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La responsabilità medica 1 *** 1. Premessa: dalla “responsabilità del medico” alla “responsabilità medica”. 2. La condotta dovuta come obbligazione di mezzi. 3. La natura della responsabilità. 4. Il grado della colpa. 4.1. La nozione di “colpa lieve”. 4.2. L’onere della prova. 5. Il nesso causale. 6. Il consenso informato ed il fondamento normativo dell’obbligo di informare. 6.1. Natura e requisiti del consenso. 6.2. Effetti della mancanza di informazione. 6.3. Consenso e capacità. 6.4. L’onere della prova del consenso. 11. Forme della professione e regole di responsabilità. 11.1. Il libero professionista. 12. Il medico convenzionato. 13. Il medico dipendente di struttura privata. 13.1. La responsabilità della casa di cura privata. 14. Il medico dipendente di struttura pubblica. 14.1. Medici in posizione apicale (primari) e medici subordinati (aiuti). 14.2. La responsabilità della struttura sanitaria pubblica. 14.3. La responsabilità delle disciolte USL. 14.4. L’azione di rivalsa della p.a.. 1 Tratto da “La responsabilità civile - CD-Rom”, IPSOA, Milano, n. 2/2009. Pagina 1 di 68

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La responsabilità medica1

***1. Premessa: dalla “responsabilità del medico” alla “responsabilità medica”. 2. La condotta dovuta come obbligazione di mezzi. 3. La natura della responsabilità. 4. Il grado della colpa.

4.1. La nozione di “colpa lieve”. 4.2. L’onere della prova.

5. Il nesso causale.6. Il consenso informato ed il fondamento normativo dell’obbligo di informare.

6.1. Natura e requisiti del consenso. 6.2. Effetti della mancanza di informazione. 6.3. Consenso e capacità. 6.4. L’onere della prova del consenso.

11. Forme della professione e regole di responsabilità. 11.1. Il libero professionista. 12. Il medico convenzionato. 13. Il medico dipendente di struttura privata.

13.1. La responsabilità della casa di cura privata.14. Il medico dipendente di struttura pubblica.

14.1. Medici in posizione apicale (primari) e medici subordinati (aiuti). 14.2. La responsabilità della struttura sanitaria pubblica. 14.3. La responsabilità delle disciolte USL.14.4. L’azione di rivalsa della p.a..

1 Tratto da “La responsabilità civile - CD-Rom”, IPSOA, Milano, n. 2/2009.

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1. Dalla “responsabilità del medico” alla “responsabilità medica”.Probabilmente non esiste altra categoria professionale oltre quella dei

medici, che negli ultimi 15 anni abbia visto modificarsi così

profondamente sia le regole che presiedono all’esercizio della relativa

professione; sia le norme che disciplinano la relativa responsabilità. Non

è, quindi, in errore chi ha osservato che nella borsa del diritto il titolo

“responsabilità del medico” è segnalato in forte e costante rialzo

(Palmieri, Relazione medico-paziente tra consenso «globale» e

responsabilità del professionista, in Foro it. 1997, I, 772). In particolare,

gli ultimi anni hanno visto una crescita vertiginosa (sulla quale, però,

mancano allo stato dati precisi) delle domande di risarcimento per danni

causati al paziente da una condotta colposa del medico; sono

conseguentemente aumentate le pronunce di condanna nei confronti di

medici; è letteralmente “esplosa” l’attenzione della dottrina verso questo

fenomeno (tra le opere ed i contributi più recenti si segnalano Alpa, La

responsabilità medica, in Resp. civ. prev., 1999, 315; STANZIONE e

ZAMBRANO, Attività sanitaria e responsabilità civile, Milano, 1998;

Iamiceli, La r.c. del medico, in Cendon (a cura di), La responsabilità civile,

VI, Torino 1998, 309; BARNI, Diritti-doveri, responsabilità del medico -

Dalla bioetica al biodiritto, Milano, 1998; Alpa-Bessone (a cura di), La

responsabilità civile-Aggiornamento 1988-1996, Torino 1997, II, 781;

CASTRONOVO, Profili della responsabilità medica, in Vita not., 1997,

1222; BASILE, Spunti di riflessione sul tema della responsabilità

professionale del medico, in Dir. ed economia assicuraz., 1996, 275;

BELLELLI, Codice di deontologia medica e tutela del paziente, in Riv. dir.

civ., 1995, II, 577).

Le principali concause di questo fenomeno sono state individuate dalla

dottrina:

(a) in una più consapevole presa di coscienza dei propri diritti da parte

degli utenti del servizio "sanità";

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(b) nell'attività di sensibilizzazione compiuta dalle associazioni di difesa

dei diritti del malato;

(c) nell'accresciuta scolarizzazione della popolazione;

(d) nell'evoluzione dei mezzi di cura e diagnosi, che hanno sia consentito

un più approfondito controllo ab extemo sull'attività del medico, sia

l’esposizione di quest’ultimo al rischio derivante dal controllo e dal

governo di strumentazioni assai sofisticate;

(e) nell'evoluzione significativa del concetto e delle funzioni della

“responsabilità civile", la quale, da criterio di riparto delle conseguenze

sfavorevoli di un evento dannoso, è andata assumendo la natura di

strumento di allocazione delle risorse del sistema (Rodotà, Tecnologie e

diritto, Bologna, 1995; Idem, Modelli e funzioni della responsabilità civile,

in Riv. crit. dir. priv., 1984, 595; Corsaro, Responsabilità civile - Diritto

civile, in Enc. giur., XXVI, Roma, 1991, 1; Busnelli, La parabola della

responsabilità civile, in Riv. crit. dir. priv., 1988, 649).

La particolarità del fenomeno ora descritto non si limita, però, ad una

semplice crescita del numero di controversie giudiziali nelle quali si

invoca una colpa professionale del medico. L’altro aspetto assolutamente

evidente del fenomeno è rappresentato da un mutato atteggiamento della

giurisprudenza, la quale sembra quasi avere elaborato regole

ermeneutiche ad hoc per la responsabilità del medico (in tema di

concorso della responsabilità aquiliana con quella contrattuale; in tema di

riparto dell’onere della prova; in tema di applicazione della esimente di cui

all’art. 2236 c.c.; in tema di accertamento del nesso causale tra condotta

colposa ed evento di danno).

E’ questo il motivo per cui vari autori hanno insistito sulla esigenza che la

responsabilità del medico debba essere tenuta distinta dalla analoga

responsabilità degli altri professionisti. Non di “responsabilità del medico”

occorrerebbe, dunque, parlare, ma di “responsabilità medica”, concepita

come un vero e proprio “sottosistema” della responsabilità civile (Alpa,

La responsabilità medica, in Resp. civ. prev., 1999, 316; Liguori, La

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responsabilità civile medica, in Sub iudice, Atti del convegno tenuto a

Rimini l’8-11 ottobre 1997, Pisa, 1998, 63; De Matteis, La responsabilità

medica. Un sottosistema della responsabilità civile, Padova, 1995).

All’analisi degli aspetti che maggiormente differenziano questo

sottosistema, rispetto alla ordinaria responsabilità del professionista,

saranno dedicate le pagine seguenti.

2. La condotta dovuta come obbligazione di mezzi.Contestata, abbandonata, confutata dalla dottrina (per una eco della

discussione si veda DE LORENZI, Obbligazioni di mezzi e obbligazioni di

risultato, in Digesto civ., Torino, 1995, XII, 397), la distinzione tra

obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato continua ad essere

accolta ed applicata dalla giurisprudenza: si vedano, ad esempio, nella

giurisprudenza di legittimità, Cass., sez. II, 27-05-1997, n. 4704, in Foro

it., 1997, I, 2078, con riferimento al contratto di prestazione d’opera

professionale dell’ingegnere; Cass., sez. II, 18-06-1996, n. 5617, in Foro

it. Rep. 1996, voce Procedimento civile, n. 116, con riferimento al

contratto di prestazione d’opera professionale dell’avvocato (la

giurisprudenza di legittimità è, sul punto, copiosissima: si vedano anche,

in senso conforme, Cass., 07-05-1988, n. 3389, in Dir. e pratica assic.,

1989, 497; Cass., 18-05-1988, n. 3463, in Corriere giur., 1988, 989.

La distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultati è altresì

recepita dalla giurisprudenza di merito assolutamente prevalente: si

vedano, al riguardo, Pret. Fermo, 16-04-1997, in Dir. e lav. Marche, 1997,

245, con riferimento al contratto di agenzia; App. Venezia, 24-12-1996, in

Foro pad., 1998, I, 50, con riferimento al contratto di prestazione d’opera

professionale dell’ingegnere; Pret. Torino, 12-04-1996, in Orient. giur.

lav., 1998, I, 474, con riferimento al contratto di lavoro subordinato; Trib.

Milano, 22-06-1995, in Giur. it., 1996, I, 2, 258, con riferimento alla lettera

di patronage; Trib. Roma, 09-12-1991, in Giust. civ., 1992, I, 1355, con

riferimento ai contratti bancari di gestione titoli.

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Nell’ambito della distinzione in esame, l’obbligazione assunta dal medico

nei confronti del paziente viene sussunta nelle obbligazioni di mezzi, e

non di risultato, al pari di tutte le altre prestazioni professionali (Cass.,

sez. III, 25-11-1994, n. 10014, in Foro it., 1995, I, 2913; Trib. Forlì, 29-03-

1996, in Riv. it. medicina legale, 1996, 1232; Trib. Napoli, 15-02-1995, in

Foro nap., 1996, 76; Trib. Trieste, 14-04-1994, in Resp. civ., 1994, 768).

Una eccezione a questa regola è stata ammessa dalla S.C. in tema di

chirurgia estetica: in questi casi, ferma restando la configurabilità

dell’obbligazione del medico quale obbligazione di risultato, è ammissibile

che sia il professionista stesso ad assumere l’obbligo di garantire un

risultato, inteso però non come dato assoluto, ma da valutare con

riferimento alla situazione pregressa ed alle obiettive possibilità

consentite dal progresso raggiunto dalle tecniche operatorie (Cass., sez.

III, 25-11-1994, n. 10014, in Foro it., 1995, I, 2913).

Tuttavia sia parte della dottrina, sia parte della giurisprudenza di merito,

tendono a superare l’impostazione tradizionale, ritenendo che in taluni

casi l’obbligazione del medico possa ritenersi di risultato anche quando il

professionista non abbia assunto alcuna garanzia in tal senso: cioè

avverrebbe, secondo queste tesi estreme:

(a) quando “l’esito della cura [non] rimane al di fuori delle possibilità di

controllo del medico” (così Ferrando, Consenso informato del paziente e

responsabilità del medico, principi, problemi e linee di tendenza, in Riv.

crit. dir. priv., 1998, 41);

(b) nel caso di interventi di chirurgia estetica, salva diversa pattuizione

delle parti (Trib. Roma, 01-06-2001, in Giurisprudenza romana, 2001,

354; Pret. Roma 17.12.1998, ivi, 1999, 239; Trib. Roma 15.1.1998, ivi,

1998, 186; Trib. Roma, 23-12-1996, in Arch. civ., 1997, 178; Trib. Roma,

05-10-1996, in Giurispr. romana, 1997, 9);

(c) nel caso di interventi assolutamente rutinari (Trib. Roma 1.3.2006,

Giorgi c. Sterpetti, inedita).

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3. La natura della responsabilità.Stabilire se l’inadempimento della prestazione dovuta dal medico dia

luogo a responsabilità contrattuale od aquiliana ha dato luogo a numerosi

contrasti in giurisprudenza. Nelle decisioni meno recenti vi è addirittura

eco delle tesi le quali escludevano che il rapporto tra medico e paziente

potesse essere configurato quale locatio operis, motivando con “la

superiorità del lavoro intellettuale sul lavoro materiale” (cfr. App. Milano

22.9.1925, in Foro it. 1926, I, 206; nella medesima decisione,

significativamente, la responsabilità del medico viene ritenuta di natura

extracontrattuale, e fondata sull’art. 1151 c.c. del 1865, corrispondente

all’attuale art. 2043 c.c.).

La Corte di cassazione non ha mai abbracciato tesi così estreme (o

arcaiche). Sin dai primi decenni del secolo, i giudici di legittimità non

avevano alcuna difficoltà ad ammettere che il rapporto medico-paziente

potesse configurarsi come un rapporto contrattuale. Già Cass.

22.12.1925, in Giur. it. 1926, I, 1, 537, ad esempio, affermava

espressamente che “nei rapporti tra l’operatore e l’infermo si stabilisce un

contratto di locazione d’opera, in forza del quale l’operatore assume

l’obbligazione di usare ogni cura per raggiungere la guarigione

dell’infermo e di adottare le cautele opportune a prevenire qualsiasi

sinistro”.

La giurisprudenza di legittimità, unanime e costante nel ritenere che la

responsabilità del medico libero professionista avesse natura

contrattuale, si era invece divisa - sino a non molto tempo fa -

nell’individuare la natura della responsabilità del medico che avesse agito

quale dipendente della pubblica amministrazione.

Secondo un primo orientamento, tale responsabilità doveva ritenersi

aquiliana, in quanto il contratto di cura viene stipulato tra ente ospedaliero

e paziente, mentre nessun vincolo contrattuale viene posto in essere tra

quest’ultimo ed il medico (Cass., 26-03-1990, n. 2428, in Giur. it., 1991, I,

1, 600; Cass., sez. III, 13-03-1998, n. 2750, in Foro it., 1998, I, 3521).

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Vi era però anche un secondo orientamento, secondo il quale la

responsabilità dell’ente pubblico verso il paziente, nel caso di danno

causato dal medico pubblico dipendente, ha natura contrattuale. Di

conseguenza, per effetto della disposizione di cui all’art. 28 Cost., anche

la responsabilità del medico deve essere ritenuta di natura contrattuale,

perché anch’essa, al pari di quella dell’ente, ha radice nell'esecuzione

non diligente di una prestazione sanitaria (Cass., sez. III, 27-05-1993, n.

5939, in Foro it. Rep. 1993, voce Professioni intellettuali, n. 114; Cass.,

01-02-1991, n. 977, in Giur. it., 1991, I, 1, 1379; Cass., 01-03-1988, n.

2144, in Foro it., 1988, I, 2296).

La cosa singolare di questo contrasto giurisprudenziale è che i due filoni

contrastanti, pur essendo sorti all’interno della medesima sezione della

S.C. (la III), si ignoravano completamente.

Il contrasto è stato recentemente composto da una decisione, dottamente

motivata, nella quale la Corte ha messo in evidenza i limiti dei due

orientamenti appena descritti.

Alla tesi della natura extracontrattuale è stato obiettato che il medico non

può essere equiparato, quanto al regime della responsabilità, ad un

qualsiasi “terzo” che con la propria condotta abbia inciso sulla sfera

giuridica del paziente. Infatti tra medico (sebbene pubblico dipendente) e

paziente si instaura pur sempre un "rapporto", in virtù del quale il paziente

si affida alle cure del medico ed il medico accetta di prestargliele.

Alla tesi della natura contrattuale, d’altro canto, è stato obiettato che il

richiamo all’art. 28 cost. è insufficiente a dirimere la questione della

natura della responsabilità del medico pubblico dipendente. Tale norma,

infatti, statuisce sull’an respondeatur, ma non sul quomodo respondeatur,

che è stabilito dalle norme ordinarie, le quali giustappunto prevedono sia

la responsabilità aquiliana (art. 2043 c.c.), sia quella contrattuale (art.

1218 c.c.).

La conclusione cui è pervenuta la S.C. è che il rapporto tra medico

pubblico dipendente e paziente, pur non scaturendo formalmente da

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alcun contratto (che, se mai, viene stipulato tra l’ente ospedaliero, o la

A.S.L., ed il paziente stesso), nei fatti si atteggia però come un vero e

proprio rapporto giuridico, nel quale ciascuna delle parti vanta diritti ed

obblighi nei confronti dell’altra. In particolare, è stato rettamente

osservato che il medico pubblico dipendente non è soggetto soltanto

all’obbligo del neminem laedere, cioè di astenersi dall’incidere nell’altrui

sfera giuridica. Al contrario, al medico pubblico dipendente la coscienza

sociale e l’ordinamento giuridico richiedono di attivarsi, sino al limite

dell’apprezzabile sacrificio, per mettere a disposizione del paziente la

propria competenza professionale. Ciò vuol dire che la prestazione del

medico verso il paziente, vi sia o non vi sia stata tra i due la formale

stipulazione di un contratto, resta di identico contenuto, e ha ad oggetto

non il mero astenersi da una condotta lesiva, ma l’obbligo di compiere un

facere infungibile. Dalla identicità di prestazione la Corte fa discendere la

necessaria identicità di disciplina, concludendo che anche il medico

pubblico dipendente, nel caso di colpa professionale, possa essere

chiamato a rispondere del danno a titolo di responsabilità contrattuale

(Cass. 22.1.1999 n. 589, in Corr. giur., 1999, 441, con nota di Di Majo,

L’obbligazione senza prestazione approda in cassazione).

4. Il grado della colpa.Anche il medico, come qualsiasi altro soggetto, non può essere chiamato

a rispondere del danno causato, se questo non sia stato commesso con

dolo o colpa. Anzi, in teoria, la responsabilità del medico - come quella di

qualsiasi altro libero professionista - è attenuata dal disposto dell’art.

2236 c.c., in virtù del quale “se la prestazione implica la soluzione di

problemi tecnici di speciale difficoltà”, il professionista risponde soltanto

se versa in colpa grave.

Si è detto “in teoria”, in quanto l’elaborazione giurisprudenziale degli ultimi

anni ha, di fatto, fortemente ridotto la portata dell’art. 2236 c.c., operando

con lo strumento delle presunzioni semplici (art. 2727 c.c.).

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Questo aspetto è molto importante e deve essere esaminato con

attenzione.

