LA PROGRAMMAZIONE COMUNITARIA 2014/2020 · prestazioni della governance e del government. ......

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LA PROGRAMMAZIONE COMUNITARIA 2014/2020: LE SFIDE E LE OPPORTUNITA’ DELLA SOSTENIBILITA’ AMBIENTALE ROMA, 17 Luglio 2014 LA PROGRAMMAZIONE DEI FONDI STRUTTURALI 2014/2020: LE SFIDE E LE OPPORTUNITA’ DELLA SOSTENIBILITA’ AMBIENTALE , ROMA 17 LUGLIO 2014 1

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LA PROGRAMMAZIONE COMUNITARIA 2014/2020:LE SFIDE E LE OPPORTUNITA’ DELLA SOSTENIBILITA’ AMBIENTALE

ROMA, 17 Luglio 2014

LA PROGRAMMAZIONE DEI FONDI STRUTTURALI 2014/2020: LE SFIDE E LE OPPORTUNITA’ DELLA SOSTENIBILITA’ AMBIENTALE , ROMA 17 LUGLIO 2014 1

Premessa

La fase di discussione in atto sull’utilizzo delle risorse comunitarie del ciclo di programmazione 2014-2020 rappresenta una grande occasione per affrontare e dare risposte concrete alle grandi emergenze del Paese ed avviare processi virtuosi e lungimiranti.

Da ambientalisti siamo però convinti che alla base di tutto ci deve essere una chiara presa di distanza dal modello di sviluppo ad alta intensità di energia e materia che ha caratterizzato l’economia italiana fino ad oggi, e che ha determinato e influenzato negativamente gli investimenti nei passati cicli di programmazione di spesa delle risorse europee.

La nuova fase di programmazione per il periodo 2014/2020 deve, a nostro avviso, avere l’orizzonte di una economia a basso contenuto di carbonio e deve contribuire fortemente alla lotta ai cambiamenti climatici nei suoi multiformi aspetti e funzioni. Deve essere l’occasione per costruire un profilo moderno al Paese, rilanciare l’occupazione ed insieme avviare a soluzione i grandi problemi strutturali (città, aree interne, mobilità, dissesto, …) creando nuova economia.

Una scelta che non è solo dettata dalla necessità di rispettare parametri "green" imposti dalla commissione europea, che devono essere presenti nei diversi Accordi di Partenariato (AP) che gli Stati membri stanno definendo, ma dalla constatazione che, per il nostro Paese, il tema della sostenibilità ambientale rappresenta l'unica scelta per creare occupazione nuova e sostenere l'innovazione della nostra economia e nelle nostre istituzioni chiamate a migliorare le loro performance, per dare risposte concrete ai cittadini e ai territori.

Una sfida che il nostro Paese può vincere a patto che la nuova programmazione tragga gli insegnamenti giusti dagli errori del passato e disegni con chiarezza la prospettiva verso cui andare.

Perché ciò avvenga, è necessario che le priorità siano chiare, condivise e vengano rispettate, e che per queste ci sia una sufficiente e garantita quantità di risorse da dedicare ad azioni specifiche e ben declinate, evitando, come successo spesso in passato, che si allarghi eccessivamente il campo delle azioni nella definizione dei Programmi operativi (PO). Per raggiungere questi obiettivi, è perciò necessario evitare l’eccessiva frammentazione degli interventi che spesso si accompagna ad una minore capacità di controllo con il rischio di una pericolosa dispersione delle risorse o, peggio, che finiscano con l’alimentare corruzione, illegalità ed ecomafie.

Sono questi, infatti, i rischi maggiori che si possono verificare se non si prevengono i pericoli e si frenano gli eccessi burocratici, quando nell’AP si passa dalla declinazione degli Obiettivi Tematici (OT) alla definizione dei Piani operativi regionali (POR).

Riteniamo importante che alla programmazione dei Fondi di investimento europei (SIE) si affianchi l’azione di pianificazione territoriale e settoriale (registriamo ritardi non solo nella pianificazione urbanistica, ma soprattutto nella pianificazione ambientale in quasi tutte le regioni – dai piani delle coste e delle spiagge, a quelli delle acque o dei rifiuti, ai piani di gestione dei Siti Natura 2000, ecc.), ma soprattutto la riforma della governance territoriale. In tal senso diamo molta importanza alle strategie connesse all’Obiettivo Tematico 11 (Rafforzare la capacità istituzionale delle autorità pubbliche e delle parti interessate e un’amministrazione pubblica efficienete), con particolare riguardo all’open data, all’open government e alla capacità di modernizzare e migliorare le prestazioni della governance e del government.

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Ciò in relazione alla strategia di integrazione e territorializzazione previste dall’AP per lo sviluppo locale di Investimenti Territoriali Integrati (ITI), e il Community-led local development (CLLD) e nelle articolazioni territoriali delle aree interne, aree urbane e aree metropolitane.Il processo di semplificazione anche da noi auspicato si facilita anche se i processi decisionali sui progetti discendono da chiare scelte strategiche pianificate, evitando la moltiplicazione delle conferenze di servizio.

Con riguardo alla concentrazione della spesa e ai rischi della frammentazione, riteniamo che più che su Grandi Progetti, occorra puntare su Progetti di Sistema declinandoli nei territori ma con strategie unitarie (manutenzione del territorio, salvaguardia delle coste, efficientamento energetico, solarizzazione, rete ecologica, infrastrutture verdi, etc.)Pur accettando qualche rischio, ma con le precisazioni su esposte, condividiamo comunque l’impostazione e il tentativo contenuto nell’AP di rafforzare l’approccio integrato allo sviluppo territoriale. Una esperienza che ha visto la sperimentazione di numerosi strumenti attuativi place-based, che guidati da obiettivi di sviluppo locale, hanno fatto leva sul coinvolgimento ed il protagonismo delle istituzioni e del partenariato locale e d'area vasta (Patti Territoriali, Progetti Integrati Territoriali del QCS 2000-2006, i Gruppi di Azione Locale del programma LEADER, i progetti urbani e territoriali promossi dalle Regioni nel 2007-2013).

Per quanto riguarda l’allocazione delle risorse finanziarie, è fondamentale che l’Accordo di Partenariato preveda almeno il 20% delle risorse a favore dell’azione per il clima ed un ulteriore 5% per lo sviluppo urbano integrato delle nostre città. Naturalmente è anche importante individuare un sistema di monitoraggio dello stato di avanzamento dell’intero programma, con chiari cronoprogrammi che adesso non ci sono, e con meccanismi di verifica della spesa non solo in termini quantitativi ma qualitativi, anche in termini di risultati raggiunti.

Occorre, inoltre, favorire l’affermazione di una nuova modalità di definizione e realizzazione della Programmazione comunitaria basata sull’azione coordinata tra le diverse istituzioni puntando concretamente alla Programmazione unitaria regionale, sulla semplificazione burocratica di un processo che sembra essere ispirato dal motto “complicato è bello”, e abbia come obiettivo di fondo non più la realizzazione di opere puntuali lanciate sul territorio in modo casuale ma azioni di livello territoriale con adeguate ricadute integrate negli ambiti economici, culturali e ambientali.

Seguendo la logica dell’impianto dell’AP per la programmazione della spesa dei SIE, tutti gli 11 Obiettivi Tematici previsti dal Regolamento, concorrono agli obiettivi di sostenibilità ambientale, sia con azioni direttamente dedicate alla protezione dell’ambiente e ad un uso efficiente delle risorse naturali sia promuovendo una crescita sostenibile col sostegno ad investimenti per la riduzione degli impatti ambientali dei sistemi produttivi.

Per quanto ci riguarda, consideriamo naturale concentrare l’attenzione sugli obiettivi tematici più strettamente legati al sostegno ad uno sviluppo e ad una economia a basso contenuto di carbonio e alla lotta ai cambiamenti climatici.

Obiettivi che condividiamo, anche se occorre fare di più per ciò che riguarda il sostegno alla produzione di energia da rinnovabili, che deve essere diffusa su tutto il territorio nazionale, anche nelle aree dove non saranno installati sistemi di distribuzione intelligente dell’energia (smart grids). Una scelta che ci consentirebbe di viaggiare speditamente verso un modello basato sulle fonti rinnovabili, e quindi distribuito e più democratico, più attento all’uso delle risorse presenti nei

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territori, alla domanda di energia e all’efficienza dei sistemi di gestione di impianti e reti, e rappresenterebbe un’assunzione di responsabilità seria rispetto agli obiettivi fissati dall’Unione Europea al 2020, assumendo la prospettiva di fare del clima la chiave di volta dell’innovazione industriale, sociale e territoriale.

E’ questo quello che serve all’Italia ed a cui deve guardare per raggiungere risultati significativi già al 2020, e magari andando anche oltre gli obiettivi fissati dal pacchetto 20-20-20 a livello europeo. Perché oggi è assolutamente credibile ridurre le emissioni del 30% e le fonti rinnovabili al 2020 potranno coprire più del 35% del fabbisogno elettrico attualmente previsto dal Piano Nazionale sulle rinnovabili. E, considerato il successo di partecipazione che il Patto dei Sindaci ha avuto in Italia e il notevole livello di tecnicalità e impegno profuso, sarebbe importante che i fondi contribuissero alla realizzazione degli interventi previsti dai PAES (già approvati o che verranno approvati durante il periodo di programmazione), nonché favoriscano l'ulteriore diffusione di questo strumento.

Per quanto riguarda invece l’efficienza energetica, nell’AP ci si limita al sostegno alla riqualificazione del patrimonio edilizio pubblico, mentre sarebbe importante prevedere il sostegno anche al settore privato all’interno di un approccio che eviti conflitti con l’UE, magari adottando modelli utilizzati già nel PSR per il sostegno alle imprese e l’ingegneria finanziaria (ESCO, BEI).Il coinvolgimento dei privati, porterebbe ad un maggiore slancio alle politiche di riqualificazione edilizia, aiutando il settore ad uscire dalla crisi stimolando misure con un forte impatto sullo sviluppo locale e con una considerevole ricaduta occupazionale, così come raccomanda la Commissione nel suo “Position Paper”, consentendo di avere anche la quota di investimento privato in sinergia con l’intervento pubblico. In ultima analisi, questo incentivo consentirebbe anche agli incapienti, che oggi non hanno accesso all’incentivo fiscale, ed alle famiglie che non hanno redditi sufficienti per accedere al credito di porre in essere interventi di ristrutturazione ed efficientamento del patrimonio edilizio.

I temi ambientali devono trovare, inoltre, una adeguata considerazione nelle attività di valutazione svolte ai diversi stadi della programmazione, al fine di verificare l’effettiva integrazione della dimensione ambientale nelle politiche di sviluppo, e devono creare maggiore consapevolezza degli effetti ambientali degli interventi.

