

32 v. Spicacci, La buona notizia di Gesù, o.c., 163. il principale referente biblico qui è Giovanni che nel proprio vangelo ribadisce con forza l’inscindibilità di morte e resurrezione attraverso il tema dell’“ora”.

33 Idem, 157.34 “per quanto riguarda la sua morte, egli morì al peccato una volta per tutte

[efapax]” (rm 6,10). cf. anche eb 7,27; 9,12; 10,10.35 v. Spicacci, La buona notizia di Gesù, o.c., 254-255. La forma

dell’indicativo alla prima persona singolare si giustifica qui in forza dell’approccio narrativo adottato dall’autore. È Dio stesso, quale “Signore della

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Ed è questo che, quoad nos, è decisivo: che l’amore rivelatosi nella morte e resurrezione di gesù riguardi gli uomini di tutti i tempi. Per questo è la buona notizia di tutta la storia. È la notizia che esiste un amore diverso, irreperibile nelle dinamiche umane di desiderio (eros), di possesso e di convenienza sempre contrattualmente bi-lanciate da un “se… allora”. È la notizia che esiste un amore-dono (agape) che, anche qualora si negasse l’esistenza di Dio, assurge-rebbe esso stesso alla grandezza di Dio: sarebbe esso stesso Dio, perché capace di dominare la morte e di sopravvivervi. È la notizia che questo amore accompagna e sostiene la storia dell’umanità e di ciascun essere umano, al di là della loro bontà o della loro malvagità.

È infatti un amore gratuito perché non pone condizioni e non ha bisogno di essere acquistato con la buona condotta morale. Ama l’uomo indipendentemente dal fatto che egli obbedisca o disobbe-disca alla legge (cf. Mt 5,45; Lc 6,35; 22,10; Rm 8,35-39). Lo ama prima di questa scelta36. E lo ama dopo di essa, anche quando la decisione presa è di trasgredire la legge37. Anzi, a maggior ragione quando l’opzione scelta è questa38.

Buona notizia” e quale “amore-dono” a dare l’inaudito annuncio (kerygma) di sé agli uomini.

36 “per questa grazia infatti siete salvi mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene. Siamo infatti opera sua, creati in cristo Gesù per le opere buone che Dio ha predisposto perché noi le praticassimo” (ef 2,8-10).

37 “infatti, mentre noi eravamo ancora peccatori, cristo morì per gli empi nel tempo stabilito. Ora, a stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto; forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, cristo è morto per noi” (rm 5,6.8). e che ci sia un nesso tra la morte di Gesù e la trasgressione della legge è inequivocabile: “infatti ciò che era impossibile alla legge, perché la carne la rendeva impotente, Dio lo ha reso possibile: mandando il proprio figlio in una carne simile a quella del peccato e in vista del peccato, egli ha condannato il peccato nella carne, perché la giustizia della legge si adempisse in noi (rm 8,3-4a).

38 L’idea che Dio debba punire il peccatore come per restaurare il proprio onore vilipeso riscopre il sospetto, tenace nella coscienza credente, che i comandamenti di Dio (la morale) servano a tutelare i suoi interessi e non il bene della creatura. e che, dunque, compiere il male sarebbe un bene se non ci fosse vendetta dal cielo. Se Dio non punisce ma attende pazientemente il ritorno del peccatore (cf Lc 15,20), anzi lo va a cercare (cf Lc 15,4-10) non è perché egli sia indifferente al peccato – tutt’altro! – ma perché vede bene che privarsi dei privilegi della casa del padre per agognare al cibo dei porci onde sopravvivere

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Ed è poi un amore illimitato perché si espone inerme ad essere rifiutato e ripetutamente colpito e perché, ciononostante, continua ad amare ancora e ancora, ad oltranza. Anche a costo che l’uomo ne approfitti. Anzi, proprio perché ne approfitti e scopra finalmente che non c’è rappresaglia, non ci sono secondi fini né interessi perso-nali calpestabili. L’amore incondizionato di Dio, infatti, non mira ad altro che a promuovere la libertà dell’uomo. Ad ogni costo. sempre. Anche qualora essa, nel disperato tentativo di liberarsi da sola, do-vesse chiedere la morte di Dio. La Passione di gesù mostra inequi-vocabilmente che la libertà della creatura è il bene più prezioso per Dio. tanto prezioso che egli vi pospone addirittura la propria vita e la propria onnipotenza. Perché dell’una e dell’altra Dio non è geloso e da sempre sogna di renderne partecipe l’uomo39.

sul versante di Dio, va precisato che tale amore è tanto distante dall’amore “paternalista”, che predetermina il bene dell’altro (“So io qual è il tuo bene”), quanto da quello “permessivista” (rappre-sentabile, seppur impropriamente, con lo slogan liberista: “Lassaiz faire, lassaiz passer”), che semplicemente lascia fare l’altro ma non assume su di sé le conseguenze delle sue scelte.

sul versante dell’uomo, va ribadito che solo il vertiginoso rischio della libertà, corso fino in fondo, può liberare la coscienza credente dal desiderio del male, dalla nostalgia del “frutto proibito” quale bene che Dio le negherebbe per “mortificarla”; dal tentativo di autogiusti-ficarsi per fare a meno dell’amore di Dio; e infine dal sentimento di autoaccusa dinanzi alla propria umana fallibilità, narcisisticamente preoccupato assai più delle scalfiture arrecate all’immagine ideale

(cf Lc 15,16s) è punizione che basta a se stessa, i cui danni, anzi, fanno del peccatore un malato bisognoso delle cure di Dio (cf Mt 5,31). altra cosa rispetto alla punizione è la correzione di Dio, la quale non è nell’ottica della vendetta ma dell’amore (cf Dt 8,5; pr 3,11s; eb 12,7-11; ap 3,19; 2cor 7,8-11; rm 5,3; Gc 1,2-4).

39 al progetto originario di Dio: “facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza” (Gen 1,26) - pervertito nel cuore dell’uomo in un risultato da raggiungere con le proprie forze (Gen 3,1-7) - corrisponde l’identità presente e futura dei redenti: “carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è” (1Gv 3,2). cf anche: Sal 82,6; Gv 10,34-36; 1cor 8,6; 15,28; ef 2,18s; 4,6; col 3,11.

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della propria integrità morale che delle piaghe aperte nell’amore in-corrisposto di Dio.

2.2.3. L’amore gratuito, illimitato e inimitabile

se l’amore gratuito esiste ed è entrato nella storia vuol dire che è possibile, attraversando e oltrepassando l’amore di desiderio, amare ed amarsi davvero. ma questo è forse un nuovo scossone dato alla coscienza morale, semplicemente più vibrante ed entusiasta di altri appelli? Se così fosse, il messaggio rivolto alla coscienza credente, sfibrata dalla lotta impari contro la paura di perdersi suonerebbe più o meno così:

“Fatti coraggio, non ti disperare… Questa è la volta buona! Vedi come ha fatto lui… Prendi esempio da lui… L’amore-dono è a portata di mano! non ti arrendere troppo presto! se ce l’ha fatta lui, con po’ di impegno e di buona volontà puoi e devi farcela anche tu! serra i pugni, tira la cinghia, stringi i denti… se c’è riuscito lui, puoi e devi riuscirci anche tu! metticela tutta, tieni duro… gesù è il tuo modello. Fa’ come lui! Rimboccati le ma-niche, gambe in spalla e datti da fare! Vedrai che imparerai ad amare anche tu come Gesù ha amato…”40.

se la novità cristiana consistesse in questa esortazione, essa non solo non sarebbe una “buona notizia”, ma sarebbe addirittura la “peggiore notizia” mai data all’uomo! E ciò per almeno due motivi. In primo luogo, perché la paura di perdersi imporrebbe all’uomo di competere in perfezione morale nientemeno che con l’amore gratuito di Gesù, che in sé è inimitabile, perché appunto senza limite, divino oltre che umano. In secondo luogo, perché svuoterebbe di significato la morte e la risurrezione di Cristo. se l’uomo, strigliando un poco il proprio orgoglio, fosse capace di tanto amore, la croce di gesù si dimostrerebbe un inutile sacrificio. E peraltro un tragico caso: la peggiore caduta di stile dell’amore umano. Il quale, di norma, però, basterebbe a se stesso, carburato e ricarburato costantemente dalla volontà umana. La salvezza sarebbe frutto delle proprie opere. Un

40 v. Spicacci, La buona notizia di Gesù, o.c., 150.

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tale appello morale, in breve, riediterebbe, in forma riveduta e peg-giorata, la perenne volontà di autogiustificazione umana41.

La rivoluzione dell’amore crocifisso e risorto sta nel fatto che esso non esige di essere riconosciuto né prima di darsi né dopo. Si dona e basta. non pretende nemmeno la gratitudine, che pure gli spette-rebbe oltremodo. non pone l’accento su quanto l’uomo deve fare per Dio, ma su quanto Dio ha fatto, fa ed è disposto a fare per l’uomo. L’unica azione, tutt’altro che facile e passiva, richiesta all’uomo è quella di smettere di inventarsi parti imbonitorie da recitare davanti a Dio e credere, invece, che Dio è già buono, lasciarsi abbracciare e fare festa. solo questo42.

L’imposizione del dovere morale, presentato quale salatissimo conto finale, confermerebbe per converso che neppure Dio “dà niente per niente”. Che anche lui, in un modo o nell’altro, debba avere il suo tornaconto, se non altro nella riconoscenza e nella “spontanea” sottomissione da parte dell’uomo. In tal modo, la legge morale, ri-scritta sul monte Golgotha e presentata agli astanti, finirebbe per es-sere l’in cauda venenum della paura della morte che avvelenerebbe l’opera meravigliosa dell’amore di Dio, qual è la Passione di gesù.

E la legge morale, dunque? Esiste? E cos’è mai? Un orpello di-smesso dal kerygma perché pacchiano e troppo pesante? Tutt’altro! La legge morale esiste ma non è una legge. È una relazione. Un’alleanza. È l’incontro tra due libertà: quella di Dio e quella dell’uomo. Se un’oggettività dei valori esiste è perché esiste Dio. Essa è, per così dire, lo sguardo di Dio sull’universo, la sua sog-gettività; la quale diventa intersoggettività quando si comunica all’uomo43. Allo stesso modo, se la morale si riassume nel duplice comandamento dell’amore è perché “Dio è amore” (1Gv 4,16) in

41 il linguaggio è volutamente provocatorio. non intende certo destituire di legittimità l’imitazione di cristo, biblicamente fondata (cf rm 15,3.7; fil 2,5; ef 5,2.25), ma svincolarla dall’idea di Gesù quale semplice “modello morale” da emulare pervicacemente, liberarla dalle dinamiche di morte suesposte e inserirla in una relazione genuina, filiale, d’amore.

42 cf Lc 15,18-24.43 La terminologia qui utilizzata chiaramente non è biblica, ma si rende

momentaneamente necessaria per rispondere alle obiezioni che l’uomo contemporaneo può muovere al kerygma da un punto di vista filosofico. La tematica verrà ripresa nelle conclusioni generali.

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se stesso. oggettivamente gratuito e illimitato. ma tale oggettività è incomprensibile al di fuori di una relazione d’amore con l’A-more. È lasciandosi amare gratuitamente che l’uomo impara ad amare allo stesso modo. solo così l’amore diventa il suo codice morale interno. solo così la creatura può riconoscere che l’amore è “doveroso”, non perché eteronomamente imposto, in modo pa-lese o surrettizio, dall’autorità morale divina, ma perché connesso col senso di tutto, depositato proprio lì, nella relazione con Dio-Amore. Diversamente né l’amore per Dio né quello per il prossimo né quello per la propria vita hanno diritto di riassumere la morale cristiana. Al di fuori di questa relazione, infatti, la trascendenza divina appare una minaccia incombente, gli altri rivali egoisti e concorrenti e la vita una lotta per la sopravvivenza talmente este-nuante da essere già morte. Al di fuori di questa relazione regna solamente la divisione da Dio, dagli altri e da stessi44. In una pa-rola, la solitudine45. Il kerygma, in verità, offre molto di più di una teoria religiosa e morale. offre un’esperienza reale, trasformante46.

44 Qui l’approccio kerygmatico scopre il vero volto della “paura della morte” o dell’equivalente “paura di perdersi”. La divisione che questa genera, infatti, è opera del “diavolo” (dal greco diàbolos che vuol dire appunto “divisore, separatore”: cf. Sap 2,24; ap 12,9; 20,2) e della sua suggestione nel cuore umano. infatti, “la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo” (Sap 2,23s) e di essa, come della paura schiavizzante che genera, egli ha il potere (eb 2,14s: “poiché dunque i figli hanno in comune il sangue e la carne, anch’egli [Gesù] ne è divenuto partecipe, per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che per paura della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita”). a fronte delle dinamiche che la paura della morte o di perdersi innesca e alimenta nell’uomo, non è difficile comprendere ora anche gli altri appellativi che la tradizione biblica riserva al diavolo: egli è “l’avversario” (“satana”, dall’aramaico setana’: cf. Gb 1,6ss) di Dio e dell’uomo, “il bugiardo” (psèustes) e “l’omicida” (antropoktònos): cf. Gv 8,44; 1Gv 3,8-15.

45 La solitudine assoluta coincide con l’inferno, la cui possibilità non è soppressa dall’amore senza limiti di Dio. infatti, proprio l’amore di Dio, che innalza sovrana la libertà umana persino sulla propria onnipotenza, non può impedire l’eventualità che la creatura, pur dinanzi a tanta benevolenza, scelga per sempre la strada assurda dell’autosufficienza. in questo senso, però, l’inferno non è una sanzione divina, ma una situazione relazionale, una sorta di “solitudine ontologica”, scelta dall’uomo (cf v. Spicacci, La buona notizia di Gesù, o.c, 243-245).

46 nella tradizione cristiana, infatti, l’annuncio del kerygma e la sua accoglienza sono premessa e centro del cammino di iniziazione cristiana, ovvero del catecumenato (dal greco katechéo, “istruire oralmente, a viva voce”),

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Un’esperienza, umananamente inattingibile, d’amore e di comu-nione: “Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita… noi lo annunziamo anche a voi, perché siate in comu-nione con noi” (1Gv1,1.3).

Quest’ul-t i m a r i f l e s -

sione trae se stessa dal pen-siero di uno dei massimi teologi

del secolo scorso: Hans Urs von Balthasar (1905-1988)47. Essa, de-clinata in chiave teologico-sistematica, intende porsi in continuità con la parte che la precede. trattasi tuttavia di una continuità non di ordine cronologico ma teologico. La morte e la resurrezione di gesù rimangono il centro, il quale funge da perno per indagare che cosa il kerygma supponga dell’essere di Dio e dell’essere dell’uomo e che cosa implichi nella relazione storica tra l’uno e l’altro. Le mire speculative qui puntano al vertice: cercare di mostrare come l’amore gratuito e illimitato sprigionato nella Pasqua di gesù sia trasparenza

esperienza personale e insieme comunitaria, che si propone essenzialmente di: 1. consentire ai catecumeni di verificare nella propria vita l’autenticità della “buona notizia” 2. iniziarli al battesimo quale immersione nella morte/risurrezione di cristo e inserimento nella comunità cristiana 3. accompagnarli e sostenerli, attraverso il discernimento spirituale e la preghiera di liberazione (esorcismo), nel confronto con le immancabili risonanze negative alla buona notizia 4. educarli ad una vita morale conforme alla buona notizia. a motivo di ciò, il kerygma non può essere insegnato o studiato sui libri – qui semmai solo alluso – ma va annunciato, vissuto e contemplato. per l’approfondimento, cf v. Spicacci, Gesù di Nazareth: una buona notizia?, op. cit., 557-611; iD., La buona notizia di Gesù, o.c., 329-331; iD., Considerazioni sulla pastorale di evangelizzazione nella Chiesa italiana, in SapCr 4 (2000), 353-398; iD., Ma cos’è, veramente, il catecumenato?, in Rivista di Teologia Morale 50 (2009), 290-304.

47 i testi dell’autore saranno citati secondo le abbreviazioni indicate nella bibliografia del nostro studio.

3. L’indicativo vincolante: “Dio è amore”

(approccio teologico-sistematico)

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dell’identità di Dio e del progetto a cui l’uomo è invitato da sempre; mostrare, insomma, come la “legge dell’amore” sia anzitutto una “legge dell’essere” e come il cosiddetto imperativo morale discenda dal prioritario indicativo di salvezza48.

3.1. La libertà infinita di Dio come amore gratuito eterno

La croce di Gesù rivela non solo un “amore-fino-alla-morte” ma soprattutto un “amore-fino-alla-morte-di-Dio”. E ciò, se da una parte è la “buona notizia” del Vangelo, dall’altra costituisce da sempre il più grande rompicapo della teologia: come può “l’Immutabile” diventare mutevole con l’incarnazione e “l’Immortale” arrivare a morire? E morire persino della morte peggiore, quella comminata ai maledetti49? Tali domande sembrano descrivere una parabola discen-dente dell’Infinito che assume non solo il finito ma anche il male che lo corrode: il peccato. Una discesa dell’Illimitato fino al baratro del limite. Un vero e proprio “svuotamento”, una kenosi50. Da qui parte von Balthasar. nella sua poderosa soteriologia51 la kenosi, da scoglio teologico, diventa ponte tra l’azione storica di Dio e la sua dinamica natura trinitaria. Essa, se opportunamente compresa, ricusa di attri-

48 il termine “salvezza”, naturalmente, è inteso qui non in un’ottica puramente negativa - salvezza “dal peccato” - ma secondo l’interpretazione teologica più corretta: come “disegno storico-salvifico” di Dio. La prima accezione vedrebbe Dio impegnato in un’opera meramente riparatoria (Dio che interviene con Gesù per emendare i pasticci combinati dalla sua creatura col peccato!) e in qualche modo più debole del peccato stesso, perché da questo costretto a tanto scomodo; la seconda accezione, invece, vede l’azione storica di Dio da sempre fedele al suo originario progetto d’amore sull’uomo, contro e al di là del peccato.

49 “cristo ci ha riscattato dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi, come sta scritto: Maledetto chi pende dal legno [Dt 21,23]” (Gal 3,13).

50 il sostantivo greco kenosis deriva dal verbo kenoo che vuol dire propriamente “svuotare”, “spargere completamente”, “esaurire”. È questo il termine che un celebre passo della lettera ai filippesi utilizza per alludere al mistero dell’incarnazione e della morte del figlio di Dio: “egli (cristo Gesù), essendo per natura Dio, non stimò un bene irrinunciabile l’essere uguale a Dio, ma annientò (ekénosen) se stesso prendendo natura di servo, diventando simile agli uomini; e apparso in forma umana si umiliò facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (fil 2,6-8).

51 La soteriologia è l’applicazione dell’intelligenza teologica allo studio della salvezza (in greco, soterìa).

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buire a Dio tanto una rigida immutabilità quanto una mutabilità alie-nante. La verità infatti sta altrove. o meglio, più in profondità. La kenosi, in quanto “s-vuotamento”, è essenzialmente “spazio vuoto” ovvero “distanza”. È la distanza tra il Creatore e la creatura. Ma non solo. È la distanza tra la libertà infinita e la libertà finita così come essa si è storicamente connotata, ossia col peccato. Il peccato: ecco la vera e massima distanza tra Dio e l’uomo. È questa distanza, insieme alla finitezza, che il Figlio di Dio, diventando uomo, abbraccia, o meglio “sub-abbraccia”52. ora Dio, in gesù, può compiere questa azione senza fingere53 ma anche senza alienarsi54 solo se, esprimen-doci ancora metaforicamente, ha già braccia più grandi del peccato. solo se la distanza posta da questo è compresa in una distanza mag-giore già presente in Dio. solo, cioè, se la kenosi storica è permessa da una “sovra-kenosi” eterna (Ur-Kenose). Insomma, solo se quanto accade nella storia ha radici nelle possibilità del meta-storico55.

La sovra-kenosi è il concetto più ardito e allo stesso tempo più originale di tutto il pensiero balthasariano. In che cosa consiste pre-cisamente? Nell’incessante movimento di totale autodonazione di ogni Persona della trinità all’altra, realizzato da ciascuna di esse secondo il proprio specifico modo di relazionarsi alle altre: il Padre come colui che da sempre genera per un amore senza calcolo; il Fi-

52 “Sub-abbraccio” è la meno inadeguata traduzione italiana del tedesco Unterfassung, a sua volta riformulazione mistica – Balthasar infatti lo mutua da a. von Speyr - del concetto, teologicamente assai spinoso, di Stellvertretung (sostituzione vicaria). cf. nota del traduttore G. Sommavilla in TD5, 263.

53 La finzione (o l’apparenza) è la spiegazione con cui un’eresia dei primi secoli - il docetismo (dal greco dokein, sembrare) – spiegava la croce di Gesù. ne derivava che non il figlio di Dio aveva veramente sofferto, ma solo il corpo di un uomo di nome Gesù (Marcione) oppure qualcun altro al posto suo, probabilmente Simone di cirene sotto le sembianze del cristo (Basilide). alla base del docetismo stava l’esigenza di eliminare lo scandalo della croce.

