La prossima volta

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di Laura Morgavi, horror

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Laura Morgavi

LA PROSSIMA VOLTA

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LA PROSSIMA VOLTA Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2011 Laura Morgavi ISBN: 978-88-6307-365-2

In copertina: Immagine Shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Giugno 2011 da Logo srl

Borgoricco - Padova

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CAPITOLO I Non aveva idea di come fosse arrivata lì. La stanza in penombra ricordava vagamente la sua, la disposizione dell’arredamento era pressoché identica: lo specchio, il comò, il letto, persino i quadri appesi alle pareti erano stati disposti in modo simmetrico su ognuna delle pareti, esattamente come a casa sua. Ma non era casa sua! Mancava quel rumore di sottofondo che proveniva dalla strada e al quale ormai lei era così abituata che non ci faceva neanche più caso; le voci dei bambini che giocavano in cortile nei caldi pomeriggi estivi, il fischiettio continuo del vicino di casa che insistentemente riproponeva lo stesso motivetto, le campane che scandivano il tempo e il rumore delle macchine che abitualmente passavano a ritmo quasi cadenzato. Nulla, non si sentiva nulla. Si era risvegliata improvvisamente disturbata da non sapeva cosa. Era stato una sorta di vuoto d’aria, come quando ti trovi su un aereo e sai che non è nulla di grave, è del tutto normale, ma nonostante questo la sensazione di caduta e quel buco nello stomaco non fanno altro che crearti un moto di panico irrazionale e l’istintivo riflesso di aggrapparti alla prima cosa che trovi vicino. Stava ancora stringendo il lenzuolo con la mano, così forte che i muscoli dell’avambraccio cominciavano a farle male. Continuava a osservare la stanza così familiare ma allo stesso tempo lontana e fredda. Le persiane facevano entrare un raggio di sole che formava sul muro un particolare triangolo di luce abbagliante. Provò a ricordare come aveva fatto a ritrovarsi in quel posto ripensando agli avvenimenti della sera prima. Era uscita di casa dopo l’ennesimo litigio con il suo fidanzato sbattendosi la porta alle spalle. Era furiosa soprattutto con se stessa per non avere ancora una volta trovato il modo di parlare tranquillamente

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senza farsi assalire da quella rabbia che improvvisamente saliva fino al cervello come un’eruzione vulcanica e la invadeva completamente, lenta ma inesorabile. Non ricordava neppure il motivo della discussione ma solo il senso di vuoto e sconfitta che le era rimasto addosso. Avvolta nel suo impermeabile color crema si era diretta verso il parcheggio condominiale dove era solita parcheggiare la sua vettura, una vecchia Peugeot della quale non aveva la minima cura. Per lei le automobili erano un comodo mezzo di trasporto necessario per spostarsi da un punto all’altro della città. I mezzi pubblici erano il suo incubo. La calca della mattina era una delle molte cose che le metteva angoscia, tutte quelle facce dalle espressioni vuote, tutte con lo stesso pallore che altro non era se non l’insoddisfazione dell’anima che cercava di manifestarsi all’esterno. Non voleva iniziare tutte le sue giornate in quel modo. Non che le sue iniziassero molto meglio! Si svegliava all’alba tutte le mattine senza nessuna ragione, aspettando inerte l’ora che nella sua mente aveva fissata come esatta per svegliarsi definitivamente, prepararsi e recarsi al lavoro. Sapeva esattamente quanto la mancanza di sonno avrebbe influito sul suo umore, ma nonostante questo non riusciva a fare a meno di alzarsi imperterrita alle cinque e rimanere lì, in pigiama, seduta su quella sedia a fare nulla. Ancora una volta aveva dimenticato l’esatta posizione dell’autovettura. Dove l’aveva messa qualche ora prima? Quella sera il parcheggio era completamente occupato. Tra l’altro sembrava che tutti, nell’ultima riunione di condominio, si fossero messi d’accordo per acquistare la macchina dello stesso colore della sua. Più che un parcheggio privato sembrava quello di una società che aveva premiato i suoi dipendenti con autovetture tutte uguali, per non fare disparità o per uniformare le menti. Con movimenti veloci degli occhi cercava nei punti abituali provando a intravedere la catena di profumini per auto, ormai del tutto inefficaci per la verità, che penzolavano dal suo specchietto retrovisore e che lei si rifiutava di buttare via. Ogni volta che il precedente non emanava più nessuna profumazione ne acquistava uno nuovo con una fragranza differente e lo appendeva

