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Scuola Superiore di 1°Grado “F. Torraca” Matera 1 La poesia femminile:Isabella MORRA Classe 2 H Docente I.Lacasa ANNO SCOLASTICO 2006 / 2007

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Scuola Superiore di 1°Grado

“F. Torraca” Matera

1

La poesia femminile:Isabella MORRA

Classe 2 H Docente I.Lacasa

ANNO SCOLASTICO 2006 / 2007

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“Il carattere di un popolo è rappresentato dalle sue opere,la sua anima dai poeti”.

Isolde KURK

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PREMESSA

La letteratura delle donne è stata sempre considerata minore rispetto a quella degli uomini, forse perché meno abbondante. Effettivamente il numero delle scrittrici è stato inferiore a quello degli scrittori, ma soltanto perché alle donne sono stati impediti la piena espressione e l’accesso alla cultura, essendo relegate alla vita tra le pareti domestiche

La tradizione letteraria maschile si è imposta, dunque, solo per la mancanza di una tradizione letteraria femminile, determinata dal divieto ad accedere alle fonti del sapere. Fattori storici, ambientali, di costume, come abbiamo dimostrato con la nostra ricerca sul cammino delle donne verso l’emancipazione,, ne hanno ostacolato l’espressione letteraria, ed anche artistica, ma, guardando attentamente al passato, da Saffo fino ai giorni nostri, non mancano testimonianze rilevanti della produzione letteraria femminile, che solo nel ventesimo secolo, quando la piena emancipazione lo ha consentito, è riuscita ad manifestarsi meglio, superato il muro che impediva di esprimersi in modo completo, oggi la scrittura femminile s’impone in pienezza e creatività.

Nonostante l’esclusione, voci autorevoli si sono, dunque, affermate con energia nei secoli, trasformandosi da “oggetti” letterari a soggetti, da muse ispiratrici ad autrici, riuscendo a liberare compiutamente la loro sensibilità, come Saffo, Nosside, Maria di Francia, Christine de Pizan, Compiuta Donzella, Isabella Morra, Vittoria Colonna, Gaspara Stampa, Emily Dickinson, Elizabeth Barrett Browning, le sorelle Brontë, Sylvia Plath.

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Ma di cosa hanno scritto le donne? Del loro animo in generale, di solitudine, d’infelicità, di affetti familiari, di vita domestica, di aspirazione allo studio e all’espressione letteraria ed artistica, delle difficoltà di conciliare l’essere per gli altri e l’essere per sé, spesso d’amore , ma hanno anche impugnato la penna come spada, per reclamare o denunciare diritti ignorati o calpestati . In tutte emerge, comunque, la difficoltà d’istruirsi, d’ sprimersi, di accedere al sapere, di essere riconosciute come produttrici di sapere, di trovare moduli espressivi propri. L’eco delle loro voci arriva a noi dal passato attraverso le loro poesie e i libri su cui le studiamo.

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SAFFO

(VII sec. a.c.)

Saffo è considerata la più grande poetessa di tutti i tempi, nacque ad

Ereso, nell’isola di Lesbo, da una nobile famiglia, ma la sua vita si

svolse a Mitilene dalla quale, ai tempi della caduta dei Cleanattidi, a

causa delle lotte politiche, fu esiliata per qualche tempo, e di ciò resta

testimonianza nel "marmo pario", un’iscrizione che attesta la sua

presenza in Sicilia tra il 607 e il 590 a. C.

Rimpatriò poi durante il regno di Pittaco, per il quale non nutriva

simpatìa, considerandolo promotore delle restrizioni che mortificavano

l’amore per il lusso della classe aristocratica.

Ben poco sappiamo di Saffo, che ebbe un marito e una figlia, che era

amante del bello, raffinata ed elegante nei modi e nell’aspetto ma,

soprattutto, che amò molto e che l’amore riversato nei versi fu un

canto limpido e toccante.

Saffo fu stimata ed ammirata a Mitilene da molte sue concittadine, che

erano solite riunirsi intorno a lei in un centro femminile del culto di

Afrodite e delle Muse, una sorta di cenacolo intellettuale, costituita di

sole fanciulle, aristocratiche e nubili, giovani donne che subivano il

fascino della superiorità spirituale di Saffo, che da lei apprendevano la

musica e la danza.

Nei suoi frammenti ricorrono parecchi nomi di queste fanciulle, Attide,

Girinna, Arignota, Gongila, Dice, Anattoria, che Saffo ammirava,

stimava e celebrava, esaltandone le lodi e la bellezza, festeggiandone

con gioia le nozze e lamentandone la partenza per terre lontane, con

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versi armoniosi e di rara bellezza, testimonianza preziosa del suo

canto e dei suoi sentimenti.

O mia Gongila, ti prego

metti la tunica bianchissima

e vieni a me davanti: intorno a te

vola desiderio d’amore.

Così adorna, fai tremare chi guarda;

e io ne godo, perché la tua bellezza

rimprovera Afrodite.

Saffo, come tutti gli antichi, viveva la natura in un ‘aura di sacralità,

sole, luna, mare, fiori, erano considerati entità sacre che pure le

suggerivano immagini intime di raccoglimento e contemplazione della

bellezza.

Ecco, allora, che in un giorno di primavera rievoca un tempio dell’isola

di Creta visitato di persona o che solo le è stato descritto, ed al ricordo

si sovrappone una visione smagliante di colore:

Qui da noi: un tempio venerando,

un pomario di meli deliziosi,

altari dove bruciano profumi

d’incenso, un’acqua

freddissima che suona in mezzo ai rami

dei meli, e le ombre dei rosai

in tutto il posto, e dalle foglie scosse

trabocca sonno,

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poi un florido prato, coi cavalli,

i fiori della primavera, aliti

dolcissimi che spirano…

dove Cipride coglie le corone

e delicatamente mesce un nettare

che si mescola nelle grandi feste,

in coppe d’oro…

E nella solitudine di una notte senza luna e senza stelle si riflette la solitudine del suo animo:

E’ tramontata la luna, e le Pleiadi;

e la notte è a metà, ed il tempo trapassa,

ed io riposo in solitudine.

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Erinna

( IV sec)

La poetessa dorica Erinna, idolatrata dagli Alessandrini, paragonata a

Saffo e ad Omero, ricordata come contemporanea di Saffo,

probabilmente per l’affinità del canto, ma vissuta con molta probabilità

verso la fine del quarto secolo, trascorse la sua vita nell’isoletta di

Telos, presso Rodi.

Breve fu la sua esistenza, precocemente troncata a soli diciannove

anni, come ci ricorda anche un poeta alessandrino, Asclepiade di

Samo, in un epigramma in cui accenna all’esiguità dell’opera della

poetessa, eppure di notevole sensibilità e maturità fu il suo canto.

Come tramanda la tradizione, proprio a 19 anni perse la cara e fedele

compagna Bauci, morta poco dopo le nozze, e, per ricordarla, scrisse,

probabilmente pochi giorni prima di morire, un poemetto in di trecento

esametri dal titolo La conocchia.

Di quest’opera, così famosa nell’antichità, erano pervenuti solo pochi

frammenti attraverso citazioni ma, nel 1928, un papiro edito in Italia,

conservato a Firenze, restituì alla luce 79 di questi esametri che,

seppure in condizioni malconce, permisero finalmente di leggere un

brano di 20 versi e di ricostruire l’argomento.

Nella Conocchia Erinna piange la morte della sua coetanea, Bauci,

ricorda i momenti spensierati in cui si trastullavano con i giochi

infantili e le altre ore felici, trascorse insieme durante le pause del

lavoro della conocchia, da cui, appunto, prende origine il titolo del

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poemetto, e poi rievoca il distacco quando l’amica si sposa, infine il

dolore cocente per la sua morte.

