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LA RESPONSABILITA’ CIVILE DEI MAGISTRATI Una mezza verità ha accompagnato il dibattito politico ed i proclami mediatici che hanno preceduto l’emanazione della L. 27 febbraio 2015 n.18 sulla responsabilità civile dei magistrati: “ l’Europa ci chiede la riforma”. Effettivamente, alcune modifiche della L. n. 117/88 trovano preliminare fondamento giustificativo nella giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che hanno posto il legislatore nella necessità di dare una risposta formale alle sollecitazioni emerse dalla procedura di infrazione nei confronti dello Stato Italiano per violazione del diritto dell’Unione. Era pertanto inevitabile, al fine di evitare l’irrogazione della sanzione pecuniaria nei confronti dello Stato, recepire i principi espressi dalla Corte di Lussemburgo nelle sentenze Kobler del 2003 e Traghetti del Mediterraneo del 2006. Fatta questa doverosa premessa, l’altra mezza verità è che la L. n. 18/2015 è andata ben oltre le sollecitazioni e le indicazioni del giudice sovranazionale. A voler rispettare le indicazioni della Corte di Lussemburgo, la riforma nazionale avrebbe dovuto garantire la responsabilità dello Stato per violazione del diritto dell’Unione europea, nell’ipotesi di pronunce da parte di organi giurisdizionali di ultimo grado. La L. n. 18/2015 ha, invece, toccato profili centrali della responsabilità civile del tutto estranei dalle sollecitazioni della Corte di Giustizia. Il legislatore, cogliendo l’occasione offerta dall’ordinamento dell’Unione europea, ha innovato radicalmente la normativa della legge Vassalli attraverso una “riforma epocale” finalizzata a rendere “ la giustizia… meno ingiusta e i cittadini…. più tutelati”. In attesa dell’applicazione concreta che della nuova normativa daranno i giudici, la nuova disciplina relega lo Stato Italiano in una posizione isolata rispetto al panorama legislativo degli altri principali Stati dell’Unione Europea, dove continuano a permanere specifiche garanzie volte ad impedire l’utilizzo temerario delle azioni risarcitorie e ad assicurare piena attuazione ai valori di indipendenza della magistratura. Per comprendere gli obiettivi e la portata della riforma, va ricostruito il contesto, e, più in particolare il contenuto delle decisioni della Corte di Giustizia, al fine di verificare quali cambiamenti siano la naturale e necessaria conseguenza della giurisprudenza sovranazionale e quali, invece, non siano connessi all’esigenza di adeguamento del diritto interno al diritto dell’Unione.

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LA RESPONSABILITA’ CIVILE DEI MAGISTRATI

Una mezza verità ha accompagnato il dibattito politico ed i proclami mediatici che

hanno preceduto l’emanazione della L. 27 febbraio 2015 n.18 sulla responsabilità civile dei

magistrati: “ l’Europa ci chiede la riforma”.

Effettivamente, alcune modifiche della L. n. 117/88 trovano preliminare fondamento

giustificativo nella giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che hanno

posto il legislatore nella necessità di dare una risposta formale alle sollecitazioni emerse

dalla procedura di infrazione nei confronti dello Stato Italiano per violazione del diritto

dell’Unione. Era pertanto inevitabile, al fine di evitare l’irrogazione della sanzione

pecuniaria nei confronti dello Stato, recepire i principi espressi dalla Corte di Lussemburgo

nelle sentenze Kobler del 2003 e Traghetti del Mediterraneo del 2006.

Fatta questa doverosa premessa, l’altra mezza verità è che la L. n. 18/2015 è andata

ben oltre le sollecitazioni e le indicazioni del giudice sovranazionale. A voler rispettare le

indicazioni della Corte di Lussemburgo, la riforma nazionale avrebbe dovuto garantire la

responsabilità dello Stato per violazione del diritto dell’Unione europea, nell’ipotesi di

pronunce da parte di organi giurisdizionali di ultimo grado.

La L. n. 18/2015 ha, invece, toccato profili centrali della responsabilità civile del

tutto estranei dalle sollecitazioni della Corte di Giustizia. Il legislatore, cogliendo l’occasione

offerta dall’ordinamento dell’Unione europea, ha innovato radicalmente la normativa della

legge Vassalli attraverso una “riforma epocale” finalizzata a rendere “ la giustizia… meno

ingiusta e i cittadini…. più tutelati”.

In attesa dell’applicazione concreta che della nuova normativa daranno i giudici, la

nuova disciplina relega lo Stato Italiano in una posizione isolata rispetto al panorama

legislativo degli altri principali Stati dell’Unione Europea, dove continuano a permanere

specifiche garanzie volte ad impedire l’utilizzo temerario delle azioni risarcitorie e ad

assicurare piena attuazione ai valori di indipendenza della magistratura.

Per comprendere gli obiettivi e la portata della riforma, va ricostruito il contesto, e,

più in particolare il contenuto delle decisioni della Corte di Giustizia, al fine di verificare

quali cambiamenti siano la naturale e necessaria conseguenza della giurisprudenza

sovranazionale e quali, invece, non siano connessi all’esigenza di adeguamento del diritto

interno al diritto dell’Unione.

LE SENTENZE DELLA CORTE DI GIUSTIZIA

Le ragioni che hanno indotto il legislatore a m o d i f i c a r e l a L . n .

1 7 7 / 8 8 , e m a n a t a all’indomani del referendum del 1987, vanno ricercate nelle

sollecitazioni provenienti dal diritto dell’Unione europea. In particolare, alcune importanti

pronunce della Corte di giustizia si sono susseguite a partire dagli anni ’90, prime fra tutte

la sentenza Francovich, resa peraltro all’esito di un rinvio pregiudiziale da parte di due

giudici italiani in materia di tutela dei diritti dei lavoratori in caso di insolvenza datoriale.

È infatti con quella pronuncia che la Corte di Lussemburgo afferma, per la prima volta a

chiare lettere, che sugli Stati membri incombe l’obbligo di risarcire i danni derivanti ai

singoli dalla mancata attuazione di un direttiva. In particolare, la Corte connette

quest’obbligo, da un lato, alla necessità di assicurare piena efficacia alle norme comunitarie

attributive di diritti e dall’altro, all’art. 5 del Trattato: l’obbligo di eliminare le

conseguenze in capo ai privati delle violazioni del diritto comunitario commesse dagli

Stati deve considerarsi, cioè, una delle misure che gli Stati stessi sono tenuti ad adottare per

assicurare l’esecuzione degli obblighi ad essi derivanti dalla partecipazione all’Unione.

Una seconda fondamentale tappa è rappresentata dalla sentenza Brasserie du

pecheur (Corte Giust. 5 marzo 1996, C-46/93 e C-48/93.) che aggiunge al corpus di principi

e regole già indicato nel 1991 due importanti precisazioni: la prima è che “le condizioni

fissate” per il risarcimento del danno a livello statale non possono essere “meno favorevoli

di quelle che riguardano reclami analoghi di natura interna”, e neppure “possono essere

tali da rendere impossibile o eccessivamente difficile ottenere il risarcimento”; la seconda è

che “il principio della responsabilità dello Stato per danni causati ai singoli da violazioni

del diritto comunitario […] ha valore in riferimento a qualsiasi ipotesi di violazione

[…], qualunque sia l’organo di quest’ultimo [dello Stato] la cui azione od omissione

ha dato origine alla trasgressione”.