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insieme agli altri. Era una delle sue piccole collezioni, oltre che un efficace sistema escogitato per riconoscere l’auto, visto che si era sempre rifiutata di impararne il numero di targa. A causa del suo lavoro era obbligata a memorizzare una serie di numeri quotidianamente e, come se fosse una specie di reazione contraria, tutto quello che la riguardava personalmente preferiva vederlo scritto che ricordarlo, dal codice del bancomat al pin di quel cellulare che puntualmente si scaricava e rimaneva nella borsa spento e saturo di chiamate perse e sms mai letti. Era finalmente in strada, guidava senza meta cercando di far sbollire la rabbia che ancora le imporporava le guance e le rendeva affannoso il respiro. Pioveva a dirotto quella sera. Nel traffico cittadino i fanali delle macchine formavano cerchi di luce sbavati ed enormi. Attraverso il parabrezza riprendevano le loro reali dimensioni solo per una frazione di secondo, quando l’acqua veniva spazzata via dal vetro, per poi tornare immediatamente quell’ammasso di luce informe e accecante. Doveva allontanarsi da quella confusione che non faceva altro che aggiungersi alla confusione che c’era in lei. Ora, quasi calma, percorreva una stradina di campagna, non aveva acceso neppure l’autoradio. Ascoltava attenta lo scroscio della pioggia che incessantemente continuava a cadere, lo stridere dei tergicristalli ormai consunti che maledicendosi si riprometteva di sostituire a ogni acquazzone, ma che poi ritrovava al loro posto a ogni successivo. E poi? I suoi ricordi si interrompevano su quella stradina in quella notte piovosa. La luce che filtrava nella stanza stava via via perdendo intensità e lei era ancora stesa in quel letto non suo. Pensò di alzarsi ma c’era qualcosa che ostacolava quella semplice operazione. Non aveva forza nelle gambe e i muscoli delle braccia erano intorpiditi. Non era la prima volta che provava una cosa simile, succedeva dopo ogni attacco di panico. La sensazione di non potersi più muovere, la stanchezza fisica accompagnata dalla spossatezza mentale era quello che rimaneva al rientro da quegli orrendi viaggi che lei aveva collocato nella

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“quasi morte” che ormai da tempo interrompevano inaspettatamente la sua vita. “Calmati Elena, lo conosci ormai, passa… respira tranquilla, calmati e passa”, si ripeteva ogni volta che succedeva. Ed era vero, passava. Nonostante tutto stava migliorando comunque, quantomeno adesso sembrava gestire queste crisi, anche se non era in grado di evitarle e in verità erano sempre meno frequenti, o così almeno le sembrava. La paura non era per l’attacco di panico vero e proprio, no, quello durava solo un attimo, ma il continuo stato di pre-allerta nella quale viveva, la paura stessa della paura era forse la cosa peggiore. Stava ripensando a un episodio in particolare: l’ultima volta che aveva preso un autobus. La sensazione di soffocamento e agitazione che aveva provato l’avevano costretta a scendere a una fermata non sua. Tra gli insulti degli altri viaggiatori spintonati malamente, si era fatta strada fino all’uscita cercando aria. Sì, era fame d’aria la sua, bisogno incontrollato di respirare aria pulita. Era scesa in preda al terrore ed era rimasta lì, in piedi, immobile, come paralizzata e incapace di parlare, nel centro della piazzuola di sosta dei pullman tra l’indifferenza generale dei passanti imbacuccati nei loro cappotti, distratti dalla loro fretta e dalla loro vita. Pian piano la morsa si era allentata, i battiti cardiaci avevano rallentato e il sangue che aveva ricominciato a circolare nelle vene stava iniziando a scaldarla nuovamente. Si era seduta sulla panchina sotto la pensilina aspettando di tornare a vivere senza che nessuno si fosse accorto di nulla. Lentamente era tornata nella sua casa vuota, trascinandosi sul divano si era poi rannicchiata su se stessa addormentandosi profondamente. La sua ultima volta su un autobus.

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CAPITOLO II La porta si aprì con un cigolio e i contorni della figura che si stava avvicinando si facevano via via più nitidi. Un’anziana signora con un bicchiere d’acqua in mano si dirigeva verso il letto. Il sorriso di quella donna e lo sguardo gentile la fecero sentire sollevata, era entrato con lei un alone luminoso che schiariva la stanza. «Dove sono? Lei chi è? Cosa è successo?» chiese Elena cercando di utilizzare il tono di voce più sicuro del quale era in possesso. «Non riesco più a muovermi» disse poi timidamente, realizzando che era del tutto inutile provare a mantenere il controllo di una situazione che in realtà non poteva controllare, date le circostanze. «Stia calma signorina, non è successo nulla di grave» disse la donna tranquillamente e con voce rassicurante, «l’ altra mattina il pastore che vive non poco distante da qui l’ha trovata svenuta in macchina. Probabilmente è uscita di strada a causa della forte pioggia ed è finita contro un albero. Non sapendo cosa fare l’ha portata da me. Purtroppo siamo isolati in questa vallata, c’è un solo telefono ma il temporale ha interrotto la linea. Quello dell’altra notte è stato un vero e proprio nubifragio, ha franato un pezzo della montagna interrompendo ogni comunicazione tra noi ed il resto del mondo. È stata molto, molto fortunata a essere stata ritrovata da lui». Elena aveva ascoltato con attenzione e una strana sensazione si era impossessata di lei. Aveva sentito una nota stonata nell’ultima frase detta dalla donna, un’impercettibile inflessione nella voce che l’aveva scossa terribilmente. «Beva cara» continuò poi «sicuramente ha difficoltà nel muoversi a causa dei tranquillanti che mi sono permessa di darle. Ieri notte improvvisamente ha iniziato ad agitarsi nel sonno urlando frasi incomprensibili quindi, per permetterle di riposare, l’ho aiutata con un