Oltre i frammenti della Conocchia, di Erinna restano alcune lettere di

una trentina di versi e tre epigrammi nell’Antologia palatina; in uno

degli epigrammi ancora ritroviamo trattato, con semplicità, grazia di

lamentazione e romantica levità, il tema della morte.

Smaniosi i bianchi cavalli sulle zampe

dritti con grande strepito

si levavano; il suono della cetra

in eco batteva sotto il portico vasto della corte.

O Bàuci infelice, al ricordo gemendo io piango!

Nel mio cuore ancora hanno calore

queste cose della fanciullezza,

e quelle che di gioia

non furono cenere sono ormai.

Riverse le bambole

sui letti nuziali stanno e presso il mattino

cantando più non reca la madre

il filo sulla rocca e i dolci di sale cosparsi.

Paura ti fece da bambina la strega

che ha grandi orecchie e su quattro

piedi s'aggira movendo intorno lo sguardo.

E quando, o diletta Bàuci,

sul letto salisti dell'uomo

senza memoria di quello che bambina ancora

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avevi udito da tua madre, Afrodite

pietosa non fu della tua dimenticanza.

Per questo ora io piangendoti non t’ abbandono

né i miei piedi lasciano la casa che m'accoglie,

né voglio più vedere la dolce luce del giorno,

né lamentare con le chiome sciolte; ho pudore

del dolore che cupo il volto mi sfigura.

(Erinna)

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BEATRICE CONTESSA DI DIA

(secolo XII)

La letteratura provenzale, o “trobadorica”, ebbe origine nel Sud della Francia, da Bordeaux alle Alpi; affidata in origine al canto, con l’accompagnamento di uno strumento musicale, si sviluppò per tutto il dodicesimo secolo, e solo dopo il 1200 cominciò ad essere tramandata in antologie e raccolte manoscritte.

Abili furono i trovatori nel “trovare” le combinazioni più raffinate tra testo poetico e melodia, e le composizioni, pur se non sempre belle sul piano dell’ispirazione, furono di notevole pregio tecnico.

Oltre ai poeti più famosi si segnala anche le presenza di alcune trovatrici provenzali fra tutte spicca la figura della Contessa di Dia, con 5 componimenti, che si distinguono per l’eleganza dei suoi versi.

Vissuta nella seconda metà del XII secolo, della contessa Beatrice di Dia, probabilmente la più alta tra le voci femminili della scuola trobadorica, scarsi sono i dati biografici tramandati, fu sposa di Guglielmo II di Poitiers (tra il 1163 ed il 1189), avente feudi nei dintorni di “Die

Il mondo di Beatrice di Dia è quello dell’amor cortese, e la sua arte è legata rigorosamente ai modi, ai temi e alle convenzioni di quel mondo, e, dunque, lo scenario è il castello, anzi le mura del castello affollato da persone estranee ed ostili, mentre il pensiero e il desiderio volano verso l’amore sospirato, difficile, ostacolato.

Nelle poesie ispirate alla fine del suo amore per Raimbaut d’Aurenga, trovatore egli stesso, vibra tuttavia un forte senso di autenticità, l’espressione del sentimento si libera della ricerca esasperata comune ai trovatori del tempo, e, in espressione limpida e chiara, priva di oscurità, trasmette con grande spontaneità il tenace amore, lo smarrimento, il dolore e lo stupore per l’amore perduto.

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DEVO CANTAR QUI DI CIO’ CHE NON VORREI CANTARE

Devo cantar qui ciò che non vorrei cantare

poiché molto devo lagnarmi di colui di cui sono l'amica.

Io l’amo più di tutto al mondo,

ma non mi giovano presso di lui

nè grazia, nè cortesia, nè la mia bellezza, nè la mia intelligenza.

Io sono ingannata, tradita, come dovrei essere

se non avessi la minima attrattiva.

Una cosa mi consola: mai ebbi dei torti

verso di voi, amico, al contrario, vi amo,

più di quanto Seguis ami Valensa,

e molto mi piace vincervi in amore,

amico, poiché voi siete il migliore di tutti.

Ma voi mi trattate con arroganza nelle parole e negli atteggiamenti

mentre siete ben così amabile verso gli altri.

Sono sorpresa dell’arroganza del vostro cuore,

amico, ed ho ben motivo d’esserne triste.

Non è affatto giusto che un altro amore vi allontani da me,

qualunque sia l’accoglienza che vi riservi

che vi ricordi dell’inizio

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del nostro amore. Dio non voglia

che finisca per colpa mia!

Il grande coraggio che alberga nel vostro cuore

ed il vostro grande merito sono per me causa di affanni

dato che non conosco donna, vicina o lontana,

e desiderosa d’amore, che non sia attratta da voi

ma voi, amico così di ben giudizio,

dovete ben riconoscere la più sincera.

Ricordate la nostra intesa?

La mia dignità e la mia nobiltà, la mia bellezza,

ed ancor più la sincerità del mio cuore, devono soccorrermi.

È per questo che vi mando, laggiù,

questa canzone, che mi servirà da messaggero.

Io voglio sapere, mio bello e dolce amico,

perché con me siete così duro ostile:

è orgoglio o indifferenza?

Ma voglio, messaggero, che tu gli dica,

che a molti troppo orgoglio può nuocere .

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Christine de Pizan

( 1365 – 1430 )

Ahimè, mio Dio, perché non mi hai fatta nascere maschio? Tutte le mie capacità sarebbero state al tuo servizio, non mi sbaglierei in nulla e sarei perfetta in tutto, come gli uomini dicono di essere…1

La voce femminile, che così amaramente esprime la consapevolezza dell’esclusione dalla cultura maschile, appartiene uno delle personalità più affascinanti del tardo Medioevo, che si colloca tra il 1365 ca. e il 1430 ca.

Nacque a Venezia, ma trascorse tutta la sua vita a Parigi, dove si era trasferita da bambina seguendo alla corte di re Carlo V il padre, Thomas de Pizan, laureato all’Università di Bologna, prima consigliere della Repubblica e poi medico, astrologo e consigliere personale del re Carlo V, che fu molto generoso con Thomas, offrendogli rendite e doni, tra cui la Tour Barbeau a Parigi.

Christine crebbe, dunque, nell’ambiente agiato e vivace di corte, avendo anche libero accesso alla Biblioteca Reale del Louvre, che proprio in quegli anni andava sviluppandosi grazie al grande amore di re Carlo per lo studio, le scienze e le arti, e di cui Christine ci ha lasciato una bella descrizione:

Che dire di più della saggezza del re Carlo e del suo grande amore per lo studio e la scienza; che fosse così ben lo dimostrava la bella collezione di libri importanti e la bella biblioteca, dove aveva i principali volumi, scritti dai massimi autori, di religione, di teologia, di filosofia e di tutte le scienze, molto ben eseguiti e riccamente miniati. I migliori copisti che si potevano trovare erano di continuo occupati per lui in tale opera…

Proprio l’accesso alla biblioteca fu d’importanza fondamentale per Christine, poiché l’avviò alla maturazione intellettuale e alla

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preparazione culturale che l’avrebbero poi condotta all’attività letteraria.

Alla morte del re, come racconta nella sua opera autobiografica, suo padre perse il favore di cui godeva a corte, ed insieme anche le rendite, e poco tempo dopo morì, e, quasi subito, si spense anche suo marito, Etienne de Castel, notaio e segretario del re.

Si concluse così bruscamente un matrimonio che era stato felice, lasciando Christine in una desolata solitudine che non mancò di riversare in liriche di rara bellezza come “Sono sola”:

Sono sola, e sola voglio rimanere.

Sono sola, mi ha lasciata il mio dolce amico;

sono sola, senza compagno né maestro,

sono sola, dolente e triste,

sono sola, a languire sofferente,

sono sola, smarrita come nessuna,

sono sola, rimasta senz’ amico.