Sino alla fine degli anni ’80 la giurisprudenza riproduceva nelle proprie

sentenze - forse inconsciamente - una concezione assai diffusa nell’idem

sentire comune: quella secondo cui, nel rapporto tra medico e paziente, il

vero dominus doveva essere considerato il primo: era il primo a scegliere

la terapia; era il primo a stabilire cosa rivelare e cosa no al paziente, per il

bene (presunto) di quest’ultimo; era il medico a decidere se e quando

intervenire. La Cassazione era infatti solita ritenere che “la responsabilità

viene meno, perché manca la colpa, laddove si è nel campo della dottrina

e delle opinioni disputabili, ed il medico ha seco la presunzione di

capacità nascente dalla laurea”; e che di conseguenza “la responsabilità

del medico deve affermarsi (…) per tutti quegli errori che si dimostri che

si potevano evitare qualora avesse agito con maggiore diligenza e

migliore attenzione e che attestino una ignoranza od imperizia non

scusabili nell'esercizio della professione (…). La colpa sarà stabilita non

solo coi comuni criteri con cui la pratica giudica le azioni umane ordinarie

dei profani, ma eziandio alla stregua delle cognizioni scientifiche: però in

questo caso dovrà consistere nella trascuranza di canoni fondamentali od

elementari della medicina” (Cass. 22.12.1925, in Giur. it. 1926, I, 1, 537).

In altri termini, la concezione a lungo imperante vedeva il medico -

ripetesi, al pari di qualsiasi altro professionista - quasi depositario di un

arcano sapere, il cui esercizio (od il cui mancato esercizio) era

sindacabile soltanto se infirmato da errori grossolani, evidenti, madornali.

Questo assetto interpretativo, conservatosi a lungo, negli ultimi tempi ha

subìto profondi cambiamenti.

In primo luogo, il giudice di legittimità ha ritenuto che la portata mitigatrice

dell’art. 2236 c.c. non si estende ad ogni ipotesi di colpa professionale,

ma solo alle ipotesi di colpa consistita nell’imperizia. Quando, invece, la

cattiva riuscita della prestazione sia dovuta a imprudenza o negligenza, la

limitazione di cui all’art. 2236 c.c. non opera, ed il medico risponderà

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anche solo per colpa lieve. In questo senso si veda, tra le tante, Cass.

pen. 23-08-1994, in Mass. Cass. pen., 1995, fasc. 2, 118, secondo la

quale “in materia di colpa professionale del medico, quando l'evento

venga addebitato a titolo di imperizia, la valutazione del giudice deve

essere particolarmente larga nel ristretto ambito della colpa grave;

mentre se l'addebito si concreta in una condotta imprudente o negligente

la valutazione del giudice deve essere effettuata nell'ambito della colpa

lieve per la omissione della più comune diligenza rapportata al grado

medio di cultura e capacità professionale, secondo i criteri normali e di

comune applicazione, valevoli per qualsiasi condotta colposa”.

Anche la cassazione civile è dello stesso avviso: si veda, ad esempio,

Cass. 18.11.1997 n. 11440, in Riv. giur. circ. trasp. 1998, 67, secondo cui

“il medico chirurgo chiamato a risolvere un caso di particolare

complessità, il quale cagioni al paziente un danno a causa della propria

imperizia, è responsabile solo se versa in dolo od in colpa grave, ai sensi

dell’art. 2236 c.c.. Tale limitazione di responsabilità invece, anche nel

caso di interventi particolarmente difficili, non sussiste con riferimento ai

danni causati per negligenza od imprudenza, dei quali il medico risponde

in ogni caso” (nello stesso senso, Cass., sez. II, 28-03-1994, n. 3023, in

Foro it. Rep. 1994, voce Professioni intellettuali, n. 111; Cass., sez. III,

08-07-1994, n. 6464, in Foro it. Rep. 1994, voce Professioni intellettuali,

n. 109).

La S.C. è pervenuta a questa conclusione osservando che se la colpa è

consistita in una mancanza di perizia, l’esame non può essere

necessariamente “rigoroso”, in quanto il giudice deve tener conto che la

patologia è sempre condizionata, nelle sue manifestazioni concrete, dalla

individualità biologica del paziente; che i dati nosologici non sono tassativi

e che è sempre possibile un errore di apprezzamento dei riscontri clinici,

sicché il giudizio diagnostico può, con frequenza, risultare errato. Di

conseguenza, se il medico è stato imperito, egli risponde soltanto se versi

in colpa grave (a meno che, come si dirà più avanti, l’intervento non fosse

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routinario o di facile esecuzione (così Cass., sez. III, 18-11-1997, n.

11440, cit.). Se, invece, la colpa è consistita in una mancanza di

diligenza, l’esame deve essere particolarmente rigoroso, perché la tutela

della salute, che viene affidata al medico, impone a questi l’esercizio della

massima attenzione (Cass., 11-07-1980, imp. De Lilla, in Riv. pen., 1981,

283).

L’art. 2236 c.c. è stato poi ritenuto inapplicabile - oltre che nei casi di

colpa per imprudenza o negligenza - anche nelle ipotesi di interventi

routinari o di facile esecuzione. A tale conclusione la giurisprudenza è

pervenuta sulla base della lettera dell’art. 2236 c.c., il quale fa riferimento

appunto all’esistenza di “problemi tecnici di speciale difficoltà”, di norma

insussistenti nel caso di interventi routinari.

L’art. 2236 c.c. si applica quindi soltanto se il caso affidato al medico sia

di particolare complessità, o perche' non ancora sperimentato e studiato

a sufficienza o perche' non ancora dibattuto con riferimento ai metodi

terapeutici da seguire (Cass., sez. III, 11-04-1995, n. 4152, in Foro it.

Rep. 1995, voce Professioni intellettuali, n. 168; Cass. 26.3.1990 n. 2428,

in Foro it. Rep., 1990, voce Professioni intellettuali, n. 113).

In ogni caso, il paziente che alleghi di aver patito un danno alla salute in

conseguenza dell'attività professionale del medico, ovvero di non avere

conseguito alcun miglioramento delle proprie condizioni di salute

nonostante l'intervento del medico, deve provare unicamente l'esistenza

del rapporto col sanitario e l'insuccesso dell'intervento, e ciò anche

quando l'intervento sia stato di speciale difficoltà, in quanto l'esonero di

responsabilità di cui all'art. 2236 cod. civ. non incide sui criteri di riparto

dell'onere della prova. Costituisce, invece, onere del medico, per evitare

la condanna in sede risarcitoria, provare che l'insuccesso dell'intervento è

dipeso da fattori indipendenti dalla propria volontà e tale prova va fornita

dimostrando di aver osservato nell'esecuzione della prestazione sanitaria

la diligenza normalmente esigibile da un medico in possesso del

medesimo grado di specializzazione (Cass. 8.10.2008 n. 24791).

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Le distinzioni operate dalla S.C. possono essere organizzate nella

seguente tabella:

Grado della colpa necessario per una pronuncia di condanna

Intervento complesso Intervento routinarioColpa per imperizia grave lieve

Colpa per negligenza lieve lieve

Come si nota, il medico è sempre tenuto anche soltanto per colpa lieve,

ad eccezione dell’ipotesi in cui sia chiamato a compiere un intervento

complesso, ed il danno sia stato arrecato non per negligenza od

imprudenza, ma per imperizia.

4.1. La nozione di “colpa lieve”. Nel caso di intervento complesso, nel corso del quale il medico arrechi un

danno per imperizia, la responsabilità del sanitario è esclusa qualora egli

versi in colpa lieve. Tuttavia non sempre è agevole distinguere la colpa

lieve da quella grave.

La dottrina, da tempo, ha messo in evidenza il carattere relativistico della

nozione di colpa: in essa è implicito un venir meno, una manchevolezza,

un deviare rispetto ad una regola prestabilita. Questa regola può essere

una norma giuridica od anche una norma di condotta, variabile in

funzione delle circostanze di tempo, di luogo e di persona: di talché lo

sforzo dell’interprete si riduce, di volta in volta, a delineare quale avrebbe

potuto essere, nel caso concreto, il “modello” astratto cui l’autore

dell’illecito avrebbe dovuto uniformarsi (così Forchielli, Colpa – I) Diritto

civile, in Enc. giur., Roma 1988, VI, 3-4).

In tema di colpa medica occorre ricordare che l’art. 1176, comma

secondo, c.c., esige da chi deve adempiere una obbligazione inerente

l’esercizio d’una prestazione professionale una diligenza proporzionata

alla natura dell’attività esercitata. L’intensità della colpa del medico va

pertanto valutata con riferimento non al generico modello del bonus

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paterfamilias, ovvero dell’uomo coscienzioso e diligente, ma con

riferimento al modello astratto del professionista diligente. Non è possibile

ovviamente stabilire a priori quale sia il modello astratto del bonus

medicus o del bonus vulnerarius, ma utili elementi possono essere offerti

dalla analisi sistematica della giurisprudenza.

Dal punto di vista teorico, la nozione di “colpa lieve” è stata ben scolpita

da Cass., 22-02-1988, n. 1847, in Arch. civ., 1988, 684, la quale ha

affermato che versa in colpa lieve il medico che, di fronte ad un caso

ordinario, non abbia osservato, per inadeguatezza od incompletezza della

preparazione professionale, ovvero per omissione della media diligenza,

quelle regole precise che siano acquisite, per comune consenso e

consolidata sperimentazione, alla scienza ed alla pratica, e, quindi,

costituiscano il necessario corredo del professionista che si dedichi ad un

determinato settore della medicina.

Non si deve tuttavia pensare che versi in colpa lieve soltanto il medico

che non si attenga alle comuni regole della scienza e della pratica. Può

versare in colpa anche il medico che non si aggiorni o non si sia

aggiornato; quello che abbia sovrastimato le proprie capacità; quello che

abbia omesso di informare il paziente anche degli aspetti o dei rischi

secondari dell’operazione (una affermazione recisa di tale ultimo obbligo

è stata compiuta dai giudici d’oltralpe, i quali hanno ritenuto che il medico

non è dispensato dall’obbligo di informazione per il solo fatto che il rischio

si verifichi soltanto eccezionalmente: Cour de cass., 7.10.1998, 97-

10.267, in Recueil Dalloz, 1999, 144).

Da un punto di vista pratico l’esame delle singole fattispecie sottoposte

all’esame della S.C. rivela come la nostra giurisprudenza sia per lo più

propensa a ritenere sussistente la colpa grave del medico convenuto. Si

direbbe, in altri termini, che delle due l’una: o la domanda di risarcimento

nei confronti del medico viene rigettata; o se, viene accolta, il giudizio di

responsabilità si fonda sulla colpa grave, e quasi mai sulla colpa lieve.

Così, ad esempio, è stato ritenuto in colpa grave:

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-) il medico che abbia somministrato un anestetico locale, rivelatosi poi

letale per il paziente, senza previamente eseguire alcun previo

accertamento sulle condizioni del paziente stesso (Cass., 01-03-1988, n.

2144, in Foro it., 1988, I, 2296);

-) il medico specializzato in ortopedia per avere affrontato, con esito

negativo, un intervento di alta neurochirurgia (Cass. 26.3.1990 n. 2428, in

foro it. Rep., 1990, voce Professioni intellettuali, n. 113);

-) il medico che abbia omesso di informare una donna sul possibile esito

negativo dell’intervento abortivo cui si era sottoposta, in un caso in cui la

paziente, dopo l’intervento, aveva volontariamente abbandonato

l’ospedale (Cass., sez. III, 08-07-1994, n. 6464, in Corriere giur., 1995,

91, con nota di Batà);

-) il medico che, nell’esecuzione di un trattamento chirurgico di riduzione

di una lussazione dell’anca e di frattura femorale, con rimozione dei

frammenti articolari, abbia lasciato libero nella cavità acetabolare un

frammento osseo della testa femorale (Cass., sez. III, 11-04-1995, n.

4152, in Enti pubblici, 1996, 908);

-) il medico che abbia omesso di rilevare una frattura del femore (Cass.,

sez. III, 12-08-1995, n. 8845, in Foro it. Rep. 1995, voce Professioni

intellettuali, n. 170);

-) il medico primario che, pur essendo in ferie, abbia ritardato un

intervento indifferibile, causando un danno al paziente (C. conti

20.9.1996, n. 100/A, in Riv. corte conti, 1997, fasc. 2, 103);

-) il medico che, chiamato ad intervenire chirurgicamente su una

tumefazione al seno, decida di asportare l’intera ghiandola mammaria

senza previamente eseguire un esame istologico intraoperatorio (Cass.

2.12.1998 n. 12233, inedita).

4.2. L’onere della prova.Si è visto dunque che il giudice di legittimità ha operato in materia di

responsabilità del medico, una tripartizione:

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a) per l’insuccesso di interventi e prestazioni routinari, il medico risponde

anche se versa soltanto in colpa lieve;

b) per l’insuccesso di interventi e prestazioni non routinari, il medico

risponde solo se versa in colpa grave;

c) per l’insuccesso di interventi e prestazioni non routinari, il medico

risponde anche se versa soltanto in colpa lieve, qualora la colpa sia

consistita in negligenza od imprudenza.

Come si ripartisce, nelle varie ipotesi, l’onere della prova tra medico e

paziente?

In passato, la giurisprudenza del giudice di legittimità distingueva due

ipotesi:

(A) se l’intervento è routinario, il fatto stesso che non sia riuscito pone a

carico del medico una presunzione de facto di imperizia (si ricordi che la

presunzione semplice è il fatto noto dal quale il giudice, con una

deduzione logica, risale ad un fatto ignoto (art. 2727 c.c.), secondo il

principio res ipsa loquitur.

Pertanto in questi casi:

(a’) il paziente ha l’onere di provare soltanto la routinarietà

dell’intervento;

(a’’) sarà il medico, se vuole andare assolto, a dover provare che

l’insuccesso va ascritto a complicazioni imprevedibilmente insorte.

(B) Se l’intervento è complesso, il fatto che non sia riuscito non è idoneo

a far ritenere imperito il medico. Pertanto:

(b’) il medico ha soltanto l’onere di provare la complessità

dell’intervento;

(b’’) sarà il paziente, se vuole ottenere la condanna del medico, a

dover provare che, nonostante la complessità dell’intervento,

l’insuccesso va ascritto ad una banale imprudenza o negligenza del

medico.

Le sentenze in questo senso sono state numerose e sempre conformi: si

vedano, tra le ultime, Cass. 21.7.2003 n. 11316; Cass. 16-11-1988 n.

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6220, in Foro it. Mass., 1988; Cass. 16-11-1993 n. 11287, in Foro it.

Mass., 1993; Cass. 18-10-1994 n. 8470, in Foro it. Mass., 1994; Cass.

30.5.1996 n. 5005, in Foro it. Mass. 1996.

Questo orientamento è stato tuttavia ormai abbandonato.

Ed infatti, in seguito all’intervento delle Sezioni Unite, si è stabilito che

colui il quale lamenta l'inadempimento di una obbligazione contrattuale

deve soltanto dimostrare l'esistenza e l’efficacia del contratto, mentre è

onere del convenuto dimostrare o di avere adempiuto, ovvero che

l'inadempimento non è dipeso da propria colpa (cfr., da ultimo, Cass. sez.

un. 30.10.2001 n. 13533, in Dir. e giust., 2001, fasc. 42, 26).

Tali princìpi trovano applicazione anche nell’ipotesi di responsabilità

professionale del medico. In questi casi, è dunque onere del medico

dimostrare che il danno non sussiste, ovvero non è dipeso da propria

colpa (ex permultis, Cass. sez. un. 11.1.2008 n. 577; Cass., sez. III, 23-

05-2001, n. 7027, in Danno e resp., 2001, 1165; Cass., sez. III, 06-10-

1997, n. 9705, in Giust. civ., 1998, I, 424; nonché, per la giurisprudenza

di merito, ex multis, Trib. Roma 30.11.2003, Plaitano c. Toscana, inedita;

Trib. Roma 30.6.2003, Felix c. Marcorelli, inedita; Trib. Roma 1.8.2003,

Nardozi c. Diotallevi, inedita).

Per effetto del nuovo orientamento, il paziente che agisce in giudizio

deducendo l'inesatto adempimento dell'obbligazione sanitaria deve

provare il contratto e allegare l'inadempimento del professionista,

restando a carico di quest’ultimo l'onere di provare l'esatto adempimento,

con la conseguenza che la distinzione tra prestazione di facile

esecuzione e prestazione implicante la soluzione di problemi tecnici di

particolare difficoltà rileva soltanto per la valutazione del grado di

diligenza e del corrispondente grado di colpa, restando comunque a

carico del sanitario la prova che la prestazione era di particolare difficoltà

(Cass. sez. un. 11.1.2008 n. 577; Cass. 9.11.2006 n. 23918; Cass.

31.7.2006 n. 17306; Cass. 24.5.2006 n. 12362).

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Una considerazione a parte merita l’ipotesi in cui il medico ha garantito al

paziente il conseguimento di un determinato risultato. Infatti nel contratto

avente ad oggetto una prestazione di chirurgia estetica (ma il principio

può certamente estendersi anche a settori diversi dalla chirurgia estetica:

si pensi agli interventi di eliminazione della miopia con terapia laser), il

sanitario può assumere una semplice obbligazione di mezzi, ovvero

anche una obbligazione di risultato, da intendersi quest'ultimo non come

dato assoluto ma da valutare con riferimento alla situazione pregressa ed

alle obiettive possibilità consentite dal progresso raggiunto dalle tecniche

operatorie (Cass. 25-11-1994 n. 10014, in Foro it., 1995, I, 2913). In

questi casi, il sanitario è responsabile nei confronti del cliente per

l’omesso conseguimento del risultato promesso, ma l’onere di provare

che il sanitario aveva garantito il risultato incombe sul paziente (Cass.

10014/94, cit.).

5. Il nesso causale.Anche l’accertamento del nesso causale, in tema di responsabilità

medica, soggiace a regole particolari di matrice giurisprudenziale.

La particolarità dell’accertamento del nesso causale, nell’ipotesi di colpa

medica, consiste nel fatto che, per potere affermare la responsabilità del

sanitario, è necessario accertare che, se il medico avesse tenuto il

comportamento alternativo corretto, il paziente non avrebbe subito

pregiudizi (avrebbe, cioè, evitato la morte o il danno alla salute).

Sui criteri di accertamento di tale nesso causale si registra tuttavia un

contrasto tra le sezioni penali e quelle civili della S.C..