Nonostante, si potesse ipotizzare, già nel 1996, la responsabilità dello Stato per

violazione del diritto comunitario, non vi era stata un’espressa pronuncia da parte della Corte

lussemburghese sulla specifica ipotesi della violazione del diritto comunitario determinata

dallo Stato attraverso un proprio giudice. Certamente, essa era compresa nella portata delle

più generali affermazioni della sentenza Brasserie, laddove si fa espresso riferimento

all’obbligo risarcitorio degli stati da violazioni del diritto comunitario “qualunque sia

l’organo che ha dato origine alla violazione”.

Nel 2003 arriva la sentenza Kobler (Corte giust. 30 novembre 2003, C-224/01) , con

cui la Corte di Giustizia afferma la configurabilità della responsabilità dello Stato per il

caso in cui la violazione del diritto comunitario provenga da un organo giurisdizionale di

ultimo grado.

Secondo la Corte di Giustizia, poiché le pronunce degli organi giurisdizionali di

ultimo grado sono per definizione inoppugnabili, il privato va tutelato con l’azione

risarcitoria, in caso di violazione del diritto UE.

La Corte individua le condizioni perché possa verificarsi una violazione del diritto

comunitario da parte dei giudici di ultima istanza, prevedendo che la norma violata debba

avere i requisiti della “chiarezza” e della “precisione”.

Quanto all’elemento soggettivo, oltre al “carattere intenzionale della violazione”,

deve tenersi conto della “inescusabilità dell’errore di diritto”: per configurare il requisito

della inescusabilità è necessario far riferimento alla “posizione adottata eventualmente da

un’istituzione comunitaria” nonché alla “mancata osservanza, da parte dell’organo

giurisdizionale del suo obbligo di rinvio pregiudiziale”[…].

L’equazione inescusabilità dell’errore- violazione del diritto comunitario, secondo i

giudici di Lussemburgo, sussiste quando la decisione dell’organo giurisdizionale dello

Stato membro è intervenuta ignorando manifestamente la giurisprudenza della Corte.

Non qualsiasi violazione del diritto dell’Unione da parte dell’organo

giurisdizionale è fonte di responsabilità civile dello Stato, ma soltanto quelle che, secondo le

indicazioni della Corte, debbano dirsi manifeste.

Un’altra tappa fondamentale per lo Stato Italiano, in materia di responsabilità dello

Stato per violazione del diritto comunitario da parte dell’organo giudiziario, è costituita dalla

nota pronuncia Traghetti del Mediterraneo, con la quale la Corte per la prima volta affronta

direttamente la questione della compatibilità della L. n. 117/88 con il diritto dell’Unione.

Il rinvio pregiudiziale ai sensi dell’articolo 234 del trattato CE era stato richiesto dal

Tribunale di Genova, dinanzi al quale pendeva un’azione di risarcimento intentata dalla

Traghetti del Mediterraneo contro lo Stato italiano, a seguito di una presunta erronea

interpretazione della normativa comunitaria da parte della Corte di Cassazione, che non

aveva ritenuto di dover interpellare al riguardo il giudice europeo.

La sentenza “Traghetti del Mediterraneo” affronta in modo dettagliato la

compatibilità della responsabilità civile dell’organo giurisdizionale di ultimo grado con

l’attività interpretativa. Secondo la Corte di Giustizia, se, da un lato “l’interpretazione delle

norme di diritto rientra nell’essenza vera e propria dell’attività giurisdizionale… non si può

escludere che una violazione manifesta del diritto comunitario vigente venga commessa,

appunto, nell’esercizio di una tale attività interpretativa”. Anzi, secondo i giudici di

Lussemburgo, la violazione del diritto comunitario avviene proprio attraverso l’attività

interpretativa del giudice di ultima istanza e, quando le decisioni non sono impugnabili,

l’unico rimedio è quello risarcitorio.

La Corte di Giustizia esamina inoltre la compatibilità della normativa nazionale in

materia di responsabilità civile dei magistrati di cui alla L. n. 117/88, giungendo alla

conclusione che essa è incompatibile con il diritto dell’Unione, alla luce dei punti salienti

della giurisprudenza Köbler.

Dall’esame delle pronunce della Corte lussemburghese, possono evincersi i seguenti

principi:

a) Lo Stato è responsabile per violazione dei diritti dei singoli, qualunque sia

l’organo cui è imputabile la violazione (legislativo, esecutivo o giurisdizionale);

b) considerata la specificità della funzione giurisdizionale, la responsabilità dello

Stato deve essere limitata al caso eccezionale di una “manifesta” violazione del diritto

secondo i requisiti previsti nella sentenza Kobler, considerando il “grado di chiarezza e di

precisione della norma violata, del carattere intenzionale della violazione, della

scusabilità o inescusabilità dell’errore di diritto, della posizione adottata eventualmente

da un’istituzione comunitaria, nonché della mancata osservanza, da parte dell’organo

giurisdizionale di cui trattasi, dell’obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’articolo

234, terzo comma, CE”;

c) la violazione deve essere stata commessa da parte dell’organo giudicante di

ultima istanza (punto 53 della sentenza Köbler ).

La massima della sentenza è esplicita in ordine alla incompatibilità della

normativa interna che limiti la responsabilità dello Stato membro per i danni arrecati ai

singoli a seguito di una violazione del diritto comunitario per il solo fatto che la violazione

risulti dall’interpretazione delle norme giuridiche, laddove sussista il carattere “manifesto”

della violazione.

Secondo la Corte di Giustizia, inoltre, la L.117/88 è incompatibile con il diritto

comunitario nella parte in cui limita la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di dolo o

colpa grave del giudice, ove una tale limitazione porti ad escludere la sussistenza della

responsabilità dello Stato membro interessato quando sia stata commessa una violazione

manifesta del diritto vigente, quale precisata ai punti 53-56 della sentenza 30 settembre

2003, causa C-224/01, Köbler.

A seguito della sentenza Traghetti del Mediterraneo, la Commissione aveva invitato

l’Italia a conformarsi alla giurisprudenza della Corte di Giustizia con una prima lettera in

data 10 febbraio 2009, cui era seguita una lettera di diffida il 9 ottobre e, infine, un

ultimatum il 22 marzo 2010.

A seguito del ricorso per inadempimento da parte dello Stato Italiano ai sensi

dell’art.258 TFUE, proposto dalla Commissione, la Corte di giustizia pronunciava la

sentenza del 24 novembre 2011.