Sono sola, alla porta o alla finestra,

sono sola, nascosta in un angolo,

sono sola, mi nutro di lacrime,

sono sola, dolente o quieta,

sono sola, non c’è nulla di più triste,

sono sola, chiusa nella mia stanza,

sono sola, rimasta senz’ amico.

Sono sola, dovunque e ovunque io sia;

sono sola, che io vada o che rimanga,

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sono sola, più di ogni altra creatura della terra,

sono sola, abbandonata da tutti,

sono sola, più di ogni altra creatura,

sono sola, abbandonata da tutti,

sono sola, duramente umiliata,

sono sola, sovente tutta in lacrime,

sono sola, senza più amico.

Principi, iniziata è ora la mia pena:

sono sola, minacciata dal dolore,

sono sola, più nera del nero,

sono sola, senza più amico, abbandonata.

Rimasta vedova a venticinque anni, con tre bambini piccoli ed una madre di cui doversi occupare, costretta dalle circostanze a guidare quella che lei definiva una nave rimasta nel mare in tempesta senza capitano, Christine mutò la sua natura, da donna si trasformò in uomo, assumendo responsabilità ed obblighi considerati a quel tempo prerogativa maschile; dunque si rafforzò e cominciò a districarsi negli affari maschili, anche in cause legali, ed avviò la sua attività letteraria, inizialmente solo come copista, e poi anche come scrittrice.

Della metamorfosi da essere femminile ad essere maschile così lasciò traccia nel suo “Livre de Mutacion de Fortune

”:…Mi ritrovai con un animo forte e ardito,/di cui mi stupivo, ma capii/ di essere diventato un vero uomo.

Allora diventai un vero uomo, non è una storia, /capace di condurre le navi, / Fortuna mi insegnò questo mestiere.

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Ben presto le opere di Christine de Pizan cominciarono a riscuotere successo a corte, procurandole committenze illustri, come i fratelli di Carlo V e la regina Isabella di Baviera.

Scrittrice di professione, consapevole del suo talento, Christine andò a colmare un vuoto, quello dell’assenza femminile dalla cultura, determinata non certo da una presunta inferiorità naturale, bensì dall’isolamento delle fanciulle tra le mura domestiche e dall’educazione limitata impartita a quel tempo alle donne, argomento che non mancò di affrontare nelle sue opere.

Testimonianza delle sue profonde intuizioni e riflessioni sulla disparità culturale fra uomo e donna, e sull’esclusione femminile dal sapere, è il suo libro “Livre de la Cité des Dames”, in cui traccia i profili delle più interessanti figure femminili dell’antichità, regine, sante, guerriere, poetesse, scienziate, indovine, come Minerva, Medea, Saffo, Didone, Giuditta, abitatrici di un’immaginaria città fortificata dove imperano esclusivamente Ragione, Rettitudine e Giustizia.

Christine riconosce come esclusivamente maschile la tradizione scritta, ma non per questo da legittimare e perpetuare, anzi ricorrente è la sua esortazione ad impartire anche alle fanciulle la stessa educazione data ai maschi, poiché, a parità di condizioni, imparerebbero altrettanto bene e capirebbero le sottigliezze di tutte le arti, così come essi fanno.

Diverse sono le critiche e le argomentazioni di Christine contro chi ostacola l’istruzione delle donne, estromettendole dalla cultura ed impedendo loro un naturale arricchimento, molti autori, che forse temono una femminile superiorità culturale: sarebbero molto irritati se le donne ne sapessero più di loro.

In tutto il libro traspare sempre il suo orgoglio di essere donna, che la porta a ribaltare completamente le convinzioni del tempo, attaccando con decisione la tradizione letteraria maschile, che era riuscita ad imporsi solo per l’assenza di una corrispondente tradizione letteraria femminile.

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VITTORIA COLONNA

( 1492 / 1547 )

A Vittoria Colonna

Un uomo in una donna, anzi uno dio,

per la sua bocca parla,

ond'io per ascoltarla

son fatto tal, che ma' più sarò mio.

I' credo ben, po' ch'io

a me da lei fu' tolto,

fuor di me stesso aver di me pietate;

sì sopra 'l van desìo

mi sprona il suo bel volto,

ch'io veggio morte in ogni altra beltate.

O donna che passate

per acque e foco l'alme

a' liei giorni,

deh, fate c'a me stesso più non torni.

(Rime, Michelangelo)

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E' Michelangelo Buonarroti che dedica questi versi a Vittoria

Colonna, una delle donne più illustri e colte del Rinascimento, figlia di

Agnese di Montefeltro e del principe e condottiero Fabrizio.

Ammirata e stimata nella società letteraria dell'epoca, divise il suo

tempo fra il convento di Viterbo, dove si dedicò alla poesia e a

programmi di rinnovamento religioso, e Roma, dove, nel 1536,

conobbe Michelangelo, che l'amò e al quale fu legata da una grande

affinità spirituale e da una stretta corrispondenza epistolare.

Michelangelo nutrì sempre una grande ammirazione nei suoi confronti;

per lei eseguì diversi disegni di soggetto religioso, le dedicò varie rime,

tra cui un famoso madrigale, e fu stimolato dal suo esempio ad

approfondire la propria fede.

Nata nel 1492 a Marino, sui Colli Albani, feudo della nobile famiglia dei

Colonna, Vittoria ricevette una raffinata educazione improntata agli

studi umanistici e, nel 1509, a soli diciannove anni, sposò, nell'isola

d'Ischia, l'uomo che le era stato predestinato sin da bambina su

preciso disegno del Re di Napoli, Francesco Ferrante d’Avalos,

marchese di Pescara e capitano generale delle truppe imperiali di

Carlo V, al quale fu sempre devota e fedele, seguendone da lontano le

vicende e trepidando per la sua sorte, nonostante il matrimonio fosse

scaturito da motivi politici e l'uomo si assentasse spesso richiamato

dai doveri militari.

Il 5 dicembre del 1525 il marito, dopo una vita densa di avvenimenti, e

con la prospettiva di una possibile successione al Regno di Napoli, morì

in seguito alle ferite riportate nella battaglia di Pavia, lasciando la

moglie in un grande sconforto.

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Rimasta sola e senza figli, Vittoria avrebbe voluto entrare in convento,

ma ne fu dissuasa da papa Clemente, tuttavia, dopo un periodo in cui

fu molto legata agli ambienti culturali napoletani, riuscì ugualmente ad

isolarsi dalla società per servire Dio con più dedizione, trascorrendo il

resto della sua vita in modo austero e quasi claustrale, prodigandosi in

opere di carità, vagabondando in varie città d'Italia, spostandosi da un

convento all'altro e appassionandosi alle dispute religiose.

Proprio negli anni della vedovanza Vittoria divenne il simbolo dello

spiritualismo cinquecentesco; unendo in sé fede cattolica e filosofia

platonica, partecipe delle inquietudini religiose e dell'esigenza di

riforma e restaurazione morale della Chiesa dell'epoca, si dedicò ad

un'intensa vita intellettuale, ma anche al culto della memoria del

marito.

Morì a Roma nel 1547, nel convento delle suore benedettine di Sant’

Anna, dove si era ritirata a vivere dopo un'esistenza caratterizzata da

continue crisi spirituali e religiose.

La figura e la produzione poetica di Vittoria Colonna sono la perfetta

espressione del secolo in cui visse; interpretò le esigenze e le

speculazioni degli intellettuali del tempo e i suoi versi risultano intrisi

di "logica" piuttosto che di "passione", con una forza di persuasione

che suscitò l'ammirazione dei contemporanei e che fece vedere in lei,

da Michelangelo, Un uomo in una donna, anzi uno dio.

