La rassegna stampa diOblique · – Carmen Maffione, «Stazione Vittorini. Aldo, il mito Elio e un...

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La rassegna stampa di dal primo al 30 giugno 2010 O blique Simonetta Fiori, «Che libro mi metto. Le mode letterarie da Macondo alla Svezia» la Repubblica, primo giugno 2010 3 Francesco Mannoni, «“Così stronco editori, scrittori e premi”» Il Mattino, 2 giugno 2010 5 Giovanna Mancini, «Grandi città si raccontano» Il Sole 24 Ore, 2 giugno 2010 7 Massimiliano Parente, «I critici seri sono peggio degli altri» il Giornale, 4 giugno 2010 8 Carmen Maffione, «Stazione Vittorini. Aldo, il mito Elio e un padre poeta» Il Riformista, 6 giugno 2010 10 Edoardo Albinati, «Così si fabbrica un racconto» Il Messaggero, 8 giugno 2010 14 Valerio Magrelli, «Alla ricerca del gioco perduto» la Repubblica, 8 giugno 2010 15 Antonio Gnoli, «La sfida di Procacci: “Troppi editori conformisti e premi poco trasparenti”» la Repubblica, 9 giugno 2010 17 Severino Cesari, «Non prendiamocela con una fiaccola nel buio» il manifesto, 11 giugno 2010 20 Helena Janeczek, «Carta canta» Nazione Indiana, 14 giugno 2010 23 Andrea Tarquini, «Christa Wolf, i ricordi di Cassandra tra Ddr e nostalgia: “Quante utopie deluse”» la Repubblica, 15 giugno 2010 29 «L’editoria assomiglia a un fossile e questo mi preoccupa» Domenico Procacci rs_giugno2010:Layout 1 12/07/2010 10.14 Pagina 1

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La rassegnastampa di

dal primo al 30 giugno 2010Oblique

– Simonetta Fiori, «Che libro mi metto. Le mode letterarie da Macondo alla Svezia»la Repubblica, primo giugno 2010 3

– Francesco Mannoni, «“Così stronco editori, scrittori e premi”»Il Mattino, 2 giugno 2010 5

– Giovanna Mancini, «Grandi città si raccontano»Il Sole 24 Ore, 2 giugno 2010 7

– Massimiliano Parente, «I critici seri sono peggio degli altri»il Giornale, 4 giugno 2010 8

– Carmen Maffione, «Stazione Vittorini. Aldo, il mito Elio e un padre poeta»Il Riformista, 6 giugno 2010 10

– Edoardo Albinati, «Così si fabbrica un racconto»Il Messaggero, 8 giugno 2010 14

– Valerio Magrelli, «Alla ricerca del gioco perduto»la Repubblica, 8 giugno 2010 15

– Antonio Gnoli, «La sfida di Procacci: “Troppi editori conformisti e premi poco trasparenti”»la Repubblica, 9 giugno 2010 17

– Severino Cesari, «Non prendiamocela con una fiaccola nel buio»il manifesto, 11 giugno 2010 20

– Helena Janeczek, «Carta canta»Nazione Indiana, 14 giugno 2010 23

– Andrea Tarquini, «Christa Wolf, i ricordi di Cassandra tra Ddr e nostalgia: “Quante utopie deluse”»la Repubblica, 15 giugno 2010 29

«L’editoria assomiglia a un fossile e questo mi preoccupa»Domenico Procacci

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– Luigi Mascheroni, «Giuliano Vigini: “Entri nella top ten con meno di tremila copie”»il Giornale, 15 giugno 2010 31

– Paolo Giordano, «L’ossessione di Joyce Carol Oates (per la madre e per la scrittura)»Corriere della Sera, 16 giugno 2010 33

– Maurizio Ferarris, «Siamo ancora postmoderni?»la Repubblica, 19 giugno 2010 36

– Mario Baudino, «L’eleganza terribile del combattente»La Stampa, 19 giugno 2010 38

– Dino Messina, «Il Vaticano contro Saramago: è la zizzania»Corriere della Sera, 20 giugno 2010 39

– Giuseppe Montesano, «Flaiano? Era uno scrittore tragico. Raccontava l’atrocità del presente»l’Unità, 22 giugno 2010 41

– Livia Manera, «L’America aveva un sogno ma ora è diventato un incubo»Corriere della Sera, 23 giugno 2010 42

– Massimo Sideri, «Scrittore Spa»Corriere della Sera, 25 giugno 2010 44

– Maurizio Bono, «Pietro Grossi»la Repubblica, 26 giugno 2010 46

– Livia Manera, «Wood: vi spiego che cos’è un romanzo»Corriere della Sera, 29 giugno 2010 47

– Bruno Giurato, «Apocalittici integratissimi»il Giornale, 30 giugno 2010 49

Raccolta di articoli pubblicati da quotidiani e periodici nazionali tra il primo e il 30 giugno 2010. Impaginazione a cura di Oblique Studio.

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Oggi tutti parliamo lo svedese, insieme a Larsson e lesue imitazioni, e sembra di perdersi in un negozioIkea. Ma per anni la mitica Agneta Markas dellaNorstedts ha segnalato i suoi romanzi gialli con scar-sissimo successo, spesso per incompetenza linguisti-ca. «Ora», racconta Renato Zotti, voce italiana dellastorica coppia Sjöwall-Wahlöö, «siamo in tutto unadozzina di traduttori, messi letteralmente sotto asse-dio dagli editori». Il fenomeno è in espansione, nel2009 sono usciti ventidue nuovi thriller scandinavi,quest’anno altri dodici nuovi thriller scandinavi, eperfino il serissimo marchio di Iperborea – pionieredella geografia nordica – ha de ciso di investire nellasua nuova collana di gialli.

Il «giallo scandinavo» è soltanto l’ultima tendenzadi una lunga storia editoriale segnata da fortune geo-grafiche successive o paral lele, talvolta intrecciate,dall’epo pea sudamericana alla scoperta degli israelia-ni, dalle lanterne ros se cinesi al successo irlandese,dalle seduzioni indiane all’ultima tendenza newyorke-se, inclusi i re vival di seconda generazione. Ma comesi spiega la fortuna letteraria di un paese? È soltantoquestione di alchimia editoriale, di sapiente marke-ting – come sembra nell’at tuale proliferazione dithriller e po lizieschi nordeuropei – o vi sono ra gionipolitico-culturali più forti? Da una rapida e sommariacaval cata attraverso quattro decenni di tendenze edi-toriali, affiorano tre costanti: la prima è che lo sfondostorico almeno fino a tempi recen ti ha giocato la suaparte. La seconda: non basta il talento di un genio let-terario per creare una tendenza. E terzo, tutto nascequasi sempre dal caso. Che talvolta diviene de stino.

«All’inizio della fortuna di un ge nere», dice Gian -andrea Piccioli, a lungo protagonista della scena edi-toriale alla guida di Sansoni, Rizzoli e Garzanti, «nonc’è mai una pianificazione a freddo, piut tosto contano

l’intuizione o il gu sto dell’editore che a volte è sfasa torispetto ai tempi, fa flop con ti toli che poi diventeran-no dei suc cessi, oppure l’azzecca fin da prin cipio esfrutta la vena aurea. E il successo di uno fa da volanoagli altri, fino alla pubblicazione dei “frustuli”: libri cheda sobrio non pub blicheresti mai». C’è stata una sta-gione – oltre un quarantennio fa – in cui sembravanoesistere soltanto Macondo e la soledad. La temperieideale fu determinante per la scoperta del conti nentesudamericano. II «realismo magico» di Garcia Marquezirruppe in Italia nel l’anno della rivoluzione studente -sca. «Dilagavano dittatori e comunità immaginarie,Amado narrava di Teresa Batista stanca di guerra»,ricorda Alberto Rollo, oggi diretto re letterario diFeltrinelli. Fu la ca sa editrice di Giangiacomo a tra durretra le prime in Europa Cent’anni di solitudine, capofiladi quella moda travolgente. «Rap presentò la ribellionedei corpi, delle anime e della giustizia», con tinua Rollo.«La rivoluzione così come la si immaginava nelSessantotto era per lo più fondata sulla guerriglia, ilChe un’icona decisiva. C’era anche la narrativa cuba nadi Josè Lezama Lima e di Alejo Carpentier, l’una tuttaaperta ai sensi, l’altra all’interpretazione della storia». Epresto ci saremmo perduti nelle cosmogonie labirin -tiche di Borges, tradotto da Lucentini fin dalla metàdegli anni Cin quanta, nei Settanta celebrato co menovello Omero, custode di Ba bele che tutto ha letto.

L’ondata latina avrebbe travol to anche uno scetticoItalo Calvi no, che in privato liquidava Garcia Marquezcome «un lustrascarpe». Le sue note riservate all’Ei -naudi rivelano giudizi taglienti e uno sdegno mala-mente sorveglia to su Cortázar, Bioy Casares e Puig,anche se poi prevaleva la saggezza dell’editore sensi-bile al gusto dei lettori. Con Vargas Llosa ci fu riva lità– così recita il gossip editoriale – tanto da spingerel’autore di Se una notte d’inverno un viaggiatore a

CHE LIBRO MI METTOLE MODE LETTERARIE DA MACONDO ALLA SVEZIASimonetta Fiori, la Repubblica, primo giugno 2010

Dalla passione per l’America Latina negli anni Settanta, a quella per i giallistiscandinavi di oggi, come e perché cambiano i nostri gusti. Irlandesi, indiani: ha pesato l’influenza del mercato globale. Altre volte l’Italia è stata la prima acapire i fenomeni e a tradurli

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rallentare la lavorazione di un suo romanzo proprioper evitare che gli facesse ombra.

Se la stagione latinoamericana animò la scena finoagli anni Ot tanta – con una successiva ripresa guida-ta da Sepulveda e Coloane – bisogna aspettare il tor-mentone su L’insostenibile leggerezza del l’essere persalutare il nuovo vento letterario che veniva dall’Est.«In realtà», racconta Sandro Ferri, esploratore di quel-l’area geografi ca e culturale con la sua casa edi tricee/o, «non ci fu mai una moda dell’Europa Orientale.Dal 1979 all’89, nei dieci anni in cui con mia moglieSandra andammo alla sco perta di quel mondo, nonotte nemmo mai un grande successo commerciale.Pubblicammo nell’84 Cassandra di Christa Wolf enell’86 Ho servito il re di Inghilterra di BohumilHrabal – già introdotto in Italia da Ripellino – e lacollana pra ghese diretta da Kundera, che ave va esor-dito da Bompiani, ma a par te i singoli bestseller l’Estappariva indigesto a tanti: a sinistra perché mostravail fallimento dell’utopia comunista, a destra perché lospi rito sulfureo smentiva anche lo stereotipo del gri-giore». Dopo l’Ottantanove, sostiene Ferri, sarà an chepeggio. Ma nelle edizioni pa stello di Adelphi, raffina-to riscopritore di tutta la cultura mitteleu ropea,Kundera diventò un vero autore di culto. E i romanzidi Wolf e Hrabal toccarono le centomila copie.

Intanto un altro re sta per dare scacco matto all’edi-toria, e questa volta viene ancora più da Oriente.«Segnalai a una piccola casa editri ce, Theoria, Il Redegli scacchi di Acheng e fu un grande successo», rac-conta Maria Rita Masci, sapien te traduttrice di molticinesi. «Era l’89 e il libro intercettò le emozioni suscita-te dalla violenta repressio ne di piazza Tiananmen». Ifulmi nanti apologhi di Acheng – che raccontano l’op-pressione del potere, l’ottusità della burocrazia e lacorruzione – spianarono la strada a una schiera discrittori, da Can Xue a Han Shaogong, da Mo Yan a SuTong, che ebbero il merito «di spezzare il lunghissimosilenzio imposto da Mao», spiega la sinologa RenataPisu. «Dopo l’ubriacatu ra ideologica, finalmente la let-te ratura ci apriva un mondo per lar ga parte ignoto».

Un anno prima di Acheng – sia mo nell’88 – un altroromanzo è de stinato ad alzare il sipario su una nuovascena letteraria. Vedi alla voce amore di DavidGrossman, pubblicato da Mondadori, ha tra gli altrimeriti quello di accendere la luce sulla narrativa israe-liana, che pure era già apparsa in Italia con le firme diAmos Oz (Michael mio, Bompiani, 1975) e AbrahamYehoshua (Il poeta continua a ta cere, Giuntina, 1987),ma senza su scitare la dovuta attenzione. «Nes sunofino a quel momento aveva saputo guardare dentro la

quoti dianità di Israele», racconta Rollo che più tardiconvincerà Carlo Fel trinelli ad acquisire tutta l’opera diOz. «La letteratura, soprattutto la narrativa, ci facevascoprire la grandezza legata alla costruzione diun’identità. Piuttosto che la componente religiosa,emergeva uno spirito di giustizia e di trasformazionesociale di cui non sapevamo niente».

A cavallo tra gli Ottanta e i No vanta si collocaanche la scoperta degli irlandesi, di cui fu indiscussocapofila Roddy Doyle. Con la sua trilogia raccontò laperiferia di Dublino, il mondo operaio, l’Irlanda piùpovera. Si parlò allora di una nuova tendenza, cheannoverava anche John Banville, Catherine Dunne eJoseph O’Connor. «Sono autori molto diversi», obiettaLuigi Brioschi, presidente di Guanda che molto lustroha dato alla scu deria irlandese. «Quel che conta nel-l’editoria è il caso, l’imponde rabilità del talento».

Nella globalizzazione culturale di fine secolo, sem-bra determi nante anche la volontà di far parlare unpopolo, tra seduzioni del pas sato e richiami del pre-sente. L’in namoramento per gli indiani arri va nel1997 con Arundhati Roy e il suo Il dio delle piccolecose, anche se da noi erano già apparsi un gi gantecome Salman Rushdie – il suo I figli della mezzanot-te era uscito dieci anni prima da Garzan ti – oltre cheAnita Desai e Vikram Chandra. «Nel caso della lette-ratu ra indiana», dice Brioschi, «il boom coincise con lastraordinaria cre scita economica e culturale delpaese». Oggi l’India è tra i paesi che esportano il mag-gior numero di scrittori, grazie a una tradizione let-teraria antica – basti pensare al Mahabarata – eall’inglese rein ventato che garantisce l’universa lità. Enel mercato globalizzato s’incanalano continuamen-te nuovi rivoli letterari nati alla peri feria del mondo.

Una cesura storica segna il re centissimo successodella lettera tura statunitense più giovane, an che seil mito americano è una componente costante delmercato italiano. Dopo l’11 settembre, il vuotolasciato dalle Torri Gemelle sembra essere stato col-mato dalla genia dei Nathan Englander, Jo nathanSafran Foer, David Eggers, Jonathan Lethem e DavidFoster Wallace, autori con profili diversi, per la granparte nati negli anni Set tanta del secolo scorso, tuttiuniti come dice Brioschi dalla «comune volontà dirifondare la forma ro manzo». Ma il Millennium diLarsson – due milioni e mezzo di copie vendute soloin Italia, grande successo europeo – appare oggi digran lunga più potente del richia mo newyorkese. Daiclimi latini di Macondo al cielo buio di Stoccol ma,anche la storia culturale può essere questione ditemperatura.

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Luigi Brioschi«Ho scoperto Sepulveda trovandolo in Francia»«Per caso» spiega Luigi Brioschi «m’imbattei in LuisSepulveda, che inaugurò al principio degli anniNovanta la nuova moda dei latinoamericani. Lessisull’Express una recensione de Il vecchio che leggevaro manzi d’amore, che aveva avuto grande suc cessoin Francia: me ne procurai una copia. Lo feci tradur-re subito da Guan da. Era il 1993 e il libro fece esplo-dere il caso Sepulveda: con Il vecchio ha ven dutosettecentomila copie, ma con il successivo La gabbia-nella e il gatto ha raggiunto quota un milione otto-cento mila. Fu Sepulveda a introdurre in Ita liaFrancisco Coloane e una nuova ge nerazione dalsegno assai distante dallo stile barocco dei “padri”. Eio conser vo ancora quella vecchia copia di Le Vieuxqui lisait des romans d’amour».

Inge Feltrinelli«Nel 1968 ecco Marquez con centomila copie»«Fu Valerio Riva a portare in via Andegari il grandeGabo, che però allora era uno scrittore timido e sco-nosciuto», ricorda Inge Fel trinelli. «Alloggiava in unalberghetto dietro la stazione. Sapeva bene l’italia no,ma appariva introverso, molto diverso dal futuro“capo di Stato”. Fum mo i primi in Europa, dopo laSpagna, a tradurre Cent’anni di solitudine, subito unsuccesso clamoroso. Solo nel primo anno, nel 1968,ne vendemmo centomila copie. Fu l’Italia il paese chel’accolse meglio, mostrando di capire la potenza dellostile barocco: nello stesso periodo l’ingleseFaber&Faber toccava le diecimila copie. Poi sarebberoarrivati Vargas Llosa, Manuel Scorza, Juan CarlosOnetti e molti altri. La grande letteratura si tra duce-va in successo commerciale».

«COSÌ STRONCO EDITORI, SCRITTORI E PREMI»Davico Bonino spara a zero sulla «paraletteratura» specchio dell’attuale degrado socialeFrancesco Mannoni, Il Mattino, 2 giugno 2010

In che Italia culturale stiamo vivendo? A leggere illibro di Guido Davico Bonino Tiro libero (Aragno,pagg. 223, euro 16), una sorta di riflessione a vocealta, viviamo in pieno caos immersi nello sfacelo car-taceo, e le pagine dell’arguto e pungen te accusatoresono quasi un epitaffio per la culture che non c’è più.«Sfacelo è una pa rola un po’ forte» minimizza subitoGuido Davico Bonino, scrittore, critico letterario eteatrale, ex professore universitario, ex responsabileufficio stampa Einaudi succe duto a Italo Calvino, exdirigente della stes sa casa editrice. «Diciamo che èuna situa zione di degrado comune alla situazionepolitica e morale in cui viviamo. La cultu ra, purtrop-po, è uno specchio abbastanza fedele della societàche gli sta intorno».

Per Davico Bonino, la nostra non è una gran bellasocietà, e gli aspetti del suo dis senso critico sonoriassumibili principalmente nel declino dell’insegna-mento, nel tipo di libri pubblicati, nella criticainconsistente o di parte, in coloro che pretendono didire la loro su tutto, sui premi letterari, sull’univer-sità. «Attraverso questa specie di diario pubblico»precisa «ho cercato di sottolineare il deterioramen-to del mondo editoriale che vedo in tre obiettividistinti».

Quali sono questi obiettivi?«L’Università delle discipline umanisti che (non sonulla delle facoltà scientifiche che pare siano di otti-mo livello); il secon do punto è relativo alla culturaletteraria militante, al giornalismo, alla critica deiquotidiani e dei periodici; il terzo strato ri guarda leistituzioni letterarie, premi e fe stival».

Oggi, le case editrici sono delle indu strie o dei labo-ratori di cultura?«L’aspetto industriale ha avuto un fortis simo soprav-vento in Italia. Ma le statisti che confermano chemetà degli italiani non legge nemmeno un libroall’anno. Invece abbiamo un’editoria, ed ecco l’incoe-renza, che pensando al nostro come a un paese diiper leggenti, produce in quanti tà. Ma chi leggeràquesti libri?».

C’è una risposta a questo enigma?«Ho lavorato diciassette anni in una ca sa editrice, laEinaudi, che all’epoca non era proprio l’ultimad’Italia, e so benissi mo che tiratura fanno questiromanzi: tremi la copie, tiratura minima canonica,quattromila con qualche lieve correttivo. Delle copiestampate magari se ne vende solo la metà. Questa

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elefantiasi produttiva io la chiamo l’industria edito-riale dell’azzardo».

C’è anche chi dice che per vendere un libro deve pas-sare in tv. E davvero così?«Fazio, la Dandini e altri fanno perfetta mente il loromestiere, e chiamano gli scrit tori in quanto perso-naggi. Giustissimo da parte loro. Ma tutto questonon ha a che vedere con la diffusione del libro e dellalettura. In passato, nessuno degli scrittori che conta-vano è mai andato in televisio ne. Italo Calvino, quan-do lo chiamarono per la prima volta all’Approdotelevisi vo, mi chiese se era giusto andarci».

Gli eredi dei grandi del Novecento, i Calvino o iGadda tanto per intenderci, sono già presenti nellaletteratura con temporanea?«Gli eredi dei grandi del Novecento ci sono. Appar -tengono a una élite molto ri stretta e anagraficamentenon va al di là della soglia di quelli che oggi hanno ses -sant’anni: Tabucchi, De Luca, Vassalli, Del Giudice e sulversante femminile Pao la Capriolo. Al di sotto di quellagenerazio ne che non si può definire propriamente gio-vane, è una paraletteratura. I Veronesi e gli Ammannitisono persone rispettabilis sime ma con la letteraturanon hanno mol to a che vedere».

La critica letteraria quale funzione svolge oggi?«La critica letteraria vera non esiste più. Un tempouscivano gli articoli di personali tà come Emilio Cecchie Enrico Falqui, che erano dei punti di riferimento».

I premi e festival letterari sono altri aspetti dolentidelle sue riflessioni. Quali sono i suoi «capi d’accusa»?«L’unico premio che fa vendere copie è lo Strega. Madei 400 votanti dello Strega di cui faccio parte da 35anni, 130 sono funzio nari di case editrici con lerispettive mogli. Dello Strega è presidente il mioamico Tul lio De Mauro, e se fossi lui toglierei questepersone dalla giuria, perché è impossibile che 130funzionari editoriali non votino il libro della loro casaeditrice. Nella giuria del Campiello invece ci sono unsociologo, un’operatrice artistica e un critico d’arteche di libri ne sanno come io ne so di socio logia, dicritica artistica e di mostre d’arti figurative».

Tutti questi squilibri derivano dall’im barbarimentoculturale che ha trasfor mato il libro in una sorta dioggetto?«La parola oggetto forse è un po’ eccessiva. Io direiche il libro, inteso come opera letteraria, in questa

società sta diventando una delle tante forme di in -trattenimento in cui trastullarsi».

Invece?«Invece la letteratura è specchio della vita, è una cosaenormemente seria, altri menti non varrebbe la penache ci fossero cattedre universitarie e facoltà in cui sifor mano i giovani a studiarla. Ora siamo davanti a unaspecie di melassa in cui la lette ratura, la televisione,l’informazione giornalistica e il cinema si equivalgono».

La decadenza che lei lamenta, in che cosa è più facil-mente ravvisabile?«Nell’idea che siamo tutti scrittori. Que sta è la situa-zione terrificante dell’Italia let teraria di oggi».

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GRANDI CITTÀ SI RACCONTANODa Milano a Lugano si ricorre all’etnografia narrativa per capire le mutazioni socialiGiovanna Mancini, Il Sole 24 Ore, 2 giugno 2010

Raccontare e non descrivere. Osservare da dentro icambiamenti che stanno tra sformando le nostre cittàe rappresen tarli dando voce alle biografie, alle sto rieindividuali di chi questi cambiamenti vive in primapersona.

Solo così le città, da “giganti”, si faranno “nane”,come la Milano di Fabio Greco nel libro curato daLuca Doninelli per Guerini e associati, Milano è unacozza. «Che città, signore, ‘sta città!» scrive Greco nellibro di racconti che sarà presentato giovedì 10 giu-gno alla Triennale «a mano a mano che ci facevoconoscenza s’assottigliava a paesello… piccoletta eimpreziosita dall’essere diventata città mia, ‘sta cittàsignore, Milano, che città».

L’idea alla base del libro, spiega Doninelli, scrit toree docente di Etnografia narrativa all’Universi tàCattolica di Milano, è che per analizzare e com -prendere i mutamenti (urbanistici, economici, so ciali,antropici) che stanno investendo le metropo li italia-ne e straniere non è più sufficiente lo sguar do scien-tifico ma esterno, talora freddo, della so ciologia.«Occorre» propone Doninelli «recupe rare il raccontoplurale della nostra città e del suo territorio, parten-do dalle conseguenze che le me tamorfosi in corsohanno sulle nostre vite». Il risul tato di questo

approccio è una sorta di sociologia “narrativa”, chedà voce a chi in queste città, in que sti quartieri, viveda anni e improvvisamente si ac corge che il suo vici-no di casa non è più l’operaio brianzolo, ma unmuratore del Burkina Faso, che al posto della fabbri-ca di lattine in fondo alla via sorge un centro com-merciale, o che nel negozio di alimentari che facevaangolo con le scuole oggi si parla giapponese e sivendono sushi e sashimi.