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farmaco. Facevo l’infermiera anni fa e ho già assistito a episodi di questo tipo. Stia tranquilla e si rilassi. Ha bisogno di riposo e qui siamo tutti pronti ad aiutarla». “Tutti chi?” pensò Elena. “Quanti erano in quella casa?” Forse la donna aveva ragione, si sentiva terribilmente stanca, le palpebre cominciavano a farsi pesanti e lentamente si abbassavano come trascinate da una inspiegabile forza di gravità che la fece ripiombare nell’ oblio. Fu il tintinnio di una campanella a risvegliarla. Elena cercò di rimettere a fuoco i pensieri. Ricordando la brutta sensazione del giorno precedente, cercò di non muovere neppure un muscolo. Era determinata a alzarsi da quel letto e quindi si sforzò per concentrare tutte le forze in un unico movimento che le avrebbe consentito di tirarsi su. Era carica di energia e pronta a compiere quello sforzo nello stesso momento in cui si rese conto che non era necessario. Istintivamente si rilassò. Nessun dolore, nessun intorpidimento, si sentiva leggera e si sedette sul letto con una facilità che non si aspettava. Poggiò i piedi per terra e scalza si diresse verso la finestra per aprire le imposte ancora socchiuse. Il panorama che le si mostrò davanti la lasciò senza respiro. Il sole che stava sorgendo da dietro le verdi montagne, con la sua luce ancora timida irradiava una sconfinata vallata, i colori della notte appena trascorsa stavano pian piano scomparendo e tutto iniziava a tingersi di tutte le tonalità di verde. La nebbiolina tra i vigneti non si era ancora del tutto dissolta e minuscole particelle di luce argentata danzavano tra le foglie creando un effetto quasi magico. Il cielo era in ritardo nel risveglio, il blu profondo non aveva ancora fatto posto all’azzurro intenso del mattino e i colori si mischiavano come sulla tavolozza di un pittore indeciso. Appena sotto la finestra, nel centro del cortile sterrato, c’era un vecchio pozzo costruito con grosse pietre. Una capretta brucava tranquilla facendo tintinnare la campanella appesa al collo a ogni movimento. L’aria era fresca ma portava con sé ancora l’odore della pioggia. Rimase a fissare quel panorama suggestivo per alcuni istanti stupendosi ancora una volta per quanto nulla di quanto costruito dall’uomo potesse minimamente competere con la semplice bellezza della natura. Si girò

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dando le spalle alla finestra e iniziò a osservare la stanza nella quale si trovava. Il letto di legno massiccio era stato sistemato tra due comodini anch’essi dello stesso materiale. Non era un letto singolo ma sicuramente avrebbe fatto fatica a ospitare due persone. Il copriletto lilla ormai spiegazzato e le lenzuola candide di cotone pesante le riportavano alla mente ricordi di bambina. Le calde estati nelle quali andava a trovare la nonna nella casa di campagna e l’aiutava a stendere al sole i panni appena lavati nella vasca dietro casa. Con la luce la stanza aveva assunto un altro aspetto, non più fredda ma accogliente e familiare. Il bagliore della sera prima sembrava non essersene ancora andato. I quadri appesi alle pareti erano pieni di colore, sembravano dipinti tutti dalla stessa mano, non tecnica e precisa quanto istintiva e vitale. Doveva essere stata la stanza di una ragazza, poteva sentirne la giovinezza traspirare dai muri. Si avvicinò allo specchio posto appena al di sopra del grande comò soffermandosi a osservare ciò che questo rifletteva. Una giovane donna pallida e struccata. Un piccolo taglio appena sopra l’arcata sopraccigliare ormai in fase di guarigione rivelava un piccolo trauma. Sicuramente se lo era procurato nell’incidente ma sembrava fosse stato medicato e ormai in via di guarigione. I lunghi capelli biondi ricadevano sulla schiena finalmente liberi dal cappio nel quale li costringeva quotidianamente. Gli occhi verdi, solitamente cupi sembravano avere uno scintillio diverso e il viso generalmente tirato pareva più disteso. Riconobbe Elena, quella che non vedeva più da tempo. Rincuorata decise di uscire dalla stanza e notò che su una sedia, accanto alla cassettiera, erano stati ordinatamente appoggiati un paio di jeans e una maglietta di cotone leggero con un buffo disegno stampato sopra. Si vestì meravigliandosi di come tutto fosse esattamente della sua taglia e non si preoccupò di aprire il grande armadio alla ricerca di qualcos’altro da indossare. Aveva un fisico sottile e ben proporzionano, non eccessivamente alta riusciva comunque a non passare inosservata. Varcò la soglia della stanza e si diresse verso la scala di legno che conduceva al piano inferiore.

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Lungo le pareti c’erano quadri che riproducevano paesaggi. L’autore doveva essere quasi sicuramente la stessa persona che aveva dipinto quelli appesi nella stanza dalla quale era appena uscita, ma in questi c’era qualcosa di diverso. La pennellata era più aggressiva e non si percepiva nessuna vitalità, i colori utilizzati erano più cupi. A differenza degli altri ricordavano più il crepuscolo che l’alba. Senza farsi ulteriori domande si diresse lentamente verso quella che aveva reputato fosse la cucina, in cerca di qualcuno. Seduta a capo del lungo tavolo vide l’anziana signora intenta nel pulire foglie di basilico. «Ben svegliata cara. Mi sembra di capire che oggi si senta un po’ meglio. Si accomodi pure, le preparo qualcosa da mangiare, avrà senz’altro fame». «Grazie» disse Elena udendo il suono della propria voce riecheggiare nella grande stanza, «avrei comunque qualcosa da chiederle se non le dispiace…». «Chieda pure…» disse la donna lasciando la frase in sospeso in attesa della conclusione. «Elena, mi chiamo Elena. Dov’è la mia macchina? Avrei bisogno di recuperare la mia borsa». «Sfortunatamente non posso esserle d’aiuto. So che non è facile» disse la donna «ma non si deve preoccupare, ci occuperemo anche di questo. L’unica cosa importante in questo momento è che lei riprenda le forze. Le preparo una bella tazza di latte caldo e una fetta di torta, vedrà che si sentirà subito meglio». Elena assentì e ricominciò con le domande. «Dove siamo?» chiese. «ALL’INFERNO!!» . Fece un balzo sulla sedia mentre una saetta gelata le attraversava la schiena, il cuore si fermò per un secondo e subito dopo riprese a galoppare come un cavallo imbizzarrito mentre Elena cercava di controllare il respiro. “Dio aiutami!” pensò disperatamente. Non era stata la donna a parlare, ma una voce lontanissima, nitida e decisa, che proveniva da dentro di lei. “Immaginazione, solo immaginazione” si ripeteva mentalmente “lo hai immaginato, solo questo, lo h a i s o l a m e n t e i m m a g i n a t o!” Guardò la vecchia e per un istante le parve di scorgere un lampo maligno attraversarle gli occhi, ma solo per un attimo.

