La rappresentazione tradizionale...1886 - Alessandro Marsiliani Bisognerà attendere quasi un secolo...

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119 I n un mio precedente articolo avevo sottolineato come la Logget- ta risultasse, in linea di massima, caratterizzata da contenuti rivolti al recupero e al mantenimento di una memoria identitaria del territorio piut- tosto che da resoconti di cronaca locale. Vorrei aggiungere che il signifi- cato di questa tendenza maggiormen- te affiora nel momento in cui si consi- dera che la memoria di un individuo - e a maggior ragione quella di una col- lettività - costituisce il fondamentale supporto ove collocare le esperienze del quotidiano. La memoria, nella accezione più ampia del termine, si rivela indispensabile componente per la formazione di una identità - individuale o collettiva che sia - per il suo evolversi, per la sua cresci- ta. Per estremo, e banalmente, potrem- mo pensare a un malato terminale di alzheimer che, pur vivo, ha in pratica smarrito ogni senso dell’esistere. Mi scuso per questo preambolo vaga- mente filosofico - che forse ho scritto più a uso personale che per i miei “manzoniani” lettori - ma talvolta sono preso da perplessità sull’utilità del mio pur minimo sforzo di scrittura e ho l’esigenza di chiarire le idee mettendo- le, come si dice, “nero su bianco”. Un argomento come il folclore invita, infatti, a considerazioni più generali sul significato di una conoscenza - in questo caso di un “sapere popolare” - che dopo essere stata fondamentale riferimento di comportamento e iden- tità per ampi gruppi sociali, si è for- malmente svuotata di legittimità e significato, e che, nonostante questa desautorazione, riesce a conservare un potenziale coinvolgimento emotivo e intellettuale. Giungendo all’argo- mento, c’è da dire che in Italia si è cominciato a interessarsi di folclore da meno di un secolo, cioè da quando sono iniziati i grandi cambiamenti sociali - omologazione dei modelli di classe, dilatazione e intersezione degli spazi culturali - che hanno intaccato i presupposti della sopravvivenza di questa originale forma di sapere cau- sandone la progressiva dispersione. L oggetta L la lug-set 2013 dalla Tuscia Giancarlo Breccola Montefiascone Su alcune testimonianze di folclore locale La rappresentazione tradizionale “Sega la vecchia” o “Segavecchia” è la ricostruzione di un rituale che si usava nelle campagne per esorcizzare il passaggiodel tempo, il trascorrere delle stagioni, la loro ciclicità

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In un mio precedente articoloavevo sottolineato come la Logget-ta risultasse, in linea di massima,caratterizzata da contenuti rivolti

al recupero e al mantenimento di unamemoria identitaria del territorio piut-tosto che da resoconti di cronacalocale. Vorrei aggiungere che il signifi-cato di questa tendenza maggiormen-te affiora nel momento in cui si consi-dera che la memoria di un individuo -e a maggior ragione quella di una col-lettività - costituisce il fondamentalesupporto ove collocare le esperienzedel quotidiano.La memoria, nella accezione più ampiadel termine, si rivela indispensabilecomponente per la formazione di una

identità - individuale o collettiva che sia- per il suo evolversi, per la sua cresci-ta. Per estremo, e banalmente, potrem-mo pensare a un malato terminale dialzheimer che, pur vivo, ha in praticasmarrito ogni senso dell’esistere.Mi scuso per questo preambolo vaga-mente filosofico - che forse ho scrittopiù a uso personale che per i miei“manzoniani” lettori - ma talvolta sonopreso da perplessità sull’utilità del miopur minimo sforzo di scrittura e hol’esigenza di chiarire le idee mettendo-le, come si dice, “nero su bianco”.Un argomento come il folclore invita,infatti, a considerazioni più generalisul significato di una conoscenza - inquesto caso di un “sapere popolare” -

che dopo essere stata fondamentaleriferimento di comportamento e iden-tità per ampi gruppi sociali, si è for-malmente svuotata di legittimità esignificato, e che, nonostante questadesautorazione, riesce a conservareun potenziale coinvolgimento emotivoe intellettuale. Giungendo all’argo-mento, c’è da dire che in Italia si ècominciato a interessarsi di folcloreda meno di un secolo, cioè da quandosono iniziati i grandi cambiamentisociali - omologazione dei modelli diclasse, dilatazione e intersezione deglispazi culturali - che hanno intaccato ipresupposti della sopravvivenza diquesta originale forma di sapere cau-sandone la progressiva dispersione.

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dallaTuscia

Giancarlo Breccola

Montefiascone

Su alcune testimonianzedi folclore locale

La rappresentazione tradizionale“Sega la vecchia” o “Segavecchia”

è la ricostruzione di un ritualeche si usava nelle campagne

per esorcizzare il passaggiodel tempo,il trascorrere delle stagioni,

la loro ciclicità

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Ciò che è stato consapevolmente rac-colto e “salvato” è quindi una minimaparte di quello che costituiva la prezio-sa eredità culturale e sociale di moltidei nostri progenitori. Nei limiti delpossibile, e in questo caso con riferi-mento al territorio di Montefiascone,cercherò quindi di riunire le tracce piùantiche di questo singolare “tesoro”.

Tra le più vecchie notizie che apronouno spiraglio sulla società montefia-sconese del passato troviamo alcunenote che Francesco Orioli - scienziato,fisico, filosofo, medico, archeologo,poeta, letterato, avvocato, giornalista,politico, nato a Vallerano da padreviterbese e madre montefiasconese il18 marzo 1783, morto a Roma il 5novembre 1856 - ci fa indirettamentegiungere a mezzo di alcuni suoi mano-scritti autobiografici. (Una sintesi diquesti testi - tra cui l’autografo deiRicordi della mia vita, trovato nel 1960presso la Libreria Antiquaria “LeCave” di Roma e oggi conservato pres-so la Biblioteca Anselmi di Viterbo - fupubblicata nel 1892 da Giacomo Lum-broso con il titolo Roma e lo statoromano dopo il 1789 da una ineditaautobiografia).Setacciando questi testi è possibilerinvenire brevi indicazioni di carattereeterogeneo come, ad esempio, un con-tributo lessicale relativo al termine“ciufèca”, il cui significato, spiegatodal montefiasconese Pietro Savignoni,è riportato in una nota al testo curatoda Lumbroso. Nel Grande Dizionariodella Lingua Italiana di Salvatore Bat-taglia troviamo: ciuffeca, vino cattivo eguasto, liquido schifoso; figur. donnavecchia e brutta.

Ma sentiamo Savignoni:

“La ciufeca è una specie di vino fattocolle scolature che si raccolgono quan-do si svina, e si allungano con acqua ocon “l’acquato”, acqua in cui per circaun mese siasi lasciata macerare lavinaccia. E’ un vinello di cattivo gusto e

di nessuna forza, donde il motto Checiufeca - E’ una ciufeca per indicare unvinaccio”.

Oppure una breve nota sui matrimonie sulla vita nel contado.

“Mio nonno tre o quattro volte all’annoconducevami, in occasione di contrattidi nozze, ai quali interveniva egli comenotajo, in casa degli sposi. V’era inoltreil divertimento di parecchi pranzi dicontado in primavera...”.

E il più pittoresco brano relativo alle“fraschette” d’epoca.