Puntare sull’ambiente, all’interno della Programmazione comunitaria, può essere un fattore di competitività rilevante soprattutto per le Regioni del Mezzogiorno, le quali, nonostante gli avanzamenti istituzionali e i parziali risultati conseguiti nelle precedenti fasi di programmazione, restano penalizzate da divari ancora elevati nella disponibilità e qualità di servizi essenziali per cittadini e imprese, per la debolezza del rapporto fra Stato e cittadini e da decenni di errori dell’azione pubblica, dal radicamento e pervasività della criminalità organizzata, dai fenomeni acuti di esclusione sociale e dalla stessa percezione negativa dell’area che ne riduce l’attrattività per persone e capitali. Ma il Mezzogiorno è, al contempo, l’area del Paese dove sono presenti grandi opportunità di sviluppo connesse alla compresenza di fattori climatici e di beni artistici, naturali e culturali che fanno del Sud un luogo di enormi potenzialità di sviluppo turistico, e quelli che potrebbero derivare dallo sfruttamento della collocazione dell’area nel Mediterraneo. Per il Mezzogiorno, inoltre, una opportunità è rappresentata dall’attitudine partenariale delle otto Regioni, che deriva da una storica condivisione dei problemi, che ne ha rafforzato la capacità di coordinamento e di avviare iniziative interregionali volte a rimuovere i vincoli comuni allo sviluppo.

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Occorre, inoltre, prevedere un valore nazionale target ambizioso per tutti gli indicatori fisici obbligatori di risultato che i fondi nel loro complesso devono raggiungere, individuati dai Regolamenti UE approvati a dicembre 2013. ed in particolare rispetto per il numero di tonnellate di CO2 equivalente che verranno ridotte (tramite ogni Programma, priorità d'investimento e progetto), nonché il numero di abitazioni rese efficienti sotto il profilo energetico.

L’efficace attuazione delle strategie politiche regionali, come hanno dimostrato le esperienze dei cicli di programmazione passate, è subordinata alla salvaguardia della aggiuntività della spesa, compromessa da una inadeguata mobilitazione delle azioni politiche ordinarie e dove spesso i Fondi comunitari risultano essere l’unica voce di spesa su questioni fondamentali come l’ambiente, la formazione o i servizi ai cittadini e alle persone

Altro punto delicato, e che spesso ha comportato ritardi nella programmazione, è stata la mancata attuazione e la piena applicazione di direttive comunitarie in materia ambientale che hanno impedito, soprattutto al sud, a molte regioni di raggiungere gli obiettivi nella raccolta differenziata dei rifiuti o nel ciclo integrato delle acque a fronte di ingenti risorse impegnate. Da questo punto di vista, l’AP deve prevedere misure di incentivazione e criteri di premialità per i territori più virtuosi, e devono essere promosse modalità di aggregazioni locali e governance che hanno l’obiettivo di superare ritardi in campo ambientale.

E’ fondamentale, a nostro parere, rafforzare le governance territoriali anche attraverso il coinvolgimento del Partenariato economico e sociale (PES) che, soprattutto nelle realtà più avanzate, è diventato componente effettiva e in molti casi sostanziale del processo decisionale. A questo riguardo, dobbiamo segnalare che continua purtroppo a mancare, soprattutto a livello centrale, il riconoscimento pieno, attivo e permanente del ruolo del PES sia nella fase di predisposizione che di attuazione della Programmazione comunitaria. L’attuale coinvolgimento del PES, realizzato sulla base della rappresentatività presso il CNEL, ad esempio, impedisce alle associazioni ambientaliste di essere pienamente coinvolte e in grado di partecipare in maniera adeguata.

Nella programmazione 2014/2020, a nostro avviso, dovrà crescere l’intensità dello sforzo in comunicazione, con una maggiore enfasi sul monitoraggio periodico e sulla valutazione dell’impatto delle azioni di comunicazione. Gli obblighi di comunicazione devono essere posti in capo non solo alle Autorità di Gestione ma anche ai beneficiari, quali primi testimoni del ruolo svolto dall’Unione europea nel finanziamento di opere e servizi di pubblica utilità.

Prima di passare alla trattazione degli argomenti specifici va sottolineato che consideriamo importante che la programmazione 2014-20 sia affiancata da una strategia di sviluppo economico, ambientale e sociale che promuova l’occupazione soprattutto giovanile, rinnovando il mercato del lavoro con la stretta sinergia di tutti i fondi con il Fondo Sociale Europeo (FSE). Il nesso ideale tra gli OT 1 e 3 (passando attraverso gli OT 4, 5 e 6, a più marcata impronta ambientale) e gli OT 8, 9 e 10 deve trovare in tutti i PO e i POR la capacità di coniugare la ricerca e l’innovazione con la promozione della competitività delle imprese e l’incremento dell’occupazione. Riteniamo, inoltre, che in questa strategia un ruolo importante debba svolgerlo, opportunamente inserito tra i Beneficiari dei SIE, il Terzo Settore, dall’associazionismo all’Impresa Sociale, come uno soggetti in grado di promuovere politiche attive del lavoro, con particolare attenzione ai Green Jobs e alla strategia di Garanzia Giovani.

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1. La sfida della rigenerazione urbana: cambiare per uscire dai problemi legati allo smog, all’inquinamento ambientale e alla vivibilità nelle città

Oggi le aree urbane si trovano in una situazione di stallo, dove i problemi legati alla mobilità, all’inquinamento atmosferico, all’erogazione dei servizi restano sempre senza risposte adeguate.La gravissima crisi economica, che ha particolarmente colpito l'edilizia e la contemporanea crisi climatica, insieme alla trasformazione culturale delle città e all'emergere di nuove consapevolezze e nuove domande di cambiamento degli stili di vita, impongono oggi un ripensamento radicale per rigenerare i centri urbani.

Rigenerare le città significa cambiare modo di concepirle, pensarle e progettarle.

Per farlo occorre la collaborazione dei cittadini ed una regia nazionale che metta al centro la riqualificazione urbana, energetica e antisismica del patrimonio edilizio esistente ed il ripensamento del sistema della mobilità. Una regia nazionale risulta quindi indispensabile per scegliere e coordinare gli interventi prioritari. Magari attraverso la definizione di un Programma operativo nazionale.

Una rigenerazione urbana fondamentale per fermare il consumo di suolo, per riportare qualità e identità dei centri urbani rispondendo alle sfide delle trasformazioni socio-economiche, della riduzione delle emissioni climalteranti e l'adattamento ai cambiamenti climatici (come le isole di calore) e degli inderogabili impegni in campo energetico, tramite la nascita e diffusione di eco-innovazioni tecnologiche e negli stili di vita. In altri termini, le città sono centrali per riuscire a raggiungere gli Obiettivi Tematici 4, 5, 6, 1 e 3. Ma anche per creare nei prossimi anni nuovi posto di lavoro nel settore dell’edilizia ed aiutare le famiglie nel risolvere i problemi legati alla spesa energetica, all’accesso a case dai prezzi accessibili, al rischio sismico e al progressivo degrado delle periferie.

Gli investimenti previsti con la programmazione comunitaria da soli non bastano a generare questa rivoluzione perché nel nostro Paese non esiste una politica nazionale per le città.

La confusione di responsabilità rispetto a chi si debba occupare di efficienza energetica o di mobilità sostenibile tra Ministero delle infrastrutture, Ministero dello sviluppo economico, Ministero dell'Ambiente è emblematica. In questi anni nessuno se ne è occupato sul serio e ora, in assenza di un cambiamento, il rischio è che si vanifichi in parte anche l’efficacia della spesa delle risorse europee e che venga perso ulteriore tempo nell’avviare una strategia di riqualificazione urbana, ambientale e sociale che può avere nel nostro Paese un ruolo fondamentale per uscire dalla crisi economica e aiutare le famiglie, la coesione sociale, la qualità e vivibilità.

Nell’ambito del nuovo quadro finanziario comunitario per l’Italia, le risorse in gioco sono significative: considerando i vincoli per la destinazione a interventi in materia di energia e clima e i cofinanziamenti, si possono mobilitare per l’efficienza energetica almeno 7 miliardi di Euro. Risorse che possono diventare un volano per la riqualificazione urbana, edilizia e territoriale. In uno scenario di questo tipo diventerebbe possibile in poco tempo creare almeno 600mila nuovi posti di lavoro a regime perché legati alla riqualificazione e manutenzione di un enorme patrimonio, che possono arrivare a circa 1 milione considerando tutto l’indotto della filiera delle costruzioni.

Per la riqualificazione del patrimonio edilizio pubblico, in particolare, la Direttiva stabilisce che dal

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gennaio 2014 ogni anno siano realizzati interventi di ristrutturazione in almeno il 3% delle superfici coperte utili totali degli edifici riscaldati e/o raffreddati di proprietà pubblica, per rispettare almeno i requisiti minimi di prestazione energetica della Direttiva 2010/31 con l’obiettivo di svolgere “un ruolo esemplare degli edifici degli Enti pubblici”. Per la gestione del patrimonio edilizio di Ministeri, Regioni, Comuni è un cambiamento enorme, che va accompagnato con risorse e obiettivi, analisi e audit del patrimonio, azioni di risparmio energetico e di efficienza del patrimonio edilizio, cambiamenti nei sistemi di gestione dell’energia.Occorrono poi certezze per la certificazione energetica delle abitazioni, attraverso regole semplici, coerenti e finalmente omogenee in tutto il territorio nazionale, per migliorare le prestazioni degli edifici, garantendo i cittadini. Dopo anni di ritardi e di contraddizioni tra norme nazionali e regionali e differenze tra territori, servono indicazioni chiare per dare credibilità alla certificazione attraverso controlli indipendenti e sanzioni vere, norme chiare per le prestazioni degli involucri e degli impianti, garanzia su chi può certificare. Altrettanto indispensabile è dare certezza sulla sicurezza antisismica degli edifici. Continuiamo ad assistere a troppe tragedie senza responsabili, a crolli e sciagure per edifici costruiti male, in luoghi insicuri, senza avere nessuna speranza che qualcosa cambierà in futuro. Questa situazione va superata stabilendo l’obbligo di dotarsi di un libretto antisismico per tutti gli edifici esistenti. Per questo motivo va introdotto il Fascicolo del Fabbricato, che deve rappresentare la carta di identità delle strutture, permettendo così di conoscere il grado effettivo di affidabilità e sicurezza degli edifici in termini di vulnerabilità sismica e rispetto ai rischi idrogeologici dell’area. Oltre l’investimento dei Fondi strutturali è quindi necessario armonizzare gli interventi esistenti, mettere in campo politiche nuove, per rendere veramente efficace l’azione complessiva volta a rendere più sicuro ed energeticamente sostenibile il nostro patrimonio edilizio.