Con tale decisione, la Corte lussemburghese statuiva che l’Italia è venuta meno agli

obblighi ad essa incombenti in forza del principio generale di responsabilità degli Stati

membri per violazione del diritto dell'Unione da parte di uno dei propri organi giurisdizionali

di ultimo grado:

- escludendo qualsiasi responsabilità dello Stato italiano per i danni arrecati ai

singoli a seguito di una violazione del diritto dell’Unione imputabile a un organo

giurisdizionale nazionale di ultimo grado, qualora tale violazione risulti da interpretazione di

norme di diritto o da valutazione di fatti e prove effettuate dall’organo giurisdizionale

medesimo;

- limitando tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave per come

definiti dalla l. n. 117/88.

IL DICTUM DELLA CORTE DI GIUSTIZIA: CHE COSA CHIEDEVA

VERAMENTE L’EUROPA?

La disamina delle pronunce della Corte di Giustizia non lascia dubbi sull’obbligo del

legislatore italiano di adeguare l’ordinamento interno al diritto euro unitario, prevedendo la

responsabilità dello Stato (e non del singolo magistrato) per violazione del diritto

dell’Unione (e non della legislazione nazionale) da parte degli organi giurisdizionali di

ultima od unica istanza (e non dei giudici di grado inferiore).

Occorre distinguere tra responsabilità dello Stato e responsabilità del magistrato, per

sottolineare che la Corte di giustizia non si è mai interessata della seconda, ma sempre della

prima.

L’illecito dello Stato, e la conseguente responsabilità, sussiste anche in caso di

mancata o infedele trasposizione di direttiva: non si parla qui di responsabilità del

legislatore, ma dello Stato considerato nella sua unità (Corte giust. 5 marzo 1996, cause

riunite C-46 e C- 48/93, id., 1996, IV, 185).

Tuttavia, mentre nel caso del comune illecito giudiziario la responsabilità discende

dal rapporto organico corrente fra l’ufficio del giudice e lo Stato (art. 28 Cost.), nel caso

della responsabilità eurounitaria lo Stato risponde quale Stato membro dell’Unione europea,

ossia per i danni cagionati ai singoli per effetto della violazione degli obblighi derivanti

dall’appartenenza all’Unione.

In secondo luogo, è opportuno distinguere tra la responsabilità che consegue alla

violazione, da parte di un giudice, del diritto nazionale e la responsabilità che consegue

invece alla violazione del diritto dell’Unione europea; anche in questo caso, infatti, la Corte

di giustizia si è occupata esclusivamente del secondo profilo, e non anche del primo: quel

che preme al giudice di Lussemburgo è infatti che il tasso di penetrazione del diritto

comunitario nel tessuto dei singoli ordinamenti nazionali non risulti impropriamente

ostacolato dalle normative interne

Infine, la decisione della Corte di Giustizia riguardava le decisioni degli organi di

ultimo grado o di unica istanza, per loro natura non impugnabili.

A voler rigorosamente rispettare le indicazioni della Corte di Lussemburgo, la

riforma nazionale avrebbe dovuto garantire soltanto la responsabilità dello Stato per

violazione del diritto dell’Unione Europea, nell’ipotesi di pronunce emanate da organi

giurisdizionali di ultimo grado. Le indicazioni della Corte non erano dirette ad incidere sulla

responsabilità dei magistrati, sulla violazione del diritto nazionale e sulle decisioni di organi

non di ultimo grado.

La pronuncia della Corte di Giustizia poteva rappresentare, anzi, un’occasione per

riscrivere in modo organico la disciplina della responsabilità dello Stato per violazione degli

obblighi nascenti dal diritto dell’Unione da parte dell’organo legislativo, amministrativo e

giudiziario.

Il legislatore ha invece colto l’occasione offerta dall’ordinamento dell’Unione per

riscrivere del tutto la L. n. 117/88 non solo in relazione alla responsabilità dello Stato ma

anche, e soprattutto, della responsabilità del singolo magistrato.

Si è trattato di una chiara scelta politica da tenere ben distinta dagli obblighi imposti

dal diritto dell’Unione, mentre l’acceso dibattito che ha preceduto l’emanazione della legge,

si è focalizzato sul mantra “è l’Europa che ce lo chiede”. Le innovazioni della L. n. 18/2015

hanno innovato in modo significativo la disciplina sulla responsabilità del singolo

magistrato, attraverso una “riforma epocale” o, forse, una “riforma punitiva”.

L’art.1 della L. n. 117/88 non lascia spazi ad equivoci: le modifiche sono volte «al

fine di rendere effettiva la disciplina che regola la responsabilità civile dello Stato e dei

magistrati, anche alla luce dell’appartenenza dell’Italia all’Unione europea».

La commistione dei due livelli di responsabilità è fonte di problematiche applicative

e di censure di costituzionalità, di cui si tratterà in modo sintetico in questo breve scritto.

IL QUADRO NORMATIVO DELLA L. 13 APRILE 1988 N.117

Come noto, la L. n. 117/88 venne emanata al seguito del referendum sulla

responsabilità civile dei magistrati, volto all’abrogazione degli artt. 55, 56 e 74 c.p.c. Il

referendum, svoltosi nel novembre del 1987, trasse spunto dalla nota vicenda giudiziaria, che

vide coinvolto il presentatore televisivo Enzo Tortora ed il risultato fu inequivocabile a

favore dell’abrogazione (80% circa dei voti validi).

Venne approvata la L. n. 117/88, i cui aspetti significativi possono così sintetizzarsi:

- la legittimazione ad agire spetta a chi si ritiene danneggiato da un atto,

comportamento o provvedimento giudiziario in tre ipotesi: dolo, colpa grave, diniego di

giustizia;

- le ipotesi di colpa grave consistono nella a) la grave violazione di legge

determinata da negligenza inescusabile; b) l’affermazione, determinata da negligenza

inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del

procedimento e, parallelamente, c) la negazione, sempre determinata da negligenza

inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del

procedimento; d) l’emissione di provvedimento concernente la libertà della persona fuori dai

casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione;

- legittimato passivo è lo Stato, salvo rivalsa nei confronti del magistrato nei

limiti del terzo della retribuzione annuale, nei confronti del magistrato, ed a meno che il fatto

produttivo di danno non fosse un reato (nel qual caso il danneggiato aveva diritto al

risarcimento nei confronti sia del magistrato che dello Stato);

- condizione di procedibilità dell’azione è che fossero stati esperiti tutti i rimedi

previsti contro il provvedimento;

- previsione di un vaglio di ammissibilità volto a bloccare sul nascere azioni

manifestamente infondate, intempestive o non rispettose dei presupposti di legge;

- previsione della c.d. clausola di salvaguardia, secondo la quale “nell’esercizio

delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di

norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove”;

- previsione del termine di due anni per la proposizione dell’azione di

risarcimento (articolo 4 );

- previsione del termine di due anni per l’esercizio dall’azione di rivalsa da

parte del Presidente del Consiglio dei Ministri.