Vasto è la sua produzione poetica, oltre alle Rime, comprende anche il

Pianto sulla passione di Cristo e l'Orazione sull'Ave Maria, e cospicui i

versi dedicati al marito, che fece pubblicare solo quando furono

trascorsi dieci anni di lutto.

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Le Rime, che attualizzano gli schemi petrarcheschi, edite a Venezia nel

1544, suddivise in due parti, le rime amorose e le rime spirituali,

armoniosamente legate fra loro, hanno il chiaro intento di cantare

l'eroica figura del marito

Nella prima parte sono raccolti i versi dedicati appunto alla

celebrazione delle virtù cavalleresche di Ferrante, rimpianto e

considerato guida e sostegno morale , nella seconda abbiamo le rime

di ispirazione più propriamente religiosa, dove trovano spazio

l'espressione della sensibilità per i temi della fede e delle profonde

meditazioni di Vittoria Colonna.

QUAND'IO RIGUARDO IL MIO SI' GRAVE ERRORE

Quand'io riguardo il mio sì grave errore,

confusa al Padre Eterno il volto indegno

non ergo allor, ma a te, che sovra il legno

per noi moristi, volgo il fedel core.

Scudo delle tue piaghe e del tuo amore

mi fo contro l'antico e novo sdegno,

tu sei mio vero prezioso pegno,

che volgi in speme e gioia ansia e timore.

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Per noi su l'ore estreme umil pregasti,

dicendo: Io voglio, o Padre, unito in cielo

chi crede in me, sì ch'or l'alma non tene.

Crede ella e scorge (tua mercé) quel zelo

del quale ardesti sì, che consumasti

te stesso in croce e le mie colpe insieme.

MADRIGALE

Il bianco e dolce cigno

cantando muore, ed io

piagnendo giungo al fin del viver mio.

Strana e diversa sorte:

ch'ei muore sconsolato,

ed io moro beato!

Dolce e soave morte,

a me vie più gradita

d'ogni gioiosa vita!

Morte, che nel morire

m'empi di gioia tutto e di desire,

per te son sì felice

ch'io moro e nasco al par de la fenice.

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Gaspara Stampa

( 1523 – 1554 )

EPITAFFIO

Per amar molto ed esser poco amata

visse e morì infelice, ed or qui giace

la più fidel amante che sia stata.

Pregale, viator, riposo e pace,

ed impara da lei, sì mal trattata,

a non seguir un cor crudo e fugace.

Gaspara Stampa, la voce più autentica e spontanea della poesia

italiana del sedicesimo secolo, nacque a Padova nel 1523 da una

famiglia milanese nobile e colta ma di scarse risorse economiche,

perciò costretta a passare al commercio e, nel 1531, alla morte del

padre Bartolomeo, si trasferì a Venezia con la madre, il fratello

Baldassarre (anche lui poeta) e la sorella Cassandra.

A Venezia tutti e tre i giovani ebbero una buona educazione letteraria

ed artistica purtroppo Baldassarre, dalla solida cultura umanistica e

ottimo verseggiatore, morì a soli vent’anni, però quest’evento, che

pure colpì le donne dolorosamente, non le spinse ad isolarsi e a

chiudersi, anzi, ben presto la loro casa divenne centro di vita mondana,

aperta ai nobili e ai letterati veneziani, che la frequentavano attratti

dalle due sorelle, di bell’aspetto e brave suonatrici e cantatrici; in

particolare Gaspara, che conduceva vita libera e spregiudicata, si

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meritò grande ammirazione per la sua vivacità intellettuale, per l’arte

dimostrata nel canto e nella poesia, e per la straordinaria bellezza.

Pare che Gaspara fosse anche socia dell’Accademia dei Dubbiosi col

nome arcadico di Anassilla, nome pastorale che aveva tradotto dal

termine latino del Piave (Anaxum), il fiume che bagnava il feudo di

Collaltino, l’uomo amato perdutamente, e che prendesse parte alle

feste pubbliche allestite dai soci della "Compagnia della Calza",

apprezzata e vezzeggiata insieme alla sorella Cassandra.

Frequentando tale ambiente, conducendo un tipo di vita libero, appare

evidente che fosse semplice perdervisi, è per questo che, anche se per

lungo tempo il calore e l'ingenuità di certi suoi componimenti

l’avevano fatta credere una semplice fanciulla amata e poi

abbandonata da un gentiluomo veneto, molti studiosi hanno avanzato

l’ipotesi che fosse una cortigiana, una di quelle cortigiane colte ed

eleganti, d’alto rango, "onesta", come allora si usava dire, di cui

specialmente Venezia nel Cinquecento era piena, che vivevano in un

ambiente raffinato, composto di nobili e artisti, che avevano il culto

della poesia, della musica e delle arti in genere.

Gaspara fu una donna che, con prontezza d’ingegno e vivacità, riuscì a

vivere in una certa libertà di affetti e di costumi, svincolata da rigidità

morale; ciò nulla toglie alla considerazione dei suoi versi, spesso

severamente giudicati.

La sua breve vita di donna libera e spregiudicata trascorse, dunque,

intensa tra amori fugaci e appassionati, tra i quali dominò la

tormentosa relazione d’amore, poi troncata dall’amante, che dal 1548

al 1551 la legò al conte Collaltino di Collalto, di cui pianse la

lontananza quando il conte andò in Francia al servizio del re e poi

l’abbandono.

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Amico di Baldassarre, e dei frequentatori di casa Stampa, Collaltino

entrò in relazione con le due sorelle, e presto Gaspara ne restò

affascinata. Da parte sua fu un amore sincero, accolto con dedizione

totale, un sentimento quasi disperato, specie quando nella giovane si

accentuò il senso d’inferiorità rispetto al suo signore, che deve averla

amata senza slancio, se pur l’amò, più per vanità che per trasporto.

Collaltino si assentava spesso, era lontano da lei, nei suoi feudi, a

Parigi, al seguito del re di Francia o, attratto dal mestiere delle armi, a

combattere in giro per l’Italia, e Gaspara soffriva immensamente della

lontananza, seguendone le imprese con ansia, aspettandolo con

trepidazione e, quando lo sapeva nei suoi feudi, lo raggiungeva al

castello, umiliandosi in un amore che riconosceva essere disuguale,

ma al quale non sapeva rinunziare.

Tempestoso e doloroso fu dunque il suo legame con il conte, ma tutto

perdonò e tutto accettò in profonda sottomissione per tre anni, infine,

sopraffatta dalla propria gelosia, e dalla lontananza e indifferenza

dell’uomo, pur essendone ancora innamorata si legò ad un secondo

amore, il patrizio veneto Bartolomeo Zen.

Testimonianza di questo grande amore, sicuramente non ricambiato,

se non addirittura unilaterale per il conte Collaltino di Collalto, uomo

ricco e vanitoso, sfuggente e infedele, sono le Rime, un canzoniere,

dedicato a Giovanni Della Casa, che raccoglie trecentoundici

composizioni, sonetti, madrigali, canzoni, sestine e capitoli, su modello

petrarchesco, una sorta di diario, espressione e strumento del suo

sentimento.

Nei suoi versi Gaspara confessò l’esaltazione dei momenti felici e mise

a nudo le ansie e i turbamenti dell’animo, scosso dai fremiti della

gelosia e del sospetto, che si trasformò in dolorosa certezza nel

momento dell’abbandono definitivo.

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La struttura di questo diario d’amore è dichiaratamente petrarchesca:

il canzoniere si apre con il sonetto Voi, ch’ascoltate in queste meste

rime, e si chiude con una poesia di pentimento.

Le citazioni dal Petrarca sono innumerevoli, ma la Stampa non riesce a

dominare lo stile e adopera il lessico e i moduli petrarcheschi in modo

superficiale ed ingenuo, fermandosi ad un’imitazione di maniera.