“Il Montefiascone, dov’io era ito giovi-netto, era un Montefiascone assaidiverso da quel che poscia divenne.Con molta religione, o a dir megliosuperstizione andava congiunta ne’ piùde’ terrazzani suoi certa barbarie, chegli anni venner poi sradicando. I vizidominanti del primo tempo erano labeveria e l’accoltellare, e questo deriva-va da quella. I cittadini quando voleva-no vendere il vin loro a la minuta (e sidavan tutti al venderlo come principalderrata una o più volte nell’anno), tra-sformavan la casa in taverna, dato persegno una frasca verde fuori dell’uscio;e subito il pian terreno, e il sotterraneodella cantina co’ banchi drizzati, e co’bigonci facienti ufficio di scranne, ecolle tavole, pativano invasione dallaplebe de’ beoni, e l’appartamento supe-riore dagli ottimati della città, ches’avvinazzavano non men della plebe,non ancor fattavi comune la benedettaconsuetudine delle botteghe da caffè,che oggi han pressoché dato scacco-matto a’ tavernaj. Si sceglieva per solitoil giorno della festa per la spillaturasolenne; e v’era gente per chi cioncar illiquido di quattro o cinque boccali(poco più di due litri) era bagnare appe-na la gola: nel qual proposito grande esegnalata correva la fama d’un talesoprannominato il Moscetto che si vuo-tava ei solo due mezzette ben piene inun unico e non interrotto sorso”.

Ma anche un paio di pagine fitte diinformazioni preziose e di confermesu alcuni aspetti noti delle usanze qua-

resimali, del carnevale, dei giochi, deiriti primaverili e dell’innamoramento.

Infinite ne’ dodici mesi erano le proces-sioni colle confraternite, e colle frateriedi tutti i colori, le funzioni di chiesa, leprediche, le devozioni private e pubbli-che, e le madonnine delle strade collampanino innanzi, acceso la sera, ecolle litanie recitate dal popolo a corosul metter fuori de lumi. Nel carnevalefacevan folla e baldoria le maschere e ibirri del purgatorio, cioè cittadini inabito di birri, che si facevano lecito dicatturare i passanti, condurli innanzi albanco d’un Podestà posticcio, sedentein piazza pro tribunali, e farli condanna-re a un’ammenda arbitraria e più omen forte a prò dell’anime penanti, senon in quanto v’eran sempre alcuni,che facevan vista di ritrosi e la davanoa gambe, per farsi inseguire e raggiun-gere, contenti di pagar multa doppiaper la soddisfazione d’aver fatto disop-pilare la milza ai manipoli della devotasbirraglia. Nel venerdì santo, la proces-sione notturna del Cristo morto, dicarta pista, portato in bara da quattropreti per la città, con luminaria infinitae gran coda di popolo. A mezza quare-sima il segar della vecchia e l’abbru-ciarne il fantoccio in tutte le corti dellecase e nelle piazze.L’ultima sera di carnevale, dopo ilsuono delle campane, che ne annunzia-vano la fine, intagliavano una figura dicarta a forma d’una vecchia con settegambe. Ogni domenica si tagliava unagamba: l’ultima la mattina di Pasqua. Ilgiovedì di mezza quaresima credo chesi segasse la Vecchia per mezzo: chi sache non si facesse anche in pubblico,d’un qualche fantoccio (lettera daViterbo del sig. Giuseppe Pierotti)Il dott. Pietro Savignoni aggiunge: “Io hoanche inteso ma vagamente raccontare,che a mezza quaresima, tanto a Viterboche a Montefiascone, si soleva dai fan-ciulli portare attorno una vecchia pove-ra, che adescata da qualche soldo e daquel poco da mangiare e da bere che adora ad ora le si donava, di buona vogliasi lasciava da quei monelli dar la bertae trasportare, finché fatta sedere si pone-va fine fra le grida alla festa bruciandoper la vecchia un fantoccio, che forseprima si sarà segato, come certamentesi segava la vecchia di carta nelle case”.Per s. Giovanni d’estate i fuochi saltatidai fanciulli, e a mezza notte le maliedegl’innamorati, o de’ vendicativi; e ledivinazioni per l’arte presunta di diavo-lo. Nel primo di maggio l’albero delMajo, e l’infiorata davanti all’usciodella bella, dove non fiori soltanto, ma

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Sin dal Medioevo lo charivari (in italiano scampa-nata) era un forma di protesta fatta da un gruppodi persone che urlando e facendo un gran chiassoesprimevano la loro disapprovazione, specialmen-te in occasione di matrimoni male assortiti, peretà o ceto, e nei casi di adulterio. In tale modo sicriticavano comportamenti che costituivano unaviolazione delle norme sociali

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grossi e odorosi limoncelli, moccichinidi seta, tagli d’abito... e intanto il ganzoin guardia col chitarrino a cantar lamattinata all’ora del gallo, finché ladiva contadina o artigianella, sul rimet-ter del giorno, apriva di soppiattol’uscio, per intrometter i doni (s’in-tenda bene), e spariva subito dopo, manon senza il se cupit ante videri, mentrel’abbarbajato barbagianni contento diquella vista se ne andava pe’ suoi fatti.Quando il ganzo, per qualsivoglia ragio-ne, ha cessato di amoreggiare con quel-la donna, e nasce per contro dell’odiotra loro due, allora invece dell’infiorata,mette lui dello stabbio, erbacce, fichisecchi spaccati, con una fava dentro -nota di Pietro Savignoni.Per pasqua, la pizza, cioè il panbenedet-to, condito colle spezie e collo zucche-ro, e il salame cogli ovi duri; e dellapasta di pizza figure e allusioni itifallichesenza fine, il bracone, il babone, la scar-sella, e peggio, presentate ed accettatesenza malizia e santificate dalla benedi-

Èdatato 7 marzo 1851 il documento più remoto fino-ra conosciuto relativo al fattivo interessamento delcomune di Montefiascone alla costruzione di una“strada ferrata”. Da allora molti altri scritti attesta-

no le continue pressioni al governo pontificio e poi alministero dei LL.PP. del nuovo Regno per favorire il pas-saggio qui anziché altrove della nuova locomozione.Lunghissimi furono i tempi attuativi per la costruzionedella ferrovia. Montefiascone, infatti, celebrò l’inaugu-razione ufficiale della “strada ferrata” facente parte deltratto Attigliano-Viterbo il 15 agosto 1886, ben trentacin-

que anni dopo. Ne consegue pertanto che i risultati eranofrutto di un lungo e costante impegno. In quella corsa checiascun Comune attuava per ottenere il privilegio del pas-saggio della ferrovia e del relativo impianto di una stazio-ne, non ci fu risparmio di strategiche alleanze né clamoro-si rovesciamenti di posizioni.La storia della progettata ferrovia Viterbo-Valentano, cheproveniente da Civita Castellana doveva arrivare al Tirre-no, è l’esempio di come contrapposti interessi facevano (efanno) muovere amministrazioni comunali, politici, dele-gati e personaggi vari.

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zione del prete. Poco stante, la festa disan Flaviano del Borgo, e il giuoco trafanciulli del pinza-culo (sit venia verbo),dove un ragazzo abbracciato l’ovo duronel cavo della mano, tanto che solaemergesse la punta, faceva da un altroragazzo batter su quella dalla puntad’un altro ovo duro, con questa legge,che l’ovo restato intero guadagnaval’altro [in Roma: fare a scoccetto].Poi la scampanata per le nozze de’vedovi1. Poi cento altre galanterie nontutte passate di moda. Tal era il Monte-fiascone: ma tale anco era il Viterbo,l’Orvieto, la Bagnorea, tutta la contra-da della Tuscia suburbicaria verso il1798: con questo di più che a illumina-zione notturna delle strade nell’abitatonon bisognava pensarvi. Chi volevanon rompersi il collo nel fitto bujoaveva di notte a provvedersi d’un lan-ternino, scoperto, o sordo, o d’unfascio di canne accese, o d’un tizzonedel focolare da dimenare per via. Nébisognava pensare a strade di comuni-

cazione tra città e città, per pococh’esse fossero fuor della lunghezzadella Cassia, non manco pessima inmolti suoi tratti. Così l’inverno niunviaggiava; e la state il viaggio non erabuono che pel tempo secco. Guai sepioggia sopravveniva! Per cagiond’esempio un proverbio era nell’Orvie-tano; e il proverbio consisteva in unaspecie d’imprecazione: Possi andar aTodi quando piove!