Così come per l’edilizia pubblica, occorre una strategia per spingere gli interventi di riqualificazione anche del patrimonio edilizio privato. Negli ultimi quindici anni la politica delle detrazioni fiscali ha rappresentato uno straordinario volano per il settore delle costruzioni spingendo la manutenzione del patrimonio edilizio e il miglioramento delle prestazioni energetiche e contribuendo a far emergere una parte del lavoro nero. È una politica che crea lavoro, che si ripaga con l’economia, la fiscalità e il lavoro che mette in moto e che se oggi può beneficiare anche dei fondi strutturali deve evolversi per diventare più trasparente ed efficace in termini di risultati energetici che produce.La ricetta per trasformare le nostre città in aree urbane sostenibili a livello ambientale, sociale ed economico è quindi quella che punta agli Ecoquartieri perché cambiare e dare nuova linfa vitale alle città non significa necessariamente edificare nuove aree, bensì partire da quelle già esistenti.È questa la filosofia che c’è dietro gli Ecoquartieri, che rappresentano una risposta forte e integrata alle difficoltà generate dalla crisi immobiliare, dall’inquinamento e dalla necessità di adattamento ai cambiamenti climatici, dallo svuotamento dei centri storici, delle periferie deindustrializzate, dal consumo di suolo.Si tratta di un nuovo modo di ripensare “porzioni di città”, dove realizzare servizi adeguati, aree verdi, dove diffondere buone pratiche sostenibili, sviluppare un trasporto pubblico e ciclopedonale sicuro ed efficiente. In Italia l’esperienza di Milano e quella delle sorelle europee stanno dimostrando come gli ecoquartieri siano un modello per il futuro delle città europea. In particolare il valore trainante delle prime esperienze di “housing ecologico” degli anni novanta (Vauban a Friburgo, Solarcity a Linz, BedZED a Londra, Hammarby Sjostad a Stoccolma, GWL Terrein ad Amsterdam), si è trasformato nel primo decennio di questo secolo in decine di successi immobiliari, capaci di dare nuova identità a quartieri abbandonati, insediamenti in periferia e aree dismesse.

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Oggi si stanno ri-costruendo ecoquartieri in centinaia di città europee, capaci di ospitare migliaia di abitanti e lavoratori: in Francia 394 candidature al bando nazionale 2011 con un centinaio di cantieri aperti, ad Amburgo, in Germania, è stato aperto il più grande cantiere di trasformazione urbana d’Europa nella zona portuale.

2. Gestione e tutela delle acque e mitigazione del rischio idrogeologico

L’acqua è ormai riconosciuta sempre più come bene comune da preservare per le generazioni future. Lo ha ribadito anche l’Agenzia Europea per l’Ambiente nel rapporto pubblicato nel marzo 2012 dal titolo “Verso un uso più efficiente delle risorse idriche in Europa”, evidenziando l’importanza di mettere in campo politiche necessarie a garantirne la tutela, in particolare nei Paesi dell’Europa meridionale che destinano grande quantità di risorse idriche all’irrigazione. Le indicazioni dell’Agenzia Europea per l’Ambiente sono state recepite dalla Comunicazione della Commissione Europea al Parlamento del 2013 nota come “Blue print” (Piano per la salvaguardia delle risorse idriche europee). Inoltre da tempo l’Europa richiama l’Italia, a partire dall’approvazione della direttiva 2000/60, ad avere corsi d’acqua in buono stato. Il 22 dicembre 2015 scade il termine per il raggiungimento degli obiettivi ambientali previsti dalla direttiva, in termini di conseguimento (o mantenimento) del “buono stato ecologico” per tutti i corpi idrici.Obiettivo della Water Framework Directive è fissare un quadro comunitario per la protezione delle acque superficiali interne, di transizione e di quelle costiere e sotterranee, che assicuri la prevenzione e la riduzione dell’inquinamento, agevoli l’utilizzo idrico sostenibile, protegga l’ambiente, migliori le condizioni degli ecosistemi acquatici e mitighi gli effetti delle inondazioni e della siccità. In particolare l’articolo 4 della direttiva prescrive che gli stati membri “proteggano, migliorino e ripristinino” sia i corpi idrici superficiali che le acque sotterranee al fine del raggiungimento di un buono stato ecologico e chimico delle acque superficiali e di un buono stato quantitativo e chimico delle acque sotterranee. Ma continuano ad essere pochi in Italia i casi in cui si è investito sui corsi d’acqua con interventi di riqualificazione, rinaturalizzazione, prevenzione e mitigazione del rischio e insieme di tutela degli ecosistemi.

Il quadro più completo e coerente sullo stato di attuazione della WFD in Italia è fornito dal Documento di lavoro dei servizi della Commissione che accompagna la relazione consegnata nel novembre del 2012 dagli Stati membri, al Parlamento Europeo e al Consiglio sull’attuazione della direttiva 2000/60. In Italia. Secondo quanto riportato nel documento non si conosce lo stato ecologico per il 56% e lo stato chimico per oltre i tre quarti (78%) dei corpi idrici superficiali. A livello di distretto non è noto lo stato ecologico di circa la metà dei corpi idrici superficiali ricadenti nei distretti idrografici delle Alpi orientali e dell’Appennino centrale con percentuali che vanno dal 49 al 75. Il 96% delle acque superficiali ricadenti nel distretto idrografico dell’Appennino meridionale e la totalità dei corpi idrici ricadenti in Sicilia ed in Sardegna non sono stati valutati. I numeri raccolti dall’Agenzia Europea per l’Ambiente nel 2012 (dati 2009), che ancora oggi rappresentano l’ultimo quadro di riepilogo sul tema, rivelano che nel 2009 erano il 42% i corpi idrici superficiali europei che godevano di un buono o elevato stato ecologico. In Italia la situazione è peggiore: innanzitutto non si conosce lo stato ecologico del 56% e lo stato chimico del 78% delle acque superficiali; i corpi idrici che ricadono nelle classi elevato e buono per lo stato ecologico sono complessivamente il 25%, mentre per lo stato chimico sono in classe buono il 18% delle acque superficiali monitorate.

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Un dato che merita particolare attenzione è anche quello che riguarda le previsioni di raggiungimento degli obiettivi di qualità dei corpi idrici superficiali in Italia: dall’attuale 25% valutato in un buono o migliore stato ecologico, secondo le informazioni comunicate alla Commissione europea, la percentuale dovrebbe salire soltanto al 28,8 entro il 2015.

Ci sono poi anche i problemi strutturali di cui soffrono i depuratori e le fogne in Italia, come emerge dai dati del Blue Book 2014, il rapporto di Federutility sul servizio idrico integrato. La copertura del servizio è arrivata oggi al 78,5% della popolazione, un dato che dimostra il nostro ritardo nei confronti degli obiettivi europei (adeguamenti richiesti già entro il 2005). Se al nord la copertura raggiunge l’85%, al centro si attesta all’81%, mentre al sud arriva solo al 69%, con oltre un terzo dei cittadini non serviti da impianti di trattamento. Oltre gli aspetti ambientali, c’è la minaccia di pesanti sanzioni per le procedure di infrazione che scaturirebbero dal mancato rispetto delle indicazioni dettate dalle direttive sulla qualità delle acque o sulla depurazione che ci spingono a ripensare e rilanciare una seria e concreta politica di tutela delle risorse idriche, a partire dai fiumi.

Sono ben 6.633 i comuni italiani in cui sono presenti aree a rischio idrogeologico, l’82% del totale. Una fragilità che risulta particolarmente elevata in regioni come Calabria, Molise, Basilicata, Umbria, Valle d’Aosta e nella Provincia di Trento, dove il 100% dei comuni è classificato a rischio, subito seguite da Marche e Liguria (col 99% dei comuni a rischio) e da Lazio e Toscana (col 98%). Ma la dimensione del rischio è ovunque preoccupante, con una superficie delle aree ad alta criticità geologica che si estende per 29.517 Kmq, il 9,8% del territorio nazionale. In Italia oltre 5 milioni di cittadini si trovano ogni giorno in zone esposte al pericolo di frane e alluvioni. Gli eventi che continuano a verificarsi nei diversi territorio evidenziano in modo inequivocabile che le conseguenze dei cambiamenti climatici su un territorio reso drammaticamente vulnerabile dall’eccessiva antropizzazione e dalla mancanza di manutenzione, non riguardano solo il futuro del nostro pianeta, ma già oggi costituiscono un elemento da cui non si può più prescindere.

Dobbiamo perciò utilizzare la Programmazione comunitaria 2014/2020 per superare definitivamente queste criticità, e costruire al contempo politiche integrate basate su piani strategici che coinvolgano i diversi attori (pubblici e privati) puntando a ridurre i prelievi e i carchi inquinanti. Occorre puntare su azioni di riqualificazione dei corsi d’acqua e rinaturalizzazione delle sponde, affrontare il tema dell’impermeabilizzazione dei suoli nelle aree urbane e nella gestione delle acque di pioggia, della cementificazione delle sponde e degli alvei dei corsi d’acqua, favorire i processi naturali di fitodepurazione e il riutilizzo delle acque ai fini industriali e irrigui, migliorare in qualità e quantità l’impiantistica esistente specifica per la raccolta e il trattamento dei reflui civili e industriali su cui ancora oggi siamo in forte ritardo. Non dimenticandoci che oggi la sfida della qualità della risorsa e quella della mitigazione del rischio idrogeologico devono andare avanti in maniera coordinata, come indicato anche dalle direttive europee 2000/60 e 2007/60.

Un tema importante, che la fase di concertazione può affrontare positivamente, è quello degli strumenti di partecipazione che definiscano percorsi condivisi per superare le criticità e stabiliscano le politiche da mettere in campo per risanare e tutelare le risorse idriche nel nostro Paese. Esistono già strumenti come i Contratti di Fiume, che consentono, a livello di bacino o sottobacino, di supportare la pianificazione e programmazione all’interno dei Distretti Idrografici, secondo un approccio integrato e multifattoriale e di integrare i Piani e le norme sulla gestione e tutela delle acque e la mitigazione del rischio idrogeologico. L’auspicata trasformazione delle politiche idriche nel nostro

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Paese dunque deve mettere in campo un profondo rinnovamento e rappresentare una vera opportunità in termini non solo ambientali ma anche economici e occupazionali.

Un recente studio dell’istituto di ricerche Ambiente Italia ha stimato che a fronte di un investimento ipotizzato nel settore idrico di 27 miliardi di euro nei prossimi dieci anni si potrebbero creare oltre 45.000 posti di lavoro. Rimane però il nodo su come reperire le risorse.Su questo alcune azioni possono essere applicate fin da subito e fra queste proprio il buon utilizzo dei Fondi comunitari che vedono nelle politiche di tutela delle risorse idriche e di applicazione degli obiettivi delle direttive europee acque (2000/60) e alluvioni (2007/60) una delle loro finalità principali, con l’integrazione delle azioni di risanamento delle acque nei programmi di gestione del territorio, in primo luogo nei piani di gestione dei distretti idrografici e nei piani di sviluppo rurale, in quanto fortemente interdipendenti nel raggiungimento di obiettivi di qualità dei corpi idrici fluviali, lacustri e costieri. Si tratta di opportunità finanziarie concrete che devono essere integrate con risorse nazionali (Cofinanziamento o FSC) il cui utilizzo deve però tenere conto dell’applicazione del principio di chi inquina paga, la definizione di una tariffazione progressiva del servizio idrico, sistemi di incentivazione, premialità e vincoli sui sistemi di smaltimento delle acque meteoriche e degli scarichi.