Ciò che conferisce grande fascino ai suoi versi è l’ispirazione sincera,

che risiede specialmente nella forza e nel tormento della passione, e

che l’autrice riesce a far vivere nel testo poetico con accenti di

autentica drammaticità.

il suo diario amoroso, talvolta è una trascrizione meccanica del

petrarchismo ma in passione e sincerità, non può non renderla voce

unica nel panorama letterario del Cinquecento.

DALLE RIME:

METAFORA DEL GIACINTO

Quasi vago e purpureo giacinto

che ‘n verde prato, in piaggia aprica e lieta,

crescendo ai raggi del più bel pianeta,

che lo mantien degli onor suoi dipinto,

subito torna languidetto e vinto,

sì che mai non si vide tanta pièta,

se di veder gli usati rai gli vieta

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nube, che ‘l sol abbia coperto e cinto,

tal la mia speme, ch’ognor s’erge e cresce,

dinanzi a ‘rai de la beltà infinita,

onde ogni sua virtute e vigor cresce.

Ma la ritorna poi fiacca e smarrita

oscura tema, che con lei si mesce,

che la sua luce fia tosto sparita.

Sonetto denso di metafore: l’amato è il sole, l’assenza dell’amato è il

venir meno della luce, e la speranza, come il giacinto, vive della

presenza e illanguidisce per l’assenza.

GIOCHI VERBALI SULLE PENE D’AMORE

Arsi, piansi, cantai; piango, ardo e canto;

piangerò, arderò, canterò sempre

(fin che Morte o Fortuna o tempo stempre

a l’ingegno, occhi e cor, stil, foco e pianto)

la bellezza, il valor e ‘l senno a canto

che ‘n vaghe, sagge ed onorate tempre

Amor, natura e studio par che tempre

nel volto, petto e cor del lume santo;

che, quando viene, e quando parte il sole,

la notte e ‘l giorno ognor, la state e ‘l verno,

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tenebre e luce darmi e tormi suole,

tanto con l’occhio fuor, con l’occhio interno,

agli atti suoi, ai modi, a le parole,

splendor, dolcezza e grazia ivi discerno.

Versi in lode dell’amato in cui la Stampa utilizza il lessico amoroso

petrarchesco come un gioco.

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Isabella MORRA

( 1520 – 1546 )

Le origini della famiglia Morra

La famiglia Morra, è stata certamente una delle più antiche, delle più nobili, delle più illustri signorie del Napoletano.

Il duce Morra durante il dominio dei Normanni, per le terre occupate con i Sanseverino, avrebbe dato origine alle due famiglie dei Morra e dei Sanseverino.

Le due grandi famiglie rimasero unite non solo nel parentado, ma anche nelle vicende storiche, toccò, infatti, al padre di Isabella Morra, di precedere in Francia le sorti del principe di Salerno, che più tardi passò al servizio del re Enrico II.

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Sotto il regno di Ruggero I, normanno, si trova notizia già di un suo capitano signore di Morra, chiamato Roberto.

Ed è a quel tempo, cioè dalla prima conquista di Morra, fatta dal duce germanico Iachis, che Marcantonio Morra fece risalire lo stemma della famiglia, composto, in campo rosso, di due spade d’argento sguainate con la punta all’ ingiù, incrociate al modo della croce di Sant’Andrea, accompagnate nei vani da quattro girelle di sperone d’oro che furono scambiati per stelle.

Il palo d’argento, che fu poi aggiunto allo stemma dai principi di Morra recante due tiare alludono al pontificato di Gregorio VIII, e di Vittore III.

Marcantonio Morra, regio consigliere, nell'anno 1629, pubblicò a Napoli la sua “Familiae Nobilissimae De Morra istoria” in cento pagine, rivelando i nomi dei Morra.

Dopo il grave fatto di sangue, nella seconda metà del Cinquecento, la famiglia Morra pareva dovere essere dispersa nella sua rovina, invece si ricostituì e rifulse di nuovo in parecchi rami, nel Seicento, acquistando nel 1617 il ducato di Bovalino, nel 1627 il marchesato di Monterocchetta e in Sicilia il principato di Buccheri; nel 1630 il ducato di San Martino; nel 1644 il ducato di Magniti e quello di Belforte; nel 1644 il principato di Morra; nel I673 il ducato di Calvizzano; nel 1679 il ducato di Mancusi, e altri feudi successivamente.

Del caso infelice della poetessa Isabella Morra, si trova traccia nel libro di Marcantonio Morra, che per essere stato scritto in latino, che di solito offre interesse per la sola famiglia di cui si tesse la storia, passò inosservato agli storici della nostra letteratura.

Giovanni Michele Morra signore di una terra baronale sul fiume Siri o Sinni, detta Favale, vivo ancora il padre, aveva sposata Luisa Brancaccio, da cui ebbe sei figli maschi: Marcantonio, Scipione, Cesare, Decio, Fabio, Camillo, tutti grandi nomi dell’antica storia romana, che dimostrano quali spiriti di fiera latinità fossero in lui, e due figlie: Isabella, la nostra infelicissima poetessa e Porzia, che in età matura, fu data in sposa ad un avvocato di nome Fabio Bucino.

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Era uomo di grande animo. Tuttavia il principe di Salerno, suo parente lontano, era strapotente e possedendo presso la baronia di Favale, il castello di Rotondello, si lamentò presso il re dei Morra, perchè pare avessero invaso alcune terre della castellania, e maltrattati i suoi ministri.

Nel 1527, durante l’invasione dei Francesi nel Regno di Napoli, il principe di Salerno sosteneva le parti imperiali, il signore di Favale, invece, fidando nella vittoria dei Francesi, si era alleato con i condottieri di Francia.

Vinti e cacciati i Francesi dal Regno, Giovanni Michele Morra, per timore dell’odio del principe di Salerno o forse perchè la confiscata signoria di Favale potesse piu facilmente tornare ai figli, che non avevano presa alcuna parte alla guerra, se ne dovette fuggire nell’agosto del 1528 a Roma, e di là, poco dopo, in Francia.

Il primogenito Marcantonio per indulto imperiale, potè rientrare nella signoria di Favale con tutti i suoi fondi (cum suis feudis omnibus), mentre Giovanni Michele sarebbe stato restituito in tutti i suoi onori se fosse tornato a giustificarsi, ma egli temendo forse un tradimento e non tornò più, eleggendosi un volontario esilio, e tenendo con sè il secondogenito Scipione, giovinetto di sommo ingegno, di tenace memoria, nutrito di buone lettere e specialmente erudito nel latino e nel greco, che il padre aveva lasciato a perfezionarsi negli studi a Roma.

L’ambasciatore di Francia presso la Santa Sede ebbe occasione di ammirarlo e quindi richiamarlo con sè presso il padre a Parigi, dove divenne segretario particolare della regina di Francia, Caterina de’ Medici.

Nel frattempo il destino percosse ed agitò più crudelmente il resto della famiglia, la Brancaccio era rimasta nella terra di Favale (nell’assenza del marito e del figlio Scipione), con gli altri figli che le rimanevano, Marcantonio, Decio, Fabio, già maggiorenni, Camillo, ancora fanciullo, oltre ad Isabella (che era coetanea del fratello Scipione, col quale aveva mirabilmente approfittato negli studi, superando il proprio sesso), e Porzia, l’ultima nata.

Sorgeva poco distante dalla terra di Favale, il castello di Bollita, di cui era, signore Don Diego de Castro, nobilissimo spagnolo, marito di

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Donna Antonia Caracciolo, dalla quale aveva ricevuto in dote que1 luogo, essendo egli prefetto di Taranto.

Era giunto all’orecchio dei fratelli che Don Diego, per mezzo del pedagogo di Isabella, le aveva mandato una lettera con versi, nelle mani della quale erano certo che fosse pervenuta, a nome della moglie di Don Diego, ma che essa non lesse, perchè i fratelli la vollero avere, ancora chiusa.