La grande novità era dunque costituita dalla responsabilità per colpa, bilanciata

attraverso alcuni accorgimenti, ed in particolare tramite il filtro di ammissibilità e la c.d.

clausola di salvaguardia. Attraverso simili strumenti, si tendeva ad evitare improprie

sovrapposizioni tra il giudizio di impugnazione e quello di responsabilità ed a garantire i

singoli magistrati, preservandone l’autonomia di giudizio e, per tal via, l’indipendenza.

La L. n. 117/88 ha superato il vaglio di costituzionalità già all’indomani della sua

entrata in vigore.

La prima decisione che viene in rilievo è senz’altro la sentenza n. 18/89 , in cui il

giudice delle leggi ha ritenuto che la disciplina della L. n. 117/88 è caratterizzata dalla

“costante cura di predisporre misure e cautele idonee a salvaguardare l’indipendenza dei

magistrati, nonché l’autonomia e la pienezza della funzione giudiziaria”. Dette cautele sono

costituite, secondo la Corte dalla previsione della clausola di salvaguardia, la cui portata è

ora significativamente ridimensionata, e dal filtro di ammissibilità, che è stato eliminato

dalla L. n. 18/2015.

LE MODIFICHE INTRODOTTE CON LA L. 27 FEBBRAIO 2015 N. 18.

Le modifiche più rilevanti, rispetto alla precedente disciplina, possono sintetizzarsi

come segue:

a. E’ prevista la risarcibilità del danno non patrimoniale anche in casi diversi

dalla privazione della libertà personale (art.2 comma1);

b. sono aggiunti, fra le ipotesi di colpa grave: I) la violazione manifesta della

legge nonché del diritto dell’Unione europea tenendosi conto, in particolare, del grado di

chiarezza e precisione delle norme violate nonché dell’inescusabilità e della gravità della

inosservanza e, in caso di violazione manifesta del diritto dell’Unione europea, della

mancata osservanza dell’obbligo di rinvio pregiudiziale, nonché del contrasto dell’atto o del

provvedimento con l’interpretazione espressa dalla Corte di giustizia dell’Unione europea;

II) il travisamento del fatto o delle prove;

c. è abrogato il filtro di ammissibilità;

d. è stata modificata la clausola di salvaguardia: oltre che nei casi di dolo,

l’interpretazione di norme di diritto e di valutazione del fatto e delle prove da luogo a

responsabilità anche nei casi di colpa grave previsti dai commi 3 e 3 bis dell’art.2;

e. il termine di decadenza per la proposizione dell’azione risarcitoria è innalzato

a tre anni (art.4 );

f. è prevista l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione di rivalsa da parte dello

Stato nei confronti del magistrato nei casi di diniego di giustizia ovvero di violazione

manifesta del diritto o travisamento del fatto o delle prove “determinati da dolo o negligenza

inescusabile” (articolo 7 modificato);

g. è innalzata a due anni il termine entro cui il Presidente del Consiglio dei

Ministri, ha l’obbligo di esercitare l’azione di rivalsa;

h. è aumentata fino a metà di un’annualità stipendiale la misura della rivalsa nei

confronti del magistrato.

LE NUOVE FATTISPECIE DI COLPA GRAVE DEL MAGISTRATO

Il nuovo comma 3 della L. n. 18/2015 stabilisce le ipotesi di colpa grave del

magistrato:

• la ''violazione manifesta della legge nonchè del diritto dell'Unione europea”

• il travisamento del fatto o delle prove;

• l'affermazione di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli

atti del procedimento;

• la negazione di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti

del procedimento;

• l'emissione di un provvedimento cautelare personale o reale fuori dei casi

previsti dalla legge oppure senza motivazione.

LA VIOLAZIONE MANIFESTA DELLA LEGGE E DEL DIRITTO DELL’UNIONE

EUROPEA

Il nuovo testo normativo trasfonde letteralmente il testo della sentenza della CGUE

Traghetti del mediterraneo, prevedendo quale ipotesi di responsabilità la “violazione

manifesta della legge” in luogo della “grave violazione di legge determinata da errore

inescusabile” prevista dalla Legge Vassalli.

Secondo la giurisprudenza formatasi sotto il vigore della precedente normativa, per

negligenza «inescusabile» si intendeva una violazione evidente, grossolana e macroscopica

della norma ovvero di una lettura di essa contrastante con ogni criterio logico oppure

l’adozione di scelte aberranti nella ricostruzione della volontà del legislatore o la

manipolazione assolutamente arbitraria del testo normativo o , ancora lo sconfinamento nel

diritto libero. (Cass. 18.3.2008 N.7272)

Tale definizione è ancora attuale ai fini della rivalsa, ma non più per la fattispecie di

responsabilità, che hanno quale presupposto la “violazione manifesta della legge”.

Ad avviso di chi scrive, per essere manifesta la violazione deve avere un’evidenza

tale da non richiedere un’attività interpretativa; la violazione deve essere contraria alla lettera

della disposizione nel suo significato linguistico. Vi deve essere un travisamento linguistico

della disposizione.

Il legislatore ha stabilito che la violazione che può dare luogo al risarcimento dei

danni deve essere manifesta e cioè deve avere un’evidenza tale da non richiedere un’attività

interpretativa: “l’art. 3-bis specifica che, nella valutazione della manifesta violazione di

legge, deve tenersi conto del grado di chiarezza e precisione delle norme”, escludendo la

responsabilità ogni volta che il testo normativo si presti ad un’attività interpretativa”. Un

riferimento positivo può essere rinvenuto nella giurisprudenza della Suprema Corte

relativa all’errore del giudice rilevante in sede disciplinare, individuato nella

«incontrovertibile difformità da già prospettate o ragionevolmente possibili interpretazioni

della norma» e, quindi, nella soluzione che «non riesca a trovare aggancio nell'elaborazione

giurisprudenziale e dottrinale dell'epoca od anche successiva né, in mancanza od in

contrasto con quei referenti, una plausibile giustificazione sul piano logico. Non può dunque

rilevare l'errore, ma il suo presentarsi evidente ed incontrovertibile per la generalità degli

operatori del settore».

Si ha “violazione manifesta della legge” nei casi in cui la norma escluda qualsiasi

attività interpretativa da parte del giudice e si risolva in un’inosservanza del significato

linguistico della disposizione (si pensi, ad esempio alla durata dei termini di prescrizione o di

custodia cautelare). Per valutare se la violazione dell’enunciato linguistico sia manifesta,

deve valutarsi il grado di chiarezza e precisione della norma e l’inescusabilità e la gravità

dell’inosservanza.

Il rischio concreto della portata innovativa della norma è sfociare in un eccessivo

conformismo giurisprudenziale in favore della certezza del diritto, o, se si vuole, di una

“giurisprudenza difensiva” che diventerebbe così incapace di adeguare il diritto vivente alle

mutevoli esigenze della società. Il potere diffuso, diretta conseguenza della soggezione del

singolo giudice soltanto alla legge, spesso ha consentito l'emersione della tutela degli

interessi dei soggetti deboli ed ha contribuito non poco a rendere effettivi nella società

italiana i principi costituzionali (basti pensare al revirement giurisprudenziale su temi come

gli interessi usurari, l’anatocismo).