Anche per l’acqua in agricoltura ci sono interessanti opportunità. Infatti la nuova Politica agricola comune (PAC) che detta le linee strategiche del settore le politiche di investimento per i prossimi anni (2014-2020) è molto attenta ai temi ambientali dando un ruolo importante alla risorsa idrica e ad una sua gestione sostenibile, anche se ancora soffre di una vecchia impostazione basata su un modello agricolo intensivo/industriale. Tuttavia le Politiche di Sviluppo Rurale consentono di correggere questa impostazione. Infatti tutta la politica di sviluppo rurale (il 2° pilastro) tende a favorire un modello di agricoltura di qualità e di efficiente gestione delle risorse naturali. Ed è proprio (e solo) sullo sviluppo rurale che possiamo avere carte da giocare, in particolare: la risorsa acqua è in testa a 2 delle 6 priorità dei PSR: priorità 4 "preservare, ripristinare e valorizzare gli ecosistemi connessi all'agricoltura e alla silvicoltura" (4.b migliore gestione delle risorse idriche, compresa la gestione dei fertilizzanti e dei pesticidi) e priorità 5 "incentivare l'uso efficiente delle risorse e il passaggio a un'economia a basse emissioni di carbonio ecc" (5.a rendere più efficiente l'uso dell'acqua nell'agricoltura) e diverse misure dei PSR prevedono esplicitamente tra le azioni finanziabili gli interventi sull'acqua. Ma su questo ci sono ancora alcuni aspetti su cui lavorare.

Il PSR nazionale si è riservato una quota di investimenti per il completamento e miglioramento degli invasi e delle reti idriche soprattutto al Sud. Le risorse sono però ridicole (300 milioni di euro per tutti gli interventi) e visto che il PSR nazionale si è arrogato gli interventi su tutti gli invasi sopra i 250.000 mc, ancor di più non si capisce cosa potrà fare di serio con quelle poche risorse. Il Governo ha ventilato la possibilità di un sostegno maggiore, necessario visto che quello del recupero e della riqualificazione degli invasi, ossia di forme alternative di prelievo idrico rispetto a quello dalle falde o dai corpi idrici superficiali, è un elemento strategico fondamentale nella lotta ai cambiamenti climatici. Quanto alle Regioni, interverrebbero sui piccoli invasi privati o collettivi, ma non si capisce poi chi si assume l'impegno di realizzare le reti di adduzione. L'art. 46 "Investimenti nell'irrigazione" del Regolamento europeo sui PSR (Reg. 1305/2013) detta le condizioni per le spese ammissibili, tra cui i piani di gestione dei bacini idrografici conformi alla Direttiva Acque. In Italia c’è il rischio che in molte zone, dove la qualità delle acque non è garantita, siano bloccati tutti gli investimenti di miglioramento dei sistemi irrigui sia pubblici sia delle singole aziende agricole. In questo senso l’integrazione delle politiche è fondamentale.

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Infine anche per la politica di mitigazione del rischio idrogeologico i PSR possono giocare un ruolo importante. Infatti l’agricoltura svolge un ruolo importante anche per la gestione del territorio. Nelle politiche di Sviluppo Rurale, alcuni dei presupposti di base per poter ottenere positivi risultati nella gestione del territorio sono: la definizione, da un punto di vista tecnico, di quali sono le pratiche agricole che danno effettivi benefici e sulle quali concentrare le misure dei PSR; la formazione ed informazione degli agricoltori. Particolare importanza al proposito rivestono le misure dei PSR relative alla gestione attiva delle risorse forestali (misura 8) con riguardo al mantenimento di un adeguato livello delle funzioni di protezione idrogeologica. Ma anche nelle misure della futura programmazione dei fondi strutturali, (POR-FERS) specialmente per le aree interne del paese, gli interventi di manutenzione del paesaggio in aree a rischio e di mitigazione del rischio idrogeologico dovranno essere introdotti.

3. Gestione dei rifiuti

La politica di coesione riconosce un ruolo importante alle tematiche relative al miglioramento della quantità e qualità dei servizi ambientali per migliorare la qualità della vita nei territori, e prevede interventi per la gestione dei rifiuti solidi urbani. Nonostante, le ingenti risorse comunitarie impegnate dal nostro Paese nei precedenti cicli di programmazione, e la scarsa capacità dimostrata nel raggiungere i risultati attesi.A livello nazionale, la raccolta differenziata raggiunge, nel 2012, una percentuale pari al 39,9% della produzione totale dei rifiuti urbani con una crescita rispetto al 2007, anno in cui tale percentuale si assestava al 27,5%. Nonostante il miglioramento non vengono ancora conseguiti gli obiettivi fissati dalla normativa e, soprattutto, il risultato è ottenuto non in maniera omogenea sul territorio nazionale. I dati, infatti, ci restituiscono una situazione differente nelle tre macro aree geografiche, segno evidente che, anche per quanto riguarda la raccolta differenziata, l’Italia procede a velocità diverse con il Nord al 52,6%, il Centro al 32,9% ed il Sud al 26,7%. Alla luce di questi dati e degli obiettivi posti dalla normativa comunitaria, sia nell’Italia centrale che nel Mezzogiorno dove, nel complesso e malgrado alcuni avanzamenti localizzati, si è ancora distanti da standard minimi di servizio adeguati.È necessario continuare a finanziare e sostenere la politica europea in materia di gestione dei rifiuti con l'obiettivo di ridurne quantità e pericolosità, nell'ottica di un disaccoppiamento tra crescita economica, consumo e produzione di rifiuti. Risultati e azioni proposti seguono, infatti, una gerarchia d'intervento che considera prioritaria la prevenzione, conseguibile attraverso una trasformazione delle filiere produttive e delle abitudini di consumo, cui seguono la preparazione per il riutilizzo, il riciclaggio, il recupero e solo come residuale lo smaltimento finale in discarica.

Il nostro Paese deve adottare un serio programma nazionale di prevenzione, obbligando il mondo della produzione e della distribuzione, oltre a tutti gli altri soggetti (commercianti, agricoltori, artigiani, enti locali, aziende di igiene urbana) a cambiare rotta, come avvenuto con successo in Germania negli ultimi 20 anni utilizzando la leva economica. Chi produce più rifiuti deve pagare di più: questo deve valere per le aziende (ci sono imprese italiane che lavorano sul mercato nazionale, esportano in Germania e imballano lo stesso prodotto in due modi diversi e questo non è più accettabile) ma anche per i nuclei famigliari (il nuovo tributo sui rifiuti - la Tari - deve essere equo e puntuale per far pagare meno le famiglie più virtuose).Per fare in modo che si possa ridurre e riciclare prima di tutto, occorre infine rivedere il sistema degli incentivi: la discarica e il recupero energetico devono essere le due opzioni più costose, il

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riciclaggio e la prevenzione quelle più economiche. Solo così potremo rendere l’Italia “rifiuti free”, facendola diventare uno dei paesi capofila di quella società europea del riciclaggio ben delineata nella normativa comunitaria più recente.Coerentemente con l’obiettivo “rifiuti free” nell’AP deve essere chiarito che le risorse comunitarie che verranno utilizzate per le politiche sui rifiuti, possono finanziare solo le azioni a sostegno delle filiere gestionali e produttive innovative per ridurre la produzione dei rifiuti e di quelle del recupero di materia da raccolta differenziata, e non devono assolutamente finanziare attività di smaltimento in discarica o di recupero energetico dei rifiuti. Solo così si interromperà la spirale, soprattutto in alcune aree del mezzogiorno, che vede l’uso di ingenti risorse finanziare utilizzate per alimentare sistemi fondati sull’uso pressoché esclusivo della discarica a cui non sono estranei i circuiti criminali attorno al ciclo dei rifiuti (ecomafie). Solo attraverso misure draconiane contro i “signori” delle discariche o degli inceneritori, e solo incentivando al massimo i circuiti legali e virtuosi di prevenzione, raccolta differenziata e riciclaggio si può invertire una tendenza per promuovere un ciclo dei rifiuti sostenibile da Nord a Sud.

4. Natura e biodiversità

La costruzione di un quadro coerente delle politiche ambientali, è un aspetto essenziale per garantire la concreta realizzazione di una rete di interventi e attività pienamente rispondenti alle necessità della conservazione e valorizzazione della biodiversità degli ambiti naturali dell’intero territorio nazionale. Tale quadro deve essere strutturato all’interno delle politiche di coesione che prevedono opportune misure di adattamento ai cambiamenti climatici in atto, che hanno effetti diretti sulla perdita di biodiversità e sulle strategie di sostegno per il mantenimento o rispristino dei servizi ecosistemici. Politiche che si possono attuare attraverso interventi sulle infrastrutture verdi e le reti ecologiche, ma anche per contenere processi di desertificazione e per la salvaguardia degli ecosistemi, per il miglioramento dell’utilizzo delle risorse idriche e la valorizzazione di attività agricole tradizionali.

Sono gli stessi obiettivi contenuti nella Strategia nazionale per la biodiversità (SNB), approvata nel 2010, che attraverso le risorse comunitarie possono trovare concreta attuazione, in un rapporto di reciproca collaborazione tra Ministero dell’Ambiente e Regioni, per attuare azioni e progetti per la valorizzazione delle risorse naturali, culturali e paesaggistiche locali, trasformandole in vantaggio competitivo per aumentare l’attrattività del territorio e migliorare la qualità della vita dei residenti e promuovere nuove forme di sviluppo economico sostenibile.

Dobbiamo segnalare, purtroppo, anche per questa tornata di programmazione comunitaria, come per le precedenti, che rimane ancora prioritario l’obiettivo della messa in atto di strategie per migliorare lo stato di conservazione della rete natura 2000, un obiettivo che nel nostro Paese, a distanza di 22 anni dall’approvazione della direttiva Habitat ed a fronte delle ingenti risorse comunitarie impegnate, non è stato ancora raggiunto.L’attuazione di misure per la valorizzazione delle risorse naturali e della biodiversità, richiede un approccio integrato che consideri in maniera unitaria la complessità delle risorse (naturali, paesaggistiche e culturali) presenti sul territorio e che sia in grado di coniugare efficacemente tutela e sviluppo sociale ed economico. L’approccio integrato, e una maggiore concentrazione e selezione degli interventi, è volto a superare i limiti, ma anche a valorizzare appieno i risultati, dei precedenti cicli di programmazione.

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Occorre migliorare la selettività degli interventi, la loro integrazione territoriale e funzionale, e porre maggiore attenzione agli aspetti legati alla sostenibilità finanziaria e gestionale delle iniziative proposte. Superare il limite di interventi puntuali, che non rispondono a chiare priorità di conservazione o rivolti essenzialmente a singole aree territoriali anziché al collegamento ecologico e funzionale fra le diverse aree in una strategia di area vasta ad ambiti o sistemi territoriali omogenei, o che non tengono conto di obiettivi strategici di tutela delle specie e habitat d’interesse comunitario, a rischio o minacciate dalla presenza di altre specie invasive/alloctone.