Isabella sosteneva che l’aveva ricevuta, da parte di Donna Antonia, i fratelli che il luogo agreste aveva reso rozzi e barbari, senza indugio, ferocemente uccisero il pedagogo, e quindi pugnalarono la sorella.

Quando si persuasero che Don Diego era stato informato dell’intercettazione della lettera, perché sollecitava il governatore della provincia (della Basilicata), affinchè sottraesse Isabella dalle mani dei fratelli, allora uccisa la sorella, posero in essere il loro disegno di uccidere Diego, sebbene questi già temesse la loro ferocia e , mentre da Taranto tornava, come spesso faceva, a Bollita per visitarvi sua moglie si facesse accompagnare da una scorta d’armati in un luogo verso Noa ( odierna Noepoli ), a tre miglia da Favale, da dove egli doveva necessariamente passare, dopo essersi messi da più giorni in agguato in luogo nascosto, balzando fuori all’improvviso, con 6 colpi, lo trucidarono mettendo in fuga la scorta.

A questo misfatto parteciparono i fratelli Cesare, Fabio e Decio con gli zii Cornelio e Baldassino, contro i quali inveì allora la persecuzione dei giudici, tanto che tutta la regione fu controllata da gente armata, fu devastata per più mesi, per ordine del vicerè Don Pedro di Toledo.

E poichè lo sdegno del principe non solo col tempo non si calmava ma cresceva, i fratelli d’Isabella, lasciato il Regno di Napoli si recarono in Francia, presso il padre e il fratello Scipione allora già segretario della Regina.

Scipione Morra, sebbene dispiaciuto fortemente della morte della sorella e ne rimproverasse i fratelli, tuttavia non rifiutò di aiutarli.

Il padre era già morto da alcuni anni, quando, assicurato della restituzione dei beni, si preparava a fare ritorno nelle sue terre, Scipione ottenne per il fratello Decio, che si era fatto frate nella provincia di Limoges, dalla Regina di Francia, in quella stessa

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provincia, l’Abbazia vescovile degli Agostiniani detta Beneventana, col reddito annuo di quattromilaquattrocento scudi d’oro; fece sposare il fratello Cesare con la gentildonna Gabriella Falcorè, che le portò in dote il castello di Chamoran, presso quell’Abbazia.

Ma gli invidiosi cortigiani, vedendo tanto favore di Scipione Morra presso la Regina, avvelenarono il favorito, Caterina de’ Medici si sdegnò e volle a punire i colpevoli.

Decio e Cesare Morra erano ancora vivi nel 1600; Cesare ebbe due figli, uno dei quali, Orazio, tornò in Italia, e passò parecchi giorni a Favale,

Il fratello d’Isabella, Marcantonio, autore principale dell’eccidio del pedagogo, della sorella e di Don Diego fu preso e incarcerato; tuttavia, dopo lunga prigionia venne relegato a Taranto; infine, liberato potè ritornare a casa, e rientrare nei suoi beni sposando Verdella Capece Galeota, da cui ebbe parecchi figli: Fabrizio, Giovanni Michele, Prospero, Scipione, Orazio, Ippolita e Beatrice; Marcantonio morì nel 1561, e gli successe il primogenito Fabrizio; quindi, per la morte immatura di costui, il secondogenito Giovanni Michele.

La storia pietosa della povera Isabella, fu scritta per la prima volta da un illustre discendente, l’architetto Carlo Morra dei Marchesi di Monterocchetta, che fa tanto onore all’arte italiana nella Repubblica Argentina.

Come fu un Morra che, primo, ci ha rivelato la terribile tragedia che era avvenuta nella sua famiglia, così è un Morra che vuol divulgare le rime della sua nobile infelicissima antenata, desiderando che sia fatta gloriosa vendetta di un caso tanto atroce e nefando.

( Da Benedetto Croce, Isabella di Morra e DiegoSandoval de Castro)

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Biografia di Isabella Morra La poetessa Isabella Morra, nata a Valsinni verso l’anno 1520 e qui poi tragicamente morta, per mano dei suoi stessi fratelli, in un episodio che presenta molti lati oscuri, fu istruita dal pedagogo di famiglia, quello stesso che, dopo, sarà ucciso sempre dai fratelli di lei. Nel 1528, il padre di Isabella, Giovanni Michele Morra, barone di Favale (antico nome dell’odierna cittadina lucana, Valsinni), a causa delle discordie con il principe di Salerno, Ferrante Sanseverino, e con gli Spagnoli, si era rifugiato in Francia alla corte di Francesco I, portando con sè il suo secondogenito: Scipione. A Favale, invece era rimasta sua moglie, Luisa Brancaccio, con gli altri figli maschi e le due figlie femmine: Isabella e Porzia, la più piccola. Cresciuta negli anni, Isabella, si dedicò al culto delle lettere e della poesia, insieme a suo fratello Scipione, sognando il momento del suo matrimonio, che l’avrebbe portata fuori da quel luogo chiuso e solitario, solitudine accentuata dalla lontananza dell’amato padre, e del fratello gemello, l’unico che condivideva con lei l’amore per le rime. Don Diego Sandoval De Castro, regio castellano della rocca di Taranto, si recava spesso non lontano da Favale, per visitare il feudo di Bollita (l’odierna Nova Siri), avuto in dote dalla moglie Antonia Caracciolo. Anche lui era molto appassionato di poesia e si dilettava a scrivere versi. I tre fratelli di Isabella, Decio, Cesare e Fabio, già precedentemente informati di lettere contenenti versi che Don Diego Sandoval De Castro aveva inviato, a nome della moglie, a Isabella per mezzo del pedagogo, dopo averle trovate nelle mani della ragazza, chiesero spiegazioni. Non convinti dalla sua risposta (affermò che giungevano da Antonia Caracciolo), i tre, pieni di furore uccisero prima il pedagogo e poi pugnalarono a morte anche l’innocente e ignara sorella. Fecero tutto questo nel timore che Sandoval venuto a conoscenza dell’intercettazione delle lettere, e per avere giustizia avesse presentato ricorso al governatore per portar via la giovane Isabella, che, probabilmente, più che innamorata del De Castro amava stare con la moglie, per la sua possibilità di viaggiare e conoscere molti centri di cultura.

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La poetica morriana

Tra le poetesse italiane del ‘500, che composero opere liriche alla maniera del Petrarca, quella di Isabella Morra non è una voce affatto secondaria: in confronto ad altre, come la Stampa e la Colonna, lei è l’unica figura femminile a essere dotata di una sua forte e vibrante personalità poetica, assoluta nella tradizione letteraria della Basilicata.

La differenza principale tra Isabella e le sue contemporanee è principalmente legata a ciò che la ispirò nei suoi componimenti: a differenza per esempio

di Vittoria Colonna (che ebbe una profonda crisi spirituale, dovuta alla morte del marito, testimoniata proprio nelle sue rime colme di misticismo platonizzante e di tocchi petrarcheschi),

di Gaspara Stampa (influenzata, nella sua produzione, soprattutto dal suo amore per il conte Collatino di Collalto, che la portò a scrivere un vero e proprio diario sentimentale, una sorta di sfogo, più che un esercizio letterario su modello petrarchesco),

Isabella Morra introduce, invece, alla poetica leopardiana per il suo percorso biografico: la solitudine della casa paterna, il difficile rapporto con la gente del borgo, contadina e analfabeta, il dolore per la lontananza da centri culturali, dove potersi realizzare e per un amore desiderato ma mai vissuto.

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Le Rime di Isabella

che ci hanno emozionato

I FIERI ASSALTI DI CRUDEL FORTUNA

I fieri assalti di crudel Fortuna

scrivo, piangendo la mia verde etate,

me che 'n si vili ed orride contrate

spendo il mio tempo senza loda alcuna.