«Milano è una cozza è il primo frutto di questa miaricerca» prosegue Doninelli «che si concentra suMilano e provincia. L’ambizione è pubblicare ognianno un libro del genere, in cui raccogliere le storiedei miei allievi della Cattolica e del corso diEtnografia narrativa che tengo al Centro culturale diMilano». I narratori sono dunque studenti di sociolo-gia, ma anche casalinghe, concessionari d’au to, bio-logi… Persone normali con la passione per la scritturae uno sguardo attento alla città in cui vi vono. Nonsolo alla periferia: c’è chi racconta della moda del-l’aperitivo nelle vie del centro, o delle fontane in pie-tra sparpagliate per il capoluogo me neghino.Doninelli ha avviato un lavoro analogo a Lugano,città che negli ultimi anni ha conosciuto una radica-le trasformazione. Grazie a un progetto sostenuto

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dall’assessorato cittadino alle Politiche giovanili,Doninelli lavora con gli adolescenti, invi tandoli a rac-contare il loro modo di vivere nella città. Alcuni stan-no realizzando un video – facendo le ripre se con itelefoni cellulari – sui loro incontri nella nuova piaz-za progettata dall’architetto Mario Bot ta, divenuta inpoco tempo il nuovo centro di ag gregazione dellacittà svizzera.

Raccontare – si diceva – e non descrivere. Unmetodo di analisi “fecondo” anche secondo il so -ciologo torinese Marco Revelli: «Mai come oggi lenostre città chiedono di essere raccontate da den tro,attraverso voci diverse che restituiscano la plu ralitàdi identità, la frammentarietà, che oggi le caratteriz-za». Torino – la Torino post-fordista che negli ultimiventi anni ha spostato il cuore produtti vo dai grandistabilimenti delle periferie al centro urbano dei servi-zi – è un banco di prova ottimale per questo generadi narrazione. «Oggi la città cam bia alla velocità dellaluce, è il luogo dello spaesa mento in cui le tanteidentità possono convivere solo se sanno ascoltarsi erispettarsi. Ma perché ciò avvenga hanno bisognodella parola». La parola dei narratori, soprattutto.Revelli e Doninelli cita no grandi antesignani di que-sto metodo: Honoré de Balzac, Italo Calvino (alle sueCittà invisibili si è ispirato lo stesso Revelli per l’ana-lisi su Torino con tenuta nel suo ultimo libro,Controcanto, edito da Chiarelettere), Pavese, Volponi,Primo Levi.

Ma la parola può essere anche quella visiva difotografi come Gabriele Basilico, che collabora con lostesso Doninelli, o Alessandro Imbriaco, che ha docu-mentato i problemi abitativi nella peri feria di Romaattraverso i ritratti dei suoi residenti. O ancora, laparola che si declama su un palcosceni co, come quel-la che la regista 35enne Veronica Cru ciani ha messoin scena in Nozze di borgata e Città di parole. Gli abi-tanti dei comuni del Municipio VII di Roma (anziani,bambini, studenti, pendolari, immigrati…) raccontanoattraverso le proprie esperienze il passato e il presen-te del quartiere in una polifonia di voci: la signoraMarisa, con i suoi ricordi di emigrante; Elisa, adole-scente metallara e ribelle, Mauro, tifoso intollerante ecocainomane, la sarta che prepara abiti da sposa, lafruttivendola veneta, le figlie del fotografo che man-giano a scroc co ai banchetti dei matrimoni. «È laperiferia che racconta sé stessa e il proprio rapportocon il cen tro» spiega Veronica. «Ne emerge un luogoin cui i punti di aggregazione e socialità si sono persi,ma in cui è ancora forte il senso di appartenenza el’at mosfera da piccolo paese».

Va bene che la critica militante è quella che è, manon ci sarà solo quella, si spera. Fuori dal demimon-de giornalistico deve esistere una critica ac cademica,non militante. O no? Quella dura e pura e cazzuta eforse magari pure incazzata, de ve esserci per forza.Insomma, la critica oggi non sarà solo quel l’orribilegiostra di Cortellessa, Berardinelli, Onofri, La Porta,Barilli e compagnia brutta?

In teoria, come ultima speran za, negli atenei si stu-dierà ciò che merita di essere studiato, non certo iromanzini prodotti con lo stampino, sfornati dall’in-dustria editoriale e già premiati dai premi, daiCampielli, dai Mondelli e dagli amici della do menicadei lunghi coltelli, giusto? Così, mentre ricevo unabel la lettera di Flavia Fratello, brillante giornalistaconduttrice di Omnibus Life su La7, che mi rin graziaper averle spiegato, nel mio ultimo libro, la differenzatra uno scrittore e un non scritto re («Hai fugato, semai ve ne fos se stata realmente da parte mia l’inten-zione, ogni velleità di tra sformare la mia vita in unroman zo, o peggio ancora quella di un altro, illuden-domi di aver scrit to un libro utile»: educarne una percolpirne cento), sono spro fondato nel volume diMaurizio Dardano Stili provvisori (Caroc ci). Dove sianalizza «La lingua nella narrativa italiana d’oggi», percui l’ho letto con molte aspet tative, sperando che nonessen do militante, essendo stato un docente e unAccademico della Crusca, facesse piazza pulita, mac-ché. Nel suo genere, tutta via, il saggio dardanesco èuna lettura da brivido, un horror da fare concorrenzaa Stephen King. Accadono cose pazze sche: per esem-pio la Mazzantini viene stroncata per «l’alto tasso didisfemia, non controbilancia to da toni ironici», ossiaperché «nel lessico appaiono numerose scelte incon-grue», come dove ha scritto: «Papà resta a guardar micon quella faccia sciancata di cui adesso conosco

I CRITICI SERI SONOPEGGIO DEGLI ALTRI

Gli accademici che dovrebbero esserepiù esigenti, esaltano gli stessi romanziusa-e-getta recensiti su tutti i giornali.

Il caso del saggio di Dardano sul linguaggio dei nuovi narratori:

è l’elogio dei libri fatti con lo stampino

Massimiliano Parente, il Giornale, 4 giugno 2010

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l’origine. Lontana come l’uomo de L’urlo di Munch».Ecco, osserva Darda no, «la scelta dell’aggettivo e lamenzione, in questo contesto, dell’opera più nota del-l’artista norvegese lasciano perplessi». Boh, perché? Seinvece avesse ci tato un quadro meno noto di Munchandava bene? Prima di Dardano non avrei mai pensa-to di difendere la Mazzantini, do po Dardano sì, ancheperché, con questi criteri, risultano al contrario molto«congrui» auto ri come Scurati o Ammaniti o Sa vianoo la Vinci, sembrano quasi Gadda.

Mi sono chiesto se il professo re avesse letto lostesso libro di Scurati che ho letto io, visto che il pol-pettone kitsch per casalin ghe iscritte a corsi diArte&Lette ratura Una storia romantica diventa unromanzo pieno di auli cità («L’aulicità non è attenua-ta dagli occasionali localismi») nel quale «a una sin-tassi ben costruita corrisponde un lessico va rio,talvolta ricco e esuberante» (ma dove?) e il tono restasem pre alto. Un esempio di tono al to? «Una scatarra-ta di saliva mista a tabacco da fiuto le schizzò in fac-cia». Come se scatarrasse sull’Urlo di Munch dellapovera Mazzantini. E poi, scatarrata di Scurati omeno, che criterio è, il tono alto? Dove siamo, aVersail les nel XVII secolo? Anche Piperno, attenzione,ha scritto un ro manzo ricchissimo, nel quale «l’escur-sione tra diversi tipi fra sali è notevole ed è un’altrapro va di uno stile duttile, adatto a ri prendere perso-naggi e situazio ni piuttosto diversi tra loro. In parti-colare va notata l’escursione nel campo della sintassidel periodo…» e ovviamente anche qui, come Scurati,«il lessico, ricco e variegato, oscilla tra il polo bassodel gergo e della disfemia e il polo alto dei letterali-smi; ed è un lessico adatto allo spirito bef fardo del-l’autore».

In questo turbinio di escursio ni in tipi frasali edisfemie e poli variegati sappiate che, sebbene Con lepeggiori intenzioni narri di «cerimonie, riti di società,abi tudini, snobismi, schermaglie, antagonismi», èopportuno pre cisare quanto sia «fuori luogo ogniaccostamento a Proust, sommariamente evocato daqualche commentatore», e meno male ce l’ ha detto,e però non si sa perché, a questo punto, fuori luogo,forse Proust era meno disfemico di Piperno, o sca -tarrava su Van Gogh. In Roberto Saviano invece «seg-menti frasti ci brevi, isolati dalla punteggia tura (sitratta però più di mono remi) ricorrono di frequente;ma a differenza di Genna, Savia no non ricorre all’ac-capo». Non ricorrendo all’accapo, può spri gionarequindi tutta la sua «per durante istanza conativa fon-da ta sulla qualità dell’enunciazio ne, il ritorno circola-re dei moti vi, la metaforicità mirata a un fi ne civile».

Anche Stabat Mater di Tizia no Scarpa è un mezzocapolavo ro, senza le istanze collative e ci vili di Saviano,più racconto di formazione che prosa d’arte, maun’opera su cui riflettere per pagine e pagine, con undialogo molto privo, «privo di interiezio ni, di deittici, ditratti asemanti ci, non è introdotto da didasca lie o daformule, ma si fonda su un’attenta impaginazione»,pensate cosa scriverebbe Darda no sull’elenco del tele-fono. In Si mona Vinci i «dialoghi mescida ti, accompa-gnati da gesti, espri mono solidarietà e collaborazio ne»,in Paolo Giordano «colpi sce la varietà delle proposizio-ni avverbiali presenti in molte pagi ne del romanzo» eanche di «in teriezioni come: chissenefrega, uao, okay»,per cui alla fine «rea lizza una letterarietà priva di spe -rimentalismi e autoriflessioni (come accade invecenella narra tiva di Scurati) e può rappresen tare un ter-mine di confronto per altre scritture dominate dal-l’espressività e troppo inclini a mode correnti».

Nel libro di Dardano, senza farla troppo lunga, c’ètutto il main stream italiano, da Lucarelli alla Fallaci,da Cavazzoni a Starno ne, da Del Giudice a DeCataldo, ed è un saggio esemplare, emble matico,oserei dire aulicamente paradigmatico. Scopriamotutto un mondo di capolavori na scosti alla luce delsole e delle classifiche di vendita, e prenden doDardano come illustre rap presentante della criticaaccade mica, quella seria, quella non mi litante, quellanon vanitosa, quella che studia, ci si rende conto chei tagli all’università sono sbagliatissimi: per fare larivolu zione culturale occorre uno spi rito francesed’altri tempi, ci vuo le una ghigliottina, la meno me -taforica, la meno disfemica pos sibile, e via.

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STAZIONE VITTORINIALDO, IL MITO ELIO E UN PADRE POETACarmen Maffione, Il Riformista, 6 giugno 2010

Si entra in casa Vittorini e si è accolti da un senso ditranquillità e calore, sarà la vista della libreria stipatadi libri o i numerosi dipinti. Siamo a Barletta, vicinoBari, città in cui Aldo, fratello di Elio Vittorini – scrit-tore, critico letterario, direttore editoriale –, vive daoltre set tant’anni e dove per trentacinque è statolibraio per passione. Seduta al suo fianco, la figliaLucia cerca di suggerirgli dei ricordi ma Aldo, con af -fettuosa fermezza, segue una sua personale, luci -dissima fila di immagini. Dalla sua voce profon da siascoltano le storie della sua famiglia, e non solo dellagenialità di Elio, del suo talento già chiaro ai tempidella scuola elementare, della lun gimiranza con cuisapeva andare oltre i confini nazionali, del rifiuto discendere a patti per la let teratura, ma anche di unpadre che viveva di poe sia, di scorci siciliani, di pol-pette sotto il tavolo, e naturalmente di una libreria,nata dalla collaborazione tra due fratelli che primadel tempo ave vano guardato all’Europa.

Un padre ferroviere, che scriveva poesie e tragedie. Estato lui a iniziarvi alla letteratu ra?«Così come la stazione di Roma si chiama Ro maTermini, così la stazione di Siracusa si chiama SiracusaVittorini. Hanno messo una targa: “Al capostazioneletterato”. (Aldo si alza, va a cerca re nella libreria:torna con due libri firmati Seba stiano Vittorini,Eschilo e Ummira esuli. Poesie, entrambi pubblicati daEmanuele Romeo Edito re, ndr). Eschilo è stato scrittonel 1914, in occa sione della prima rappresentazione alTeatro Gre co di Siracusa, l’Agamennone. Ci sonoanche le foto degli attori di allora. Mio padre viveva diquesto. Poesie, letture. Eravamo quattro fratelli: Elio ilprimo, mio fratello Ugo, nato nel 1910, mia sorellaJole del 1912 e io, nato il 6 gennaio del 1916».

Come mai vive a Barletta?«Mi trovo qui dal 1939, ero venuto a trovare mio fra-tello Ugo, poi mi hanno chiamato alle ar mi per le isole

L’ultima intervista. Si è spento pochi giorni fa il maestro e libraio della Europa diBarletta, aperta con i soldi prestati dal fratello, scrittore a Milano e direttore delPolitecnico inviso a Togliatti. Entrambi figli talentuosi di un ferroviere eclettico e letterato

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dell’Egeo. E siccome Barletta era il deposito misto perle truppe e il rifornimento delle isole italiane, io sonorimasto per rifornire. Sono vivo per una combinazio-ne, per l’illumina zione di un comandante, perché nel1941 ero alla base di Roma, nella caserma dei bersa-glieri a Trastevere, da dove avrei preso l’aereo per l’E -geo, ma il comandante disse “ogni giorno man diamomilitari a morire” e non volle far partire il mio gruppo.E solo perché nell’elenco il mio nome era registrato inbasso, ho avuto salva la vita. Tutti gli altri che sonopartiti prima di me sono morti, perché dei cacciainglesi, probabilmente partiti dall’Egitto, abbatteronol’aereo in cui viag giavano. Mi hanno congedato nel1945. Ero già sposato e sono rimasto a Barletta».

Com’è iniziata l’esperienza della libreria?«Nel 1945 andai a trovare Elio a Milano, lui stampa-va Il Politecnico. Questo è prezioso. Io ce li ho tutti, eil primo articolo del primo numero tratta di un argo-mento di attualità, la Fiat! Questo è invece il primonumero sotto forma di rivista, quando, dopo il litigiocon Togliatti, Il Politecnico diventò mensile, il 29 set-tembre del 1945, perché il Pci smise di sovvenziona-re il giornale. (Aldo cita il famoso commento diTogliatti: «Vit torini se n’è gghiuto e soli ci ha lascia-ti», ndr). È una cosa (Il Politecnico, ndr) che è propriocontraria all’idea del comunismo, perché il co -munismo l’hanno sbagliato tutti, l’hanno sba gliatoanche in Russia, perché purtroppo è l’uo mo che hasbagliato – scusi, non vorrei generaliz zare – ma sa,noi uomini siamo tutto, siamo giu stizia, siamo avvo-cati e accusatori, siamo tutto, e in questo credere diessere tutto ci sentiamo po tenti. Cosa significanooggi questi politici che scendono in campo? Cosasignifica che ti sei fatto da te! È impossibile, da te laricchezza non te la puoi fare, perché se sei onestomuori onesto e muori povero. Ma se fai i soldi non lipuoi fare con l’onestà. È come in San GiovanniDecollato, la commedia di Nino Martoglio, poeta,comme diografo siciliano: è una commedia fantasti-ca, protagonista è un ciabattino che ha uno stanzinoin cui aggiusta le scarpe, e una raffigurazione delsanto a cui è devoto è appesa alla parete; la mat tina,quando arriva la moglie a portargli il panino fresco, ilcalzolaio lo bagna nel lumino a olio ac ceso per SanGiovanni, e lo ringrazia, bagna il pa ne e ringrazia ilsanto. Queste erano le commedie che veniva no reci-tate ai tempi di Benito. Ma io non me la prendo so locon i politici. I delinquenti? Seguono l’istinto dell’uo-mo. Sono gente in gamba! Quelli che non hannorubato mai, è perché non l’hanno saputo fare!».

Vuol dire che l’occasione fa l’uomo ladro?«Diciamo che è una forma di evoluzione negativa.Siamo troppo egoisti. Io ho novantacinque anni, e misento come quella pianta. Adoro le piante, le fo glie,perché mi sento loro fratello. Ed è così, per ché io fac-cio parte della natura. Noi stiamo aspet tando diandare in Paradiso. Non ci prendiamo in giro, finiscoper essere estremista in certe cose. Che ognuno adoriil proprio dio se ci riesce e se lo vuol fare, può anchesentirsi lui stesso un dio, in fondo è dio di sé stesso!Ognuno di noi è una di vinità. Io mi sento di ringra-ziare solo mia madre e mio padre che nel crearmi mihanno fatto for te, nonostante da piccolo io abbiaavuto la mala ria. Sai, mio padre è stato capostazionein molte parti della Sicilia, io ad esempio sono nato aGe la, poi siamo passati a Dirillo, una zona paludo sapiena di zanzare, ed è là che ho preso la mala ria».

Tornando alla libreria…«Dicevo, nel 1945 sono andato a trovare mio fratelloal Politecnico e sono stato ospite a casa sua. Elio midisse: “Vuoi che ti aiuti a entrare in Einaudi?”. Lui giàlavorava per la casa editrice. Così mi feci dare undeposito libri, ma a me non piaceva andare a sfrucu-liare le persone a casa per promuovere questa o quel-la novità editoriale. Così, un anno dopo, quando Eliomi chiese come andava, io gli risposi: «Non è per me».E gli dissi: “Se vuoi darmi una mano, se ne hai la pos-sibilità, fammi un prestito che io mi apro una libreria”.Ho aperto la libreria nel 1947 e l’ho avuta fino al1982. Fino al 1981 ho anche insegnato alla scuola ele-mentare. Il 6 gennaio 1981 ho festeggiato i 65 anni eil 9 gennaio mi è arrivata la pensione!».

Perché decise di chiudere la libreria?«Quando comunicai alla mia famiglia che avrei aper-to una libreria, un mio parente mi ri spose: “‘a libreriaapri? E pecché, i libri si leg gono?». E lui, figghio didottore era! E aveva delle librerie a casa piene di libri!Mah! Gli dissi, io ho sempre dormito in mezzo ai libria casa mia, a noi i libri ci nutrono. Mio padre magaritrascu rava di comprarci la carne, ma mai i libri. Quan -do si mangiava si discuteva, chi leggeva una poe sia,chi parlava del tema che aveva fatto a scuola, e diquel professore che aveva preso il tema di Elio e loaveva distribuito a tutte le classi, tal mente era bello.Lo aveva letto a tutti gli studen ti. A tavola non si par-lava di mangiare. A Elio non piacevano le polpette ele buttava sotto il tavolo, e io mi mettevo vicino a lui,così appena le na scondeva me le mangiavo! Ho vis-suto una vita di intelligenza, non c’è stata mai vio-

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lenza a casa mia. Mio padre, quando nelle ferrovie uncapo stazione prendeva il mese di riposo, preferivaandare a fare qualche sostituzione nelle tratte dicam pagna, nei posti deserti, per poter navigare con lamente, e scrivere, scrivere poesie a migliaia».

Anche lei scrive?«Sì, ci sono dei momenti in cui scrivo, ho scrit to moltecose ma non vi ho maidato importanza per-ché non le reputodegne di essere pubbli-cate. Sono esplosioni, ebasta».

Che libreria era la sua?«La mia libreria erafamosa anche per il suonome. L’ho chiamataEuropa. Quando ancoranon ci pensava nessu-no all’Eu ropa! Ma piùche io a essere preveg-gente, lo fu mio fratel-lo, che quando decisedi aiutarmi con la libre-ria, mi disse: “Ades sonon la chiamare, alsolito, con un nomegreco, Atena o simili,chiamala Europa!”. Fului a suggerirmelo».

Lei librario, Elio scrit-tore, editore. Eravatecomplemen tari.«Eh, perché credi chemio padre mi abbiachiamato Aldo? Perchéera il nome di Aldo Manuzio, inventore del libro edella librerie. Mio padre scelse i nostri nomi. Pensache il mio per intero è Aldo Dante Teocrito. Mio pa -dre aveva puntato su di me! Poi poverino, gli è anda-ta male! E poi Ugo, Elio e Jole, che è l’ana gramma diElio. E poi c’era la poesia che lui scrisse per Elio quan-do nacque, una poesia me ravigliosa, ma non so chefine abbia fatto, era scritta in uno di quei quadernicon la copertina ro busta, nera, con su scritto bellacopia in oro, pie na zeppa di poesie, tra le quali c’eraLa nascita di Elio. Mio padre era eccezionale. Eracapace in tutto. Ci fu un periodo in cui il dopolavoro

ferro viario formò una piccola compagnia di attori, einiziarono a recitare commedie, cominciando da Lalocandiera, e vi recitavano mio padre, mio fra telloElio, mia sorella, e io servivo giusto a qual che cosa!Ma abbiamo avuto dei trionfi! Ricor do che venneroda Milano a vederci, in questo teatrino che avevamo.Mio padre era il regista, ma se c’era da dipingere,dipingeva pure!».

Cos’è questo degra-do culturale che stia-mo vivendo, di cuitanto si parla e per ilquale po co si fa?«Il degrado scaturi-sce dalla debolezzaumana, quella dicreare le divinità.Più sono ignoranti epiù vengono esalta-ti. Il male ricordatopiù del bene. Dasempre nella storiasono stati ricordati ipeggiori».

E lei come reagisce?«Io guardo solo RaiTre. Critico Ballarò,non mi piace. E poivorrei scrivere aSantoro e chieder-gli di non togliere laparola agli ospiti acui l’ha data. Alcinema non vadoda molti anni. Unavolta ci andavotutte le sere. Poi è

venuta la tele visione, e io fui uno dei primi a com-prarla, tant’è vero che il mio numero di abbonamen-to è picco lo piccolo, non arriva neanche a sei cifre!».

Le piacciono gli scrittori contemporanei?«Non è che non mi piacciono, è che ho della prefe-renze culturali. In questo momento sono per la poli-tica, quindi compro solo libri impegnati. LeggevoCamilleri ma adesso non lo compro più perché nonmi piace il dialetto che usa nei suoi ro manzi. Non èvero dialetto siciliano, è un dialetto suo. Non siesprime come ci si esprime in Sicilia. Una volta mi

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piacevano le parole siciliane che usava per rendere leespressioni violente, ecces sive, le bestemmie. E poiquello che mi piace è la descrizione dei posti. Mipiace anche vederli nella fiction di Montalbano, mipiace rivedere Modica, Sicli, Ragusa superiore che siaffaccia sulla valle di Ragusa Ibla».

Posso chiederle di lasciarmi un ricordo di suo fratel-lo, come uomo o come scrittore?«Come scrittore? Elio ha iniziato a scrivere a dodicianni, Il brigantino del papa è stato il suo primo libro,scritto e riscritto e quasi mai pubbli cato. L’hannopubblicato dopo la sua morte. Poi nel 1930 c’è statoPiccola borghesia, i primi ri cordi di quando si è spo-sato con Rosa (sorella del poeta SalvatoreQuasimodo, ndr), ed è andato a lavorare a Gorizia. Manon è tanto quello che ha scritto sottoforma diromanzi, Elio è altro, in al tro ha espresso sé stesso.(Aldo prende altri libri e li poggia sul tavolo, sono rac-colte di saggi cri tici e lettere di Elio, ndr). Elio è que-sto! Elio è questo! Non i romanzi, quelli di lui nonraccon tano niente. Qui c’è la sapienza letteraria. Cisono tanti di quegli scritti, soprattutto le lettere, an -che quelle agli amici, quelle in cui si legge come aiutai giovani scrittori, pubblicando la collana deiGettoni».

Da questi scritti e da quello che è stato rac contato,pare fosse molto severo.«Elio era severo con sé stesso».