Per favorire la piena attuazione delle strategie dell’UE per conservare la biodiversità ed il paesaggio, dovrà essere rafforzata la partecipazione di tutti i soggetti interessati alla definizione dei piani di azione di area vasta puntando sulle politiche di sistema. E’ fondamentale l’integrazione della SNB nella pianificazione paesaggistica e di settore, e l’integrazione delle azioni di tutela e gestione della biodiversità e del paesaggio con le politiche di valorizzazione territoriale. Dovranno essere promosse e potenziate, le partnership attraverso un maggior coinvolgimento degli attori locali, inclusi gli operatori agricoli, nelle azioni di conservazione e gestione della biodiversità.E’ fondamentale, per raggiungere gli obiettivi, una adeguata attuazione di politiche di partenariato locale e istituzionale, per la promozione e la diffusione di modelli di progettualità integrata e condivisa, anche con l’obiettivo di superare la mancanza di strumenti di pianificazione e/o piani di gestione di molte aree di interesse naturalistico, e di sopperire alla cronica inadeguatezza delle strutture e dei soggetti di supporto all’assistenza tecnica e alla gestione amministrativa dei progetti.

Per conservare la biodiversità di cui è ricco il nostro Paese, è prioritario raggiungere l’obiettivo di un adeguato finanziamento della SNB attraverso la programmazione comunitaria, a condizione però che un adeguato finanziamento venga posto dalle Regioni e dal Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare nell’ambito delle proprie politiche ordinarie, in grado di sostenere anche azioni e progetti integrati di ambito interregionale. Questa modalità di intervento deve poter individuare degli strumenti attuativi estremamente articolati, sia nella loro definizione che nella conseguente realizzazione, capaci di raccogliere tutti i contenuti e le modalità attuative (indirizzo, elaborazione, concertazione) realmente rappresentative delle aree interessate.

E’ possibile immaginare la costruzione di un nuova modalità operativa basata, per la biodiversità e le aree protette, su progetti strategici locali o di area vasta, costruiti sulla base di un livello di integrazione profondo con i grandi interventi di sistema a livello nazionale (alpi, appennini, coste, ambiti periurbani o seminaturali, isole minori) e con la SBN, anche in considerazione dei tanti progetti Life che sono intervenuti per salvaguardare specie e habitat del nostro Paese.I caratteri fondamentali che dovranno essere presenti nella progettualità attuativa, sono costituiti da quella serie di elementi inderogabili che legano la biodiversità, le aree protette e gli ambiti naturali, alle realtà territoriali di intervento intese come insieme fisici, economici e insediativi la cui articolazione è il risultato di una integrazione storicamente consolidata.

I singoli progetti dovranno rappresentare il momento di confluenza di una serie di fattori legati alle qualità dei luoghi, alle qualità dei processi di intervento proposti, ai livelli di equilibrio imposti, alla integrazione delle politiche ambientali con le politiche di sviluppo locale e di sviluppo rurale, in una logica di forte integrazione tra le misure di intervento e gli assi strategici.

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5. La gestione forestale sostenibile

Le foreste si estendono oggi per 4 miliardi di ettari e ricoprono il 31% del totale della superficie terrestre, conservano l’80% delle specie animali e vegetali presenti sul nostro Pianeta e danno sostentamento a 1,6 miliardi di persone. Le foreste infatti forniscono ossigeno, cibo, principi attivi farmaceutici e acqua dolce (nel solo bacino fluviale amazzonico scorre un quinto di tutta l’acqua dolce del Pianeta), contrastano la desertificazione, aiutano a prevenire l’erosione del suolo, e svolgono un importante funzione come per la stabilizzazione del clima e il surriscaldamento globale, assorbendo ogni anno 289 miliardi di tonnellate di anidride carbonica e fungendo da depositi naturali di carbonio. Solo in Italia i fenomeni di erosione e dissesto, dal dopoguerra ad oggi, hanno causato 1.446 morti e sono costati 16,6 miliardi di euro e nel solo 2010 in Italia sono stati stanziati circa 650 milioni di euro, a causa di dissesti idrogeologici. Un rischio tutt’altro che passato, se si considera che il 4,5% del territorio nazionale è considerato a rischio di frana, e il 4,4% a rischio di alluvione.Questo patrimonio è stato però profondamente intaccato: secondo i dati pubblicati dalla FAO nel Global forest resources assessment 2010, la biodiversità forestale è a rischio a causa dell'alto tasso di deforestazione, del degrado, della conversione in piantagioni industriali e pascoli, del riscaldamento globale e dello sfruttamento eccessivo. A livello globale, nel decennio 2000 - 2010 sono stati convertiti ad altro uso del suolo (incluso quello agricolo) o sono andati perduti a causa di eventi naturali, circa 13 milioni di ettari di foreste. Tuttavia, in molti paesi, si è registrata una tendenza positiva nella conservazione della diversità biologica forestale, attraverso la designazione di nuove aree forestali destinate alla conservazione della biodiversità, e un lieve rallentamento del processo di deforestazione (dal 1990 al 2000 sono stati persi 16 milioni di ettari). Per quanto riguarda l’Italia, negli ultimi 20 anni solo gli incendi hanno interessato oltre 1.100.000 ettari di superficie boschiva: un’estensione superiore a quella dell’Abruzzo.

Nel nostro Paese la superficie forestale, che copre oltre il 30% del territorio nazionale, ha comunque registrato un aumento dovuto soprattutto all’abbandono degli spazi rurali, a differenza di quando accade in altri Paesi (ad es. Cina, India, Stati Uniti), il cui aumento deriva dalla presenza di piantagioni forestali a scopi produttivi. L’Italia, quindi, è ricca di boschi poveri ovvero di superfici boschive che non sono in grado di proteggere efficacemente il suolo, che producono poco e che non sempre offrono una reale garanzia di conservazione della biodiversità.Le principali minacce alle nostre risorse forestali, dal punto di vista ecologico, sono gli incendi boschivi, l’influenza delle fitopatologie e la presenza di specie aliene: ciò comporta un notevole danno ambientale che si concretizza nella perdita di diversità biologica dei suoli, nella perdita di gran parte dei servizi eco sistemici forniti dalle foreste, nella diminuzione della resilienza. Inoltre, lo stato di conservazione delle foreste appare insoddisfacente, a causa soprattutto di una gestione inadeguata o - in alcuni casi - per una mancanza di gestione. Le cause dell’attuale situazione sono molteplici e vanno dal fenomeno dell’abbandono delle montagne e delle campagne, che ha caratterizzato il nostro Paese negli ultimi 50 anni, alla mancata applicazione di una politica forestale nazionale.

In questo contesto, assume un ruolo fondamentale la programmazione comunitaria che può incidere profondamente sui fattori che mettono a rischio la conservazione e la valorizzazione, anche economica, del patrimonio forestale italiano che deve ritrovare una nuova funzione – sociale, economica ed ecologica - delle foreste e delle attività ad esse collegate. Occorre, innanzitutto, intervenire sui fatto che favoriscono la perdita di biodiversità forestale e agire su alcuni fattori strutturali, come: il completamento dei processi di pianificazione e la definizione dei

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piani di gestione dei siti forestali della rete Natura 2000, il rilancio delle attività selvicolturali, il sostegno dei mercati locali del legno e la predisposizione di leggio e piani forestali Regionali.

Puntare sul rilancio delle foreste attraverso la valorizzazione dei servizi ecosistemici che le foreste forniscono, intervenire a sostegno di attività economiche secondarie per frenare l’abbandono di molte aree interne montane, presidi fondamentali per la prevenzione degli incendi e contro il dissesto idrogeologico, e incentivare processi di certificazione e gestione forestale sostenibile secondo i criteri della selvicoltura naturalistica. Attraverso misure specifiche nel PSR, ma non solo, si può intervenire su una serie di elementi per rilanciare le possibilità di vita nelle nostre aree montane, oggi gravemente inficiate da processi di abbandono e degrado.Le nostre foreste contribuiscono al processo di mitigazione dei cambiamenti climatici e offrono un contributo importante agli obiettivi del 20-20-20, grazie alla produzione di energia mediante l'uso di biomasse. È fondamentale, però, che nel perseguire questi obiettivi ci si basi su un modello corretto di filiera energetica bosco-legno che prenda in considerazione la potenzialità del bosco piuttosto che le dimensioni dell’impianto. Una rete diffusa di piccoli impianti (della potenza di massimo 1 Magawatt) oltre a produrre energia potrebbero anche servire a riattivare l’economia locale e la gestione sostenibile del bosco attraverso il sostegno ai prodotti energetici provenienti dal bosco (legna da ardere, cippato, pellet).

Soprattutto nell’affrontare il tema della gestione forestale sostenibile e della certificazione delle foreste, riteniamo sia fondamentale sottolineare la triplice valenza che il settore può esercitare, dal punto di vista ecologico, sociale ed economico, per il rilancio dell’economia delle aree montane depresse, in quanto la certificazione tiene conto e stimola la multifunzionalità delle foreste, la tutela del suolo, delle acque, dell’aria, dell’economia locale e dei benefici sociali che essa produce e incoraggia, oltre che della molteplicità delle specie e dei paesaggi.In questo quadro la certificazione delle foreste e dei prodotti della filiera foresta-legno è uno strumento che può e deve garantire la qualità ambientale della foresta, implicando, da parte di chi la richiede, anche l’assunzione di precise responsabilità nel gestire in modo sostenibile il proprio patrimonio forestale e i prodotti legnosi che ne derivano. La prospettiva di un vantaggio economico che deriva dalla possibilità di immettere sul mercato prodotti la cui sostenibilità è elemento sempre più richiesto oggi da un numero crescente di consumatori, attraverso lo strumento della gestione sostenibile di una foresta dovrebbe quindi essere un incentivo per gestori e proprietari a vedere le foreste come un valore aggiunto per la comunità locale e per l’economia.

6. Agricoltura

L’agricoltura è l’attività principale che regola lo scambio tra uomo e ambiente, a partire dalla produzione di cibo. Perciò crediamo che proprio l’agricoltura oggi può essere il più importante alleato per le attuali sfide ambientali e per lo sviluppo dell’economia verde. Una Nuova Agricoltura rispetto al modello che ha dominato nel Novecento è già all’opera, praticata da molti agricoltori italiani ed europei, attenti ai processi naturali e alla complessità e specificità locale degli ecosistemi e capaci di innovare, sperimentando nuove tecnologie e anche attingendo agli antichi saperi della cultura rurale. Il principale motore di questo cambiamento sono l’agricoltura biologica, con le sue molteplici varianti, come l’agricoltura biodinamica, e in genere le mille forme di agricoltura legate alle vocazioni dei territori, che operano per salvaguardare le risorse naturali e la biodiversità e sono aperte alla ricerca e all’innovazione. E’ questa l’agricoltura che può destare impegno professionale e passione nei giovani, riportandoli a questo antico mestiere. La Nuova Agricoltura richiede

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professionalità e cultura adeguata all’altezza delle sfide: qualità che si possono sviluppare solo là dove c’è rispetto delle regole, dei diritti del lavoro, capacità di accogliere la presenza sul nostro territorio di lavoratori stranieri come un’opportunità di civiltà e di crescita, rigettando qualunque infiltrazione dell’illegalità e delle forme di sfruttamento schiavistico.