L’elemento di novità più rilevante nella nuova normativa sulla responsabilità civile

dei magistrati è senza dubbio costituito dall’introduzione della violazione manifesta del

diritto dell’Unione Europea. Il legislatore ha trasfuso nel testo legislativo i passaggi più

significativi della sentenza Kobler, adempiendo all’obbligo posto dalla Corte di Giustizia di

affermazione della responsabilità dello Stato per violazione del diritto dell’Unione.

L’equivoco tra responsabilità dello Stato e responsabilità del magistrato riaffiora

proprio in relazione all’introduzione, nel novero, tra le ipotesi di colpa del magistrato, della

violazione del diritto dell’Unione Europea, in quanto, in tale ipotesi, la violazione riguarda

non il precetto ma l’interpretazione secondo il dictum delle corti sovranazionali.

La portata innovativa della norma desta non poche preoccupazioni, essendo

relativamente recente nella cultura e nella formazione dei magistrati l’applicazione del diritto

europeo, nonostante l’impulso volto alla formazione di una cultura europeista da parte del

CSM e della Scuola della Magistratura. Oltre al proliferare della legislazione nazionale, il

giudice deve misurarsi con la legislazione ed il diritto dell’Unione europea, dominata dalla

giurisprudenza della Corte di Giustizia e della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

Inevitabili sono i problemi che si pongono nella gerarchia delle fonti cui si uniscono i

contrasti interpretativi nel dialogo tra corti.

Fortunatamente la legge, nella sua tortuosa e non chiara formulazione, prevede che

la violazione manifesta del diritto dell’Unione Europea sia valutata facendo riferimento al

“grado di chiarezza e precisione delle norme violate nonchè dell’inescusabilità e della

gravità dell’inosservanza”.

Sarà compito dell’interprete chiarire caso per caso quando la norma (e

l’interpretazione ad essa data dalle corti nazionali e sovranazionali) sia così “chiara” e

“precisa” da non prestarsi a diverse interpretazioni.

Quanto al concetto di “inescusabilità”, sarà necessario tenere conto di tutti gli aspetti

del caso concreto, (eventualmente mutuando dalla giurisprudenza formatasi sotto il vigore

della precedente disciplina in tema di “inescusabilità dell’errore”), verificando, volta per

volta, il grado di diffusione della norma di diritto europeo e la consolidata interpretazione

fornita dalla Corte di Giustizia.

Non va sottaciuto che spesso, al di là dei frequenti ritardi con i quali interviene, è lo

stesso legislatore nazionale ed europeo che, adottando tecniche legislative che privilegiano

disposizioni elastiche, flessibili e sfumate, lascia deliberatamente al giudice il compito di

riempire di significato le norme.

Un ulteriore e problematico aspetto riguarda l’obbligo del rinvio pregiudiziale alla

Corte di Giustizia ai sensi dell’art. 267 TFUE , in caso di violazione manifesta del diritto

europeo. L’art.267 TFUE conferisce ai giudici nazionali la più ampia facoltà di adire la

Corte, qualora essi ritengano che una causa dinanzi ad essi pendente faccia sorgere questioni

che richiedono un'interpretazione o un esame della validità delle disposizioni del diritto

dell'Unione essenziali ai fini della soluzione della lite di cui sono investiti (sentenze del 27

giugno 1991, Mecanarte, C-348/89, Racc. pag. I-3277, punto 44, e del 5 ottobre 2010,

Elchinov, C- 173/09, Racc. pag. I-8889, punto 26).

La Corte Costituzionale (sent. 30/03/2012, n. 75) ha previsto l’obbligo del rinvio

pregiudiziale alla Corte di Giustizia limitatamente ai giudici di ultima istanza e nei casi in

cui non si tratti di un'interpretazione consolidata o di una norma che non lasci adito a dubbi

interpretativi. Per quanto riguarda i giudici non di ultima istanza, sussiste la facoltà e non

l’obbligo del rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, nei casi in cui non sia possibile

procedere ad un’interpretazione conforme al diritto Comunitario.

La L. n. 18/2015 sembrerebbe estendere l’obbligo del rinvio pregiudiziale alla Corte

di Giustizia anche da parte dei giudici non di ultima istanza, sempre che non sia possibile

procedere ad un’interpretazione conforme al diritto euro unitario, o, in caso di contrasto, alla

disapplicazione del diritto interno in contrasto con il diritto comunitario.

Appare evidente che l’inserimento tra le ipotesi di responsabilità civile dei magistrati

dell’omesso rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia allarga le ipotesi di responsabilità del

magistrato anche in relazione a temi dibattuti ed in continua evoluzione, quali il rapporto tra

interpretazione conforme, disapplicazione e rinvio pregiudiziale, in continua evoluzione.

IL TRAVISAMENTO DEL FATTO E DELLE PROVE

Tra le ipotesi di colpa grave è previsto anche il “travisamento del fatto e delle prove”,

introdotto ex novo dalla L. n. 18/2015 e non contemplato tra le ipotesi di responsabilità del

magistrato oggetto delle pronunce della Corte di Giustizia. Si tratta dell’ipotesi su cui,

presumibilmente, si fonderanno la maggior parte di richieste di risarcimento dei danni per

errore giudiziario, con il rischio di sovrapposizione tra azione di responsabilità e mezzi di

impugnazione.

Per individuare il travisamento della prova bisogna far riferimento all’art.606, c.1,

c.p.p. che ricorre nel caso in cui il giudice abbia tratto il proprio convincimento da una prova

che non esiste o su un risultato di prova obiettivamente ed incontestabilmente diverso da

quello reale. Si ha travisamento della prova quando si utilizzi un’informazione inesistente o

si ometta l’esame di elementi probatori offerti dalle parti.

Il travisamento della prova non tocca il livello della valutazione ma si arresta alla

fase antecedente dell’errata percezione di quanto riportato nell’atto istruttorio.

Più problematica è l’ipotesi di travisamento del fatto in quanto implica la valutazione

delle risultanze processuali ed il sindacato sul percorso motivazionale seguito dal giudice,

con evidenti riflessi sull’autonomia ed indipendenza. Il travisamento del fatto in sede civile

implica, invero, la valutazione delle risultanze processuali, motivo per il quale il vizio non è

ricorribile in Cassazione ma legittima la revocazione della sentenza ex art.395 c.p.c.

Anche in sede penale, il travisamento del fatto intanto può inficiare di nullità la

sentenza in quanto concorrono due condizioni: l’ammissione da parte del giudice di merito

di un fatto manifestamente escluso dagli atti del processo, o viceversa, l’incidenza di esso su

un punto decisivo del giudizio.