54 L’alienazione come necessità intrinseca di Dio è l’ambiguità della “teologia del processo” di Withehead, del pensiero dell’Hegel teologo, che ritiene che non esista Trinità senza dolore, morte e croce e, infine, di Moltmann che entrambi sembra richiamare. Ora, invece, «la rinuncia alla “forma di Dio” e l’assunzione della “forma di servo”, con tutte le sue conseguenze, non introducono nella vita trinitaria di Dio nessuna autoalienazione. Dio è sufficientemente divino per divenire in un senso vero e non solo apparente, attraverso l’incarnazione, la morte e la risurrezione, ciò che egli è già da sempre in quanto Dio» (Mp, 185).

55 in altri termini, «è impossibile disgiungere cristologia dinamica e cristologia ontologica» (Mp, 185), oppure, che è lo stesso, soteriologia e trinitaria.

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glio come colui che da sempre si “autoaccoglie” generato per amore gratuito e per amore si riconsegna al Padre in un eterno “rendimento di grazie” (eucharistia)56; lo Spirito Santo come l’Amore stesso di entrambi che tiene aperta la differenza e le serve da ponte. ora, è proprio la “differenza” l’essenza dell’amore. È “l’assoluta distanza” tra le Persone, pur nell’identica natura divina, a permetterne la reci-proca dedizione57. Il Padre deve trovare nel Figlio un “Tutt’Altro” da sé se vuole donarglisi completamente, “svuotarsi” in lui senza residui. E viceversa. La generazione del Figlio da parte del Padre è in questo senso – e solo in questo senso58 - una “sovra-kenosi”: di-stanza infinita assoluta, spazio vuoto per un dono d’amore gratuito; assoluto ed infinito, perché della libertà di Dio qui si tratta. Essa, per-tanto, deve essere quella distanza della quale non è possibile pensare una maggiore (id quo maius cogitari nequit), proprio come è dell’a-more che la sostanzia. È la “santa distanza” che fonda e abbraccia dall’eterno ogni altra possibile distanza. Comprese quella buona rappresentata dalla creazione di una libertà finita e quella malvagia, eventuale, del peccato che la libertà creata può storicamente porre59. Perciò, unicamente negli “spazi infiniti di libertà”60, che configurano Dio come amore e in cui “è assolutamente bene che esista l’altro”61,

56 il termine “eucaristia” in greco vuol dire appunto “rendimento di grazie”.57 non bisogna confondere la natura di Dio, per quale vige assoluta

uguaglianza tra le persone della Trinità (consustanzialità), con la modalità relazionale mediante cui ciascuna di esse la realizza (ipostasi): qui vige assoluta differenza. infatti, come illustra in modo inarrivabile san Tommaso, in Dio è proprio la relazione a distinguere ogni persona dall’altra. pertanto, “la relazione in Dio costituisce una persona quando è opposta e incomunicabile” (aa. vv., DiZiOnariO TeOLOGicO inTerDiScipLinare, Marietti, Torino 1977, vol. 3, 490).

58 La precisazione serve per ricordare che la trinitaria di Balthasar, tutta fondata sulla nozione di “libertà”, prende decisamente le distanze dai teologi tedeschi della kenosi del XiX, i quali ritengono l’essenza di Dio univocamente kenotica e quindi costretta all’autolimitazione (cf. Mp, 40-43; TD5, 190-191).

59 TL2, 271: “il luogo metafisico-ontologico della creatura è ormai la diastasi delle persone divine nell’unità della divina natura”. Detto più semplicemente, “la possibilità della creazione riposa nella realtà della trinità. Un Dio non trinitario non potrebbe essere creatore” (a. GerKen, Theologie des Wortes, Düsseldorf 1963, 81, cit. in TD5, 53). cf TD4, 337.

60 TD2, 243.61 TD5, 70.

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risiede la possibilità non solo di una libertà creata gratuitamente posta, ma anche di una sua peccaminosa distanza e di un suo recu-pero. Dove precisamente? Nella generazione e nell’eucaristia eterna del Figlio, in quella libertà infinita, cioè, che si riceve nella gratuità e si restituisce nella gratitudine. Infatti, “per mezzo di lui e in vista di lui tutte le cose sono state create” (Col 1,16) ed “in lui Dio ci ha scelti prima della creazione del mondo” (Ef, 1,4). Ecco la grande rivelazione, l’indicativo di salvezza che descrive l’essenziale: la li-bertà finita dell’uomo ha la stessa vocazione della libertà infinita del Figlio. Proviene dall’amore gratuito e nell’amore gratuito si realizza. L’uomo di per sé è una “creatura eucaristica”.

3.2. La libertà liberata

Se quanto detto è vero, l’amore non è un “dovere”. Non attiene an-zitutto al dominio della morale, ma a quello dell’essere. L’uomo che non ama non “disobbedisce” a delle regole, fa molto di più: contrad-dice la propria natura. Alla luce della “Ur-kenose” trinitaria, quale immenso flusso d’amore gratuito fondante l’universo, il peccato è anzitutto “menzogna”. È il “no” della creatura all’amore gratuito da cui sorge e alla gratitudine cui il suo essere tende. È l’assurda “anti-eucaristia” umana, immotivata quanto l’amore cui si oppone62. È la folle volontà di autonomia intesa a non ricevere né a dare. È il sui-cida progetto umano di “esistere-per-se-stesso”. Da parte di Dio, tut-tavia, esso è, nella distensione eucaristica del Figlio, un prevedibile punto di contorsione, al di sopra di cui l’onda dell’amore trinitario è sempre più avanti63.

Qui l’indicativo di salvezza riguardante il “Dio in sé”, per essere credibile, deve nuovamente confrontarsi e ricalibrarsi con quello ri-guardante il “Dio per noi”. Teo-logicamente è il primo a fondare il

62 in questa duplice gratuità (dell’amore e dell’odio) Balthasar individua addirittura la legge teodrammatica di fondo della storia, secondo cui “il quanto più della rivelazione dell’amore divino (irrazionale) provoca un quanto più (irrazionale: Gv 15,25) di odio umano” (TD4,315).

63 cf TD4, 306-307.

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secondo; storicamente è il secondo a rivelare il primo64. E il “per noi” di Dio nella storia si riassume tutto nel triduo pasquale. È un “per noi” (pro nobis) che non vuol dire solo “a nostro favore”, ma anche “a causa nostra” (del nostro peccato) e “al posto nostro”. Quest’ul-timo senso dice della morte di Gesù come “sostituzione vicaria”65. solo lui infatti, quale Figlio di Dio fattosi uomo, poteva portare su di sé la distanza posta rispetto a Dio-amore dalla “carne di pec-cato” (caro peccati), abbracciarla e superarla nella distanza infinita dell’amore trinitario. Attraverso la morte. Perché proprio attraverso questa? Perché la morte rappresenta per l’uomo “l’insignificante supremo”66 contro cui s’infrange la sua peccaminosa tentata auto-sufficienza, il culmine del suo dramma storico. Il capolavoro dell’a-more trinitario, in gesù, è fare della morte il vertice del dramma di Dio (teodramma) vivendo anch’essa in modo eucaristico: come dono totale di sé. Di modo che la morte, cifra del peccato e massima distanza da Dio, venga sopravanzata dalla distanza dell’amore obbe-diente che si riceve e si restituisce nella gratuità67. Un’azione, questa, che per Dio niente ha del giocoso, benché da sempre contemplata come possibile. Il Figlio attraversa tutte le lontananze rispetto a Dio generate dal peccato umano e proiettate sulla morte: morte come li-

64 in realtà tra i due “indicativi” c’è un rimando continuo e sincronico. ciascuno dei due, per risultare intellegibile, non può mai perdere di vista l’altro. Teologicamente parlando, si tratta del rapporto tra la cosiddetta Trinità immanente (Dio in sé) e la Trinità economica (Dio per noi), tema tutt’altro che scontato e archiviato una volta per tutte (si veda, al riguardo, il dibattito tra Balthasar e K. rahner in TD3, 148. 468; TD4 298-299).

65 La sostituzione vicaria (Stellvertretung) è la “dura parola” che alcuni vorrebbero evitare, ma che appare inevitabile a fronte del peso del peccato nella storia, peso che solo Dio poteva portare e sop-portare per noi (cf iD., La mia opera ed Epilogo, Milano 1994, 155). ci permettiamo, al riguardo, di rimandare ad un nostro studio interamente dedicato a questo tema: G. DeLLa MaLva, L’onnipotente debolezza dell’amore, ed. Stauròs, roma 2007.

66 TD1, 361.67 È questa “la cosa massima: l’assunzione della morte destinata per colpa

mediante la morte di obbedienza. Solo per questo la morte viene da dentro pe-netrata e assunta come da sotto, e le viene strappato il pungiglione” (TD4, 459).

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mite, destino, gettatezza68 e soprattutto come solitudine69, nella quale la radicale avversione di Dio al peccato è sostitutivamente vissuta da Gesù come l’insopportabile peso dell’“ira di Dio”70, come giudizio (krisis)71, angoscia vicaria e abbandono dell’amatissimo Padre. Fino alla discesa agl’inferi, laddove “chi ha voluto scegliere per sé l’ab-bandono perfetto e, in tal modo, dimostrare la sua assolutezza da-vanti a Dio si imbatterebbe nella figura di uno che è abbandonato in modo più assoluto di lui”72. nessuno infatti sa, come il Figlio, cosa vuol dire vivere nel Padre, riposare nel suo seno, amarlo e servirlo; nessuno, di conseguenza, come lui, sa cosa significhi esserne abban-donato. tuttavia, è proprio qui, dove la separazione del Padre e del Figlio è perfetta, che è resa evidente la loro inseparabilità. L’estremo allontanamento dal Padre, compiuto dal Figlio sulla croce come li-bera obbedienza all’amore senza calcolo che sempre li ha uniti, si converte nell’ultimo cammino verso di lui, universalmente salvifico. mentre si distanzia dal Padre per recuperare la libertà umana recal-

68 La gettatezza o deiezione è un costrutto heideggeriano. indica la condizione dell’uomo buttato dal nulla all’essere, la cui dinamica è insopportabilmente contraddittoria perché destinata a collidere con la fine del movimento stesso (la morte). in Gesù invece la deiezione è coerenza perfetta: il suo essere gettato nell’essere e la sua morte sono entrambi motivati dall’autodedizione.

69 “La solitudine spiega ciò che la morte è attualmente: la conseguenza del peccato (rm 5,12); cercare ciò che essa altrimenti potrebbe essere è ozioso” (iD., Cordula. Ovverosia il caso serio dell’amore, Brescia 1968, 34). La morte è vissuta come un morire via da Dio, un essere da lui abbandonato (cf TD4,174). Ora, “la morte di Gesù fu la più solitaria di tutte, poiché nessun uomo creato può essere così abbandonato da Dio come l’eterno figlio del padre fatto uomo” (iD., La semplicità del cristiano, Jaca Book, Milano 1992, 57).

70 Balthasar recupera il tema dell’ira di Dio, ideologicamente rimosso da una teologia perbenista come residuo mitico dell’a.T., per riconsegnargli l’unica e necessaria identità teologica. L’ira di Dio non è opposta al suo amore: ne è, anzi, l’altra faccia (cf. Mp, 128). “L’ira di Dio è la temperatura del suo amore” (BarTH M., cit. in TD2, 152). infatti, un Dio che soltanto amasse le sue creature e non odiasse il male che le distrugge si contraddirebbe (cf TD4, 316). per questo ha ragione a.J. Hescel quando dice che il pathos in Dio è identico al suo ethos (cf TD4, 320).

71 La croce è il giudizio definitivo di Dio sul peccato (2 cor 5,21), svelato nella sua irriducibile incompatibilità con l’amore di Dio e condannato (cf Mp, 109-113; GL7 206). Qui “le linee dell’ira e dell’amore di Dio si toccano perché l’oggetto della giusta ira di Dio è inserito nell’eterna relazione d’amore trinitario tra il padre e il figlio” (TD4, 324).

72 TD5, 266-267.

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citrante, il Figlio in realtà gli corre incontro portandogli un uomo nuovo, una nuova creazione73. La croce di gesù rivela così la grande astuzia dell’amore di Dio: il “no” della creatura è come da sotto af-ferrato da un “sì” più radicale e convertito nella forma dell’amore. È l’evento in cui la morte, già trionfante, ingoia la vita e ne è divorata dall’interno. Per questo il tramonto del venerdì santo, pur seguito dalla desolante notte del sabato, irradia già le prime luci dell’alba di Pasqua74.

Chi rende efficace per gli uomini di tutti i tempi questo evento e permette di annunciarlo fino alla fine della storia come un indicativo presente? Lo Spirito Santo. Inspirato sul mondo dal Risorto, Egli – “Spirito della libertà” in cui il Padre e il Figlio da sempre si do-nano l’uno all’altro nella sovra-kenosi e divenuto, durante la kenosi storica del Verbo, lo “Spirito di obbedienza” al Padre – ha il potere di liberare la libertà finita che si autoincatena nell’angusto “essere-per-se-stessa”, inscrivendola nell’obbediente libertà umano-divina di Gesù, la quale si realizza invece nell’“essere-per-gli-altri” euca-ristico. E, come per Gesù, anche per i discepoli il “perfetto obbe-dire” diventa immediatamente “un essere liberi”75. obbedire a Dio, infatti, significa obbedire all’amore gratuito e obbedire all’amore gratuito significa obbedire alle esigenze della propria libertà. L’auto-dedizione diventa la nuova, sebbene antica e primigenia, vocazione dell’uomo e, proprio per questo, la sua più intima verità normante. La libertà finita è e si riscopre “riflesso della libertà infinita liberato nell’essere solamente gettandosi in seno alla ‘legge’ (trinitaria!) della libertà assoluta (dell’autodedizione), non come una legge straniera -

73 “perché piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua croce, cioè per mezzo di lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli” (col 1,19s). cf ef. 1,10.22s.

74 come abbiamo già rilevato con l’approccio kerygmatico, morte e resurrezione di Gesù non sono opposte ma entrambe irripetibili manifestazioni dell’identica onnipotenza dell’amore di Dio. “Qualora si sia compreso che la kenosi estrema, in quanto è una possibilità nell’amore eterno di Dio, è inglobata ed assunta da questo amore, risulta anche superata radicalmente l’opposizione tra una theologia crucis e una theologia gloriae – senza che le due possano confondersi” (Mp,81. cf. anche Si, 343; Sc, 314-315).

75 cf TD2, 220.

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è appunto la ‘legge’ dell’essere assoluto – ma come nella legge sua massimamente propria”76.

tutto discende da qui: la vita sacramentale, baricentrata sull’asse battesimo-eucarestia, immersione nell’amore gratuito della croce e memoriale che lo attualizza “per noi”77; la comunione ecclesiale, “illimitato vicendevole fare-spazio in sé” dei credenti per “poter-essere-per-gli-altri”78; la possibilità di partecipare all’azione vicaria di gesù, co-assumendo il dolore umano79; persino la disponibilità al martirio, attestazione suprema che Cristo ha veramente assunto la morte e l’ha trasformata, da baluardo dell’io autocentrato qual era, in testimonianza dell’amore eucaristico-trinitario80.

conclusioni e nuovi spunti

Riassumiamo il percorso compiuto, indicando al momento op-portuno anche alcuni possibili sentieri che da esso si dipartono, sug-gestioni per altri percorsi attraverso questo tema che in sé è inesau-ribile.

se dovessimo radunare in un’immagine l’intero studio potremmo dire che le sue tre parti, ciascuna con la propria arte, dipingono l’a-more gratuito come il solo paesaggio che permette la vita umana, perché è l’unico ad essere sotterraneamente attraversato dal fiume carsico della libertà. oltre questo salubre territorio, si circoscrive un ambiente di invivibili contraddizioni. Al di là dei suoi confini, ci sono solo confini: schiavitù, solitudine, morte. Ora, l’abitante della “città santa”, che su quelle fertili distese può sorgere, è l’uomo nella sua interezza, non solo la sua “anima”. La salvezza cristiana si co-niuga come indicativo efficace se riguarda tutto l’essere umano e non sola una sua parte, per quanto nobile, per quanto eccellente. Ri-

76 TD2, 245-246.77 cf TD4, 344-377.78 cf iD., Communio: un programma, in Communio 124 (1992), 55-56;

TD3, 232-233; TD4, 388-392; Mp, 236.79 cf Mp 123-126; TD4, 360-361; Sc, 342.80 TD5, 411: “il morire dell’uomo all’interno della forma mortale del cristo,

la sua purificazione nel fuoco dell’amore in croce di cristo ha spezzato […] l’io dell’uomo egoisticamente centrato su se stesso e l’ha adeguato alla forma eucaristico-trinitaria”. cf anche TD3, 417; TL3, 198-202; GL7, 360-400.

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guarda anche il corpo. Riguarda anche la psiche. non è una medicina amara che cura l’anima, lascia forse indifferente il corpo e disgusta la psiche. o tutto l’uomo è assunto nella redenzione o niente è salvato. Quod non assumptum non sanatum, dicevano i padri della Chiesa81.

Il nostro studio ha voluto sciogliere prima il nodo psicologico, che in realtà è nascosto in quello kerygmatico, ma va dipanato e at-tualizzato alla luce dei saperi moderni e dell’uomo d’oggi. In quella prospettiva abbiamo sottolineato, in negativo, cosa accadrebbe se il kerygma fosse detto primariamente ed esclusivamente all’impe-rativo, se cioè Dio imponesse l’amore come una “legge” (primo doppio legame); e se Gesù, anziché quale salvatore, fosse esibito come “modello morale”, come norma della norma (secondo doppio legame). Probabilmente - aggiungiamo ora sulla scorta dell’analisi già affrontata - l’indecidibilità di una tale interazione condurrebbe molti cristiani contemporanei ad una sorta di “schizofrenia” della fede, che sarebbe interessante studiare declinata secondo le tre forme psicopatologiche classiche (paranoia, ebefrenia, catatonia). Come la vera schizofrenia è un linguaggio comportamentale adeguato ad un contesto relazionale in cui il soggetto, a motivo del doppio le-game, non sa più in quale posizione si trovi rispetto alle persone da cui dipende la propria sopravvivenza fisica e/o psicologica, così ragionevole apparirebbe il comportamento del fedele che, sottoposto alla sistematica e non fondata ingiunzione divina: “Amami e ama (come Gesù)”, davanti alla parola di Dio ricercasse costantemente intenzioni arcane (paranoia) o significati letterali (ebefrenia) o, ad-dirittura, rinunciasse a comprenderla, opponendovi totale passività (catatonia stuporosa) o iperattivismo (catatonia agitata). Nell’essere descritti, tali comportamenti non sembrano poi così distanti da quelli effettivamente agiti da molti cristiani di oggi. In ogni caso, al di là di ogni possibile deriva fenomenologica, ciò che conta è la constata-zione generale: l’amore non si può precettare. tanto più se ad essere prescritto è un amore infinito, come quello di Gesù.

Le sacre scritture, però, conoscono un linguaggio assolutamente diverso, riflesso dell’infinita sapienza pedagogica di Dio e della

81 La frase è di Gregorio di nazianzo, divenuta poi magisteriale (cf DS 291).

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stessa gratuità con cui egli ama e parla all’uomo. Anzi, con cui la sua Parola si fa uomo e si comunica alla storia. non è un caso che tutte le lettere di Paolo offrano sempre all’inizio l’indicativo di salvezza e solo in seconda battuta l’imperativo morale82 né che il nucleo storico originario dei vangeli sia, molto probabilmente, costituito dai rac-conti della Passione di gesù83. La forma del kerygma non può con-traddire il suo contenuto. In altre parole, l’annuncio dell’amore gra-tuito/libero è esso stesso gratuito e lascia liberi. Non s’impone. Non può essere oggetto di una legge, Paolo lo sa bene. Perché proprio la legge ha condotto alla croce. O meglio, non la legge in sé, dono di Dio, ma il peccato che di essa ha fatto la propria forza, il pungolo per estorcere all’onnipotente, in nome della giustizia umana, il potere contro la morte, la vita stessa di Dio. L’amore di Dio rivelato sulla croce soppianta col suo peso leggero il giogo oneroso della legge e con essa il fardello dell’impossibile autogiustificazione. L’amore di Dio non si merita, non si compra. È fuori commercio. È diverso da ogni altro amore che l’uomo incontra nel mondo, diverso come la pace che regala84. Non è taglieggiato da condizioni, corvées e pre-stazioni. non è sottoposto a sanzioni e a rescissioni contrattuali. È gratuito. Assolutamente gratuito. È questa la “buona notizia” del vangelo, sconvolgente e consolante. La notizia che il cuore di ogni uomo, oppresso dai rapporti d’uso sul piano orizzontale-umano e su quello verticale-religioso, attende da sempre eppure sempre dispera di ricevere. L’onnipotenza di Dio, disarmata sulla croce, disarma il mortale sospetto sul disinteresse del suo amore e restituisce gratuità ai rapporti umani. È l’onnipotente debolezza dell’Amore. spingen-dosi “fine-alla-fine” col suo amore, Gesù mostra all’uomo che nep-pure lì, nella morte e oltre la morte, c’è una rivalsa di Dio. Che non ci sono doppi giochi. Che anche lì c’è solo e ancora amore incondizio-nato, a fondo perduto. Vita che si spende e che sempre è disposta a farlo. Per convincere il cuore umano, irretito dalla paura di perdersi,

82 cf aa. vv., DiZiOnariO TeOLOGicO inTerDiScipLinare, Marietti, Torino 1977, 645-658.