La nuova agricoltura, che proponiamo, è per sua natura multifunzionale, in quanto offre molteplici servizi ai cittadini: garantisce cibo buono e salute, tutela delle risorse naturali e della varietà genetica, tutela dei saperi e dei sapori che rendono unico e irripetibile ogni territorio italiano, ospitalità, bellezza del paesaggio. Tutti questi servizi, che vanno ben oltre il prezzo del prodotto venduto, non hanno avuto adeguato riconoscimento. C’è un grave ritardo di tutta la politica europea. La nuova Politica Agricola Comune, ancora una volta tende a sostenere un modello iniquo e superato, che ha nella rendita fondiaria il suo fulcro. Le politiche agricole italiane e regionali, appesantite da pastoie burocratiche e da parassitismi ormai storici, stentano a cogliere la domanda di cambiamento che i cittadini e le aziende agricole più innovative chiedono. Eppure è questa innanzitutto l’agricoltura per cui vale la pena che si spenda metà del bilancio dell’Unione Europea. Perché è questa l’agricoltura che garantisce il benessere dei cittadini italiani ed europei e crea le premesse per nuovi rapporti internazionali, a cominciare dai paesi del sud del Mediterraneo.L’agricoltura può e deve dare un contributo fondamentale alla società italiana nella tutela degli ecosistemi e nel contrasto dei cambiamenti climatici e di altre gravi emergenze ambientali del nostro Paese (desertificazione, inquinamento delle acque, erosione genetica, assetto idrogeologico), rispettando alcuni criteri come il minimo uso di sostanze chimiche inquinanti e/o pericolose per la salute umana (fertilizzanti, pesticidi, erbicidi), riduzione dei consumi energetici, e promuovendo il biologico come modello di riferimento della nostra agricoltura. Deve contribuire a migliorare il sequestro di carbonio e aumentare la fertilità del suolo, il suolo è il più grande serbatoio di carbonio del pianeta (circa il doppio di quello in atmosfera) e le tecnologie più semplici ed efficaci di sequestro di carbonio nel terreno sono alcune buone pratiche agricole (avvicendamenti colturali, coperture permanenti, sovesci). A questo proposito, La Commissione Europea valuta che queste pratiche consentirebbero di restituire ogni anno ai terreni europei 50-100 milioni di ton di carbonio. Senza calcolare i benefici congiunti di restituzione di sostanza organica ai suoli.

Bisogna puntare sul risparmio idrico in agricoltura, attraverso la riduzione dei prelievi di acqua superficiale e di falda, e pratiche che favoriscono una maggiore porosità e una migliore ritenzione d’acqua nel suolo, riducendo le esigenze di irrigazione, utilizzando metodi di irrigazione efficienti e cicli di recupero delle acque. L’agricoltura offre un importante contributo alla stabilità idrogeologica del suolo, soprattutto montano e collinare, tramite attività di manutenzione dei boschi da parte di personale forestale qualificato (sistemi di certificazione FSC o PEFC delle gestione sostenibile dei boschi), opere di regimazione delle acque e manutenzione dei terrazzamenti. Contribuisce alla riduzione delle emissioni da trasporto se si privilegia la filiera corta e le forme di vendita diretta, e all’utilizzo/riuso di parti di biomassa per la produzione di biomateriali e bioprodotti per la chimica verde e per la valorizzazione energetica. Il rispetto dei criteri ambientali indicati – in particolare dei metodi agricoltura biologica, biodinamica e naturale – è la premessa per produrre cibo sano, libero da residui di sostanze pericolose. Ma la nuova agricoltura è chiamata a garantire anche la sovranità e sicurezza alimentare e il patrimonio di sapori dei nostri territori, a partire da tre princìpi inderogabili come l’utilizzo del germoplasma bene comune, semi e materiale genetico delle razze animali non sono brevettabili da nessun privato, il cibo libero da OGM (organismi geneticamente modificati), e cibo sicuro (adozione di

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standard basati sulla valutazione del multiresiduo) e minimo uso della chimica di sintesi negli allevamenti.L’agricoltura che vogliamo, tutela e valorizza le varietà delle razze e dei prodotti tradizionali di un territorio, anche attraverso il sostegno in alle reti degli agricoltori custodi che garantiscono la riproduzione del patrimonio genetico locale, è attenta alla cura del benessere animale negli allevamenti, promuove la filiera corta attraverso aziende aperte che producono innanzitutto per la comunità locale e aziende che certificano i loro processi e prodotti nei confronti dei consumatori, aderendo a disciplinari di qualità (biologico, biodinamico, Dop, Doc, Docg, Igp…). La certificazione del metodo usato è una garanzia di qualità e tracciabilità dei cibo che acquistiamo. Ma per i piccoli agricoltori la certificazione spesso è un onere gravoso. Se non si ha necessità di scrivere ‘biologico’ o un altro marchio in etichetta, per la filiera corta sono accettabili sistemi locali di certificazione (autocertificazione, certificazione partecipata) che garantiscano un ritorno ai controlli in campo (senza preavviso) al posto degli attuali controlli burocratici. La Nuova Agricoltura svolge una funzione sociale per il recupero delle terre incolte, da assegnare a giovani e neoagricoltori, e per la promozione degli orti sociali nelle città dove svolge anche una funzione pedagogica e aiuta a sviluppare legami di comunità e forme di apprendimento reciproco tra le diverse generazioni.Infine, il contributo che l’agricoltura fornisce alla valorizzazione del territorio, della biodiversità e del paesaggio, considerato che rappresenta un formidabile fattore di promozione dell’identità culturale e sociale di un territorio, nonché di valorizzazione delle sue peculiarità naturalistiche e ambientali. Nonostante la biodiversità degli ecosistemi agricoli si è notevolmente ridotta nei decenni passati non solo per l’estrema specializzazione delle colture (3 sole specie, mais, riso e grano, costituiscono l’86% della produzione agricola mondiale), ma anche per l’abbandono delle classiche sistemazioni poderali, quali siepi e alberature, che rappresentavano importanti ecosistemi per molte specie animali e vegetali. Il ripristino di questi ecosistemi, oltre al valore paesistico, è una garanzia di maggiore fertilità del suolo e capacità di autodifesa delle stesse colture da reddito.

La nuova programmazione dei Fondi Strutturali e dei PSR in particolare dovrebbe perseguire 3 obiettivi prioritari: aumentare le superfici a biologico (20%) – garantire contenuti adeguati alla misura agro-climatico-ambientale – favorire progetti territoriali e cooperativi. Questi obiettivi vanno concretizzati in azioni e criteri con particolare riguardo alle priorità ambientali: gestione suolo, acqua, energia, biodiversità, chiusura cicli. Per quanto riguarda il biologico, ad esempio, l’obiettivo non va perseguito solo sulle risorse e sui premi previsti nella misura corrispondente o sulle priorità di accesso ad altre misure, quanto soprattutto su progetti legati al territorio. A questo riguarda la nuova misura della Cooperazione (mis.16) è l’occasione per avviare progetti comuni tra diversi soggetti del territorio e per finanziare anche interventi di educazione alimentare e ambientale, fattorie didattiche, agricoltura sociale. Interventi fondamentali per promuovere tra i cittadini il valore sociale ed economico dell’agricoltura locale.

7. Pesca

Una efficace gestione dei sistemi di pesca che non entri in conflitto con la conservazione della biodiversità marina e che permetta alla pesca sostenibile di svilupparsi e di crescere. Questa la nostra proposta, relativamente ad un settore che ormai da anni è in grave crisi: decenni di pesca intensiva hanno infatti portato a un preoccupante declino degli stock ittici che una volta prosperavano. Attualmente si ritiene che il 75% di tutti gli stock esaminati a livello europeo sia

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sovra sfruttato e che quasi un terzo abbia oltrepassato i limiti biologici di sicurezza. Ciò è dipeso dal fatto che negli ultimi anni i limiti di cattura sono stati in media superiori del 48% rispetto alle raccomandazioni della comunità scientifica. A causa della continua pressione della pesca, inoltre, il settore ittico ha subito un calo produttivo che a sua volta ha prodotto una graduale perdita di posti di lavoro e reddito. La situazione è inoltre aggravata dal sistema delle importazione di pesce proveniente da Paesi extra europei. L’UE infatti si rifornisce sempre di più di pesce proveniente dai Paesi terzi, sia attraverso le importazioni che con le catture delle pesca d’altura. Basti pensare che gli Europei sono diventati talmente dipendenti dai prodotti ittici provenienti da acque esterne a quelle europee che la metà del pesce che consumano non arriva dall’UE.

In questo contesto, la riforma della Politica Comune della Pesca è diventata in questi ultimi anni un’occasione per ripensare un modello produttivo fallimentare e ragionare di un prelievo che non intacchi la capacità riproduttiva degli stock e raggiunga piuttosto il livello più produttivo degli stessi. Il 30 maggio 2014 il Consiglio e il Parlamento Europeo hanno raggiunto un accordo politico sulla Riforma della Politica Comune della Pesca dell'Ue concordando di ricostituire gli stock ittici, fissando un obiettivo giuridicamente vincolante per porre fine alla pesca eccessiva, e impegnandosi a ridurre le catture accessorie e i rigetti in mare. È stato quindi definito il concetto di rendimento massimo sostenibile (Maximum, Sustainable Yield, MSY), che indica la quantità massima di pesce che si può catturare in un periodo indefinito di tempo senza danneggiare lo stock. Entro il 2015, quindi, gli Stati Membri dovranno attenersi ai limiti dell’MSY in modo da ottenere che entro il 2020 gli stock non siano più sfruttati. Ciò comporterà un aumento delle dimensioni degli stock, un maggior potenziale di cattura, margini di profitto più alti e aumento della redditività media - in altre parole, reddito aggiuntivo per l'industria ittica.

Anche se non è stata stabilita una scadenza precisa per il raggiungimento dei livelli di sostenibilità, per garantire un'adeguata conformità e i progressi per il conseguimento dell'obiettivo di ricostituzione degli stock, la Commissione è incaricata di presentare una relazione annuale al Parlamento e al Consiglio sui progressi compiuti sul recupero degli stock. Cruciale il fatto che con queste nuove norme i governi nazionali dovranno eliminare la capacità di pesca in eccesso delle proprie flotte e adottare criteri ambientali e sociali trasparenti per l'accesso a zone e quote di pesca. Inoltre, in futuro sarà proibito ai pescherecci europei di praticare la pesca eccessiva nelle acque territoriali di altri Paesi. Ciò permetterà di migliorare la gestione delle attività di pesca, grazie anche all’assenza dell’obbligo di utilizzare un sistema di concessioni trasferibili. Nel distribuire le opportunità di pesca, gli Stati Membri dovranno infatti avvalersi di criteri trasparenti di sostenibilità ambientale e sociale, quali ad esempio la valutazione dell'impatto delle attività di pesca sull'ambiente, l'adeguamento alle normative e il sostegno all'economia locale. I governi dovranno infatti inviare relazioni annuali sulle capacità della flotta in relazione alla loro possibilità di pesca, per segmenti della flotta e la mancata segnalazione potrà comportare la sospensione degli aiuti UE. La riforma prevede inoltre l'obbligo di sbarcare tutto il pescato (che evita di dover basare su stime i dati relativi ai rigetti, come avviene attualmente), ad esclusione dei pesci che non hanno valore commerciale (tartarughe, delfini etc.) o dei pesci che hanno un alta possibilità di sopravvivenza. Lo scopo è quello di spingere i pescatori ad aumentare la selettività degli attrezzi da pesca, così da diminuire sempre di più la cattura accidentale delle specie.