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«Fantasia, solo fantasia» si disse quando la donna la guardò con un’espressione dolce e allo stesso tempo preoccupata. «Qualcosa non va? È sbiancata improvvisamente». Certo che qualcosa non andava, che razza di domanda era quella!! Secondo lei è tutto normale? avrebbe voluto dirle. «No, nulla grazie, mi era sembrato… non importa, sciocchezze. Forse ha ragione lei, devo mangiare qualcosa, la debolezza fa brutti scherzi» rispose Elena asciugandosi quasi indifferentemente le mani madide di sudore sui jeans appena indossati. Sulla schiena sentiva un dolore fitto come se il brivido che l’aveva attraversata poco prima fosse stato qualcosa di appuntito che realmente l’aveva trafitta. Aveva il terrore di riporre la domanda quando la donna con voce dolce riprese «Mi chiedeva dove siamo? Sicuramente non distanti da casa sua suppongo». Elena rimase a pensare un attimo come reagire prima che il calore della rabbia cominciasse a invaderla. Poteva aggredire verbalmente la signora pretendendo una spiegazione ma rischiando di offenderla, e sinceramente non era il caso, oppure accettare passivamente quanto le aveva detto ed aspettare. Sì, aspettare. In fondo era la cosa che faceva abitualmente. Rimase in silenzio permettendo alla donna di proseguire. «Oramai siamo rimasti in pochi, ci sono alcune case ancora in piedi ma del tutto disabitate». Un velo di tristezza sembrò calare sugli occhi dell’anziana rendendo lontano quello sguardo fino a quel momento vispo. «Anche mia figlia è andata via tempo fa. Lei le somiglia molto sa! I vestiti che indossa sono i suoi» proseguì poi. «Dovreste avere all’incirca la stessa età, sui venticinque anni, o sbaglio?». Elena si fermò a riflettere per un istante. Effettivamente lei aveva venticinque anni, ma quella donna quanti ne poteva avere? Non era mai stata brava ad attribuire le età alle persone ma quella signora era decisamente avanti con gli anni, doveva averne più o meno ottanta, anche se le sembrava ancora agile e lucida. Non le tornavano i conti, forse aveva capito male. «Esatto» disse cercando di mascherare le sue perplessità, ma anche se non poteva guardarsi, si rendeva perfettamente conto di aver stampata in faccia una smorfia più che un sorriso.

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Riprese il controllo e disse «Anche sua figlia ha venticinque anni?». «Ho detto ha? Ma certo che no, li aveva quando è… quando ha deciso di lasciare la campagna per trasferirsi in città, ora ovviamente ne ha qualcuno in più» spiegò la donna senza dilungarsi ulteriormente. Aveva capito male. Evidentemente era rimasta più turbata di quanto credesse dal pensiero di poco prima. Le succedeva ogni tanto, quando era sotto stress, di immaginare cose che le si riproponevano in forma di voce femminile, lontana. Le aveva sempre considerate una sorta di avvertimento, un campanello d’allarme che la spingeva a controllare minuziosamente quello che le stava attorno, la sua parte dormiente che si risvegliava per darle una mano quando la stanchezza accumulata cominciava a essere troppa e lei aveva bisogno di qualche scarica di adrenalina per riprendersi. Non era sicuramente quello il caso, la vecchia signora si era dimostrata gentilissima e premurosa fino a quel momento e onestamente non sembrava per nulla minacciosa. «Io mi chiamo Ada, ci possiamo dare del tu se ti fa piacere» disse la donna. «Senz’altro, grazie» la assecondò Elena. «Se ti senti abbastanza in forma potresti approfittarne per fare un giro qui intorno, che ne dici? È una splendida giornata e il sole sta cominciando a scaldare, fai una bella passeggiata Alina, ti farà bene, vedrai». «Alina? Io mi chiamo Elena». «Si certo, scusami, Alina è mia figlia. Sai, alla mia età è facile confondersi e poi non ero più abituata ad avere una ragazza per casa. Dopo di lei nessun’altra è entrata qui». Ancora quella nota stonata. L’aveva sentita ancora! Quel suono piatto senza eco mentre Ada pronunciava l’ultima frase. Aveva bisogno di prendere un po’ d’aria. «Hai avuto un’ottima idea, farò una passeggiata e magari cercherò di vedere in che condizioni è la mia macchina». «Non preoccupartene per ora, e comunque non la troveresti. Non appena rientra il signor Lucio dal pascolo vedremo cosa fare. Potrebbe accompagnarti, sempre ammesso che non sia troppo tardi. È stato lui a trovarti e a portarti qui ma non mi sembra che mi abbia detto esattamente dove ti ha trovata. Non vorrei tu ti perdessi da sola là fuori. Cerca piuttosto di non allontanarti troppo, non troveresti nessuno per

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chilometri e sarebbe un vero guaio se tu non trovassi più la strada di casa». “Ok l’ospitalità e grazie mille, ma questa non è casa mia! Io abito da un’altra parte… sì, ma dov’è?” pensò Elena. «Non preoccuparti, farò come mi hai detto. Mi limito a dare un’occhiatina qui intorno» e si diresse verso la porta d’ingresso lasciando Ada alle sue faccende. «La mia bambina, finalmente è tornata la mia bambina» stava pensando Ada guardandola con amore mentre si allontanava.