83 cf B. MaGGiOni, I racconti evangelici della Passione, cittadella editrice, assisi 19952, 5-11.

84 “vi lascio la pace, vi do la mia pace. non come la dà il mondo io la do a voi” (Gv 14,27).

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che la vita e non la morte è il progetto di Dio sul mondo85. Che la vita e non la morte avrà l’ultima parola nella storia86. E che quanto l’uomo considera il “frutto proibito” – l’essere simile a Dio - è pro-prio ciò che Dio da sempre desidera donargli. “Tutto ciò che è mio è tuo”, dice Dio ad ogni suo figlio (cf. Lc 15,31). Tutto: la sua sconfi-nata eredità, le sue delizie, persino la sua vita. Il destino dell’uomo, rivelato in gesù, è essere come Dio. non senza di lui, ma con lui. Non in competizione con l’amore, ma nell’amore. Perché è proprio di Dio non trattenere nulla per sé, partecipare la propria vita, donarla sempre, tutta, senza residui.

È qui che il kerygma apre alla più vasta riflessione sistematica. soprattutto alla teologia trinitaria, laddove il linguaggio balthasa-riano sembra dotato di una spiccata originalità espressiva. La kenosi del Figlio è la finestra aperta nella storia sull’eterna sovra-kenosi tri-nitaria. È da essa che ci si può affacciare sul mistero di Dio, quale ir-ragionevolezza dell’amore, capace di abbracciare anche il mysterium iniquitatis del peccato, quale irragionevolezza del male. La reden-zione e la stessa creazione si giustificano come atti d’amore gratuito solo se Dio è amore in se stesso. Solo se la libertà infinita di Dio, da sempre, si realizza proprio nel dono illimitato di sé e solo se la libertà finita è creata “a sua immagine” (Gen 1,26s), anch’essa quindi per l’autodedizione. Amore, insomma, da intendersi non come concetto romantico o moralistico, ma come il volto di Dio davanti al quale la creatura umana ha emesso il primo gemito, il tessuto dell’essere, il codice genetico della libertà divina e, in essa, anche della libertà creata. In quest’ultima neppure il peccato, storicamente intervenuto, ha potuto cancellare i lineamenti dell’amore che le è costitutivo. of-fuscarli sì, rinnegarli sì, distruggerli mai. La libertà umano-divina di gesù manifesta il volto di Dio e restituisce all’uomo il suo vero

85 “…Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. egli infatti ha creato tutto per l’esistenza; le creature del mondo sono sane, in esse non c’è veleno di morte, né gli inferi regnano sulla terra” (Sap 1,13s).

86 “Sì, Dio ha creato l’uomo per l’immortalità, lo fece a immagine della propria natura” (Sap 2,23).

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volto, il suo essere imago Dei. Poiché è lui la vera icona di Dio87. Ciò tuttavia non accade senza dolore: il teodramma fa completamente suo il dramma umano, generato dal peccato, solo sulla croce. È qui che storicamente si consuma l’atto finale. La croce è il “caso serio” dell’amore di Dio. Amore più forte di tutto, radicale quanto la vita.

La gratuità dell’Amore: ecco l’indicativo sorgivo di ogni altro annuncio di salvezza. Amore gratuito quanto la bellezza, la quale si concede non per un fine estrinseco, ma per se stessa. Senza neppure la pretesa di essere accolta. si dà e basta. Inutilmente. Come del resto tutto in Dio, dalla creazione alla croce. Tutto senza un “utile”, senza un tornaconto. Un vero e proprio spreco. Come quel vaso di alaba-stro colmo di nardo assai prezioso, frantumato per cospargere il capo e i piedi di gesù, ormai prossimo alla morte (cf. Mt 26, 6-13; Gv 12, 1-8). Dissipato per amore. tale è la natura di Dio, mostrata dal Figlio fatto uomo: essere costantemente “profuso”, eucaristicamente versato, da sempre e per sempre “per noi” (pro nobis), senza ragione da parte sua né merito da parte nostra88. L’amore, quale bonus odor Christi, pervade la creazione e tutta la storia: di esse ne è il senso e la bellezza. Perché, appunto, questo è anzitutto Dio. Bellezza89. Egli infatti non ci ama per renderci buoni: la nostra bontà sarebbe il suo guadagno. Egli non ci ama quale schiacciante verità perché gli cre-diamo: la nostra soggezione sarebbe il suo potere. Egli ci ama perché è bellezza assoluta, senza condizioni né restrizioni. Senza condizioni, perché si dà al di là di ogni ragione e di ogni calcolo, unicamente per essere contemplata e goduta. E senza restrizioni, perché si con-segna tanto ai “buoni” quanto ai “cattivi” (cf. Mt 5,45), esponendo

87 “egli è immagine (eikòn) del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura” (col 1,15). in von Balthasar, le nozioni di “figura” (Gestalt) e di “espressione” (Ausdruck) intendono tradurre proprio questo aspetto biblico e teologico (cf GL1, 393-642; vc, 25-27; TL2, 229-234).

88 cf Si, 192; TD5, 226.89 contro tutta una lunga tradizione filosofica, Balthasar ritiene che a guidare

la gerarchia dei trascendentali non sia il verum o il bonum ma il pulchrum, perché meglio degli altri dice della gratuità dell’essere e dell’amore, il quale è il “trascendentale in assoluto” (cf TL2, 152-153). ecco perché la sua monumentale trilogia si apre con i sette volumi della Teo-estetica sulla bellezza, cui seguono i cinque volumi della Teo-drammatica sulla bontà e, infine, i tre volumi della Teo-logica sulla verità.

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se stessa anche alla tragica possibilità di essere rifiutata, sfregiata, deformata. Questa è la ragione senza ragioni per cui “il più bello tra i figli dell’uomo” (Sal 45,3) può giungere sulla croce a sfigurarsi in “colui che non ha apparenza né bellezza” (Is 53,2), verme e rifiuto degli uomini (cf. Sal 22,7). Tuttavia, è proprio assumendo la “forma deforme” del rifiuto (il peccato) che il crocifisso diventa l’epifania storica della “sovra-forma” trinitaria90. La quale consiste unicamente di gratuità assoluta, di amore supremo. Ecco perché la bellezza ha salvato il mondo e sempre lo salverà.

Qual è dunque l’identità della morale cristiana? Quella d’essere una risposta d’amore ad una Parola d’amore che da sempre, costan-temente, la precede. Come tale imprescrivibile al di fuori di questa relazione dialogica (aspetto psicologico), storica (aspetto kerygma-tico) e meta-storica (aspetto teologico). È la relazione con Dio – e con Dio quale relazione trinitaria – a fondare la specifica morale cristiana. Questa è obbligante non perché si riferisce allo ius di un Dio potenzialmente capriccioso e arbitrario91, ma perché inerisce all’essere stesso, di Dio anzitutto e, in lui, dell’uomo: agere sequitur esse. L’indicativo che narra di quest’essere, a partire dal suo agire storico, contiene già in se stesso l’imperativo: per questo è priori-tario e vincolante. In questo senso, e non certo in termini giuridico-penali, Paolo parla di “legge di Cristo” (Gal 6,2; 1Cor 9,21) che è poi la “legge dello Spirito” (Rm 8,2): essa non sopprime la “legge naturale” ma la illumina e la esalta, perché come questa riassumi-

90 cf iD., La mia opera ed Epilogo, o.c, 127-128; GL7, 81. 292; GL1, 400. 428. È il tema del Christus deformis introdotto da sant’agostino ed ampliato poi da san Bonaventura: cf GL2, 319.

91 a simili conclusioni porterebbe una morale come quella nominalistica di Guglielmo d’Ockham, per il quale “è bene ciò che la volontà positiva di Dio determina caso per caso e non per l’essenza di ciò che si compie”, giacché “la fonte del bene morale è l’obbligazione divina, non la razionalità intrinseca della cosa comandata. Quindi il bene è ciò che è liberamente imposto da Dio come legge. esso è indipendente dai valori morali e dalla natura umana, ritenuti astrazioni inesistenti. […] il bene morale non coincide neppure con Dio, il quale è amorale” (B.f. piGHin, I fondamenti della morale cristiana, eDB, Bologna 2003, 49-52). ad una simile morale non si può rispondere che con un volontarismo estremo.

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bile nell’agape (amore gratuito) che regge il mondo92. Contravvenire alla morale cristiana, pertanto, non è anzitutto trasgredire dei coman-damenti, ma rinnegare la relazione fondante la realtà. È ingannare se stessi. Perché questo è infatti, alla radice, il peccato: menzogna. Bugia esistenziale. Het, come lo definisce il più delle volte l’An-tico testamento, ossia bersaglio mancato, debolezza dell’arco che fiacca il volo della freccia93. Fallimento. non senso. solitudine che estranea da Dio, dagli altri e da se stessi.

Il rapporto tra indicativo di salvezza e imperativo riguarda, in so-stanza, la fondazione della morale cristiana. Questa, che si riassume nel duplice comandamento dell’amore (ama Dio e il prossimo), non può erigersi su una forma di eteronomia, intesa come imposizione esterna: essa nulla avrebbe a che fare con la libertà dei figli di Dio né sarebbe rispettosa della psiche umana. Ma neppure può fondarsi su un’autonomia intesa come autosufficienza: questa sorge laddove la libertà finita confonde la possibilità, conferitale da Dio, di poter disporre di se stessa (autoexusia) con l’autopossesso (autarchia) e laddove sovverte il proprio “essere da Dio” e “per Dio” in un “essere per se stessa”. È la logica perversa dell’autogiustificazione, dell’i-nane tentativo umano di autosalvezza (autosoteria), della disperata lotta contro la morte e il limite creaturale. La morale cristiana sca-turisce, piuttosto, da un’autonomia intesa come teonomia o, che è lo stesso, da un’autonomia teonomica94. È infatti l’identità di Dio, teologicamente desunta a partire dalla croce-eucaristia del Figlio, a rivelare alla creatura il suo “doversi” all’amore – in questo senso la gratitudine (eucharistia) è un dovere dell’essere - e la sua “chia-mata” all’amore. Per questo Cristo «proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo a se stesso e

92 cf B.f. piGHin, I fondamenti della morale cristiana, op. cit. 225-246.93 il termine het nell’a.T. esprime l’aspetto oggettivo del peccato ed è

il più utilizzato (circa 600 volte). i termini peshà e awòn che sottolineano, invece, l’aspetto relazionale (il primo) e quello soggettivo (il secondo) sono rispettivamente usati circa 90 e 230 volte (cf B.f. piGHin, I fondamenti della morale cristiana, o.c. 275-276).

94 cf B.f. piGHin, I fondamenti della morale cristiana, o.c, 97-107.

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gli manifesta la sua altissima vocazione»95. non si tratta però solo di rivelazione, ma anche di redenzione. La Parola incarnata è l’Azione di Dio nella storia. Dio mentre dice fa. mentre rivela che l’uomo è amato lo ama e mentre lo ama lo abilita all’amore.

Giuseppe Della [email protected]

95 cOnciLiO vaTicanO ii, Gaudium et Spes, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, n. 22.

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ItA Quando l’amore è legge. Il rapporto tra l’indicativo di sal-vezza e l’imperativo morale

di giuseppe Della malvaDa dove nasce il linguaggio? È il frutto felicemente incoerente

di un universo caotico (Monod) maturato nell’ab-errante giardino umano o è “la casa dell’Essere” (Heidegger)? Nel primo caso, tutto è caso e niente ha senso. nel secondo, niente è caso e tutto ha senso, giacché ogni cosa è epifania. L’universo è logos del Logos. Qui è rin-venibile il legame ontologico, non puramente disciplinare, tra psico-logia e teo-logia. A patto però che si ravvisi in entrambe un genitivo soggettivo: la parola che è psiche, la Parola che è Dio. non appare la massima incoerenza, allora, che il Verbo di Dio si sia “detto” in modo umano. La ricerca speculativa qui sembra vedere solo ancora l’alba. ma valga, il presente studio, ad accennare che se il linguaggio ha a che fare col senso dell’Essere, allora esso è già mondo etico. L’etica non vi si aggiunge dall’esterno o alla fine per decreto. Senza gratuità, cuore della morale cristiana, le parole e la Parola sono im-pronunciabili. nella gratuità dell’amore, invece, la parola incontra la Parola della Croce. E questo indicativo precede, contiene e supera ogni imperativo.

fRA Quand l’amour est loi. Le rapport entre l’indicatif du salut et l’impératif moral.

de giuseppe della malvaD’où naît le langage ? Est-il le fruit heureusement incohérent

d’un univers chaotique (Monod) mûri dans l’ab-errant jardin humain ou est-il « la maison de l’Etre » (Heidegger) ? Dans le premier cas, tout est hasard et rien n’a de sens. Dans le second, rien n’est hasard et tout a sens, puisque toute chose est épiphanie. L’univers est logos du Logos. on trouve ici le lien ontologique, non purement disciplinaire, entre psy-chologie et Théo-logie. A condition cependant que se place entre les deux un génitif subjectif: la parole qui est psyché, la Parole qui est Dieu. Alors il ne semble pas la plus grande incohérence que le Verbe de Dieu se soit «dit» d’une façon humaine. La recherche spéculative ici semble ne voir encore que l’aube. Mais, le présent article, tend à indiquer le fait que si le langage concerne le sens de l’Etre, alors il est déjà monde éthique. L’éthique ne s’ajoute pas de

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l’extérieur ni ne s’impose par décret. Sans gratuité, cœur de la mo-rale chrétienne, les paroles et la Parole sont imprononçables. Dans la gratuité de l’amour, la parole rencontre la Parole de la Croix. Et cet indicatif précède, contient et dépasse tout impératif.

EnG When Love is Law. The Relationship between the Indica-tive of Salvation and the Moral Imperative

by giuseppe Della malvaWhere is language born? It is the happy and incoherent result of

a chaotic universe (Monod) matured in the aberrant human garden or “the house of Being” (Heidegger)? In the first case, everything is random and nothing makes sense. In the second, however, nothing is random and everything makes sense because everything is epiphany. The universe is the logos of the Logos. Here we find the ontological, but not purely disciplinary, bond between psychology and theo-logy. Provided, however, that both have a subjective genitive, that is, the word is psyche, the Word which is god. It is not the greatest incoherence then that the Word of God is “said” in a human way. Speculative research here seems to be just watching the dawn at this point. Yet, it is worth the present study in order to mention that if the language has to do with the sense of Being, then it is already an ethical world. Ethics is not added on from outside or at the end by decree. Without gratuity, the heart of Christian morality, the words, and the Word are unpronounceable. In the gratuity of love, however, the word meets the Word of the Cross. this guidance precedes, con-tains, and surpasses all imperative.

SPACuando el amor es ley. La relación entre el indicativo de salvación y el imperativo moral

de giuseppe Della malva¿De dónde nace el lenguaje?. ¿Es el fruto felizmente incoherente

de un universo caótico (Monod) madurado en el ab-errante jardín humano, o es la “casa del Ser” (Heidegger)?. En el primer caso, todo es casualidad y nada tiene sentido. En el segundo, nada es casualidad y todo tiene sentido, ya que cada cosa es epifanía. El universo es logos del Logos. Aquí recuperamos la unión ontológica, no sólo

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disciplinar, entre psico-logía y teo-logía. Acordando, no obstante, que se revise entre ambos un genitivo sujetivo: la palabra que es psique, la Palabra que es Dios. no parece descabellado entonces que el Verbo de Dios sea “dicho” en manera humana. La búsqueda espe-culativa parece ver solo ahora el alba. Pero, sirva el presente estudio, para señalar que si el lenguage tiene algo que ver con el sentido del Ser, entonces eso es ya mundo ético. La ética no se agrega desde el exterior o al final por decreto. Sin gratuidad, corazón de la moral cri-stiana, las palabras y la Palabra son impronunciables. En la gratuidad del amor, sin embargo, la palabra encuentra a la Palabra de la Cruz. Y este indicativo precede, contiene y supera a todo imperativo.

Pol Kiedy miłość jest prawem. Relacja między trybem oznaj-mującym zbawienia a trybem rozkazującym moralności.

giuseppe Della malvaZ czego rodzi się język? Jest niespójnym na szczęście owocem

chaotycznego universum (Monod) dojrzałym w sprowadzającym na manowce ogrodzi ludzkim, czy jest „domostwem bycia” (Hei-degger)? W pierwszym przypadku wszystko jest przypadkowe i nic nie ma sensu. W drugim – nic nie jest przypadkiem i wszystko ma sens, a co więcej, wszystko jest epifanią. Wszechświat jest logosem Logosu. Tu wyłania się więź ontologiczna, nie tylko dyscyplinarna, między psycho-logia a Teo-logią. Jednak pod warunkiem, że w obydwóch dostrzeżemy genetiwus podmiotowy: słowo jest psyche, Słowo jest Bogiem. Nie jest więc w najwyższym stopniu niespójne, ze Słowo Boże wypowiedziało się na ludzki sposób. Badania speku-latywne są w tej dziedzinie dopiero w fazie początkowej. Artykuł ten ma jednak swoją wagę, bowiem podkreśla, że język ma coś wspól-nego z sensem bycia, a więc jest bardzo etyczny. Etyka nie dołącza się z zewnątrz, albo na końcu, na mocy prawa. Bez bezinteresow-ności, serca moralności chrześcijańskiej, nie da się wypowiedzieć słów ani Słowa. W bezinteresowności miłowania natomiast słowo spotyka Słowo Krzyża. I ten tryb oznajmujący poprzedza, zawiera w sobie i przekracza wszelki tryb rozkazujący.

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Premesse.

1. È celebre il detto del se-condo papa avignonese, gio-vanni XXII (+ 1334), non molto simpatico a Dante Alighieri che, per il suo fiscalismo, nella Divina Commedia lo pose all’inferno. Questo papa, dunque, diceva: “Datemi un Frate Predicatore che osservi la sua Regola fino allo jota, e io lo canonizzo senza che vi sia bisogno di altro miracolo”1. L’osservanza della Regola, dunque, almeno dal medioevo in poi, è

1 cf U. TOMareLLi, San Vincenzo Ferreri apostolo e taumaturgo, ed. Studio Domenicano, Bologna, 2005, p. 257. Questo papa,incrementò il fiscalismo del predecessore, clemente v, scomunicava con molta facilità si diceva, per poi concedere l’assoluzione in cambio di denaro; accumulò beni per 25 milioni di fiorini d’oro, persuaso che la fede doveva risplendere per magnificenza e grandezza. Dante ne parla nel Xviii canto del paradiso, al verso 100°. aveva un’idea della chiesa come un’istituzione che doveva essere per sua natura ricca per dimostrare lo splendore della fede. Quindi la sua amministrazione fu caratterizzata da politiche economiche che gli hanno attribuito l’appellativo di “papa banchiere”; il papato visse un momento di grande arricchimento che gli permise di costruire molti nuovi palazzi e chiese per tutta europa ma soprattutto in francia. fu anche un amante dell’arte e chiamò ad avignone artisti allora rinomati; per la sua concezione di chiesa ricca fece rappresentare cristo in croce sempre con un sacchetto di monete al fianco per dimostrare che anche in questo Gesù avrebbe potuto essere superiore.

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stata vista come paradigma aureo non solo di santità ma della santità canonizzata, proponibile ai fedeli di tutta la chiesa, senza ulteriori verifiche della somiglianza del fedele osservante della regola al van-gelo di gesù. Anzi, secondo il movimento francescano: la Regola era il Vangelo come il Vangelo era la Regola, senza soluzione di continuità tra i due riferimenti per il comportamento virtuoso, santo, del religioso. Il religioso osservante della regola era dunque un santo perché uomo evangelico; un santo religioso non poteva non osser-vare fino allo jota il dettato della Regola, perché essa era il Vangelo attualizzato nella sua vita e nel suo ordine.

2. Tra la fine del secolo XII e l’ultimo terzo del secolo XIII, scrive il Vauchez 2, l’esperienza dell’umiliazione volontaria della povertà evangelica costituì, per il papato, la via regia della perfezione cri-stiana. La carità verso il prossimo si esplicava soprattutto nell’assi-stenza ai poveri e nello zelo apostolico per la salvezza delle anime.

3. Venendo più vicino alla nostra epoca. Il santo, secondo le norme settecentesche di Benedetto XIV, Lambertini (De servorum Dei beatificationem…) reputato “Il maestro” per antonomasia dei postulatori fino ai nostri giorni, è un essere eccezionale che possiede nel più alto grado tutte le perfezioni (le virtù eroiche) e agisce sotto la sola mozione della Grazia (doni dello Spirito Santo). Viene così eliminato il contatto con il mondo, riducendo la santità al combatti-mento interiore.