Lei sa che Elio rifiutò la parte che Fellini gli offrì neLa dolce vita?«Elio aveva già interpreto la parte del princi pe diVerona nel film Romeo e Giulietta (di Re natoCastellani, ndr). Quando andavo a trovarlo, trovavosempre la casa piena di letterati, suoi grandi amicierano Pasolini e Alfonso Gatto. Ma la cosa più avvi-lente è che molti di loro voleva no convincermi a par-lare, mi interrogavano, cre devano che tramite meavrebbero potuto venire a conoscenza di cose su Elioche ignoravano. Per esempio, a Elio venne la passio-ne della vela per ché suo cognato (il marito della suaseconda mo glie Ginetta Varisco, ndr), aveva unabarca, e a me chiedevano come fossero questi viag-gi, e co me andava con il vento, eccetera. A me lochie devano!».

Che effetto le fa ricordare suo fratello?«In fondo, io vivo di questo. Quando me ne sto lì sullapoltrona sembra che dorma, e invece non dormo,lavoro con il cervello. Ricordo tutto quel lo che ho vis-suto. È un intorno».

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«Io ho sempre dormito in mezzo ai libri a casa mia, a noi i libri ci nutrono. Mio padre magari trascu rava di comprarci la carne, ma mai i libri.

Quan do si mangiava si discuteva, chi leggeva una poe sia, chi parlava del tema che aveva fatto a scuola, e di quel professore che aveva preso il tema di Elio e lo aveva distribuito a tutte le classi, tal mente era bello.

Lo aveva letto a tutti gli studen ti»

«Il degrado scaturisce dalla debolezza umana, quella di creare le divinità. Più sono ignoranti e più vengono esaltati. Il male ricordato più del bene. Da sempre nella storia sono stati ricordati i peggiori»

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Dovrei farvi una lezione di mezz’oretta, solo che«lezione» è un termine preciso e mezz’ora non basta.Quindi co sa si può dire, così, a braccio, come sugge-rimento, come indi cazione a delle persone che comevoi sono interessate alla let tura, alla scrittura, tantoda par tecipare a questo concorso?

Regole e precetti sono diffici li da dettare.Ieri pomeriggio mi è accadu to di aiutare uno stu-

dente sedi cenne del liceo francese Chate aubriand chedoveva scrivere una dissertazione su un tema vertigi-noso, e cioè: le regole in letteratura stimolano la crea-tivi tà oppure la soffocano? Mi era stato chiesto didargli dei sugge rimenti, supponendo che io sia esper-to della materia… Ma il poveretto dopo che gli avevoaffastellato un po’ di indicazio ni contraddittorie neaveva ca pito meno di prima, cioè, que ste famose rego-le aiutano, sti molano la creatività o la depri mono?Servono a qualcosa o sono una perdita di tempo?

Tra l’altro il dottissimo pro fessore del liceo Chat -eaubriand aveva accompagnato il tema con citazionida Baudelaire, da Boileau e Valéry, talmente sottili eprofonde da confondere ancora di più le idee. In altreparole, esistono delle regole per scrivere? Oppureoccorrerebbe godere di una libertà assoluta?

Le regole sembrano fatte ap posta sia per essereobbedite sia rovesciate. Di recente ho letto un saggiointeressante la cui sitesi è che se tu prendi questigrandi scrittori francesi di afori smi del Seicento eSettecento ed esamini la verità della loro mas sime, tiaccorgi che funzionano sia al diritto sia al rovescio,cioè possono essere vere quanto può essere vero illoro esatto contra rio, quindi evidentemente le re goleservono in entrambi i sen si, sia se le rispetti sia leinfrangi, e forse la scrittura è il campo in cui questasuper-regola che sto istituendo adesso – cioè rispet -tare le regole e infrangerle – funziona al meglio.

Come sugge rimenti spiccioli posso consigliarvi leseguenti cose: a. Provare, soprattutto nello scrivereracconti, a farlo in ma niera continuativa, non in ma -niera episodica. La scrittura – e questo lo diceva sem-pre qual che altro grande scrittore – vuol dire spuntaremolte penne, rompere molte matite, almeno metafo-ricamente, cioè, per arri vare a un risultato occorrepro vare e riprovare e questo può avvenire soltanto sel’applica zione non è episodica, ci vuole una certa con-tinuità, continuità anche nello scrivere cose brutte oincompiute, una cosa di cui io per primo mi rendoconto. Se smetto per un mese o due mesi o tre, rico-minciare sarà difficilis simo. Sempre meglio mettersidavanti alla pagina – o allo schermo, come volete –anche non essendo pronti, tanto quel la cosa che devevenire non è che uno ce l’ha già dentro bell’e fatta epoi la applica, il semplice gesto di mettersi nella cosa,del cominciare a farla, produce la cosa stessa; come sidiceva pri ma, è un gioco che devi comin ciare subito agiocare, anche al buio. Quindi se uno ha delle difficol-tà, anche se non ha nien te in testa è una buona cosaprovarsi a mettere sulla tastiera o sulla carta.

b. Provare a scrivere subito bene. Lo so che alcuninon la pensano così. Esistono mitolo gie su libri riscrit-ti dieci, dodici, quattordici volte, con l’idea che uno loriscriva sempre un po’ meglio: secondo me è un atteg-giamento diminutivo, tirare giù per poi dire «lo riscri-vo» andrà bene per le sceneggiature, o per le scritturecosiddette di servi zio, mentre uno dovrebbe scri vereimmediatamente nel modo migliore possibile. Il chenon vuol dire che poi uno non correg ga, riscriva, tagli,però mai l’idea del «lo butto giù tanto per buttarlocosì, che poi dopo ci tomerò su». Anche perché il calcoche prende una pagina o una storia si raffredda e irri-gidi sce e dopo può essere difficile cambiarla. Dicoquesto avendo fatto lavoro redazionale, per esempio

C O S Ì S I F A B B R I C A U N R A C C O N T O

Edoardo Albinati, Il Messaggero, 8 giugno 2010

Pubblichiamo qui parte dell’intervento che lo scrittore Edoardo Albinati ha tenutocome “lezione magistrale” di fronte agli studenti dei licei e degli istituti tecnici

romani e laziali. L’incontro si è tenuto nell’ambito di «Facciamo un libro», progettoper promuovere la lettura fra i giovani. L’iniziativa è organizzata dalla FondazioneMaria e Goffredo Bellonci, l’istituzione che anima il Premio Strega (e che domani

fra l’altro annuncerà i cinque finalisti dello Strega 2010)

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sulle traduzioni: quan do una traduzione era cattivabisognava rifarla da zero, non c’era possibilità dimigliorarla. La mia è un’indicazione pura mente tecni-ca – una volta che la frase ha preso un certo anda -mento, l’occhio e l’orecchio di chi l’ha scritta tendonoa repli carla, difficile che riesca a distac carsene.

Questo fa sì anche che chi scrive dopo un po’ non siaccorga più se la cosa che ha scritto sia buona o catti-va, non riesce più a cambiarla se non, magari, in peg-gio, e questa è la ragione per cui – altro suggerimentopratico – io vi con siglio calda mente di far leggere levostre cose ad altri. Gli altri si accorgono meglio di voitalvolta – perché hanno un occhio limpido rispetto alla

scrittura, e vanno a leggere qualcosa che non conosco-no affatto – e tal volta sono più oggettivi, cioè capisco-no meglio delle cose che l’autore non afferra o nonnota più. Si tratta di un passaggio inevitabile e impie-toso: per quanto uno pensi di non scrive re in vista deilettori ma per il puro amore verso la cosa che fa, e perla necessità di farla, a un certo punto questo passaggio,l’uscita dal buio di un cassetto o dalla virtualità di unfile nel pc, al fine di esporsi all’occhio e al giudizio altrui,per forza di cosa avverrà. Può anche essere dolo roso –la sofferenza di chi è timido o sensibile ai giudizi po -sitivi o negativi degli altri – però il passaggio decisivosarà proprio sottoporvisi.

A L L A R I C E R C A D E L G I O C O P E R D U T O

Valerio Magrelli, la Repubblica, 8 giugno 2010

Divertirsi con le parole da Proust a Nabokov.Anche i grandi scrittori amavano utilizzare il linguaggioin modo ludico: l’ultimo libro di Bartezzaghi racconta

i palindromi di Primo Levie gli anagrammi dell’autore di Lolita

«Il gioco è circondato dal discredito». Sotto l’insegnadi questo endecasillabo di Giampaolo Dossenapotrebbe a buon diritto collocarsi Scrittori giocatori,l’ultimo libro di Stefano Bartezzaghi (Einaudi, pagg.382, euro 28). Figlio d’arte (suo padre Piero fu tra i piùnoti enig misti italiani del secolo scorso), seguace di ungrande esperto di gio chi come appunto Dossena,allievo di Umberto Eco, da anni Bartez zaghi si muovesul crinale che separa l’attività ludica da quella lette-raria. Separa e insieme unisce, sarebbe meglio dire,visto che in un caso come nell’altro la posta in giocoè quella del linguaggio, come ben sa chi segue larubrica «Lessi co e nuvole» sul Venerdì di Re pubblica.

Scrittori giocatori, tuttavia, si differenzia netta-mente dalla produzione dell’autore. Infatti, fra inumerosi titoli pubblicati, fi nora l’accento era semprecadu to sul versante enigmistico. Senza risalire aCome risolvere facil mente i giochi enigmistici (DeVecchi 1984), senza spingersi fi no agli esilaranti Sfigaall’OK Corral (Einaudi 1998) o Non ne ho la piùsquallida idea (Monda dori 2006), anche volumi piùim pegnati quali Accavallavacca (Bompiani 1992),

Anno Sabbati co (Bompiani 1995) o L’elmo di DonChisciotte (Laterza 2009) la sciavano la letteraturasullo sfondo. Con quest’ultimo stu dio, viceversa, lasua presenza risulta decisamente centrale, co me sug-gerisce l’illuminante sot totitolo di una sezione suCalvi no: Ludus in fabula.

La varietà degli scrittori chia mati in causa fa pen-sare a un ve ro e proprio saggio di comparati stica, perquanto i diciassette ca pitoli risultino variamente as -sortiti. Alcuni hanno il taglio di omaggi scherzosi,come quello su Dante, su Cage lettore di Joy ce, sulle«vite parallele» di Gadda e Nabokov, o su RolandBarthes (di cui Bartezzaghi, passando per il calciato-re francese Barthez, si firma onomastica mente «cugi-no»). Se a ciò si ag giungono un commosso ricordo diDossena e due brevi incursio ni su Gianni Celati eTruman Capote, restano dieci capitoli che formano lozoccolo duro di que ste ricerche. Proprio su queste siconcentrano le competenze di Bartezzaghi, con risul-tati spesso sorprendenti.

Prendiamo per esempio Mar cel Proust. Nella suaopera si tro va un puzzle calligrafico che solo oggi

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trova un chiarimento. Nel secondo volume dellaRicerca del tempo perduto, il narratore ri ceve unalettera dalla sua amica Gilberte, e si sofferma sullasua strana firma ricca di ghirigori. Molti anni piùtardi, poco dopo la morte dell’amata Albertine, vieneraggiunto da un telegramma con cui quest’ultima loinvita a un incontro. Lo stupore è for tissimo, la solu-zione assai ardua. Evidentemente l’addetto all’uf ficiopostale aveva letto la firma della vera mittente, ossiaGIL BERTE, come ALBERTINE, cau sando così una sortadi involon taria risurrezione dell’oggetto perduto.Ebbene, grazie alle in dagini di Douglas Hofstadter,oggi possiamo definire il passag gio grafico da unnome all’altro nei termini di un «ambigramma aoscillazione». Chi avrebbe mai pensato che Proustavesse fatto ricorso a similiingegnerie del se gno?

Diverso il caso di Primo Levie del suo ludismo verbale, chesi manifesta in uno spiccatotalen to per i palindromi, oltreche per gli scacchi. Proprio daquest’ulti mo gioco provieneuna partico lare figura, tipicadella cultura ebraico-ameri-cana: si tratta del «kibitzer»,cioè di qualcuno che vedegiocare gli altri. Da qui la bellaintuizione di un Levi «kibit zer»del linguaggio. Rispetto aitesti fin qui citati, occorre direperò che al centro del librotro neggia una coppia di saggidedi cati a due grandi amiciquali Queneau e Calvino. Nelprima caso assistiamo a unadettaglia tissima analisi diEsercizi di stile (con una notevole ipotesi nume rologi-ca rispetto a quello intito lato Maldestro), mentre nelsecondo, si esaminano i legami con il famoso gruppodell’Ouli po (Opificio di letteratura poten ziale).

Ma il bello deve ancora arriva re. Basti pensare alvirtuosistico capitolo sugli anagrammi in Na bokov,uno fra i romanzieri pre diletti da Bartezzaghi. A lui si

de ve un’osservazione chiave, che spiega bene ilmisterioso nesso fra gioco e arte: «Lo scioglimento diun indovinello e l’atto più pu ro e basilare della menteuma na». Molto ci sarebbe poi da osservare sui festo-si «antidetti» in Giuseppe Pontiggia (Nuotare nellapovertà, Pescare nel limpi do, Sapere dove sbattere late sta), come pure sulla post-paro laccia in AlbertoArbasino, che nelle sue varianti di Fratelli d’Italiapassa da v*ff*nc*l (1963) al regolare vaffanculo(1976), per arrestarsi su un ambiguo vaffa (1993).Come mai? La risposta è impeccabile: «Il vaffa è l’in-sulto ridotto al suo nome, del tutto pri vo del suopotere performativo; è tipicamente metalinguistico.La menzione dell’osceno sostitui sce il suo uso, eprende forme quasi confidenziali».

Due fra i contributi più riu-sci ti riguardano i giochi fraparole e immagini in AlighieroBoetti, nonché l’esame delcapolavoro di Don DeLilloUnderworld (dove la scenadella palla da baseball lancia-ta fuori campo, si contrap -pone a quella della partita diten nis senza pallina giocata inBlow up di MichelangeloAntonioni).

Eppure l’intervento più toc-cante è forse l’ultimo, chenasce come semplice reso-conto del funerale di DavidFoster Wallace celebra to aNew York il 23 ottobre 2008.

A questo punto, mi sia per -messa una piccola confessio-ne: ho sempre nutrito unaprofonda insofferenza per

questo scritto re, ridondante, festonato, autocompia-ciuto. Ebbene, la pietas mostrata da Bartezzaghi inque sta testimonianza me lo ha rive lato sotto unanuova luce, im merso in un’umanità dolente e vera. Seil merito di un libro può consistere nel far mutarparere al suo lettore, allora, nel mio caso, Scrittorigiocatori può fregiarse ne.

Oblique Studio

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«Lo scioglimento di un indovinello è l’atto più pu ro e basilare della mente uma na»

Vladimir Nabokov

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LA SFIDA DI PROCACCI:«TROPPI EDITORI CONFORMISTI E PREMI POCO TRASPARENTI»La «sua» Fandango letteraria compie dieci anni. E lui racconta le differenze con il cinema

L’orecchino al lobo sinistro, gli stivaletti un po’ con-sumati, l’aria di quello «che ci faccio io qui», un po’sorniona e un po’ trasgressiva, così si presenta Do -menico Procacci, patron della Fan dango, un’impresamultipla che annovera ovviamente la produzionecinematografica, la ca sa editrice, una radio e un set-tore di produzione musicale. La sede è a Roma in unapalazzina a più piani dove si respira un’aria democra-tica, rilassata, in qualche modo controcorrenterispetto alle for malità che in genere avvolgono lasede di un’azienda.

La Fandango libri compie dieci anni. E nel tempo èdiventata una bella realtà: all’inizio pochi libri, oggiuna cinquantina di titoli l’anno, circa tre milioni difatturato, cui va sommato un altro milione se siconsi dera la recente acquisizione della Coconino, unacasa editrice specializzata in fumetti, peraltro bellis-simi. Dieci anni che verranno in qualche modofesteggiati con l’uscita in ottobre del nuovo romanzodi Sandro Veronesi. Titolo un po’ misterioso: XY, per

un romanzo a metà strada tra il thriller e il raccontofilosofico.

A cinque anni da Caos Calmo che vinse lo Strega, lacuriosità e le aspettative sono alte. Tiratura inizialetra le 150 e le 200 mila copie. «L’investimento cheabbiamo prodotto è adeguato all’evento letterario emi piace che coincida con il decennale della casa edi-trice» , dice Procacci.

Intende dire che lo sforzo sarà analogo a quello cheproduceste per Questa storia di Baricco?«Legato all’importanza che rivestono certi scrit toriche hanno creduto nel nostro progetto. E, tra l’altro,il romanzo di Baricco andò benissimo».

C’è chi ha sostenuto che è andato meno bene dei libriche Baricco pubblicò con Rizzoli.«È un’affermazione infondata. Il libro ha vendu tooltre duecentomila copie, è stato primo in classi fica

Antonio Gnoli, la Repubblica, 9 giugno 2010

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per quattro settimane. Direi pienamente in li nea coni suoi precedenti lavori. Baricco del resto ha un pub-blico che lo segue a prescindere dalla casa editricecon cui pubblica».

Però il gruppo Rizzoli non digerì quella specie di scip-po. Di beffa contronatura: il piccolo che man gia ilgrande. Non si era mai visto che autori affer maticome Baricco, Veronesi e lo stesso Nesi la sciassero lacasa madre per andare altrove.«A parte che Nesi continua a pubblicare per Bom -piani, dov’è lo scandalo? Il momento importante pernoi coincise con l’arrivo di Rosaria Carpinelli che eral’editor della Rizzoli. Con lei abbiamo rifondato lacasa editrice».

Rifondata cosa vuol dire?«Quando la Fandango libri è nata si pensava di farepochissimi titoli e soprattutto di autori non italiani.Ci piaceva poter dare al pubblico Infinite Jest diFoster Wallace o pubblicare i romanzi di JohnCheever. Ma era una politica del fiore all’occhiello,dell’hobby nato dalla testa di un produttore cinema-tografico. Poi siamo cresciuti e siamo stati in grado diaffrontare non solo la narrativa straniera ma anchequella ita liana, la saggistica, il fumetto».

Come ha convinto scrittori affermati a venire allaFandango?«Se non pensassi che su certi libri posso fare lo stes-so lavoro dei grandi editori non avrei proposto primaa Baricco e poi a Veronesi di pubblicare con noi. Lavera differenza si sente soprattutto con gli autorimeno noti, qui facciamo più fatica di un grande edi-tore a imporli all’attenzione dei lettori».

Avete sempre il vantaggio del cinema. Un bel roman-zo può diventare un film e viceversa.«Non è così semplice, anche se i punti di contatto cisono. Nel senso che in entrambi i casi si tratta sem-pre di raccontare storie. Cambia naturalmente ilmezzo, il linguaggio e gli investimenti sono diversi: sesbagli un libro poco male, se toppi un film la cosa ècertamente più grave».

Due forme d’ansia diverse?«Per natura non sono ansioso. Diciamo che il giocoche porto avanti nel cinema è lo stesso che praticocon i libri: andare dietro al proprio gusto, pubblicareciò che ci piace e capire se è un discorso limitato a mee alle persone che mi circondano, oppure intercetta

anche il gusto del pubblico e quindi diventa qualcosadi più emozionante».

E cosa ne ha concluso?«Non penso che la qualità sia necessariamente perpochi. Ecco, se un’ansia mi viene è quella di sapere seun libro o un film piacerà solo a noi o anche aglialtri».

Lei interviene sui libri con la stessa determinazioneche ha con i film?«Per la parte letteraria so di essere molto menocompetente».

Ma di fronte a un romanzo che non le piace e che isuoi collaboratori caldeggiano, lei che fa? «Non è mai accaduto che un libro portato da quelliche lavorano con me non mi sia piaciuto. C’è delresto un rapporto di fiducia e di stima senza il qualenon costruisci niente».

Ha il tempo di leggere tutto quello che passa dallacasa editrice?«Come potrei? Cerco naturalmente di informarmi ilpiù possibile, ma ormai non ce la faccio più. LaFandango è cresciuta nei titoli e negli impegni».

Quanto tempo le dedica?«Diciamo un trenta per cento, il resto va allaFandango cinema».

Come vive la crisi del libro e del cinema?«Se il raffronto lo si fa con altri settori la situazionenon è così compromessa. Per quanto ci riguarda nonabbiamo subito particolari contraccolpi. Registriamouna crescita anche se lenta, sia col cinema che con ilibri. In ogni caso il cinema si muove a una velocitàmaggiore dell’editoria».

Intende dire che i libri spostano poco?«Non solo questo. Diciamo che nel mondo dell’edito-ria c’è una generale accettazione di quello che si è.C’è molto conformismo e quieto vivere. Ogni tantoscoppia qualche petardo, ogni tanto qualcuno attac-ca un premio o un editore concorrente, ma alla finetutto resta com’è. L’editoria somiglia a un fossile equesto mi preoccupa».

E non la preoccupa che il maggior premio lettera-rio, ossia lo Strega, siano sempre gli stessi editori avincerlo?

Oblique Studio

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«Sono l’ultimo arrivato e mi muovo con difficoltà nelmondo dei premi letterari. Noi abbiamo il libro diLorenzo Pavolini Accanto alla tigre che concorre alloStrega. Come produttore di film ho preso posizionesul premio Davide di Donatello, chiedendo che fossecambiata la giuria, perché da quando è stata moltoallargata ha perso di qualità. Poi un giorno mi hannoraccontato come funzionava lo Strega, sono rimastoa bocca aperta. Tutto quello che nel mondo dei premicinematografici mi sembrava non avesse sufficientelimpidezza, improvvisamente mi è parso trasparenterispetto ai maggiori premi letterari e in particolareallo Strega».

Eppure vi partecipa.

«Non voglio fare del moralismo, né gridare allo scan-dalo. Ho imparato che lo Strega funziona per blocchidi potere, che le grandi case editrici controllano moltivoti. Vincere quel premio significa incidere sui nume-ri del venduto, significa a volte costruire una carriereletteraria, significa rafforzare un editore. Dovrebberoesserci regole condivise da tutti. Ma se non riesco acambiare le cose nel mondo del cinema, dove ho unruolo molto più forte, come posso pensare di incideresulle regole dello Strega con una semplice polemica?Il premio riflette l’immagine della realtà editoriale ita-liana, che è sostanzialmente immobile. C’è un’accet-tazione passiva delle cose. Lo scenario va cambiato,ma non basta fare casino, occorre creare condizionidiverse».

Rassegna stampa, giugno 2010

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«Se non pensassi che su certi libri possofare lo stesso lavoro dei grandi editorinon avrei proposto prima a Baricco e poia Veronesi di pubblicare con noi»

«Quando la Fandango libri è nata si pensava di farepochissimi titoli e soprattut-to di autori non italiani. Ci piaceva poter dare alpubblico Infinite Jest diFoster Wallace o pubblicarei romanzi di John Cheever.Ma era una politica del fioreall’occhiello, dell’hobbynato dalla testa di un pro-duttore cinematografico»

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Un testo con cui in molti hanno polemizzato(Adriano Sofri, Paolo Flores d’Arcais, Pierluigi Battista;e che lo stesso Dal Lago e il suo editore, MarcoBascetta, hanno difeso sul manifesto. Perbacco, per-ché mai non avremmo dovuto pubblicare una «deci-sa analisi critica (seria, rigorosa e diffusamenteargomentata) di Gomorra?», sostiene con veemenzaBascetta, il 30 maggio. E: «Mi si critica non per quel-lo che dico ma perché lo dico» sostiene e si lamentaDal Lago (il 3 giugno).