(fine prima parte)1La scampanata negli articoli de “la Loggetta”:Cimarra, Luigi, C’è infiorata e… infiorata! (“la Log-getta” n. 56, 2005, p. 18); Corradini, Cesare, LaScampanata (“la Loggetta” n. 64, 2006, p. 71);Mancini, Bonafede, Si permettevano a clamori not-turni in una cosiddetta Scampanata, (“la Loggetta”n. 73-74, 2008, p. 26); Cimarra, Luigi, Oggi parlia-mo della… “lumaca”, (“la Loggetta” n. 90, 2012, p.45); Tramontana, Dario, Novembre: le feste diSanta Cecilia, San Clemente, Sant’Andrea, SanMartino, (“la Loggetta” n. 93, 2012, p. 123).

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Normando Onofri

Le ferrovie sognateLa “Viterbo-Montefiascone-Marta-Valentano”

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dallaTuscia

Giancarlo Breccola

Montefiascone

Su alcune testimonianze di folclore locale

L’abitare nelle grotte - e a Montefiascone questoavveniva specialmente nella frazione delle Coste -

non era una prerogativa locale…

1886 - Alessandro MarsilianiBisognerà attendere quasi un secoloprima di imbatterci in un recuperoprezioso, anche se circoscritto aicanti popolari, realizzato nel 1886 daAlessandro Marsiliani. L’appassio na -to raccoglitore riuscì, all’epoca, acompilare una delle più organicheantologie di canti popolari dei dintor-ni del nostro lago. Così lo stessoautore introduce il suo lavoro.

Son trascorsi molti anni da che alprincipiar della estate fuggendo ilcaldo di Roma mi recai a Montefiasco-ne [...] Quivi mi trattenni fino all’au-

tunno, girovagando poi per le terre epaesi dell’antico ducato di Castro. Perisfuggir l’ozio e la spenzieratezzacotanto amica dei villeggianti, io midiedi attorno a raccogliere i cantipopolari. Ne dimandai agli entràni -(Chiamano entrani i campagnuoli, iquali abitano entro la città, e foresiquei che vivono nella campagna. Ilvocabolario registra solamente lavoce forese, per colui che sta fuoridella città: la stessa ragione consigliaa chiamare entrani quelli che stannodentro. Questo vocabolo è tuttoravivo a Montefiascone e ne’ dintorni, evisse fin qui ignorato, come tantiugualmente belli e di legittimi natali;giacché se di fuori nacque il forese, aldi dentro venne al mondo purel’entrano. E perché ora vorresteammazzarlo?) - ai foresi, ma alle mie

richieste si rispondeva spesso conrisate; perocché que’ campagnoli nonfanno punto stima de’ loro canti: vintaperò la loro ritrosia, ne raccapezzainon pochi, e ne ebbi ancora dalle fan-ciulle del contado. Alcuni canti rac-colsi pure alla Commenda, che così èchiamato un villaggio e vasto teni-mento una volta dei cavalieri diMalta…

Le motivazioni dei suoi interessi ven-gono esposte dal Marsiliani in questitermini.

Per mia indole io prediliggo gli abita-tori delle campagne. E preferisco que’semplici parlari alle locuzioni pensa-te, alle finezze ingannevoli della genteazzimata. E se quaggiù non è spentoancora l’amore di fratellanza, io

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penso viva Dio che ogni animogentile sia inclinevole versocoloro che il più delle voltesono travagliati dalla sciagura,e campano la vita quasi a ludi-brio delle ambizioni cittadine.Per questo affetto, per averconosciuto da vicino i bisogni,i patimenti, la vita umile ecostumata dei campagnuoli,ebbi vaghezza di raccogliere icanti dell’amore schietto esfortunato [...] Coll’intendi-mento che altri facciano altret-tanto nelle rimanenti contraded’Italia [...] Un libro che riunis-se tutti i canti campagnuolidelle diverse provincie sareb-be quasi lo specchio dell’ani-ma che informa il nostro popo-lo…

Affiora, dal testo, una sensibili-tà e una consapevolezza che cifanno comprendere come illavoro del Marsiliani fosse insintonia con quell’attenzione verso ilsapere popolare che proprio in queglianni si stava concretizzando special-mente per merito di Ermolao Rubieri,Angelo De Gubernatis e GiuseppePitrè. Nella silloge, che come accenna-to considera soltanto i canti nellevarie forme, non compaiono indica-zioni sugli aspetti del vivere quotidia-no; tuttavia, da un passo della prefa-zione, è possibile estrarre brevi indi-cazioni di qualche interesse.

Tutto il resto d’autunno io mi riparaia Latera, piccolo castello ove nacquemio padre. Era il tempo della vendem-mia [...] Talora nel giorno io sorpren-deva brigate di giovenette tutte inten-te su i capistei a scegliere il frumento,o nel mentre sfogliavano le pannoc-chie del grano siciliano; e sedutomi acanto ad esse anch’io m’adattava aintrecciarne le reste per appenderlepoi su lunghe pertiche per conservar-le; e in questo lavoro non cessava maidal farmi dire le canzone. Ciò avveni-va pure quando nella giornata que’villani scotolavano e ammaccavano lacanapa dinanzi le proprie case, e infine la dirompevano con la maciulla.Nella sera poi i monelli eran solitiammontinare tutta la lisca rimasta sulterreno, e ne componevano dei falò; ementre venivano in gara que’ garzon-celli a chi meglio spiccasse il saltosopra le fiamme crepitanti, all’intornoqua e là in varii capannelli tu vedevi lemadri loro insieme con altre femmi-nette in mezzo ad incessante cicalec-cio trarre il filo dal pennecchio, e tor-cendo torcendo empirne il fuso.

1918 - Alberto de AngelisPasseranno altri trenta anni e il gior-nalista Alberto de Angelis pubbliche-rà sulla rivista “Rassegna Nazionale”un articolo - breve, ma incredibil-mente ricco di informazioni - relativoalle tradizioni del contado di Monte-fiascone. Tra le premesse iniziali,però, si trova un’affermazione azzar-data e discutibile.

Non delle bellezze artistiche, né deiricordi storici della cittadina, voglia-mo qui occuparci, sibbene di un’altraparticolarità per la quale essa sirende degna della maggiore attenzio-ne per parte degli studiosi italiani ostranieri: e cioè dei suoi usi e costumie specialmente di quelli del suo con-tado. Tali usi e costumi sono quasitutti esclusivamente propri a Monte-fiascone, e di essi alcuni, per il lorointimo carattere, o per essere statisopraffatti da più civili usanze, sonoda pochi conosciuti. Forse gli stessiabitatori ne avranno perduta frabreve la tradizione. Opportuno ci èquindi sembrato additarli all’attenzio-ne degli studiosi.

In realtà molti degli usi e costumidescritti non si possono considerare“esclusivamente propri a Montefiasco-ne” in quanto, come vedremo, siritrovano diffusi, con varianti, inaltre località italiane e anche euro-pee.

[Emigranti] Dei diecimila abitanticirca che il Comune di Montefiascone

conta, poco meno della metà ènella città, gli altri vivono sparsipel contado. Molti poi non vivononé nell’uno né nell’altro luogo, masono assenti per definitive o tem-poranee emigrazioni, specialmentenelle Americhe. Ed è sopra tuttoalla emigrazione che si devel’affievolimento, e talvolta addirit-tura la scomparsa, dei costumilocali. Spesso l’emigrante che rim-patria - l’americano come a Monte-fiascone viene designato - non sapiù vivere nel suo paese, vi si trovaa disagio. Egli ha assorbito i gustipiù raffinati delle lontane e più civi-li contrade, vuole una buona casa,crede più alla Camera del Lavoroche al Parroco, dimentica, se nonaddirittura disprezza, le tradizionifamigliari e paesane.