Le Sezioni Unite penali della Cassazione, componendo il precedente

contrasto relativo ai criteri di accertamento del nesso di causalità tra

l'omissione del medico e l'esito infausto della malattia, hanno ritenuto non

condivisibile quell’orientamento che, in tema di responsabilità per omessa

diagnosi, si richiamava alla nozione di “serie ed apprezzabili possibilità di

successo” (Cass. sez. un. 11.9.2002 n. 30328, in Dir. e giust. 2002, fasc.

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35, 21, con nota di Pezzella, Colpa medica e nesso di causalità nel reato

omissivo improprio).

Secondo la tesi accolta dalle sezioni unite penali (che spiega i propri

effetti anche in tema di responsabilità aquiliana, posto che le regole di cui

agli artt. 40 e 41 c.p. disciplinano il principio di causalità tanto in materia

penale quanto in materia civile), in tema di accertamento del nesso

causale tra colpa medica per omissione e danno risarcibile si dovrà fare

ricorso a criteri logici che possono essere così riassunti:

(a) per quanto attiene all’accertamento del nesso causale tra omissione e

danno, resta valido il ricorso al “giudizio controfattuale”, ossia a quella

particolare astrazione consistente nell’ipotizzare quali sarebbero state le

conseguenze della condotta alternativa corretta omessa dal medico;

(b) per quanto attiene al grado di probabilità, in base al quale stabilire

astrattamente se l’effettuazione della condotta omessa avrebbe sortito

effetti positivi per la salute o la vita del paziente, occorre avere riguardo

non già alla mera “probabilità statistica” desunta dai precedenti clinici, ma

al differente concetto di “probabilità logica”, la quale deve essere

prossima alla certezza;

(c) la “probabilità logica”, a sua volta, va accertata collazionando le

probabilità statistiche di successo dell’intervento omesso con tutte le circostanze del caso concreto, quali risultanti dal materiale probatorio

raccolto (cfr. Cass. 30328//02, cit., pp. 26-27).

In definitva, per le sezioni penali della Cassazione, al vecchio criterio

delle “serie ed apprezzabili possibilità di successo” è venuto a sostituirsi

quello della “alta o elevata credibilità razionale” del giudizio

controfattuale.

Le sezioni civili della Cassazione non si sono tuttavia uniformate a tale

orientamento, ritenendo il giudizio controfattuale soddisfatto, in tema di

colpa omissiva, quando si possa ritenere che, in presenza della condotta

omessa, il danno avrebbe avuto “serie ed apprezzabili possibilità” di non

accadere. Questo “scostamento” delle sezioni civili da quelle penali in

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tema di accertamento della causalità omissiva, dopo qualche contrasto, è

stato ribadito dalla importante decisione resa da Cass. sez. un. 11.1.2008

n. 581, nella quale si è definitivamente stabilito che ai fini del risarcimento

del danno il nesso causale tra una condotta omissiva e l’evento dannoso

deve ritenersi sussistente ogni qual volta possa affermarsi, in base alle

circostanze del caso concreto, che la condotta alternativa corretta

avrebbe impedito l’avverarsi dell’evento con una probabilità superiore al

50%, secondo la regola del “più sì che no”. Successivamente

all’intervento delle SS.UU., tale principio è stato ribadito da Cass.

17.1.2008 n. 867.

Quindi, mentre per la Cassazione penale il nesso causale tra omissione

ed evento esige l’accertamento che senza l’omissione il danno non si

sarebbe verificato “con alta o elevata credibilità raizonale”, per la

Cassazione civile il nesso causale tra omissione ed evento non esige la

certezza assoluta che senza la condotta il danno sarebbe accaduto, ma

semplicemente una probabilità superiore al 50% che ciò sarebbe

accaduto.

(Sul tema si veda anche la scheda “Nesso causale”).

5.1. La prova del nesso causale. In tema di responsabilità medica, il giudice di legittimità ha poi ammesso

la possibilità di pronunciare un giudizio di condanna nei confronti del

medico in base ad un nesso di causalità “presunto”. E’ stato infatti

affermato che quando non è possibile stabilire se la morte di un paziente

sia stata causata dall’incuria del medico curante o da altre cause, e

l’incertezza derivi dalla incompletezza della cartella clinica o dall’omesso

compimento di altri adempimenti ricadenti sul medico, quest’ultimo deve

ritenersi responsabile del decesso, allorché la sua condotta sia stata

astrattamente idonea a causarlo (Cass. 13.9.2000 n. 12103, in Dir. e

giust., 2000, fasc. 34, 33; Cass. 21.7.2003 n. 11316). Pertanto, quando

applica il principio della causalità adeguata alla materia della

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responsabilità del medico, la corte sembra aggiungervi un ulteriore

corollario in materia di riparto dell’onere della prova, che può essere così

riassunto:

(a) se è accertato che il medico ha posto in essere un antecedente

causale astrattamente idoneo a produrre il danno;

(b) se non è accertato se, nella specie, il danno sia stato effettivamente

causato dalla condotta del medico;

(c) in simili evenienze, incombe sul medico l’onere di provare

concretamente, se vuole andare esente da responsabilità, che il danno è

dipeso da un fattore eccezionale ed imprevedibile.

6. Il consenso informato ed il fondamento normativo dell’obbligo di informare.L’emersione del requisito del consenso libero e consapevole del paziente,

quale presupposto di legittimità dell’operato del medico, costituisce

l’aspetto più importante dell’evoluzione normativa, giurisprudenziale e

dottrinaria degli ultimi anni, in tema di responsabilità del medico.

Si ricordi che, secondo la giurisprudenza meno recente, “il medico ha

seco la presunzione di capacità nascente dalla laurea” (Cass.

22.12.1925, in Giur. it. 1926, I, 1, 537). Questa concezione - assai

risalente nel tempo - comportava una serie di corollari: in particolare,

quello secondo cui nel rapporto medico-paziente quest’ultimo non

dovesse “impicciarsi” delle scelte del medico, unico e solo dominus della

strategia terapeutica.

L’assetto della materia è mutato con l’introduzione del codice civile del

1942, e quindi con la promulgazione della Carta costituzionale del 1947.

In considerazione del preminente rilievo che la nuova Carta costituzionale

riconosceva alla salute come diritto dell’individuo, la giurisprudenza

cominciò a configurare la necessità del consenso del paziente quale

causa di giustificazione di un atto - quello medico - che, essendo

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potenzialmente lesivo dell’integrità psicofisica dell’individuo, si sarebbe

dovuto considerare illecito in assenza del consenso.

Questa ricostruzione del consenso come causa di giustificazione (volenti

non fit iniuria) prestava però il fianco a molteplici critiche: prima fra tutte,

quella secondo cui non si può equiparare l’atto medico ad una

“aggressione” della salute dell’individuo, scriminata dal consenso del

paziente (al contrario, l’atto medico mira proprio a restaurare la salute

perduta). In secondo luogo, col consenso all’attività medica, il paziente

non rinuncia ad esercitare un proprio diritto, anzi, tutela il proprio diritto

alla salute (Ferrando, Consenso informato del paziente e responsabilità

del medico, principi, problemi e linee di tendenza, in Riv. crit. dir. priv.,

1998, 54). Di qui l’abbandono della vecchia concezione, ed il realizzarsi di

una vera e propria rivoluzione copernicana nella tradizionale

impostazione dei rapporti tra medico e paziente. Al riguardo ha osservato

la Suprema Corte che “sarebbe riduttivo (…) fondare la legittimazione

dell'attivita' medica sul consenso dell'avente diritto (art. 51 c.p.), che

incontrerebbe spesso l'ostacolo di cui all'art. 5 c.c., risultando la stessa di

per se' legittima, ai fini della tutela di un bene, costituzionalmente

garantito, quale il bene della salute, cui il medico e' abilitato dallo Stato.

Dall'autolegittimazione dell'attivita' medica, anche al di la' dei limiti

dell'art. 5 c.c., non deve trarsi, tuttavia, la convinzione che il medico

possa, di norma, intervenire senza il consenso o malgrado il dissenso del

paziente. La necessita' del consenso - immune da vizi e, ove importi atti

di disposizione del proprio corpo, non contrario all'ordine pubblico ed al

buon costume -, si evince, in generale, dall'art. 13 della Costituzione, il

quale, come e' noto, afferma l'inviolabilita' della liberta' personale - nel cui

ambito si ritiene compresa la liberta' di salvaguardare la propria salute e

la propria integrita' fisica -, escludendone ogni restrizione (anche sotto il

profilo del divieto di ispezioni personali), se non per atto motivato

dell'autorita' giudiziaria e nei soli casi e con le modalita' previsti dalla

legge. Per l'art. 32 co. 2 Cost., inoltre, "nessuno puo' essere obbligato a

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un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge"

(tali norme hanno trovato attuazione nella l. 13 maggio 1978, n. 180, sulla

riforma dei manicomi, per la quale "gli accertamenti e trattamenti sanitari

sono volontari", salvi i casi espressamente previsti - art. 1 -, e nella l. 23

dicembre 1978, n. 833, che, istituendo il servizio sanitario nazionale, ha

ritenuto opportuno ribadire il principio, stabilendo che "gli accertamenti ed

i trattamenti sanitari sono di norma volontari": art. 33). Si eccettuano i

casi in cui: a) il paziente non sia in grado, per le sue condizioni, di

prestare un qualsiasi consenso o dissenso: in tale ipotesi, il dovere di

intervenire deriva dagli art. 593 c. 2 e 328 c.p.; b) sussistano le condizioni

di cui all'art. 54 c.p.” (Cass. 25.11.1994 n. 10014, in Foro it., 1995, I,

2913, con nota di SCODITTI, Chirurgia estetica e responsabilità

contrattuale, nonché in Nuova giur. civ., 1995, I, 937, con nota di

FERRANDO, Chirurgia estetica, «consenso informato» del paziente e

responsabilità del medico).

Al centro della nuova concezione, non c’è più il medico, portatore di un

sapere quasi arcano e non contestabile, gestore della salute del paziente;

ma c’è quest’ultimo, il quale è considerato l’unico ed esclusivo

“proprietario” della propria salute, e quindi l’unico soggetto cui spetta

decidere se, come, quando e quanto curarsi. Naturalmente, perché il

paziente possa esercitare consapevolmente questo diritto, è necessario

che egli sia debitamente informato su tutto quanto possa concernere la

cura: di qui, l’obbligo di informazione, divenuto, da causa di

giustificazione, esercizio di un diritto (sull’obbligo di informazione del

medico e sulla necessità del consenso del paziente, in generale, oltre i

contributi citati in precedenza, si vedano anche Abbagnano Trione,

Considerazioni sul consenso del paziente nel trattamento medico

chirurgico, in Cass. pen. 1999, 146; Massa, Il consenso informato: luci ed

ombre, in Questione giustizia, 1997, 407; FERRANDO, Chirurgia

estetica, «consenso informato» del paziente e responsabilità del medico,

in Nuova giur. civ., 1995, I, 941; CALCAGNI e MEI, Sul diritto del

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consenso all'atto medico, in Zacchia, 1994, 375; POLVANI, Il consenso

informato all'atto medico: profili di rilevanza penale, in Giust. pen., 1993,

II, 734; RODRIGUEZ, Intervento chirurgico praticato senza il consenso

del paziente e radiazione dall'albo professionale, in Riv. it. medicina

legale, 1994, 233; POSTORINO, Ancora sul «consenso» del paziente nel

trattamento medico-chirurgico, in Riv. pen., 1993, 44; SCALISI, Il

consenso del paziente al trattamento medico, in Dir. famiglia, 1993, 442;

PASSACANTANDO, Il difetto del consenso del paziente nel trattamento

medico-chirurgico e i suoi riflessi sulla responsabilità penale del medico,

in Riv. it. medicina legale, 1993, 105; GIAMMARIA, Brevi note in tema di

consenso del paziente ed autodeterminazione del chirurgo nel

trattamento medico-chirurgico, in Giur. merito, 1991, 1123; RODRIGUEZ,

Ancora in tema di consenso all'atto medico-chirurgico - Note sulla

sentenza del 18 ottobre 1990 della corte d'assise di Firenze, in Riv. it.

medicina legale, 1991, 1117; IADECOLA, In tema di rilevanza penale del

trattamento medico-chirurgico eseguito senza il consenso del paziente, in

Giust. pen., 1991, II, 163; BONELLI e GIANNELLI, Consenso e attività

medico-chirurgica: profili deontologici e responsabilità penale, in Riv. it.

medicina legale, 1991, 9; GUALDI e CIAURI, Il «consenso informato» in

chirurgia refrattiva ed onere probatorio del corretto adempimento, da

parte del professionista, al dovere di informazione, in Nuovo dir., 1991,

781; IADECOLA, Consenso del paziente al trattamento medico

chirurgico, Padova, 1989; NANNINI, Il consenso al trattamento medico,

Milano, 1989; NORELLI e MAZZEO, Sulla progressiva svalutazione del

consenso all'atto medico nella recente giurisprudenza costituzionale, in

Giust. pen., 1989, I, 311; DEL CORSO, Il consenso del paziente

nell'attività medico-chirurgica, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1987, 536;

ANGELINI ROTA e GUALDI, In tema di consenso del minore al

trattamento medico-chirurgico, in Giust. pen., 1980, I, 368).

L’obbligo del medico di informare il paziente non è previsto, in via

generale ed astratta, da una precisa norma di legge, ma si desume con

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chiarezza ed inequivocità da un fitto reticolo di norme, sia di rango

costituzionale, sia di rango ordinario.

(A) Norme costituzionali.L’obbligo di informazione viene solitamente fondato innanzitutto sugli artt.

2, 13 e 32 della costituzione. Infatti, ove il paziente non fosse informato

sull’attività cui sta per essere sottoposto, si violerebbe da un lato il suo

diritto alla autodeterminazione, e dall’altro il suo diritto a non essere

sottoposto a trattamenti sanitari contro la sua volontà.

(B) Norme ordinarie.Il fondamento normativo dell’obbligo di informare il paziente viene poi

ravvisato in numerose norme di rango ordinario, e segnatamente:

(a) nell’art. 33 co. I e V l. 23.12.1978 n. 833 (“Istituzione del servizio

sanitario nazionale”), in base al quale “Gli accertamenti ed i trattamenti

sanitari sono di norma volontari (...). Gli accertamenti e i trattamenti

sanitari obbligatori (...) devono essere accompagnati da iniziative rivolte

ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi vi è

obbligato”;

(b) nell’art. 4 l. 26.6.1967 n. 458 (“Trapianto del rene tra persone viventi”),

in base al quale “il trapianto del rene legittimamente prelevato e destinato

ad un determinato paziente non può aver luogo senza il consenso di

questo o in assenza di uno stato di necessità”;

(c) nell’art. 14 l. 22 maggio 1978, n. 194 (“Norme per la tutela sociale

della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza”), in base al

quale “il medico che esegue l'interruzione della gravidanza è tenuto a

fornire alla donna le informazioni e le indicazioni sulla regolazione delle

nascite, nonché a renderla partecipe dei procedimenti abortivi, che

devono comunque essere attuati in modo da rispettare la dignità

personale della donna.

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In presenza di processi patologici, fra cui quelli relativi ad anomalie o

malformazioni del nascituro, il medico che esegue l'interruzione della

gravidanza deve fornire alla donna i ragguagli necessari per la

prevenzione di tali processi”;

(d) nell’art. 2 l. 14 aprile 1982, n. 164 (“Norme in materia di rettificazione

di attribuzione di sesso”), in base al quale “la domanda di rettificazione di

attribuzione di sesso di cui all'articolo 1 è proposta con ricorso al tribunale

del luogo dove ha residenza l'attore (...).

Quando è necessario, il giudice istruttore dispone con ordinanza

l'acquisizione di consulenza intesa ad accertare le condizioni psico-

sessuali dell'interessato”, dal che si desume che l’attribuzione di sesso

può essere disposta solo previo esperimento di un giudizio sull’esistenza

d’una effettiva volizione;

(e) nell’art. 121 D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (“Testo unico delle leggi in

materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope,

prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza”),

in base al quale “l'autorità giudiziaria o il prefetto nel corso del

procedimento, quando venga a conoscenza di persone che facciano uso

di sostanze stupefacenti o psicotrope, deve farne segnalazione al

servizio pubblico per le tossicodipendenze competente per territorio.

Il servizio pubblico per le tossicodipendenze, nell'ipotesi di cui al comma

2, ha l'obbligo di chiamare la persona segnalata per la definizione di un

programma terapeutico e socio-riabilitativo”;

(f) negli artt. 1 e 2 d.m. 27 aprile 1992 (“Disposizioni sulle documentazioni

tecniche da presentare a corredo delle domande di autorizzazione

all'immissione in commercio di specialità medicinali per uso umano, in

attuazione della direttiva n. 91/507/CEE”), in base ai quali “le norme di

buona pratica clinica cui fa rinvio la «Parte 4» dell'allegato della

richiamata direttiva n. 91/507/CEE sono riportate nell'allegato 1 del

presente decreto (...). Fatte comunque salve le disposizioni dell'art. 1, le

sperimentazioni cliniche effettuate in Italia devono essere condotte in

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cliniche universitarie, in strutture ospedaliere o in altre strutture a tal fine

ritenute idonee dal Ministero della sanità. Ove costituiti in Italia, i comitati

etici, in ogni caso conformi alle indicazioni delle norme di buona pratica

clinica di cui all'art. 1, comma 2, devono aver sede presso strutture

sanitarie o scientifiche di comprovata affidabilità”. Poiché nell’allegato si

indicano, tra i princìpi della “buona pratica clinica”, il necessario consenso

di coloro sui quali sono effettuate le sperimentazioni, se ne desume che

anche per il legislatore comunitario il consenso del paziente è elemento

indefettibile per l’avvio del programma di cure sperimentali.