Dal Lago, si rassicuri. Non mi interessa sapere per-ché lei «dice quello che dice»; può dire e scrivere tuttociò che vuole. Mi interessa invece dare una buonanotizia al lettore del manifesto: è proprio quello chelei dice a essere sbagliato. La sua non è unacritica seria, rigorosa, documentata, nonostanteabbia il suo bravo e impressionante – solo per chi nonva a controllare – apparato di note. Anche perché inmolti punti chiave il libro è basato, in modo imbaraz-zante, su ciò che Saviano non ha affatto scritto. Fin dalla prima pagina, in tono leggero, lei dice aisuoi studenti, «lo stesso Saviano ha dichiarato dimuoversi a suo agio nei media e anzi di voler lancia-re una moda» (corsivo mio), e come prova legge unbrano di giornale «su una manifestazione anticamor-ra cui ha partecipato lo scrittore». Peccato si trattas-se non di una «manifestazione anticamorra» ma dello«Speciale» Che tempo che fa di Fabio Fazio del 25marzo, che lei avrebbe potuto rivedersi con calma,perché Saviano ne ha tratto un dvd e un libro. Constraordinario rispetto per le parole usate, in essoSaviano scrive appunto del senso profondodella parola contro la camorra, e dello strumentomicidiale che usano le organizzazioni criminali con-tro i loro nemici, la delegittimazione: come nel casodi don Peppino Diana e di tanti altri. Altro che moda!

Il senso del «parlare contro» (contro le mafie) sta nelladiffusione stessa delle parole, che porta con sé lapossibilità per chiunque di trarre un proprio giudizio.E diminuire così quel dominio. E dalla parte di chi«parla contro la camorra» sta nella necessità che ilsuo parlare rimanga sempre autorevole, non inquina-to, non delegittimato. E diventi soprattutto racconto,nuove storie condivise.

Eh, ma scrive – incredibilmente – lei poco dopo: «Sirifletta un po’ prima di gridare ai quattro venti chetutto il male del mondo discende dai Casalesi. Unaquestione di proporzioni, insomma». Del resto, chealtro si potrebbe «pretendere di più dall’eroe antica-morra»? In queste due frasette sciagurate, buttate lànell’«introduzione», si riassumono già le tesi che leicercherà di dimostrare per tutto il suo saggio (lo defi-nirei piuttosto un pamphlet polemico).

Prima tesi. Saviano è ossessionato dalla camorra,la vede ovunque; e se la si vede ovunque, che cosa sivuol nascondere? A chi si è funzionali con tutto que-sto raccontare storie di vittime e di orrori, ma anchedi inediti pezzi di capitalismo, di vitalità selvaggia;che significherà mai voler «canalizzare la pubblicaindignazione sugli orridi killer di camorra»? Già: cheloschi scopi ci si prefiggono? Seconda tesi: Saviano –inteso sia come «io narrante» nella strategia compo-sitiva di Gomorra, sia come autore del libro, sia comepersonaggio pubblico e persona vera – è nient’altroche «l’eroe anticamorra», malato di eroismo a tutti icosti, che è una roba di destra, e questo … spiega unsacco di cose, anche perché mai «Farefuturo» di Finilo difende!

La prima tesi, che Saviano «veda solo la camorra»,per così dire, la porta a prendere svarioni in quantità.Come si fa – si chiede lei sgomento – a definire gliammazzamenti di camorra un Olocausto? Non si

NON PRENDIAMOCELA CON UNA FIACCOLA NEL BUIOSeverino Cesari, il manifesto, 11 giugno 2010

«Illuminiamo il resto del buio, anziché indicare come nemica la sua fiaccola accesa, scuotendo la testa»

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faranno «svanire i fatti nelle iperboli»? Peccato peròche in Gomorra di Olocausto mai si parli; ne parlanoinvece il giornalista Dario del Porto… e il titolo di unsuo pezzo su un quotidiano. Saviano non ne scrive. Eperché poi, si chiede lei, Saviano nomina ciò cheaccade in Campania come «la Peste», alla Camus oalla Malaparte – ovvero come un Male assoluto emetafisico? Lei se lo domanda più e più volte nellibro, circa dieci: ma mai – vado a memoria – si nomi-na la Peste in Gomorra, e Saviano ne parla comunquein tutto due o tre volte nei suoi articoli e sempre aproposito dei rifiuti tossici che avvelenano laCampania. Una metafora questa, del tutto condivisi-bile direi.

Certo, se poi uno è ossessionato dai Casalesi evede solo quelli, sarà normale che, parlando ai ragaz-zi dell’Onda a Roma 3, possa uscirsene con una frasecome questa: «La battaglia sulla criminalità è unaquestione che, moralmente, viene prima di tutto». Seavesse controllato il file audio (sul sito di Radio3)della mezzora di manifestazione, avrebbe sentitodistintamente il contrario: «Perché la battaglia sullacriminalità non è, come dire, una questione chemoralmente viene prima di tutto» – il che nega allaradice il suo presupposto, gentile professore. Come inmille altre occasioni del libro. Lei è capace di rifiuta-re il binocolo di Saviano per tenersi la sua miopia:vede solo «luoghi comuni nazionalistici» là doveSaviano – partendo da ciò che chiama il territorio,ovvero da una sorta di «ricerca sul campo» alla qualeera solito dedicarsi quando poteva muoversi – scopreuna inedita globalizzazione delle vittime: la scoprenei soldati italiani in Afghanistan, i quali per scam-pare ai narcotrafficanti campani, finiscono sotto ilfuoco di altri narcotrafficanti, che riforniscono iprimi. Non c’è una storia globale della guerra ameri-cana! Ma proprio Saviano la doveva scrivere? Ne èsicuro? E fa ironia sulla diffusione della camorra inSpagna riportando brani di intervista un po’ confusa– non uno scritto di Saviano! – e dimenticando inte-ri nitidi pezzi di Gomorra, se l’ha letto davvero, sugli«Spagnoli». Inoltre, non è per niente «verissimo cheBruno Vespa ha fatto battute ingiustificabili suSaviano»: era Fede. E così via. Alla faccia della criticaseria e rigorosa su ciò che l’autore ha scritto. Ma lei,professor Dal Lago, non voleva occuparsi del veroSaviano: doveva fabbricarsene uno tutto suo, chegiustificasse quella cinica, sconsolata visione di«nulla di nuovo sotto il sole» così tipica della sinistrasconfitta, che cerca da tempo di ricondurre ogni cosaal proprio nichilismo. E può ignorare, considerandolo

rassicurante e confortevole, anche chi scopre unadimensione inedita del conflitto. Chi ci fa conoscereuna realtà prima sconosciuta, che arricchisce e com-pleta il quadro: non lo sostituisce, né lo cancella.Ma è l’altra sua tesi quella forse più aberrante, per-ché indica una totale incapacità di leggere Gomorra,fino a rischiare di minarne la verità poetica e cono-scitiva, e dunque il suo valore. Non mi riferisco a det-tagli farseschi come l’accusa di sciatteria perchéprima si nominano «scarpe da ginnastica» poi «stiva-li» (ma si sbaglia lei, Saviano conosce le scarpe deicamorristi e scrive di stivaletti, non di stivali) o afraintendimenti del testo, della sua profonda e ancheallucinata visionarietà (i cinesi dell’inizio, mitologi-ci, che diventano poi però del tutto veri nei palazzisventrati per far posto alle merci) e così via. Ciò chelei «rivela» come risultato di una clamorosa detectioncritica e, di più, come un esemplare smascheramen-to letterario – che cioè, alla fin fine, è Saviano stes-so l’«eroe» implicito nella narrazione – costituisce inrealtà il presupposto stesso del libro, il suo punto dipartenza. Il lettore si fida, e si affida all’ignoto, pro-prio grazie a quella prima persona che gli dice, ioc’ero, io ho visto, io so e ne ho le prove: e che inter-viene sempre quando la sconvolgente materia«documentale» rischia di eccedere, di non risolversi instoria. Ma attenzione. Quella figura di ragazzo pro-iettata dal testo, che va in scooter e si precipita sullascena di un ammazzamento seguendo le frequenzedella polizia, quel ragazzo che introduce il lettore«dentro» le situazioni, utilizzando al momento giustoanche la fiction, l’invenzione là dove diventa quasicorrelativo oggettivo di quanto prima narrato; quel-la figura fa vivere al lettore la Campania del Sistemacome una rivelazione assoluta, perché matrice dienergie capitalistiche pure, che vanno a innervarsinel mondo globalizzato – e diventano sogno didominio, rimanendo schifo e miseria – mentre il let-tore pensava che tutto questo non lo riguardasse,che non si parlasse della sua vita, che si trattasse distanchi e ridicoli guappi e non di imperi.

Certo che quel ragazzo-Saviano è «l’eroe» dellanarrazione! Ci mancherebbe. Ma lo è solo in unbanale senso tecnico: è l’occhio del libro e del letto-re. Il suo «protagonismo» consiste unicamente nelvedere, nell’osservare, nell’esserci, nell’essere «lavo-rato» e trasformato da ciò che accade. Ovvero da ciòche è poi il «protagonista» vero, ciò che si svela,conoscendolo. L’eroe-osservatore mai fa accadere lecose, di fondo si limita a «raccordare» le scene. Nonè affatto, in questo senso, la figura di un «militante»

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anticamorra: non è un protagonista malato o osses-sionato di eroismo. Quando entra nella villa seque-strata di un boss ha paura fisica. A volte è persinocontiguo a ciò che racconta. Non è un eroe in quelsenso lì, alla Beowulf (altro personaggio di cui DalLago si è follemente innamorato, e lo appioppa aSaviano ogni volta che può). È invece il giusto cheapre gli occhi e vede. È il cantore. O il cantastorie. Ose preferite, una persona che fa ricerca sul campo,mettendosi in gioco. È Orfeo, forse cieco come direb-be Wu Ming 2, perché oggi questo solo può essereOrfeo, se vuol tirar via qualcosa dall’Inferno. È unafigura della debolezza, del limite e della responsabi-lità, concetti che Dal Lago conosce bene; ma assolu-tamente non del potere.

Confondere volutamente l’«eroe» del romanzo,inteso come figura della narrazione, con «l’eroe» mili-tante in cui è obbligato a trasformarsi RobertoSaviano per le circostanze dentro le quali è costrettoa vivere, non il narratore di Gomorra ma l’uomo incarne e ossa, è una banalità. Peggio, è futile. Vuol direcompiere in malafede una acrobazia dialettica permettersi in mostra e dimostrare che nulla è accadu-to, che anche gli altri sono saltimbanchi. Sulla pelledi chi non può difendersi. Sulla pelle di chi conduceuna vita disperata e senza luce, riuscendo tuttavia ad

accendere una luce costante su un punto prima ciecodel nostro sviluppo, a studiarne e rivelarne le inner-vazioni con la carne e i sentimenti, con i vestiti e imotori, il cemento e le armi, i vasti traffici e il velenoche è diventato il mare, da grande scrittore. E non ècerto colpa sua se fuori da quel cerchio di luce, il buiorimane fitto.

Saviano non ha scritto Gomorra per accreditarsi,per trasformarsi in una «bolla mediatica», in un eroeanticamorra a tempo pieno: quel che ha fatto è pren-dere la parola, come già tanti altri «eroi involontari»da lui raccontati, i protagonisti più commoventi dellesue storie, quelli ai quali va in modo più naturalel’empatia dello scrittore, la capacità di renderceliindimenticabili mentre neanche ne sapevamo i nomi,e ora invece li sentiamo come il fondo dell’umano:Annalisa o Dario Scherillo o Peppino Diana. E questoè bastato per farne un bersaglio.

Illuminiamo il resto del buio, anziché indicarecome nemica la sua fiaccola accesa, scuotendo latesta. Saviano non ha bisogno di essere eroe, mascrittore, e perciò deve condurre – per ora, ma fino aquando? – una vita ferocemente eroica, ed è questoil tragico paradosso che solo la vicinanza, la fratellan-za (la critica fraterna) e il comune sentire possonoeventualmente attutire; ma non è affatto certo.

Oblique Studio

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«Confondere volutamente l’«eroe» del romanzo, inteso come figura della narrazione, con «l’eroe» militante in cui è obbligato a trasformarsi Roberto Saviano per le circostanze dentro le quali è costretto a vivere, non il narratore di Gomorra ma l’uomo in carne e ossa, è una banalità. Peggio, è futile. Vuol dire compiere in malafede una acrobazia dialettica

per mettersi in mostra e dimostrare che nulla è accaduto, che anche gli altri sono saltimbanchi»

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Un piccolo libro contro Roberto Saviano edito daManifestolibri ha scatenato una discussione sullepagine del manifesto e altri giornali, trovandoun’ampia eco, prevedibile e positiva, sulla stampa didestra. Alessandro Dal Lago, l’autore di Eroi di Carta,e il suo editore Marco Bascetta hanno rivendicato ildiritto di criticare Saviano da sinistra, mentre moltealtre firme, inclusa la stessa direttrice del manifestoNorma Rangeri, hanno difeso l’opera e l’autore diGomorra. Non mi interessa, in questa sede, difendere Savianoperché sta pagando un prezzo personale alto, perchélo hanno più volte minacciato i Casalesi, perché stadecisamente antipatico al capo del nostro governofresco di legge-bavaglio che è anche il suo editore eil mio datore di lavoro. Voglio soltanto mostrare com’è fatta quella cheBascetta definisce un’analisi «seria, rigorosa, e dif-fusamente argomentata». Analizzando a mia voltaun testo, lavoro che, se gli argomenti e riscontri sonovalidi, resta tale anche se fossi la mamma di Savianoo l’amministratore delegato della Mondadori.

La bandella di Eroi di carta promette che «Dal Lagocerca di venire a capo del fenomeno Saviano-Gomorra analizzando esclusivamente ciò che l’auto-re ha scritto». Non è così. Oltre la metà delle citazioniriportate a blocchi, non appartengono alla produzio-ne da lui firmata. Per rigore di metodo bisognerebbedistinguere nitidamente i pareri di caio e tizio suSaviano, ciò che Saviano ha detto − per esempio inun’intervista − e ciò che Saviano ha effettivamentescritto. È soprattutto l’introduzione a pullulare diquesto uso arbitrario dei materiali e questo non stu-pisce, visto che sono le prime pagine a predisporretutto il clima del libro.

In apertura si presenta, in prima persona, undocente universitario di sociologia della cultura –ossia una voce autorevole − che parla ai suoi studen-ti dei rapporti fra letteratura e media. Gli studenti siirrigidiscono quando dice di voler prendere in esameGomorra sotto questo profilo. «Uno studente alza lamano. “Non si metterà anche lei a crocefiggereSaviano?”, mi chiede. “Un momento”, rispondo, “chilo crocefigge, a parte ovviamente i camorristi? A me

CARTA CANTAHelena Janeczek, Nazione Indiana, 14 giugno 2010

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sembra che esista un movimento d’opinione unani-me a sua favore. D’altra parte, lo stesso Saviano hadichiarato di muoversi a suo agio nei media e anzi divoler lanciare una moda”. E leggo un passo di un arti-colo su una manifestazione anticamorra a cui hapartecipato lo scrittore» Segue il passo da un artico-letto senza firma uscito su Repubblica all’indomanidel primo speciale di Che tempo che fa.

«Saviano ha parlato a lungo e con cruda chiarezza.Lui stesso si è definito una “operazione mediatica”,nata e portata avanti perché si conoscano gli orroridella camorra e si capisca che riguardano tutti. Il suo“sogno” è che la lotta alla criminalità organizzatadiventi una vera e propria moda. È quello che “i gran-di editori, le televisioni, trovassero un punto comune,anche conveniente. Perché non creare una moda?».

Persino senza ricostruire tutto il contesto dell’in-tervista in cui Saviano parla a più riprese del suo rap-porto con i media e andando a rintracciare solo ilpassaggio dove usa la parola «moda», si scopre che lesue parole erano altre. «Perché non deve essere ancheconveniente combattere questi poteri, perché nonbisogna anche creare una moda di combattere con-tro di loro, perché dobbiamo sempre essere minorita-ri e marginali?», ha detto Saviano. Un «noi» che alludea una collettività antimafia di cui Saviano si senteparte, un «bisogna» che si riferisce ai meccanismimediatici nominati prima, non a una volontà inprima persona; «moda» pronunciato solo una volta,nessuna traccia di termini o metafore corrive come«sogno», «orrori», «vera e propria» e simili. Perché allo-ra Dal Lago usa una fonte di seconda mano, perchéparla di una generica «manifestazione anticamorra»,senza precisare che si trattava di un programma tele-visivo? Per faciloneria? Possibile? Se uno sociologodelle comunicazioni non tiene conto della differenzafra un discorso pronunciato davanti alle telecamere oin una piazza, se non distingue un riassunto fatto daaltri dal testo originale, che serietà può avere il suolavoro? Ma dato che una nota ci restituisce il titolodel articolo citato − «Il monologo di Saviano in tv:non sono solo in questa battaglia» − diventa quasiimpossibile credere che si sia trattato di una svista.Allora è quasi inevitabile concludere che Dal Lagoabbia citato il pezzo di Repubblica perché si prestavameglio al discorso che lui stesso intendeva fare. Perimporre una leggera distorsione alle parole diSaviano, attribuirgli una certa coloritura, e forse cosìfar passare anche più liscia l’affermazione che con luice l’abbiano solo i camorristi. L’ultima uscita diBerlusconi su Gomorra è successiva alla chiusura del

suo libro, ma c’è ne era già stata una precedente dicui Dal Lago tace. Ignora le intervista fatte più volteai ragazzi e altri abitanti di Casal di Principe, e sisente esentato di andare a sentire qual è l’opinionecorrente su Saviano. Gli unici nemici non camorristiche gli vengono concessi, ma solo en passant e a sin-ghiozzo, sono Bruno Vespa, Licio Gelli e FabioCannavaro. Bruno Vespa non ha mai espresso nullacontro Saviano e probabilmente Dal Lago lo confon-de con Emilio Fede.

Questo «lapsus» come forse Dal Lago lo definirebbe,potrebbe essere un singolo, benché imbarazzante,errore di distrazione, se non apparisse tanto forte ilsospetto che non abbia preso in esame che i materialidi più larga circolazione in rete. Così nomina generica-mente i blog di destra che «sfottono» o «punzecchia-no» Saviano, ma nemmeno un articolo dello stessotono uscito sui giornali vicini al presidente del consi-glio. O afferma che «la critica mainstream, quella acca-demica, è invece abbastanza abbottonata» suGomorra, salvo poi riportare molto più tardi un passomolto lusinghiero di Giulio Ferroni. Ma che l’autore diuna canonica Storia della letteratura italiana condivi-da il giudizio positivo con critici come Goffredo Fofi,Romano Luperini, Mario Barenghi o Walter Pedullà,

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questo non lo dice. Dal Lago preferisce ricorrere a unarticolo di Tiziano Scarpa per sostenere che Saviano fadella camorra la tirannia per eccellenza. Ignorando «lealtre mafie» o «gli immigrati che annegano a centina-ia davanti a Lampedusa». Come se Saviano non avessescritto e parlato, dopo Gomorra, sempre anche dellealtre mafie. Come se non fosse «intervenuto spesso afavore dei migranti con articoli e interviste, anche se lasua prospettiva… è quasi esclusivamente quella dellalotta alla camorra o alle altre mafie». Questo Dal Lagolo concede, per prudenza, in una nota. Ma le note chile legge?

Saviano, passando attraverso il riflesso di alcuniscrittori amici, è diventato dopo poche pagine qual-cuno che non scorge altro che camorra, ovunque. Inun modo ossessivo e quindi dubitabile nei suoi con-tenuti. Quando va in Spagna vede non solo camorri-sti, ma anche approdare «sulle sue coste solatie»,turchi e afghani. Per dimostrare la fantasiosità del-l’autore di Gomorra viene citata la trascrizione diun’intervista video fatta per il blog Café Babel: non inSpagna, come fa intendere Dal Lago, ma a Parigi, nel2007. La presenza dell’infiltrazione camorrista inSpagna è qualcosa che emerge già in Gomorra, chetorna in vari articoli di Saviano, nelle interviste enegli articoli per El Pais. È un dato incontrovertibile,suffragato dagli arresti di tanti boss campani diprimo piano. Fra cui, in tempi recenti e con grandetam tam mediatico, il capo degli “scissionisti” – o“spagnoli” – di Scampia, Raffaele Amato. Nel passoprecedente dell’intervista, non citato, Saviano ribadi-sce la presenza particolarmente forte della camorrain Spagna. Ma la scelta cade su un brano in cui cisono accenni rapidi ai proventi del narcotraffico perfinanziare gli attentati terroristici di Madrid, ai tale-bani che controllano oppio e eroina e la smercianoattraverso la Turchia e insieme alla recente rivoltadelle banlieue francesi. Perché? Perché attraversofrasi dette «a ruota libera» si possa concludere: «Hamai svolto Saviano indagini su tante cose di cui parla,a parte la camorra?». E pure insinuare che persinosulla camorra non sia poi del tutto attendibile.

A questo punto, Dal Lago è pronto a negare ciòche soprattutto a sinistra costituisce il merito diGomorra. «L’opinione corrente è che Saviano abbiarivelato in Gomorra i rapporti fra crimine ed econo-mia globalizzata. […] E tuttavia non può essere ridot-ta a un’equazione leggibile nei due sensi. Che lacamorra, come la mafia e la ndrangheta, si globalizzie investa in tutto il mondo non significa che l’econo-mia globale sia camorrista». Ma chi lo dice?

Gomorra? Saviano? L’opinione corrente a sinistra?Dal Lago stesso ci presenta questo antico trucco dasofista per contestarlo e dire che tale rovesciamentoriduce «tutto a una questione di lotta contro il Male».

Ecco pronto il Saviano in versione Dal Lago. Nonpiù l’autore che ha cercato di mostrare come l’econo-mia criminale dominante su un territorio incida –marxianamente – sulla vita, la coscienza e la culturadi chi lo abita e come crei condizionamenti lontanis-simi. Non più l’articolista o il personaggio pubblicoche ha continuato a ribadire l’importanza di cambia-re soprattutto le regole dell’economia per poter veni-re a capo del problema. No, Saviano è colui che sipropone come eroe e martire, latore di una visionemanicheista, fumettistica, reazionaria. Questo cam-pione del Bene contro il Male usa metafore grossola-ne, «soprattutto “peste”, parola con cui Saviano amasintetizzare quello che succede in Campania»,«un’immagine che chiama in causa untori e appesta-ti», afferma Dal Lago. Peccato che in tutto il corpusdegli articoli di Saviano, la parola «peste» ricorra solotre volte (in Gomorra non appare proprio) e in tuttee tre si riferisca esclusivamente agli effetti devastan-ti dello smaltimento illegale dei rifiuti tossici. QuestoDal Lago dovrebbe saperlo, visto che più avanti citauno di questi articoli, salvo poi usarne il titolo suRepubblica – «Imprese, politici e camorra: ecco i col-pevoli della peste» – per ribadire attraverso quel «col-pevoli» la sua tesi sugli untori, mostri e orchionnipresenti. E sottace, al contempo, una cosa altret-tanto risaputa, ossia che i titoli li fa il giornale.

Tornando all’introduzione, dalla «peste» presunta-mente ricorrente in modo indiscriminato in Saviano,il passo è breve per denunciare che «non ci si rendeconto che definire olocausto gli ammazzamenti dicamorra significa violare ogni senso delle proporzio-ni, e quindi vaporizzare i fatti nelle iperboli?». Bisognaun’altra volta andare alle note per scoprire che que-sto piccolo «ci» impersonale non si riferisce a nessu-na parola scritta o detta da Saviano, bensì a un testodi Dario del Porto, del quale, tra l’altro, manca la pre-cisa indicazione bibliografica.