Un’interpretazione aderente al dettato costituzionale, che non interferisca sull’attività

valutativa, dovrebbe ravvisare il travisamento del fatto quando la decisione sia in

macroscopico contrasto con le risultanze probatorie, sia priva di giustificazione logica e sia

del tutto irragionevole. Deve trattarsi di errori di macroscopica evidenza, aventi ictu oculi

rilevanza decisiva, al fine di evitare il sindacato sull’interpretazione delle norme. L’errore

rilevante deve essere quello che deve apparire di assoluta immediatezza e di semplice e

concreta rilevabilità, senza che la sua constatazione necessiti di argomentazioni induttive o

di indagini ermeneutiche, e che esso non possa consistere, per converso, in un preteso,

inesatto apprezzamento delle risultanze processuali: in una parola, ancora una volta, l’errore

inescusabile.

Va, pertanto, escluso il travisamento del fatto, qualora il giudice, pur esaminando

correttamente le risultanze processuali, abbia ricostruito in modo diverso il fatto, dando atto

del percorso motivazionale seguito.

In ogni caso, l’ipotesi del “travisamento del fatto e delle prove” si presta a

trasformare l'azione di responsabilità in un'impropria azione di impugnazione dei

provvedimenti sfavorevoli divenuti definitivi, con un aumento esponenziale del contenzioso,

nonché a consentire un'indagine surrettizia circa l'interpretazione dei fatti e l'attività

valutativa del giudice, con un sostanziale sindacato sul merito dell’attività giurisdizionale

con conseguente vulnum all'indipendenza del magistrato.

L’ERRORE REVOCATORIO

Rispetto ai vizi di travisamento del fatto e della prova come elaborati dalla

giurisprudenza civile e penale della S.C., l’affermazione di un fatto la cui esistenza è

incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento o la negazione di un fatto la cui

esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento, lascia scoperta solo l’area

della omessa valutazione della prova decisiva e dell’omesso esame di un fatto decisivo per il

giudizio prospettato dalle parti.

Anche in questo caso, deve trattarsi di una decisività ictu oculi evidente, dotata di

quel carattere manifesto che impedisca che attraverso essa possa surrettiziamente essere

sindacato il processo valutativo, appunto, del fatto e delle prove.

Sia pur con queste limitazioni, restano forti perplessità in ordine all’applicabilità di

tali vizi alle attività requirenti e a quelle del giudice che agisca sopratutto senza alcun

preventivo contraddittorio pieno o per i provvedimenti privi di motivazione.

LA CLAUSOLA DI SALVAGUARDIA

La L. n. 18/2015 ha modificato anche la clausola di salvaguardia, uno dei pilastri

della L.n. 117/1988, grazie alla quale la legge Vassalli aveva retto al vaglio delle censure di

incostituzionalità.

La clausola di salvaguardia escludeva che potesse dar luogo a responsabilità l'attività

di interpretazione di norme di diritto ovvero quella di valutazione del fatto e della prova, con

ciò escludendo qualsiasi lettura che potesse incidere sul carattere fortemente valutativo

dell'attività giudiziaria e, come precisato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n.1 del 19

gennaio 1989, attuativa della garanzia costituzionale dell'indipendenza del giudice e, con

essa, del giudizio (Cass. 27.11.2006, n.25123; Cass. sez. VI, 27.12.2012, n.23979). Tanto è

vero che, pacificamente, non può ritenersi che il giudice sia obbligato a decidere

conformemente all’interpretazione già effettuata precedentemente dallo stesso o da altro

giudice in relazione ad un’altra controversia (Cass., 31 maggio 2006, n. 13000).

L’art. 2, comma 1, lett. b) della L. n.18/2015 ha ridotto l'ambito di operatività della

clausola di salvaguardia, inserendo l’inciso “fatti salvi i commi 3, 3 bis ed i casi di dolo”. Il

riferimento alle ipotesi disciplinate dai commi 3 e 3 bis determina invece l’inapplicabilità

della salvaguardia a tutte le ipotesi di colpa grave, ed in particolare, al caso della violazione

manifesta della legge o del diritto dell’Unione europea. La clausola di salvaguardia

rimarrebbe così applicabile, in teoria, alle sole violazioni della legge e del diritto dell’Unione

europea che non debbano considerarsi manifeste, ovvero fuori dai casi di colpa grave.

In base alla precedente formulazione era chiaro che le ipotesi tipizzate di colpa grave

non costituissero interpretazione delle norme di diritto o valutazione del fatto e delle prove;

ora l’inciso “fatti salvi” propende per la conclusione opposta: anche le ipotesi tipizzate di

colpa grave costituiscono interpretazione di norme di diritto o valutazione del fatto e delle

prove, suscettibili di determinare la responsabilità civile.

La modifica della clausola di salvaguardia risente del vizio d’origine, ovvero

l’equiparazione tra responsabilità dello Stato e responsabilità del magistrato: mentre la prima

sussiste anche in caso di interpretazione di norme e di diritto e di valutazione del fatto, la

seconda ricorre in assenza di interpretazione di norme di diritto o di valutazione del fatto e

delle prove. Con la sottrazione a responsabilità di ciò che è connaturato alla funzione

giudiziaria, e cioè l’interpretazione del diritto e la valutazione delle prove, la L. n. 117/88

salvaguardava il bilanciamento tra principio costituzionale di indipendenza e quello di

responsabilità dei funzionari dello Stato. Nel caso della responsabilità eurounitaria, le

caratteristiche della funzione giudiziaria non rappresentano un ostacolo, in quanto la

responsabilità è dello Stato unitariamente considerato, e non dell’organo. Come si afferma

nella sentenza Kobler, proprio nell’esercizio dell’attività interpretativa può manifestarsi una

violazione manifesta del diritto comunitario ed una tale violazione può aver luogo anche in

sede interpretativa, mentre la responsabilità del magistrato ricorre nei casi in cui non c’è

interpretazione di norme di diritto o valutazione dei fatti e delle prove.

Come chiaramente emerge dal dictum della sentenza Kobler, le caratteristiche della

funzione giudiziaria non sono un ostacolo all’affermazione della responsabilità dello Stato

per violazione del diritto dell’Unione, mentre più problematico è il risvolto della normativa

in relazione alla responsabilità del magistrato.

Indubbiamente, le modifiche introdotte alla clausola di salvaguardia finiscono per

sterilizzarne l’effettiva portata normativa, rendendola una scatola vuota e prestando il fianco

a censure di incostituzionalità, poiché viene meno una delle più significative cautele idonea a

salvaguardare l’indipendenza della magistratura.

L’inciso “fatti i salvi i commi 3 e 3 bis” dell’art.2, altera in modo sensibile il

bilanciamento tra il principio di indipendenza della magistratura e quello di responsabilità.

Un’interpretazione adeguatrice ai principi costituzionali potrebbe consistere nel valorizzare

la clausola di salvaguardia quando entra in gioco l’attività interpretativa, salvo il caso di

manifesta violazione del diritto dell’Unione Europea.

L’ELIMINAZIONE DEL FILTRO DI AMMISSIBILITA’

L’eliminazione del filtro di ammissibilità è forse la più significativa novità della

legge n. 18 del 2015, nonché la misura senz’altro oggetto delle più vivaci critiche per il

rischio che possano spalancarsi le porte alle azioni ritorsive, strumentali, prive dei requisiti

minimi di sostanza o di forma.