[Grotte e abitazioni] Un tempo lamaggior parte dei contadini abita-va grotte scavate nel tufo e appenaprotette da una porta malferma:

vere abitazioni da trogloditi; ora gli“americani” le hanno rinnegate perabitazioni grandi ed ariose - con cuci-na, acqua potabile, talvolta persinocol bagno - che costruiscono per pro-prio conto di ritorno dal nuovo Conti-nente. Vi sono infatti famiglie di con-tadini assai ricche; so di alcune chedispongono persino di quattro e cin-quecentomila lire. È vero però che inquesti casi sono assai numerose, epiù che famiglie potrebbero dirsisocietà patriarcali. Esse continuanoperò a condurre vita semplice e pri-mitiva o quasi: progresso e sociali-smo, per quanto a Montefiasconesiansi fatta larga strada, non hannoucciso del tutto le tradizioni, e i con-tadini hanno ancora abbastanza vivoil sentimento, religioso.

L’abitare nelle grotte - e a Montefia-scone questo avveniva specialmentenella frazione delle Coste - non erauna prerogativa locale. Il fenomenoera largamente diffuso laddove lamorfologia del territorio lo permette-va. Ne è testimonianza esplicita, perportare un esempio a noi vicino, ilnome di paesi quali Grotte di Castroe Grotte Santo Stefano.

[L’abbigliamento] È durante le grandifeste che meglio si possono ammirarele caratteristiche di questo popolo.Gli uomini vestono oramai un po’come tutti i contadini dell’Italia cen-trale: giacca e pantaloni lunghi, e por-tano i baffi. Ma quelli più vecchi, oprovenienti dalle più remote campa-gne, hanno sovente la faccia rasata,

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Le maritate si distinguono a prima vistadalle nubili, perché le prime oltre alla col-lana di coralli possono portare al colloanche un vezzo di perle, mentre le perlesono vietate alle zitelle…

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portano orecchini e cappello a pan dizucchero fermato da un laccio sotto ilcollo, abito colorato, pantaloni corti,calze lunghe, scarpe scollate simili aquelle dei preti. Le donne invece,durante le feste, indossano costumiche conservano tutto il tipo tradizio-nale. Sono fatti dei colori più sma-glianti, di broccato o di raso lucido afiori. Come tutte le contadine delLazio, quelle di Montefiascone indos-sano l’una sopra all’altra sei o settevesti, e non so quanti corsetti sopra ilcorpetto. Al collo un fazzoletto di setao ricamato e terminante in frangiedorate di lana. In capo un asciugama-no di tela o di velo pure ricamato; efra i capelli il classico spadinod’argento con una manina chiusa perimpugnatura. I costumi delle contadi-ne sono di due specie: di gran gala ecorrispondono a quelli ora descritti;di mezza gala o galetta ches’indossano generalmente di inverno,e consistono in una veste di lana gial-lo-crema o giallo arancio, o verde-cupo, con giubbetto di velluto. Lemaritate si distinguono a prima vistadalle nubili, perché le prime oltre allacollana di coralli (ad essa appendonogeneralmente medaglie papali: ne hovedute delle interessantissime di Sedivacanti) possono portare al colloanche un vezzo di perle, mentre leperle sono vietate alle zitelle. È facilecomprendere come, dati i colorivistosi degli abiti, l’abbondanza degliori - collane, spille, braccialetti e gros-si orecchini a pendente - l’aspetto diuna folla di contadini di questo paesesia dei più variopinti e pittoreschi ecome essi portino la nota di allegrez-za più chiassosa nelle caratteristichefeste locali.

Sull’abbigliamento contadino c’è dadire che effettivamente a Montefia-scone il costume tradizionale si eraconservato più a lungo che negli altricentri del viterbese. Anche Bonaven-tura Tecchi, in un breve scritto del1949, prende atto e sottolinea questapeculiarità.

Proprio in uno di questi paesi antichi[alludendo a Montefiascone] - chefino a pochi anni fa era l’unico a man-tenere tra le donne del contado ilmodo di vestire dell’Alto Lazio -vedrete forse le più graziose ragazzedelle nostre parti.

(fine seconda parte)

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Le numerose associazioni religiose attivenel passato a Montefiascone (confraterni-te, congregazioni, pie unioni) spronavanoprincipalmente alla preghiera e al rispetto

dei precetti religiosi. Ognuna aveva una specificapeculiarità riferita al guscio del proprio cenacolo

ma non auspicava né desiderava unificarsi con altre, anche se d’estrazionesimile. A titolo d’esempio, la confraternita degli artigiani muratori e carpentie-ri era ben orgogliosa d’essere separata da quella degli artigiani fabbri e mani-scalchi, oppure chi era dedito a portare conforto ai carcerati non curava imalati e così via.

Anche se l’associazionismo religioso era molto sentito e praticato non esiste-va, purtroppo, un’organizzazione di volontariato autonomamente attiva chesi fosse fatta carico dei problemi socio-sanitari di primo soccorso dei piùdeboli o, semplicemente, di chi ne avesse avuto bisogno.

Per avere il riscontro di una associazione mista, cioè a dire “religiosa” nelsenso di servizio agli altri e “laica” nel concetto di struttura organizzata ed’azione, Montefiascone deve attendere l’anno 1910 con l’avvio della CROCEVERDE, nata sulla scia dell’omologa associazione fondata a Milano nel 1899. E’cominciando da allora che s’ha testimonianza documentata di volontari citta-dini di varia estrazione organizzati per presta-re assistenza con lettighe (o corro barel-la, come si diceva allora) per il cele-re trasporto in ospedale di malatio feriti e, possibilmente, dareun iniziale soccorso.

Il rinvenimento del primodocumento riguardante lanuova associazione èuna lettera datata 22luglio 1911 del presiden-te in carica, Cernitori,indirizzata al sindacodella città. Tale missiva,sottoscritta a nome del“Consiglio Direttivo del -la Compagnia di Pub bli -ca Assistenza CROCE VER -DE”, è la richiesta d’asse -gnazione di un “notevolesussidio Municipale a favoredella [scrivente] istituzione”che, avendo già dimostrato l’uti -lità e l’efficacia del proprio lavoro,s’è guadagnata la generale simpatia eammirazione.

Non casualmente ho definito “mista” quella prima associazione di volontaria-to. Dall’esame dei pochi documenti fin qui ritrovati è emerso che don LatinoSalotti, decano della cattedrale, non fu estraneo alla nascita e supporto diquella lodevole iniziativa. Anzi, si ha certezza che di quell’associazione rico-prì anche la carica di segretario, confermando così anche l’indiretto “benesta-re” vescovile su quella iniziativa che impostava la propria attività umanitaria

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la Croce VerdeVolontariato d’inizio ‘900 a Montefiascone

NormandoOnofri

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Nel testo di Alberto de Angelis possiamo trovarealtre informazioni relative ad alcuni momenti disocialità devozionale e ricreativa, certamentearticolati e legittimati dalla consuetudine e dalla

tradizione. Ad esempio sulla popolare “fiera dei canestri”che si svolgeva, e che ancora si svolge, in occasione dellafesta di san Bartolomeo apostolo.

Va fra queste annoverata anzitutto la festa dei canestri chericorre il 24 agosto, e si fa a Borgariglia, una località prossi-ma al Duomo, a monte del paese e dalla quale si dominanol’azzurra distesa del sottostante lago e i paeselli e le collinefolte di vegetazioni che al lago fanno corona. Questa festaconsiste in una fiera di canestri di vimini di tutte le specie edi tutte le grandezze, da quelli grandissimi e rozzi, di quasiun metro di diametro per usi campestri e casalinghi, a quel-li - veri ninnoli colorati - di appena pochi centimetri di diame-tro. I contadini fanno in questo giorno la provvista dei cane-

stri per tutta l’annata. Alla festa partecipano anche i signoridel paese, i Villeggianti, e ad aumentarne la vivacità contri-buisce il commercio ambulante fatto ad alta voce di altrigeneri da fiera, specialmente giocattoli, trombette, fischi,campanelli, ecc. Quanto all’origine di questa festa, mi si èdetto che i contadini dopo la mietitura, non avendo nulla dafare, si recano nella vicina vallata del Tevere a raccoglierevimini coi quali fanno canestri, e che appunto per smaltirli sisarebbe pensato di istituire questa festa.