4. solo nel 1916, con un altro papa Benedetto, il XV della serie, si vede apparire una formulazione veramente nuova del concetto di santità e di santo. Ci riferiamo a quanto il papa dice del venerabile fra’ giovanni Battista di Borgogna, francescano riformato 3. Bene-

2 cf a. vaUcHeZ, Santità, in Dizistitperf., 8, 860.3 nato nel 1700, francescano nel 1719 a ponticelli in Sabina; morto a napoli

nel 1726, ad appena un anno dalla sua ordinazione sacerdotale; sepolto nella chiesa di san Bonaventura al palatino. La sua vita claustrale, oltremodo semplice e edificante, si può riassumere in queste poche parole: fedeltà ai santi voti, alla vita comune, alle costituzioni e a tutte le altre obbligazioni anche minime. fu così illibata la sua purezza che era comunemente ritenuto un “angelo in carne”; così pronta la sua obbedienza, da prevenire i comandi e soddisfare i desideri dei superiori; così perfetta la sua povertà, da vivere totalmente distaccato da ogni cosa. riferendosi al giudizio di Dio su quest’ultima virtù, diceva: “io non ho timore, perché non ho cosa alcuna oltre di quello che concede la regola, e quest’immagine di Gesù crocifisso e di Maria immacolata” (due immagini

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detto XV, nel dichiarare eroiche le sue virtù,lo presentò come un modello di “perfetta imitabilità”, confermando il principio che “la santità consiste propriamente nella sola conformità al divino volere, in un compimento costante e preciso dei doveri del proprio stato”4. Questo venerabile francescano, sembra essere il prototipo di tanti passionisti morti in concetto di santità, nei quali l’eroicità delle virtù si è consumata nella fatica quotidiana del vivere la comunità e nel servirla secondo le disposizioni concrete della divina volontà, con una profonda vita interiore che non avrebbe scontentato il concetto di santità eroica caro a papa Lambertini.

gli studiosi delle Regole monastiche e

conventuali classiche dividono le stesse in due grandi filoni,

entro i quali però, le influenze, dipendenze, starei per dire “conta-minazioni” sono frequentissime. Sintetizzo per sommi capi questo straordinario capitolo della storia della Chiesa rappresentato dai movimenti della vita consacrata cristallizzati nella massima parte nelle Regole e costituzioni (o come dir si voglia con altri termini, tipo Institutiones, Codex, Magna Charta, Charta caritatis, ecc.) senza trascurare, ma sembra una eccezione, quella “regola di vita monastica in forma narrativa”, a detta di san Gregorio Nazianzeno, che è rappresentata dalla Vita Antonii di sant’Atanasio. E qui si aprirebbe una parentesi molto interessante sulla importanza delle agiografie come “regola di vita monastica in forma narrativa” che

di carta che lui stesso aveva applicate sul diritto e sul tergo di una crocetta di legno). illimitato era, inoltre, il suo abbandono alla volontà divina nella malattia e in ogni altra tribolazione, e quasi continuo il parlare delle cose celesti. in tal modo riuscì a valorizzare al massimo grado le azioni ordinarie con una vita interiore particolarmente intensa, confortato da un abituale spirito di preghiera: “nella santa orazione – soleva ripetere – trovo ogni mia consolazione, ogni pascolo spirituale, ogni mio riposo”.

4 per una scheda biografica cfr. S. GOri, Venerabile Giovanni Battista da Borgogna, religioso, in sito web: Santi e beati, alla voce.

1. le tre dimensioni delle regole

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se non hanno goduto della cogenza canonica delle Regole, hanno influenzato, e in misura non mediocre, il comportamento virtuoso di innumerevoli generazioni di persone consacrate e non. A volte sono state le uniche fonti storiche di una istituzione a cui i suoi membri hanno attinto per modellare la loro vita su comportamenti virtuosi, anzi santi.

a) Un primo filone, dunque, è quello rappresentato dalle Regole che pongono l’accento sulla dimensione verticale della vita religiosa, mettendo quasi ai margini la vita comunitaria e le sue implicanze, privilegiando il rapporto con Dio, in modo da conseguire la divina trasformazione vivendo davanti a Colui che è celebrato incessan-temente come “Tu solus Sanctus, tu solus Dominus, tu solus Altis-simus”. Il monaco di questo tipo di Regola cerca soprattutto la san-tità individuale. Il monastero è una schola dove si impara a seguire Cristo e a vivere sotto il suo influsso salvifico. Dio-abate-monaco: è il trinomio della vita monastica tradizionale. ma il mirabile capitolo 72 della regola di san Benedetto pone anche l’accento sulla carità fraterna, manifestata nella tolleranza, nel servizio, nell’obbedienza reciproca e nell’amore rispettoso. tra le innumerevoli Regole mona-stiche che si potrebbero citare, quella Benedettina sintetizza in modo quasi insuperabile questa dimensione verticale della vita consacrata “ben temperata”.

b) Il secondo filone è rappresentato da quelle regole che pri-vilegiano la dimensione orizzontale: la sequela di Cristo vissuta con un forte accento comunitario, imitando il Cristo povero e cro-cifisso, sottolineando l’humanitas del Cristo e la fraternità (koi-nonia), la mitezza dei rapporti, come elemento imprescindibile per il conseguimento della perfezione evangelica. Il monastero o con-vento viene visto come una piccola chiesa dove si impara ad essere membri affettivi ed effettivi della Chiesa di Cristo. Passando dalla sequela all’imitazione, dalla conformazione alla trasformazione in Dio, per – in – con - Cristo. È la Regola francescana che rappresenta in modo tutto particolare questa imitazione del Cristo povero e cro-cifisso. Seguire nudi il Cristo nudo sulla vita della croce (nudus nudum Christum sequi). Con una fortissima spinta all’annuncio evangelico, espressa in tutte le sue forme: da quella semplice del buon esempio, alla evangelizzazione missionaria estremamente ze-lante ed inventiva nel campo apostolico. È il filone degli “homines

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de poenitentia” che praticano un duro ascetismo eremitico e/o con-ventuale non fine a se stesso (per la propria santificazione), ma in vista dell’annuncio della conversione tramite la parola della croce. Annuncio espresso molto spesso in forme penitenziali estreme, al limite del fanatismo, che trascinava masse di penitenti che a loro volta diventavano predicatori e propagatori delle stesse forme e pratiche penitenziali5.

c) C’è anche un’altra corrente ispirazionale la vita consacrata, e si tratta di quella che pone una attenzione tutta particolare al ser-vizio dei poveri. sono le congregazioni dedite al servizio della ca-rità espressa in tutte le sue forme: accoglienza e aiuto agli orfani, alle ragazze “pericolanti”, ai malati, ai carcerati, insomma a tutte le categorie sociali a rischio; gli istituti di educazione, soprattutto delle classi meno abbienti. Congregazioni che hanno avuto una stra-ordinaria fioritura soprattutto nell’Otto-Novecento, con importanti e incisive anticipazioni già nel sei-settecento. Per rifarci allo schema verticale-orizzontale, questo terzo filone di vita consacrata (e relative norme costituzionali) potrebbe essere descritto con un andamento sinusoidale, che cerca di recepire la dimensione verticale e quella orizzontale di cui sopra in una sintesi di vita e di servizio caritativo-apostolico ad ampio spettro.

In questo contesto, descritto per linee forzatamente sommarie e semplificate, come/dove si situa la nostra Regola? Forse in quella che in termini ignaziani si potrebbe chiamare Formula instituti, da cui procede la forma vitae passionista e conseguentemente le appli-cazioni normative che si sono accumulate lungo quasi tre secoli di storia (Costituzioni antiche e rinnovate, i regolamenti e tutte le altre direttive, consuetudini, ecc.).

5 cf i. MaGLi, Gli uomini della penitenza, franco Muzzio editore, padova 1995.

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sappiamo che Paolo Dànei, nel redigere la

Regola elaborò subito il titulus della nuova aggregazione: I Po-veri di Gesù. È una

denominazione che non trova nessun riscontro, sembra, nella storia della vita consacrata, dove troviamo altri riferimenti, come Povere o Poveri con un genitivo denominativo legato a una città o a un tema devozionale6; ma nessuno ha mai adottato la denominazione di Po-veri di Gesù.

Paolo nelle lettere del primo periodo successivo alla vestizione eremitica, si firma come Paolo Francesco Minimo Povero di Gesù, oppure Minimo Servo dei Poveri di Gesù, poi si firma Eremita, senza nessuna specificazione, in seguito, nel 1727 si firma solo Paolo Fran-cesco, o Paolo Francesco Daneo, poi Paolo Francesco della santa Croce di Gesù (siamo nel 1730), poi Paolo Francesco Daneo della S. Croce, missionario (nel 1734) e Missionario apostolico dal 1738; ed anche firma Minimo chierico Regolare Scalzo, a volte Paolo della S. Croce e poi Paolo della Croce dalla fine degli anni 30 e in modo definitivo, nel 1741 con l’approvazione benedettina della Regola: Paolo della Croce.

Egli abbandona il titulus di Poveri di Gesù, che pure sembrava parte integrante del primo motivo ispirazionale, per adottare quello molto più giuridico-canonico e anche piuttosto prolisso: “Congrega-zione dei Chierici scalzi della ss. Croce e Passione di nostro signor Gesù Cristo”, che egli stesso nelle intestazioni e firme spesso riduce o semplifica.

6 cf Dizionario degli Istituti di Perfezione (in seguito Dip), vol.7, ci sono circa 30 ordini o congregazioni femminili cha hanno come aggettivo qualificativo il termine povere; e circa 8 congregazioni o movimenti maschili che hanno adottato quello di poveri. alcuni di essi, che in verità avevano più il taglio di un movimento che di ordo religiosus come i poveri di Lione, ecc., hanno avuto vita effimera o si sono estinti da secoli, spesso accusati di pauperismo,di anticurialismo e spesso persi nella deriva ereticale.

2.“i poveri di gesù”: l’alba incompiuta di

un titolo pauperistico.

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nulla ci viene detto dell’abbandono del titulus “Poveri di Gesù”, né da Paolo, né dal Cioni, il primo storico della congregazione, né dallo strambi. neppure, mi sembra, i moderni studiosi di cose pau-locruciane si sono dilungati a spiegare l’abbandono di questo titulus; neppure ci viene spiegato come avesse pensato allo stesso. nelle locuzioni precedenti alla vestizione e al ritiro di Castellazzo non si fa assolutamente cenno a questa denominazione. Compare nella ste-sura delle “Regole” come d’incanto e qualche anno dopo scompare perfino dalla firma del Fondatore.

“Adunar compagni”: non era solo una aspirazione utopistica ma tale desiderio aveva un preciso riscontro nel giro delle amicizie spi-rituali che ruotava attorno a Paolo Dànei, primo fra tutti, il fratello giovanni Battista. nelle carte originali provenienti da Castellazzo, e poi distrutte da Paolo stesso, sappiamo che c’era un bel gruppo di giovani, chierici e laici, pronti a seguire i due fratelli, per intrapren-dere la loro vita penitenziale. Quindi l’ispirazione della nuova fami-glia religiosa non è di tipo eremitico ma cenobitico. Questo gruppo era seguito da un padre cappuccino ed alcuni di questi giovani, a detta dello stesso direttore, erano più fervorosi di Paolo stesso7.

a) Quello che l e g g i a m o delle scarsis-

sime note della Re-gola del 1720-21 è come una nebulosa

informe, che poi ha il suo big-bang che genera e sviluppa un corpus ben definito di norme che categorializzano l’ispirazione fondante. Diventa così essa una realtà definita, fondata, stabilita.

A fatica ci si distacca da queste fonti primitive della congrega-zione e della sua avventura nella storia della santità; sono, come

7 Qualche anno fa c’è stato un certo revival di questo preteso eremitismo passionista, che non ha nessun riscontro nella sua storia e nella sua spiritualità. eremitismo forse più legato alle difficoltà incontrate nella vita comunitaria che dettato dalla tradizione dell’istituto.

3. la “regola” di castellazzo e il carisma di fondazione.

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ben rilevava stanislas Breton, in vari scritti, la poesia dell’inizio, il bereshit dell’istituto. Questa avventura della santità che non è di un solo uomo, Paolo Francesco Dànei, ma di suo fratello e poi di innumerevoli altri figli e discepoli. Ognuno di essi ha delle peculia-rità caratteriali e carismi specifici; questo big bang di Castellazzo è destinato a generare altre identità carismatiche, tutte con un minimo comun denominatore , ossia la consacrazione, sigillata con un votum specifico, alla Passione di Gesù ma con fortissime peculiarità, con differenze specifiche, che si espandono rapidissimamente come ne-bulose e sistemi stellari. sono i santi passionisti, tutti legati sotto il vessillo della croce e sotto una comune regola, tutti passionisti, cittadini del calvario, ma ognuno con caratteristiche peculiari che esaltano il perenne principio generante e si cristallizzano con una missione generata che fa conoscere ed anche crescere e maturare il principio generante stesso.

b) Anomalie della regola di Castellazzo.

scritta prima della nascita della congregazione. ordinariamente ac-cade il contrario. Risponde, comunque, alla legge dell’incarnazione: a)Lex credendi; b) Lex orandi; c) lex evangelizandi. sintetizza la linea verticale di tante Regole: Deus sempre major: tu solus sanctus….e la linea orizzontale: apparuit benignitas Salvatoris nostri. Basti ricor-dare l’amore e devozione di Paolo e della tradizione agiografia pas-sionista a gesù bambino che ha il suo vertice nel beato Lorenzo di san Francesco saverio, salvi. Il paradosso della regola passionista. Austerissima, al limite della sopportabilità, ma è vissuta in un clima di vita fraterna, improntata a molta familiarità (a volte, forse, ecces-siva) come faceva notare Breton. Il beato Domenico Barberi diceva: “Tra noi ci si è comportati sempre alla familiare”. Non troviamo in essa, come formulazione esplicita, la fondamentale affermazione che troviamo, invece, nella Regula Benedicti, e che deve essere posta, invece, come in filigrana in ogni codice monastico: “Nulla assoluta-mente antepongano a Cristo” (Regola 72,11; cfr 4,21), che relativizza ogni norma e nello stesso tempo dà ad ogni norma il suo centro e la sua giustificazione. Parafrasando l’effato benedettino potremmo mettere come chiave di lettura di tutte le norme della congregazione questa affermazione: “Nulla assolutamente antepongano a Cristo crocifisso”.

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c) Castellazzo non è solo la Regola…

Il diario di Castellazzo ha una importanza tutta peculiare per indi-viduare il carisma di fondazione e la formula dell’Istituto. Ha avuto per fortuna molti studiosi che se ne sono occupati, ne hanno svi-scerato i contenuti dopo averne stabilito l’edizione critica. Il Diario dei 40 giorni non è solo la registrazione dei celesti carismi di cui il giovane eremita era inondato, la preghiera incessante, le illustrazioni soprannaturali, le locuzioni, che testimoniano una vita interiore già molto avanzata e definita. Egli mette a nudo le prove, tentazioni, desolazioni; i disagi fisici, locali, legati al tempo ed all’ambiente. Fu una esperienza sovrumana, al limite delle forze per un uomo co-mune. In nuce c’è tutto Paolo asceta, mistico della Passione, e ci sono anche elementi della forma vitae passionista8 che si inserirà nel vissuto profondo della congregazione e ne forma l’aspetto peculiare, ne forgerà i suoi uomini migliori.

A) La dimensione liturgico-sacramentale.

Il diario di Castellazzo è una singolare testimonianza della dimen-sione liturgico-sacramentale della spiritualità passionista. In passato la dimensione eucaristica e più in generale liturgica della spiritua-lità paulocruciana veniva relegata nell’ambito della “devozione”. Questo aspetto è stato poco evidenziato o addirittura ignorato, re-legandolo alla mera fruizione devozionale, senza nessuna o scarsa valenza specifica e fondante la spiritualità del mistico della Passione e della sua congregazione. si è anche preferito premere più sul tasto

8 È singolare che l’inizio della regola passionista si rassomigli al testo delle costituzioni della compagnia di Gesù (n°3): “il fine della compagnia non è solo attendere con la grazia divina alla salvezza e perfezione della propria anima, ma con questa stessa grazia, procurare con tutte le forze di aiutare alla salvezza e perfezione delle anime dei prossimi”.

3. Per una teologia della santità passionista.

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della teologia speculativa e/o della filosofia, ai limiti dell’astrattezza scolastica, e imprigionando la sua originalità sacramentale nella mi-stica intellettuale dei Renani, Taulero incluso (un Taulero, forse non ben inteso e di certo decontestualizzato, un taulero fortemente le-gato alla dimensione liturgica, che si riscontra in tante sue omelie).

La dinamica sacramentale è invece fondante la santità passionista il cui centro, fonte e culmine è rappresentato dall’eucaristia: memo-riale della morte, della Pasqua del signore, segno della sua Resur-rezione, anticipo della sua Parusia. Dall’ evento sacramentale della mistica immolazione del Calvario, che si celebra e ripresenta sull’al-tare, scaturisce l’avvenimento della Chiesa sempre santa e bisognosa di rigenerazione; ed in questo avvenimento si colloca l’opera della fondazione della nuova aggregazione ecclesiale. Paolo la chiama nel Diario: “opus Dei”, “meraviglia di Dio”… Come si vede egli usa termini strettamente biblico-liturgici…

solo con Divo Barsotti9 , e soprattutto con Antonio m. Artola, la dimensione eucaristica del carisma di fondatore di Paolo della Croce viene finalmente aperta alla comprensione, se non del tutto distesa-mente spiegata. La sua è profonda mistica sacramentale, innovativa nella storia della mistica cattolica. La sua non è una mera dimen-sione “devozionale”, magari esuberante, di una mistica affettiva prorompente che cerca appassionatamente il suo oggetto10. Essa rap-presenta, invece, un oggettivo e transustanziale “itinerarium mentis et cordis in Jesum Christum et hunc crucifixum”; questo perché “in nomine Jesu omne genuflectatur”…secondo l’inno ai Filippesi, tanto caro alla tradizione passionista nella celebrazione della Liturgia delle ore. Anche con la postura del corpo si indica la kenosis del Figlio di Dio e la sua esaltazione ma anche il cammino pasquale che il celebrante compie attraverso la laus perennis: dalla croce alla

9 D. BarSOTTi, L’eucaristia in san Paolo della Croce, curia Generalizia passionisti, roma 1978 (collana rSSp): “Tutta la vita di paolo non è che la sua comunione al cristo: egli ne vive la morte, ne vive misteriosamente la risurrezione; in altissimo silenzio vive col cristo nel seno del padre, vive la stessa passione di amore del cristo per la salvezza degli uomini” (idi, ivi, p. 12). La sottolineatura eucaristica fa temere a qualcuno, a torto, che paolo sia una specie di “sacramentino” ante litteram.

10 Sono tantissime le testimonianze dei contemporanei che attestano il dono delle lacrime ricevuto da paolo.

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gloria, anzi la croce è la gloria del Padre per il Figlio obbediente nello spirito d’Amore, che già si manifesta nel tempo e nello spazio santificati dalla liturgia. Per cui il rito - ben celebrato e vissuto - di-venta vivo e vitale e la vita si trasfigura in rito da celebrare, secondo scansioni ben definite e saggiamente ripartite, da parte del passio-nista, in riferimento a se stesso, alla comunità ed a Dio.

Prima ancora di entrare nel ritiro quadragesimale di san Carlo di Castellazzo Paolo vive una profonda dimensione sacramentale nelle illustrazioni che preparano la comprensione del suo destino di mi-stico del Calvario e di fondatore. È di ritorno dalla messa che per strada è oggetto di locuzioni e visioni intellettuali e sensibili con le quali vede l’abito nero di penitenza, il segno bianco sormontato dalla croce altrettanto bianca. Ed è maria, segno ecclesiale per an-tonomasia, che lo guida alla comprensione graduale di quanto va sperimentando e vedendo. Segni significanti di un significato quasi sacramentale del saio di foggia non comune che indosseranno Paolo stesso, giovanni Battista e tutti i religiosi della congregazione na-scente, anche se passeranno anni prima che tutto questo venga messo in evidenza, riconosciuto, approvato e codificato.

C’è anche da ricordare che durante una prolungata adorazione davanti all’altare della Reposizione, nella notte tra il giovedì ed il Venerdì santo di un anno imprecisato, Paolo ebbe infusa nel cuore dal signore la sua ss. Passione insieme ai dolori di maria ss.

b) “Tieni il tuo spirito agli inferi, e non disperare!”: le tre dimen-sioni della santità passionista.

GETZEMANI - CALVARIO - INFERI/SHEOLGIARDINO - TOMbA VUOTA - REGNO DI DIOLa mistica della passione, così come è stata vissuta da innume-

revoli santi, è consistita - in estrema sintesi - in una immersione to-tale nella derelizione di Cristo, nella sua gloriosa kenosi, secondo la dinamica descritta liricamente nell’inno cristologico di Fil 2,5-11. L’abbandono, l’angoscia, la solitudine del getzemani, con il silenzio del Padre, il torpore dei discepoli prediletti, la fugace consolazione dell’angelo, il sudore di sangue, il calice amaro da bere fino in fondo, l’incombere del tradimento, l’offrirsi senza nessuna resistenza nelle

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mani dei propri nemici, sono stati la meditazione quotidiana di intere generazioni cristiane. Il Calvario è l’altro luogo, il vertice dei luoghi, dove Dio parla nel suo silenzio più totale. Dio non risponde al “forte grido” del Figlio perché grida a se stesso il proprio infinito dolore nell’eco di quella domanda che risuonerà per tutte le cime e tutti gli abissi della terra fino alla sua consumazione apocalittica. Il luogo del Calvario è il luogo del deserto più inesplorato, della notte più oscura. Sperimentare la croce significa viverne la desolazione. Niente e nes-suno può dare conforto a chi è entrato nel suo spessore. nella solitu-dine della croce si consuma un patto d’amore e di sangue: in questo luogo, in questo deserto, dove non è lecito a nessuno di poter entrare senza essere chiamati e dal quale nessuno può tornare indietro senza cadere nell’abisso della disperazione e della insignificanza.