Quel che Dal Lago imputa a Saviano nella partededicato a Gomorra, ossia confondere l’io narrante,l’autore, la persona reale e il personaggio pubblico-mediatico, è una prassi che non solo coltiva, ma per-sino supera: confondendo ciò che viene detto su e ointorno al suo oggetto con ciò che lo stesso Savianoha detto e scritto. E quando, infine, si accinge a pren-dere in esame il testo, lo fa in maniera tanto arbitra-ria e selettiva, da ribaltarne il senso con esiti fra lo

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sconcertante e il ridicolo. Citando un passo esempla-re dello stile “feuilettonistico”, giunge a dire: «non lemerci globalizzate, ovvero la merda cinese, sono alcentro del primo capitolo, ma i cinesi di merda». Unadecina di riga sulle flatulenze degli uomini di Xian,contro un capitolo intero che dipinge l’arrivo in porto,lo stoccaggio e la distribuzione delle merci contrab-bandate. Per non parlare delle vicenda della ragazzi-na cinese, raccontata nel capitolo successivo, che inquanto clandestina non poteva denunciare il suomolestatore italiano che alla fine l’ha trucidata e get-tata in un pozzo. Anche Zhang e gli operai suoi com-paesani che la ricordano con una foto appesa infabbrica, sono soltanto i «cinesi di merda» di un librodal fondo razzista? Saviano dipingerebbe una subu-manità, perché definisce «Minotauro» l’autista cheporta il sarto Pasquale alla fabbrica di Terzigno. Così,da questo personaggio secondario si passa a un’affer-mazione generale: «D’altronde in Gomorra i criminalisono spesso descritti come animali». Si tratta del bossGennaro Licciardi detto «a scigna» – la scimmia – edel boss Nunzio de Falco detto «o lupo», due soprano-mi non certo creati da Saviano, giusto due fra lavalanga di quelli che in Gomorra sono chiosati e cita-ti. Sul testo, Dal Lago interviene anche con un proce-dimento ambivalente che imputa a Saviano. Procedeper scovare il presunto inverosimile, a sua detta perribadire che è cattiva letteratura, non per screditare lacredibilità di ciò che viene narrato. Se questo poi èl’effetto che ottiene, può lavarsene le mani. Il vestitobianco indossato da Angelina Jolie nella notte degliOscar del 2004 è un abito lungo a spalle scoperte edunque non può essere quello cucito dal sartoPasquale. Ma esiste pure un tailleur pantalone del2001 che corrisponde alla descrizione fatta nel libro,cosa rilevata, tra l’altro, anche da diversi blog che neriportano la fotografia. Si arriva persino alla meschi-nità di appigliarsi alle «scarpe sportive» del camorristache testa la cocaina sui «Visitors» definite «stivali» unpo’ più avanti. Peccato che in Gomorra sia scritto «sti-valetto» e calzature definibili al tempo stesso «scarpesportive» e «stivaletti» esistono: le Hogan’s, per esem-pio, che le fabbriche in nero campane producono amigliaia, come ha confermato anche un recentesequestro di merce contraffatta. E infine c’è l’accusadi aver descritto Annalisa Durante abbigliata con unvestito e non con i blue jeans, la sera in cui è statauccisa a Forcella. Laddove il pezzo d’appoggio è trat-to da Casertasette, una di quelle testate locali, seppu-re nella versione online, della cui imparzialità nonsarebbe stato difficile diffidare. Recentemente, per

esempio, ha fatto molta pubblicità a un film dal tito-lo significativo, titolando, per esempio: «Un camor-rista per bene: arriva il film su le balle di Gomorra». Iltesto dell’intervista su Casertasette dice che “eraancora una bambina. Annalisa era ancora paffutella,senza ombra di trucco». Appare evidente che chi staparlando a nome di Annalisa – la curatrice del suodiario – vuole difenderne un’immagine a sua volta unpo’ forzata. Annalisa era una bambina che non sitruccava, non stava in strada per chiacchierare conun’amica e magari guardare i ragazzi. Dal Lago non sipone nessun dubbio, ma sente di dover rincarare ladose puntualizzando che Annalisa, nella primaverapiovosa in cui è morta, non poteva essere abbronzatacome racconta Saviano. Bastava fare una verificasulle foto disponibili in rete per risolvere la questionedella verosimiglianza almeno fisica. Tutte quelle piùrecenti ritraggono un’adolescente che non sembrapiù una bambina paffutella – come del resto a quat-tordici anni è normale – e in tutte Annalisa è abbron-zata. Potrebbero essere state fatte in estate, ma sinota anche il lucidalabbra, le sopraciglia sistemate, ei lunghissimi capelli resi biondi da colpi di sole, pro-babilmente pure trattati con la permanente. Quindi,dato che la ragazza andava dal parrucchiere e dal-l’estetista, è davvero così improbabile che si facesseanche le lampade? Chiunque abbia un minimo didimestichezza con i quartieri popolari napoletani, sainfatti che l’abbronzatura tutto l’anno è una caratte-ristica di molte ragazze (e anche dei ragazzi) che ciabitano. Tant’è vero che il film Gomorra si apre pro-prio in un centro estetico, anzi con l’immagine di unadoccia abbronzante. Però Saviano scrive che aveva unvestitino che aderiva al corpo e non jeans, maglietta,scarpe da tennis, come vuole lo stereotipo dellaragazza acqua e sapone. Quelle scarpe però, per lastessa ammissione di chi afferma che «Saviano riferi-sce dei fatti che sono inventati di sana pianta», eranodelle Nike Silver dorate. Ossia delle vistose scarpe dimarca all’ultimo grido, mentre i jeans e le maglietteche Annalisa indossa nelle foto riflettono anch’essel’immagine di una bella ragazzina che cura il propriolook: né più né meno di tante altre adolescenti italia-ne. Saviano ha senz’altro voluto riassumere inAnnalisa Durante delle caratteristiche tipiche per leadolescenti dei quartieri popolari. Ma il suo ritratto èdavvero più inverosimile, così più ingiustamente ste-reotipato, di quello fornito da Casertasette? Comepuò giudicarlo chi non verifica, non conosce il mondodescritto, e non sembra sentirsi neppure in dovere difarlo?

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Insomma, alla fine viene implicitamente insinuataun’inattendibilità complessiva di Gomorra. Che fini-sce per ricadere anche sulle parti più saggistichedove nel testo ci sono riferimenti a inchieste e altrefonti e la cui consonanza al fattuale è stata testimo-niata da magistrati e altri esperti, oltre ad esserefacilmente verificabile per chiunque voglia prendersila briga. No, visto che Gomorra è privo di quelle noteche in Eroi di carta svolgono la funzione delle partiscritte in piccolo di un contratto capestro, si puòsmentire il risvolto che presenta un libro «scrupolosa-mente documentato» (ancora una volta procedendoattraverso un paratesto) e parlare di una «documen-tazione inesistente».

Che poi Dal Lago trovi brutto lo stile di Gomorra vabenissimo, anche se da un sociologo ci si sarebbeaspettati non principalmente una critica letteraria,ma soprattutto quell’analisi sociologica, culturale emediatica che la bandella di Eroi di Carta annuncia.L’esigua parte dedicata a questo si concentra su testie enunciati dai quali emergerebbero gli aspetti giàdichiarati prima. Non un accenno a un po’ di ricercasul campo, ma nemmeno un’analisi mediatica chetenga distinti piani, mezzi e strumenti comunicativi.Saviano – la persona, l’autore, il personaggio? – pro-pone sé stesso come eroe, definito come un criptofascista, votato a una bipartisanship comoda ecodarda. Che Saviano, dopo essere diventato sia unpersonaggio pubblico che un bersaglio sotto la pro-tezione accordata dal ministero dell’interno, abbiadenunciato con nomi e cognomi politici collusi per-sino presenti nel governo, – in primis NicolaCosentino –, che il suo appello a Berlusconi per il riti-ro del ddl sul processo breve contenga una frasecome «il rischio è che il diritto in Italia possa distrug-gersi, diventando uno strumento solo per i potenti, apartire da lei», questo è evidentemente trascurabiledi fronte al fatto che abbia amato troppo un filmcome Trecento o che una volta abbia menzionatoBeowulf. L’articolo già nominato sui rifiuti tossici,contiene infatti il passo «varrebbe la pena di ricorda-re la lezione di Beowulf, l’eroe epico che strappa lebraccia all’Orco che appestava la Danimarca: “ilnemico più scaltro non è colui che ti porta via tutto,ma colui che lentamente ti abitua a non avere piùnulla”». Queste le frasi citate da Dal Lago, alle qualiseguono alcune omesse, con le quali il pezzo si chiu-de: «Proprio così, abituarsi a non avere il diritto divivere nella propria terra, di capire quello che staaccadendo, di decidere di sé stessi. Abituarsi a nonavere più nulla». Da qui in poi succede una cosa grot-

tesca. La lente per guardare Saviano – qui e altrove –non è più il sistema politico-affaristico-mafiosodenunciato, né la popolazione che subisce questaspoliazione, ma Beowulf e l’Orco. Nella settantina dipagine che seguono, il nome di Beowulf viene mar-tellato per dieci volte contro quell’una sola in tuttal’opera di Saviano in cui l’eroe epico compare come illatore piuttosto occasionale di una citazione. E vistoche forse Beowulf non basta per far passare la tesiche Saviano propone sé stesso come moralmentesuperiore, ecco un altro pezzo dal quale emergerebbeesattamente questo, nonché in generale il suo qua-lunquismo in odor di destra. «Viene invitato a parlarea Roma 3 dagli studenti dell’Onda, orientati a sinistrae comunque antigovernativi». Seguono parole diSaviano sul voler essere deideologizzato nel parlare aigiovani delle questioni che riguardano la lotta allemafie. Il passo sembra tratto da un articolo che rias-sume ciò che Saviano ha detto agli studenti. Invece sitratta di una nota d’agenzia Adnkronos riportata dalquotidiano Libero su un programma radiofonico incui l’intervistato parla per mezz’ora dei suoi temisoliti, con un accenno all’incontro di Roma 3 che sisarebbe svolto l’indomani. Dal Lago dunque non faun cenno a ciò che Saviano ha realmente detto aglistudenti (anche in quel caso ci sono i filmati in rete).In più – ancora una volta – non confronta il testoriportato con il file audio della trasmissione. Savianonon afferma, come nella citazione riportata, «perchéla battaglia sulla criminalità è una questione che,come dire, moralmente, viene prima di tutto», ma ilcontrario. «Perché la battaglia sulla criminalità non è,come dire, una questione che moralmente vieneprima di tutto». Si può non condividere la decisionedi Saviano di investire il ruolo pubblico in cui si è tro-vato della priorità (ma non esclusività) della battagliaantimafia. Ma attribuirgli che tale scelta sia dettatada un presupposto moralistico, è semplicemente fal-sificare non solo questo passo di intervista, bensì l’in-tera prospettiva in cui ha sempre posto la questione.

E non ha senso liquidarlo attraverso il New ItalianEpic in cui, per rimpicciolirlo dopo averlo screditato,Dal Lago lo inquadra nell’ultima parte del suo libro. Ilmanifesto di Wu Ming è il tentativo di definire unatendenza a partire da materiali che preesistono e dicui Gomorra, a due anni dalla sua uscita, dovrebbefungere da pilastro centrale. Non è – a differenza dialtri testi citati – un noir dove un simil detective svol-ge la funzione dell’eroe. Tantomeno in Saviano esi-stono i mostri e gli orchi di Trecento o del Signoredegli Anelli, incarnazioni di un Male sottratto all’eco-

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nomia, alla storia, alla politica, alla cultura. Rispettoal suo essere diventato personaggio mediatico, sim-bolo ed eroe, lo stesso scrittore ha ribadito più voltefrasi come «io non voglio essere un eroe, perché glieroi sono morti e io sono vivo. Io voglio vivere evoglio sbagliare». Frasi di cui chiaramente non c’ètraccia in Eroi di Carta. Quindi i meccanismi per cui,malgrado questo, incarna lo statuto dell’eroe, devonoessere più complessi di quelli che Dal Lago fa risalireallo stesso Saviano. Che alla fine è pronto per essereparagonato a Berlusconi, diventandone la controfi-gura omologa, però «a sinistra».

Questo è dove approda Eroi di Carta. Forse è da quiche dovremmo cominciare a porci delle domande.Domande che possono fare a meno di argomenti psi-cologici come l’invidia, la voglia di ritagliarsi unafetta di successo o di notorietà e altri analoghi. Restail fatto che il presidente di una facoltà di sociologia

della comunicazione, autore di saggi seri sull’immi-grazione, è riuscito a pubblicare un pamphlet pseu-doscientifico, senza controllo apparente da partedell’editore che anzi ne ha difeso il rigore. O comebisogna chiamare un testo che si fonda sulla prassi diomettere e amplificare, ricorrere a falsi sillogismi,servirsi di fonti deboli e spurie come «prove», confon-dere i piani, ridurre la questione Gomorra-Saviano aipiù ristretti dibattiti per letterati? Scrivere su unfenomeno complesso un libro che semplifica e falsi-fica cos’è se non demagogia? Cos’è se non un altroesempio di un clima dove si ode solo chi avanza tesiriassumibili per slogan? Vie ne il sospetto che i mec-canismi comunicativi della società dello spettacoloportati all’apice in Italia dal berlusconismo, sianoun’«infezione» che attecchisce anche là dove ci sicrede immuni. È questo ciò che ci serve? È questo acui vogliamo somigliare?

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«Resta il fatto che il presidente di una facoltà di sociologia della comunicazione, autore di saggi seri sull’immigrazione,

è riuscito a pubblicare un pamphlet pseudoscientifico, senza controllo apparente da parte dell’editore che anzi ne ha difeso il rigore.

O come bisogna chiamare un testo che si fonda sulla prassi di omettere e amplificare, ricorrere a falsi sillogismi,

servirsi di fonti deboli e spurie come «prove», confondere i piani, ridurre la questione Gomorra-Saviano ai più ristretti dibattiti per letterati?

Scrivere su un fenomeno complesso un libro che semplifica e falsifica cos’è se non demagogia?»

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CHRISTA WOLFI RICORDI DI CASSANDRA TRA DDR E NOSTALGIA.«QUANTE UTOPIE DELUSE» Andrea Tarquini, la Repubblica, 15 giugno 2010

«Germany?», chiese al l’aeroporto il biondo rossiccioufficiale dell’immigration ame ricana. «Yes. EastGermany», rispose Christa Wolf esibendo il passapor-to blu della Ddr. Nuova domanda: «Are you sure, thiscountry does exist». «Yes, I am», replicò lei. Sapendo dimentire, non sul momento ma sulla Sto ria. Questoepisodio, insomma il primo assaggio dell’America chelei, la più grande scrittrice della Ddr, ebbe arrivandocon una borsa di studio del Getty Center for theHistory of Art and the Hu manities a Los Angeles, èvero. Dà una chiave del libro ora in uscita inGermania, con cui, narrando di sé e della fine dellaDdr, delle sue delusioni verso il socialismo e del rim-pianto della società in cui era cresciuta con i suoiideali, Christa Wolf rompe un lungo si lenzio lettera-rio durato 14 anni. Tanti ne sono passati dalla pub -blicazione di Medea. Voci e di Cassandra.

Ed ecco Stadt der Engel, oder the Overcoat of dr.Freud, in usci ta da Suhrkamp, pagg. 414, euro 24,80.

Uno straordinario roman zo, autobiografico solo inparte. Tanto che nella narrazione mi schia il discorsoin prima persona con quello in seconda. La pri mapersona è nel presente sotto il sole della California, laseconda dà voce ai ricordi dietro il Muro. Un roman-zo in cui Christa Wolf, vivacissima a ottant’anni, arri-va alla resa dei conti con la fine della Ddr, con ildisincanto del dopo Muro, l’umiliazione delle accusedi collaborazionismo. E indiret tamente, con la «Os -talgia», quel ricordo nostalgico della società dell’Est,oppressa ma vissuta con solidarietà e umanità dallagente semplice. Una nostalgia che uni sce ormai legenerazioni: chi vis se nella Ddr e prima sperò, poidisperò di cambiarla e chi vi è nato dopo la riunifica-zione, realizzata nelle istituzioni, ma non ancora deltutto nelle menti.

La narrazione principale del libro, ha detto ChristaWolf a Der Spiegel, ruota intorno a quel suo soggior-no negli Usa nel 1992 e 1993. Momento di presa di

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distanza, di riflessione. «Ma nei ri cordi torno indietrofino alla gio ventù, quando ci trovammo di fronte alquasi Nulla. All’univer sità conobbi molti compagni digenerazione… dopo l’esperien za devastante delnazionalsocia lismo, sperammo in una società radical-mente diversa. Per noi, at traverso gli anni, venne unadura via della presa di coscienza».

Anche ne La città degli angeli o il soprabito delDottor Freud, Ch rista Wolf narra le sue prime impres-sioni dell’America: molte sono negative, come fosseun al tro pianeta. Nella guerra fredda, «guardandol’Atlante e pensan do all’emigrazione, finivamo sem-pre per dirci che non avrem mo trovato un posto doveanda re». Non le piacciono la povertà diffusa, glihomeless people, i contrasti sociali le fanno venire lelacrime agli occhi, la superficia lità cordiale dellagente la delude. Ma come in compagnia di un An geloimmaginario, l’America è per lei il luogo della rifles-sione e del ricordo, dopo una vita vissu ta dietro ilMuro.

In California – questo è il rac conto de La città degliangeli (per altro citazione del film di Wen ders, Il cielosopra Berlino, e allu sione a Los Angeles) – ChristaWolf ricorda, rivede la sua vita. Una vita felice masegnata dalle delusioni. Come «la situazione a metàdegli anni Sessanta: mi fu chiaro che la Ddr non sisarebbe sviluppata nella direzione a cui molti di noipensavamo e in cui speravamo. Dopo il 1968 nonpoté restare alcun dubbio che le contraddizioni eranoo sarebbe ro state irrisolvibili». In questo senso, Lacittà degli angeli è an che lo splendido racconto dellungo addio nell’animo di Chri sta alla Ddr, un addioinsieme melanconico e lucido, riflessioni e analisi afianco dell’emozione della speranza delusa. È il rac-conto, autobiografico nell’inte riorizzazione e nell’im-pegno so ciale e culturale, d’una grande scrittrice chenel sistema aveva trovato una speranza, che avevarappresentato quel paese in alte funzioni ufficiali, efu classificata dalla Stasi come «IMMargarete», infor-matrice. E che ben presto entrò in conflitto con leautorità: con la censura, con la Stasi che la spiò perdecenni.

Di quel paese, dice Christa Wolf a Der Spiegel, leiamava «l’Utopia dell’Inizio. E molte persone che scel-sero l’impegno per quella causa, e furono ama -ramente delusi, compresi anche quelli che eranoemigrati e poi tornarono dall’esilio». La delu sione perquelle settimane e me si della rivoluzione dell’89, cuilei partecipò sperando in una Ddr democratica, perpoi vederla, con la riunificazione, annessa dallaRepubblica federale vinci trice. Una nuova, amara

realtà. Volle vedere i documenti che la riguardavano,seppe dalla nuova autorità di controllo che esiste -vano file come persona spiata e dossier come infor-matrice. I se condi, non le fu permesso di leg gerli. Soloin seguito Günter Gaus, ex rappresentante di Bonn aBerlino Est, glieli portò in Ca lifornia. Intanto eranoandati in pasto alla stampa dell’Ovest, che aveva spa-rato a zero su di lei sottolineando contatti e compro -messi col regime, non il suo ruo lo di pericolosaintellettuale spiata, ritenuta nemica del sistema.

Faceva male, quell’arroganza da complesso disuperiorità dei Wessis, i tedeschi dell’Ovest, sul lo sfon-do della nostalgia d’una società che lei sognava diver-sa e si batté invano per migliorare. La nostalgia era edè uno stato d’a nimo dell’Est tedesco, ma nel libroChrista non usa il concetto. Eppure, «quando descrivositua zioni concrete in modo critico, forse riemergonoi ricordi». Ri cordi come il 9 novembre, la ma -nifestazione per la democrazia sull’Alexanderplatz,l’ultimo momento dell’Utopia, «l’attimo in cui l’inim-maginabile diveniva realtà». Poi venne la dimensioneimprevista del «dopo». Oggi Ch rista Wolf confessa dipensare alla morte, e di avere – mentre scriveva que-sto suo ultimo libro – quasi parlato a un essere im -maginario, «diciamo le Parche», per chiedere di poterarrivare alla parola «fine».

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Quando si parla di libri e editoria, la persona giusta acui rivolgersi per una pe rizia tecnica è Giuliano Vigini,guru del settore, sia come esper to di produzione emercato del libro sia come critico.

Allora Vigini, è davvero così? Libro vecchio fa buonbrodo?«Semmai bestseller vecchio fa buon brodo.Pensiamo al fenomeno – raro ma indicativo – diFabio Volo che è presente nella classifica di narrati -va italiana addirittura con quattro titoli, o meglioquattro edizioni. Quando un autore esce con untitolo forte, questo finisce col fare da traino ai “vec-chi” libri che l’editore subito recupera, sia nell’edi-zione normale che tascabile. Insomma, se l’editore èscafato e usa bene le strategie di marketing, l’usci-ta di una novità di un autore importante comeCamille ri o Carofiglio diventa l’occasione per rilan-ciare opere che erano già state dei successi e chepoi si erano “addormentate”».

Quante copie deve vendere un libro per entrare inclassifica?«In questo periodo, in attesa dei vincitori delloStrega e del Campiello, ne bastano poche migliaia.Diciamo 3-4 mila copie a settimana, forse meno, perentrare nei primi 20 e in alcuni casi anche nella topten. Bisogna poi con siderare che il monitoraggio allaba se delle classifiche è fatto, da una par te, nellelibrerie generaliste medio grandi e nei negozi di pro-dotti musi cali e tecnologici di largo consumo, ossiapunti vendita frequentati in particolare da giovani,che spingono certi autori; dall’altra nei supermerca-ti, dove sono presenti esclusivamente i grandi mar-chi. Insomma, un circolo vizioso: gli editori maggiorisi impongono perché hanno buoni autori certo, ma

an che perché hanno una particolare forza nellelibrerie dove vengono fat te le rilevazioni di venditache stan no alla base delle classifiche, che a loro voltaorientano i gusti del pub blico. La prova “a contrario”è che i libri confessionali vendono tantissimo, maper l’80 per cento solo nel circuito delle librerie reli-giose che non rientrano nei punti di rilevazione, equindi non entrano in classifica».

Festival, passaggi tv, film, edizio ni tascabili… cosaaiuta a prolun gare il successo di un libro?«Paradossalmente proprio il fatto che un libro sia inclassifica: il lettore oggi non sa più orientarsi autono-ma mente nel mare magnum di oltre 60 mila titoliall’anno tra novità e ri stampe, cioè 160-170 al gior-no. E mancando una critica capace di con sigliarlo sucosa vale la pena leggere, ricorre sempre più spessoalle classifiche. Che non sono sinonimo di qualità,questo è chiaro. Ma l’indice che un libro ha un certoimpatto, un “valore” capace di condizionare il lettore.Su questo si salda la strategia dell’editore che portaal festival o candida a un premio l’autore più co -nosciuto. Poi ci sono lo Strega e in parte il Campielloche “valgono” cir ca 20 mila copie, oltre al fatto che ilsuccesso fa salire le quotazioni dello scrittore, il qualepoi sarà più facil mente recensito, intervistato, ospita -to in tv…».

Poi c’è Fabio Fazio e il suo Che tem po che fa…«Una trasmissione che fa caso a sé, e che vale piùdello Strega. Chi va da Fazio, la settimana dopo entraautomaticamente nei primi 20 più venduti. Mesi faRoberto Calasso portò nella classifica di Ariannaaddirittura l’edizione di pregio delle Nozze di Cadmoe Armonia che costa 135 euro… Ed è un libro di ven-t’anni fa».

GIULIANO VIGINI:«ENTRI NELLA TOP TEN CON MENO DI TREMILA COPIE»Luigi Mascheroni, il Giornale, 15 giugno 2010

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E fuori dai casi editoriali come quelli di Stieg Larssono Fabio Vo lo, aiutati dal cinema o dalla tv, quantodura il “romanzume” medio, un Grisham o un Baricco?«Dipende dall’ autore, alcune vol te una o due setti-mane e poi spari sce. Altre invece può accadere cherimanga sottotraccia per lungo tem po e poi conosce-re una “fiammata”: o per via di un film o di una fic-tion tratti dal libro, o grazie a un lento maprogressivo passaparola tra i lettori forti. Ma sonocasi rari. In questo mo mento capita con Nel mare cisono i coccodrilli di Fabio Geda, che co munque hasempre dietro un mar chio come Baldini CastoldiDalai… Negli ultimi anni l’unico esempio di librorimasto a lungo in classifica sen za eventi “speciali” ograndi gruppi alle spalle è L’eleganza del riccio. Ma èun’eccezione».

A proposito di «lettori forti»: ma chi sono?«Tenendo conto che in Italia chi legge almeno un libroall’anno è ap pena il 45 per cento della popolazionealfabe tizzata, i lettori forti sono quelli che leggonopiù di un libro al mese, cioè il 6,9 per cento degli ita-liani, sommati a quel li che leggono tra i 7 e gli 11 libri,che significa un altro 7 per cento. Sono coloro chetengono in piedi il mercato: se per ragioni economi-che o di tempo libero a disposizione rallentano gli

acquisti, l’editoria entra in crisi, co me in parte succe-de attualmente».