Appuntamenti di questo tipo, dedicati al commercio dicontenitori in vimini, dovevano necessariamente farparte di ogni realtà rurale, anche se quello di Montefia-scone, uno dei pochi sopravvissuti nel territorio, già allo-ra sembrava evidenziarsi per vitalità e partecipazione.Nel testo si trovano poi brevi note sulla festa di Sant’An-tonio, sulla presenza contadina nel paese e sulle festivitànatalizie.

Giancarlo Breccola

Montefiascone

Su alcune testimonianzedi folclore locale

(segue dal numero precedente)

dallaTuscia

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Anche abbastanza singolare, e certamente assai pittoresca, èla cerimonia della benedizione degli animali che si compie ilgiorno di S. Antonio avanti la chiesa di Sant’Andrea. Un alta-re è drizzato nella strada, avanti alla chiesa, e lì, celebrata lamessa, il sacerdote benedice cavalli, muli, vacche, pecore,buoi, maiali tutti infiocchettati, e che isolatamente, a coppie,o a frotte, i contadini fanno sfilare avanti all’altare.Nelle principali feste religiose dell’anno i contadini non man-cano mai di recarsi a Montefiascone. Le vie e le piazze delpaese si convertono in quelle occasioni in una specie dirustico salotto nel quale i contadini - uomini e donne, vecchie fanciulli - si assiepano e si pigiano l’un contro l’altro,restando così per ore ed ore a pavoneggiarsi o a complimen-tarsi, a fare acquisti, o a stabilire intese e contratti.Caratteristico è un costume del Natale: la festa nella quale icontadini lasciano la consueta polenta per un buon cappone.È una vera strage di tali volatili che si fa in quel giorno, ed icontadini ne raccolgono a mazzi le piume per appuntarselesul cappello. E non le sole piume essi vi mettono, ma glioggetti più strani, emblemi, distintivi: vi mettono di tutto. Unricco possidente del luogo incontrò un giorno un contadino,e fu sorpreso di vedergli il cappello tutto costellato dei variingranaggi ed elementi di un orologio. Richiesto della ragio-ne di così curiosa mostra, il contadino rispose: “Signò(Signore) mi si era rotta prima la vetrina (il vetro), poil’arbero der centro (l’asse), poi la minutaria (la sfera deiminuti), e allora ecco cosa ho fatto”.

Interessante la conferma dell’uso della polenta, peraltrogià noto, quale alimento della cucina contadina locale; lapolenta, infatti, dopo una prima iniziale curiosità, erastata snobbata dai ceti più agiati, divenendo il cibo base

delle classi meno abbienti dell’Italia settentrionale e, inmisura minore, delle altre regioni italiane.E interessanti sono anche le noterelle sui festeggiamentiche, permeati di componenti liberatorie e propiziatorie,concludevano i faticosi cicli dei processi produttivi.

Anche il termine della mietitura e della vendemmia - i duemassimi avvenimenti dell’annata - sono celebrati con pranzie con balli.Di questi ultimi, due ne ricordiamo dei più tipici. L’uno è ilballo del fiaschetta, e si fa in genere, quando c’è una partitadi vino da smaltire. Il ballo si tiene per lo più in una cantinao in una bettola; per ogni giro di ballo, dama e cavaliere deb-bono essere ognuno provvisti di un fiaschette di vino, e men-tre ballano e con un braccio si tengono reciprocamenteavvinti, con l’altro debbono portare il fiaschette alla bocca etracannare. Quando sono sazi di bere, spargono in terra ilrimanente del vino. Attorno sono gli spettatori: uomini chefumano, donne che gridano ed incitano. In breve i fiaschisono stati consumati, e il locale, debolmente rischiarato,affumicato, e ammorbato dall’acre odore del tabacco e delvino, assume l’aspetto di una scena orgiastica. Uomini edonne, più che inebriati, sono oramai divenuti audacissimi,frenetici, e si permettono le più azzardate e salaci licenze diparole e di gesto. E facile comprendere come queste festepossano talvolta dar luogo a incidenti, e si accendano risse,e il sangue scorra.Un altro genere di ballo che conduce spesso alle stesse con-seguenze è il ballo del sospiro. Esso si fa per lo più nell’aia.Dopo il primo giro, la donna che lo ha compiuto con un bal-lerino qualsiasi, trae un sospiro. “Per chi sospiri?”, le doman-da il compagno. “Per il tale”, ella risponde pronunciando ilnome di uno dei presenti. È questi il designato a compierecon lei il prossimo giro; ed è naturale che queste preferenze,così apertamente espresse, dian luogo spesso a fiere dispu-te di gelosia, e ne seguano bronci e liti.Quanto al genere dei balli, può dirsi che essi si sono di moltodiscostati da quelli tradizionali. Una volta non si eseguivache il saltarello, od altri balli nei quali i due danzatori si man-tenevano a rispettosa distanza. Ora son subentrati il valzer ela polka, ed anche altri balli più moderni, nei quali le coppiesi tengono più avvinte, e che son ricercati prevalentementecome occasione di amoreggiamenti.

A conclusione dell’articolo, De Angelis prende in conside-razione i momenti più importanti che caratterizzano lavita di ogni individuo quali il fidanzamento, il matrimo-nio, la morte.

(Il fidanzamento)Il fidanzamento è stretto da un regalo che i due giovani siscambiano, e consiste, generalmente o in un coltello conincise iscrizioni affettuose «Ti amo» - «Pensa a me» ecc. oppu-re in forbici o in giarrettiere che il giovine dà alla ragazza, oin una ricca fascia per pantaloni che essa dà a lui. Durante lamietitura poi è consuetudine che la fidanzata regali al fidan-zato un camiciotto turchino da lavoro a fili bianchi e bottonidi pietre bianche e rosse. Se fanno collera si restituisconotutti questi regali. Dopo l’esposizione delle Sacre Reliquie,nella seconda festa di Pasqua, molte ragazze, vestite dimezza gala, si recano in chiesa e ne escono ognuna accom-pagnata dal proprio fidanzato. È questa una specie di parte-cipazione pubblica che i due giovani fanno del loro fidanza-mento.

dallaTuscia

“...Le vie e le piazze del paese si convertono in una specie di rustico salottonel quale i contadini... si assiepano e si pigiano l’un contro l’altro, restandocosì per ore ed ore a pavoneggiarsi o a complimentarsi, a fare acquisti, o astabilire intese e contratti...”

La popolare “fiera dei canestri” che ancora si svolge in occasione della festadi san Bartolomeo apostolo

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A questo punto ritengo opportuno integrarele testimonianze del De Angelis con quellepresenti in un testo che, pur scritto 34 annidopo, è mosso da un più attento e consapevo-le metodo scientifico. Si tratta della tesi di lau-rea di Luciana Volpini, intitolata “Dalla cullaalla bara nelle tradizioni popolari di Montefia-scone”, discussa nel 1952 presso l’universitàdegli studi di Roma e curata da Paolo Toschi,forse il più importante studioso italiano di tra-dizioni popolari dello scorso secolo.