Con il gethsemani e il Calvario, un’altra componente della de-relizione di Cristo è sempre presente nello spirito e nella mistica passiocentrica: il silenzio del sabato santo. Questo tempo sospeso, fuori del tempo, tempo di attesa, di speranza, di fede estrema, di ri-poso totale. Quel tempo della tomba sigillata simboleggia Il Tempo di tutti gli interrogativi davanti al mistero di Dio, al suo silenzio imperscrutabile e adamantino, squarciato solo da quella Parola che ora, però, tace. tempo che lento trascorre davanti ad una tomba ancora sigillata, che custodisce ancora un corpo, freddo, esangue, inerte, pieno di piaghe squarciate, di sangue raggrumato; il cadavere di un giustiziato “nel quale, però, abita tutta intera la divinità” (Col 2,9) ma con quali modalità ciò accada non è dato sapere). nel si-lenzio di quell’ineffabile shabbat si compie la misteriosa “discesa” del Redentore nello sheol. L’annunzio di Pasqua raggiunge “coloro che giacevano nelle tenebre e nell’ombra della morte” ( cfr. Is 9, 2; Job 10, 22; Sal 22,4). Il Crocifisso, non ancora risorto, estingue le fiamme dell’inferno attraversandolo tutto, prima di risalire al Padre. Anche l’immobilità sepolcrale del sabato santo è redentiva: la reden-zione meritoria non si estingue con l’ultimo grido esalato da gesù sulla croce.

Chi desidera condividere la stessa sorte di gesù, deve come lui e con lui, attraversare questi luoghi: il getzemani, il Calvario e lo Sheol. non può non condividere con lui la stessa sorte di dereli-zione e di gloria (cfr Sal 65,12), entrando in una dimensione meta-storica ancora nel proprio vissuto spazio-temporale. L’esperienza

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dei mistici, specialmente dei mistici stimmatizzati è la riprova di questo attraversamento e di questa contemporaneità metastorica del vissuto pasquale, riproposta nella propria carne e con il proprio sangue.

L’essere di Cristo con i morti - ragiona il teologo di Basilea, Hans Urs von Balthasar11 - è l’ultima conseguenza della missione reden-trice ricevuta dal Padre: è obbedienza estrema ed evento trinitario. se Dio ha creato la libertà dell’uomo ed ha mandato il Figlio per salvare questa libertà, malata a causa del peccato originale, allora deve anche introdurlo sino all’inferno, come conseguenza ultima della libertà umana. Ed il Figlio può essere presente nel regno della morte solo come morto. Il Figlio deve osservare quanto di imperfetto c’è nel dominio della creazione per riportarlo, in quanto redentore, in suo possesso. Per questo motivo non esiste alcuna realtà che non possa essere redenta da Cristo, a patto che l’uomo lo voglia: anche la condizione estrema di peccato può diventare “via” che conduce a Dio. E la stessa discesa agli inferi si ripete ogni volta che Cristo scende nei desperata corda dei peccatori ed apre loro la strada al cielo.

In quanto evento trinitario, il cammino verso i morti è un evento salvifico: Cristo vi discende per condurre a salvezza i morti e quelli che morranno. E non ci sono ambiti o zone dell’Ade che non siano interessate dall’ondata di salvezza di Cristo. Infatti, prima di Cristo non c’è un purgatorio od un inferno, afferma von Balthasar ma solo Ade, regno indistinto dell’oltretomba, dove tutti i morti sono riuniti e nel quale Cristo entra per redimere.

Dal punto di vista teologico il purgatorio ha origine il Venerdì santo: nella croce di Cristo e nel suo essere con i morti, egli porta nel fuoco dell’ira divina il momento della misericordia. La sua solida-rietà con l’umanità manifesta la sua volontà universale di salvezza e permette la possibilità di una purificazione nel giudizio.

La teologia orientale vede nel Descensus l’immagine decisiva della redenzione: il triduo pasquale viene visto come un unico mo-

11 H. U. von BaLTHaSar, Mysterium Paschale, in aa.vv., Mysterium Salutis, vol. vi, Brescia, 1971, pp. 171-404. vedi anche la buona sintesi di a. MaGOGa in www.Qumran2.net , Studi teologici.

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vimento che ha nel sabato santo la sua maggiore intensità dramma-tica. nel sabato non vi è l’anticipazione della gloria della Domenica: nella discesa agli inferi non dobbiamo vedere il Cristo trionfante, sulla scia di una iconografia che lo rappresenta, già quasi risorto, che rompe i vincoli della morte, simboleggiati dalle porte scardinate dell’Ade e che sottrae i progenitori dalla morte eterna trascinandoli via con sé. Piuttosto, alla Chiesa dello Shabbat compete meditare in silenzio la condizione del Cristo giacente nel sepolcro e seguirlo, come da lontano, secondo una partecipazione autentica: morti con il Dio morto. gesù un giorno disse a san silvano del monte Athos: “Tieni il tuo spirito agli inferi, e non disperare!” 12. Questa sembra la cifra più profonda della mistica passionista e quindi il risolvimento della sua tensione verso la perfezione della carità. Ricordo qualche elemento di questo “mistico abbandono” , di questa partecipazione al mistero della Passione di Gesù (Getsemani, Calvario, sabato santo) così come si trova in alcune testimonianze in Paolo della Croce ed in altri santi passionisti.

C) Fecondità del carisma.

Paolo della Croce

Nei Processi di canonizzazione si parla della sua “impressione” della Passione davanti al ss.mo sacramento: “Iddio gli aveva im-pressi nel suo cuore gl’istrumenti tutti della Passione e che in cia-scun venerdì ne provava le pene”: così asserisce il fratello di Paolo, don Antonio Dànei, dep. Extra proc del 10 luglio 1776, in Zoffoli, II, p. 148013. Paolo stesso parla dei “Tormenti infusi” nel Diario di Castellazzo, passim; Giammaria Cioni, sempre nei Processi (POV, p. 161s), parla dello stesso fenomeno mistico14. Insieme a questa infu-

12 cf SiLvanO dell’athos, Non disperare!, Qiqajon-Bose, 199413 e. ZOffOLi, San Paolo della Croce, roma, curia gen. passionisti, 1963-

1968, 3 voll. (poi Zoffoli e vol.)14 cf Processi di beatificazione e canonizzazione di S. Paolo della Croce, a

cura di p. Gaetano dell’addolorata, roma, postulazione gen. passionisti, 1969-1979, 4 voll.: vol. 1: processo informativo di vetralla (pOv); vol. 2: processo informativo di alessandria, Gaeta, Orbetello, corneto; voll. 3 i-ii, processo informativo di roma.

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sione dei tormenti della Passione, Paolo sperimente anche le aridità e desolazioni della Passione già a Castellazzo (Zoffoli, II, p. 1020-1027).

Scrive Giammaria Cioni in POV, I, pp. 126 – 130: “Appena ve-stito del santo abito, incominciò a visitarlo per alcune ore al giorno con orribili desolazioni, tentazioni, malinconie e interni abbandoni dolorosissimi, a segno tale, che parevagli che tutti fossero felici e contenti, fuori di lui” (cfr. Diario, ed. crit. pp. 53,54, 57, 63, 68-79, 85). “Col crescere degli anni, crebbero vieppiù e nell’intensità e nella frequenza questi spirituali martiri onde poté dire, in certa occa-sione, che le sue tenebre o desolazioni spirituali erano sempre cre-sciute come sogliono crescere le tenebre nell’inoltrarsi della notte” (Id, POV, I, p. 126s.).

Paolo stesso porta due esempi di quello che prova (è sempre il Cioni che ce li testimonia nei Processo Ordinario di Vetralla): “Si figuri di vedere un povero naufrago, il quale rottosi il vascello, se ne sta sopra una tavola dello sdrucito naviglio, che ad ogn’onda ed urto teme e paventa d’affogarsi; oppure si immagini d’osservare un condannato alla forca, che di momento in momento sta aspettando, con batticuore, d’essere portato al supplicio. Così appunto è lo stato mio” (Id., ivi, p. 127). “Nell’anno 1767 mi confidò che, in quella gran malattia sofferta in detto anno nel ritiro di san michele Arcan-gelo, nella quale ben tre volte fu in pericolo di vita, erali alle volte paruto di trovarsi all’inferno, e sperimentare la pena del danno, che provano i dannati” (Id., ivi, p. 128). Egli portava un similitudine per insegnare a Cioni e agli altri il modo “col quale dovevamo abbando-narci tutti in Dio nel tempo delle tristezze e tribolazioni…: ”Figura-tevi di ritrovarvi su i lidi del mare, e di avere sopra la punta d’un dito una goccia d’acqua, ma tutta torbida e le dimandasse: Come stai, o povera gocciolina, cosa fai, cosa desideri? Il mare, risponderebbe, se parlar potesse, il mare. Ciò udito, la gettate in mare, ed eccola felice-mente perduta, perché ben ritrovata nel suo centro. Così dobbiamo fare ancor noi, quando la piccola goccia dell’anima nostra, si ritrova afflitta e turbata; gettiamola nell’immenso mare del divin benepla-cito, ed ecco rimediato il tutto (Id. ivi, p. 128). Questa “morte mi-stica” non è semplicemente una fase adulta (anche come scansione temporale) dell’itinerario verso Dio, come qualche scrittore ha detto.

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Il N. S. Padre parlando degli studenti scrive :”la maggior parte, dopo aver avute dolci visite da Dio nei principi, camminano a punta di spirito, quasi senza conforti interiori,almeno rari” (Let II,667 , del 3.9.1748 al vescovo di terracina)

Beato Domenico Bàrberi:

Scrive di lui Filippo della SS. Annunziata: “Quello che per altro rendeva le sue croci tanto dolorose e pesanti da non potersi affatto esprimere, era la desolazione interna cioè la privazione di ogni co-municazione sensibile con Dio, e di ogni gusto, consolazione, e conforto nell’orazione, di cui tanto abbondò nel principio, quanto ne fu privo di poi, talché camminò nelle tenebre ed aridità fino alla morte”15.

San Carlo Houben16.

Era spesso affascinato dallo spettacolo del fuoco. guardava a lungo una fabbrica di mattoni che si trovava vicino al ritiro di mount Argus. Qualche volta entrava in cucina ed apriva i fornelli per vedere direttamente la fiamma viva e sentirne la vampa: invitava a volte altri a contemplare quello spettacolo di vita e di morte. Forse era il ricordo delle prediche del suo antico parroco di munstergeleen che gli ritornavano alla mente. soprattutto lo spingeva a quelle si-lenziose e prolungate soste davanti al fuoco l’acuta coscienza del peccato, delle colpe sue e degli altri, che potevano trascinarlo verso le fiamme eterne dell’inferno. Senza conversione, senza l’incessante

15 proc. Domenico Madre di Dio, Positio super virtutibus, p. 706. H. U. von Balthasar, scrivendo ad una carmelitana, le ricordava che la “ vera vocazione carmelitana è di essere ‘sospesi’ con il Signore – senza un legame verificabile né sulla terra né in cielo” (cfr Teresa di Liseux, I miei pensieri, MiMep – Docete 1997, p. 416). il teologo di Basilea si rifà ad una bellissima espressione di sant’agostino per il quale le nostre radici sono in alto, in cielo, e che dunque pendiamo nel vuoto, fisicamente e spiritualmente. perché, dice sempre von Balthasar, l’atto di fede in sé, è puro abbandono in Dio e dunque privazione di appoggi e certezze personali.

16 vedi T. Zecca, Il taumaturgo di Dublino,San Carlo Houben (1821-1893), ed. San paolo, 2007 pp. 101s.(per la spiritualità eucaristica) e ivi, pp. 113s. (per la discesa agli inferi)

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implorazione della grazia e della misericordia divine, quella sarebbe stata la sorte eterna, cioè “il pianto e lo stridore di denti” che avreb-bero portato “alla morte seconda”, alle fiamme eterne, alla rovina finale. Le veglie, i digiuni, informavano di sé la sua incessante pre-ghiera per la conversione dei peccatori, la sostenevano, l’arricchi-vano. Carlo scendeva giorno e notte agli inferi insieme, e al posto dei tanti che presumevano di non aver bisogno di penitenza, dei duri di mente e di cuore, dei tanti che “non sapevano distinguere la destra dalla sinistra”. Si cibava avidamente dell’eucaristia per sedersi poi “alla mensa dei peccatori”, per cibarsi del loro pane di lacrime e dis-setarsi alla loro afflizione.

P. Simone Bolest (o Balest?) del Cuore di Gesù,

Nato a Meano (Belluno) il 16 febbraio del 1853, svolse lo stesso ministero del ven. p. Fortunato Maria De Gruttis (1826- 28 dic. 1905) nel ritiro di Ceccano. Il P. Balest, poco prima di morire, il 22 dicembre del 1905, disse: “Ah!, Padre, certo io ben mi merito l’inferno, ma almeno nell’inferno potessi amare il mio Dio!” 17 . In conclusione: “Pregare, secondo Silvano del Monte Athos, ossia il rapporto amoroso con Dio, per la gente, in una dimensione non narcisistica ma apostolica, vuol dire grondare sangue”: è questa la vera dimensione kenotica della preghiera ed è il segreto della sua fecondità, come ricorda Benedetto XVI nella sua prima enciclica18. A questo tipo di preghiera molte generazioni di passionisti sono stati appassionatamente fedeli.

Nel passare in rassegna tante figure di santi passionisti, dei quali più di uno ha avuto il riconoscimento ufficiale della sua santità con

17 Cenni necrologici dei nostri religiosi che sono passati a miglior vita nel corso dell’anno 1905, roma, Tip. artigianelli di San Giuseppe 1906, ivi, pp. 56-58; 59-62, per le necrologie. Gesù un giorno disse a san Silvano del Monte athos: “Tieni il tuo spirito agli inferi, e non disperare!” (cfr J.- c. Larchet, Silvano del Monte Athos, Non disperare!, ed. Qiqajion, Bose, 1994).

18 “nel confronto ‘faccia a faccia’ con quel Dio che è amore, il monaco avverte l’esigenza impellente di trasformare in servizio del prossimo, oltre che di Dio, tutta la propria vita” (Deus caritas est, n. 40).

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il processo di canonizzazione, si possono notare alcune costanti che è bene evidenziare.

a) La profondità dell’orazione, spesso, sembra, senza doni cari-smatici straordinari, che forse non venivano notati o, meglio ancora, venivano spesso dissimulati, tenuti nascosti, secondo la migliore tra-dizione monastica. Profondità di orazione che non di rado giungeva all’unione trasformante attraverso la contemplazione - immedesima-zione con Cristo Crocifisso.

b) Vita di nascondimento. Nel leggere tante biografie di religiosi insigni per santità si nota che la congregazione, i superiori ed i re-ligiosi stessi, non facevano molto per “valorizzare” gli stessi, ec-cetto che per “l’uso interno” alla congregazione stessa, con incarichi di responsabilità e ministeri. I Passionisti non hanno avuto e non hanno tuttora una istituzione culturale accademica di studi teologici superiori che possa minimamente competere con altre istituzioni di altri ordini e congregazioni, che possa servire come palestra per pre-parare i possibili futuri responsabili della congregazione stessa ed addestrare i più dotati all’esercizio dell’apostolato specifico dell’i-stituto in forme più qualificate.

c) Serenità / semplicità di vita. molti personaggi, se non tutti, esprimono ed irradiano una grande serenità come riflesso della loro vita interiore cristallina. non pochi si dichiarano felici del loro stato, pur vivendo in mezzo a tribolazioni, contrasti, malattie, trasferi-menti, cambiamenti di incarichi, in una sorta di avvicendamento da togliere a volte il respiro. Il trinomio classico della forma di vita passionista (solitudine, povertà, preghiera) viene adottato senza sba-vature e ripensamenti ed è fonte di gioia e di pace.

d) Attività apostolica. Anche nei santi religiosi più schivi e più amanti della solitudine e del chiostro non manca affatto la spinta apostolica,lo zelo per l’annuncio della Parola della Croce. L’attività apostolica affianca, spesso, alle forme “de regula” (missioni parroc-chiali, esercizi spirituali aperti o chiusi, per il popolo, per il clero, i seminari, o per i religiosi e le religiose), la direzione spirituale, la guida spirituale di persone bisognose di aiuto e di sostegno nel cammino delle vita interiore, specialmente nel ministero del sacra-mento della riconciliazione. non pochi passionisti hanno per questo composto testi (non sempre poi pubblicati) di divulgazione devota,

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di animazione interiore. In questo servizio alla coltivazione della vita interiore, della guida spirituale, molti passionisti di vita santa sono stati davvero insigni, qualificati e ricercati. Come corollario allo stesso ministero della riconciliazione si è affiancato spesso il ministero della consolazione, della guarigione interiore e morale ed anche il ministero degli esorcismi.

e) Discontinuità. non si può negare che in più di un religioso in-signe si nota una certa discontinuità nelle opere intraprese19. spesso questa discontinuità era dovuta alle contingenze legate alle urgenze di servizio che venivano richieste, magari in situazione di emergenza con speranza di temporaneità: contingenze che ricevevano il sigillo ed il merito del voto di obbedienza. Altre volte questa discontinuità è attribuibile alle persone stesse, ipercritiche delle loro potenzialità, dubitose dei loro talenti, timorose di arrecare danno alla propria ed altrui serenità e semplicità di vita, al proprio ed all’altrui nascondi-mento.

sulla discontinuità legata alla prima accezione F. giorgini ha una pagina illuminante quando descrive la spiritualità passionista del beato Domenico Bàrberi: “Uscito dallo studio il beato dovette essere “factotum”: fu lettore di filosofia e teologia a più riprese, contemporaneamente fu poi superiore, predicatore, consultore, ecc. Ebbe una vita movimentata iniziando un lavoro, interrompendolo, riprendendolo, vedendolo dimenticato e non apprezzato. Visse il destino di quasi ogni passionista: dover fare gradualmente un poco di tutto senza poter approfondire o specializzarsi decisamente in un campo”20. È quello che vedremo puntualmente realizzato in più di una personalità della congregazione vissuta nel secolo XX e di cui abbiamo una migliore traccia documentaria21

19 cf f. GiOrGini, Il beato Domenico della Madre di Dio: Passionista in aa.vv., Visse per l’unità cristiana. Il b. Domenico della Madre di Dio, passionista (1792-1849), ed. eco, San Gabriele (Te) 1966, pp. 29-43.

20 id, ivi, p. 33. Sottolineatura nostra.21 cf aa. vv., Spiritualità della croce. Antologia di profili e testi spirituali

(a cura di c. chiari), San Gabriele (Te), ed. eco, 5 voll., 1976-1980; che abbracciano i primi 70 anni del ‘900.

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D) La scuola di spiritualità passionista (SSP).

a) Esiste una scuola di spiritualità passionista?

si può parlare, in base ai brevi riferimenti e richiami sopra esposti, di una scuola di spiritualità passionista 22? Essa, è vero, ha poco o nulla di strutturato organicamente come sistema di pensiero che si possa avvicinare alla sistematicità di altre scuole23. Vi è stato finora poco o nulla che potesse rappresentare un pensiero riflesso, ogget-tivamente ricondotto ad un insieme di saperi ascetico-mistici dot-trinalmente organizzati e riproposti in forma, non dico accademica, ma almeno ufficiale o ufficiosa. Quando qualcuno, in passato, si è cimentato in questa riproposizione,organicamente strutturata, pre-sentandola come il genuino spirito del passionista ha miseramente fallito24.

La SSP attinge contenuti, forme e metodi da due filoni principali. Il primo è La regola, intendendo con essa l’insieme delle norme

riconosciute e canonicamente definite sia dall’autorità ecclesiastica, come appunto la Regola e le Costituzioni. Rientra nel termine ge-nerico, a nostro avviso, anche la legislazione interna alla congrega-zione stessa, ossia i decreti e le raccomandazioni dei capitoli gene-rali e provinciali, cristallizzati poi nella serie dei vari regolamenti: generali, provinciali, e per vari ceti di persone, come, per esempio, i novizi ed i missionari. Accanto ai regolamenti si affiancavano le con-suetudini, più o meno vincolanti, ma che avevano forza normativa di fatto attuata e presentata come inerente allo “spirito del passionista”

22 cf f. GiOrGini, La scuola di spiritualità passionista, in Dizionario degli istituti di perfezione (in seguito Dip), vol. 8, ed. paoline 1988, col. 1218-1220.

23 Sul tema vedi aa.vv., Scuole di spiritualità, Dip, vol. 8, ed. paoline 1988, col. 1198-1220, spec. il contributo di a. Matanic, ivi, col. 1199-2005.

24 vedi paTriZiO di n. S. del S. cuore, Migliori, Lo spirito del passionista, roma 1930,pp. 896, ed. riservata pro manuscripto ai passionisti. per certi aspetti ha subìto la stessa sorte anche lo Zoffoli, soprattutto nel iii volume della sua monumentale biografia di San paolo della croce, peraltro ricchissima di dati e di buone sintesi sui vari aspetti della personalità del biografato, specialmente nel i e nel ii volume. il suo precedente saggio, I passionisti, spiritualità ed apostolato, roma, ed. il crocifisso, 1955, rivela un impianto filosofico neo-scolastico precostituito, nel quale vengono fatti confluire i dati teoretici della spiritualità-missionarietà passionista.