Degno il sepolcro, se fu vil la cuna,

vo procacciando con le Muse amate,

e spero ritrovar qualche pietate

malgrado de la cieca aspra importuna;

e, col favor de le sacrate Dive,

se non col corpo, almen con l'alma sciolta,

esser in pregio a più felici rive.

Questa spoglia, dove or mi trovo involta,

forse tale alto re nel mondo vive,

che 'n saldi marmi la terrà sepolta.

Breve e infelicissi fu la vicenda terrena della poetessa Isabella Morra, uccisa a soli ventisei anni, nel 1546, nel castello di Morra, dai fratelli, e la cui esistenza, troncata dal tragico finale, che sembra da lei quasiprevisto in questi versi e racchiudere tutti gli elementi di un romanzo romantico.

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Isabella crebbe, dunque, chiusa nella solitudine del denigrato sito, il castello paterno, collocato a picco sul mare, sull’infelice lito, sotto la tutela dei fratelli rozzi, incolti e sempre più imbarbariti nel loro isolamento, che la detestavano e la tenevano segregata nel sinistro maniero, trovando unico conforto alla sua solitudine nelle letture dei classici e nelle fantasticherie, componendo versi, ma lontana dalla società letteraria napoletana. Della sua produzione, rivalutata da Benedetto Croce che ne riconobbe il valore di poesia immortale, restano miracolosamente un esile canzoniere: le Rime, formato da 15 componimenti, 12 sonetti e 3 canzoni, che rappresentano l’impetuosa autobiografia e rivelano la sua indole malinconica e appassionata, ma sono anche testimonianza della sua dotta e raffinata cultura. Dimostrando di aver ben assimilato la lezione del Petrarca, considerato sommo maestro da tutti i lirici cinquecenteschi, per Isabella, definita la "Saffo lucana", il petrarchismo resta solo un vago punto di riferimento, e rivela sensibilità e suggestioni tassiane e leopardiane, con la trasfigurazione lirica del paesaggio, che diventa partecipe dei suoi stati d’animo, e la tragicità e la potenza delle immagini con cui esprime il suo tormento. Nelle Rime, in cui non si ritrova traccia della tematica amorosa, indizio questo che avvalorerebbe il fatto che la corrispondenza col Sandoval fosse solo letteraria e non una tresca amorosa come sospettarono i fratelli, e che vertono sulla sua vicenda esistenziale, sull’ansia di libertà, sulla volubilità della fortuna, sull’avversa sorte, sulla vana ed ansiosa attesa del ritorno del padre lontano, Isabella lamenta il proprio drammatico destino di solitudine, e protesta contro l’avversa sorte, ma, nei componimenti di ispirazione religiosa, la sventurata poetessa, sembra accettare, in accorata esaltazione mistica, la propria infelice vicenda terrena. La poesia di Isabella conquista immediatamente in virtù della romantica vicenda alla quale rinviano i suoi versi, tuttavia sarebbe ingiusto considerarla esclusivamente una testimonianza autobiografica, perché la sua voce poetica non è solo illuminante della storia personale; l’ espressione del suo tormento e del suo dolore trascende il privato ed offre occasioni di meditazione e riflessioni universali che la rendono degna di essere ascritta nella storia del petrarchismo.

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D'UN ALTO MONTE ONDE SI SCORGE IL MARE

D'un alto monte onde si scorge il mare

miro sovente io, tua figlia Isabella,

s'alcun legno spalmato in quello appare,

che di te, padre, a me doni novella.

Ma la mia adversa e dispietata stella

non vuol ch'alcun conforto possa entrare

nel tristo cor, ma, di pietà rubella,

ha salda speme in piano fa mutare;

ch'io non veggo nel mar remo nè vela

(così deserto è l'infelice lito)

che l'onde fenda o che la gonfi il vento.

Contra Fortuna allor spargo querela,

ed ho in odio il denigrato sito,

come sola cagion del mio tormento.

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Questo sonetto è un dialogo col padre lontano, nell’attesa vana di un messaggio che arrivi dal mare. Dall’alto del monte in cui si trova il castello, nei versi iniziali Isabella, in nome di un vincolo di consanguineità fortemente affermato, sottolineando continuamente la condizione filiale (io, tua figlia Isabella, dite, padre, a me), si rivolge al padre; dalla seconda quartina, però, al dialogo si sostituisce il soliloquio, passando dall’autocommiserazione, all’amara constatazione della solitudine e dell’assenza, alla protesta contro il denigrato sito, il luogo odiato che è l’unica cagion del tormento di Isabella.

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TORBIDO SIRI, DEL MIO MAL SUPERBO

Torbido Siri, del mio mal superbo,

or ch'io sento da presso il fine amaro,

fa' tu noto il mio duolo al padre caro,

se mai qui 'l torna il suo destino acerbo.

Dilli com'io, morendo, disacerbo

l'aspra fortuna e lo mio fato avaro,

e, con esempio miserando e raro,

nome infelice e le tue onde io serbo.

Tosto ch'ei giunga a la sassosa riva

(a che pensar m'adduci, o fiera stella,

come d'ogni mio ben son cassa e priva!),

inqueta l'onda con crudel procella,

e dì: - M'accrebber sì, mentre fu viva,

non gli occhi no, ma i fiumi d'Isabella.

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E’ questo l’estremo messaggio, maturato probabilmente con la consapevolezza dell’imminente fine cruenta, di Isabella al padre lontano, esule in terra di Francia, del quale attende il ritorno, affidato al fiume Sinni, il torbido Siri, testimone della infelicità e del pianto di Isabella, così copioso che accresce il torbido corso del fiume, tanto che gli occhi dell’angosciata creatura si mutano addirittura in corsi d’acqua, i fiumi di Isabella, e memoria della sua triste vicenda. Nonostante la reiterata lamentazione per la propria sorte infelice, definita aspra fortuna, fato avaro, fiera stella, nei versi Isabella ostenta fiero compiacimento per il proprio io, simbolo di sventura .

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Visita ai luoghi morriani

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Relazione finale

Tra le attività svolte durante quest’anno scolastico, abbiamo eseguito anche un laboratorio molto interessante su Isabella Morra, giovane poetessa lucana del ‘500, che ha trascorso la sua vita a Favale (chiamata così per la non indifferente produzione di fave), oggi nota come Valsinni; luogo degno di essere diventato un importante parco letterario, avendo come forma d’arte la poesia, strettamente collegata al panorama, che ispira calma e tranquillità.

Proprio il paesaggio ha svolto un ruolo fondamentale nella vita di Isabella Morra, rappresentandone la cornice; nel 1928, infatti, Valsinni fu visitata da Benedetto Croce, che volle rivalorizzare la vita e la produzione letteraria della poetessa, fino a quel momento sconosciuta (senza di lui non avremmo mai potuto osservare quel mondo che ci sarebbe rimasto sconosciuto).

Poiché, poi, è l’unica poetessa importante e nota delle “nostre parti", abbiamo ritenuto importante raccogliere informazioni, parlandone in classe e concludendo l’intero percorso con la visita alla sua città e con una relazione finale, avente come tema proprio l’uscita didattica.

Il 3 maggio, noi ragazzi della classe II H, ci siamo recati con l’autobus a Valsinni per osservare personalmente i luoghi della vita, breve ma intensa, di Isabella Morra.

Abbiamo potuto veramente costatare con gli occhi tutto quello che avevamo studiato recandoci al parco letterario, dove ci hanno dato il benvenuto due simpatici menestrelli, uno di essi, Erminio Truncellito, ci ha anticipato quello che avremmo fatto durante la giornata.

Erano vestiti in modo molto buffo, uno aveva una chitarra, e, da veri menestrelli cinquecenteschi, hanno animato il nostro percorso con rime, deliziosi canti, filastrocche e, soprattutto, con la storia di Isabella.