(C) Norme, trattati ed accordi internazionali.L’obbligo di informare il paziente, e di ottenere da questi un consenso

libero ed informato, è infine previsto da un rilevante numero di accordi

internazionali, stipulati sia tra Stati, sia tra organizzazioni non

governative. Vengono in rilievo, al riguardo:

(a) il Principio 4 dei “Principi concernenti la procreazione umana

artificiale”, approvati nel 1989 dal Comitato di esperti per lo sviluppo delle

scienze biomediche (CAHBI) del Consiglio d’Europa, il quale stabilisce

che “le tecniche di procreazione artificiale possono essere usate solo se

le persone interessate hanno dato il loro consenso libero ed informato,

esplicitamente e per iscritto”;

(b) il General Comment 20 all’art. 7 del Patto sui diritti civili e politici,

adottato dal Comitato dei diritti umani nella 44° sessione delle Nazioni

Unite, il quale stabilisce che “l’art. 7 espressamente proibisce esperimenti

medici o scientifici senza il libero consenso della persona interessata”;

(c) l’art. 5 della Convenzione sui diritti umani e la biomedicina, adottata

dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa il 19.11.1996, ed aperta

alla firma il 4.4.1997 (non ancora ratificata dall’Italia), il quale stabilisce

che “un intervento nel campo della salute può essere effettuato dopo che

la persona interessata ha dato un consenso libero ed informato. La

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persona interessata può liberamente revocare il consenso in qualsiasi

momento”;

(d) il principio 3 della Dichiarazione europea sulla promozione dei diritti

del paziente, adottata ad Amsterdam il 30.3.1994 dalla Consulta Europea

per i diritti dei pazienti, sotto gli auspici dell’Organizzazione Mondiale

della Sanità, il quale stabilisce che “il consenso informato del paziente

costituisce prerequisito per qualsiasi intervento medico. Il paziente ha il

diritto di rifiutare o fermare un intervento medico. Le conseguenze del

rifiuto o dell’interruzione debbono essere attentamente spiegate al

paziente”.

6.1. Natura e requisiti del consenso.Emerge, da quanto sin qui esposto, che la manifestazione del consenso

all’atto medico non costituisce rimozione di un ostacolo all’esercizio di

un’attività (quella medica) altrimenti illecita, ma rappresenta esercizio di

un diritto di libertà. In questa nuova ottica, il rapporto medico paziente ha

subìto una autentica rivoluzione copernicana: al centro del rapporto non

c’è più, come in passato, il medico. Protagonista del rapporto (definito in

termini di “alleanza terapeutica”) sta il paziente, il quale deve essere

considerato l’unico titolare del potere di disporre della propria salute. In

altri termini, per usare una icastica espressione adottata da un attento

studioso della materia, occorre convincersi che la salute del paziente non

appartiene al medico, ma solo al paziente stesso (Santosuosso, Il

consenso informato, Ancona, 1996).

Da questa nuova concezione deriva, tra l’altro, la necessità del consenso

per ogni e qualsiasi intervento medico, sia esso di diagnosi o di cura. Al

contrario di quanto ritenuto dalla giurisprudenza sino a pochi anni fa (si

riteneva, in passato, che l’obbligo di informare il paziente sussistesse solo

nei casi in cui venissero poste in serio pericolo la vita o l’incolumità fisica

del paziente: così Cass. 25.7.1967 n. 1950; Cass. 18.6.1975 n. 2439, in

Foro it. 1976, I, 745; Cass. 29.3.1976 n. 1132, Foro it. Rep. 1976, voce

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Professioni intellettuali, nn. 40-42; Trib. Genova 20.7.1988, ivi, 1989,

voce cit., n. 99; significativa, fra le altre, l’affermazione contenuta in Cass.

6.12.1968 n. 3906, in Resp. civ. prev. 1970, 389, secondo cui il medico

deve adeguare l’obbligo di informazione al “grado di cultura del malato”),

oggi la giurisprudenza afferma espressamente che l’obbligo in questione

sussiste non solo in relazione alla necessità di intraprendere interventi

devastanti o complessi, ma sussiste in relazione ad ogni attività medica

che possa comportare un qualche rischio: quindi il medico ha l’obbligo di

informare il paziente sia quando intende compiere attività chirurgica; sia

quando intende compiere esami diagnostici o strumentali.

In quanto espressione di una facoltà ricompresa in un diritto di libertà, il

consenso deve essere inquadrato nella categoria dei negozi giuridici. Da

ciò consegue che esso, per essere valido, deve essere immune da

qualsiasi vizio della volontà (errore, dolo, violenza).

Ne consegue - lo si rileva incidentalmente - la sostanziale imprecisione

dell’espressione “consenso informato”: essa è una endiadi, giacché un

eventuale consenso “disinformato” non costituirebbe un negozio valido e

produttivo di effetti. In altri termini, il consenso all’esercizio dell’attività

medica o è informato, o non è neppure consenso (così anche In questo

senso, FERRANDO Gilda, Chirurgia estetica, «consenso informato» del

paziente e responsabilità del medico, in Nuova giur. civ., 1995, I, 941).

Questo è il motivo per il quale, nel presente lavoro, si è preferito parlare

di consenso tout court.

Perché la volontà del paziente di consentire all’intervento medico possa

dirsi liberamente formata, è necessario che il paziente stesso abbia

ricevuto una informazione completa e dettagliata. L’informazione fornita

deve comprendere, in particolare:

(a) la natura dell’intervento o dell’esame (se sia cioè distruttivo, invasivo,

doloroso, farmacologico strumentale, manuale, ecc.);

(b) la portata e l’estensione dell’intervento o dell’esame (quali distretti

corporei interessi);

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(c) i rischi che comporta, anche se ridotti (come effetti collaterali,

indebolimento di altri sensi od organi, ecc.);

(d) la percentuale verosimile di successo;

(e) la possibilità di conseguire il medesimo risultato attraverso altri

interventi, ed i rischi di questi ultimi (In questo senso, si vedano Cass.

25.11.1994 n. 10014, in Foro it., 1995, I, 2913 cit., e Cass. 15.1.1997, n.

364, in Foro it., 1997, I, 771);

(f) le eventuali inadeguatezze della struttura ove l'intervento dovrà essere

eseguito (Cass. 21.7.2003 n. 11316).

In altri termini, il paziente deve essere messo concretamente in

condizione di valutare ogni rischio ed ogni alternativa: “nell’ambito degli

interventi chirurgici, in particolare, il dovere di informazione concerne la

portata dell’intervento, le inevitabili difficoltà, gli effetti conseguibili e

gli eventuali rischi, sì da porre il paziente in condizioni di decidere

sull’opportunità di procedervi o di ometterlo, attraverso il bilanciamento di

vantaggi e rischi. L’obbligo si estende ai rischi prevedibili e non anche

agli esiti anomali, al limite del fortuito, che non assumono rilievo secondo

l’id quod plerumque accidit, non potendosi disconoscere che l’operatore

sanitario deve contemperare l’esigenza di informazione con la necessità

di evitare che il paziente, per una qualsiasi remotissima eventualità, eviti

di sottoporsi anche ad un banale intervento. Assume rilevanza, in

proposito, l’importanza degli interessi e dei beni in gioco, non potendosi

consentire tuttavia, in forza di un mero calcolo statistico, che il paziente

non venga edotto di rischi, anche ridotti, che incidano gravemente sulle

sue condizioni fisiche o, addirittura, sul bene supremo della vita.

L’obbligo di informazione si estende, inoltre, ai rischi specifici rispetto a

determinate scelte alternative, in modo che il paziente, con l’ausilio

tecnico-scientifico del sanitario, possa determinarsi verso l’una o l’altra

delle scelte possibili, attraverso una cosciente valutazione dei rischi

relativi e dei corrispondenti vantaggi” (Cass. 15.1.1997 n. 364, in Foro it.,

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1997, I, 771. In senso sostanzialmente conforme, si vedano anche Cass.

26.3.1981 n. 1773 e Cass. 9.3.1965 n. 375, in Foro it. 1965, I, 1040).

Il giudice di legittimità ha dunque posto limiti rigorosi all’obbligo di

informazione: esso comprende tutti i rischi prevedibili, anche se la loro

probabilità è minima; mentre non comprende i rischi anomali, cioè quelli

che possono essere ascritti solo al caso fortuito.

E’ quindi in colpa (da inadempimento contrattuale) sia il medico che non

fornisca al paziente le necessarie informazioni, sia quello che che le

fornisca in modo insufficiente, sia quello che le fornisca in modo errato

(Cass. 28.11.2007 n. 24742).

Deve aggiungersi che, in materia di completezza dell’informazione fornita

al paziente, la giurisprudenza di legittimità ha distinto tra intervento a fini

funzionali ed intervento di chirurgia estetica.

Nel primo caso, il paziente deve essere informato soprattutto sui possibili

rischi dell’operazione; nel secondo caso, invece, il paziente deve essere

informato sulla effettiva conseguibilità di un miglioramento fisico (Cass.,

12-06-1982 n. 3604, in Giust. civ., 1983, I, 939; Trib. Roma 10.10.1992, in

Giur. it. 1992, I, 2, 337). Pertanto, nel caso di chirurgia estetica,

l’informazione da fornire deve essere assai più penetrante ed assai più

completa (specie con riferimento ai rischi dell’operazione) di quella fornita

in occasione di interventi terapeutici (Cass. 08-08-1985 n. 4394, in Foro

it., 1986, I, 121).

Il consenso, inoltre, deve essere continuato. Esso non può essere

prestato una tantum all’inizio della cura, ma va richiesto e riformulato per

ogni singolo atto terapeutico o diagnostico, il quale sia suscettibile di

cagionare autonomi rischi. La Corte Suprema è stata su questo punto

molto chiara: “è noto che interventi particolarmente complessi, specie nel

lavoro in équipe, ormai normale negli interventi chirurgici, presentino,

nelle varie fasi, rischi specifici e distinti. Allorché tali fasi assumano una

propria autonomia gestionale e diano luogo, esse stesse a scelte

operative diversificate, ognuna delle quali presenti rischi diversi, l’obbligo

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di informazione si estende anche alle singole fasi e ai rispettivi rischi”

(Cass. 15.1.1997 n. 364, in Foro it. 1997, I, 771).

A tale regola si fa eccezione nel caso di interventi urgenti, anche quando

l’urgenza non sia assoluta: in tal caso, il consenso consapevole prestato

dal paziente che si considera implicitamente esteso anche alle operazioni

"complementari", qual è quella di sostegno, durante l'intervento, delle

risorse ematiche del paziente, che siano assolutamente necessarie e non

sostituibili con tecniche più sicure (Cass. 26.9.2006 n. 20832).

In applicazione di questi princìpi, è stata affermata la responsabilità della

USL per lesioni conseguite all’erronea effettuazione di una anestesia

epidurale: la Corte ha osservato nella fattispecie che la paziente, pur

essendo stata informata sulla natura e sulle alternative dell’intervento,

non lo era stata sui vari tipi di anestesia che potevano esserle

alternativamente praticati.

Sarebbe comunque erroneo ritenere, alla luce dei princìpi appena

esposti, che il medico adempia i propri obblighi giuridici e deontologici

rivelando tutto, fino in fondo, al paziente. Gli ampi contenuti che la

giurisprudenza e la dottrina hanno assegnato all’obbligo di informazione

gravante sul medico hanno infatti fatto sorgere un ulteriore delicato

problema: quello di conciliare tale obbligo con le particolari esigenze del

paziente, quando una informazione piena, competa. direi “brutale”, possa

riverberare gravi conseguenze psicologiche e depressive sul paziente

stesso.

E’ inutile nascondersi che questo aspetto costituisce quello di più ardua

soluzione per il personale medico, il quale si trova quotidianamente vis à

vis con casi in cui le ragioni del diritto sembrano cedere a quelle della

pietas. Che fare in questi casi? Informare il paziente che gli restano pochi

e terribili mesi di vita? Oppure lasciargli almeno il dolce conforto della

speranza?.

Sul punto, un dato appare certo: deve escludersi che l’informazione (e

quindi il consenso che su essa si fonda) possa essere data a persona

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diversa dal paziente, quando questi sia maggiorenne e capace. Se

infatti l’esercizio del consenso costituisce manifestazione di un diritto di

libertà, (come esposto supra, § 6), esso è personalissimo e non

delegabile. Il problema del rapporto tra completezza dell’informazione e

tutela psichica del paziente è stato affrontato dal Comitato Nazionale per

la Bioetica (istituito con d.p.c.m. 28.3.1990) il quale, in un proprio studio

del 20.6.1992 dedicato a “Informazione e consenso all’atto medico”, ha

fissato due linee guida: “(a) il curante deve possedere sufficienti doti di

psicologia tali da consentirgli di comprendere la personalità del paziente

e la sua situazione ambientale, per regolare su tali basi il proprio

comportamento nel fornire le informazioni; (b) le informazioni, se

rivestono carattere tale da poter procurare preoccupazioni e sofferenze

particolari al paziente, dovranno essere fornite con circospezione,

usando terminologie non traumatizzanti e sempre corredate da elementi

atti a lasciare allo stesso la speranza di una, anche se difficile, possibilità

di successo”.

Il parere del Comitato per la Bioetica, comunque, riveste soltanto un

valore (sia pur elevatissimo) morale e deontologico, ma non costituisce

fonte di alcun obbligo giuridico. La conseguenza è che, con riferimento al

problema di cui qui si discorre, l’attuale evoluzione dell’esperienza

giuridica ha lasciato i medici sovraesposti, soli dinanzi alla tragica scelta

se cautelarsi contro azioni di responsabilità, anche a costo di provocare

un grave shock al paziente; oppure tutelare innanzitutto la salute di

quest’ultimo, anche a costo di esporsi al rischio di azioni giudiziarie.

La prestazione del consenso non è soggetta ad alcuna forma particolare.

Nel nostro ordinamento vige infatti il principio della libertà delle forme del

negozio giuridico, con la conseguenza che le parti possono scegliere

quella ritenuta più opportuna (ivi compresa la forma orale e la forma

tacita, cioè il comportamento concludente: Cass. 25.7.1967 n. 1950;

Cass. 6.12.1968 n. 3906, in Resp. civ. prev. 1970, 389; Cass. 18.6.1975

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n. 2439). Naturalmente, la forma scritta resta quella preferibile, in quanto

facilita enormemente il problema della prova del consenso.

6.2. Effetti della mancanza di informazione.Dalla violazione dell’obbligo di informazione la giurisprudenza fa

discendere la responsabilità del medico nel caso di insuccesso

dell’intervento. Questa responsabilità si fonda sia sulla violazione del

dovere di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle

trattative e nella formazione del contratto (art. 1337 c.c.); sia sulla

assenza di un valido consenso, che - per essere tale - deve essere

consapevole. In assenza di informazione, pertanto, l'intervento è impedito

al chirurgo tanto dall'art. 32, 2º comma, cost., a norma del quale nessuno

può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per

disposizione di legge, quanto dall'art. 13 cost., che garantisce

l'inviolabilità della libertà personale con riferimento anche alla libertà di

salvaguardia della propria salute e della propria integrità fisica, e dall'art.

33 l. 23 dicembre 1978 n. 833, che esclude la possibilità di accertamenti

e di trattamenti sanitari contro la volontà del paziente se questo è in

grado di prestarlo e non ricorrono i presupposti dello stato di necessità,

ex art. 54 c.p. (Cass. 25-11-1994 n. 10014, in Foro it. Mass., 1994; Cass.

pen. 21-04-1992, in Riv. pen., 1993, 42, con nota di POSTORINO; Trib.

Roma, 10-10-1992, in Giur. it., 1993, I, 2, 337; Trib. Genova, 20-07-1988,

in Foro pad., 1989, I, 172).

Va segnalato che, secondo un diffuso orientamento giurisprudenziale, nel

caso di omessa informazione del paziente il medico risponde

dell’insuccesso dell’intervento, anche se in concreto non sia a lui addebitabile alcuna colpa (Cass. 14.3.2006 n. 5444; Cass. 24.9.1997 n.

9374, in Resp. civ. prev. 1998, 78, con nota di Martorana, Brevi

osservazioni su responsabilita' professionale ed obbligo di informazione,

nonché in Riv. it. med. leg. 1998, IV, 821, con nota di Introna, Consenso

informato e rifiuto ragionato. L'informazione deve essere dettagliata o

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sommaria?; App. Genova, 05-04-1995, in Danno e resp., 1996, 215; App.

Milano 2.5.1995, in Foro it. 1996, I, 1418; Trib. Napoli 30.1.1998, in

Tagete, 1998, fasc. 4, 62). In questi casi, infatti, l’illecito del medico viene

fatto consistere non nel mancato rispetto delle leges artis, ma

nell’omessa informazione; quest’ultima, a sua volta, impedendo il

paziente di esercitare il diritto di rifiutare l’intervento, viene considerata

quale antecedente causale dell’evento infausto. Ha osservato, al

riguardo, la S.C. che “nessuna contraddizione sussiste tra l'accertata

assenza di colpa (…) e l'affermazione della responsabilità dell'ente

[ospedaliero] per il mancato adempimento del dovere di informazione nei

confronti del paziente, cui erano tenuti i sanitari dipendenti (…). La

mancata richiesta del consenso costituisce autonoma fonte di

responsabilità qualora dall'intervento scaturiscano effetti lesivi, o

addirittura mortali, per il paziente, per cui nessun rilievo può avere il fatto

che l'intervento medesimo sia stato eseguito in modo corretto” (Cass.

9374/97, cit.).

6.3. Consenso e capacità.Per essere efficace, il consenso all’attività medica deve essere prestato

da soggetto capace di intendere e di volere. Quando il paziente è

legalmente e naturalmente capace, soltanto lui è titolare del potere di

consentire o rifiutare l’intervento. La giurisprudenza - mutando il proprio

precedente orientamento - ha radicalmente escluso che, quando il

paziente sia compos sui, il consenso all’intervento possa essere richiesto

ai congiunti più stretti (ad esempio, al fine di evitare traumi al malato):

così Trib. Milano, 04-12-1997, in Danno e resp., 1998, 1030. Per lo

stesso motivo, non può essere ritenuto responsabile il medico che ometta

di eseguire una terapia «salvavita» ad un paziente che la rifiuti (cfr. Pret.

Roma, 03-04-1997, in Cass. pen., 1998, 950), e del pari non sarà

resposanbile il medico che esegua una terapia necessaria ma non voluta

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dal paziente, quando il dissenso di quest’ultimo non era né noto, né

presumibile al medico (Cass. 23.2.2007 n. 4211).