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anche se oralmente trasmesse e legate alle inevitabili contingenze di persone, di tempi o di aree geografiche della congregazione.

Il secondo riferimento della ssP è la trasmissione orale della stessa. È il filone aureo che ha legato tutte le generazioni passioniste ed in essa i religiosi esimi che l’illustrarono, a partire dal Fondatore stesso ed i suoi primi compagni, quasi senza soluzione di continuità, nonostante le due gravi fratture, anzi tre, accadute nel corso della storia della congregazione.

mi riferisco alle due grandi soppressioni: quella napoleonica (1810-1816) e quella piemontese, iniziata nel 1861 e durata per più di un decennio, risolta soltanto con i Patti lateranensi del 1929. nel decennio susseguente alla presa di porta Pia (20 settembre 1870), la congregazione subì una grave frattura interna, interrogandosi sulla sua identità profonda, sul suo “spirito” e sulla forma apostolica che essa doveva assumere con il mutare dei tempi, della nuova temperie culturale derivata dall’Illuminismo e susseguenti movimenti filoso-fico-teologici e la dilatazione della congregazione stessa, presente ormai in più di una nazione europea, nel nord-America e con ap-procci giunti a buon fine, dopo vari tentativi, anche nel Sud-America e in Australia. Frattura interna che trovò nella personalità esimia del beato Bernardo Maria Silvestrelli (+1911) un punto di coagulo per ancorare la congregazione allo spirito del Fondatore, od a quello che si riteneva tale. La congregazione si interrogava sulla sua identità e quindi sulla sua proponibilità come scuola di santità che per tutto l’ottocento appariva indiscussa e altamente riconosciuta nell’ambito ecclesiastico-ecclesiale, quasi sancita dall’alto con l’esaltazione di alcuni insigni passionisti alla gloria del Bernini, dopo la beatifica-zione-canonizzazione del Fondatore (1853; 1867).

b) La Scuola di Spiritualità Passionista tra Otto e Novecento.

nella congregazione passionista è stata sempre tenuta in alta stima, fin dalle origini, la memoria dei religiosi passati a miglior vita. È questo un indubbio segnale dell’apprezzamento per persone che avevano speso la loro esistenza nella congregazione, sia realizzando la missione apostolica specifica della stessa oppure vivendo più di-scretamente il carisma paulocruciano nell’ambito della conventua-lità. Il beato Bernardo M. Silvestrelli (+1911), tra il 1884 e il 1888,

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sentì il bisogno di riprendere queste antiche memorie biografiche per riproporle alle nuove generazioni passioniste che subivano lo sconquasso della soppressione o ne erano ancora toccate nel nuovo assetto che faticosamente le comunità locali e provinciali (mi rife-risco alla situazione italiana) stavano realizzando. sono tre i volumi silvestrelliani che possono essere collocati nell’ambito agiografico interno all’istituto: Memorie dei primi compagni di s. Paolo della Croce, Viterbo, Tip. Agnesotti, 1884, pp. 405 (ristampato nel 1932); Biografie edificanti di alcuni chierici passionisti, Roma, tip. guerra e Mirri, 1885, pp. 249 (ristampato nel 1938); Cenni biografici di alcuni religiosi passionisti che professarono l’istituto nel suo primo periodo di 50 anni, Roma, tip. guerra, 1886, pp. 380. A questi tre volumi strettamente agiografici si può affiancare, come testimone della SSP di fine Ottocento, ma che recupera ampiamente tematiche già presenti in precedenza nella stessa, il suo volume dei Tratteni-menti spirituali ad uso dei novizi, Roma, tip. della Pace, 1886, pp. 314 (ristampa nel 1936)25.

Le Memorie, le biografie edificanti e i Cenni biografici del silve-strelli hanno avuto una continuità nei Cenni necrologici che dal 1880 dell’’800 hanno fedelmente registrato brevi biografie, in stile edifi-cante, di tutti i religiosi deceduti nell’anno precedente26 e questo fino

25 Una edizione approntata da n. cavatassi della stessa opera nel 1990, con ampi tagli e rimaneggiamenti redazionali, non rispecchia molto la genuina caratteristica del testo silvestrelliano. Sempre Silvestrelli, nel 1888, pubblicò ma subito dopo ritirò dalla circolazione, il volume Raccolta delle principali consuetudini vigenti nella congregazione della Passione, pp. 223, che fu poi successivamente ristampato da f. Giorgini, nella sua edizione delle Consuetudines, editio critica textuum pp. Dominici, Seraphim, Bernardo, curante f. Giorgini, romae 1958; cfr. le Consuetudini secondo il Silvestrelli, ivi, pp. 103-279, ed. bilingue. il primo volume edito dal Silvestrelli aveva per titolo: Regole generali di civiltà e buona creanza, roma, Tip. Guerra, 1882. Queste “regole generali” servivano probabilmente per educare alle buone maniere i giovinetti delle prime “scuole apostoliche” (i seminari minori passionisti che in italia iniziarono nel ritiro di san Giuseppe sull’argentario nel 1880). nell’’800 i passionisti venivano bonariamente chiamati “gesuiti di campagna”: nella inedita situazione seguita alla soppressione italiana il Silvestrelli sentì il dovere di dare un certo indirizzo nel comportamento personale e nei rapporti comunitari e sociali.

26 cenni necrologici dei nostri religiosi che sono passati a miglior vita nel corso dell’anno 1881-1961, roma 1883-1962 (in fascicoli, per ogni anno).

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alla fine degli anni ‘60 del ‘900. In precedenza queste brevi biografie venivano inviate a tutte le comunità e spesso venivano trascritte per intero nel registro delle ss. messe di suffragio del confratello de-funto. non mancano in questi testi informazioni preziose sulla vita di tanti religiosi che hanno edificato la congregazione e la chiesa con la loro condotta di vita.

Spiritualità della croce. In questo contesto vorrei indicare all’at-tenzione ed all’approfondimento sul tema della fecondità della regola passionista in ordine alla santità, i cinque volumi antologici di profili e testi spirituali27 di passionisti,monache e suore della Famiglia Pas-sionista del ‘900. Non mancano medaglioni biografici di sacerdoti, monache, suore e laiche, non strettamente collegate all’istituto dei passionisti ma che hanno vissuto la sua spiritualità, a prescindere dall’appartenenza giuridica allo stesso: prima fra tutte santa gemma Galgani (+ 1903) che apre la serie dei profili. Essa si chiude con i lineamenti biografici del P. Pio Falco28, per un totale di 92 persone biografate. Uno sforzo notevole, compiuto da molti collaboratori del Chiari e del naselli che va ben oltre la mera riproposizione di dati bio-cronologici, per manifestarsi anche come test prezioso di percezione della ssP in tutto il novecento, in relazione alla pratica della Regola, fino alla vigilia della presentazione delle nuove Co-stituzioni, susseguenti al dettato conciliare deuterovaticano, con la celebre e perentoria accomodata renovatio.

Così, scorrendo per flash, - omettendo i santi e beati dei quali sono state pubblicate le biografie e quindi supponendole già note - si legge di P. Generoso Capaldi (+1910) che a detta del biografo era “la regola

esiste anche un “Diario negrologico di tutti i religiosi defunti della congregazione della passione”, dal 1745 al 1879, pp. 507 (ms in arch. gen. passionisti, roma), del p. eustachio della s. famiglia.

27 aa. vv., Spiritualità della croce. Antologia di profili e testi spirituali (a cura di c. chiari, collana Documenti e testimonianze diretta da c. a. naselli, + 1989).), San Gabriele (Te), ed. eco, v voll.,1976-1980. i vol: 1903-1926 (20 profili); ii vol.: 1928-1946 (24 profili); iii vol.: 1948-1956 (18 profili); iv vol.: 1959-1966 (15 profili); v vol.: 1967-1976 (15 profili), per complessive 2.162 pp. (in seguito SdC e vol.).

28 Spiritualità della croce, v: L’intuito del Passionista: “Il Signore vuole anime vittime!”, P. Pio Falco (1900-1976), ivi, pp. 395-421. educatore e missionario infaticabile in italia ed all’estero, trascorse gli ultimi anni della sua vita (dal 1968 al 1976) paralizzato nell’infermeria dei Ss. Giovanni e paolo a roma.

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viva e parlante in azione” 29. Rivide le opere filosofiche di p. Silve-stro Zannelli C.P. Era probabilmente un tipo un po’ duro, anche se in modo involontario, cosa che gli attirò più di una antipatia e av-versione. Padre Giovanni Meoni (+1911) rimane affascinato dalla de-scrizione della vita regolare osservata dai Passionisti fattale da don Vincenzo tucci. Per il quale il meoni offrì la vita per il suo ritorno alla Chiesa dopo la crisi modernista30. Il P. Giovanni Testi (+ 1912) fu considerato un “Ségneri redivivo”, consultore con il beato Silve-strelli, rigidissimo nell’osservanza del voto di povertà31; richiamava in modo molto forte i superiori locali perché fossero guide spirituali dei confratelli nell’osservanza della Regola. stessi forti richiami espresse più di una volta P. Pietro Paolo Moreschini (+ 1918), poi vescovo di Camerino, contrario alle idee di riforme e di aggiornamenti che in quel periodo (1893-1899) serpeggiavano in congregazione 32. stessa tempra ma con maggiore umanità e levità di rapporti troviamo in P. Luigi Besi (+ 1923)33. P. Angelo Sabuzi (+ 1926) spende tutta la sua vita per il santuario della madonna delle grazie di nettuno e per la nascente venerazione verso s. maria goretti 34. Confratel Angelo Bo-logna (+ 1934) è una figure più patetiche e toccanti tra i tanti giovani passionisti morti prematuramente anche per l’applicazione rigida della Regola, imposta dal metodo educativo ma molto spesso attuata dagli

29 Sdc, i, pp. 153-178. rivide le opere filosofiche di Silvestro Zannelli c.p. 30 Sdc, i, pp. 179-206. Molto interessante leggere come si viveva in concreto

la regola nel 1908; ed anche come veniva seguito amorevolmente un morente (ivi, pp. 191; 197-199).

31 Sdc, i, pp. 279-295. nel 1887 nelle missioni ancora ci si flagellava in pubblico (ivi, p. 282). Sulla rigidissima pratica della povertà cfr. ivi, pp. 285s.

32 Sdc, i, pp. 333-355: estremamente fedele alla “tradizione della congregazione (ivi, p. 338), rivolse un forte richiamo ai superiori locali nel “fare l’esame in coro” in pieno capitolo generale del 1907 (ivi, p. 339). fu anche visitatore apostolico in varie diocesi nel periodo antimodernista. Devoto di santa Gemma Galgani di cui riscontrò di persona la genuinità dei fenomeni mistici. Sulle stesso stile severo ritroviamo p. Giustino croxato che lasciò una forte impronta della sua personalità nella provincia cOrM (nord italia). Mandato come visitatore e provinciale della provincia DOL (Basso lazio-campania) nel triennio 1945-1948: cfr Sdc, iii, pp. 99-127.

33 Sdc, i, pp. 439-463: Uno dei passionisti più insigni del novecento passionista.

34 Sdc, i, pp. 465-475.

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stessi con generosità e dedizione senza pari 35 . Una vita di studio nella pratica inappuntabile della vita regolare passionista e nello zelo apo-stolico troviamo in P. Amedeo Casetti (+ 1935), eccellente nel campo agiografico e soprattutto altamente benemerito per la pubblicazione delle lettere di s. Paolo della Croce e di altri documenti inediti della storia della congregazione fin dalle origini36. Altro grande missionario deceduto nel 1936 è stato P. Claudio Di Lelio, regolarissimo nella vita comunitaria pur essendo missionario a tempo pieno 37. sempre nell’ambito della erigenda Provincia del S. Costato (Puglia, Calabria, Basilicata) in questo periodo spicca la figura di P. Flaviano De Vincen-tiis (+ 1936), ricordato come un santo, autentico figlio di s. Paolo della Croce 38. Colpisce nel leggere il breve profilo di P. Giacomo Uccellini (1944) la sua estrema sincerità nelle annotazioni diaristiche personali che offrono uno spaccato di varia umanità nell’ambito di comunità che professavano e praticavano la Regola in modo molto rigido 39. Attività frenetica in campo apostolico, che li portò prematuramente alla tomba, ritroviamo in P. marino Canducci e in P. Pio gòdio, ambedue morti nel 1945 40 amanti della vita comune, soprattutto della preghiera. nello stesso anno si spegneva, neppure settantenne, P. Ireneo Pontremolesi (1878-1945), grande, anzi geniale, studioso: eroico nell’obbedienza e

35 Sdc, ii, pp. 97-109.Lo stesso dolore e capacità di eroica accettazione della croce ritroviamo in confr. Gustavo cascio ingurgia (+ 1948): Scc, iii, pp. 23-30 .

36 Sdc, ii, 123-142: il casetti si spense all’improvviso a roma a soli 47 anni. nello stesso anno moriva alla Madonna della Stella (pG). altro scrittore di notevole spessore è stato p. aurelio verticchio ( + 1951), biografo, tra gli altri, di s. Maria Goretti e di p. nazzareno Santolini (+ 1930): Sdc, ii, pp. 37-64: la cui indiscussa santità era unita ad una straordinaria humanitas tanto da farlo riconoscere come “il maestro” per antonomasia. p. filippo fanti missionario indefesso, geniale nell’organizzazione della preghiera (via crucis vivente), carismatico riconosciuto e ricercato anche se inadatto a fare da superiore (ivi, pp. 143-171).

37 Sdc, ii, pp. 173-199.La sua persona è ancora ricordata nel ritiro di ceglie M. (Br).

38 Sdc, ii, pp. 201-214. fu profondamente influenzato dal magistero del b. Bernardo Silvestrelli (+ 1911).

39 Sdc, ii, pp. 315-340, soffrì molto per reiterate incomprensioni dovute forse anche alla sua ipersensibilità.

40 Sdc, ii, pp- 353-370; 371-390. Gòdio fu l’artefice della collocazione autonoma della Basella, sia nel campo religioso che in quello civile, nell’ambito del comune di Urgnano (BG).

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nel far fronte alle difficili condizioni in cui si trovò a sviluppare i suoi talenti di insegnante e di educatore 41.

Non mancano figure di religiosi fratelli che hanno speso tutta la loro vita nel servizio comunitario e soprattutto notevoli per la capacità di sacrificio ben motivato con ragioni spirituali nell’estenuante servizio della questua 42. Anche qualche sacerdote passionista non ricusò la fatica della questa per il bene della propria comunità, specialmente dei giovani, come P. Angelico Nicolini (+ 1949)43. P. Luigi Fizzotti invece era dello stampo del P. Amedeo Casetti, assiduo al confessionale ed esperto nella guida spirituale di anime elette, come teresa Palminota, si dice che fu discepolo del servo di Dio P. Leone di gesù nazareno dal quale apprese lo spirito genuino della congregazione della Pas-sione44. Altro P. Leone di cognome Ferrarese (1890-1955), per lunghi anni maestro dei novizi, troviamo vivissima la preoccupazione di es-sere “custode fedele dello spirito del S. Fondatore” e di “conservare lo spirito proprio della congregazione” 45. Ultimo epigono di questa esasperata accentuazione conservatrice, e quasi la riassume tutta, ri-troviamo Patrizio Migliori (1872-1955) , “fedele a qualsiasi costo allo spirito del passionista”, come viene definito in questa serie di profili. La sua vicenda di scrittore e di editorialista delle proprie opere, sostan-zialmente fallimentare, tocca il patetico ma anche l’ ammirativo per la profonda sua convinzione delle proprie idee sul cosa fosse “lo spirito

41 Sdc, ii, pp. 391-426.42 cf Sdc, iii, pp. 13-22: “volto sereno, sorriso sulle labbra” (p. 15); conobbe

s. Gemma (p. 18).43 Sdc, iii, pp. 31-43 di cui si conserva un epistolario intriso di affetto e

di spirito soprannaturale per i familiari. Lo stesso dicasi di p. Bernardo Dutto (+ 1950) singolare figura di calzolaio, questuante e confessore ricercato del duomo di Genova. Stesso amore e dedizione, anche se con un carattere un po’ ruvido, ritroviamo in fratel valentino colombo (1953), Sdc, iii, pp. 171-180

44 Sdc, iii, pp. 45-76: scrittore fecondo e inesauribile nell’inventiva apostolica.

45 Sdc, iii, pp. 275-293. appartenne alla provincia cOrM. Giunse a disertare, insieme con il maestro dei novizi della provincia pieT un convegno di maestri di novizi di tutte le province italiane indetto all’argentario nel 1954, perché vi aveva ravvisato idee novatrici. Già da superiore provinciale nel periodo della ii guerra mondiale aveva fortemente richiamato i religiosi con apposite circolari alla pratica della vita regolare, alla povertà, solitudine e orazione (cfr ivi, pp. 290-292).

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del passionista”, tetragono a qualsiasi confronto e verifica delle mutate condizioni del tempo46, della società e della chiesa.

Potremmo continuare a presentare altri profili agiografici ma sarebbe ripetitivo del fin qui detto. Nel leggere queste biografie di passionisti del ‘900 si nota subito come ci si trovi di fronte ad ad un lungo, lunghissimo tramonto, con una situazione crepuscolare susseguente, non privo di nubi e di presagi. nel leggere il reso-conto dei biografati missionari, tra l’altro, si riscontra che la sen-sibilità religiosa del popolo è ancora, fin quasi alla fine degli anni ’60, non molto dissimile da quanti partecipavano alla predicazione dei passionisti delle passate generazioni, fino a lambire l’epoca del Fondatore. Per questo, forse, non si manca di sottolineare che lo stile passionista quasi prescinde dalla contingenze spazio-tem-porali-culturali, per una specie di atemporalità, che ravvisa come santo e quindi proponibile all’ammirazione ed all’imitazione dei confratelli e dei fedeli, colui che è diventato una sorta di “regola vivente”, sine glossa47. Con l’avvento della secolarità e le istanze susseguenti al deutero vaticano questo crepuscolo interminabile si è spento del tutto e per sempre.

E) Conclusione

Il trinomio su cui si basava la vita regolare passionista: povertà, solitudine, orazione, incessantemente richiamata , in fondo non può essere identificativo della spiritualità e dell’apostolato di una con-gregazione. È esso un mezzo orientato al fine. A ben vedere tutti i consacrati, di qualsiasi genere, di qualsiasi latitudine ed epoca, non ne possono fare a meno, secondo modalità specifiche di ogni istituto e secondo la triade vocazione- consacrazione-missione in cui si in-carna un determinato carisma.

Allora qual è lo specifico della spiritualità della congregazione della Passione e quindi la proponibilità della stessa come scuola di santità? Nel suo genitivo determinativo: la Passione, appunto.

46 Sdc, iii, pp. 295-311.47 per una panoramica dell’agiografia passionista che va dalle origini fin

quasi ai nostri giorni ci si può servire del volume di p. Di eugenio, Sotto la croce appassionatamente, San Gabriele edizioni, San Gabriele, Te 2006.

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nell’’800 passionista e nei suoi epigoni novecenteschi sembra sia difettato un riferimento strettamente teologico al carisma specifico della congregazione, ossia la sua consacrazione alla Passione, sigil-lata dal cosiddetto quarto voto, che identifica la congregazione e la colloca nel suo specifico, nell’ambito ecclesiale e giustifica la sua missione apostolica.

non difettò in passato l’ascesi, che fu anzi vissuta spesso in modo supererogatorio. non ci fu una adeguata sostanza teologica, un va-lido supporto teoretico ancorato in definitiva al dato rivelato che giustificasse il trinomio e il vissuto quotidiano (la cosiddetta “osser-vanza”). Le motivazioni del quarto voto erano relegate a insufficienti giustificazioni devozionali che spingevano più all’ascesi che ad una spiritualità, o meglio ad una mistica “ben temperata”, così come era stata vissuta da Paolo della Croce e dai primi compagni.

Cosa resse allora la compagine dell’istituto in questa pluriseco-lare accentuazione ascetica? L’ancoraggio, anche solo devozionale-affettivo alla Passione, fu un coefficiente di non poco conto perché il trinomio (povertà, solitudine, orazione) non fagocitasse in modo ir-reversibile la base, almeno implicita, biblico-teologica. In non pochi casi questo “implicito teologico” della Passione come giustificativo della vocazione-consacrazione-missione passionista si risolveva in genuina spiritualità se non di alta mistica.

La breve rassegna dei vari personaggi che hanno decorato la con-gregazione con le loro virtù esimie; il lavoro apostolico indefesso di tanti missionari; la piena e totale dedizione alla vita comunitaria di tanti religiosi (fratelli, sacerdoti, studenti, novizi), ne sono la riprova più persuasiva.

Le nuove costituzioni (o rinnovate), oggetto della presente rifles-sione, al trinomio classico dell’ascesi passionista, che ha prodotto indubbi frutti di santità nel corso della sua plurisecolare storia, danno finalmente allo stesso una adeguata motivazione staurologica, o me-glio staurosofica. La vena teo-mistica cristocentrica che ha percorso tutta la storia agiografica della congregazione anche se con anda-mento spesse volte carsico, può ora irrigare in modo abbondante e motivato un terreno che rischiava di inaridirsi e di non produrre più i frutti sperati.

Allora anche per il terzo millennio cristiano e per il terzo secolo della congregazione della Passione si può sperare di poter perpetuare

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quella ‘scuola della Passione di Gesù’ dove “ si impara la scienza dei santi”48.