Per quanto riguarda il nostro Paese, riteniamo che l’Italia debba sostenere, attraverso le risorse della programmazione comunitaria, attivamente il traguardo del 2015 senza rinvii, deroghe ed eccezioni che hanno caratterizzato spesso la nostra politica della pesca, con i risultati che ben

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conosciamo. Si è sempre detto che la sostenibilità debba diventare il prerequisito per le politiche di gestione delle risorse ittiche del Paese. Ebbene, questa è l’occasione per dimostrare che chi ha a cuore le sorti del settore nel suo complesso (imprenditori, operatori economici, amministratori centrali e periferici, etc) intende perseguire questo risultato. Ci aspettiamo inoltre un serio giro di vite nei confronti delle pratiche di pesca illegali e dell’insufficienza dei controlli contro questo tipo di attività. La pesca illegale, infatti, costituisce una delle più gravi minacce per le risorse marine viventi e rischia di compromettere il fondamento stesso della Politica Comune della Pesca e di altri sistemi di gestione della pesca. Una piaga ben documentata negli anni dagli organi di controllo, dalla Commissione europea e dalle associazioni ambientaliste e che ha già costato all’Italia due procedure d’ infrazione e l’inserimento nella lista nera dei Paesi che praticano la pesca illegale redatta dall’amministrazione statunitense.

Da non dimenticare, infine, che il Mediterraneo, storicamente un mare di naviganti e pescatori, è caratterizzato dalla piccola pesca costiera artigianale, un settore da salvaguardare e proteggere in quanto è il comparto con il minor impatto ambientale, il più alto tasso di occupazione e la migliore integrazione con le politiche di buona gestione del territorio. Inoltre, è una porzione del mondo della pesca che caratterizza fortemente il settore ittico nazionale, omogeneamente diffusa lungo le coste della nostra penisola e che maggiormente interagisce con le aree più pregiate del Paese, in particolare con le aree marine protette. Eppure questo settore non ha mai conosciuto significativi progetti di promozione e sviluppo che facessero leva sui temi della tracciabilità, della qualità del prodotto, della promozione delle produzioni ittiche, della cosiddetta “filiera corta” che, eliminando qualche intermediazione di troppo, si rivolga alla diffusione delle modalità di commercializzazione diretta che si stanno sperimentando con successo nel campo agricolo (Gas – gruppi di acquisto solidale).

E’ necessario quindi che il mondo della pesca attivi un percorso di questa natura, peraltro già avviato con successo in alcune realtà, ma non abbastanza sostenuto né dalle organizzazioni della pesca, né dal Ministero delle Politiche Agricole. E’ paradossale ad esempio che il nostro Paese annoveri appena un prodotto della pesca (alici di Monterosso) fra i prodotti a marchio Dop e Igp riconosciuti dall’UE, mentre Paesi pure con minore tradizione marittima del nostro possono vantare situazioni migliori. E’ fondamentale, infine, avviare nuove iniziative (come l’etichettatura del prodotto, la collaborazione con le aree marine protette o le esperienze di vendita diretta del pescato) che renderebbero l’attività della piccola pesca artigianale da un lato più remunerativa, dall’altro più moderna, potendo far leva su innovativi processi di commercializzazione e promozione del prodotto.

8. Turismo

L’Italia è l’Italia, un Paese unico al mondo e proprio per questo motivo apprezzato e visitato, crediamo perciò che la soluzione ai problemi del settore turistico non sia la mancanza di gigantismo, l’eccessiva polverizzazione delle imprese, l’assenza di grandi poli turistici o di infrastrutture, come maldestramente si afferma nel Piano del Turismo proposto dall’ex Ministro Gnudi. Abbiamo già visto come la politica dei grandi poli, alla base di molti Contratti di Programma degli anni 2000, siano stati fallimentari e dannosi per l’ambiente. Scelte che hanno mortificato la qualità e l’identità del territorio che le supporta, esponendosi per tipologia di vacanza ad una concorrenza a scala mediterranea e globale fortemente incentrata sul fattore prezzo e quindi, per il

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nostro Paese, decisamente perdente poiché non coerente con quello che sembra al momento l’unica linea percorribile: la Marca, l’identità e l’unicità del modello di ospitalità italiano come vantaggio competitivo. Occorre puntare, invece, sulle motivazioni che precedono la scelta di una vacanza e sui tanti turismi che negli ultimi 30 anni hanno rappresentato la nuova forma della vacanza, trasformando un mercato di massa in una massa di nicchie. E rivitalizzando destinazioni ormai mature, così come rendendo appetibili anche territori una volta marginali. Territori che, sia detto per inciso, negli stessi anni hanno conosciuto un forte sviluppo di ospitalità diffusa basato su imprese e forme alternative alle tanto decantate catene alberghiere.

Il turismo nel nostro Paese sta conoscendo un’evidente crisi, ma riconducibile più alla flessione del mercato interno, mentre si registra una sostanziale tenuta sul fronte delle presenze internazionali, anche in un contesto congiunturale così sfavorevole come quello dell’anno appena trascorso. La sensazione è che insomma all’estero ci sia, nonostante tutto, una straordinaria voglia d’Italia, nonostante l’assenza di politiche di rilancio, la mancanza di strategie, nonostante il settore turistico vivacchi fra ministri improvvisati e assessori di secondo piano. Questo però non deve indurre all’errore classico compiuto da quanti guardano in uno scenario competitivo ai soli mercati esteri, trascurando invece quello domestico che, come noto, in Italia vale qualcosa come l’80% delle presenze ed almeno il 70% del fatturato. Se si cercano le caratteristiche che rendono ancora competitiva la nostra offerta turistica sul fronte internazionale si scopre infatti che l’Italia tiene quando e dove afferma la propria unicità, dove cioè la proposta meglio si intreccia con le produzioni agricole d’eccellenza, con i territori tutelati e di pregio, con la qualità dei centri minori e così via, tutte parole che mancano completamente nel Piano Gnudi.

In definitiva il turismo tiene e cresce quando l’offerta si libera dei modelli standard internazionali (il format del villaggio turistico, per capirsi, in passato pure perseguito con le politiche messe a punto dal contenitore di Sviluppo Italia), per far leva sulla ricettività diffusa, su un’ospitalità di qualità, spesso affidata all’iniziativa spontanea dei singoli, che riesce a restituire e a riaffermare una sorta di modello unico italiano. Un modello unico e irriproducibile che fa leva, al momento, su una crescita disordinata e turbolenta di una miriade di offerte turistiche alle quali mai nessuno ha pensato di offrire un’adeguata strategia in grado di cucirle come in un patchwork. Si tratta allora di definire le politiche e le iniziative che possano promuovere e favorire lo sviluppo di questi nuovi tipi di offerta, di cucire, in altri termini, sul nostro Paese un abito su misura, senza pensare di travestirsi con gli abiti degli altri.

E’ evidente che assistiamo a un sostanziale cambiamento del modello di vacanza sempre più orientata verso viaggi brevi e frequenti. Basti considerare che fra il 1998 e il 2008 il numero dei viaggi di piacere dei cittadini dell’Ue è aumentato del 47% con una crescita del 75% dei viaggi brevi e del 25% di quelli lunghi. E ancora, in Italia a partire dal 2009 il numero di microvacanze (ovvero di viaggi brevi fino a tre notti) ha superato quello dei viaggi più lunghi, la lunga vacanza tradizionale. E la vacanza non solo è cambiata nella quantità, ma anche nella sostanza: a vacanza breve corrisponde tragitto breve, e questo appare come un fenomeno strutturale, dettato non solo dagli effetti di una congiuntura economica negativa. Siamo, infatti, davanti a motivazioni differenti che giocano ruoli importanti: senza dubbio una vacanza in un luogo vicino è nettamente più conveniente per il proprio “portafoglio”, poiché si ottiene lo stesso risultato (una vacanza) con minore sforzo (spendendo di meno); ma riemerge anche la “coscienza verde” che presta attenzione al viaggio per tratte meno lunghe e alle modalità di trasporto eco – compatibili, appunto in considerazione dell’impatto ambientale. Il nuovo format che si sta configurando come centrale sul mercato turistico è quello delle microvacanze a chilometro zero (un ossimoro solo

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apparente…), in cui vi è una maggiore rivendicazione dello spazio prossimo, delle “bellezze” tanto più sorprendenti perché inattese e vicine, una ricerca del godimento che si incrocia con l’affermazione della propria identità nazionale, nonché una crescente, e sempre più convinta, responsabilizzazione al risparmio energetico ed alla riduzione di emissioni nocive per l’ambiente.In generale è il turismo di massa che sta segnando il passo a favore, come dicono gli esperti, della massa dei turismi. E’ vero che si tratta di turismi di nicchia, ma sono nicchie sempre più grandi e, soprattutto, sempre più numerose: il cicloturismo, l’escursionismo a piedi, il turismo sportivo, il camperismo, quello dei birdwatchers, la subacquea, il turismo religioso, quello naturalistico. E poi il turismo enogastronomico che praticamente li attraversa tutti.

Bisogna stimolare una progettualità e una soggettività dal basso, costruire le reti ed i network, che faccia tesoro di quanto già oggi esiste sul mercato, ma solo in virtù di iniziative individuali e spontanee che non trovano adeguati strumenti, favorire l’emersione di questi nuovi soggetti inquadrandoli in un contesto di regole e di adeguati standard di qualità, trasparenza e legalità. Bisognerebbe inoltre predisporre un’adeguata strategia di supporto sulla mobilità che accompagni la crescita dei nuovi turismi facendo leva su un’infrastrutturazione leggera dei territori (trasporto su ferro, ciclovie, vie pedonali, ecc.). Da tempo c’è un turismo che fa bene all’ambiente e non è solo fattore di pressione. Ma c’è un discorso più generale legato ai valori che permeano sempre di più gli oggetti di consumo. Il turismo rappresenta uno straordinario volano per le nostre esportazioni e un settore strategico per la nostra economia con un elevato tasso di occupazione che nel nostro Paese è fra i più elevati in Europa. Nel solo 2009, un anno non particolarmente felice per il settore, le entrate del turismo internazionale hanno raggiunto i 31 miliardi di Euro, mentre quelle domestiche i 33 miliardi di Euro.