L’art. 5 della legge n. 117/1988 prevedeva che il tribunale, sentite le parti, deliberasse

in camera di consiglio sull'ammissibilità della domanda, che veniva dichiarata inammissibile

quando non erano rispettati i termini o i presupposti di cui agli articoli 2, 3 e 4 ovvero

quando questa era manifestamente infondata.

Il filtro previsto dall’abrogato art. 5 l. n. 117/88 era idoneo ad evitare i rischi di azioni

temerarie e ritorsive, come peraltro confermato, sia pure indirettamente, anche dalla

giurisprudenza costituzionale. È del 1989 (sentenza n. 18 del 1989) infatti, l’affermazione

della Corte Costituzionale, secondo cui il meccanismo del filtro della domanda giudiziale

diretta a far valere la responsabilità civile costituisce un controllo preliminare della non

manifesta infondatezza della domanda e porta ad escludere azioni temerarie e intimidatorie,

garantendo la protezione dei valori di indipendenza e di autonomia della funzione

giurisdizionale, sanciti negli artt. da 101 a 113 della Costituzione.

Uno dei motivi che ha indotto il legislatore ad eliminare il filtro - peraltro in

controtendenza rispetto alla proliferazione di strumenti deflattivi che vanno arricchendo

l’ordinamento processuale – va ravvisato nella constatazione che un numero esiguo di

domande avevano superato il vaglio dell’ammissibilità.

Si tratta di una questione mal posta.

Normalmente, salvo casi eccezionali, le cause di responsabilità civili del magistrato

sono cause documentali, in cui la prova orale è superflua o inammissibile. Accade sovente

che, già nella fase dell’ammissibilità le parti producono tutto il materiale probatorio, dando

così la possibilità al collegio di avere una piena cognizione dei fatti. Il Tribunale è, quindi, in

grado di verificare non solo i profili di ammissibilità della domanda ma anche il merito, al

fine di valutarne la manifesta infondatezza.

Se talune domande sono state dichiarate inammissibili, significa che molte domande

di danni erano manifestamente infondate; a ciò si aggiunga che, molto spesso, le parti

deducono comportamenti del magistrato che hanno rilevanza ai soli fini disciplinari o

censurano l’interpretazione della norma, coperta dalla c.d. clausola di salvaguardia.

È chiaro, dunque, che non ostacolare la proposizione di un significativo numero di

domande di responsabilità che, pur non sovrapponendosi formalmente al giudizio di

impugnazione mirano comunque a porre indirettamente in discussione il provvedimento

giurisdizionale, implica notevoli rischi per l’autonomia del singolo magistrato.

Ancora una volta, sarà l’applicazione della legge e l’eventuale decisione della Corte

Costituzionale, se investita della questione di legittimità, a stabilire se sia ancora necessaria

quella connessione, a suo tempo già evidenziata, tra filtro preliminare sulle domande e

principi di autonomia ed indipendenza della magistratura.

Alcuni rimedi possono però essere ricercati all’interno del processo per limitare il

ricorso ad azioni temerarie e/o per definire i giudizi in tempi ragionevoli.

Poiché il giudice ha la direzione del processo, è opportuno che, sin dalla prima

udienza, verifichi la sussistenza dei requisiti di ammissibilità della domanda e, esaminato il

merito, proceda ad una spedita trattazione (eventualmente rinviando per la precisazione delle

conclusioni, attesa la natura prevalentemente documentale di tali cause).

Un ulteriore strumento processuale è costituito dal regolamento delle spese di lite,

idoneo a scoraggiare azioni pretestuose e temerarie.

Evidentemente, la nuova normativa coinvolge anche l’organizzazione del lavoro del

singolo magistrato e degli uffici giudiziari; qualora si dovesse verificare un sensibile

incremento delle cause di responsabilità civile, sarà necessario attribuire una corsia

preferenziale a tali procedimenti, per gli interessi in gioco, anche attraverso misure a livello

ordinamentale simili a quelle previste per i piani di gestione per lo smaltimento dell’arretrato

ex art. 37 L. n. 98/2011.

La riforma avrà inoltre un impatto sui carichi esigibili dei magistrati, la cui

determinazione deve tener conto dell’ampliamento delle ipotesi di responsabilità e della

sovraesposizione del magistrato italiano, che, mediamente ha un carico di lavoro ed una

produttività di gran lunga superiore rispetto agli altri giudici europei.

L’AZIONE DI RIVALSA

Come si commentava all’inizio di questa breve trattazione, l’azione di responsabilità

civile dei magistrati va rivolta nei confronti dello Stato (rectius la Presidenza del Consiglio),

che, in caso di accoglimento della domanda, ha azione di rivalsa nei confronti del magistrato.

Vige il modello della responsabilità indiretta del magistrato, non essendo stato

accolto l’emendamento Pini, che prevedeva la responsabilità diretta e solidale del singolo

magistrato con lo Stato.

Trattandosi di azioni di rivalsa e non di regresso, gli accertamenti compiuti nei

confronti dello Stato non sono opponibili al singolo magistrato, non sussistendo il requisito

dell’identità delle parti.

Il giudizio di rivalsa ha come presupposto l’errore inescusasibile, che era posto a

fondamento della responsabilità nella precedente disciplina. Ne consegue che, nel giudizio di

rivalsa, si potrà “recuperare” la giurisprudenza formatasi sotto il vigore della L. n. 117/88

ante novella, secondo cui l’inescusabilità dell’errore richiede un quid pluris rispetto alla

diligenza richiesta per la colpa professionale

E’ quindi opportuno che il magistrato, legittimato ad intervenire nel giudizio nei

confronti dello Stato, non si costituisca, pur collaborando con l’Avvocatura dello Stato nella

predisposizione della difesa.

L’azione di rivalsa, esercitata dal Presidente del Consiglio dei Ministri può essere

obbligatoria o facoltativa:

- Obbligatoria “nel caso di diniego di giustizia, ovvero nei casi in cui la

violazione manifesta della legge nonché del diritto dell’Unione europea ovvero il

travisamento del fatto o delle prove, di cui all’articolo 2, commi 2, 3 e 3 bis, sono stati

determinati da dolo o negligenza inescusabile”;

- Facoltativa negli altri casi: “affermazione di un fatto la cui esistenza è

incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento; negazione di un fatto la cui

esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento; emissione di un

provvedimento cautelare e reale fuori dai casi consentiti dalla legge oppure senza

motivazione”;

La misura della rivalsa è, poi, innalzata sino a poter raggiungere la metà di

un’annualità di retribuzione – ma in caso di dolo non vi è limite – con possibile esecuzione

mediante trattenuta sullo stipendio con rate mensili sino ad un terzo dello stesso.

E’ evidente che aver elevato il limite della rivalsa espone il magistrato a notevoli

rischi dal punto di vista dello status economico, soprattutto nelle cause con valore economico

elevato o di particolare importanza per gli interessi in gioco, incidendo sull’autonomia o

inducendolo a scelte di comodo (la vituperata giurisprudenza difensiva).