[La ragazza che cerca di prevedere quale sarà ilsuo fidanzato] pone la sera sotto il guanciale treconfetti che ha avuto in dono da una sposanovella, oppure un baccello contenente cinquefave, credendo di poter in tal modo sognare il“Principe azzurro” tanto atteso. La stessa cosacrede possa avvenire se per tre sere consecuti-ve conta nove stelle [...]Secondo quanto riferiscono alcuni insigni folkloristi, nellanotte di S. Giovanni le fanciulle traggono gli auspici in varimodi intorno alle loro nozze; il più usato è quello di gettaredel piombo fuso in una catinella d’acqua, e di conservare poile forme che acquistano i pezzetti di piombo. Un’usanza nonproprio analoga, ma molto somigliante, si riscontra a Monte-fiascone. La notte di S. Giovanni si pone l’album di un uovoin una bottiglia piena d’acqua; la mattina seguente le ragaz-ze guardano ansiose quale forma abbia assunto l’albumearguiscono così, quale sarà il loro destino; se invece si sonoformati piccoli cipressi, che presto dovranno morire; se si èformato un angelo, che dovranno farsi suore, ecc.

[La dichiarazione] presso i nostri contadini avviene in unamaniera tutta caratteristica. Ogni domenica essi, dalle frazio-ni circostanti, usano recarsi in paese, sia per assistere allaMessa solenne cantata, sia per fare delle compere al merca-to, sia anche, specie i giovani, per passeggiare per la piazzae per il corso. Il ritorno a casa avviene di solito dopo il mez-zogiorno; le ragazze non vanno mai sole, ma a gruppi di due.Il giovane, in questi casi, si procura un amico insieme alquale segue poi le fanciulle. Appena sono fuori del paese, idue giovani si appressano alle ragazze: l’innamorato tira la

gonna alla giovane che gli sta a cuore per farle capire la suaintenzione, dicendole nel contempo: “È permesso?”. La gio-vane, che il più delle volte attende con ansia questo momen-to, allenta il passo e, voltandosi, risponde: “Perché no?”. Ilghiaccio così è rotto ed essa si affianca a lui, mentre l’amicosi occupa dell’altra ragazza, conversando con essa, e disto-gliendola dalla sua compagna [...] Il dialogo continua così fralo schernirsi della donna e le proteste d’amore dell’uomo,che infine le domanda se è contenta di fare l’amore con lui.È di prammatica che la donna, anche se il ragazzo le piaccia,non gli dia subito il suo consenso, ma lo faccia attenderealmeno qualche giorno.Se nonostante tutti gli accorgimenti e gli approcci, il giovanenon riesce ad entrare nelle grazie della fanciulla e viene rifiu-tato dopo la sua domanda d’amore, si dice in dialetto cheabbia avuto “la sfavata” e subisce perciò anche le beffe daparte degli amici. La stessa espressione di “dare le fave” siadopera per due giovani già fidanzati allorché si lasciano(“se stizzano”) e corrisponde a quella di “dar le noci” o “lenocciuole” adoperata altrove [...]Solo dopo un periodo di amoreggiamento più o meno lungo,il fidanzato si presenta dai genitori della ragazza e chiede illoro consenso [...]Il giovane dunque donava alla “su ragazza” un paio di forbi-ci, il coltello, la rocca per filare; inoltre, e questo era il donopiù ambito e valeva a distinguere la fidanzata dalle altreragazze, un paio di lacci della lunghezza di m. 1,30 e dell’al-tezza di tre o quattro cm., da avvolgere sotto il ginocchioattorno alle calze, tessuti a vari e vivaci colori. Questi laccierano guarniti all’estremità con piccole nappe dello stessocolore dei lacci. I colori preferiti erano il rosso, il verde,l’azzurro, il giallo, l’arancione.La giovane invece regalava al fidanzato dei fazzoletti, ricama-ti di solito in rosso e blu negli angoli. In un angolo erano leiniziali della giovane, in quello opposto quello del fidanzato,nei due restanti due cuori intrecciati con fiori e foglie e unvaso con fiori. Nel tempo della mietitura poi vi era la tradi-zione, a cui nessuna fidanzata poteva sottrarsi, di donare alfidanzato un fazzoletto (di solito rosso a fiorellini bianchicon le iniziali di entrambi) che egli usava mettersi intorno alcollo durante i lavori pesanti della campagna. Altro regaloimportante era la “fascia” cioè la cintura per sostenere i pan-taloni tessuta a sgargianti colori, con una doppia frangia.Tutto ciò contrassegnava il fidanzato facendolo distingueredagli altri giovani.

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Un “regalo importante era la “fascia” cioè la cintura per sostenere i pantalo-ni tessuta a sgargianti colori,... che contrassegnava il fidanzato facendolodistinguere dagli altri giovani”

“... I contadini raccolgono a mazzi le piume per appuntarsele sul cappello, enon le sole piume essi vi mettono, ma gli oggetti più disparati...”

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che il fidanzato è fedele, se al contrario si è formata una picco-la piaga, è segno che il fidanzato non è fedele. Naturalmentetutto ciò è dovuto allamaggiore ominore irritabilità della pelle.

L’interesse e l’amore dei ragazzi trovava modo di manife-starsi nelle serenate e nelle infiorate.

Le serenate d’amore si fanno esclusivamente di sabato sera. Igiovanotti fanno tre suonate se la ragazza non è fidanzata, cin-que suonate se lo è, poi se ne vanno cercando di non farsi rico-noscere. Dal numero delle suonate si arguisce a chi era desti-nata la serenata, ma anche se gli altri non lo sanno, lo sa benela destinataria, che il più delle volte si accontenta di guardareda dietro le imposte socchiuse. Oltre le serenate sono comunile infiorate, limitate esclusivamente al mese di maggio. Duesono i generi delle infiorate: “infiorata d’amore” e “infiorate didispetto” nelle quali ogni fiore e ogni oggetto ha il suo signifi-cato. Le infiorate d’amore, sono caratterizzate oltre che daifiori usuali come rose, ciclamini, garofani, varie erbe profuma-te, dai fiori della ginestra (maggio); tra i fiori si possono scor-gere bigliettini recanti parole d’amore.

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Giancarlo Breccola

Montefiascone

Su alcune testimonianzedi folclore locale

(segue dai numeri precedenti)

Eancora grazie alle informazioni raccolte da Lucia-na Volpini è possibile inoltrarsi nel percorso diconsuetudini e credenze che dal momento delfidanzamento giungeva al giorno del matrimonio.

Una delle preoccupazioni più importanti, almeno inizial-mente, era la certezza della sincerità della ragazza o delragazzo prescelto.

Se la ragazza si trova nel campo, può anche fare la prova disvellere la pianta di una cipolla dicendo nel contempo questeparole: “Se ‘r mi regazzo me vò bene ‘sta cipolla lunga meviene”. Se la pianta si spezza prima che il bulbo sia venutofuori, la ragazza ne trae un cattivo auspicio.Un altro esperimento, praticato dalla maggior parte delle fidan-zate delle nostre campagne, è quello di porre su di un braccio,dopo averla ben pistata, un’erba chiamata “erba dell’amore”,poi il braccio viene fasciato e durante l’operazione si diconoqueste parole: “Amor se me voe ben famme ‘na rosa, se nofamme ‘na piaga puzzolosa”. Dopo due giorni si toglie la fasciadal braccio e, se la pelle appare soltanto irritata, si arguisce

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Le “infiorate di dispetto” sono fatte con ortica, malva, cardi,sterco e talvolta con corna di animali e bigliettini con parolelicenziose e poco riguardose per la donna. Questo però avvie-ne soltanto se la donna, per cui si fanno le infiorate, è di facilicostumi. Le infiorate sia d’amore che di dispetto si fanno disolito il sabato notte; la mattina seguente, la giovane, a cuisono state destinate, si affretta a toglierle via, sia per un suoriserbo, che le vieta di far vedere agli altri di essere stata ogget-to di attenzione, sia (quando si tratta di infiorate di dispetto)per paura che gli altri, vedendole, facciano delle “chiacchere”poco piacevoli sul suo conto.