Della tv e del passaparola ci ha det to. E dei giornali?Quanto conta oggi una recensione?«Poco, e solo se il critico è autorevo le. Non è comecon i film, dove la gen te legge una scheda contrasse-gnata da pallini, e dove l’offerta è minima rispetto ailibri e quindi più facile orientarsi. In questo senso valemol to più Facebook, dove si ripete su grande scala ein tempi ridotti il feno meno del passaparola. Gli edi-tori lo sanno bene, e seguono con attenzio ne questofenomeno. Magari “facilitandolo”. Come? Con qual-che im beccata… come quegli attori che per pubbli-cizzare il nuovo film chiama no i fotografi dicendoche quella sera saranno in quel ristorante insieme aquella persona…».

Tutti i libri di cui abbiamo parlato sono di narrativa.Che fine ha fatto la saggistica?«Quella accademica ha spazi limi tatissimi ormai.Sopravvive solo quella giornalistica. Guardi i primi treautori in classifica: Vespa, Scalfari e Rizzo. Fuori dallegrandi firme e dalla triade Mondadori-Einaudi-Feltrinelli, ormai c’è spazio solo per le inchieste diChiarelettere».

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«Il lettore oggi non sa più orientarsi autonoma mente nel mare magnum di oltre 60 mila titoli all’anno tra novità e ri stampe,

cioè 160-170 al giorno. E mancando una critica capace di con sigliarlo su cosa vale la pena leggere, ricorre sempre più spesso alle classifiche. Che non sono sinonimo di qualità, questo è chiaro»

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L’OSSESSIONE DI JOYCE CAROL OATES(PER LA MADRE E PER LA SCRITTURA)La narratrice che ha ideato un unico, fluviale racconto americano

Paolo Giordano, Corriere della Sera, 16 giugno 2010

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Joyce Carol Oates è una scrittrice impetuosa. Le ri ghefitte dei suoi romanzi scorrono rapide sotto gli occhi,producendo lo stesso rom bo vigoroso delle cascateche co sì spesso fanno da fondale alle sue storie,lassù, nelle pianure paludose dello Stato di New York,in posti che si chiamano Chautauqua Falls, MountEphraim, Milburn.

Sembra inevitabile, ogni volta che si parla di lei, sot-tolineare due aspetti: 1) la sua inverosimile fecondità: asettantadue anni ha prodotto più di quaranta romanzi,oltre a una nube densa di saggi, poesie e racconti, e ilsuo ritmo non accenna a ral lentare; 2) il Premio Nobel,che incombe sul suo nome ormai da lungo tempo.

Se il secondo aspetto non è davvero interessante –che i vetusti accademici di Stoccolma continui nopure a interrogarsi se sia o meno il caso, se sia oppor-tuno, riconoscere una volta per tutte il genio di JCO(come quello di altri indiscussi: Philip Roth, CormacMcCarthy…), lei nel frattempo non smette di pubbli-care – la prolificità dell’autrice è così evi dente dadivenire un elemento imprescindibile della sua poeti-ca. In generale, si sa, la sovraproduzio ne è tossica peruno scrittore, ne inficia la qualità e soprattutto l’in-tensità dell’opera, ma vi sono autori per i quali essa ècosì smaccata da trasformarsi in un parametro essen-ziale per valutarli.

Leggenda vuole che JCO scriva in continuazione. Sidice che durante i tour promozionali negli States simuova a bordo di un’automobile dotata nella par teposteriore di una ribaltina su cui poggiare il computerportatile. Non stupisce. Come farebbe altri menti a digi-tare un tale numero di parole? Sfoglian do i suoi libri, siha talvolta l’impressione di trovar si di fronte a statuesbozzate, mai rifinite, la cui bel lezza risiede proprionella primitiva spigolosità e ruvidezza del materialegrezzo. Non è raro imbatter si in ripetizioni, in strutturesbilanciate, in lungag gini che un sufficiente periodo disedimentazione porterebbe facilmente a eliminare, incapitoli che naufragano nel vuoto, come se JCO nonavesse avu to il tempo di rileggere la prima stesura.Come se non avesse avuto voglia. Eppure. Ogni sporca-tura trova una perfetta collocazione nel suo flusso.

Sembra quasi di vederla, minuscola com’è, chi nasulla scrivania, con gli occhiali che le coprono il visoper metà e la camicetta demodé abbottonata finsotto il mento: i fogli scivolano fuori dalla stam pantee lei, distrattamente, li afferra e li getta alle sue spal-le dove il pavimento è già cosparso di car ta, in attesache qualcuno si preoccupi di raccoglier li e riordinarli.Con l’altra mano prosegue a battere sulla tastiera.Non si distrae, non smette. Per JCO, espressioni vacue

e continuamente abusate come «ossessione dellascrittura», come «compulsività», come «scrivere per sé»assumono un significato preciso.

Altrettanto straordinaria è, a dispetto della mole dicartelle, l’unità di senso della sua opera. (Quasi), tuttaJCO è reperibile in un racconto di ventisei pa gine appe-na, pubblicato alcuni anni fa in una rac colta curata daJanet Berliner e dalla Oates stessa: Figlie e Madri(Marco Tropea Editore). Addirittura, gran parte dellaproduzione di JCO è riassunta nel titolo del suo raccon-to, composto di appena due sostantivi: «Madre Morte».

Madre, dunque. Scrive JCO nell’introduzione allaraccolta: «Forse su nessun’altra parola della no stra lin-gua si sono sedimentate tante associazioni di ideeconvenzionali […], eppure… come sono misteriose lemadri! […] Si ha l’impressione che siano (loro) a eser-citare la maggiore in fluenza, benigna o maligna chesia». Nel caso della Oates l’influenza è spesso maligna.Le madri nella regione delle cascate sono nevroti che,truccatissime, violente. Ma i figli non smettono dianelare al loro amore e di fallire nel raggiungerlo. CosìNikki, protagonista di La madre che mi manca, nonriuscirà mai a levarsi di dosso la delusione trattenutanel tono di mamma, quella volta che si è presentata acasa con un nuovo taglio di capelli. Poco più che unasmorfia di disappunto ma sufficiente a rovinarle lavita. Skyler Rampike, la struggen te voce di Sorella,mio unico amore (il grande capolavoro fra i libri piùrecenti di JCO), odia la sorella Bliss, Miss Principessinasul Ghiac cio del New Jersey, vorrebbe ucciderla perl’af fetto che gli ha sottratto. La mente di Jeannet teHarth «si svuota di colpo» quando scorge in lontanan-za la figura di «Madre Morte», in una mattina ghiac-ciata d’inverno. E Katya Spi vak, nell’ultimo Una bravaragazza, sta cercan do di mettere da parte un po’ disoldi con il suo impiego estivo da babysitter, quandola madre alcolizzata telefona da un motel di At lanticCity per chiederle – per esigere un prestito.

La madre, per JCO, è «oggetto di riflessione inces-sante e frustrante». È un gorgo di deside rio e sopraf-fazione da cui è impossibile salvar si. A distanza dichilometri e di anni, donne e uomini dalle vite appa-rentemente normali si dibattono ancora nella trap-pola dell’amore materno.

È rischioso e invadente avventurarsi nelle ra gionipersonali di un autore, ma sembra che lo sforzo stes-so della scrittura sia per JCO un atto di condannadella madre – i padri sono ininfluenti, spariti o tontio alcolizzati – e in sieme il tentativo disperato di gri-darle, a settant’anni suonati: «Sono qui! Guardami! Latua bambina! Sono brava! Sono bravo».

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Vengono in mente altri scrittori, Georges Si menon ePhilip Roth soprattutto. Li accomu na la supremaziadella figura materna, così perfetta e ingombrante –Henriette, la donna algida che accoglieva gli scono-sciuti a casa Si menon, e la madre inattaccabile eopprimente di Alex Portnoy, «così profondamente radi-ca ta nella coscienza» da indurlo a pensare che ognidonna sia lei travestita – e li accomuna la bulimia discrittura. Che vi sia un legame allora? È possibile chel’ossessione della ma dre conduca a un flusso debor-dante – «Mam mina! Sono qui! Guarda cosa so fare!» –,mentre quella del padre costringa piuttosto alla stiti-chezza, alla prosa minuziosa e impauri ta di chi comin-cia già schiacciato da una sensa zione di fallimento,vedi Franz Kafka e Italo Svevo? No, mi dico subito. Nodi certo. Queste sono soltanto psico-idiozie.

Morte, allora. La madre di Nikki viene trova ta fac-cia a terra nel garage: assassinata. L’in cantevole BlissRampike è stata torturata e uc cisa (da un familiare?da un ammiratore pedofilo?), il suo corpicino trasci-nato nell’angusto locale caldaia. A Mary, la sorella diJeannette Harth, è successo qualcosa di indicibile.Katya Spivak fugge da uno sconosciuto che la pedi -na all’uscita dal lavoro, immagina che lui vo glia vio-larla e poi scaraventarla in un fosso. Il mondo, nelleterre fradice attorno al lago On tario, è minaccioso,pieno di angoli bui, di cantine, di legnaie, luoghi dovepresto o tardi si consuma un delitto atroce, luoghidove è faci le nascondere un cadavere. Il colore delsan gue, proprio come l’odore pungente del profu mo

al limone di mamma, s’impregna ai vestiti e nonscompare nemmeno dopo centinaia di lavaggi.

JCO sembra avvertirli entrambi sulle dita e allorascrive, scrive a più non posso, per pulir si le falangiconsumandole contro i tasti. Lì, dentro le sue storie,non ha paura di niente: fa il verso a Tolstoj – l’incipitdi Sorella, mio uni co amore recita: «Le famigliedisfunzionali si assomigliano tutte» –, sfotte il pubbli-co («Ci sono dei lettori disposti ad ammettere di ave -re un interesse nei country club? […] Se sì, que stastronzata malinconica è per voi»), sfotte sé stessa(«Nel romanzo di una scrittrice di suc cesso, che vendefra l’edizione rilegata e quella in brossura milioni dicopie all’anno, trove reste…»), sfotte gli scrittori«postmoderni», l’America di oggi e di ieri, si lasciasedurre dallo slang e dal turpiloquio, dimentica lapunteg giatura e non sbaglia un colpo!

Sì, Joyce Carol Oates è una cascata. I suoi personag-gi sono estremi in quel modo che fa storcere il naso amolti critici (forse anche agli accademici svedesi), sonoestremi in un modo paurosamente reale. E lei, propriocome l’ac qua, riesce partendo da una sola molecola(Madre + Morte) a assumere le forme più diverse, ainondare, a rinfrescare, a infiltrarsi ovunque. Il germedella sua prosa, dispiegata in migliaia di pagine chenon sono mai le stesse, esplode in poche parole strilla-te dalla signora Harth a sua figlia, mentre guida fuoridi testa in fuga da Port Oriskany. Quasi una filastroc-ca: «Mi vuoi bene, sono tua madre e ti voglio bene, seila mia bambina, è giusto che moriamo insieme».

Rassegna stampa, giugno 2010

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Il postmoderno ha trent’anni, e ritorna insieme adAccademia di polizia e Ghostbusters, la rucola e leCharlie’s Angels, che – con l’ambigua miscela tral’emancipazione delle donne detective e Charlie, il dio(maschile) nascosto – furono trasmesse per la pri mavolta in Italia nel settembre 1979 furoreggiando,insieme al più univoco Drive in, su quelle che all’ini-zio si chiamavano “tv li bere” e poi, più correttamen-te, “private”.

Questi ritorni degli anni Ottanta non sorprendono,se si con sidera che sono tornati persino i calzoni azampa, imbarazzan te stendardo degli anni Settanta.Ma quanto a lui, al postmo derno, non è nemmenocerto che se ne sia mai andato. Mentre scrivevo que-sto articolo ho trovato tra la posta il cartoncino diuna mostra che si è aperta da poco al Mart diRovereto. L’arti sta si chiama Sara Landau, e il titoloha il merito di sintetizzare in tre parole (undici lette-re in totale) il postmoderno: Iper Pop Post. Sì, ilpostmoderno è stato proprio quello: l’Iper come va -lutazione positiva dell’eccesso e come rifiuto dellamisura (nel lessico postmoderno «esagerato» è uncomplimento), il Pop co me miscela di alto e basso nelsistema dei media, e soprattutto il Post, l’idea di esse-re postumi, di venire dopo, una specie di ul tra ironi-co, un portarsi avanti con un gesto che è insiemeavan guardistico, ansioso e rassegnato.

Bene: si tratta di postmoderno o di post-postmo-derno? Se il po stmoderno è essenzialmente revival, ilrevival (o anche semplicemente il survival) del revivalha del vertiginoso. Lasciando da parte queste sotti-gliezze metafi siche, forse è più sensato analiz zarecosa sia stato. Il postmoder no esplode di colpo conun pic colo libro (109 pagine) del filo sofo franceseJean-Francois Lyotard, La condizione postmoderna,uscito – proprio come le Charlie’s Angels – nel set-tembre 1979 che parlava della fine delle ideologie,cioè di quelli che Lyo tard chiamava i «grandi raccon -ti»: illuminismo, idealismo, marxismo. Questi raccon-ti erano esauriti, non ci si credeva più, avevanocessato di costituire un’onda trainante e di giustifica -re il sapere e la ricerca scientifica.

Era una crisi, ma vissuta senza tragedie, lontanadai drammi e dalle ghigliottine del moderno.

Una decina di anni più tardi, subito dopo la cadutadel muro di Berlino, Francis Fukuyama avrebbe rinca-rato la dose con la «fine della storia»: la storia uni -versale si era compiuta e non ci sarebbe stato altrofuturo. Era un tema di cui aveva parlato Hegel,nell’Ottocento, e poi, negli anni Trenta del Novecento,il filosofo Alexandre Kojeve, ma ora diven tava ancheun tema pop. È del 1982 – l’anno di Blade runner, filmpostmoderno per eccellen za, visto che ci parla di unafine della storia a Los Angeles – la canzone

Trent’anni fa usciva il libro del filosofofrancese Lyotard che sanciva l’inizio diuna nuova era culturale: tramontavano leideologie e l’idea stessa di storia, si apri-va il tempo del pensiero debole, dellaleggerezza e dell’effimero. Una lungafase, che sembra non finire mai. E cheoggi ritrova slancio anche nelle produzio-ni di massa. Non a caso al cinema torna-no le Charlie’s Angels e Ghostbusters,piccoli simboli di un’epoca che nonsiamo capaci di superare.

Maurizio Ferraris, la Repubblica, 19 giugno 2010SIAMO ANCORA POSTMODERNI?

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Postmoderno di Giuni Russo (il cui refrain era«Modern day far far away»), che costituiva il lato B diun grande successo dell’epoca, Un’estate al mare.

Un tratto caratteristico del postmoderno è proprioche tra i due livelli, filosofico e pop, c’è stata unacomplicità anche più for te che ai tempi di JulietteGre co e dell’esistenzialismo.

Il pensiero debole, versione ita liana del postmo-derno, esce nel 1983, e viene lanciato come tormen-tone da D’Agostino in Quelli della notte, la cui siglaera un inno alla notte, non esattamente nel senso diNo valis: «Lo diceva Neruda che di giorno si suda (mala notte no!) / rispondeva Picasso io di gior no miscasso (ma la notte no!)». «Modern day far away»,come in Giuni Russo. La forza ele mentare di questaliberazione che sembrava a portata di mano, anzi, giàavvenuta all’insa puta di tutti, è stata colta alla perfe-zione da Lucio Dalla in L’anno che verrà (meglio notocome Caro amico ti scrivo), che esce nel 1979, esat-tamente co me il libro di Lyotard: «E si farà l’amore,ognuno come gli va / anche i preti potranno sposar -si, ma soltanto a una certa età». La facilità con cui lapandemia si diffuse dipendeva non solo da quelloche, così oscura mente, si chiama «spirito del tempo»,ma anche dal fatto che il postmoderno si portavasulle spalle una turba cosmopolitica di genitori: lostorico inglese Arnold Toynbee, che ne aveva parlatonegli anni Quaranta, l’antropologo tedesco ArnoldGehlen teorizzatore della «post-storia» negli anniCinquanta, il romanziere americano Kurt Vonnegutche negli anni Sessanta aveva mescolato humournero e fantascienza, l’ar chitetto americano RobertVenturi che nei primi anni Set tanta riabilitava lo stiledi sneyano di Las Vegas. All’inizio di tutto, negli anniTrenta, c’e ra stato persino il critico lette rario spagno-lo Federico de Onis, che aveva classificato co sì una

corrente poetica. Il mini mo comune denominatore ditutti questi antenati sta in una fine del progresso vis-suto in senso enfatico: al futuro infini to e indetermi-nato, segue un ripiegamento. Forse il futuro è già qui,ed è la somma di tutti i passati, abbiamo un grandeavvenire dietro le spalle.

Nel presentismo del postmo demo («no future»cantavano i Sex Pistols cogliendo l’essen ziale della«crisi dei grandi rac conti») l’arte, l’immediatezza este-tica, fosse pure nella forma minimale degli orologiSwatch e della Milano da bere, diventa va la risorsa aportata di mano. L’eclettismo correva qua e là,mescolando stili e valorizzando l’effimero, trasforma-to a sor presa in una categoria positiva perché tutto,almeno nelle in tenzioni, diventava più leggero e fia-besco. «Come il mondo ve ro finì per diventare unafavo la», la frase di Nietzsche, era sta ta promossa aideale universa le, e alla fine, il nocciolo duro delpostmoderno è stato proprio che il reale sarebbe spa-rito sen za lasciare niente di solido. Nel la apparentefine delle utopie si faceva strada il sogno sotterra neodi un regno dello spirito e persino di una fine dellavoro, della maledizione di Adamo, con il passaggiodai campi e dalle officine agli open space del web. Ipiù ottimisti si erano per sino convinti che le guerresa rebbero scomparse diventan do semplicemente unafinzione mediatica tra le altre.

Tutte queste utopie si sono realizzate? In un certosì, fin troppo bene, e non parlo solo della fine dellavoro, che è diven tato un bene rarissimo. Ricordo,nel 1994, di aver partecipato, in una Magdeburgoancora piena di ricordi e rottami della Ddr, a un con-vegno intitolato «Media Transforming Reality», doveil potere demiurgico della mani polazione mediaticaveniva considerato una grande emancipazione e unascicche ria intellettuale. Il che suonava ironico nonsolo perché non si era poi così lontani, nel tempo enello spazio, dalla Berlino del dottor Goebbels, maper ché erano gli anni in cui il po pulismo mediaticofaceva la sua discesa in campo e il detto nietzschia-no «non ci sono fatti, solo interpretazioni» si candida-va a sostituire, dentro e fuori dei tribunali, il princi pio«la legge è uguale per tutti». Il risultato è sotto gliocchi di tutti: un mondo di toxic paper e di ecoballe,in cui si di chiara guerra (verissima) allegando comeprova l’esistenza di armi di distruzione di mas sa chenon ci sono mai state. Tanto basta, io credo, a dissi -pare ogni nostalgia del post moderno. A chi si volesseim pegnare in un revival, propor rei il recupero dellaverità e della realtà, di cui si sente un grandissimobisogno in un mondo ammalato di favole.

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«Nel presentismo del postmo demo («no future» cantavano i Sex Pistolscogliendo l’essen ziale della «crisi deigrandi rac conti») l’arte, l’immediatezzaestetica, fosse pure nella forma minima-le degli orologi Swatch e della Milanoda bere, diventa va la risorsa a portata dimano»

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L’ELEGANZA TERRIBILEDEL COMBATTENTEMario Baudino, La Stampa, 19 giugno 2010

José Saramago è stato uno di quegli scrittori prende-re o lasciare. Piaceva moltissi mo, oppure suscitavarea zioni decisamente ostili, senza vie di mezzo. Haispirato mu sicisti a lui devotissimi, come Azio Corghi,ha scatenato polemiche ro venti sul piano politico e,negli ulti mi anni, dopo il Nobel vinto con indi scussomerito nel ’98, è stato ogget to di un vero e proprioculto. È mor to alle Canarie, nella sua Isola diLanzarote, dove viveva da tempo con la moglie PilarDel Rio, giornali sta e sua traduttrice in spagnolo.Aveva 87 anni, da tempo soffriva di una lenta malat-tia, che non gli ave va però impedito di girare ilmondo, accogliere gli inviti, distillare le sue provoca-zioni. Sempre al centro di discussioni anche aspre, danoi ne gli ultimi due anni è stato il protago nista di uncaso politico letterario. Ha abbandonato il suo stori-co edito re, l’Einaudi, perché si rifiutava di pubblicar-gli il Quaderno, libro di ri flessioni a tutto campotratto dal blog che teneva su Internet.

C’erano nel Quaderno giudizi as sai sprezzanti sulpremier Berlusco ni, definito un «delinquente»: la ca saeditrice obiettò che sarebbe sta to inimmaginabilefarsi querelare dal proprio azionista. Finì che il li brovenne stampato e diffuso dalla Bollati Boringhieri,peraltro senza strascichi giudiziari. Alla Fiera di

Francoforte dell’anno scorso, lo scrittore ha siglato, unpo’ a sorpre sa, un super-contratto con la Feltrinelli,che ha pubblicato proprio que st’anno il suo ultimoromanzo, Cai no, una rivisitazione della vicenda bi -blica. «Mi risulta difficile compren dere come il popoloebraico abbia scelto per testo sacro l’Antico Te -stamento» aveva dichiarato l’autore al proposito. «Èun tale miscuglio di assurdità che non può esserestato inventato da un uomo solo. Ci volle ro genera-zioni e generazioni per produrre questa mostruosità».

José Saramago non aveva timori reverenziali, anzi.È stato uno di quegli scrittori di grande fiato, conmolta immaginazione e altrettanto gusto per lecostruzioni narrative anche complesse, che daMemoriale del convento a Cecità, per citare alcu nidei suoi libri più noti, ha fatto col romanzo davverodi tutto: affresco storico, allegoria morale, attenzio -ne alla magia del quotidiano, impe gno «illuministico»e sdegno politico, responsabilità civile e giochi in -tellettuali. Elegante, austero, tratto aristocratico,fedele alla sua antica militanza comunista (si iscrisseal partito nel ’59, in piena dittatura sa lazarista,facendo politica in clande stinità), si è imposto inEuropa rela tivamente tardi, ma il successo non lo hamai ammorbidito. Oppositore nato, non indenne da

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un certo nichi lismo politico che non salvò niente enessuno, vedeva i governi, tutti o quasi, come emis-sari del potere eco nomico; considerava sostanzial -mente la democrazia come una finzione, il mondocome una macchina di sopraffazione.

Il tono, o meglio l’intonazione mo rale dei suoi libriè a volte oratorio: per esempio nel Saggio sulla luci-dità, che chiude la trilogia iniziata appun to colMemoriale del convento (roman zo che lo imposeall’inizio degli anni Ottanta all’attenzione internazio-na le), immagina che i cittadini votino tutti schedabianca, facendo di fatto crollare lo stato. Era un com-battente nato: dagli anni Sessanta, quando co minciòa diventare una voce critica molto popolare inPortogallo, alla Ri voluzione dei garofani quandocomin ciò una nuova, più libera fase della sua vita.Sostenitore dell’unione fra Portogallo e Spagna,nonostante il Nobel ebbe sempre pessimi rapporticon l’establishment del suo Paese, do ve pure furesponsabile di case editri ci, giornalista di successo,personag gio pubblico di grande rilevanza. Infine, iltrasferimento alle Canarie, che ha avuto un fortevalore simbolico.

Poco amato – tanto per usare un eufemismo –dalle gerarchie cattoli che, che hanno spesso lanciatoanate mi contro i suoi libri, Saramago non era però unprovocatore. Non cerca va la rissa politica o filosofica.Sempli cemente, con l’eleganza di un anziano signo-re, sapeva dire cose terribili, a volte cogliendo nelsegno, a volte no, come accade. Senza mai tirarsiindietro, e soprattutto senza concedere nulla agliavversari. Farne un cantore dell’apocalisse sa rebbeperò riduttivo: nei suoi scenari spesso terribili s’im-pongono sempre, con una straordinaria potenza, lesto rie delle persone: ed è qui che, lento, sottile, avolte persino labirintico, lo scrittore portoghese hadato il meglio di sé: come nel Vangelo secondo Gesù(del ’91) che pure provocò un no tevole scandalo perla sua eterodos sia, o in Tutti i nomi (del 1997) dovel’ossessione classificatoria di un bi bliotecario per lepersone importanti si trasforma nella ricerca di unadon na «qualunque», una sconosciuta che sembra rac-chiudere qualcosa di molto vicino al senso (o all’in-sensatezza) dell’esistenza.