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CAPITOLO III Aprì la grande porta e si diresse verso il pozzo che aveva visto la mattina. Qualcosa non le tornava nel racconto di Ada. Percepiva un pericolo imminente che non riusciva a giustificare. Doveva assolutamente trovare il modo di andare via da quel posto apparentemente deserto nel più breve tempo possibile. “Vattene da casa mia e non cercarmi mai più!!!”. Eccola la frase che aveva urlato sbattendo la porta di casa qualche sera prima. Era sicura che per almeno una settimana lui non l’avrebbe cercata. Un film già visto troppe volte oramai. Si frequentavano da quasi un anno e questi momenti di tensione stavano diventando sempre più frequenti. Quasi sicuramente il loro rapporto era arrivato al capolinea ma nessuno dei due trovava il coraggio di ammetterlo, preferivano allontanarsi per brevi periodi per poi ritrovarsi non appena il peso della solitudine iniziava a diventare insostenibile, un bisogno più fisico che mentale. Le pause di riflessione stavano diventando sempre più lunghe. La possibilità che lui la cercasse nel breve periodo era un’ipotesi remota. In ufficio, poi, erano settimane che minacciava di prendersi un periodo di riposo e pertanto anche lì nessuno avrebbe notato la sua assenza. Erano in piena estate, e considerando che ognuno svolgeva il proprio compito in modo autonomo, la sua mancanza non sarebbe certo stata notata. Il realizzare che nessuno si sarebbe chiesto dove fosse andata a finire le gonfiò il cuore di tristezza. Doveva cavarsela da sola quindi. Gettò un sassolino nel pozzo aspettandosi il tipico “plof” del contatto con l’acqua, ma non lo udì. Ne gettò un altro ma non accadde nulla. “Che strano”, pensò “è come se le pietre fossero state inghiottite dall’oscurità e stessero ancora viaggiando verso il centro della terra.

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Deve essere vuoto questo pozzo”. Senza pensarci più di tanto decise di incamminarsi nei dintorni, magari con un po’ di fortuna avrebbe trovato la sua macchina. Bisognava decidere da che parte cominciare visto che non aveva nessun riferimento da seguire. Si trovava in una vallata circondata da montagne ai piedi delle quali si estendevano fitti boschi. C’erano alcune case parzialmente diroccate nelle vicinanze. Si avvicinò a quella che sembrava la meno peggio e notò che alcuni animali da cortile razzolavano tranquillamente nell’aia. Doveva essere abitata, forse era la casa del pastore di cui le aveva parlato Ada. Passò oltre, e girandosi di spalle, si fermò ad osservare la casa della donna. Vista da fuori era enorme, non ci aveva fatto caso dall’interno. Si ripromise di visitarne le stanze al suo rientro, avrebbe chiesto il permesso alla padrona. Dietro la casa c’era una piccola stalla. L’orto vicino era ben curato e pieno di ogni genere di aromi e ortaggi. Si incamminò verso quello che pareva un sentiero e iniziò a addentrarsi nel bosco, voltandosi indietro di tanto in tanto per non perdere la visuale della casa. Il rumore dei ramoscelli che si spezzavano sotto i suoi passi probabilmente infastidiva gli uccelli sui rami che avevano preso ad alzarsi in volo a piccoli stormi. Era rilassante tutto sommato passeggiare. Se non fosse stato per le circostanze che la obbligavano a stare in quel posto, avrebbe potuto considerarla una vacanza. Notò un punto in cui gli alberi erano più diradati fra loro e formavano uno spiazzo naturale. Decise di sedersi ai piedi di uno di essi per meditare sul da farsi. Lo sguardo le cadde su una vecchia incisione sulla corteccia. Un piccolo cuore trafitto all’interno del quale si potevano riconoscere le lettere A. L. Passò istintivamente la mano sul tronco come se quel gesto potesse farle sentire lo stesso calore provato dalle persone che avevano suggellato il loro amore sul legno vivo. Non le sembrava il posto in cui ci si potesse trovare per sbaglio, quindi era persuasa si trattasse di due abitanti del piccolo villaggio. Chissà se le loro vite erano proseguite sulla stessa strada o come più frequentemente accade, il loro giovane amore era ora solo un vecchio ricordo per entrambi.