Una volta definito il fidanzamento, i due giovani potevanoincontrarsi e stare insieme, ma sempre in forma ufficiale e,almeno in teoria, rigidamente codificata.

La ragazza fidanzata con un giovane che le piace, è pienamen-te felice e attende con impazienza la sera per ricevere la visitadel suo amore; nelle nostre campagne i giovani si recano a farvisita alla fidanzata il giovedì e il sabato, la domenica, poi, gliincontri avvengono in paese. Per quanto riguarda la possibili-tà di entrare in casa del fidanzato o di dormire sotto il suotetto, la donna deve evitarlo, perché non sarebbe affatto serioda parte sua, né del resto i suoi genitori lo permetterebbero.Questo si fa soprattutto per non suscitare le “chiacchiere dellagente”. In caso di rottura del fidanzamento, i due giovani, qua-lunque sia la causa e il colpevole, sono tenuti a restituirsi i donie le lettere che si sono scambiati durante il periodo del fidan-zamento. I fidanzati, al di fuori dei regali scambievoli, non li

ricevevano da nessun altro e perciò anche essi non erano tenu-ti a farli ad alcuno.

Quindi veniva la fase conclusiva del fidanzamento.

Presso le famiglie benestanti, si stabiliscono la dote che avran-no i rispettivi giovani. Di solito, i genitori, preferiscono darealle figlie una somma di denaro che può variare secondo lepossibilità economiche della famiglia e lasciare i beni immobi-li (case o terreni) ai maschi. Ciò naturalmente si fa perché idiscendenti di parte maschile possano ereditare, intatti, i benie trasmetterli da padre in figlio.Successivamente le mamme o gli stessi fidanzati vanno a “cavàle fedi” e a “attaccà le ricorde”, ossia a fare affiggere dal parro-co, per due domeniche, le pubblicazioni sulla porta della Chie-sa. Nelle nostre campagne, fino ad una trentina di anni fa, laprima domenica in cui si affiggevano le pubblicazioni, la sposametteva al dito la fede e non la toglieva che la mattina dellenozze, per farsela infilare al dito dallo sposo durante la cerimo-nia nuziale; inoltre con una spilla appuntava dietro le spalle unfiocco rosso con fiorellini e foglioline a vari colori.La seconda domenica, la madre dello sposo, si recava a casadella futura nuora. Qui, dopo i convenevoli d’uso, le venivaofferta un’abbondante colazione, a cui partecipavano tutti ifamiliari; durante il pasto, la giovane doveva mostrarsi oltre-modo garbata verso la futura suocera. Terminata la colazione,dinanzi ai genitori e agli altri componenti la famiglia, l’anzianaponeva al collo della giovane una collana di perle a vari fili,(vezzo) donato anche a lei, prima delle sue nozze, da colei chedivenne sua suocera.L’atto era accompagnato dalle seguenti parole: “Ve lego questovezzo, ‘r primo e l’ultimo sia questo. Ve lego questo cappio, incapo all’anno un fijo maschio”; quindi soggiungeva parole diaugurio: “‘R vezzo ve lo metto io, la pace ve la mette Dio”.

La stessa tradizione, con particolari diversi, è riportata neltesto del De Angelis.

II mercoledì precedente il matrimonio, le fidanzate si recano aMontefiascone accompagnate da una bambina recante inmano un canestro. Anche questa è una specie di partecipazio-ne del prossimo matrimonio e di compromesso definitivo colfidanzato. Si presume che prima di questo giorno, la promessanon si sia recata in casa del fidanzato. Vi si reca perciò a farela sua visita ufficiale. Picchia, ed esce sulla porta ad incontrar-la la madre del giovane. Dice la fidanzata: - Siete contenta cheentri dentro la vostra casa? - Sissignora - risponde la futurasuocera. La giovane entra e fa i convenevoli agli altri parentipresenti: - Mi rallegro con voi che mi siete diventata madre(suocera). Mi rallegro con voi che mi siete diventata sorella(cognata), ecc. In quel giorno il giovine regala alla ragazza unvezzo di perle il quale le viene legato dietro il collo (con duelunghi nastri che le scendono giù quasi alle calcagna) dallamadre dello sposo, ed è questa una prima testimonianza delgradimento del matrimonio per parte della futura suocera.Questa cerimonia è detta, l’allegrizzata.

E infine si giunge al sospirato giorno del matrimonio

[De Angelis] I matrimoni si celebrano generalmente di lunedì,ed a preferenza durante l’epoca della mietitura, perché così gliuomini hanno subito modo di utilizzare nel lavoro le loro gio-vani spose. La cerimonia del matrimonio dà anche luogo allaformazione di un corteo. Lo aprono le donne, parenti ed ami-che della sposa la quale vi si distingue per il nastro che portasu una spalla. Poi vengono gli uomini, fra i quali è lo sposo.Pochi giorni prima delle nozze, avviene l’ammobiliamentodella casa degli sposi. Costoro vanno generalmente ad abitare

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A fianco: festa di fidanzamento(contado di Montefiascone, anni ’30 del secolo sorso)

Sotto: giovane sposa con il vezzo donato dalla suocera

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nella casa dello sposo, e gli arredi della camera nuziale debbo-no essere provvisti dalla sposa. Un lungo corteo si forma perportare nella casa gli arredi, ed i doni di amici, amiche e paren-ti. Gli oggetti, a seconda della loro grandezza o che sono rega-lati, sono portati dai donatori stessi, o da barrozze trainate dabuoi. Si portano così i cavalletti del letto (bancaletti), le coper-te, i guanciali del letto, l’arca o il cassettone, la toilette, ecc. Oraper l’appunto i contadini usano quasi tutti il letto completo inferro e il cassettone. Una volta invece del cassettone si usaval’arca (specie di cassa che si metteva a lato del letto), e il lettoera poggiato su due enormi bancaletti di legno, raggiungendospesso l’altezza di un metro e mezzo; così che gli sposi, percoricarsi, dovevano farsi dell’arca un primo gradino.

Nelle testimonianze raccolte da Luciana Volpini, ove com-paiono altri dettagli riferiti all’abbigliamento, il giorno pre-ferito per il matrimonio era invece il sabato.

Fino ad una trentina di anni fa, la cerimonia nuziale vera e pro-pria era fatta senza alcuna pompa la mattina del sabato; lasposa indossava il vestito delle feste così composto: veste dirigatino (tessuto in casa), busto di rigatino di color violaceo,camicia bianca con spalline ricamate, sulle spalle fazzoletto digiaconetta a fiori con frange (questo s’incrociava sul petto eveniva infilato nel nastro-cintura), sulla testa fazzoletto biancodi mussola ricamato a mano. Al collo, oltre il vezzo (collana) diperle, doppia fila di coralli; lo sposo indossava un vestito di lana(la “saia”) tessuto in casa, di colore scuro. Assistevano al ritoreligioso solo i testimoni, i quali dopo la cerimonia, si recavanocon gli sposi a consumare nella più vicina osteria, una parcacolazione; indi ciascuno ritornava alla propria abitazione.

Per i dettagli del dopo cerimonia dobbiamo tornare al testodel De Angelis.