Con Azio Corghi ha scritto un’opera lirica dedicataa Don Gio vanni, ma ne ha ribaltato il finale: do pol’ennesimo monito del Commenda tore e lo sdegnatorifiuto del sedutto re, invece di spalancarsi il baratrodell’inferno esce una fiammata che si spegne imme-diatamente. Il dissoluto è assolto. Saramago, all’in-ferno, pro prio non ci credeva.

Era già succes so, ma questa volta è per sempre. Nelgiorno dell’ad dio, il Vaticano manda al dia volo JoséSaramago. Il necro logio che L’Osservatore Ro manoha dedicato al Nobel portoghese, morto venerdì a 87anni, è una bocciatura sin dal titolo: «L’onnipotenza(presunta) del narratore». L’autore di opere come ilMe moriale del convento, Il Van gelo secondo Gesù,Caino, dove è affermata una visione atea e materia-lista senza al cuna apertura alla fede, vie ne definitoda Claudio Tosca ni sul quotidiano del Vaticano come«un uomo e un in tellettuale di nessuna am missionemetafisica, fino al l’ultimo inchiodato in una sua per-vicace fiducia nel ma terialismo storico, alias marxi-smo. Lucidamente au tocollocatosi dalla parte dellazizzania nell’evangelico campo di grano, si dichiara vainsonne al solo pensiero delle crociate e dell’inquisi -zione, dimenticando il ricor do del gulag, delle pur-ghe, del genocidi, del samizdat culturali e religiosi».

È la chiusa di un articolo cui si arriva attraverso uncre scendo in cui Saramago vie ne accusato di «bana-lizzazio ne del sacro», «semplicismo teologico»: «Se Dioè all’ori gine di tutto, Lui è la causa di ogni effetto el’effetto di ogni causa». Nessuna concessione al geniodel porto ghese, definito «un po pulista estremistico»che fin troppo comodamen te incolpa delle brutturedel mondo «un Dio in cui non aveva mai creduto, pervia della Sua onnipotenza, della Sua onniscienza,della Sua onniveggenza. Prerogative, per così dire,che ben avreb bero potuto nascondere un mistero,oltre che la divina infinità delle risposte per l’umanatotalità delle do mande. Ma non per lui».

La ruggine con il Vaticano e con gli ambienti catto-lici più conservatori è preceden te all’assegnazione delpre mio Nobel. Ieri tutti hanno ricordato che JoséSaramago lascia polemicamente il Por togallo nei primianni No vanta per gli attacchi violen ti ricevuti dal sot-tosegreta rio alla cultura Antonio Sou sa Lara. Questopolitico defi nì una vergogna per un Pae se cattolicol’opera uscita nel 1991, Il Vangelo secondo Gesù, in cuiil Cristo è appiat tito alla semplice dimensio ne terrena.E infatti ieri To scani ha definito Il Vangelo di Saramagoil «frutto di una faziosità dialettica di ta le evidenza davietargli ogni credibile scopo». Gli attac chi si ripetero-no nel 1998, dopo l’annuncio da parte del l’Accademiadi Stoccolma: sempre L’Osservatore accusò l’Acca -demia svedese di essere politicamente orienta ta e il

IL VATICANO CONTROSARAMAGO: È LA ZIZZANIADino Messina, Corriere della Sera, 20 giugno 2010

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romanziere portoghe se venne definito «veteroco -munista», e peggio ancora «nichilista». Accuse ripresequalche mese dopo da pa dre Ferdinando Castelli sullaCiviltà Cattolica («esalta il nulla») anche se il critico ge -suita faceva qualche conces sione alle qualità letterariedi Saramago: «Siamo certi di trovarci dinanzi a unoscrittore meritevole, sotto l’aspetto letterario».

Un’apertura di cui non si trova traccia nelle reazio-ni degli ambienti cattolici al l’uscita l’anno scorsodell’«inaccettabile» (così L’Os servatore) Caino, dovec’è la rappresentazione di un Dio crudele e vendicati-vo e l’Antico Testamento è dipin to come «un manua-le di cat tivi costumi».

Nessuna meraviglia, a que sto punto, se ieri ancheFul vio Panzeri, critico letterario di Avvenire, il quotidia-no della Conferenza episcopale italiana, non abbiausato mezze misure: «Saramago è stato uno scrittorenotevol mente sopravvalutato, in maniera esagerata inItalia, acclamato da una decina d’anni come un classi-co del Novecento quando già oggi molte delle sueopere più fa mose risultano effettivamen te datate enon certo indi menticabili». Ancora più pe sante il giu-dizio religioso: «Quel Dio che Saramago ha voluto met-tere alla berlina, incapace di comprenderlo, lo scrittoreha tentato di distruggerlo. Senza riuscirci. Le sue sonostate solo paro le. Spesso brutte parole, sen za storia».

Oblique Studio

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TIRARE SASSI CONTRO L’AVVERSARIOUSANDO (MALE) LE PARABOLEAlberto Melloni, Corriere della Sera, 20 giugno2010

Spesso la critica di voci investite di autorità religiosa aimaestri della musica o della poesia, del teatro e dellascultura, del cinema o della letteratura ha lasciato spa-zio a più mature riconsiderazioni in cui proprio almomento della morte si colgono i primi segnali di unripensamento che inizia a frenare l’impeto moralisti codi cui in tanti (a partire da Mozart e dalle sue «troppenote») hanno fatto le spese. A Saramago questo non èca pitato: contro di lui un gior nalista dell’OsservatoreRo mano ha usato parole veementi che hanno fatto inun baleno il giro del mondo e di cui a torto si chiede-rà conto alla Chiesa.Parole che mostrano non solo una posizio ne legittima diantipatia, ma anche una grin ta che, per quel vezzo dinon piegarsi alle mo de, finisce per sfiorare la più vecchiadelle mode che è quella dell’aggressività. Che Saramagonon avesse «nessuna ammissione me tafisica», che la suafosse una «mente uncinata a una banalizzante destabi-lizzazione del sa cro», che alle sue polemiche sulle crocia-te si debba opporre il suo silenzio sui gulag non è unargomento, ma un sasso. E sui sassi si in ciampa. Comefa l’autore quando imputa a Saramago una questione –quella della teodicea tanto cara alla teologia e allafiloso fia del XVIII secolo, prima del terremoto di Lisbona.O come quando si sbeffeggia Saramago accusandolod’es sersi «lucidamente autocol locato dalla parte dellazizza nia nell’evangelico campo di grano». Quella para-bola decisiva del Vangelo – alla quale Giuseppe Ruggieriha dedicato una riflessione esegetico-teologica assaifine su Cristianesimo nella storia – dice proprio il con-trario: e cioè che il tempo messianico non è quello in cuisi strappa la zizzania, ma è il tempo del tempo.

MA NEL GIUDIZIO SULL’OPERA D’ARTEÈ COMPRESA LA DIMENSIONE MORALECesare Cavalleri, Corriere della Sera, 20 giugno2010

L’Osservatore Romano pubblica un severo giudizio sulNobel José Saramago, e le agenzie giornalistiche entra-no in fibrillazione. Prima considerazione: l’articolo inquestione è di Claudio Toscani, eccellente e informatis-simo critico letterario, ma le agenzie lo attribuiscono intoto all’Osservatore Romano, come se fosse un edito-riale del direttore. Si vorrà rispettare il libero pensiero diuno scrittore senza diluirne la responsabilità nellatestata per cui scrive? Come ogni giornale, anche l’Os -servatore accoglie una pluralità di firme.L’articolo di Toscani ha fatto scalpore per la presa didistanza morale dall’operatore portoghese, a cadaverecaldo. Ben venga l’infrazione alla consuetudine del buo-nismo necrologico: di uno scrittore bisogna sempre par-lare da vivo, perché se ne giudicano i libri non lapersona. Non manca chi si scandalizza perché un giudi-zio letterario come quello di Toscani prende in conside-razione la dimensione morale. Ma la moralità è inclusanel giudizio estetico. Mettiamola sul filosofico: i tra-scendentali dell’essere sono le diverse angolazionisecondo cui l’essere viene considerato. I trascendentaliclassici sono l’uno, il vero, il bene: il bello e il trascenden-tale «coagulante», cioè che tiene insieme unità, verità,bontà. Pertanto, il giudizio estetico non può prescinde-re dalla verità e dalla bontà (dimensione morale) dell’og-getto, soprattutto nel caso dell’arte. Ecco perchémettono a disagio certe opere antisemite di Céline,anche se «scritte bene»; ecco perché la carenza di veritàin certa pittura del realismo socialista suscita impazien-za. Sull’unità dell’opera d’arte ci si trova facilmente d’ac-cordo, eccetto che a proposito del decostruttivismo dicerta avanguardia.

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Flaiano non era uguale nemmeno a sé stesso: lametamorfosi lo abitava. Riconosciuto come scrittorediver tente e confinato nella gabbietta dorata delfustigatore di costumi, è sta to a lungo frainteso. Erauno scritto re tragico, come Samuel Beckett: raccon-tavano comicamente le atro cità del purgatorio con-temporaneo in cui ancora sopravviviamo perchénell’era dello Spettacolo raccontare l’inferno sarebbeconsolatorio e spettacolare.

Flaiano fu sempre mancato dalla critica all’ingros-so, e sempre ricono sciuto dai lettori acuti: quandouscì Diario Notturno, uno dei non molti capolavoridella letteratura italiana del Novecento, Enzo Forcellascris se che Flaiano si rifugiava in un «esercizio dell’in-telligenza», e che il romanzo Tempo di uccidere eramol to superiore a Diario Notturno; Al berto Moraviascrisse invece, con bruciante esattezza, che DiarioNot turno era superiore a Tempo di ucci dere, e chealle spalle di Flaiano c’era la grandezza desolata evisionaria di Bouvard e Pecuchet.

Ora un volume di Opere scelte, pubblicato daAdelphi a cura di An na Longoni, potrebbe essere l’oc-casione per fare definitivamente piaz za pulita delsalotto, di Longanesi e del «divertente Ennio». LaLongoni, con note essenziali e precise, lascia emerge-re il Flaiano scrittore, senza alcun compromesso conla mitolo gia delle dolci vite e degli epigrammi. Tantoper cominciare: Flaiano è attuale? No, perché appar-tiene alla minima schiera degli inattuali che guarda-no al presente da un luogo che sta nel mezzo delpresente ma gli è estraneo: sì, perché è un visionarioche attraverso il grottesco ha visto in profondità iluoghi ammalati della contemporaneità.

Tre capolavoriIn Diario Notturno, che fu pubblicato per la prima

volta nel 1956, ci sono almeno tre capolavori:Variazioni su un commendatore, romanzo di roman ziche si ispira a Queneau e agli Eserci zi di stile, ma stra-volgendone la frivo lezza e radiografando un archeti-po dell’Italia e del mondo occidentale in balìa delcapitalismo; Un marziano a Roma, dove in anticiposu Guy De bord, i meccanismi della società dello spet-tacolo sono letti attraverso una forma narrativa con-cisa e innovativa; il Supplemento ai viaggi di MarcoPolo, scritto nel 1944, e che, dietro la pati na allaSwift, è un romanzo breve spe rimentale, dove la sati-ra non è il tirar si fuori dall’inferno per giudicarlo, mauno sguardo che Legge nel fasci smo inventato eamato dall’Italietta le future servitù volontarie diun’Ita liuccia che vuole il Padre senza la Leg ge; e ilvero e proprio Diario Nottur no, in cui si traduceun’esperienza let teraria europea accortissima, macala ta nella melma antropologica di un Paese quasibiologicamente affascina to dalla corruzione e dalpotere. Ce ne sarebbe abbastanza per una intera let-teratura, ma Flaiano scrisse anche Tempo di uccidere,partecipe in modo essenziale ai film con i quali Fellinidi ventò il narratore di un’Italia senza ca rità e avviataalla decadenza nel pieno del boom, scrisse le profeziedi Om bre bianche conscio che la satira era su peratadalla realtà, lasciò i frammenti terribili e sapienziali diDiario degli er rori, e soprattutto, sul finire degli an niSessanta, scrisse Il gioco e il massacro. Nei dueromanzi brevi di Il gioco e il massa cro, uno intitolatoOh Bombay! e l’al tro Melampus, Flaiano toccò forsel’estremo della sua capacità di scritto re. Opera sotti-le, intricata, ambigua, esotericamente dentro i luoghicomuni del postmoderno prima del po stmoderno, Ilgioco e il massacro è un solitario capolavoro.

In Oh Bombay! Flaiano torna con lucida visionarie-tà sulla sua osses sione per il mediatico che trionfa

FLAIANO? ERA UNO SCRITTORE TRAGICO.RACCONTAVA L’ATROCITÀ DEL PRESENTE

Giuseppe Montesano, l’Unità, 22 giugno 2010

In libreria Opere scelte di En nio Flaiano, pubblicato da Adelphi (pagg. 1516, euro70) a cura di Anna Longoni: un’oc casione per rileggere delle ope re che possonoanche riservare qualche sorpresa

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nella società dello spettacolo, e mo stra come esso sianon più esterno all’Io, ma sia diventato una forma dicorruzione dell’anima che adopera le categorie del-l’economico e le tra sforma in psiche: ma Flaianotutto ciò, come fanno i veri scrittori, lo rac conta, e loracconta in una forma narrativa che è comica e tra-gica, la cerata e centrifuga, rapida e afori smatica, cheadopera in una manie ra personalissima le conquistedella letteratura novecentesca. In Melam pus la storiadella trasformazione di Liza Baldwin in cagna, del-l’animaliz zazione dell’amore come possibile felicità euscita dalla prigione della civiltà falsa, vela e rivela unnoccio lo più segreto, più oscuro e ambi guo, quello incui è incisa la necessi tà delle metamorfosi per attra-versa re l’inferno della postmodernità: una necessitàche prevede un ri schio assoluto, un rischio che Flaia -no racconta in una prosa miracolo sa, dove la sempli-cità del dettato nasconde gorghi e sprofondamenti disenso a ogni passo, buchi e ferite che si aprono den-tro la compattezza in modo invisibile, come se tutti ise greti fossero posti sotto gli occhi ma ogni segretorestasse vivo nella sua contraddittorietà: e alla prosadi questo ultimo Flaiano si addice, forse, la frase diHofmannsthal: «La profondità va nascosta. Dove?Alla superficie».

Ma il suo mistero ci riguarda, se ancora abbiamol’energia per legge re con la letteratura le falsificazio-ni che la realtà ci impone: il Maestro è di nuovo qui,e se molti hanno occul tato la sua verità, nessuno haanco ra vietato la lettura dei suoi libri. Chi ha famedell’esperienza vera può aprire o riaprire i rotoli delMar Morto di Ennio Flaiano, e sprofonda re, a suorischio e pericolo, nella let teratura.

L’AMERICA AVEVA UNSOGNO MA ORA ÈDIVENTATO UN INCUBOHEMON: «DOPO L’11SETTEMBRE IL PAESEÈ REGREDITO»

Livia Manera, Corriere della Sera, 23 giugno 2010

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Che storia quella di Aleksandar Hemon, lo straordi-nario scrittore americano che, fino a ieri, appartene-va a un Paese dell’Est «i cui principali articoli daesporta zione sono le auto rubate e la tristezza». Aventotto anni era un giornalista bosniaco senza unsoldo e con un inglese rudimentale, che la guerra inBo snia aveva bloccato in America alla fine di unviag gio di formazione.

A quarantasei è un maestro riconosciuto della let-teratura americana, vincitore nel 2004 del «Ge niusAward» della McArthur Foundation, e malgra do glionori e i cinquecentomila dollari del premio, furiosa-mente consapevole che per ogni «American Dream»esiste un «American Nightmare»: un incu bo america-no che non ha niente a che vedere col successo ol’insuccesso.

«Sono il leale suddito di un paio di Paesi», con fessal’alter ego di Hemon, Vladimir Brik, nello struggente,magnifico romanzo Il progetto Laza rus appena usci-to da Einaudi. «In America – quel la terra lugubre –spreco il mio voto, pago malvo lentieri le tasse, dividola mia vita con una moglie indigena, e faccio unosforzo enorme per non augu rare una morte dolorosaall’idiota presidente (sia mo ai tempi di George W.Bush, ndr). Ma ho anche un passaporto bosniaco cheuso di rado; vado in Bosnia per funerali e vacanze chespezzano il cuo re, e il primo di marzo, insieme conaltri bosniaci di Chicago, festeggio orgogliosamentela nostra in dipendenza con un pranzo».

Hemon è americano, dunque, dal 2000: otto an nidopo essersi trovato nell’impossibilità di rientra re aSarajevo e un anno prima della caduta delle Torri.«Come la devo descrivere?», chiedo tituban te.«Rifugiato?». «Scriva: alto, bello e con schiena pe -losa», risponde sarcastico. Ma la rabbia che ha incorpo dipende meno dal testosterone in eccesso, chedall’onta di aver visto troppi diritti calpestati e cat-tive azioni commesse da un governo che consi dera«di criminali di guerra», nel nome delle «mi glioriintenzioni».

Sono passati dodici anni dal nostro primo incon -tro, all’epoca in cui il suo libro di racconti, Spie di Dio,sbalordiva la critica con la ricchezza della sua prosaletteraria e la disperazione delle sue storie di spaesa-mento e perdita. In un albergo di New York dove è dipassaggio con moglie e due bambine prima di torna-re nella città che oggi è casa sua, Chica go, raccontadi quel fatidico giorno che ricorre in tutti i suoi libri,Spie di dio, Nowhere man e Il pro getto Lazarus:quando nel febbraio del ’92 dopo una telefonata acasa si è ritrovato a camminare per le strade di New

York senza soldi né lavoro né conoscenze, chiedendo-si: «E adesso cosa faccio? Non ero certo venuto perrestare».

E cosa ha fatto? Debiti. Lavoretti. E ha letto. Mol -tissimo, soprattutto Nabokov, studiando tutte leparole che non conosceva. «Mi sono dato cinque an -ni per riuscire a scrivere il mio primo racconto ininglese, e ci sono arrivato dopo tre». Oggi persino uncritico incontentabile come James Wood lo definisce«un maestro di stile superbo» sul New Yorker. E vistoche abbiamo nominato Nabokov, vale la pena ricor-dare che il russo Nabokov è stato allevato da bambi-naie inglesi, ha letto in inglese per tutta l’infanzia eda ragazzo ha studiato a Cam bridge. Quando la suacarriera di scrittore «ameri cano» è cominciata, avevaquarant’anni e una lun ga consuetudine con la linguadi Lolita.

Così non è invece, per Lazarus Averbuch o per l’al-ter ego di Hemon, Vladimir Brik, i protagonisti di que-sto romanzo autobiografico che l’autore ha costruitointorno a due storie parallele – quella ve ra dell’immi-grato ebreo Averbuch che fu ucciso dal capo dellapolizia di Chicago una mattina del 1908 senza moti-vo; e quella del rifugiato bosniaco Brik, che al giornod’oggi s’imbatte nella storia di Laza rus Averbuch e simette sulle sue tracce con l’idea di scriverci sopra unlibro. Solo che Brik – e Hemon – non sono ebrei. Sel’identificazione con La zarus è scattata, dice, è perchél’isteria xenofoba che ha colpito l’America dopo l’11settembre gli ri corda molto da vicino il clima di cac-cia all’anarchi co al tempo degli attentati del primoNovecento.

«Ma lei le ha viste nel mio libro le foto in cui unpoliziotto posa accanto al cadavere di LazarusAverbuch?». L’immagine, in effetti, non è soloagghiac ciante ma surreale: un elegante e anzianosignore, in piedi, che tenendo gli occhi fissi all’obiet-tivo sostiene la testa di un ragazzino pelle e ossa,sedu to senza vita su u na sedia. «Era sopravvissuto aipo grom nell’Europa dell’Est ed era negli Stati Uniti daotto mesi quando è stato ammazzato, soltanto per-ché, come disse il capo della polizia, aveva un aspet -to siciliano o ebreo, e di conseguenza, sicuramenteanarchico. Vengono in mente le foto di Abu Ghraib,quei bravi ragazzi americani che si metteva no in posacon gli iracheni torturati, con la medesi ma espressio-ne: guardate, abbiamo torturato uno straniero!».

Hemon non ci sta a dimenticarsi le sofferenzedegli immigrati, i diritti civili calpestati, la difficol tàad essere rappresentati politicamente. «So di avere lecarte in regola per presentarmi come un esempio di

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I successi come le merci? Smaliziato dal sapere in pil-lole di Google e Wikipedia, il lettore po stmodernosospetta facilmente l’esistenza dello «scrittore Spa»:staff di esperti di mercato seguono giallisti americanipiù simili a brand di industrie che a scrittori in carnee ossa. Qualcuno, prima o poi, si quoterà a Wall Street.Ma anche in que sta «fabbrica di montaggio» del thril -ler, Nino Treusch (Il coniglio bianco, De Agostini, pagi-ne 378, euro 18,50) è inusuale. Non è lo scrittore condie tro l’esperto di marketing. Piuttosto è l’esperto dimarketing scopertosi scrittore a 44 anni. E si vede.

Nato a Colonia, ma con studi in Ita lia dove ha vis-suto 22 anni, è tutta la vita che lavora nel mondodella finan za come manager, da Shanghai a Mia mi,alla perenne ricerca di un’idea di successo. Il classicotarlo, ma più del businessman che dello scrittore.«Avevo già tentato con un ristorante di cibi italiani aBarcellona» raccon ta a Milano davanti a PalazzoMezza notte, sede di Borsa Hallam, dove mosse i primipassi nel ’93 subito do po la laurea in Bocconi «unaspecie di serate a tema con le aziende come sponsor».Non partì. Ma eccolo adesso ritentare con il «made inItaly» vi sto che, per la prima pubblicazione, Treuschha optato per la stesura in lingua italiana dopo unprimo tenta tivo abortito in inglese.

«Quando ho presentato il manoscritto all’editoreavevo già pronto anche il piano di marketing del li -bro. Sono rimasto stupito quando gli ho chiesto leprobabilità che aveva mo di entrare nei bestsellerperché mi hanno risposto che era impossibi le preve-derlo. Ma io lavoro nel settore della tecnologia e se

sogno americano realizzato. E sono gra to all’Americaper molte delle cose che mi ha dato. Ma so anche cheè più complicato di così, perché la mia storia è costel-lata di perdite che non si accorda no alla morale dellieto fine». E c’è il problema della rinuncia alla propriacultura politica. Un tempo gli immigrati portavano inAmerica delle idee poli tiche, ogni singolo gruppoetnico aveva un’intera gamma di opinioni, daglianarchici ai socialdemo cratici ai monarchici. E quan-do la gente arrivava qui non diceva dimentichiamocitutto il resto e pensiamo solo a diventare ricchi.Venivano qui per cambiare vita ma con l’idea di dareil loro contribu to a cambiare il mondo, e l’America diconseguen za. Oggi tutto questo non c’è più».

Da questa commistione di gratitudine e rabbia,necessità di appartenenza e impossibilità di accet tareche «chiunque voglia diventare cittadino ame ricanodebba chiudere la bocca ed essere felice di viverequi», nasce un romanzo emotivo come Il progettoLazarus: struggente, vitale, sarcastico, fu riosamentesincero ma anche capace di ridere. Vo lete sapere chestorie si raccontano i bosniaci della diaspora quandos’incontrano in terra straniera? Storie come quella diSuljo che arriva dalla Bosnia in America a trovare ilsuo vecchio amico Mujo, scrive Hemon. Mujo va aprendere Sujo all’aeropor to con una bella automobi-le e lo porta davanti a una grande casa. «Vedi quellacasa?», dice. «Quella è casa mia». Poi indica una pisci-na e una donna sexy che sta prendendo il sole su unlettino e dice «Quella è mia moglie». «Che bello» diceSujo. «Ma chi è il giovane abbronzato e muscolosoche sta massaggiando tua moglie?». «Beh» rispondeMujo. «Quello sono io».