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“Lascia questo posto il prima possibile” Ancora quella voce. Elena si alzò di scatto spaventata e iniziò a correre continuando a voltarsi indietro come se si aspettasse che qualcuno la inseguisse. Rallentò il passo solo quando si trovò in prossimità della casa. Si fermò con le mani appoggiate sulle gambe, leggermente ripiegata su se stessa per riprendere fiato. “Sto impazzendo” pensò. Si girò ancora una volta per essere sicura che nessuno stesse sbucando dal bosco e quando ne fu assolutamente certa si diresse a passo veloce in cerca di Ada. «ADA» chiamò, «Ada, dove sei?» «Vieni cara, entra. Sono in cucina». Elena seguì più l’inebriante dal profumo del cibo che la voce della donna, rendendosi improvvisamente conto di aver fame. Dopo aver consumato l’ottimo pranzo preparato da Ada, le due donne rimasero sedute comodamente al tavolo e tra una cosa e l’altra Elena chiese «Quando rientra di solito il signor Lucio? Mi piacerebbe sapere se ha novità sulle condizioni della strada». «Generalmente arriva verso le cinque del pomeriggio, c’è ancora tempo» disse Ada guardando l’orologio appeso al muro. «Non penso che ne sappia qualcosa comunque. Per noi non ha molta importanza sapere cosa succede fuori da questa valle. Ogni quindici giorni la guardia forestale viene a farci visita e a portarci ciò di cui abbiamo bisogno. Come avrai già notato non ci sono negozi nei dintorni» ridacchiò sarcasticamente. «Era passato un paio di giorni prima del temporale. Suppongo che appena la strada sarà sgombra verrà a assicurarsi che qui tutto vada bene». Questo non tranquillizzò per nulla Elena che si sentiva come in una prigione senza sbarre. Si domandò come quella anziana donna potesse vivere così isolata. «Quindi le case qui intorno sono tutte disabitate» sentenziò. «Sì, bambina, ci siamo solamente io e Lucio adesso. Tempo fa ci abitavano altre famiglie ma poi hanno deciso di trasferirsi uno ad uno». «Capisco perché tua figlia ha deciso di andarsene. Non deve essere facile per una ragazza giovane vivere così fuori dal mondo» sospirò Elena.

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«Alina aveva tutto quello che le serviva qui, non aveva nessun bisogno di andarsene!». La voce di Ada era improvvisamente cambiata. Non c’era più nessuna traccia di dolcezza, ma rabbia e rancore. Elena preferì far cadere l’argomento e cambiando discorso chiese «Mi accompagneresti a fare un giro della casa? Da fuori sembra enorme». Il viso di Ada era nuovamente disteso. «Vai tu cara, io salgo ai piani superiori il meno possibile, le mie ginocchia non me lo consentono più». Senza farselo ripetere due volte la ragazza uscì dalla stanza e iniziò il suo giro di esplorazione. Oltre all’immensa cucina il piano terra comprendeva anche un enorme salotto. Le travi in legno sul soffitto, tipiche delle vecchie case di campagna, rendevano l’ambiente accogliente. Su un piccolo tavolino era appoggiato il telefono, un oggetto che un collezionista avrebbe fatto follie per avere. Provò ad alzare la cornetta ma, come si aspettava, non c’era linea anche se il filo era collegato alla presa. Le bianche pareti erano state riempite con vari oggetti di rame e sul divano a fiori sonnecchiava pacificamente un gatto. Decise di andare al piano superiore. Risalendo la scala che ormai conosceva, riguardò i quadri appesi provando la stessa sensazione di disagio. Continuò la rampa facendo i gradini a due a due. C’erano quattro porte. Una era quella della stanza dove aveva dormito lei, l’altra quella del bagno che già conosceva, aprì la terza e, senza varcarne la soglia, notò un letto matrimoniale, un grande armadio e una sedia posta sotto la finestra. Doveva essere la camera da letto di Ada. Le imposte semichiuse lasciavano la stanza in penombra non consentendole di scorgere altri particolari. Richiuse la porta delicatamente e si diresse verso l’ultima stanza. Abbassò la maniglia per entrare ma la porta non si aprì. Insistette ancora una volta ma nulla. Era chiusa e la chiave non era nella toppa. Con una scrollata di spalle si voltò e decise di tornare da Ada. Scendendo le scale le sembrò di sentire delle voci provenire dalla cucina. Era quasi un bisbiglio. «Visto che è tornata? Te l’avevo detto che prima o poi sarebbe tornata

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ancora. Speriamo si comporti bene adesso e non come le ultime volte. Sembra quasi più bella…» «Avevi ragione, avevi ragione tu… la mia vita, il mio amore…». Si interruppero nel momento in cui Elena entrò e rimasero entrambi a guardarla con espressione paga e beata.

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CAPITOLO IV «Eccoti qua!» disse la donna. «Lui è Lucio, l’uomo che ti ha soccorsa». Doveva avere all’incirca cinquanta anni, osservò Elena. Chissà perché lo aveva immaginato più vecchio. Portava un paio di pantaloni verdi e una camicia di cotone a scacchi rossi e blu. Si tolse il cappello e Elena potè osservare gli occhi castani, limpidi e penetranti. Lui le porse la mano ruvida e callosa quasi timidamente. «Buongiorno signorina, è un vero piacere vedere che sta bene. Ero veramente in pena per lei». «Elena, soltanto Elena. Diamoci pure del tu» rispose lei pentendosi immediatamente di aver accorciato le distanze con quell’uomo. Aveva avvertito la sensazione che quella stretta della mano stesse diventando più una sorta di carezza che un semplice saluto. L’uomo la fissò intensamente. «Bene Elena, sarà un piacere». «Sono contenta che tu sia rientrato prima oggi. Credi sia possibile andare alla mia macchina?» chiese la ragazza piena di speranza, cogliendo comunque lo sguardo di complicità che si erano scambiati Ada e Lucio. «Certo, potremmo se lo desideri, ma è del tutto inutile» la informò l’uomo. «Sono passato giusto oggi a dare un’occhiata e ti posso assicurare che non possiamo fare nulla. La tua macchina è inutilizzabile, non sono riuscito neppure a metterla in moto» continuò con tono convincente. «Comunque ho recuperato la tua borsa, pensavo ti potesse servire. L’ho qua fuori, aspetta un attimo che la prendo» disse Lucio incamminandosi verso l’uscita, ma Elena era già dietro di lui. Riusciva a sentire da lontano il suono che emetteva il suo cellulare, din, din, din… «Sta suonando» pensò mentre strappava la borsa delle mani di Lucio rovistando freneticamente alla ricerca di quell’odiato oggetto, che però in