9. Istruzione e formazione Uno sviluppo di una società a basse emissioni non può prescindere dalla capacità dei cittadini di assumere scelte responsabili verso l’ambiente più prossimo e più in generale verso il pianeta ed essere disponibili a cambiare stili di vita personali, modelli di lavoro e relazione. Per affrontare questo cambiamento occorre agire sia sulla struttura sociale sia sulle condizioni personali di ciascuno per investire su una crescita complessiva del capitale umano nell’ottica di una società che abbia la conoscenza al centro del proprio cambiamento. L’Europa considera l’innalzamento medio del livello d’istruzione e culturale dei cittadini una chiave strategica per un’inclusione sociale che renda i cittadini autonomi nella loro realizzazione e capaci di affrontare in maniera innovativa le sfide di una società in rapida e costante evoluzione.In tal senso, i Paesi membri dell’unione vengono invitati al “miglioramento dei sistemi d'istruzione e di formazione nazionali, i quali devono fornire i mezzi necessari per porre tutti i cittadini nelle condizioni di realizzare appieno le proprie potenzialità, nonché garantire una prosperità economica sostenibile e l'occupabilità”.Due sono i principali ambiti su cui investire: il sistema di istruzione e la costruzione ed il radicamento di un sistema nazionale per l’apprendimento permanente.Il sistema di istruzione, perché offra quelle competenze strategiche che consentono all’individuo di apprendere per tutto l’arco della sua vita e di colmare eventuali svantaggi e sperequazioni derivanti da condizioni personali, famigliari e territoriali.Il sistema per l’apprendimento permanente, perché renda il cittadino protagonista della sua formazione e poter vedere riconosciute le competenze lavorative e civiche acquisite sia in ambito formale, che non formale e informale.

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Il programma di lavoro del Quadro strategico comunitario per l’istruzione e la formazione per il 2020, prevede i seguenti criteri:

almeno l’82% dei laureati deve aver trovato un impiego entro tre anni; almeno il 95% dei bambini dai quattro anni all’età di inizio del ciclo scolastico deve aver

preso parte a un programma di educazione per la prima infanzia; la percentuale di quindicenni con competenze insufficienti in lettura, matematica e scienze

deve essere inferiore al 15%; almeno il 15% di adulti di età compresa tra i 25 e i 64 anni deve aver preso parte a un

programma di formazione continua.

In questo quadro il dato più confortante riferito all’Italia è il superamento del parametro dell’accesso dei bambini alla scuola per la prima infanzia, mentre gli altri parametri si attestano ancora tutti sotto la media europea. Fra questi, il più preoccupante e che mette fortemente in relazione la formazione con la crisi occupazionale ed economica in cui il nostro Paese ristagna, è la percentuale di laureati occupati che nel 2012 continua a diminuire, collocandoci come penultimo paese dell’Ue in relazione a questo parametro.

La grande opportunità che viene offerta dalla nuova programmazione va giocata fino in fondo se vogliamo modernizzare i nostri sistemi di istruzione e formazione e renderli capaci di essere elementi proattivi di un cambiamento che ci porti fuori dall’attuale crisi.In questo senso sembra voler andare il recente documento del governo Renzi “La buona scuola”, che riconosce un ruolo centrale al sistema nazionale di istruzione, ma che poco declina le azioni puntuali e le modalità per renderle efficaci.Quello che non si sottolinea abbastanza in questa intenzione di spinta al cambiamento, il ruolo che possono svolgere i fondi strutturali se ben utilizzati: il ruolo di colmare lo storico divario tra opportunità offerte dalle scuole del nord e del sud, in edilizia scolastica, in servizi, in laboratori, in relazioni con il mondo produttivo, ma anche fra le scuole di uno stesso territorio fra loro; di innovare le metodologie formando i docenti e dando modo di cambiare l’organizzazione scolastica per rendere l’apprendimento più efficace e spingere i giovani a non abbandonare precocemente il sistema di istruzione e per progettare l’educazione nell’ottica delle competenze; integrare i sistemi di apprendimento formale, non formale ed informale per la costituzione di reti territoriali per l’apprendimento permanente; rafforzare il rapporto scuola-lavoro nel senso dell’innovazione economica e produttiva, con la costruzione di una relazione privilegiata con quelle realtà che hanno fatto della ricerca e della sostenibilità ambientale e sociale il proprio punto di forza; rafforzare il rapporto scuola-territorio per una crescita civica diffusa, rafforzando la dimensione dell’etica pubblica.Non sono le risorse economiche che mancano, dal Pon scuola al FSE e FESR, quindi, ma piuttosto una visione complessiva di quali saranno i bisogni formativi a medio e lungo termine ed una metodologia di analisi-obiettivi-azioni-valutazione che non disperda queste risorse e sia capace di cambiare il Paese con un serio e condiviso sistema di valutazione dei processi e dell’efficacia dei sistemi formativi, con una collaborazione fra istituzioni e non dividendo a compartimenti stagni la scuola, l’università, di la formazione professionale e l’apprendimento permanente, sistemi oggi in capo a diverse istituzioni.L’apprendimento permanente, in particolare, che risulta un asse strategico per l’Europa, è un grande assente nell’agenda politica nazionale e regionale, malgrado la Legge 92/2012 che introduce per la prima volta in Italia il diritto per i cittadini di apprendere per tutto l’arco della loro vita e un lavoro di condivisione del percorso per la costituzioni delle reti territoriali per l’apprendimento permanente in Conferenza unificata .

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Un cambiamento sostanziale che di fatto impone una messa in discussione delle modalità e delle metodologie di sistemi che oggi viaggiano in maniera separata, in un unico sistema che vede attivi una pluralità di soggetti da scuola e università ai sindacati ed alle imprese, fino ai soggetti del terzo settore, per condividere un comune sistema di valutazione delle competenze del cittadino e dei suoi bisogni formativi. Questa metodologia se applicata, ci porterà a finalizzare tutte le opportunità ed affrontare alcune sfide come quella di riqualificare il nostro patrimonio edilizio scolastico e programmare gli interventi e la loro qualità, incrociando varie linee di finanziamento da quella per città più sostenibili a basse emissioni a quelle di cura e valorizzazione dei contesti e delle comunità di apprendimento.

10 Le aree interne

Nel settembre 2012 è stata avviata la costruzione di una Strategia nazionale per lo sviluppo delle Aree interne (SAI), recepita dall’attuale Accordo di Partenariato, che ha diversi meriti tra cui quello di coordinare a livello centrale diverse competenze e Ministeri in un’ottica di forte coordinamento centrale e di verifica dei risultati e di concertazione degli ambiti di intervento, oltre che di pianificazione delle policies ordinarie oltre che dei fondi europei.La strategia nazionale aree interne si pone infatti con l’obiettivo di rilanciare un forte impegno politico che mobiliti una visione nazionale a favore di un pezzo di Paese a forte disagio insediativo stimolando un’azione coordinata con le regioni. I fondi, che si vogliono destinare alla Strategia, sono correttamente vincolati al sostegno di una forte mobilitazione di comunità che superi lo storico policentrismo e la moltiplicazione dei centri decisionali, per perseguire due parole chiave che sono al centro della programmazione dedicata a questi territori: lavoro e cittadinanza. Elemento fondante della strategia è la volontà di costruire forti sistemi locali in grado di cooperare tra loro per rispondere all’obiettivo di innalzare gli standard dell’adeguamento dell’offerta di servizi essenziali, e in particolare, di quelli scolastici, la rete territoriale sanitaria e del trasporto pubblico locale.

Le Aree Interne rappresentano una parte ampia e diversificate del Paese - circa tre quinti del territorio e poco meno di un quarto della popolazione secondo la lettura che ne ha fatto la struttura di analisi del DPS – che ha come caratteristica comune la distanza da grandi centri di agglomerazione e il livello di servizi disponibili. Si tratta della riproposizione, in un’ottica nuova, del concetto di quelle aree una volta definite a ritardo di sviluppo, che continuano comunque ad avere traiettorie di sviluppo instabili sebbene siano dotate di risorse su cui puntare, ma che oggi vedono aggravate le loro condizioni demografiche e lavorative. Aree segnate dal costante invecchiamento e riduzione della popolazione, a causa del calo delle nascite e dell’emigrazione dei giovani in cerca di occupazione, che necessitano di un sistema di servizi alla persona e per il territorio completamente diverso da quello attuale. Gli obiettivi su cui verrà misurato il successo delle azioni proposte, sono quindi il miglioramento delle tendenze demografiche, attraverso l’aumento del benessere della popolazione locale che passerà sostanzialmente per l’adeguamento della qualità e quantità dei servizi essenziali, e l’aumento della domanda locale di lavoro che dovrebbe puntare sul rafforzamento dei fattori di sviluppo locale e in particolare l’energia, il turismo, l’agricoltura e le filiere produttive locali.

Crediamo che la SAI debba caratterizzare e orientare più fortemente i prossimi Piani operativi, oltre che le politiche ordinarie a sostegno, in una chiave più green, in grado di valorizzare di più le

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risorse ambientali disponibili in questi territori e migliorare l'innovazione nei settori produttivi e dei servizi dei territori coinvolti. Questi caratteri sono ancora troppo deboli nella SAI, mentre, la sfida della green economy e l’innovazione, per questi territori è la sola chance possibile per aprire una nuova stagione di messa a valore di questi territori e che permetta il superamento della storica marginalità e riequilibrio territoriale.Infatti, mentre nella SAI è centrale il superamento della storica frammentazione amministrativa in un’ottica di distretto di qualità, innovazione e chiave green per lo sviluppo dovrebbero essere più centrali e in linea con le indicazioni che ha dato l’UE in materia di lotta ai cambiamenti climatici per realizzare una piena capitalizzazione in chiave di sostenibilità ambientale, economica ed occupazionale delle qualità dei territori marginali e rurali, oltre a sviluppare, su questi territori, nuova occupazione e nuove specializzazioni per facilitare l’uscita dalla crisi attraverso economie a basse emissioni.

Le azioni di sviluppo locale centrali per questi territori devono, a nostro parere, indicare criteri per dare priorità ad azioni quali la rigenerazione della qualità architettonica dei piccoli centri storici e dei borghi sparsi, e al contempo limitare nuovo consumo di suolo, prevedere la diffusione di politiche innovative nella gestione dei servizi (a livello di comunità), la moltiplicazione della generazione distribuita attraverso le rinnovabili e l’implementazione del ciclo dei rifiuti. Occorre ricercare tutte quelle azioni concrete che concorrono a creare nuove economie innovative e ad offrire borghi più belli e vivibili, comunità ripopolate, più forti e coese, nuove opportunità occupazionali legate alle qualità ed unicità territoriali e a un rapporto sempre più stretto fra lavoro, saperi e conoscenza. E questo il percorso che vogliamo che venga sostenuto indirizzando le risorse comunitarie dei Progetti Piloti e dentro i PO, ma anche continuando a stimolare specifiche politiche ordinarie da parte delle Regioni e dei Ministeri attraverso moderne scelte di pianificazione e di controllo del consumo di suolo, al recupero edilizio ed energetico, allo sviluppo di moderne infrastrutture telematiche, alla valorizzazione delle risorse naturali, al riequilibrio delle sperequazioni territoriali attuali e permetta di sperimentare nuovi asset di sviluppo su cui il Paese possa credere e investire.

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