Tito Paolo Zecca [email protected]

48 paOLO della croce, Lettere, i, p. 558. il presente testo, riveduto ed ampliato, si basa sulla relazione tenuta a falvaterra nel convegno I passionisti ieri e oggi, Le nuove costituzioni dei passionisti a 25 anni dall’approvazione (1984-2009) e poi pubblicato a cura di Giuseppe comparelli, isola del Liri, fr 2010, pp. 67-90.

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ItA La congregazione tra passato e futuro: fecondità della Regola

di Tito Paolo Zecca, cpLa fecondità della Regola passionista, come tutte le Regole di

qualsiasi forma di vita consacrata, deriva dalla conformazione della stessa al norma normante di qualsiasi forma di vita cristiana: il santo evangelo. La peculiarità della Regola della Congregazione della Pas-sione va al di là delle singole norme redatte in un lungo arco di tempo. Il suo primo abbozzo fu redatto durante il ritiro di san Paolo della Croce a Castellazzo nel 1720-21 per I poveri di Gesù. Ha il suo culmine nella codificazione di essa, vivente ancora il Fondatore nel 1775, per i Chierici scalzi della SS. Croce e Passione di N. S. Gesù Cristo. Le modifiche successive non hanno scalfito fino alla formu-lazione delle Costituzioni scaturite dalla accomodata renovatio della vita consacrata promossa dal Concilio Vaticano II e dal magistero pontificio che ne attuava le indicazioni, la sua sostanza essenziale. La Regola paulocruciana ha dimostrato la sua fecondità con le nu-merose espressioni di santità che ad essa si sono ispirate per più di due secoli. Le Costituzioni rinnovate della Congregazione della Pas-sione di Gesù hanno in sé elementi di fecondità protesi al futuro in base alle “radici sante” di cui sono espressione attuale.

fRA La Congrégation entre passé et futur : fécondité de la Règle

De Tito Zecca, cpLa fécondité de la Règle passioniste, comme il en est de toutes les

Règles de vie consacrée, dérive de sa conformité à la norme de toute vie chrétienne : le saint Evangile. La caractéristique de la Règle de la Congrégation de la Passion, dépasse les normes particulières rédi-gées durant un long laps de de temps. Sa première ébauche vit le jour durant la retraite de saint Paul de la Croix à Castellazzo en 1720-21 pour les pauvres de Jésus. Elle a trouvé son achèvement dans sa co-dification, le fondateur étant encore en vie, en 1775, pour les Clercs déchaussés de la T.S. Croix et Passion de N.S. Jésus Christ. Les mo-difications successives ne l’ont pas éraflée, jusqu’à la formulation des Constitutions issues de l’accomodata renovatio de la vie consacrée promue par le Concile Vatican II et par le magistère pontifical qui en

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actualisait les indications, sa substance essentielle. La Règle pauli-crucienne a démontré sa fécondité par les nombreuses expressions de sainteté qui se sont inspirées d’elle pendant plus de deux siècles. Les Constitutions renouvelées de la Congrégation de la Passion de Jésus contiennent des éléments de fécondité orientés vers le futur sur la base des « racines saintes » qui en sont l’expression actuelle.

EnG The Congregation between past and future: fecundity of the Rule

by Tito Paolo Zecca, cpthe fruitfulness of the Passionist Rule, like all rules of any form

of consecrated life, derives from the shape of the same standard of any form of Christian life, namely, the holy gospel. the peculiarity of the Rule of the Congregation of the Passion, goes beyond single rules drawn up over a long period of time. Its first draft was written during the retreat of st. Paul of the Cross in Castellazzo in 1720-21 for The Poor of Jesus. It has its culmination in its codification while the founder was still living in 1775, for the Discalced Clerics of the Most Holy Cross and Passion of our Lord Jesus Christ. subsequent changes have not scratched its essential substance until to the for-mulation of the Constitutions resulting from the accommodata re-novatio of consecrated life promoted by the second Vatican Council and the papal magisterium which implemented its directions. the Pauline Cross Rule has shown to be fruitful by the many expressions of holiness that has been inspired by it for more than two centuries. the renewed Constitutions of the Congregation of the Passion of Jesus have some elements of fecundity towards the future based on the “holy roots” of which they are a current expression.

SPA La Congregación entre el pasado y el futuro: fecundidad de la Regla

de Tito Paolo Zecca, cpLa fecundidad de la Regla passionista, como todas la Reglas de

cualquier forma de vida consagrada, deriva de la conformación de la misma al norma normante de cualquier forma de vida cristiana: el santo Evangelio. La particularidad de la Regla de la Congrega-

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ción de la Pasión va más allá de las concretas normas redactadas en un amplio arco de tiempo. su primer esbozo fue redactado durante el retiro de san Pablo de la Cruz en Castellazzo en 1720-21 para los Pobres de Jesús. Tiene su culmen en la codificación de ésa, vi-viendo todavía el Fundador en 1775, para los Clérigos Descalzos de la Santísima Cruz y Pasión de Nuestro Señor Jesucristo. Las modifi-caciones sucesivas no han dejado mayor huella hasta la formulación de las Constituciones surgida de la accomodata renovatio de la vida consagrada promovida por el Concilio Vaticano II y del magisterio pontificio que señalaba las indicaciones, lo esencial. La Regla pablo-cruciana ha demostrado su fecundidad en numerosas expresiones de santidad que en ésa se hen inspirado durante más de dos siglos. Las Constituciones renovadas de la Congregación de la Pasión de Jesús tienen en sí mismas elementos de fecundidad que tienden hacia el fu-turo, en base a las “raíces santas” de las cuales son expresión actual.

Pol Zgromadzenie między przeszłością a przyszłością: płod-ność Reguły

Tito Paolo Zecca CPPłodność Reguły Pasjonistów, jak wszystkich Reguł jakiejkol-

wiek formy życia konsekrowanego, pochodzi ze zgodności między nią a norma normującą życia chrześcijańskiego: święta ewangelia. Szczególny charakter Reguły Zgromadzenia Męki Pańskiej idzie dalej niż konkretne normy zredagowane na przestrzeni czasu. Pierwszy szkic został zredagowany podczas rekolekcji św. Pawła od krzyża w Castellazzo (1720-1721) dla Ubogich Jezusa. Ma swój szczyt w ko-dyfikacji Reguły Pasjonistów, jeszcze za życia Założyciela, w 1775, dla Kleryków Bosych Najświętszego Krzyża i Męki Naszego Pana Jezusa Chrystusa. Dalsze zmiany zmieniły jej charakteru aż do po-wstania Konstytucji, które wynikły z potrzeby „przystosowanej od-nowy” życia konsekrowanego, do której zachęcał Sobór Watykański II i papieży, którzy dawali wskazówki co do jej realizacji, co nadało jej zasadniczy kształt. Reguła Pawła od Krzyża ukazała swą płodność po-przez liczne wyrazy świętości, które się nią inspirowały przez ponad dwa wieki. Odnowione Konstytucje Zgromadzenia Męki Jezusa mają w sobie elementy płodności ukierunkowane ku przyszłości w oparciu o „święte korzenie”, których są aktualnym wyrazem.

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Questa prima opera di m a r i o

Cucca, frutto della sua tesi dottorale di-fesa presso la Ponti-ficia Università Gre-goriana di Roma, si presenta come uno studio corposo, com-plesso, coraggioso,

forse addirittura pionieristico. L’intento è quello di mostrare, attra-verso l’analisi di alcuni passi seletti del libro di geremia, il rapporto intercorrente tra la vicenda concreta del profeta di Anatot e la sorte drammatica della città di gerusalemme. non si tratta della classica tesi della «personalità corporativa» in cui il singolo assomma in sé il percorso di molti, né della (purtroppo mal compresa) dottrina della «sostituzione vicaria» ove la pena di molti si scaraventa su un unico garante. Si tratta piuttosto di un «rapporto di significazione para-digmatica», come recita il sottotitolo del volume, in cui il profeta, proprio perché tale, parla in nome di Dio non solo con gli organi di fonazione, né semplicemente con alcuni gesti simbolici, ma con tutto il proprio corpo, con la propria vita: «non solo – scrive l’A. – geremia ha compiuto dei “gesti simbolici”», ma «la totalità della sua esistenza umana è stata “simbolica”, cioè funzionale al ministero profetico». E conclude: «Il nostro parere è che questa proposizione – dato il carattere comunicativo della profezia – trovi il suo pecu-liare assetto nel corpo del profeta, che in tal modo, nella complessità delle vicende vissute, viene presentato come “corpo comunicativo”, “luogo” di rivelazione della profezia stessa» (p. 30).

A monte di questa suggestiva ipotesi di lavoro sta il rinnovato interesse di molta filosofia e teologia contemporanee per la realtà del

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MARIO CuCCA, Il corpo e la città.

Studio del rapporto di significazione paradigmatica tra la vicenda di

Geremia e il destino di Gerusalemme, Studi e ricerche – Sez. biblica, cittadella editrice, assisi 2010,

pp. 358, e 21,00.

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corpo, la realtà dei sensi, come parte integrante dell’essere-uomo, non meno nobile di ciò che chiamiamo «anima», «volontà» e «in-telletto». Più prossimamente, la tesi si mostra come uno sviluppo di alcune intuizioni fondamentali avanzate nel 1987 dal gesuita P. Bovati, docente emerito del Pontificio Istituto Biblico di Roma (e del Bovati è anche il costante riferimento all’ambito giudiziale del rib).

Se la tesi di Cucca si presenta quanto meno avvincente, più diffi-cile risulta la sua dimostrazione sul piano rigorosamente esegetico. Anzitutto perché il materiale a disposizione è enorme – i 52 capitoli del libro di Geremia (da dove partire? Quali pericopi selezionare?) – e poi perché l’assunto da dimostrare (ciò che accade al corpo del profeta accadrà alla città di gerusalemme) rischia di assurgere a pre-comprensione rigida, che può viziare gli stessi procedimenti anali-tici, svilendone il rigore critico.

L’A. cerca di rispondere a tali possibili obiezioni giustificando le proprie scelte: concentrerà la propria attenzione solo su quei capi-toli del libro di Geremia (Ger 1; 20; 26; 36; 37; 38) che, sul piano redazionale, occupano una posizione strategica (iniziale o finale), mentre, sul piano tematico, evocano la totalità della vicenda profe-tica, ponendola a confronto, anche se non sempre in modo diretto, con la sorte finale della città santa. In particolare sono le relazioni lessicali e tematiche tra l’ouverture del libro sacro e i successivi capitoli 20; 26; 36 ad intrecciare una sorta di «ordito testuale signi-ficativo» (p. 92) che rende ragione della selezione del materiale ese-getico operata dall’A. Più facilmente intuibile risulta la decisione di trattare ger 37-38, capitoli questi «che precedono immediatamente la presa di gerusalemme, segnando in tal modo, al livello tempo-rale, anche la conclusione del ministero di Geremia» (p. 34; cf. p. 204).

Il volume si struttura in due grandi sezioni. La prima, compren-siva di cinque capitoli, affronta anzitutto il problema della «fonda-zione del fenomeno» tematizzato (cap. I). Muovendosi nel solco di un’attenta indagine lessicografica, Cucca mostra come tutta la vi-cenda di Geremia possa essere assunta come parola di Dio (dābār) e, di conseguenza, come esempio parabolico, come simbolo (māšāl) di quanto avverrà ai suoi concittadini. Di qui l’A. si inoltra nell’a-nalisi di Ger 1 (cap. II): fin dal grembo materno l’elezione divina ha

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fatto del corpo del profeta un luogo simbolico. Da questo punto di vista, ger 1,18-19 costituisce il primigenio istituirsi del confronto tra corpo e città: la guerra che si muove ai danni del profeta è in-fatti prefigurazione del processo intentato contro la città (1,13-17). In Ger 20 (cap. III), invece, il registro si inverte, sicché all’uomo di Anatot viene applicato in prevalenza il sistema simbolico del giu-dizio, mentre contro i suoi persecutori, rappresentanti dell’intera ge-rusalemme, si impone il dramma della guerra.

Con lo studio di Ger 26 (cap. IV) emerge l’immagine di un profeta «sottoposto a processo». Emblematica non è soltanto la vicenda di-battimentale, ma anche l’imprevisto esito della stessa, con lo scagio-namento dell’imputato. Suggestiva l’analisi di Ger 36 (cap. V) ove la dinamica paradigmatica non ha più per soggetto il corpo concreto di geremia, ma quella del rotolo scritturistico, ridotto in frantumi dal re di giuda, incapace di accogliere un destino di sottomissione alla potenza babilonese. Eppure, anche in questo caso, il rotolo tornerà ad essere scritto interamente, da capo, preludio di una salvezza che passa proprio attraverso l’accettazione del dramma.

La seconda parte del volume guarda al tempo della fine (Ger 37,1-38,13). Enucleata la dinamica narrativa degli eventi ivi esposti (cap. VI), in modo alquanto originale Cucca indaga il valore sim-bolico dell’arresto del profeta (cap. VII): nella brutale concretezza di quell’avvenimento cerca di decifrare i segni di un’ulteriore pa-rola di Dio. Diventa allora significativa l’analisi di alcuni elementi narrativi (Ger 38,6), a prima vista marginali, i quali, al contrario, paiono alludere ancora una volta al destino della città: si tratta del pozzo in cui geremia viene gettato, delle corde impiegate per calarlo nella cisterna e del fango depositato nel fondo della stessa. L’inda-gine fenomenologico-simbolica mette in luce una comune seman-tica di morte. L’A. spiega: «La morte (simbolica) del profeta, allora non può essere considerata come un fattore casuale e perciò estrin-seco all’essenza del suo ministero […] Il tratto drammatico delle vicende di geremia appare al contrario una necessità intrinseca al suo stesso essere costituito profeta» (p. 312). È a questo punto però che irrompe, del tutto inatteso, l’intervento di Ebed-mèlec, grazie al quale l’uomo di Dio viene liberato (38,7-13). In tal modo, attraverso le vicende del suo corpo, il profeta sembra mostrare che la punizione «non è il destino ultimo, ma solo la condizione, paradossale ma ne-

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cessaria, per l’affermarsi di una misericordia che fa accadere […] una nuova alleanza» (p. 313).

L’A. mostra di possedere adeguatamente lo strumentario me-todologico tipico dell’esegesi scientifica: si muove con scioltezza sul registro dell’approccio narrativo come su quello retorico, passa dall’analisi lessicografica a quella simbolica, senza disdegnare gli apporti del metodo canonico. ogni testo pone infatti interrogativi diversi e richiede pertanto approcci diversi. Cucca ricorre però a questi variegati approcci cum granu salis, vale a dire senza ecces-sive pedanterie e tecnicismi, quelle che paiono talvolta ingabbiare il testo e soffocarlo. In tal modo, egli rimane continuamente aperto a valutazioni di ordine ermeneutico, teologico, ricercando il senso del dettato biblico. Il libro risulta così accessibile anche ad un pubblico di non addetti ai lavori esegetici.

E tuttavia si ha spesso l’impressione che la scelta dei brani da commentare non sia sufficientemente suffragata da argomentazioni convincenti, che ci si muova su un terreno sabbioso, che si cerchi il simbolo laddove il genere letterario, quello del racconto, non lo richiede affatto. Certo, la tesi di fondo si mostra talmente ampia che a chiunque sarebbe stato difficile destreggiarsi nel mare magnum del libro di Geremia. Forse andava bilanciata l’ipotesi fin dal suo sor-gere, limitandosi, ad esempio, ad evidenziare il rapporto paradigma-tico tra corpo e città in pochissimi brani. Questo avrebbe permesso di approfondire l’analisi specie laddove essa pare come abbozzata. E forse sarebbe stato pertinente anche l’impiego di una teoria metafo-rica di base (Lakoff, Ricoeur, ecc.), che esplicitasse ulteriormente la valenza di alcuni elementi semantici.

Questo nulla toglie al pregio del presente studio, di cui va co-munque premiata l’audacia e il carattere innovativo.

Leopoldo Boris Lazzaro [email protected]

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Ap p a r t i e n e alla collana “Contributi

di Teologia” diretta da Piero Coda per i tipi di Città nuova questa semplice monografia del teologo italiano Paolo gamberini, ge-

suita, docente presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Me-ridionale, sezione “San Luigi”. La collana appena menzionata si compone di brevi saggi, pensati non come rigorose trattazioni, ma come abbozzi, come “ipotesi di lavoro”, come “tracce di approfon-dimento” per additare la via di una possibile teologia di frontiera, in dialogo con le istanze che provengono dalla modernità.

Brevità non significa banalità, semplificazione ingenua. La bre-vitas, semmai, suppone la complessità del ragionamento. Per questo motivo la brevitas è essenzialmente un’arte. E P. gamberini sembra essersi cimentato in questo genere letterario con sufficiente maestria: linguaggio piano, struttura ordinata del discorso, brevi “assaggi” o, se preferite, “brecce” appena scolpite sul pensiero di Abraham Jo-shua Heschel (1907-1972), ebreo di origine polacca, esegeta, filo-sofo, maestro di spiritualità, insigne rappresentante del chassidismo del secolo scorso. su di lui, qualche anno fa, l’Università di Roma “Tor Vergata”, in collaborazione con altre istituzioni romane, orga-nizzò una giornata di studio (“Tra terra e cielo: Abraham Joshua He-schel nel centenario della nascita”, 13 dicembre 2007), segno che il rilievo di tale figura non è appannaggio di qualche limitrofa nicchia “religiosa”. L’eredità di Heschel appartiene al mondo universale (ac-cademico e non).

Il saggio di Gamberini è presentato dalla figlia dello stesso He-schel, susannah, che ricorda i legami del padre con l’ambiente catto-

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PAOLO GAMbeRInI, Pathos e Logos in

Abraham J. Heschel, contributi di Teologia 58, città nuova, roma 2009,

pp. 144, e 14,50.

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lico, specialmente italiano. E conclude: “È Volontà di Dio che ebrei e cattolici si rafforzino l’un con l’altro nelle loro rispettive comunità di fede” (p. 10).

segue quindi l’introduzione dell’A. con un rapido sguardo d’in-sieme alla vita, le opere, il pensiero del filosofo polacco (pp. 11-24).

Filo conduttore dell’analisi di gamberini è, come annunciato nel titolo, il tema del pathos, inteso “come passione per il Significato trascendente”, “slancio entusiastico e nello stesso tempo dramma-tico per il Senso ultimo dell’esistenza” (p. 24, corsivo nostro). In altri termini, il tema del pathos umano-divino sembra mettere ordine nell’universo frastagliato della poliedrica produzione hescheliana. E l’A. ne disegna il percorso servendosi di una prospettiva sostanzial-mente fenomenologica, che si snoda in cinque “momenti”: inten-zionale (gnoseologico), ontologico, teologico, antropologico, etico. Il tutto continuamente re-impastato da un esplicito afflato mistico, sia che si parli di preghiera sia che si parli di politica. È l’afflato che ha permeato d’altra parte tutta la vita, o meglio la missione di A. J. Heschel. E l’A. riesce a comunicarcelo.

La realtà del conoscere, tanto per cominciare, non ha nulla di astratto (“momento intenzionale”). Il pensiero, per il filosofo ebraico, si pone sempre entro i limiti di una situazione, dialoga con le concrete circostanze della vita. E gode esso stesso, il pensiero, di un originario momento creativo, uno shock positivo, che ha nome “meraviglia”. Tale esperienza permette al pensiero di trascendere se stesso, incessantemente aperto all’incontro con l’Ineffabile. Heschel supera in questo modo, con il rigore del filosofo e l’effervescenza del mistico, le strettoie dell’idealismo e di ogni gnoseologia razionalista. Il vigore della conoscenza (logos) si lascia continuamente compe-netrare dal trasporto di una sorta di emozione, inerente al conoscere stesso: è il pathos la forza intima, “l’intenzionalità trasgressiva” (p. 41) che permette al pensiero-logos di rimanere sempre aperto. In-somma, la logica riconquista la sua originaria formalità religiosa, la sua anima meta-logica, diviene apertura al mistero.

Di qui avviene il passaggio al “momento ontologico”. Perché è proprio nello snodarsi fenomenologico dell’evento della conoscenza che l’uomo percepisce una parola a lui sempre anteriore, un a-priori irrinunciabile, una premessa necessaria ed immediatamente intui-

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bile, come la luce del sole: si tratta della presenza di Dio. L’umano interrogare è in fondo una risposta ad un’eterna domanda che lo precede. L’Ineffabile si dona immediatamente come il senso ultimo dell’esistenza, “l’orizzonte entro cui il pensiero comprende” (p. 51); alla sua luce l’uomo afferra qualcosa del mistero dell’unità cosmica, della sua pienezza di vita. Lo stesso uomo si percepisce come og-getto del pensiero divino. Ed è sempre il pathos a guidarlo sui trac-ciati di un’intuizione metafisica talmente profonda: l’essere, nelle infinite forme dei suoi esistenti, nasce dalla sollecitudine divina, è “rivelazione del pathos di Dio” (p. 58), ne è la cifra, la concreta rappresentazione. Prima dell’essere-creato sta la pura sollecitudine divina, il pathos di un Dio che parla, anzi dà un comando assoluto: “Sia!” Siamo ben distanti dalla rigida staticità dell’onotologia par-menidea! L’essere di cui parla Heschel ha un carattere epifanico, transitivo, eccentrico.