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questo momento rappresentava la sua unica salvezza, il contatto con la realtà. Finalmente riuscì a trovarlo dopo aver svuotato a terra l’intero contenuto della borsa. Con la fronte imperlata dal sudore per la concitazione, aprì lo sportellino per rispondere. «Pronto… PRONTO!» urlò, nello stesso momento in cui si rendeva conto che non era la suoneria quella che aveva sentito. Fece appena in tempo a guardare il display che il telefono si spense. «La batteria, era il suono della batteria scarica» disse passandosi la mano tra i capelli, sconsolatamente. Si accasciò a terra tra la polvere fissando inebetita quell’aggeggio ormai inutile e iniziò a piangere in modo convulso, mentre i singhiozzi le scuotevano il petto. Lucio si avvicinò cercando di prenderle le mani nel tentativo di consolarla. «Lasciami stare» urlò lei alzandosi di scatto e appoggiandosi al bordo del pozzo. «ALINA» gridò Ada con una voce innaturale mentre le correva incontro, «stai lontana da lì, staccati dal pozzo, è pericoloso!» L’afferrò per le braccia con una forza smisurata spintonandola via e facendola cadere per terra. Elena rimase a bocca aperta per la sorpresa mentre la voce nella sua testa le ripeteva ossessivamente “devi andartene, vattene”. «Mi hai fatto prendere un bello spavento, bambina» disse Ada mentre asciugava con delicatezza le lacrime dal viso della ragazza. «Il pozzo è pericoloso, potresti caderci dentro e farti male, molto molto male» proseguì. «Lucio, aiutami a accompagnala in casa» disse autoritariamente. A braccetto tra quei due Elena si dirigeva verso la porta di ingresso trascinando i passi quasi come un condannato a morte che si dirige verso il patibolo. «Ma guarda come ti sei conciata, tutta sporca! Adesso ti preparo una bella tazza di the, tu ti siedi su quella sedia, ti calmi e poi, se vuoi, parliamo, sei d’accordo?» Elena annuì col capo e si sedette fissando il vuoto con aria sconfitta. Il the le fece bene, si era calmata e la sua mente stava lentamente ricominciando a funzionare con lucidità.

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«Ascolta Elena, adesso tu vai di sopra, ti dai una rinfrescata e ti cambi» disse Ada in tono materno, «se apri l’armadio in camera tua troverai tutto quello di cui hai bisogno. Lucio, ci vediamo dopo. Elena ha bisogno di riposare adesso». Fece come le era stato consigliato. Salì al piano di sopra, si fece un bagno caldo e avvolta in un morbido asciugamano rientrò in camera alla ricerca di qualcosa di pulito da mettersi. All’interno dell’armadio vi erano appesi alcuni indumenti: quattro o cinque paia di pantaloni, qualche vestito e svariate magliette di cotone colorate. Optò per un paio di jeans simili a quelli che aveva indossato la mattina e una maglietta color cielo con raffigurato un piccolo geco all’altezza del seno. Si vestì e legò i capelli. Quel semplice gesto le dava sicurezza. Era sempre stata cosi, sin da bambina. Bisognava apparire in ordine! La sua non era stata un’infanzia spensierata. Dopo la prematura scomparsa del padre era rimasta a vivere sola con la madre che, non riuscendo a superare la perdita del marito, si era attaccata morbosamente a lei. Cercava di proteggerla da tutto e tutti per paura che le potesse accadere qualsiasi cosa, la teneva perennemente vicino a sé senza rendersi conto che in quel modo la stava solamente allontanando. Nata in una famiglia agiata non le era mancato mai niente dal punto di vista economico, ma il vuoto che aveva lasciato quella disgrazia non poteva essere ripagato con nulla. Riusciva a ricordare perfettamente il funerale del padre anche se aveva solamente cinque anni. Il profumo dei fiori e di incenso le era rimasto attaccato addosso per giorni. Aveva assistito alla sepoltura per mano a una zia. Ordinatissima nel suo abitino nero e con le scarpine di vernice sembrava l’avessero vestita per andare a un ricevimento e non ad affrontare il primo grande dolore che la vita le aveva riservato. Le avevano fermato i lunghi capelli biondi con una coda di cavallo. Forte. Doveva essere forte, aveva pensato mentre guardava quasi