Per il soggetto legalmente incapace, il consenso deve essere prestato da

chi ne ha la rappresentanza legale (il genitore od il tutore). E’ stato

tuttavia sostenuto che anche il minore possa validamente prestare il

proprio consenso al trattamento medico, quando abbia acquisito una

sufficiente maturità di giudizio (App. Milano 25.6.1966, in Foro it. Rep.

1966, voce Patria potestà, n. 11; Trib. min. Bologna 13.5.1972, ivi, 1974,

voce cit., n. 7; Trib. min. Bologna 26.10.1973, ivi, n. 5).

Il consenso non può tuttavia essere prestato dal soggetto che, pur

legalmente capace, si trovi in concreto in stato d’incapacità di intendere e

di volere (Cass. 6.12.1968 n. 3906, in Resp. civ. prev. 1970, 389). In

quest’ultimo caso (l’esempio tipico è quello del paziente incosciente od in

stato comatoso), qualora vi sia l’urgenza e l’indifferibilità di un trattamento

terapeutico anche rischioso, il medico non andrà tuttavia incontro a

responsabilità di sorta per avere omesso di informare il paziente, in

quanto la sua condotta sarebbe comunque giustificata dalla necessità di

evitare un danno grave alla salute od alla vita del paziente, ai sensi

dell’art. 54 c.p..

Va segnalato comunque che la S.C., sul punto qui in esame ha,

sensibilmente ridotto l’area di responsabilità del medico, inaugurando

così una controtendenza rispetto all’orientamento degli ultimi anni. Ha

infatti stabilito il giudice di legittimità che la mancanza del consenso del

paziente al trattamento sanitario è irrilevante non soltanto quando il

medico abbia agito in stato di necessità ex art. 54 c.p., ma anche quando

questo stato di necessita, oggettivamente inesistente, sia stato soltanto

supposto dal medico, senza sua colpa (Cass. 23.2.2007 n. 4211; Cass.,

15.11.1999 n. 12621). Nella stessa decisione è contenuta, sia pure obiter

dictum, un’altra importante affermazione: l’applicazione del principio di cui

all’art. 2236 c.c. non solo alle ipotesi di malpractice in senso stretto, ma

anche alle ipotesi di omessa informazione.

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La corte ha infatti incidentalmente affermato che nei casi particolarmente

complessi, così come opera la limitazione di responsabilità di cui all’art.

2236 c.c. per i danni dovuti a semplice imperizia, lo stesso principio deve

trovare applicazione con riguardo ai casi di omessa informazione del

paziente: se l’omissione è dovuta ad imperizia, il medico risponderà

soltanto se versa in colpa grave; se, invece, l’omessa informazione è

dovuta a imprudenza o negligenza, il medico risponderà anche se versa

in colpa lieve.

6.4. L’onere della prova.Sul tema del riparto dell’onere di provare che il paziente sia stato

correttamente informato, ha dato luogo ad un contrasto fino alla corte di

cassazione.

Secondo l’orientamento meno recente, l’onere di provare che il medico

curante avesse fornito una informazione completa e corretta ricade sul

paziente.

Tale affermazione viene ricavata dai princìpi costantemente affermati in

materia di responsabilità extracontrattuale, e cioè:

(a) il medico che non fornisce un’informazione completa si rende

inadempiente al contratto di prestazione d’opera professionale;

(b) l’inadempimento è fatto costitutivo della pretesa risarcitoria;

(c) ergo, incombe su chi allega l’altrui inadempimento l’onere di provarlo.

Tale principio è stato affermato ore rotundo da Cass. 25.11.1994 n.

10014: “ai fini della ripartizione dell'onere della prova in materia di

obbligazioni, si deve aver riguardo all'oggetto specifico della domanda,

talché, a differenza del caso in cui si chieda l'esecuzione del contratto e

l'adempimento delle relative obbligazioni, ove e' sufficiente che l'attore

provi il titolo che costituisce la fonte del diritto vantato, e cioe' l'esistenza

del contratto e, quindi, dell'obbligo che si assume inadempiuto,

nell'ipotesi in cui si domandi invece la risoluzione del contratto per

l'inadempimento di una obbligazione l'attore e' tenuto a provare anche il

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fatto che legittima la risoluzione, ossia l'inadempimento e le circostanze

inerenti in funzione delle quali esso assume giuridiche rilevanza,

spettando al convenuto l'onere probatorio di essere immune da colpa

solo quando l'attore abbia provato il fatto costitutivo dell'inadempimento"

(da ultimo, Cass. 29.1.1993, n. 1119). Il problema non si pone

diversamente allorche' l'inadempimento venga addotto non per

conseguire la risoluzione del contratto, ma ai fini di ottenere il

risarcimento del danno” (Cass., sez. III, 25-11-1994, n. 10014, in Foro it.,

1995, I, 2913).

La Corte non si era nascosta le difficoltà cui potrebbe andare incontro il

paziente, obbligato a provare non un fatto positivo, ma la circostanza

negativa di non essere stato informato, ma aveva rilevato che “l'obiettiva

difficolta' in cui si trovi la parte di fornire la prova del fatto costitutivo del

diritto vantato non puo' condurre ad una diversa ripartizione del relativo

onere, che grava, comunque, su di essa (fra le altre, Cass., sent. n. 83-

2596 del 1983), mentre l'antico brocardo, negativa non sunt probanda, e'

da intendere nel senso che, non potendo essere provato cio' che non e',

la prova dei fatti negativi deve essere fornita mediante la prova dei fatti

positivi, ma non gia' nel senso che la negativita' dei fatti escluda od

inverta l'onere (Cass., sent. n. 2612 del 1969)”.

Le conclusioni non mutavano ove si ritenga che la responsabilità del

chirurgo per omessa informazione sia di natura aquiliana e non

contrattuale. Infatti, come si è visto sopra, l’obbligo di informare sussiste

prima ancora della conclusione del contratto di prestazione d’opera

professionale, ed è espressione del più generale obbligo di correttezza

nel corso delle trattative. Si potrebbe dunque affermare che la violazione

dell’obbligo di informazione dia ingresso a responsabilità

extracontrattuale, nella specie della responsabilità precontrattuale. Anche

in questo caso, tuttavia, la condotta illecita (cioè l’omissione di

informazione) sarebbe fatto costitutivo della pretesa risarcitoria, e

dovrebbe essere provata dal paziente.

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Secondo un diverso il più recente orientamento, invece, se il paziente si

duole di non essere stato informato, deve essere il medico convenuto a

provare di avere esaurientemente informato il paziente di tutte le

caratteristiche ed i rischi dell’intervento.

Il paziente, dunque, quando la cura cui si è sottoposto ha peggiorato la

sua salute, può convenire il medico in giudizio e chiedere il risarcimento

del danno, allegando di non essere stato informato sui rischi

dell’operazione, e dimostrando soltanto: (a) l’esistenza del contratto di

prestazione d’opera professionale; (b) la sua validità; (c) l’esistenza del

danno.

Sarà il medico convenuto, se vuole andare esente da condanna, a dovere

provare: (a) di avere informato il paziente sui rischi e sulle modalità

dell’operazione; (b) che l’omessa informazione non è dipesa da propria

colpa.

Se il medico non riesce a fornire questa prova, non gli servirà a nulla né

dimostrare il carattere complesso dell’operazione (art. 2236 c.c.), né

dimostrare di averla eseguita attenendosi scrupolosamente a tutte le

regole della buona pratica clinica ed alle leges artis: egli risponderà

comunque del peggioramento della salute del paziente, per non avere

ottenuto il “consenso informato” di quest’ultimo (Cass., sez. III, 23-05-

2001, n. 7027, in Danno e resp., 2001, 1165, con nota di ROSSETTI,

nonché in Foro it., 2001, I, 2504, con nota di PARDOLESI).

Per pervenire a queste conclusioni, la Corte ha articolato il seguente

sillogismo:

(a) l’obbligo gravante sul medico di informare il paziente ha natura

contrattuale, e la sua violazione costituisce perciò inadempimento (art.

1218 c.c.);

(b) colui il quale chieda, in giudizio, il risarcimento del danno da

inadempimento di un obbligo contrattuale, deve provare solo l’esistenza

del contratto, mentre spetterà al convenuto dimostrare o di avere

adempiuto, ovvero che inadempimento non è dipeso da propria colpa;

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(c) ergo, nel giudizio per il risarcimento del danno alla salute, derivante

asseritamente causato dall’imperizia del medico, deve essere

quest’ultimo a provare di avere adempiuto l’obbligo di informazione.

11. Forme della professione e regole di responsabilità. 11.1. La libera professione.L’esercizio della professione medica può concretamente atteggiarsi

secondo modalità assai diverse. A seconda della ricorrenza dell’una o

dell’altra modalità, mutano i contenuti degli obblighi e dei diritti scaturenti

dall’esercizio dell’attività medica.

Il medico può svolgere la propria attività in regime totalmente privatistico,

come qualsiasi altro libero professionista. L’attività libero-professionale

del medico, costituendo adempimento di un obbligo contrattuale

(contratto d’opera), è disciplinata sia dalle norme generali in materia di

contratti (e, soprattutto, dagli artt. 1176 e 1375 cod. civ.), sia, più in

particolare, dagli artt. 2229-2238 cod. civ., nonché dall’art. 2751, n. 2,

c.c., il quale riconosce al medico un privilegio generale sui beni mobili del

defunto, a garanzia dei crediti per le “spese d’infermità” fatte negli ultimi

sei mesi di vita del defunto.

Il medico libero professionista, nell’esercizio della propria attività, può

andare incontro - anche cumulativamente per effetto della medesima

condotta - a tre tipi di responsabilità: disciplinare, penale e civile.

La responsabilità disciplinare è regolata dagli artt. 38 e ss. d.p.r. 5.4.1950

n. 221, ed è demandata al Consiglio dell’ordine competente ratione loci.

La responsabilità penale del medico libero professionista è sempre

personale. Essa non è oggetto di trattazione in questa sede.

La responsabilità disciplinare (demandata al Consiglio dell’ordine) e

quella penale sono comuni a tutte le forme di esercizio dell’attività

medica, e pertanto su esse non si tornerà in seguito.

La responsabilità civile del medico libero professionista può avere natura

contrattuale (art. 1218 c.c.) o extracontrattuale (art. 2043 c.c.). Essa è

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personale, ma in taluni casi il medico può essere chiamato a rispondere

unitamente ad altri soggetti.

Ciò può accadere:

(a) se il medico, pur operando nell’esercizio della propria attività libero-

professionale, abbia agito in concorso con altri medici o comunque

esercenti professioni sanitarie;

(b) se il medico abbia operato nell’ambito di una struttura organizzata da

terzi (ad esempio, una casa di cura privata, che senza alcun vincolo di

sovraordinazione abbia messo a disposizione del medico una sala

operatoria; ovvero un ospedale pubblico nel quale il medico operi come

libero professionista).

Nel primo caso, il danneggiato potrà pretendere l’intero risarcimento, ai

sensi dell’art. 2055 cod. civ., da uno qualsiasi dei corresponsabili

dell’evento dannoso. Il condebitore escusso, risarcito il danneggiato, avrà

poi azione di regresso nei confronti degli altri condebitori. Nel caso in cui

il corresponsabile escusso sia coperto da una assicurazione della r.c.,

l’assicuratore che ha indennizzato il danneggiato si surroga (tra l’altro) nel

diritto di regresso verso gli altri corresponsabili, ai sensi del combinato

disposto degli artt. 1299 e 1916 cod. civ.. Di conseguenza, il partecipante

all’équipe può trovarsi esposto a due azioni: una, di regresso, da parte

del coobbligato che abbia risarcito il danneggiato per l’intero; l’altra, di

surrogazione, da parte dell’assicuratore della responsabilità civile di uno

dei corresponsabili, che abbia risarcito il danneggiato.

Nel secondo dei casi sopra considerati (allorché, cioè, il medico

responsabile dell’illecito abbia agito, nella veste di libero professionista,

all’interno di una struttura organizzata), sorge il problema di stabilire in

quali casi la struttura, nell’ambito della quale il medico ha agito, possa

essere chiamata a rispondere del danno alla persona causato dalla colpa

professionale del medico: normalmente, la responsabilità della struttura

pubblica sussisterà in questi casi quando il danno abbia trovato la propria

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causa, od anche la propria concausa, nella insufficienza della struttura

stessa (in tema si veda anche infra, § 7.3.1).

Secondo la suprema corte, inoltre, allorché il medico dipendente di una

struttura ospedaliera assiste, all'interno di essa, un paziente al quale è

legato da un rapporto privatistico di prestazione d'opera professionale,

per quanto non possano essere addebitate al medico le carenze della

struttura stessa, ne' la condotta colposa di altri dipendenti

dell'ospedale, a lui incombe, tuttavia, l'obbligo, derivante dal rapporto

privatistico che lo lega al paziente, di informarlo della eventuale,

anche solo contingente, inadeguatezza della struttura, tanto piu' se la

scelta della stessa sia effettuata proprio in ragione dell'inserimento di

quel medico in quella struttura, nonche' di prestare al paziente ogni

attenzione e cura che non siano assolutamente incompatibili con lo

svolgimento delle proprie mansioni di pubblico dipendente. Da ciò il

giudice di legittimità fa derivare la persistenza del dovere del medico -

che abbia partecipato all'intervento in ragione di un rapporto

professionale diretto con il paziente - di adoperarsi comunque per il raggiungimento del risultato al di la' della sua estraneita' alle

insufficienze della struttura in cui abbia operato, ed anzi tenendone conto

al fine di conformare la propria condotta al raggiungimento dell'obiettivo

costituito dall'esito favorevole dell'intervento (Cass. 21.7.2003 n. 11316).

Ciò vuol dire, detto altrimenti, che quanto più la struttura ospedaliera o del

paziente ricoverato è carente, tanto più elevato sarà l'obbligo del medico

che assista il paziente in virtù di un rapporto di prestazione d'opera

professionale di assistere eseguire il paziente per tutto il periodo della

degenza, eventualmente attivandosi per sopperire alle carenze della

struttura ospedaliera.

12. Il regime di convenzionamento.

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L’attività medica può, altresì, essere svolta in regime di

convenzionamento, ai sensi degli artt. 8 d.P.R. 30 dicembre 1992, n. 502

e, in precedenza, 48 l. 23 dicembre 1978, n. 833.

Il rapporto di “convenzionamento” tra le Aziende sanitarie locali ed i

medici viene definito “rapporto di impiego continuativo a tempo definito”

(art. 48, comma 3, n. 3), l. 833/78), ovvero “rapporto di lavoro autonomo,

continuativo e coordinato” (art. 1 dell’accordo collettivo per i medici di

medicina generale, approvato con d.P.R. 28.7.2000, n. 270).

Il rapporto di convenzionamento è caratterizzato da una sostanziale

corrispettività tra l’operato del medico, che ha l’obbligo di prestare la

propria assistenza agli assicurati del Servizio Sanitario Nazionale, e la

Azienda sanitaria, tenuta a corrispondere al medico un compenso per

ogni assistito.

Questo rapporto, secondo la Corte di cassazione, deve essere qualificato

come parasubordinazione (Cass., sez. lav., 15-07-2002, n. 10255, in Foro

it. Rep., 2002, Sanitario e personale della sanità, n. 6; Cass., Sez. Un. 8

febbraio 1997, n. 1213, in Foro it. Rep., 1997, Sanitario, n. 65; Cass.,

Sez. Un. 23 dicembre 1997, n. 13023, ivi, 1997, Sanitario, n. 79). Questa

fattispecie, sempre secondo il giudice di legittimità, è caratterizzata da

due elementi:

a) il rapporto ha ad oggetto una prestazione coordinata e continuativa a

carattere prevalentemente personale, e riguarda prestazioni di facere

riconducibili allo schema generale del lavoro autonomo, ancorché

rientranti in figure contrattuali tipiche;

b) il prestatore d’opera svolge la propria attività in autonomia e con

responsabilità e rischi propri (Cass., Sez. Lav. 7 novembre 1995, n.

11581, in Foro it. Rep., 1995, Lavoro e previdenza (controversie), n. 81;

Cass., Sez. Lav. 4 aprile 1992, n. 4152, ivi, 1992, Lavoro e previdenza

(controversie), n. 67; si veda altresì TAR Lazio, 28 gennaio 1988, n. 82, in

Foro amm., 1988, 2544, nonché, in dottrina, MARANDO, Il rapporto di lavoro

del medico convenzionato, in Dir. e pratica lav., 1997, 1444; PELLETTIERI,

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Rapporto di lavoro del medico convenzionato: diritto al compenso per

prestazioni rese ad assistiti eccedenti il «massimale», in Giur. lav. Lazio,

1996, 9).

Il medico “convenzionato” non è un pubblico dipendente, ed a lui non si

applicano dunque le norme sulla responsabilità dei pubblici impiegati

(Cass., sez. lav., 16-07-2002, n. 10310 , in Foro it. Rep., 2002, Sanitario

e personale della sanità, n. 7; Cass., sez. lav., 29-03-2001, n. 4661, in

Foro it. Rep. 2001, Sanitario e personale della sanità, n. 39; Cass., sez.

un., 03-08-2000, n. 532, in Foro it. Rep., 2000, Sanitario, n. 45; cfr. altresì

T.a.r. Campania, sez. Salerno, 23-02-2000, n. 129, in Ragiusan, 2000,

fasc. 195, 421; T.a.r. Lazio, sez. I, 02-12-1999, n. 3007, in Ragiusan,

2000, fasc. 195, 391; T.a.r. Lombardia, sez. Brescia, 16-05-2000, n. 440,

in Ragiusan, 2000, fasc. 195, 440; T.a.r. Piemonte, sez. II, 26-05-2000, n.

634, in Ragiusan, 2000, fasc. 195, 441).

Il medico convenzionato, nell’esercizio della sua attività, può andare

incontro a responsabilità disciplinare, nei confronti della Azienda

sanitaria; ed a responsabilità civile, nei confronti del paziente.

La responsabilità disciplinare, il cui accertamento è demandato al

direttore dell’azienda sanitaria con la quale è stato stipulato il rapporto di

convenzionamento, è regolata dai singoli accordi collettivi (cfr., per i

medici di medicina generale, art. 16 d.p.r. 28.7.2000 n. 270; per i medici

ambulatoriali, art. 14 d.p.r. 28.7.2000 n. 271; per i pediatri di libera scelta,

art. 13 d.p.r. 28.7.2000 n. 272).