SCRITTORESPA

LIBRO, TRAILER, PIANO DI MARKETING:

COSÌ IL MANAGER NINO TREUSCH

PRESENTA UN THRILLERTUTTO COMPRESO

Massimo Sideri, Corriere della Sera, 25 giugno 2010

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mi danno die ci modelli di cellulari posso darvi dellepercentuali».

La De Agostini gli ha creduto e il primo capitolo de Ilconiglio bianco – titolo legato a un aneddoto spas -sosissimo della sua gioventù sulla patologica propen-sione maschile alla bugia («è sempre stato uno dei mieicavalli di battaglia. È successo quando ero piccolo e hasempre fun zionato con le donne…») – dalla prossimasettimana verrà distribui to come promozione sulFrecciaros sa Milano-Napoli. Ma non è certo qui la novi-tà di marketing: andate su www.ilconigliobianco.org etro verete un booktrailer, usanza anglo sassone da pocosbarcata anche sul nostro mercato editoriale, che sem -bra già occhieggiare alla possibile versione cinemato-grafica del thril ler. Il ritmo da frame nel testo c’è già esi capisce che l’autore lo ha immaginato proiettato sulgrande scher mo durante la «partenogenesi». Il gruppoDe Agostini ha i mezzi e so prattutto le società per farlo.E che ci creda, nonostante Treusch sia un esordiente, losi capisce d’altra parte anche dal lancio in contempora-nea sia in libreria che sui canali Internet come librodigitale da scaricare sui vari Kindle, iPad o smartphoneche siano. «È il primo caso di una novità italiana lancia-ta in contemporanea e sta vendendo su tutti e due icanali», testimoniano da De Agostini. Un esperimentoal quale ora guarderanno un po’ tutti visto che l’aper-tura ufficiale del mercato editoriale italia no al mondodigitale è attesa in au tunno.

Insomma, Treusch è il primo scrit tore che, potendoscegliere, sembre rebbe più interessato al Nobel del-l’economia che a quello della lettera tura. Gli chiedia-mo: pronto a scrive re il prossimo? «Prima vediamo seavrà successo questo», risponde con trasparenza.Altrimenti altro proget to: piedi per terra e nessun«roman ticismo da scrittore» come lo chia ma lui.

Per fortuna, comunque, i libri non sono (ancora)cellulari, anche se in questo caso i cellulari ne rappre-sentano la trama. Torna l’homo «economicus». Il pro-tagonista Jan al tro non è che un avatar letterario delvero Nino. Come è successo a lui nella realtà, Janall’inizio del giallo sta per lasciare Milano per andarea lavorare presso un produttore di telefonini aMonaco di Baviera – Treusch prima dell’attuale lavo-ro alla Sony aveva lavorato a Monaco per SiemensMobile. Ed è lì che inizierà a farsi le domande giuste,quelle «anti-aziendali». «Tutto è comincia to nel 2004con uno studio sulle onde elettromagnetiche finitosulla mia scrivania» (quella vera) raccon ta. «Le con-clusioni erano preoccu panti. Parlava di modifichecellula ri. Di studi ce ne sono molti ma per la primavolta si suggerivano mag giori ricerche».

Rassegna stampa, giugno 2010

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Mentre si discute del libro con Treusch è difficilecapire se stia parlando di sé stesso o dell’avatar. I saltisono continui. «È da qui che na sce l’idea di una tramabasata su un esperimento in India: un call center dovetutti sono costretti a lavorare con un telefonino attac-cato alla te sta al posto del fisso». Non sveliamo latrama, ma è facile intuire che Treusch non si fidi deicellulari: «Ho un telefonino ma lo tengo sem predistante dal corpo, uso un auri colare con il filo e quan-do entro in macchina lo getto sui sedili poste riori».Considerando che lavora per Sony Ericsson… ma nonsi sente in difficoltà. «Non sono i dipendenti di unasocietà di tabacco che devo no sentirsi in colpa» argo-menta, an che se lui è un manager. «Comun que trapochi giorni smetto, con mia moglie (brianzola) cam-biamo città e vita». È onesto nel dire che non cambiacomunque per i sensi di colpa ma per seguire lei,Simona, che farà un PhD in geopolitica.

«Non sono contro i cellulari. Io fu mo, ma so che famale. L’obiettivo del libro è che le persone siano piùconsapevoli dei rischi, soprattutto sui teenager: aMiami vedo bambini anche di 8-9 anni che giranocon l’i Phone». Come mai non ha puntato su un sag-gio? «Anche se ho studiato molto riconosco di nonessere uno scienziato».

Quando chiedevano a Graham Greene come mailui, anche giorna lista del prestigioso The Times diLondra, non pubblicasse mai artico li sui temi chedenunciava attraver so i gialli, lo scrittore inglese iro-niz zava sulla libertà di stampa: non gli sarebbe statopossibile scrivere quel le cose sui giornali. Ecco, NinoTreu sch ha appreso la lezione di Grisham e l’ha con-dita con le lezio ni bocconiane di gioventù di EnricoValdani, uno dei padri italiani del marketing, con cuisi è laureato.

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PIETRO GROSSIUNO SCRITTORE DI SUCCESSO, BELLO E DANNATO, «CHE HA TUTTO QUELLO CHE SI PUÒ DESIDERARE» DECIDE DI SCOMPARIRE PERMETTERSI A FARE IL LAVAPIATTI. UNA STORIASULLA VOCAZIONE ARTISTICA E SUL RAPPORTOTRA VITA QUOTIDIANA E ISPIRAZIONEMaurizio Bono, la Repubblica, 26 giugno 2010

Se ogni scrittore ha un’ossessione, per il trentaduen-ne Pietro Grossi dev’essere la misura. Nel primo libro,i tre racconti Pugni che quattro anni fa lo hannorive lato (finalista allo Strega, bestsel ler imprevisto distagione, Cam piello Europa alla traduzione in ingle-se) erano la misura per schiva re i colpi, sul ring e nellavita. Nel secondo, il romanzo di biliardo e destinoL’acchito (2007), ancor più dichiaratamente ladistanza perfetta da percorrere perché ciò che simette in moto (là una palla d’avorio, ma vale tutto ilresto) rimbalzi fermandosi nel punto prestabilito,come nella vita non accade mai. Nel nuovo e terzolibro la misura della scrittura di Grossi torna quella diun «rac conto lungo», solo 64 pagine, sorvegliatissime,per raccontare di T.J. Martini, scrittore bello e dan -nato, «tutto ciò che chiunque avrebbe voluto essere»,che per trovare – ancora – la misura tra sé e il mondo,sparisce come Salin ger, ma con ragioni perfino mi -gliori delle sue.

È insolito, Grossi, tornare alla brevità col terzo titolo,dopo un romanzo «vero».«Un po’, ma ne sono contento. Va d’accordo con la miaprima paura, che è di annoiare, e con la mia preferen-za, tra il togliere e l’aggiungere, per il togliere. Maprima o poi naturalmente mi pia cerebbe sporcarmi dipiù le ma ni. E questo Martini è anche un po’ un caso,in origine doveva stare in una collana di storie a piùmani, l’uscita da solo l’ha con quistata per il titolo…».

In che senso?«In un incontro in libreria a Pa lermo su L’acchito ilpresentato re della serata lo ha definito “semplice,

elegante e difficile da fare come un buon Martini”. Horingraziato e mi è scappata l’ag giunta: “Veramenteun Martini io ce l’avrei”, il racconto lo avevo appenafinito. Elvira Sellerio, che ha sempre detestato laparola “acchito” in copertina, e alla fine forse avevaragione, ha detto: “Bellissimo titolo. Non lo cambi, miraccomando”».

Dietro il titolo c’è la storia di uno scrittore america-no di ta lento che all’apice del successo mondano e dicritica spiega a un amico e ammiratore più giova nedi poter scrivere solo se è in namorato. Poi sparisce enell’ul tima scena, in un diner che sem bra dipinto daHopper, gli confi derà di aver scelto di fare il lavapiat-ti per salvarsi. Cosa vuol di re, esattamente?«Posso dire cosa vuol dire per me, anche se non ètutto. Il rac conto permette un certo grado di ambi-guità, i lettori ci vedono cose che neppure tu sai, ealcuni ne danno una interpretazione un po’ diversa:è un bene. Io comun que Martini oltre la parola fineme lo immagino che dopo aver lavato i piatti torna acasa e scrive, magari poche pagine alla volta, in statodi grazia. Smette di stare nel mondo non perché incrisi, ma per conservare la vocazione».

Sarà che casualmente è appena stato ristampatonella Biblioteca Minima Adelphi, 64 pagi nette esat-te tra due copertine scure di piccolo formato propriocome Martini, Il crollo di Francis Scott Fitzgerald,che racconta sotto forma di spietata autobio grafiail suo collasso umano e di autore: a vederli insiemesul banco di una libreria un lettore magari fa duepiù due…

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«E fa bene. Conosco bene quelle pagine e se non mici fossi imbattuto forse Martini non l’a vrei scritto.Fitzgerald è il talen to assoluto e un mio riferimen-to, i suoi sono tra i libri più belli che abbia mai lettoe The Crack-Up uno straziante piccolo capola vorosul rapporto tra il mondo interiore del narratore equel che c’è là fuori. Però Martini, mi cre da, ha unfuturo».

Vuol dire che lo rivedremo per esteso?«Questo è complicato. Sto la vorando a diverse cose,una delle quali più ampia, che si incrocia un po’ conMartini e per questo, al momento, l’ho messa daparte».

Da Le cose fondamentali di Scarpa al Pavolini diAccanto alla tigre, da Ammaniti al suo Martini, per-ché tanti scrittori scrivono di scrittori? Non sarà cheper un autore giovane, esaurita l’adolescenza, è l’u -nica esperienza?«Un po’ è così, è naturale. Quello per la scrittura è unamore violento che ti condi ziona, centrale per la tuarela zione con il mondo».

In senso non metaforico, si può vivere di sola scrittura? «Al momento ci riesco. La pub blicazione si portadietro una quantità di incombenze e di co rollaripratici, piccoli lavori colla terali, qualche collabora-zione coi giornali, le presentazioni, gli in contri – nefaccio molti nelle scuo le –, la facciata pubblica.Finora sono perfino riuscito a non firmare contrat-ti in anticipo, anche quando dopo il primo libro hoavuto molte proposte, per evitare la gabbia dellascrittura come ob bligo. In passato invece ho lavo -rato un paio d’anni in pubblicità, scoprendo che eral’opposto del lavare i piatti di Martini, troppadistrazione. Se dovessi trovarmi un lavoro vero eproprio preferirei il banco di una salumeria, “Signo -ra, lo vuole il prosciutto? È appe na arrivato quellobuono” ».

Intanto il «grande roman zo» aspetta…«Credo che nella narrativa ita liana abbiamo saltato,con poche eccezioni, una generazione. Poi ci siamonoi nati tra i Settanta e gli Ottanta, penso anche aPiperno, Desiati, Cavina quando riuscirà a venir viadal paese: le cose più interes santi mi sa che le fare-mo fra 20 o 30 anni. Per i grandi libri ci vuole moltavita alle spalle, un rappor to vero con la nostalgia, ladispe razione, il tempo. Sì, diciamo pu re una misuralunga».

Personaggi, metafore, incipit: il critico del New Yorker racconta

come riconoscere un libro d’autore.Anche Pavese, Svevo e Verga nelcanone del critico anglosassone

WOODVI SPIEGO CHE COS’È

UN ROMANZO

A cosa serve la letteratura? Secondo Jorge Amador, ilcapo della polizia di Neza, un distretto violentoall’estrema periferia di Città del Mes sico che contadue milioni di abitanti, serve a diventare dei poliziot-ti migliori. Tant’è ve ro che quattro anni fa Amador hadeciso di dotare le sue forze di polizia di una lista diletture consigliate, tra cui il Don Chisciotte diCervantes, il romanzo breve di Juan Rulfo PedroPáramo, Il labirinto della solitudine di Octavio Paz,Cent’anni di solitudine di García Márquez e altreopere di Carlos Fuen tes, Antoine de Saint-Exupéry,Agatha Chri stie e Edgar Allan Poe. Nell’opinione del

Livia Manera, Corriere della Sera, 29 giugno 2010

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ca po della polizia di Neza, la lettura di questi libriavrà un’influenza positiva sulle forze dell’ordine peralmeno tre ragioni. Arricchi rà il loro vocabolario;amplierà il raggio della loro esperienza attraversol’esempio indiretto; e fornirà loro una base etica, dalmo mento che «rischiare la propria vita per sal varequella degli altri richiede convinzioni profonde, e laletteratu ra può mettere in luce queste convinzionimostrando altre vite vissu te nel rispetto di quegliimpegni». In altre paro le: per Jorge Amador la lette-ratura è un mezzo per avvicinare i suoi po liziotti aivalori che si sono impegnati a difendere.

«Come suona bizzar ramente antiquato tutto que-sto», riflette sorri dendo James Wood, il più brillante,ambizio so, erudito, stimato e detestato critico lette -rario del mondo anglosassone, nel prezioso manua-letto Come funzionano i romanzi pub blicato daMondadori (traduzione di Massi mo Parizzi, pagg.188, euro 18). «Secondo il culto dell’autenticità chedetta legge oggi, nulla è infatti più reale del lavorodella polizia; mi gliaia di film e serie televisive s’inchi-nano a questo dogma. L’idea che dei poliziottipotrebbero arricchire la propria comprensione dellarealtà standosene in poltrona con il naso af fondatonei libri colpirà senz’altro molti co me una eresiaparadossale».

Wood non è d’accordo con Jorge Amador (anchese sotto sotto ne ammira l’ideali smo). «Noi non leg-giamo per trarre benefici di questo tipo dai libri»,scrive in questo li bro che ha fatto molto discuterenegli Stati Uniti (titolo originale How fiction works).«Leggiamo narrativa perché ci piace, ci com muove,perché è bella, perché è viva e perché siamo vivi noi».Ma quando si tratta di criticarla, quando si tratta dianalizzare un romanzo al microscopio e giudicare seuno abbia successo o meno nel rappresentare il rap-porto tra la mente umana e il mondo cir costante inmodo credibile, allora le cose cambiano. Non perniente James Wood affi da le sue critiche al NewYorker e insegna «pratica della critica letteraria» aHarvard. Le sue idee su punto di vista, carat -terizzazio ne dei personaggi, dialoghi, metafore e resadei dettagli sono aristocratiche.

Con sublime falsa modestia si mette al la voro suquesti temi usando «i libri a portata di mano nel miostudio», cioè Tolstoj, Dosto evskij, Flaubert, James, Ford,Conrad, Woolf, Joyce, Updike, Hamsun, Kafka, Bellow,Roth, Green, Svevo, Pavese, Nabokov, la Bib bia,Pynchon e Verga. I suoi maestri sono Barthes eSklovskij. Il suo scopo, riassumere in modo schemati-co e conciso le opinioni che illuminano le sue fluviali

recensioni, in cui ha notoriamente accusato ZadieSmith di fare del «realismo isterico», e ha detto di PaulAuster che «sebbene vi siano delle cose ammirevoli neisuoi libri, la prosa non è una di quelle».

E qui c’è da divertirsi. Perché Wood sarà anche ungran presuntuoso, come sostengo no i suoi detrattori(Walter Kirn sul New York Times lo ha stroncato deri-dendolo), ma ha il coraggio delle proprie opinioni eco me ha detto al Corriere Philip Roth, «capi sce vera-mente come funziona la fiction». Per esempio: le sto-rie non gli interessano. Nessun accenno alle tramedei romanzi nel suo manuale di artigianato. Quelloche inte ressa a questo ex enfant prodige che ha de -buttato negli anni Novanta sulle pagine letterarie delGuardian è rispondere a domande co me: quantoreale è il realismo? Quando si può dire riuscita unametafora? Cos’è un per sonaggio? Che posto occupa-no i dettagli nei romanzi? Che cos’è il punto di vistae come funziona? E infine, perché la fiction ci com -muove? Le risposte di James Wood possono essereilluminanti o compiaciute, ma più so vente sonoentrambe le cose insieme. Come quando scrive che«una narrazione in prima persona è generalmente piùaffidabile che inaffidabile; e la narrazione di unaterza per sona onnisciente è generalmente più parzia -le che onnisciente». O quando affronta il te ma dellepieghe nel tempo narrativo, portan do a esempio –tutti insieme – Omero e «la moglie di Ettore che acasa riscalda l’ac qua per il suo bagno sebbene lui siaappena morto»; Auden che «tesse le lodi di Bruegelche nel Museo delle Belle Arti dipinge Icaro che cadee allo stesso tempo una nave che solca tranquilla leonde», e il McEwan di Espiazione, in cui «il protago-nista è un sol dato inglese che in mezzo al caos e lamorte di Dunkerque registra il passaggio di unachiatta». O quando sottolinea che «ogni me tafora osimilitudine è una piccola esplosio ne di fiction nellafiction più ampia del romanzo», e allo stesso tempo«è analoga alla fiction, perché porta in superficie unarealtà rivale».

Tutto questo – e molto di più natural mente – perdire molte cose su cui si può non essere d’accordo,salvo una: che chi leg ge riceve ogni giorno un dono.Può accadere quando Re Lear chiede il perdono diCorde lia o nel momento in cui Pierre in Guerra e pacerischia di essere fucilato dai soldati francesi, o intutte quelle scene nei libri, film o pièce teatrali, in cuicerte parole ordi nate secondo una certa particolaresequen za, «ci colpiscono e ci commuovono con laloro verità». E per un attimo quella verità ci scoprenuovi a noi stessi.

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Ce la faranno i nostri eroi? A salvare i libri, gli scritto-ri, la cultura, dagli artigli dei Grandi Editori, dallafiliera della Grande Distribuzione, insomma dallespire del Capita lismo e dalla «democrazia totali taria»nella quale viviamo? In tanto i nostri eroi comincianocol documentario nel cinema d’essai. Lunedì seraall’Azzurro Scipioni, sala che ogni cinefilo romanoama, c’è state la presen tazione di Senza Scrittori,docu mentario del critico Andrea Cortellessa con laregia di Luca Archibugi. Buon parterre nono stante ilcaldo: Stefania Melan dri vestita di bianco, padre efiglio Pedullà Walter e Gabriele, Walter Siti, FrancoCordelli e tanti altri.

Senza scrittori è un ti tolo arbasiniano, e la presen-ta zione del documentario spiega che «il libro è dive-nuto feticcio della nostra società del narcisi smo», chel’editoria di massa è una «industria della vanità», chei meccanismi delle classifi che sono «numerolatrici»,che «malcapitati lettori sono spinti al consumo piùimmediato e ir riflesso». A decostruire, demisti ficare,la spirale perversa del mercato librario ci si mette unAndrea Cortellessa di rosso ve stito, una specie «digrillo parlante curioso e molesto», insom ma una spe-cie di Michael Moo re in versione italica, che intervi-sta una serie di scrittori e prota gonisti dell’industrialibraria, grande o piccola: da Antonio Franchini, diret-tore della narra tiva Mondadori, a Giulio Mozzi, daStefano Mauri (Mauri Spa gnol) a Carla Bernina eLuca Ni colini del festival delle letteratu ra di Mantova.Come abbiamo fatto notare ieri ci sarebbe qualcosada dire sullo status del gril lo parlante in questione.Cortel lessa, puntualizziamo, pubbli ca con BrunoMondadori, Einaudi, Fazi, Le Lettere, Aragno,Chiarelettere; collabora con Adelphi, Bompiani,Garzanti, Mondadori; scrive su Stampa, Poesia,L’indice dei libri del mese. In breve più che un grillo

par lante sembra un bell’ingranag gione del perversomeccani smo.

Il documentario si apre con una bandiera rossa dilatta e su bito dopo c’è la premiazione dello Strega2009, durante la quale Antonio Scurati precisa che neuscirà distrutto, anche personalmente. E già si capisceun piccolo segreto per chi vo glia stare dentro maanche fuori dal meccanismo perverso: un po’ di aria dagenio gemebon do, della serie non vorrei esserci ma cisono, e si risolvono tanti guai relativi al vassoio in cuisi pilucca. C’è anche un aneddo to su Pasolini e Feno -glio, rac contato da Gabriele Pedullà. Fe noglio non volleritirarsi dallo Strega pur appartenendo alla stessa casaeditrice di Pasolini e il poeta gliela giurò, al punto discrivere su di lui una stroncatu ra post mortem.

I capitoli del documentario, che non è breve néparticolar mente brillante (al punto che uno degliintervenuti commen ta: «Ho concesso settanta minu tidi cortesia»), raccontano il mondo degli autori, quel-lo de gli editori, la distribuzione. C’è un capitolo sullaquestione del le librerie di catena, che insidia no l’esi-stenza delle piccole libre rie, usufruendo di sconticonsi stenti sui titoli di grande vendita. C’è l’intervistaad Antonio Franchini, in cui il capo della narrativaMondadori viene sim paticamente processato anchecon le musiche che mettono in evidenza ogni mini-mo imbaraz zo, potenza della postproduzione. C’èqualche divertente attac co a Margaret Mazzantini,che è un po’ come sparare sulla croce rossa. Ma aparte qualche meri to che andrebbe riconosciuto aigrandi editori, come per esem pio aver reso accessibi-le tutto un mondo di scrittori che fino a pochi annifa non sarebbero mai arrivati al mercato, per mo tividi conto economico ma anche di veti ideologici, c’èanche il momento in cui l’asino, o meglio il grillo,cade rovinosamen te.

APOCALITTICI INTEGRATISSIMIQUELLI CHE IL MERCATO LIBRARIO FA SCHIFO

Bruno Giurato, il Giornale, 30 giugno 2010

Il critico Cortellessa in versione Michael Moore gira un documentario sul declino dell’industria culturale. Tutti gli intervistati contestano un ingranaggio al quale sono felici di appartenere. E che garantisce libertà

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Ed è appunto la pars con struens. Perché siamod’accor do tutti: il fatto che libri commer ciali e libri «diricerca» vengano messi sullo stesso scaffale ha dellecontroindicazioni. E chi mai vorrebbe vedere chiusa lastorica libreria Tombolini di Ro ma? Però quandoCortellessa dice che a fare da contrappeso al mercatouna volta c’erano i critici e oggi i critici contano po coo niente, o quando scrive che il meccanismo perversopuò essere demistificato da soggetti «diversamenteresponsabili» (sic!) ci viene un sospetto. Che il grillo inquestione, tutt’altro che irresponsabile rispetto allafiliera di cui fa parte, stia rivendi cando un po’ di pote-re in più. E in modo anacronistico. Se quaranta o cin-quant’anni fa i filoni della critica erano più o menodue: quello crociano e quello gramsciano, e il lettorepoteva orientarsi, fidarsi di uno come Bo o Pampalonio Montale, ades so che si fa? Ora che gli indirizzi della

critica sono centinaia, al punto che ogni critico ha ilsuo, chi riattacca i cocci del senso co mune tra scritto-ri, critici, lettori, a parte il mercato? E infatti Cor -tellessa parla molto delle «falle» ma suggerisce pochi,anzi se ben ricordiamo nessuno, libri di «vera» lettera-tura italiana di oggi. L’unico aspetto propositi voriguarda Topolò. Trattasi di un comune al confine conla Slo venia di una sessantina di ani me, dove ognianno si svolge un festival «in piccolo» in cui i variautori non vengono ospitati in alberghi ma nelle caserimaste vuote, e in cui c’è, a quanto pa re, una felicecommistione tra scrittori, pubblico, popolazio ne.Bello, niente da dire. Ma pri ma che i nostri eroi si met-tano a organizzare festival d’essai a Titi (Rc) o aCampotosto (Aq) ci sa rebbe da ridiscutere il proble madei grilli parlanti, specie di quelli apocalittici e inte-grati. Ce la faranno i nostri eroi?

Oblique Studio

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«LA SOCIETÀ È DIVENTATA PIÙ CINICA, NON POTEVA CHE DIVENTARE PIÙ CINICA

ANCHE L’EDITORIA» Francesco Cataluccio intervistato da Andrea Cortellessa in Senza Scrittori

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