L’EUROPA TRA INDIPENDENZA E RESPONSABILITA: UN DIFFICILE

CONNUBIO NELLA L. N. 18/2015

Una legge sulla responsabilità civile dei magistrati riveste senza dubbio particolare

attenzione da parte del legislatore perché incide su valori costituzionalmente garantiti, quali

l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, che sono fondamentali per uno stato

democratico.

In un momento di conflitto tra politica e magistratura, sono prevalsi gli slogan

populisti, che avrebbero dovuto cedere il passo ad una maggiore riflessione sui contenuti

della legge e ad un confronto più pacato, per le conseguenze che la riforma avrà soprattutto

sui diritti dei cittadini, che sono i destinatari del servizio giustizia.

In attesa dell’applicazione della nuova normativa, è indubbio che la nuova disciplina

relega lo Stato Italiano in una posizione isolata rispetto al panorama legislativo degli altri

principali Stati dell’Unione Europea, dove continuano a permanere specifiche garanzie volte

ad impedire l’utilizzo temerario delle azioni risarcitorie.

Si tratta di una riforma necessaria per adeguare la normativa italiana alle

sollecitazioni provenienti dalla Corte di Giustizia in caso di violazione del diritto

dell’Unione da parte di un organo giurisdizionale di ultimo grado, ma si tratta di una riforma

che non appare in linea con i documenti e le raccomandazioni elaborati a livello

internazionale, specie in seno alle Nazioni Unite ed al Consiglio d’Europa. Tali atti, pur non

costituendo fonti del diritto, costituiscono un’importante cornice di riferimento perché

costituiscono valori condivisi tra gli Stati democratici, che il legislatore nazionale non poteva

ignorare.

Tra i documenti elaborati da organismi internazionali, vanno innanzitutto menzionati

i principi fondamentali sull’indipendenza della magistratura, proclamati dall’assemblea

generale delle Nazioni Unite nel 1985. Uno di tali principi, espresso al punto 16 della

risoluzione, prevede che i giudici dovrebbero godere della personale immunità per danni

civili derivanti da azioni o omissioni nell’esercizio delle loro funzioni. Detti principi

statuiscono che i giudici siano dotati della piena autorità di agire, liberi da pressioni e timori,

adeguatamente retribuiti e forniti degli strumenti materiali idonei a consentir loro di svolgere

in modo soddisfacente il proprio servizio.

L’eccezionalità dell’azione civile è ribadita dall’art.10 della Carta Universale del

giudice del 17 novembre 1999, elaborata dall’Unione internazionale dei magistrati (

International Association of Judges), la più antica associazione internazionale di magistrati.

Anche la Carta Europea sullo statuto dei giudici, approvata a Strasburgo il 10.7.1998

contiene un punto specifico sulla riparazione degli errori giudiziari, prevedendo che la

riparazione dei danni illegittimamente cagionati a seguito di una decisione o dal

comportamento di un giudice nell’esercizio delle sue funzioni è assicurata dallo Stato.

Sulla base dei medesimi principi è stata emanata dal Consiglio Consultivo dei

Giudici Europei del Consiglio d’Europa l’Opinione n. 3 del 19 novembre 2002.

Si legge infatti ai paragrafi 55-57 del Parere n. 3 del CCJE citato, che “Un principio

generale vuole che i giudici debbano essere assolutamente immuni da ogni responsabilità

civile personale nei confronti di eventuali pretese avanzate direttamente contro di essi

connesse con l'esercizio delle loro funzioni quando agiscano in buona fede. Gli errori

giudiziari, di competenza o procedurali, nella individuazione o nell'applicazione del diritto o

ancora nella valutazione delle prove, dovranno formare oggetto di appello. Le altre

mancanze dei giudici che non possano essere eliminate in questo modo (tra cui, ad esempio,

i ritardi eccessivi) dovrebbero, al più, portare ad una richiesta del soggetto insoddisfatto

contro lo Stato. E’ questione diversa che lo Stato possa, in determinate circostanze, essere

tenuto, ai sensi della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, a compensare una parte in

causa, l’esame di tale questione non essendo direttamente rientrante nell’oggetto di questo

Parere”.

Per quanto riguarda la responsabilità dei giudicI, la CCJE ritiene che “Tuttavia, in

alcuni paesi europei, i giudici possono essere ritenuti civilmente responsabili per decisioni

gravemente erronee o altre carenze gravi, in particolare su richiesta dello Stato, dopo che

un contendente insoddisfatto abbia visto riconosciuto il suo diritto al risarcimento in un

procedimento contro lo Stato […].

Le conclusioni del Consiglio sono state poi recepite nella Magna Charta dei Giudici

europei adottata a Strasburgo il 17 novembre scorso dal Consiglio Consultivo dei Giudici

Europei, a sua volta recepita nella Raccomandazione CM / Rec (2010) 12 del Comitato dei

Ministri del Consiglio d'Europa agli Stati membri che definisce l’indipendenza e

l’imparzialità dei giudici precondizioni essenziali per l’adeguato funzionamento della

giustizia.

In essa si afferma che l’indipendenza deve essere prima ancora che funzionale e

finanziaria, ordinamentale e deve essere garantita in primo luogo rispetto agli altri poteri

dello Stato (art.3).

In particolare il cap. VII della Raccomandazione prevede ai paragrafi 66 – 68:

66. “L'interpretazione della legge, l’apprezzamento dei fatti o la valutazione

delle prove … per deliberare su affari giudiziari non deve fondare responsabilità

disciplinare o civile, tranne che nei casi di dolo e colpa grave”.

67. “Soltanto lo stato, ove abbia dovuto concedere una riparazione, può

richiedere l’accertamento di una responsabilità civile del giudice attraverso un’azione

innanzi ad un tribunale”.

68. “L'interpretazione della legge, l’apprezzamento dei fatti o la valutazione

delle prove effettuate dai giudici per deliberare su affari giudiziari non devono fondare

responsabilità penale, tranne che nei casi di dolo”.

Esiste una evidente distonia tra la normativa introdotta dalla L. n. 18/2015 ed i

principi affermati a livello internazionale ed europeo.

Eppure, già dal 2003 la sentenza Kobler aveva spazzato via ogni equivoco tra

responsabilità dello stato ed indipendenza del magistrato: “il principio di responsabilità di

cui trattasi riguarda non la responsabilità personale del giudice, ma quella dello Stato. Ora,

non sembra che la possibilità che sussista, a talune condizioni, la responsabilità dello Stato

per decisioni giurisdizionali incompatibili con il diritto comunitario comporti rischi

particolari di rimettere in discussione l’indipendenza di un organo giurisdizionale di ultimo

grado”.

Dal 2003 nei paesi di Common Law i giudici godono di immunità assoluta e lo Stato

è responsabile per l’errore giudiziario.

Non resta che auspicare che l’applicazione legislativa sia conforme ai principi

costituzionali ed ai principi espressi dagli organismi internazionali, oltre che in linea con gli

ordinamenti degli altri Stati dell’Unione Europea.