La responsabilità civile nei confronti del paziente in teoria potrebbe avere

soltanto natura extracontrattuale, posto che tra gli assistiti ed il medico

convenzionato non viene stipulato alcun rapporto di prestazione d’opera

professionale. Tuttavia sembra applicabile anche al rapporto tra medico

convenzionato e paziente il principio, elaborato dalla Corte di cassazione,

relativo ai c.d. rapporti contrattuali di fatto: secondo tale principio, là dove

il rapporto giuridico tra due soggetti si atteggi secondo le modalità di un

tipico rapporto contrattuale, ad esso sono applicabili le norme sulla

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responsabilità contrattuale, anche se non scaturente da un accordo vero

e proprio (Cass., sez. III, 22-01-1999, n. 589, in Foro it., 1999, I, 3332).

Il rapporto di convenzionamento pone all’interprete il problema di stabilire

se la pubblica amministrazione possa essere chiamata a rispondere del

danno colposamente cagionato al paziente dal medico convenzionato.

L’autonomia del medico convenzionato, e la diretta assunzione da parte

di questi della responsabilità del proprio operato (così, sia pure obiter

dictum, Cass., Sez. Lav. 7 novembre 1995, n. 11581, in Foro it. Rep.,

1995, Lavoro e previdenza (controversie), n. 81) dovrebbero, di norma,

far escludere che del danno causato dal medico convenzionato possa

rispondere la pubblica amministrazione.

Tuttavia le convenzioni che, ai sensi degli artt. 8 d. lgs 502/92 e 48 l.

833/78, disciplinano il rapporto di convenzionamento, demandano alle

Aziende sanitarie estesi e talora rilevanti controlli sull’attività del medico.

Ad esempio, l’art. 47 d.P.R. 28 luglio 2000, n. 270 (con il quale è stato

approvato l’accordo collettivo nazionale per la disciplina dei rapporti con i

medici di medicina generale), stabilisce che “il dirigente sanitario medico

preposto (...) al servizio specifico o ricomprendente l'organizzazione

dell'assistenza medica generale di base ha la responsabilità e accede al

controllo della corretta applicazione delle convenzioni, per quel che

riguarda gli aspetti sanitari”. Tale norma costituisce una clausola di stile

negli accordi di convenzionamento: si vedano, nello stesso senso, l’art.

40 d.P.R. 28.7.2000, n. 271, con il quale è stato approvato l’accordo

collettivo nazionale per la disciplina dei rapporti con i medici specialisti

ambulatoriali; e l’art. 36 d.P.R. 28.7.2000 n. 272, con il quale è stato

approvato l’accordo collettivo nazionale per la disciplina dei rapporti con i

medici specialisti pediatri di libera scelta).

L’esistenza di questo dovere di controllo dell’Azienda sanitaria sull’attività

del medico convenzionato non è certamente sufficiente per rendere la

prima responsabile diretta del danno causato dal secondo, ai sensi

dell’art. 2049 cod. civ. L’esistenza di quel dovere, però, ben potrebbe in

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certi casi fondare una responsabilità – diretta – dell’Azienda sanitaria per

culpa in vigilando, allorché il danno causato dal medico convenzionato sia

stato concausato od agevolato proprio dall’omissione dei dovuti controlli

da parte della pubblica amministrazione. La responsabilità per omesso

controllo non è certamente un novum nel campo dell’illecito aquiliano:

basterà ricordare che la S.C. (Cass. 20 luglio 1993, n. 8069, in Foro it.,

1994, I, 455), ha ritenuto le imprese farmaceutiche, intervenute nel ciclo

produttivo di gammaglobuline umane, responsabili per colpa grave dei

danni derivati in caso di contagio conseguente all’uso del farmaco ove,

pur avendo ottemperato alle disposizioni normative vigenti, non

dimostrino di aver impiegato ogni cautela idonea ad impedire l’evento). In

altri termini, la responsabilità dell’Azienda sanitaria per il fatto dannoso

causato dal medico convenzionato potrebbe essere fondata sul seguente

sillogismo:

a) gli accordi collettivi prevedono un obbligo dell’Azienda di controllare

l’attività del medico;

b) la violazione di questo dovere di controllo, in quanto previsto da una

norma, costituisce un comportamento contra ius;

c) ergo, se da questa condotta contra ius deriva un danno, la pubblica

amministrazione è tenuta a risarcirlo.

A questa costruzione si potrebbe obiettare che l’accordo collettivo non è

una norma di legge, ma un atto amministrativo di natura pattizia, il quale

vincola soltanto le parti aderenti: il terzo danneggiato, pertanto, non

potrebbe invocare una responsabilità della p.a. fondata sulla violazione

dell’accordo, in quanto le norme di questo non avrebbero alcuna efficacia

diretta nei confronti dei terzi.

A tale obiezione può replicarsi che anche la violazione di una norma

contrattuale può generare una responsabilità (secondo taluni autori,

addirittura contrattuale) nei confronti dei terzi estranei all’accordo,

allorché la norma violata fosse finalizzata a prevenire eventi dannosi dello

stesso tipo di quello effettivamente avveratosi. È, questa, la teoria degli

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obblighi di protezione, o Schutzpflichten, secondo la quale ogni fattispecie

contrattuale fa sorgere in capo alle parti, accanto agli obblighi contrattuali

in senso stretto, anche i cc.dd. “obblighi di protezione” (o

Schutzpflichten), cioè l’obbligo di attivarsi per preservare sia l’utilità della

prestazione per la controparte, sia la salvaguardia dei beni essenziali

(vita e salute) di terzi (c.d. Vertrag mit Schutzwirkung für Dritte (Sugli

obblighi di protezione in generale si vedano BETTI, Teoria generale delle

obbligazioni, I, Milano 1953, 99, e CASTRONOVO, Obblighi di protezione, in

Enc. giur. it., Roma 1990, XXI, 1 e ss.; in senso critico, invece, si vedano

NATOLI, L’attuazione del rapporto obbligatorio, in Trattato Cicu-Messineo,

Milano 1974, 14; BRECCIA, Diligenza e buona fede nell’attuazione del

rapporto obbligatorio, Milano 1968). Ovviamente, perché la Azienda

sanitaria possa essere chiamata a rispondere dell’illecito commesso dal

medico convenzionato, sarà pur sempre necessaria la sussistenza d’un

preciso nesso causale tra l’omissione del controllo imputabile alla p.a., e

la condotta illecita del medico.

Deve essere altresì segnalato che alcuni accordi collettivi di

convenzionamento prevedono, a carico dell’Azienda sanitaria, l’obbligo di

stipulare una polizza assicurativa a copertura della responsabilità civile

verso i terzi del medico convenzionato. Tale obbligo risulta previsto, ad

esempio, dall’art. 29 d.P.R. 28 luglio 2000 n. 271 (Accordo collettivo

nazionale per la disciplina dei rapporti con i medici specialisti

ambulatoriali).

Va segnalato però che gli accordi collettivi prevedono la stipula delle

polizze per un certo massimale, che in verità appare piuttosto basso: €

1.032.913,8 per i danni a persona, con un massimale di € 1.549.370,7

per sinistro.

La polizza stipulata dalla Azienda sanitaria in adempimento dell’obbligo

imposto dal contratto collettivo costituisce un tipico esempio di

assicurazione per conto altrui, ex art. 1891 cod. civ. E poiché il medico

convenzionato vanta un diritto soggettivo perfetto alla stipula della polizza

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in suo favore, l’eventuale inefficacia o invalidità della polizza, per fatto

imputabile alla Azienda sanitaria, comporterà la responsabilità di

quest’ultima nei confronti del medico, il quale potrà chiedere alla p.a. il

risarcimento del danno subìto per essersi trovato esposto, privo di

copertura assicurativa, alle pretese risarcitorie del paziente danneggiato

(Cass., Sez. Lav. 24 novembre 1997, n. 11736, in Foro it. Rep., 1997,

voce Sanitario, n. 78).

Naturalmente il tipo di polizza in questione potrà coprire soltanto la

responsabilità dell’assicurato (cioè del medico), e non quella dello

stipulante (cioè dell’Azienda). Di conseguenza, se il danno è stato

concausato dall’amministrazione ed anche questa venga convenuta in

giudizio, essa non potrà beneficiare della polizza stipulata ai sensi delle

norme sopra citate (cfr., con riferimento però all’ipotesi del contratto di

assicurazione per conto di chi spetta, Cass. 3 luglio 1996, n. 6086, in

Foro it., 1997, I, 1925, nonché in Contratti, 1997, 500, con nota di FIORETTI,

Diritti del contraente e consenso dell’assicurato).

13. Il medico dipendente privato.Del danno commesso dal medico, dipendente di un casa di cura (o

comunque di una struttura) privata, risponde il datore di lavoro, ex art.

2049 cod. civ., in solido col medico stesso (Cass. 11 marzo 1998, n.

2678, in Foro it. Rep., 1998, voce Responsabilità civile, n. 15; Trib. Napoli

15 febbraio 1995, in Foro nap., 1996, 76; Trib. Roma 28 giugno 1982, in

Temi romana, 1982, 601). Il datore di lavoro, come noto, risponde

dell’illecito commesso dal dipendente anche se cagionato con dolo,

purché l’illecito sia stato reso possibile o comunque agevolato dal

rapporto di lavoro (Cass. 14 novembre 1996, n. 9984, in Foro it. Rep.,

1996, voce Responsabilità civile, n. 141; Cass. 11 maggio 1995, n. 5150,

ivi, 1995, voce Obbligazioni in genere, n. 45; Trib. Sondrio, 22 febbraio

1982, in Banca, borsa e tit. cred., 1985, II, 401).

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13.1. La responsabilità della casa di cura privata.Mentre è pacifico che la casa di cura privata risponda del danno causato

dal medico ad essa legato da un rapporto di lavoro dipendente, maggiori

perplessità ha sollevato ipotesi in cui il medico autore del fatto illecito non

fosse dipendente della clinica privata, ma avesse semplicemente locato

le strutture di questa per l'esecuzione dell'intervento.

Per molto tempo, la giurisprudenza ha ritenuto che la responsabilità della

struttura ospedaliera privata per il fatto illecito commesso dal medico

nell’esecuzione di un intervento potesse essere affermata de plano

soltanto nei seguenti casi:

(a) ex art. 2049 c.c., quando il medico era un lavoratore dipendente della

casa di cura;

(b) ex art. 1228 c.c., quando il contratto avente ad oggetto l’esecuzione

dell’intervento era stato stipulato direttamente con la casa di cura, la

quale aveva curato la scelta del chirurgo (per questa distinzione, Cass.,

sez. III, 11-03-1998, n. 2678, in Arch. civ., 1998, 917).

Negli altri casi (la maggioranza), nei quali era il paziente stesso a

scegliere il medico, e quest’ultimo a sua volta invitava il paziente a farsi

operare presso una clinica alla quale il medico non era legato da alcun

rapporto di lavoro dipendente, diventava problematico individuare una

responsabilità della casa di cura, in quanto questa aveva buon gioco

nell’eccepire da un lato che la propria obbligazione nei confronti del

paziente era limitata a fornire l’alloggio e la sala operatoria; dall’altro la

propria totale estraneità all’operato del medico.

Per superare questo genere di eccezioni (evidentemente sul fondamento

che la casa di cura non potesse gestire una attività economica, spesso

lucrosa, pretendendo di goderne sempre i commoda e mai gli

incommoda), in passato la giurisprudenza aveva lavorato quasi

esclusivamente sul disposto dell’art. 1228 c.c., cercando di ravvisare un

vincolo di collaborazione, fondamento della responsabilità per fatto altrui,

anche nei casi in cui tra casa di cura e medico non vi fosse un rapporto di

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lavoro subordinato o prestazione d’opera professionale. In tal senso, ad

esempio, molti anni fa il tribunale di Roma ritenne che l'attività svolta da

un chirurgo libero professionista presso una casa di cura privata, in virtù

di un non occasionale rapporto d'esecuzione d'opera, comporta “per sua

natura” un vincolo di dipendenza, sorveglianza e vigilanza tra la casa di

cura committente ed il chirurgo preposto. Da ciò si trasse la conclusione

che, in caso di colpa medica, sussisteva la responsabilità solidale

contrattuale (ex art. 1218 e 1228 c.c.) ed extracontrattuale (ex art. 2049

c.c.) della casa di cura (Trib. Roma, 28-06-1982, in Temi romana, 1982,

601, con nota di SCALFANI, In tema di responsabilità della casa di cura

privata per danni conseguenti ad un intervento operatorio; per motivazioni

più o meno analoghe si veda anche Trib. Trieste, 14-04-1994, in Resp.

civ., 1994, 768).

Altri giudici, sempre al fine di applicare l’art. 1228 c.c. nei rapporti tra casa

di cura e medico responsabile del danno, si sono sforzati di ravvisare un

qualche potere di vigilanza della prima sul secondo: in tal senso, Trib.

Milano, 20-10-1997, in Danno e resp., 1999, 82, con nota di BONA,

nonché in Resp. civ., 1998, 1144, con nota di GORGONI, ed in Riv. it.

medicina legale, 1999, 596, con nota di INTRONA; Trib. Napoli, 17-01-

1997, in Nuovo dir., 1997, 677, n. NUNZIATA; Trib. Napoli, 15-02-1995,

in Foro nap., 1996, 76 (ove, significativamente, si afferma essere

irrilevante, ai fini della responsabilità della casa di cura, la circostanza che

il medico operi in essa una o infinite volte).

Anche il giudice di legittimità è pervenuto a ritenere sussistente la

responsabilità della casa di cura, ex art. 1228 c.c., per il danno causato

dal chirurgo, quand’anche quest'ultimo non faccia parte

dell'organizzazione aziendale della casa di cura, in base al rilievo che il

medico è “ausiliario necessario” della casa di cura per lo svolgimento

dell’attività imprenditoriale di quest’ultima, e che comunque sussiste un

collegamento tra la prestazione del medico e l’organizzazione aziendale

della casa di cura (Cass. 26.1.2006 n. 1698; Cass., sez. III, 08-01-1999,

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n. 103, in Danno e resp., 1999, 779, con nota di DE MATTEIS, nonché in

Resp. civ., 1999, 683, con nota di SANNA). In queste sentenze la Corte

ha affermato che nella rimunerazione della prestazione fornita dalla casa

di cura è incluso anche “il costo, inteso come rischio, dell'esercizio

dell'attività di impresa della casa di cura”, ivi compreso quello della

distribuzione delle competenze tra i vari operatori, delle quali il titolare

dell'impresa risponde ai sensi dell'art. 1228 c.c.. L’assenza di un

inquadramento organico del responsabile del danno nella struttura della

casa di cura è stata poi ritenuta irrilevante, sul presupposto che

comunque la prestazione del medico è “indispensabile alla Casa di cura

per adempiere l'obbligazione assunta con i danneggiati”.

Negli ultimi anni la S.C. ha infine rotto ogni indugio, ed affermato

espressamente la responsabilità della casa di cura per il fatto del medico

non dipendente, ex art. 1228 c.c.. Ha osservato, al rigurado, il giudice

dilegittimità, che il rapporto che si instaura tra paziente e casa di cura ha

la sua fonte in un atipico contratto a prestazioni corrispettive con effetti

protettivi nei confronti del terzo, da cui, a fronte dell'obbligazione al

pagamento del corrispettivo, insorgono a carico della casa di cura -

accanto a quelli di tipo lato sensu alberghieri - obblighi di messa a

disposizione del personale medico ausiliario, del personale paramedico e

dell'apprestamento di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di

eventuali complicazioni od emergenze. Di conseguenza la responsabilità

della casa di cura nei confronti del paziente può conseguire sia

all'inadempimento delle obbligazioni direttamente a suo carico, sia, in

virtù dell'art. 1228 cod. civ., all'inadempimento della prestazione medico-

professionale svolta direttamente dal sanitario, quale suo ausiliario

necessario pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato,

comunque sussistendo un collegamento tra la prestazione da costui

effettuata e la sua organizzazione aziendale, non rilevando in contrario al

riguardo la circostanza che il sanitario risulti essere anche "di fiducia"

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dello stesso paziente, o comunque dal medesimo scelto (Cass. 14.6.2007

n. 13953).

E’ stata, inoltre, affermata altresì la responsabilità ex art. 1228 c.c. anche

del medico operatore per il fatto del personale di supporto messogli a

disposizione da una struttura sanitaria dalla quale il medico non dipende,

dovendosi esigere dal chirurgo operatore un dovere di controllo specifico

sull'attività e sulle iniziative espletate dal personale sanitario con riguardo

a possibili e non del tutto prevedibili eventi che possono intervenire non

solo durante, ma anche prima dell'intervento e in preparazione di esso

(nella specie la S.C., sulla scorta del suddetto principio, ha confermato la

sentenza impugnata con la quale era stata affermata la responsabilità di

un medico chirurgo che aveva effettuato, presso una casa di cura privata

dalla quale non dipendeva, un intervento - ritenuto di "routine" - di

liposuzione agli arti inferiori ad una paziente rimasta danneggiata in virtù

di un'infezione batterica che ne era conseguita, così respingendo il

motivo del ricorrente ad avviso del quale non avrebbe potuto essergli

addebitata alcuna responsabilità in relazione all'attività disimpegnata dal

personale della clinica per il fatto che in ordine alla stessa egli non

avrebbe avuto la possibilità, giuridica e di fatto, di esercitare qualsivoglia

potere di direzione, vigilanza e controllo, ivi compreso quello sulla perfetta

sterilizzazione della sonda suttrice e concretamente utilizzata, dalla quale

si era propagata l'infezione conseguita in danno della paziente: Cass.

14.6.2007 n. 13953).

Più di recente, tuttavia, queste impostazioni tradizionali, ed il loro

continuo richiamarsi all’art. 1228 c.c., sono state ritenute inappaganti, in

quanto il preteso potere di vigilanza e controllo della casa di cura sul

medico (presupposto per l’operatività dell’art. 1228 c.c.) può in concreto

mancare del tutto.