Ci hanno raccontato ( alcune cose già le conoscevamo) che Isabella Morra nacque a Favale intorno al 1520 e, sin da piccola, fu istruita all’arte della letteratura e della poesia, assieme al suo fratello gemello Scipione, dal pedagogo di famiglia: loro due erano gli unici tra i figli di Marcantonio Morra a saper leggere e scrivere.

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Passava molto tempo con Scipione, che era l’unico con cui si confidava e riusciva a divertirsi, avendo i suoi stessi interessi. Proprio per questa ragione, quando il padre fu costretto a fuggire portandolo con sé, lei subì un grosso trauma, per aver perso le due figure più importanti, gli unici suoi punti di riferimento.

Questo la condizionò molto nella produzione letteraria, cominciò a considerare Gesù una pietra d’appoggio, infatti, in tutti i suoi anni, non perse mai la speranza che potessero ritornare (questo è costatabile nelle sue poesie).

Divenuta grande, Isabella, era sola in quell’immenso castello a vivere con i suoi fratelli ignoranti Camillo, Cesare, Decio, Fabio e Porzia - e naturalmente con la madre, di cui non si hanno molte notizie.

Era sola, con la sua speranza che la portò molte volte sulle rive del Sinni (che lei soprannominava “Veloce” perché lo considerava il fiume più veloce del feudo) a riflettere, e proprio lì cominciò a comporre.

Ma i giorni passavano e del padre e di Scipione non aveva più notizie.

Subito in lei si vede una grande personalità, aperta e colta, pronta a guardare oltre le mura del suo castello e anche oltre i confini del suo feudo; lì provava disagio poiché sentiva il bisogno di confrontarsi e quello era un luogo privo di centri culturali.

La sua poesia è piena di sentimento, dietro di essa si nasconde il desiderio di evasione ed è, per lo più, legata a quella di altre poetesse a lei contemporanee, come la Gambara, la Stampa e la Colonna, per lo stile di composizione ispirato a Petrarca; anche se la poesia morriana è unica, giacché introduce già a quella che successivamente sarà la produzione leopardiana.

Solo dopo qualche tempo, Isabella ha potuto trovare un’amica: Antonia Caracciolo (moglie di Don Diego Sandoval De Castro), con cui condivideva l’amore per la poesia e dialogava per via epistolare.

Purtroppo, però, quest’amicizia fu interrotta dalle dicerie di paese, che dichiaravano aperta una storia d’amore tra la poetessa di Favale e Don Diego Sandoval De Castro.

Questo compromise anche la loro vita, infatti, i fratelli, crudeli, rozzi e ignoranti, precedentemente informati della presunta relazione, avevano trovato come prova delle lettere e non convinti della giustificazione data loro dalla giovane sorella, uccisero prima il

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pedagogo (accusato di essere complice) e poi Isabella, bruciando, con delle feroci pugnalate, i suoi meravigliosi 26 anni, nel 1546, anche se, per lei, dopo la partenza del padre e del fratello, la morte le sembrava l’unica liberazione.

La stessa sorte toccò a Don Diego che fu ucciso in una imboscata tesagli dai fratelli di Isabella nel bosco di Noa ( l’odierna Noepoli). Questa morte è crudele, ma soprattutto misteriosa: dopo più di 500 anni, ancora i loro corpi non sono stati ritrovati.

Per questo motivo, ci ha spiegato il menestrello, Isabella è rappresentata a metà viso e senza volto, e sarà sfigurato fino a quando il corpo non sarà ritrovato.

In ogni modo non riusciamo a credere che Camillo, Cesare e Decio furono così spietati con la sorella, negandole persino una sepoltura decente, forse cercarono di cancellare definitivamente la sua memoria; proprio perché la motivazione per cui la uccisero è ben diversa: non sopportavano che lei fosse più intelligente di loro e che fosse in grado, lei una donna, di leggere e scrivere .

Dopo averci fatto un po’ viaggiare con la fantasia, e dopo aver avuto, attraverso uno schermo gigante altre notizie riguardanti Isabella Morra, Valsinni e il film girato sulla sua vita, ci siamo incamminati per poi raggiungere il tanto nominato castello, situato sulla parte più alta del piccolo paesino.

Ci ha incuriosito tantissimo soprattutto il fatto che, proprio quando il menestrello ha iniziato a parlarci di lei, si è levato a spirare un leggero venticello; per un attimo abbiamo davvero avuto paura perché si racconta che il fantasma della poetessa aleggi ancora su Valsinni.

Per poter entrare nel castello, avevamo bisogno di un titolo nobiliare e così siamo stati nominati tutti “Messeri e Damigelle” con il permesso di poter “transire intro li confini de lo feudo de Favale”; ci è sembrato di tornare indietro nel tempo ed eravamo tutti al settimo cielo.

Quando i menestrelli ci hanno condotti nelle stanze del castello, avremmo voluto sapere come Isabella avesse trascorso ogni singolo giorno della sua vita. Tutto ci sapeva di magico: trovarsi lì, nelle stanze dove lei ha vissuto e ha versato tantissime lacrime, guardare il Sinni dalla sua finestra.

Anche le sue poesie, da cui traspare tutta la sua disperazione, hanno suscitato in noi tantissime emozioni. La sua storia ci ha fatta gioire ma anche piangere: eravamo molto felici perché eravamo lì con i nostri

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amici, ma spesso ci rattristavamo perché i nostri pensieri andavano alla sua vita, piena di dolore cui solo la morte poteva porre rimedio.

Di Isabella Morra ci ha sorpreso la sua provenienza, lei era lucana e ancora oggi non è facile trovare qualcuno realmente apprezzato ovunque, proveniente dalla Basilicata e precisamente da uno dei nostri piccoli paesini.

Per noi, Isabella Morra è stata una delle più grandi poetesse del ‘500, anche se non degna della sua breve vita e della sua misera fine; fu uccisa per il suo sapere e la passione per la poesia, ma questo le rende onore in quanto rimarrà per sempre la donna più ”grande” della sua epoca (come la definì anche Benedetto Croce) e la fama che non ha potuto avere in vita, la sta avendo dopo la sua morte, e certamente continuerà ad averla.

E’ stato importantissimo conoscere una delle donne che hanno fatto la nostra storia e che rappresenta, per tutti noi, un esempio di forza e di volontà.

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Alla triste poetessa

Sola

nel piccolo borgo

lontan dal mondo

trascorresti

gli anni tuoi solinga.

Cullata

dalla trepida voce del Sinni

nel quale immergevi

i tuoi tristi pensieri.

Amico

non avevi

oltre il tuo Sinni

che allegrar ti poteva

nella rozza Favale.

Solo

ei ti ascoltava

e al padre tuo

che in Francia stava

il tuo lamento

trasportava.

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Triste

ogni giorno

invan speravi

di raggiungerlo

era tuo desir

e la speranza

compagnia ti fece

per sopravvivere

nel silenzioso sito.

Uccisa

crudelmente dai frati tuoi

per aver voluto

la libertà cantar.

Gli alunni della II H

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Bibliografia

• Bronzino D., Isabella di Morra, F.lli Montemurro editori, Matera 1975

• Cambria A., Isabella, La Triste storia di Isabella Morra

Ed. Osanna, Venosa 1996

• Crispino M., Antologia di poeti lucani, Ed. Vicentina, Vicenza 1988

• Croce B., Isabella Morre e Diego Sandoval de Castro, Sellerio ed., Palermo 1983

• De Gubernatis, Isabella Morra, le rime, Forzani e c. Tipografi del Senato Roma 1907

• Caserta G. Isabella Morra e la società meridionale del ‘500, Edizioni Meta, Matera, 1976

• Montesano P., Isabella di Morra, Altrimedia Edizioni Matera 1999