Dopo la cerimonia religiosa, gli sposi escono dal tempio, egiunti sulla soglia hanno la più meticolosa cura di non toccar-la. È credenza diffusa infatti che quegli il quale la toccassemorirebbe nell’anno. Perciò la saltano. Ha poi luogo il pranzodi nozze in casa dello sposo. Durante lo svolgimento di esso,ancora una caratteristica scena si svolge la quale deve attesta-re che la sposa è bene accetta nella casa del marito. Essa deveinfatti inviare al suocero il proprio bicchiere di vino con entrodel pane inzuppato. Il suocero ne sorbirà il contenuto, e se lanuora è bene accetta le restituirà il bicchiere ricolmo di confet-ti. Quando i matrimoni sono compiuti secondo il più strettorito tradizionale, la sposa non va a dormire la sera stessa delmatrimonio con lo sposo, ma alcune sere dopo. Per altro que-sto costume è oggi piuttosto in disuso. E dato che le cose sisvolgano normalmente, quando è giunta la sera nella quale glisposi vanno a letto per la prima volta, è la madre dello sposoche ha l’ufficio di spegnere il lume. Anche questa usanza haun’origine superstiziosa: si crede infatti che morirebbe primaquello dei coniugi che avesse quella sera spento il lume.Quanto alla successione dei riti, è generalmente quello religio-so che precede il civile. Anzi quello che conta, nella coscienzadel popolo, è il matrimonio religioso. Talvolta quello civilesegue il religioso di un mese, quando di fatto è più che consu-mato; talvolta dopo un anno, a nascita avvenuta del figlio; tal-volta alla morte di uno dei coniugi. Ciò, è evidente, divienespesso molto grave per gli effetti civili: eredità, naturalizzazio-ne dei figli, ecc.

Quest’ultima nota ci ricorda come in Italia, dopo l’entrata invigore del codice civile avvenuta all’inizio del 1866, avessevalore legale soltanto il matrimonio civile. Chi sceglieva ilrito religioso lo celebrava precedentemente o successiva-

mente a quello civile. Soltanto a seguito del Concordato del1929 si istituì il matrimonio concordatario ove al matrimo-nio religioso si affiancava quello civile.

Per proseguire e concludere questo sommario percorso nei“riti di passaggio” dei nostri progenitori, non ci rimane checonsiderare gli originali aspetti che caratterizzavanol’ultimo e più drammatico atto di ogni esistenza, la morte;aspetti che in quel periodo si rivelavano ancora intrisi dielementi mitologici e pagani.

Quandomuore un bambino, che non abbia più di quattro o cin-que anni, le ragazzine delle varie frazioni o borgate fanno agara per portarlo al cimitero. Durante il trasporto esse non

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debbonomai voltarsi: se si voltassero - secondouna superstizione locale - capiterebbe loro unadisgrazia. Se invece procederanno innanzi dirit-te e compunte, guadagneranno un’indulgenza.Assolutamente drammatico è il rito funerariodegli adulti. Il cadavere rivestito di una speciedi saio bianco fatto apposta, e avvolto in un len-zuolo, è disteso, tra fiori di carta bianca e oro,sul tavolo della prima stanza della casa, che ègeneralmente la cucina. Cominciano allora levisite di condoglianza. I visitatori, insieme coiparenti del defunto, recitano il rosario, e ricevo-no, uscendo, un pane e un soldo. Al trasportodel cadavere provvedono i Camerlenghi, con-grega di giovani, i quali in omaggio alla senten-za dell’hodie mihi cras tibi, assumono disinte-ressatamente il pio incarico. Con una barellaessi si dirigono verso la casa dell’estinto. Giuntia una cinquantina di metri di distanza da essa,posano in terra la barella, prendono la corsa efanno irruzione nella casa. Là, come ladri, affer-rano il lenzuolo col cadavere, e gridando alto: -Sia lodato Gesù Cristo - fuggono.I parenti li inseguono gridando: - Riportateci ilnostro patino (padre), riportateci la nostramati-na (madre) a seconda della parentela del defun-to, e danno in piagnistei e sguerci (scoppi dipianto). Dietro vanno le donne con formaggio evino per rifocillare di tratto in tratto i camerlen-ghi, affaticati e in sudore.II lutto si porta in genere un anno, ed è chiama-to lo scureggio. Nel lutto stretto le donne indos-sano abiti neri, e portano la veste rimboccatasulle spalle. Il luttomeno stretto può farsi anchecon abiti a righe bianche e turchine e in questocaso la veste è rimboccata su di una sola spalla.

Il significato più stimolante di questa trat-tazione sui passati aspetti della nostra cul-tura contadina - esposizione che ricono-sco lunga se riferita al contesto di questarivista, ma breve se relazionata all’argo-mento - al di là del superficiale interesseche può suscitare l’inusuale e il diverso,credo sia ravvisabile in una riflessione filo-sofica di Giambattista Vico, poi ripresa daAlberto Mario Cirese.“Se le origini dell’umanità dovettero pernatura essere picciole, rozze, oscurissime;se le regole del consorzio civile nacquerodai grandi vizi; se la meraviglia è figliuoladell’ignoranza; se la fantasia, fonte della

poesia, tanto più è robusta quanto più debole è il razioci-nio; allora è evidente che la ferinità e lo stato eslege diven-gono momenti necessari della storia umana. E le tradizionivolgari, lungi dall’essere solo sciocche favole o errori, appa-iono anch’esse ormai come un fatto umano positivo: essedevono avere avuto pubblici motivi di vero, onde nacqueroe si conservarono da intieri popoli per lunghi spazi ditempo. Tra i compiti della scienza storica sta dunque ormaianche quello di riflettere su di esse, per ritrovare i motividel vero, il quale, col volger degli anni e col cangiar delle lin-gue e costumi, ci pervenne ricoverto di falso”.

fine

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Traporto del corredo e della mobiliasu un carro trainato da buoi(contado di Montefiascone, anni ’50 del secolo sorso)

L’8 aprile scorso papa Francesco ha elevato alladignità episcopale, assegnandogli la sedetitolare vescovile di Acquapendente, il monte-fiasconese Fabio Fabene. Il successivo 30 mag-

gio, nella basilica di San Pietro in Vaticano, lo stesso pon-tefice lo ha consacrato vescovo.Nato il 12 marzo 1959, mons. Fabio Fabene ha frequenta-to il seminario minore nell’allora diocesi di Montefiasco-ne, compiendo gli studi teologici presso il pontificio semi-nario regionale in Viterbo. Ordinato sacerdote il 26 mag-gio 1984, ha conseguito il dottorato in diritto canonicopresso la pontificia università lateranense. Ha esercitato ilministero di parroco di S. Maria del Giglio in Montefiasco-ne, ricoprendo l’incarico di cancelliere vescovile, dal1984 al 1998, e ha insegnato diritto canonico pressol’istituto teologico viterbese.Dal 1° gennaio 1998 è a servizio della congregazione peri vescovi, nella quale è capufficio dal 24 aprile 2010; rico-pre inoltre l’incarico di sostituto della segreteria del colle-gio cardinalizio. Dal 1996 è giudice esterno del tribunaledi prima istanza per le cause di nullità di matrimoniodella regione Lazio presso il tribunale ordinario della dio-cesi di Roma.Nominato, l’11 gennaio 2012, prelato d’onore di sua santi-tà, è postulatore della causa di beatificazione e canonizza-zione del card. Marco Antonio Barbarigo e assistenteecclesiastico del Centro Italiano Femminile (C.I.F.) diRoma. È autore di diversi articoli per riviste di dirittocanonico, di biografie sul card. Barbarigo e su mons. LuigiBoccadoro e di libri sul ministero del vescovo e del pre-sbitero. L’8 febbraio 2014 è stato nominato sottosegretariodel sinodo dei vescovi.In una lettera inviata lo scorso 8 aprile a mons. LorenzoBaldisseri, segretario generale del sinodo, il pontefice giu-stificava la sua nomina episcopale come “una scelta infavore della collegialità con il Vescovo di Roma. Il Papaha bisogno della presenza dei suoi confratelli Vescovi,del loro consiglio e della loro prudenza ed esperienza.Questa nomina rispecchierà quella comunione affetti-va ed effettiva che costituisce lo scopo precipuo delSinodo dei Vescovi”.

Il “viterbese” monsignor Fabio Fabenenominato vescovo da papa Francesco

dallaTuscia

1 giugno 2014, l’accoglienza al nuovo vescovo. Mons. Fabio Fabene eil sindaco di Montefiascone Luciano Cimarello