Ciò che è stato colto sul piano gnoseologico e metafisico non è altro che il riverbero di un dato teologico-biblico essenziale, il pa-thos divino, tema che aveva appassionato Heschel fin dalla sua tesi di laurea, difesa all’università di Berlino nel 1933 (“La coscienza profetica”). Approdiamo così al “momento teologico” della nostra riflessione. Secondo Gamberini, il pathos che la Bibbia attribuisce a Dio costituisce “una rivoluzione profonda del pensiero religioso” (p. 74), perché permette di pensare la trascendenza di Dio senza disso-ciarla dal suo coinvolgimento nella storia di Israele e dell’umanità intera: “la concezione di Dio come di un essere distaccato e non emotivo è totalmente estranea alla mentalità biblica” (ibidem). si impone però a questo punto una distinzione essenziale, sfuggita a molti che a vario titolo e in vario modo (Moltmann in primis, si veda il breve excursus a pp. 81-88) si sono rifatti alle provocanti afferma-zioni teologiche di Heschel: “il pathos – in ciò consiste la distinzione che abbiamo chiamato essenziale – non denota l’essenza di Dio, ma il rapporto tra l’uomo e la volontà di Dio: è una realtà funzionale più che sostanziale, è un atto divino più che un Suo attributo” (ibidem). Né, d’altra parte, il pathos è dissociato dall’ethos, dalla norma, in quanto è il risultato di una decisione che impegna radicalmente la libertà divina, la volontà di un Dio sollecito per la sorte delle sue creature. Questa inesauribile verità divina ci è accessibile, ancora una volta, in virtù di una peculiare esperienza intra-coscienziale,

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quella vissuta dal profeta. A quest’ultimo poi spetta il compito di comunicare la Parola divina con tutto il pathos di cui essa è pregna. Per Heschel, dunque, il profeta è colui che intrattiene con Dio una relazione sim-patetica. Anche in questo l’opera di gamberini appare ben riuscita, poiché l’A. fa rifare al suo lettore il medesimo percorso che Heschel ha compiuto nella maturazione del suo pensiero: si parte dai dati della coscienza (“momento intenzionale-gnoseologico”), sia pure di un’esperienza intra-coscienziale particolarissima qual è quella profetica, per approdare a verità più grandi, ineffabili, origi-narie (“momento metafisico-teologico”).

Il circolo ermeneutico può infine completarsi: partito dall’uomo il discorso ritorna, arricchito, all’uomo stesso, per ridefinirlo (“mo-mento antropologico”). Contro una lunga tradizione filosofica che da Aristotele giunge fino a Kant, Heschel recupera il valore po-sitivo della passione umana. Il pathos non è nulla di irrazionale, degradante, nulla di dannoso, di temibile; esso costituisce piuttosto il momento emotivo del pensiero stesso: pathos e logos si intrec-ciano in modo fecondo. In fin dei conti, il pathos è una passione necessaria per l’esistenza religiosa. gamberini ha modo di sotto-linearlo nel contesto di un ampio raffronto tra il pensiero di He-schel e quello del filosofo danese S. Kierkegaard (forse le basi del raffronto non sono del tutto convincenti. nondimeno le conclu-sioni sembrano esserlo). Per entrambi i pensatori il pathos gode di un’inderogabile pregnanza esistenziale, è appassionamento per l’Assoluto. Tuttavia, a differenza di Kierkegaard, Heschel coglie il pathos in una chiave più radiosa, ottimista, tipica del chassidismo di cui era figlio ed esponente: in altri termini il trascendimento cui l’uomo è chiamato non è contraddizione, frattura, pessimistica la-cerazione esistenziale, ma comunione, incontro, gioia del mistero, passione d’amore. se una conversione deve avvenire in seno al pathos, essa è di natura etica: bisogna decentrarne il riferimento, spostare l’asse di interesse da sé all’altro da sé. In questo sforzo estatico, eccentrico, l’uomo si determina incessantemente, libera-mente, come umano: “Sono nato uomo – afferma Heschel – ma devo diventare uomo, devo diventare ciò che sono” (p. 105). In fondo, il pathos che inabita la creatura è pura partecipazione al pathos-ruah del Creatore: è così che l’uomo realizza il suo essere icona della divinità.

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Il “momento etico”, ultima parte del libro, non fa altro che rac-cogliere le fila di quanto fin qui detto. L’uomo può decentrarsi, può lanciarsi nell’avventura dell’agire, dell’essere a somiglianza di Dio, con amore e sollecitudine verso il suo prossimo, solo perché sente gravare su di sé il bisogno divino: “Ogni anima è indispensabile per Lui. L’uomo è necessario, è una necessità di Dio … Il bisogno che noi sentiamo di Lui è solo l’eco del bisogno che Egli ha di noi” (p. 112). A questo livello il pathos si offre come strumento di discri-mine tra valori e bisogni, a conferma, ancora una volta, che a di-spetto della sua dimensione emotiva, esso non si riduce a passione, ma implica la volontà, la libertà, il rapporto con Dio.

Il tentativo non facile di “riassumere” il pensiero hescheliano alla luce di un peculiare punto di vista sembra complessivamente riuscito. A suffragare la robustezza dell’analisi è peraltro l’abbon-dante bibliografia (pp. 123-138), inusuale per un libro di modeste dimensioni.

Il contributo ha dunque sortito il fine che si era prefisso, quello di tracciare “un’ipotesi di lavoro”, di lanciare una provocazione al pen-siero occidentale, di far gustare, brevemente ed in modo esaustivo, la ricchezza di un pensiero altro, quello di un “fratello maggiore”. Una via per tentare il dialogo con la grande tradizione ebraica.

Leopoldo Boris Lazzaro [email protected]

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sono abituali nel vocabo-lario della

spiritualità, dell’o-miletica, persino della teologia cri-stiane, alcune em-blematiche sen-tenze del capitolo

9 della prima lettera di Paolo ai Corinzi. Frasi come “Mi sono fatto tutto a tutti per salvare ad ogni costo qualcuno”, “Guai a me se non predicassi il Vangelo!” sono penetrate oramai nella memoria col-lettiva delle nostre comunità di fede, ne hanno intessuto la vita, ne hanno promosso la santità.

Eppure lo svolgimento complessivo e coerente del pensiero pao-lino spesso ci sfugge, non riusciamo ad afferrarlo interamente nel suo svolgersi. Alcune affermazioni paiono addirittura in contrasto con altre. Così ci si aggrappa a singole frasi, a singole espressioni, per-dendo di vista la ricchezza dell’insieme. Per comprendere la teologia dell’Apostolo in tutta la sua profondità è dunque necessario non solo ricostruire l’ambiente storico in cui l’epistolario paolino si formò, la situazione a cui esso intese offrire una risposta (è il giusto cruccio dei fautori del metodo storico-critico in tutte le sue modulazioni); bisogna molto più delinearne la coerenza, la logica argomentativa.

In tale ambito di ricerca, ormai da qualche decennio si sono impe-gnati alcuni specialisti (in primis J.-N. Aletti). Il loro merito è stato quello di mostrare l’organizzazione interna dei discorsi paolini, con-formemente alle categorie retoriche dell’epoca tardo-ellenistica. In questo alveo di indagine si inserisce anche il presente volume, ver-sione leggermente corretta della dissertazione dottorale difesa dallo spagnolo Álvaro Pereira Delgado nel giugno 2009 presso il Ponti-ficio Istituto Biblico di Roma. Il lavoro, compiuto sotto la magistrale

ÁLVARO PeReIRA DeLGADO, De apóstol a esclavo. el exemplum de pablo en

1 corintios 9, anBib 182, G&B press,

roma 2010, pp. 366, e 25,00.

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guida del prof. J.-N. Aletti S.J., appartiene ad un ambito peculiare dell’esegesi paolina, ciò che, nella prefazione, lo stesso Aletti defi-nisce “investigazione retorica di seconda generazione”. Se, infatti, come sopra accennato, negli anni ’90 del secolo scorso molti com-mentatori si cimentarono nell’identificazione della struttura retorica delle lettere paoline (come fece A. Pitta nel 1992, con il suo studio sulla dispositio della lettera ai galati), ora l’attenzione sembra spo-starsi sulla modalità argomentativa impiegata dall’Apostolo per con-vincere il suo uditorio (si pensi alla monografia di F. Bianchini, pub-blicata nel 2006 sempre dalla prestigiosa collana di Analecta Biblica, sulla strategia retorica dell’elogio di sé in Fil 3,1-4,1).

Il presente studio si svolge in modo strettamente tecnico, con con-tinui rimandi alle opere di trattatisti e retori greco-romani, presumi-bilmente noti a Paolo fin dall’epoca dei suoi studi (progymnasmata) presso la prestigiosa scuola di tarso. Eppure il tentativo, apparente-mente arido, di determinare la precisa funzione retorica di un pas-saggio o la valenza di una metafora, mostra ripercussioni significa-tive proprio a livello ermeneutico, nella decifrazione del pensiero cristologico ed etico dell’Apostolo: in altri termini, l’argomenta-zione risulta essere il principale veicolo delle idee. Vale dunque la pena di passare il difficile guado esegetico per far maturare una teo-logia di più ampio respiro a vari livelli: cristologico, etico, spirituale e persino sacramentario, nella comprensione dell’intima essenza del ministero sacerdotale.

ne consegue che il tentativo di capire se 1Cor 9 costituisca un esempio personale di Paolo o piuttosto una apologia dello stesso, se non addirittura una semplice digressione rispetto alla questione sulle carni immolate agli idoli dibattuta in 1Cor 8,1-11,1 – ciò che costi-tuisce il focus dei capitoli I-III della tesi – non pare una questione marginale. Né per gli esperti né per il credente meno avvezzo alle tecniche della moderna esegesi biblica.

Procedendo con una serie di argomentazioni serrate, l’A. mostra come Paolo istituisca un sapiente dialogo con i propri interlocutori. Ricorrendo allo stratagemma retorico delle concessiones e delle cor-rectiones, egli procede a piccoli passi, ammettendo dapprincipio la plausibilità dell’opinione dei cosiddetti “forti” di Corinto per poi correggerla progressivamente (si pensi allo slogan “Tutto è lecito”

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di 6,12, ripreso in 10,23): è certamente lecito mangiare la carne im-molata agli idoli; tuttavia per amore del fratello più debole un simile comportamento può/deve essere abbandonato. All’interno di questa dinamica argomentativa si collocano i due exempla del cap. 9 e di 10,1-13, l’uno dal timbro positivo, l’altro dal timbro negativo, che illuminano rispettivamente i due imperativi di 8,9 (“Badate però che questa vostra libertà non divenga un inciampo per i deboli”) e di 10,14 (“Perciò, o miei cari, fuggite l’idolatria”).

Di fronte allo sguardo dei cristiani di Corinto, Paolo pone dunque se stesso come esempio – lo conferma la conclusione della sezione 8,1-11,1, “Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo” (11,1). In-fatti, l’esempio concreto della sua scelta di vita può aiutare i Corinzi a rileggere le proprie pretese. Anch’egli ha un diritto (exousìa), tanto più grande del loro in quanto egli gode addirittura dei privilegi legati al ministero apostolico (essere mantenuto dalla comunità, condurre presso di sé una sorella, etc.). Egli tuttavia ha rinunciato a tali diritti pur di non porre ostacolo all’Evangelo. Ha lavorato con le proprie mani e ha trovato nell’annuncio della salvezza l’unico suo guadagno. La cosa diventa ancor più paradossale in quanto l’Apostolo non rinuncia soltanto ai diritti legati al ministero, ma amplifica la propria kenosi, parlando di una rinuncia al diritto alla libertà: Paolo, per il Vangelo, si è fatto addirittura schiavo. 1Cor 9 si chiude sottolineando l’orizzonte escatologico entro cui si disegna un simile orientamento etico: bisogna comportarsi come dei buoni atleti, che, per ottenere la corona della vittoria, sono disposti a grandi rinunce (normalmente connesse all’am-bito sessuale e alimentare, proprio come nel caso dei forti di Corinto). Anche a questo livello Paolo si pone come modello: alla maniera dei corridori dell’epoca, egli è fisso su un solo obiettivo, quello della pre-dicazione del Vangelo, e, alla maniera di un pugile, egli fa violenza a se stesso. Allo stesso modo i presunti forti della comunità di Corinto debbono aver di mira l’unico obiettivo della salvezza dei propri fra-telli, anche al costo di privazioni, anche al costo di optare per scelte che apparentemente contrastano con il loro punto di vista (gnosi). Il ricorso all’arte dell’exemplum, pur temperata da alcune affermazioni di difesa e sapientemente scandita dalle motivazioni che sottendono la scelta di Paolo, non vuole solo generare un nuovo comportamento tra i cristiani, vuole molto più mostrare loro una logica superiore, quella dell’amore. Vuole, in altri termini – ed è questa l’acquisizione più volte

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segnalata dall’A. – creare una nuova mentalità, quella annunciata già in 1Cor 2,16 (“Ora noi abbiamo il pensiero di Cristo!”): al di là di ciò che è permesso o non permesso, si impone così l’unico criterio genuino dell’etica cristiana, quello del Vangelo e della salvezza del fratello.

stabilita solidamente l’impalcatura esegetica delle proprie argo-mentazioni, il Pereira può avventurarsi (capp. IV-V) nell’analisi dei principali lessemi e delle metafore impiegati da Paolo in 1Cor 9: che cosa significhi godere di un diritto, in che cosa consista l’ostacolo che può interferire nel dinamismo dell’annuncio, che cosa indichi l’adattamento indiscriminato di Paolo ad interlocutori che proven-gono tanto dal mondo pagano quanto da quello giudaico, quali valori sottendano le metafore dello schiavo e dell’atleta. Così, al crescendo retorico delle argomentazioni, si accompagna un chiaro decrescendo dell’itinerario esistenziale dell’Apostolo, sottolineato proprio dalla semantica di 1Cor 9: Paolo si pone al pari di chi è privo di ogni diritto, si fa schiavo pur di guadagnare qualcuno; egli tenta di rove-sciare il senso di competizione che ancora sopravviveva tra i suoi uditori (la vana-gloria), fino al paradosso della schiavitù, dell’aliena-zione della propria identità, una vera e propria “morte sociale”. Pur non sviscerando fino in fondo la valenza simbolica di espressioni tanto pregnanti, l’A. riesce a delineare la logica persuasiva del lin-guaggio paolino: gli esempi che l’Apostolo offre con tanta dovizia devono illuminare (illustrans) in modo indiretto la realtà concreta (illustrandum) in cui è invischiata la comunità di Corinto ed, al con-tempo, devono indicare una via d’uscita dall’impasse.

Emerge così una sorta di cristologia implicita, poiché il tragitto ke-notico in cui Paolo si avventura riducendosi “da apostolo a schiavo” trova il suo ultimo fondamento in una scelta anteriore a tutte, quella di Cristo che si svuotò di se stesso, rinunciando ai privilegi legati alla propria condizione divina, che si sottomise alla legge, che ac-cettò il patibolo della croce. Conformandosi a Cristo, l’Apostolo ne sposa la logica di abbassamento, di dono di sé per il bene dell’altro, il fratello. Solo perché misticamente coinvolto in questo dinamismo di incessante trasfigurazione kenotica, Paolo può offrirsi agli altri, concretamente, personalmente, come exemplum.

Leopoldo Boris Lazzaro [email protected]

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“Ri n -

novarsi ogni giorno è un’azione di portata eterna. L’anima compie ad ogni minuto, coscientemente o inconsciamente, tra le più soavi

consolazioni e le più aride prove, l’offerta di tutto, assolutamente tutto, a Colui che è la causa e la sorgente di tutto. Questa azione di offerta ci rinnova, perché ci consolida nell’amore più perfetto, che direttamente o indirettamente ci lega all’amore ineffabile di Dio per noi” (p.7).

In questo libro, Padre theodossios maria della Croce ci offre per ogni giorno dell’anno una breve meditazione scelta seguendo i tempi liturgici della Chiesa o in rapporto con il santo del giorno. I testi sono tratti prevalentemente da omelie e da insegnamenti pronunciati dal Padre per i suoi figli spirituali e si rivolgono a quanto di più profondo ogni uomo porta dentro di sé. La parola di P. Theodossios, originale e poetica, parola d’amore e di verità, ci fa entrare in un mondo di luce che ridà vita, speranza e pace alle anime.

Padre theodossios maria della Croce, nato in grecia nel 1909, ha unito nella sua persona la tradizione orientale nella quale era cre-sciuto e quella occidentale che ha amato e abbracciato come sacer-dote della Chiesa cattolica.

Possedeva una vasta cultura e una profonda conoscenza dei cuori, e nei difficili anni dopo il Concilio Vaticano II ha dedicato tutte le forze a infondere nelle anime un rinnovamento nella fedeltà alla grande tradizione della Chiesa. Si è consumato fino all’ultimo re-

PADRe TheODOssIOs MARIA DeLLA CROCe,

Rinnovarsi ogni giorno, premessa del cardinale Mauro

piacenza, Libreria editrice vaticana, città del vaticano 2012,

pp. 444, e 13.

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spiro per la Chiesa per trasmettere a quanti l’avvicinavano l’amore della verità e il desiderio di coerenza.

Si è spento a Bagnoregio (Viterbo) nel 1989, circondato dai suoi Figli e Figlie spirituali della “Fraternità della Santissima Vergine Maria”, da lui fondata.

Abbiamo creduto bene diffondere a livello più ampio i tesori spi-rituali che questi insegnamenti contengono. “Noi tutti siamo qui per rinascere ogni giorno, per essere trasformati, per arrivare rinnovati alla fine della nostra vita e penetrare nell’eternità salvati da Cristo. Questa trasformazione è tutto lo scopo e il mistero della Chiesa” (p.393).

Le Suore della Fraternità della SS.ma Vergine Maria

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PONTIFICIA UNIVERSITÀ LATERANENSECAttEDRA GLORIA CRUCIS

Produzione scientifica

della cattedra Gloria crucis

AA.VV. Memoria Passionis in Stanislas Breton, Edizioni Staurós, S. Gabriele Teramo, 2004.Piero CodA Le sette Parole di Cristo in Croce, Edizioni Staurós, S. Gabriele Teramo, ottobre 2004.Luis diez Merino, CP Il Figlio dell’Uomo nel Vangelo della Passione, Edizioni Staurós, S. Gabriele Teramo, ottobre 2004. MArio CoLLu, CP Il Logos della Croce centro e fonte del Vangelo, Edizioni Staurós, S. Gabriele Teramo, novembre 2004.TiTo di sTefAno, CP Croce e libertà, Edizioni Staurós, S. Gabriele Teramo, dicembre 2004.CArLo Chenis, sdB Croce e arte, Edizioni Staurós, S. Gabriele Teramo, gennaio 2004.AngeLA MAriA LuPo, CP La Croce di Cristo segno definitivo dell’Alleanza tra Dio e l’Uomo, Edizioni Staurós, S. Gabriele Teramo, febbraio 2004.fernAndo TACCone, CP (ed.) Quale volto di Dio rivela il Crocifisso?, Edizioni OCD, Roma Morena, 2006.fernAndo TACCone, CP (ed.) La visione del Dio invisibile nel volto del Crocifisso, Edizioni OCD, Roma Morena, 2008.fernAndo TACCone, CP (ed.) Stima di sé e kenosi, Edizioni OCD, Roma Morena, 2008.fernAndo TACCone, CP (ed.) Croce e identità cristiana di Dio nei primi secoli, Edizioni OCD, Roma Morena, 2009.fernAndo TACCone, CP (a cura) John Henri Newman e Domenico Barberi, in La Sapienza della Croce, Edizioni CIPI, S. Gabriele, n. 4, 2010.fernAndo TACCone, CP (a cura) L’agire sociale alla luce della teologia della Croce, Edizioni OCD, Roma Morena, 2011.fernAndo TACCone, CP (ed.) Persona e croce, Edizioni OCD, Roma Morena, 2011.fernAndo TACCone, CP (ed.) La colpa umana dinanzi al mistero della croce, Edizioni OCD, Roma Morena, 2011.AA.VV. Il Beato Domenico Bàrberi passionista nell’itine- rario di conversione del Card. John Henry Newman, in La Sapienza della Croce, Anno XXV, n. 4, ottobre-dicembre 2010, Edizione CIPI.AA. VV. Emigrazione e multiculturalità: croce su cui morire o risorgere, in La Sapienza della Croce, Anno XXVI, n. 1, gennaio-aprile 2011, Edizione CIPI.AA. VV., Il concetto cristiano di Dio a partire dalla Croce. La fondazione biblica: Dio è amore, in La Sa- pienza della Croce, anno XXVI, n.2, maggio- agosto 2012, Edizione CIPIAA. VV. La sapienza della croce come risposta alla do- manda di senso, in La Sapienza della Croce,

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anno XXVI n.3, settembre-dicembre 2012, Edi zione CIPI.AA. VV. La sapienza della Croce nel pensiero e nella te stimonianza del beato Giovanni Paolo II, in La Sapienza della Croce, anno XXVII n.1, gennaio- aprile (2012), Edizione CIPI.

L’attività scientifica della Cattedra Gloria Crucis è fruibile nel sito www.passio-christi.org alla voce Cattedra Gloria Crucis.La rivista La Sapienza della Croce è anch’essa fruibile nello stesso sito alla voce Sapienza della Croce.

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