Alcuni giudici di merito, di conseguenza, hanno affrontato una strada del

tutto nuova, ed hanno ravvisato nell’obbligazione del medico e della casa

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di cura una “obbligazione plurisoggettiva ad attuazione congiunta”,

osservando che nel caso di colpa medica nell’esecuzione di un intervento

chirurgico, la casa di cura privata dove il paziente è stato ricoverato

risponde dei danni in solido col medico, quand’anche ciascuno di essi

abbia stipulato col paziente un contratto distinto ed autonomo. La

prestazione della casa di cura e quella del medico, infatti, sono collegate

così strettamente da configurare una obbligazione soggettivamente

complessa con prestazione indivisibile ad attuazione congiunta, con la

conseguenza che ciascuno di uno soltanto dei coobbligati obbliga anche

l’altro al risarcimento (Trib. Roma 1.6.2001, in Giurispr. romana, 2001, ***

(11./01).

14. Il medico pubblico dipendente. Il rapporto tra il medico e la pubblica amministrazione non è conformato

ad un modello unitario, ma è disciplinato da fonti normative diverse a

seconda della natura della p.a. datrice di lavoro.

Vanno infatti distinti:

(a) i medici dipendenti delle Aziende sanitarie e delle Aziende

ospedaliere, il cui rapporto d’impiego è disciplinato dall’art. 47 l.

23.12.1978 n. 833. Tale norma stabilisce che “lo stato giuridico ed

economico del personale delle unità sanitarie locali è disciplinato, salvo

quanto previsto espressamente dal presente articolo, secondo principi

generali e comuni del rapporto di pubblico impiego (...). la gestione

amministrativa del personale delle unità sanitarie locali è demandata

all'organo di gestione delle stesse, dal quale il suddetto personale

dipende sotto il profilo funzionale, disciplinare e retributivo”.

(b) i medici dipendenti delle istituzioni universitarie (art. 5 d. lgs.

21.12.1999 n. 517);

(c) i medici dipendenti delle istituzioni di ricerca scientifica (CNR).

Nonostante la diversità di disciplina del contenuto del rapporto di lavoro,

sul piano della responsabilità esiste una omogeneità di fondo, in quanto

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sia ai medici compresi nel ruolo organico delle Aziende sanitarie, sia ai

medici dipendenti di istituzioni universitarie, si applica l’art. 55 d. lgs.

30.3.2001 n. 165 (c.d. testo unico sul pubblico impiego), il quale

espressamente stabilisce che per i dipendenti pubblici “resta ferma la

disciplina attualmente vigente in materia di responsabilità civile,

amministrativa, penale e contabile”.

Tale disciplina, in virtù del rinvio di cui all’art. 28 d.P.R. 20 dicembre 1979,

n. 761 (alla stregua del quale “in materia di responsabilità, ai dipendenti

delle unità sanitarie locali si applicano le norme vigenti per i dipendenti

civili dello Stato di cui al decreto del Presidente della Repubblica 10

gennaio 1957, n. 3, e successive integrazioni e modificazioni”), è

rappresentata tuttora dagli artt. 22 e 23 d.P.R. 10.1.1957 n. 3.

La prima di tali norme stabilisce che l’impiegato il quale, nell’esercizio

delle attribuzioni ad esso conferite dalle leggi o dai regolamenti, cagioni

ad altri un danno ingiusto, è personalmente obbligato a risarcirlo. L’azione

di risarcimento nei suoi confronti può essere esercitata congiuntamente

con l’azione diretta nei confronti dell’Amministrazione qualora sussista

anche la responsabilità dello Stato. L’amministrazione che abbia risarcito

il terzo del danno cagionato dal dipendente si rivale contro quest’ultimo.

L’art. 23 del testo unico precisa la nozione di “danno ingiusto”, stabilendo

che è tale quello derivante da ogni violazione dei diritti dei terzi che

l’impiegato abbia commesso per dolo o per colpa grave, salve “le

responsabilità più gravi previste dalle leggi vigenti”. L’art. 23 d.P.R. 3/57

esclude pertanto l’azionabilità diretta della pretesa risarcitoria nei

confronti del pubblico impiegato, nelle ipotesi di colpa lieve: ricorrendo

questo caso, unica legittimata passiva sarà la p.a.

Il combinato disposto degli artt. 28 d.P.R. 761/79, e 22-23 d.P.R. 3/57,

non distingue affatto tra danni arrecati dal medico nell’esercizio di attività

terapeutica o sanitaria in senso stretto, e danni arrecati a causa di altre

mancanze ai propri doveri d’ufficio (ad esempio, mancato rispetto

dell’orario di lavoro; infedele certificazione; omesso controllo della

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salubrità degli ambienti, ecc.). Sembrerebbe dunque che, quale che sia

l’eziogenesi del danno causato dal medico, questi possa essere

convenuto dal danneggiato soltanto nel caso di colpa grave o dolo. In

realtà così non è. Le norme in esame sono state infatti restrittivamente

interpretate dalla giurisprudenza, per quanto concerne l’attività del

medico pubblico dipendente. Secondo la S.C., l’attività svolta dal medico

in favore dei pazienti non costituisce esercizio di una amministrazione

pubblica, ma costituisce erogazione di un servizio pubblico.

Nell’erogazione di questo servizio, si stabilisce un rapporto giuridico di

tipo pubblicistico tra il privato, che ha un diritto soggettivo alla prestazione

in suo favore; e la p.a., che ha il corrispondente dovere di adempiere.

“Appunto – ha osservato la S.C. - perché si costituisce un rapporto

giuridico tra i due soggetti, strutturato da un diritto soggettivo e da un

correlato dovere di prestazione, la responsabilità dell’ente pubblico verso

il privato, per il danno a questi causato dalla non diligente esecuzione

della prestazione (…) va qualificata contrattuale, intesa (…) come

responsabilità insorta nel compimento di un’attività dovuta nell’ambito di

un preesistente rapporto giuridico, privato o pubblico, tra i due soggetti.

Nel servizio pubblico sanitario, l’attività svolta dall’ente pubblico gestore

del servizio a mezzo dei suoi dipendenti, nell’adempimento del dovere di

prestazione verso il privato richiedente (titolare del corrispondente diritto

soggettivo), è di tipo professionale medico; similare all’attività svolta,

nell’esecuzione dell’obbligazione (privatistica) di prestazione, dal medico

che abbia concluso con il paziente un contratto d’opera professionale.

Ed appunto per questa similarità, perché quella svolta dall’ente pubblico a

mezzo dei medici suoi dipendenti è attività professionale medica, la

responsabilità è analoga a quella del professionista medico privato.

Con la conseguenza che vanno applicate, analogicamente, le norme che

regolano le responsabilità in tema di prestazione professionale medica in

esecuzione d’un contratto d’opera professionale; in particolare quella di

cui all’art. 2236 cod. civ., il quale dispone che, «se la prestazione implica

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la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera

non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave»” (Cass.

1.3.1988, n. 2144, in Foro it., 1988, I, 2296, con nota di PRINCIGALLI, Medici

pubblici dipendenti responsabili come liberi professionisti?; Cass. 22

gennaio 1999, n. 589, in Danno e resp., 1999, 294, con nota di CARBONE;

Cass. 27 luglio 1998, n. 7336, in Foro it. Rep., 1998, voce Professioni

intellettuali, n. 36; Cass. 11 aprile 1995, n. 4152, in Enti pubblici, 1996,

908; Cass. 27 maggio 1993, n. 5939, in Foro it. Rep., 1993, voce

Professioni intellettuali, n. 114).

Da questa interpretazione consegue che alla responsabilità diretta

dell’ente (ed a quella del medico inserito organicamente nella struttura

dell’ente, per fatti inerenti la somministrazione delle prestazioni sanitarie)

non sono applicabili le norme previste dagli art. 22 e 23 del d.P.R. 10

gennaio 1957, n. 3, con riguardo alla responsabilità degli impiegati civili

dello Stato per gli atti compiuti in violazione dei diritti dei cittadini (Cass.

22 gennaio 1999, n. 589, in Danno e resp., 1999, 294, con nota di

CARBONE; Cass. 27 luglio 1998, n. 7336, in Foro it. Rep., 1998, voce

Professioni intellettuali, n. 36; Cass. 11 aprile 1995, n. 4152, in Enti

pubblici, 1996, 908; Cass. 27 maggio 1993, n. 5939, in Foro it. Rep.,

1993, voce Professioni intellettuali, n. 114). Nei rapporti tra medico, ente

ospedaliero e terzi danneggiati, la colpa, l’imperizia, la negligenza, il

nesso causale, l’ingiustizia del danno, vanno accertati secondo le norme

dettate dal codice civile sul contratto d’opera professionale, e non

secondo il testo unico sul pubblico impiego.

L’applicabilità degli artt. 22 e 23 del d.P.R. 3/57 al danno causato dal

medico è stata invece affermata quando il danno sia stato arrecato non in

conseguenza della prestazione di attività sanitaria in senso stretto. Ad

esempio, è stato ritenuto responsabile, ai sensi dell’art. 23 d.P.R. 3/57, il

medico fiscale che aveva erroneamente diagnosticato una infermità, sulla

base della quale il presunto infermo era stato posto in aspettativa dal suo

datore di lavoro (Cass. 22 ottobre 1984, n. 5370, in Foro it. Rep., 1984,

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voce Impiegato dello Stato e pubblico, n. 1057). Pertanto, a seconda

della natura (soggettiva ed oggettiva) dell’illecito commesso dal medico,

potranno aversi tre ipotesi:

a) danni commessi dal medico con dolo o colpa grave, al di fuori della

somministrazione di prestazioni sanitarie: di essi rispondono solidalmente

ed a titolo extracontrattuale il medico e la p.a.;

b) danni commessi dal medico con colpa lieve, al di fuori della

somministrazione di prestazioni sanitarie: di essi risponde solo la p.a., a

titolo extracontrattuale;

c) danni commessi dal medico nell’esercizio di prestazioni sanitarie, quale

che sia lo stato soggettivo (colpa lieve, grave o dolo): di essi rispondono

solidalmente ed a titolo contrattuale il medico e la p.a.

14.1. Medici in posizione apicale (primari) e medici subordinati (aiuti). Nel caso di danni derivanti da colpa dell personale medico ospedaliero, si

registra sovente incertezza in merito all’individuaizone del soggetto che

deve concretamente rispondere del danno: se, cioè, responsabile sia il

medico collocato nella posizione apicale (il “primario”), ovvero i medici a

lui subordinati (“aiuti” ed “assistenti”).

La materia, sino ad epoca relativamente recente, era disciplinata dall’art.

7 d.p.r. 27.3.1969 n. 128. In base a tale norma, gli ospedali erano

amministrati da “enti ospedalieri”, dei quali la legge fissava struttura e

funzioni. In particolare, l’organizzazione dell’ospedale era articolata in

divisioni, ognuna delle quali diretta da un primario, coadiuvato da aiuti e

da assistenti (art. 7 d.p.r. 128/69).

Sulla base di tale norma, che assegna soltanto ai primari ed agli aiuti le

scelte terapeutiche, la giurisprudenza ritiene che soltanti questi ultimi

debbano rispondere nel caso di cure errate od omesse.

La responsabilità dell’aiuto, in particolare, è stata affermata anche in un

caso in cui l’omissione da parte di quesi era dovuta proprio ad un ordine

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del primario, che lo aveva destinato ad altre mansioni. Osservò la S.C., in

quel caso, che in una situazione di potenziale conflitto tra la disposizione

data dal primario al suo aiuto e gli obblighi di assistenza di quest’ultimo

verso il paziente, l’ordine del primario non può valere, di per sé, a liberare

l’aiuto dai suddetti obblighi e, così, ad escluderne la colpa. Infatti, se pure

l’aiuto è soggetto al potere organizzativo del primario, egli deve

comunque curarsi di “rendere compatibili i due suoi diversi doveri, non

solo rappresentando al primario, prima ancora del ricovero, la necessità

in cui si sarebbe potuto venire a trovare, di prestare assistenza alla

partoriente, ma anche esponendogli, dopo il ricovero, la necessità di non

allontanarsi dal reparto per incombenze che gli impedissero di seguire

l'evolversi del parto a lui affidato” (Cass., 13-03-1998, n. 2750 in Foro it.,

1998, I, 3521).

Meno rigorosa è la responsabilità dell’assistente: questi, secondo

l’orientamento prevalente, non può essere considerato in colpa, quando

ometta di eseguire un intervento, salvo che in tre casi:

(a) quando vi sia l’urgenza di provvedere;

(b) quando il primario e l’aiuto siano impossibilitati ad intervenire;

(c) quando le istruzioni impartite dal primario o dall’aiuto siano

manifestamente erronee.

Con riferimento a quest’ultima ipotesi (ordine erroneo), non deve tuttavia

credersi che la giurisprudenza applichi ai rapporti gerarchici esistenti tra il

personale ospedaliero un principio analogo a quello dettato dall’art. 51

c.p., secondo cui chi ha eseguito l’ordine del superiore non risponde del

danno causato a terzi per effetto dell’esecuzione, “quando la legge non gli

consente alcun sindacato sulla legittimità dell'ordine” (così Cass.

27.2.2004 n. 4013; Cass. 10.5.2001 n. 6502, in Dir e giust., 2001, fasc.

24, 36).

Infatti, in tema di responsabilità dell’assistente, il giudice dilegittimità ha

operato un distinguo tra ordine manifestamente erroneo, ed ordine

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infelice nell’esito, ma pur sempre rientrante nella pratica clinica prevista

per quella concreta patologia.

Nel caso di ordine manifestamente erroneo, l’assistente (o comunque il

sottoposto) deve astenersi dall’eseguirlo, ed è in colpa se lo esegue.

Nel caso di ordine astrattamente non erroneo, ma inopportuno o dannoso per il caso concreto, l’assistente non può astenersi

dall’eseguirlo, ma ha il solo obbligo, se vuole andare esente da

responsabilità, di manifestare, anche oralmente, il proprio dissenso

(Cass. 10.5.2001 n. 6502, in Dir e giust., 2001, fasc. 24, 36).

Deve tuttavia ricordarsi che il d.p.r. 128/69 è stato abrogato dall’art. 4, comma 10, d. lgs. 30.12.1992 n. 502, il quale ha demandato alle regioni

il compito di disciplinare struttura e funzioni delle Aziende sanitarie e delle

aziende ospedaliere (queste ultime possono costituire, oggi, sia Aziende

a sé stanti, sia presidi delle A.S.L.). La stessa norma ha disposto che il

d.p.r. 128/69 perda efficacia a far data dall’approvazione, da parte delle

Regioni, della suddetta disciplina, e comunque entro un triennio

dall'entrata in vigore del decreto legislativo 7 dicembre 1993, n. 517

(avvenuta il 30.12.1993). L’art. 3, commi 1 bis e 1 quater, d. lgs. 502/92,

ha inoltre disposto che l’organizzazione ed il funzionamento delle Aziende

ospedaliere sia disciplinato con “atto aziendale” di diritto privato, adottato

dal direttore generale dell’azienda, nel rispetto dei principi e criteri previsti

dalle disposizioni regionali (per un esempio di tali disposizioni si veda, ex

multis, l’art. 26 l. reg. Lazio 16.6.1994 n. 18).

Il mutato quadro normativo, con la scomparsa della tradizionale

tripartizione tra primari, aiuti ed assistenti, non rende inattuali i princìpi affermati dalla Corte, e sopra riassunti.

La Corte, infatti, per escludere la responsabilità degli assistenti, non ha

fatto leva sic et simpliciter sull’art. 7 d.p.r. 128/69 (cioè su una norma oggi

abrogata). La regula iuris posta a fondamento delle decisioni sopra

richiamate è stata infatti la seguente: “il medico [quale che ne sia la

qualifica funzionale, n.d.a.] non risponde del danno da omesso o tardivo

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intervento, quando l’omissione è dipesa da scelte terapeutiche imposte

dal superiore gerarchico, ed esisteva una norma che lo obbligava ad

attenersi a tali scelte”. Principio, quest’ultimo, affatto svincolato dall’art. 7

d.p.r. 128/69, e suscettibile di trovare applicazione tutte le volte che esista

una norma statale, regionale, od anche una norma dell’ “atto aziendale” di

diritto privato che, ai sensi dell’art. 3, comma 1 bis d. lgs. 502/92, la quale

disciplini gli interna corporis delle aziende ospedaliere, ed attribuisca ad

una figura professionale sovraordinata il potere di decidere il da farsi, con

effetti vincolanti per i medici sottoordinati.

14.2. La responsabilità della struttura sanitaria pubblica. La struttura sanitaria pubblica può essere chiamata a rispondere nei

confronti del paziente sia per il fatto colposo commesso dal medico suo

dipendente od incaricato, sia per il il fatto colposo proprio, che può

consistere nella difettosa sepsi degli ambienti ospedalieri, nella o carente

omessa predisposizione di macchinari, strutture e presidi terapeutici,

nella omessa predisposizione di turni efficienti di personale, nella culpa in

vigilando od in eligendo.

Può accadere che una struttura ospedaliera, gestita da un ente pubblico,

sia di proprietà di altro ente pubblico (ad es., una regione che dia in

godimento un ospedale ad una facoltà universitaria). In questi casi del

danno patito dal paziente deve rispondere l’ente che abbia la materiale

gestione della struttura (Cass. 8.10.2008 n. 24791).

Una ipotesi particolare di responsabilità della struttua sanitaria è quella

derivante dai danni causati a se stessi da soggetti incapaci di intendere e

di volere. Di tale questione la giurisprudenza è stata chiamata più volte ad

occuparsi.

La S.C., in un caso in cui un paziente ricoverato per disturbi mentali

aveva tentato il suicidio, riportando lesioni personali, ha ritenuto che la

U.S.L. dovesse rispondere di tali lesioni, a prescindere dal carattere

volontario od obbligatorio del trattamento sanitario praticato in concreto,

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non potendo quest'ultimo condizionare l'obbligo di sorveglianza da parte

del medico e del personale sanitario (Cass., sez. I, 10-11-1997, n. 11038,

in Arch. civ., 1998, 428, nonché in Enti pubblici, 1998, 567; nello stesso

senso, per la giurisprudenza di merito, si veda Trib. Velletri, 19-03-1979,

in Giur. it., 1981, I, 2, 567, il quale ha affermato che “viola l'obbligo

contrattualmente assunto di vigilanza e di assistenza, oltre il principio del

neminem laedere, la casa di cura per malattie nervose che non riesca ad

impedire al malato schizofrenico di nuocere a se stesso, dovendosi

ritenere ampiamente prevedibile il comportamento irrazionale del

ricoverato”.