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distaccata sua madre che si disperava battendo i pugni sulla bara dell’uomo che amava, per nulla pronta a dirgli addio. Aveva continuato a raccogliere i capelli in quel modo ma nel suo armadio, ancora adesso, non c’era nulla di nero, neppure un paio di slip. Forse era stato proprio in quel momento che si era generata in lei la paura di amare o più precisamente la paura di perdere quello che amava. Ma era diventata forte! Era così immersa nei suoi ricordi da perdere la cognizione del tempo. Alzando lo sguardo verso la finestra si rese conto che era ormai sera. Avrebbe passato un’altra notte in quella casa . Scese in cucina rassegnata a quell’idea. «Ti sei riposata?» domandò Ada senza aspettarsi una risposta. «È quasi pronta la cena, aspettiamo Lucio e poi ci sediamo a tavola tutti insieme», “finalmente ancora tutti insieme, noi tre, proprio come ai vecchi tempi” pensò con gioia Ada. Il pasto si svolse tranquillamente discutendo del più e del meno. Elena non poteva evitare di cogliere gli sguardi d’intesa che si scambiavano gli altri due commensali. La loro era una confidenza maturata negli anni. Avevano deciso di rimandare tutte le decisioni all’indomani e Elena, in cuor suo, sperava che almeno la linea telefonica venisse ripristinata. Lucio si congedò salutando le due donne e Elena si offrì di rigovernare la cucina mentre Ada era intenta a impastare il pane per il giorno dopo. «Ho notato dei bellissimi quadri appesi alle pareti, chi li ha dipinti?» domandò curiosa Elena. «Alina» rispose l’anziana donna. «Era bravissima, stava ore ed ore seduta nel cortile a trafficare con tele e pennelli e riproduceva tutto quello che vedeva». «Come mai ne parli al passato, non dipinge più ora?» Vide la donna irrigidirsi per un attimo, le mani affondate nella pasta di pane, gli occhi bassi. «Non la vedo e non la sento da molti anni» sospirò. «Si è fatto tardi, dovresti andare a dormire» concluse troncando la discussione sul nascere. In effetti non aveva torto, era stata una giornata pesante e la stanchezza si stava facendo sentire. La salutò e andò in camera. Frugò ancora una volta nel grande armadio sicura di trovare qualcosa da

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indossare per la notte e si coricò lasciando accesa la piccola lampadina sul comodino. Lo sguardo le cadde sul piccolo geco stampato sulla maglietta che poco prima aveva appoggiato sulla sedia. Come un’eco le parole di Ada cominciarono a riecheggiarle nella mente “…i vestiti che indossi sono i suoi… dopo di lei nessun’altra è entrata in questa casa… non la vedo e non la sento da molti anni…” Le aveva mentito! Non sapeva per quale ragione ma era sicura che le avesse mentito. Quel piccolo disegno aveva spopolato un paio d’anni prima tra i giovani. Era stampato su tutte le magliette. E anche i jeans non potevano essere di Alina. Si alzò di scatto precipitandosi verso l’armadio. Lo aprì per controllare il resto degli indumenti. Erano tutti seminuovi e i modelli erano recenti e giovanili. È vero che quando aveva lasciato il paese la figlia di Ada aveva venticinque anni, ma quanto tempo era trascorso da allora? Facendo un rapido conto almeno il doppio, quindi ora doveva averne circa cinquanta. Non potevano essere i suoi vestiti. Ma che ragione avrebbe avuto Ada per mentirle? Forse aveva una nipote e a lei non lo aveva detto. In fondo non avevano parlato del resto della sua famiglia, non conosceva nulla di quella donna. Ci potevano essere mille ragioni per giustificare la presenza di quegli abiti. Stava diventando paranoica, rifletté. Avrebbe dovuto provare riconoscenza per quell’anziana signora che l’aveva accolta in casa sua e la stava trattando come una figlia, di questo ne era consapevole, ma la sua diffidenza innata la portava a sospettare di tutto e tutti. Doveva cambiare atteggiamento e imparare a fidarsi di più delle persone, si ripeteva cercando di convincersene. Si sedette sul letto pensando a Ada. Era la tipica contadina, i capelli bianchi nascosti da un fazzoletto legato dietro la nuca, l’abito lungo e informe sul quale portava un grembiule blu, il viso rugoso, segnato dal tempo e dal lavoro nei campi, dal quale spiccavano due occhi azzurri ancora pieni di vitalità. Era forte e agile nonostante l’età, l’aveva dimostrato quel pomeriggio quando l’aveva strattonata via dal pozzo.

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Ancora una volta l’aveva chiamata Alina. La figlia doveva mancarle molto. Chissà perché non si era fatta più sentire. Forse avevano litigato e, come spesso accade, l’orgoglio aveva prevalso sulla ragione spezzando il legame che c’era tra madre e figlia. O forse c’era dell’altro? Era curiosa di scoprire che cosa ci fosse sotto, ma allo stesso tempo non vedeva l’ora di tornarsene a casa. Spense la luce continuando a rimuginare in attesa che il sonno la sopraffacesse. Era quasi del tutto addormentata quando sobbalzò sentendo il rumore di una chiave che girava nella toppa e una porta che si apriva. Si alzò cercando di fare più piano possibile. In punta di piedi giunse davanti alla porta della stanza inginocchiandosi con un occhio chiuso e l’altro spalancato sul buco della serratura per vedere cosa stava accadendo. Da sotto la porta della stanza che aveva trovato chiusa quel pomeriggio filtrava una luce fioca. Ada era sicuramente lì dentro, si disse. Rimase in quella posizione per qualche minuto in attesa che succedesse qualcosa. Era quasi sul punto di uscire quando dall’altra stanza sbucò la donna. Elena la stava osservando al sicuro dalla sua postazione mentre lei lentamente richiudeva la porta, sistemava la chiave nella tasca del grembiule e, con la schiena poggiata al muro, fissava con amore l’oggetto che stringeva tra le braccia. Era una bambola che Ada prese a cullare come fosse una bambina e Elena era sicura che le stesse addirittura parlando. FINE ANTEPRIMACONTINUA...

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