Ed ancora, in un caso in cui un neonato era stato sottratto dal reparto

maternità di un ospedale pubblico, la S.C. ha affermato recisamente che

l'obbligazione dell'ente ospedaliero non si esaurisce nella mera

prestazione delle cure mediche, ma include la protezione delle persone di

menomata o mancante autotutela che siano destinatarie dell'assistenza

ospedaliera, per le quali detta protezione costituisce la parte essenziale

della cura. Il dovere di curare l'assistito, pertanto, implica

necessariamente l'adozione delle misure necessarie alla protezione della

persona ed alla tutela dei suoi diritti primari (Cass., 04-08-1987, n. 6707,

in Foro it. Rep., 1987, voce Responsabilità civile, n. 88; sostanzialmente

nello stesso senso è altresì copiosa la giurisprudenza di merito: si

vedano, al riguardo, Trib. Roma 26.1.2004, Tocco c. Regione Lazio,

inedita (anch’essa concernente il caso del suicido di un malato di mente);

Trib. Venezia, 23-10-1995, in Foro It., 1996, I, 1844; Trib. Perugia, 26-06-

1991, in Arch. Civ., 1992, 453; Trib. Trieste, 23-11-1990 in Nuova Giur.

Civ., 1993, I, 986; Trib. Milano, 13-07-1989, in Giur. It., 1991, I, 2, 54).

E’ stata, invece, esclusa la responsabilità della ASL per la morte di una

persona, uccisa da un soggetto affetto da vizio totale di mente all'interno

di un bar, non potendosi configurare nei riguardi della ASL stessa uno

stretto obbligo di sorveglianza a carico dell'omicida che, se pur risultato

malato di mente, non si trovava comunque sottoposto a trattamento

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sanitario obbligatorio (TSO), e comunque fino a pochi giorni prima del

delitto non aveva dato segni di squilibrio e premonitori di una possibile

manifestazione di follia (Cass. 20.6.2008 n. 16803).

14.3. La responsabilità delle disciolte USL.Il d. lgs. 30.12.1992 n. 502 (“Riordino della disciplina in materia sanitaria,

a norma dell'articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421”),

successivamente modificato dal d. lgs. 7.12.1993 n. 517, ha disposto (art.

3 co. 1) che “l'unità sanitaria locale è azienda dotata di personalità

giuridica pubblica, di autonomia organizzativa, amministrativa,

patrimoniale, contabile, gestionale e tecnica, fermo restando il diritto-

dovere degli organi rappresentativi di esprimere il bisogno socio-sanitario

delle comunità locali”, stabilendo altresì (art. 3, comma 5) che “le regioni

disciplinano, entro il 31 marzo 1994, nell'ambito della propria competenza

le modalità organizzative e di funzionamento delle unità sanitarie locali

prevedendo tra l'altro:

a) la riduzione, sentite le province interessate, delle unità sanitarie locali,

prevedendo per ciascuna un ambito territoriale coincidente di norma con

quello della provincia. In relazione a condizioni territoriali particolari, in

specie delle aree montane, ed alla densità e distribuzione della

popolazione, la regione prevede ambiti territoriali di estensione diversa;

b) l'articolazione delle unità sanitarie locali in distretti;

c) i criteri per la definizione dei rapporti attivi e passivi facenti capo alle

preesistenti unità sanitarie locali e unità socio-sanitarie locali”.

Nell'interpretazione di queste norme il giudice di legittimità, dopo vari

contrasti iniziali, in subiecta materia ha fissato i seguenti princìpi:

(A) per quanto attiene la legittimazione passiva sostanziale, dei debiti

contratti dalle vecchie u.s.l. non possono rispondere le nuove ASL, ma

debbono rispondere le Regioni (Cass., sez. un., 30.11.2000 n. 1237, in

Giust. civ., 2001, I, 651; Cass., sez. un., 26-02-1999, n. 102, in Foro it.

Rep. 1999, voce Sanità pubblica, n. 320; Cass., sez. lav., 06-06-1998, n.

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5602, in Foro it. Rep. 1998, voce Sanità pubblica, n. 49; Cass., sez. un.,

06-03-1997, n. 1989, in Corriere giur., 1997, 1176; Cass., sez. lav., 09-

11-1996, n. 9804, in Enti pubblici, 1997, 810; cfr. altresì, nello stesso

senso, Trib. Roma 27.3.2000, in Giurispr. romana, 2000, 370; Trib. Roma

29.1.1999, in Giurispr. romana, 1999, 167; Trib. Latina 26.1.1999, in

Giurispr. romana, 1999, 325; Trib. Roma 11.6.1997, in Giurispr. romana,

1997, 312).

(B) Per quanto attiene la legittimazione passiva processuale, la

giurisprudenza di legittimità è ormai orientata a ritenere che anche

questa, così come la legittimazione sostanziale, spetti alle Regioni (Cass.

18.2.2000 n. 1829, in Foro it. Rep. 2000, Sanità pubblica, n. 307; Cass.

5.10.1999 n. 11070, inedita; Cass. 1.10.1999 n. 10874, inedita; Cass.

27.9.1999 n. 10647, inedita; Cass. 24.9.1999 n. 10550, inedita; Cass.

22.9.1999 n. 10317, inedita). Tuttavia, se il processo è instaurato nei

confronti di una U.S.L. prima della sua soppressione, e prosegue tra le

parti originarie (salva l'ipotesi di intervento o chiamata in causadella

Regione nella sua veste di successore a titolo particolare), è

ammissibile l'appello proposto dal commissario liquidatore (Cass.

23.9.2004 n. 19133).

14.4. L’azione di rivalsa della p.a. datrice di lavoro.Come si è già detto, l’art. 22, comma 2, d.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3,

stabilisce che “l’amministrazione che abbia risarcito il terzo del danno

cagionato dal dipendente si rivale agendo contro quest’ultimo (…)”. In

virtù della sua formulazione omnicomprensiva, tale norma veniva

tradizionalmente intesa nel senso che la p.a. potesse agire in rivalsa nei

confronti del proprio dipendente quando questi avesse cagionato a terzi

un danno del quale la stessa p.a. aveva dovuto rispondere, in ogni caso,

anche se l’impiegato aveva agito soltanto con colpa lieve, con la sola

eccezione dei danni causati dai conducenti di veicoli (22).

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Il quadro normativo, tuttavia, è di recente mutato. L’art. 1 l. 14 gennaio

1994, n. 20, come modificato dall’art. 3 d.l. 23 ottobre 1996, n. 543, ha

infatti stabilito che “la responsabilità dei soggetti sottoposti alla

giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica è

personale e limitata ai fatti ed alle omissioni commessi con dolo o con

colpa grave (…)”. La norma più recente ha dunque implicitamente ridotto

l’ambito di operatività dell’art. 22 d.P.R. 3/57, impedendo alla p.a. di agire

in rivalsa nei confronti del medico quando il danno sia stato da questi

arrecato con colpa lieve.

La rivalsa della p.a., nell’ipotesi prevista dall’art. 22, comma 2, d.P.R.

3/57, è demandata alla giurisdizione esclusiva della Corte dei conti. Tale

giurisdizione esclusiva risulta da un reticolo di norme diverse, e

segnatamente: (a) dell’art. 103, Cost.; (b) dall’art. 83 r.d. 18 novembre

1923, n. 2440 (recante “Nuove disposizioni sull’amministrazione del

patrimonio e sulla contabilità generale dello Stato”); (c) dall’art. 52, t.u. 12

luglio 1934, n. 1214 (recante “Approvazione del testo unico delle leggi

sulla Corte dei conti”).

Questo blocco normativo, nell’interpretazione datane dalla S.C., va inteso

nel senso che la giurisdizione esclusiva della Corte dei conti debba

ritenersi sussistente non solo per i fatti dannosi conseguenti al maneggio

di denaro, ma si estende ad ogni ipotesi di responsabilità per pregiudizi

economici arrecati allo stato o ad enti pubblici da persone legate da

vincoli di impiego o di servizio ed in conseguenza di violazione degli

obblighi inerenti a detti rapporti (Cass. 15 luglio 1988, n. 4634, in Cons.

Stato, 1988, II, 2140). Più in particolare, per quanto qui rileva, la Corte di

cassazione ha sovente affermato che quando un ente ospedaliero sia

condannato, in solido con il medico proprio dipendente, al risarcimento

del danno da quest’ultimo cagionato ad un paziente per colpa

nell’esercizio delle proprie attribuzioni, la domanda di rivalsa formulata

dall’ente ospedaliero nei confronti del medico è devoluta alla giurisdizione

esclusiva della Corte dei conti, perché in simili casi il danno subìto dalla

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p.a. trova la propria genesi nel rapporto di impiego o di servizio (Cass. 15

luglio 1988, n. 4634, in Cons. Stato, 1988, II, 2140; Cass. 18 luglio 1979,

n. 4244, in Foro it., 1980, I, 753).

Per completezza sul punto, è opportuno segnalare che il medico può

arrecare danno alla p.a. non soltanto causando lesioni al proprio

paziente, ma anche commettendo un illecito nello svolgimento della

propria attività amministrativa in senso ampio (certificazione,

individuazione dei pazienti, esatta enumerazione delle prestazioni

effettuate, ecc.). In questi casi, occorre due distinguere due ipotesi:

(a) se il danno è stato arrecato da un medico di base in regime di

convenzionamento (il quale abbia prescritto specialità medicinali per

finalità non terapeutiche o, comunque, al di fuori delle indicazioni

autorizzate), la giurisdizione in merito all’azione di rivalsa della p.a. spetta

alla Corte dei conti, in quanto tra il medico di base e la p.a. si costituisce

convenzionalmente un rapporto di servizio con riguardo alle attività che si

inseriscono nell’organizzazione strutturale, operativa e procedimentale

dell’ASL (25);

(b) se, invece, il danno è stato arrecato alla p.a. da un medico specialista,

in regime di convenzionamento esterno (una fattispecie – purtroppo –

ricorrente al riguardo è quella della percezione di compensi per

prestazioni in realtà mai eseguite, e falsamente documentate), si registra

un aperto contrasto in seno alla stessa Corte di cassazione, circa

l’individuazione del giudice competente a conoscere della domanda di

rivalsa. Infatti secondo S.C. (Cass. 18 dicembre 1985, n. 6442, in Foro it.,

1986, I, 2831), la giurisdizione spetta alla Corte dei conti, in quanto

l’attività di documentazione delle attività erogate in regime di

convenzionamento esterno rientra nell’ambito di un rapporto di servizio

con l’ASL. Al contrario, in fattispecie del tutto analoga, Cass. 5 dicembre

1989, n. 5381, in Cons. Stato, 1990, II, 469, ha ritenuto sussistere la

giurisdizione del giudice ordinario, considerando che i medici specialisti in

regime di convenzionamento esterno operano quali liberi professionisti, e

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non sono legati con l’amministrazione da alcun rapporto di impiego o di

servizio.

Si può quindi concludere che – quale che dovesse essere l’esito del

rilevato contrasto – la Corte di cassazione fonda la giurisdizione della

Corte dei conti sull’esistenza del rapporto di impiego o di servizio: se il

danno alla p.a. è arrecato dal medico nell’ambito del suddetto rapporto,

l’azione di rivalsa sarà devoluta alla Corte dei conti; se il danno è stato

arrecato al di fuori d’un rapporto di impiego o di servizio, l’azione di

rivalsa spetta alla giurisdizione del giudice civile ordinario. Deve

comunque segnalarsi che, da alcuni spunti contenuti in varie decisioni

delle magistrature superiori, sembrerebbe potersi desumere che l’azione

contabile ex art. 22, comma 2, d.P.R. 3./57 non sia esclusiva, ma sia

alternativa rispetto all’ordinaria azione di surrogazione dinanzi al giudice

civile, ex art. 1203 cod. civ.

La Corte di cassazione, ad esempio, ha affermato che “giurisdizione (…)

civile per risarcimento dei danni – da un lato – e giurisdizione contabile –

dall’altro – sono reciprocamente indipendenti nei profili istituzionali, anche

quando investano un medesimo fatto materiale, dalle colorazioni e

rilevanze giuridiche diverse. L’interferenza può avvenire fra i giudizi,

specie in relazione alla preminenza di quello penale (art. 3 cod. proc.

pen., art. 295 cod. proc. civ., art. 26 r.d. 13 agosto 1933, n. 1038),

giammai fra le giurisdizioni” (Cass. [ord.], 21 maggio 1991, n. 369, in

Cons. Stato, 1991, II, 1695; Cass. 3 febbraio 1989, n. 664, in Riv. corte

conti, 1989, fasc. 3, 161). L’affermazione secondo cui può sussistere

“interferenza tra i giudizi, non tra le giurisdizioni”, dimostra, a parere di chi

scrive, come nel pensiero della S.C. la pubblica amministrazione che

abbia risarcito il danno subìto dal terzo, per colpa del medico pubblico

dipendente, abbia dinanzi a sé due strade per agire in rivalsa: o la

denuncia al procuratore regionale della Corte dei conti (ex art. 45 r.d. 12

luglio 1934, n. 1214), ovvero l’ordinaria azione civile. Questa conclusione

sembra corroborata da alcune decisioni dello stesso giudice contabile: in

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un caso in cui la p.a. si era costituita parte civile nel giudizio penale

promosso contro l’impiegato infedele, ed in quella sede era stata

pronunciata condanna dell’imputato al risarcimento del danno civile in

favore della p.a., la Corte dei conti ha affermato che la condanna in sede

penale al risarcimento del danno civile non precludeva l’esercizio

dell’azione di responsabilità amministrativa nei confronti dell’imputato, ma

soltanto a condizione che, dopo l’affermazione della responsabilità

dell’imputato, non fosse iniziato, in sede civile, il giudizio liquidatorio del

danno (Corte conti, Sez. riun. 17 febbraio 1992, n. 752/A, in La settimana

giuridica, 1992, IV, 169). Analogamente, in tema di misure cautelari, il

giudice contabile ha ritenuto che il sequestro conservativo previsto

dall’art. 48 t.u. 13 agosto 1933, n. 1038 (e che potrebbe definirsi una

sorta di azione cautelare contabile) poteva essere chiesto ed ottenuto, dal

procuratore presso la Corte dei conti, a condizione che non fosse stato

eseguito un precedente sequestro conservativo dei beni del responsabile

(Corte conti, Sez. riun., 2 giugno 1990, n. 670, inedita).

Queste decisioni appaiono fondate sul principio del “doppio binario”, in

virtù del quale alla p.a. sarebbe consentito, per recuperare gli esborsi

compiuti in favore di terzi a causa di danni arrecati dai propri dipendenti,

sia avvalersi degli ordinari strumenti del diritto e del processo civile, sia

avvalersi del giudizio contabile (per uno spunto si veda C. conti, Sez. II,

17 luglio 1982, n. 106, in Riv. corte conti, 1982, 960, ove si legge che

“l’azione di responsabilità amministrativa è completamente distinta ed

autonoma rispetto all’azione civile di responsabilità contrattuale, avendo

per oggetto la violazione di un obbligo di servizio che abbia determinato

un danno, valutabile non in termini di mera patrimonialità, ma in relazione

al principio di buona amministrazione, e comportando una sanzione

patrimoniale ragguagliata non al danno arrecato all’erario, ma

proporzionata alla colpa dell’agente”).

Questo assunto, di recente, è stato corroborato dall’autorità del Consiglio

di Stato, il quale in sede consultiva ha ritenuto che nel sistema

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processuale binario, attivabile in caso di danno erariale, l’azione di

responsabilità amministrativa non ha carattere esclusivo e

l’amministrazione conserva la titolarità dell’azione civile risarcitoria e

restitutoria con correlato onere di compiere anche gli atti conservativi del

diritto, fermo restando l’obbligo dell’immediata denunzia dell’evento di

danno erariale al procuratore regionale della Corte dei conti (C. Stato,

commiss. spec., 20 gennaio 1997, n. 1420, in Cons. Stato, 1997, I, 1321).

Per completezza, è opportuno infine ricordare che rientra nella

giurisdizione del TAR, e non in quella della Corte dei conti, il ricorso

proposto dal sanitario contro la deliberazione con la quale l’ente

ospedaliero di appartenenza ha disposto il recupero, a titolo di rivalsa,

delle somme corrisposte a terzi per il risarcimento di danni causati dalla

sua imperizia, in seguito ad un giudizio civile al quale il sanitario sia

rimasto estraneo (TAR Basilicata, 30 ottobre 1981, n. 262, in Foro it.,

1983, III, 124).

In conclusione della presente scheda, e per comodità del lettore, è

possibile riassumere nel seguente quadro sinottico le principali differenze

tra le regole della responsabilità medica e le regole della responsabilità

civile in generale:

Responsabilità civile(generale)

Responsabilità medica

Prova della colpa incombe sull’attore la colpa del medico si presume, quando l’intervento non è

complessoProva del nesso causale incombe sull’attore,

secondo le regole della “causalità umana”, ex artt.

40 e 41 c.p.

il nesso causale tra condotta del medico e danno si

presume, quando l’incertezza sull’esistenza

del nesso causale sia dovuta all’imperfetta tenuta della

cartella clinica, ed il sanitario abbia comunque

tenuto una condotta astrattamente idonea a

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causare il danno Accertamento della colpa E’ necessario dimostrare

che la condotta negligente, imperita o imprudente sia

stata causa del danno

Basta a radicare un giudizio di colpa l’omissione di

informazione al paziente, a nulla rilevando che l’intervento sia stato

eseguito diligentementeContenuto del neminem

laedereAstenersi dal violare l’altrui

sfera giuridicaAttivarsi per diagnosticare e curare anche i mali diversi da quelli per cui ha avuto

inizio la terapia, secondo le regole della responsabilità

contrattuale

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