La pittura di Vincenzo Claps

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pittura Vincenzo Claps FIORALBA MAGNO i saggisti

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i saggisti FIORALBA MAGNO 13 14 15 16 17 18 «La stessa differenza che passa tra un occhio impres- sionista, che carica (…) (la) pennellata di un movimento in eccesso, quasi fosse un’azione drammatica sulla tela, e lo sguardo fermo di chi immobilizza il reale e lo giudi- ca definitivamente. Illuminato e illuminista Levi, pron- to a cogliere la deformazione per attitudine politica, e al- l’opposto solido e realistico Giocoli, religioso e categoria- le Claps». 71 19 20 21 22

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Claps

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Fioralba Magno, con questo saggio, ha vinto il Premio Speciale Liberalia nella seconda edizione del Premio Letterario “La Cittàdei Sassi”.

€ 16,00

FIORALBA MAGNO

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ps...“Scorrendo il catalogo messo a punto dalla Magno, emerge con chiarezza il percorso tracciato da Claps fra gli anni Trenta e gli anni Settanta, perseguendo una costante ricerca di rinnovamento linguistico e tematico”...

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CAPITOLO ILA PITTURA LUCANA TRA OTTOCENTO E INIZI NOVECENTO:

IL “LUOGO” COME FONTE DI ISPIRAZIONE

La pittura lucana nei suoi tratti moderni e contemporanei si deci-de in uno spazio di tempo breve. Il suo farsi autonomo, nel senso di autentico legame con l’ambiente e la società, coincide con gli anni che vanno dal 1930 circa a prima della guerra e dalla fine del conflitto ai giorni nostri.16

Durante il secolo Diciannovesimo, infatti, non si può ancora par-lare di “pittura lucana”; le condizioni politiche e sociali arretrate, il ri-tardo dello sviluppo industriale e l’affermazione di una classe piccolo-borghese con scarsi interessi culturali determinano un clima di rista-gno per ogni tipo di manifestazione artistica e inducono sovente gli ar-tisti più promettenti a lasciare la Basilicata per vivere in realtà ove sia concesso loro di confrontarsi ed emergere.17

La perenne emigrazione degli intellettuali da questa terra diviene una vera e propria “fuga” che non lascia spazio al ritorno e al ricambio culturale fino alla metà del Novecento, quando gli artisti contempora-nei decidono di fare arte «in regione per la regione».18

Per l’Ottocento e buona parte del Novecento si può parlare quindi solo di “pittori lucani” i quali scelgono spesso Napoli come terra adot-tiva, dove possono studiare grazie a borse di studio che talvolta la Pro-vincia di Potenza mette loro a disposizione.19 Pur essendo l’ambiente accademico napoletano ricco di stimoli culturali, tutti i lucani che han-no abbandonato la propria terra, dal fascino antico e misterioso, non sono riusciti a dimenticarla e, con i loro oli e le loro tele, hanno conti-nuato a raccontarla e a celebrarla.

Enorme fortuna gode nell’Ottocento insieme al ritratto, la pittura di paesaggio,20 genere guida nell’evoluzione stilistica del secolo Dician-novesimo.21 La maggior parte dei pittori si dedica a un genere di pittura

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che oscilla tra il vedutismo documentario e topografico di ascendenza vanvitelliana e un paesismo lucano informato al gusto romantico.22

Il primo sintomo di un legame degli artisti lucani con la terra d’ori-gine e con l’ambiente di provenienza è individuabile, dunque, nel-la scelta del paesaggio lucano quale oggetto di rappresentazione. La consapevolezza che anche questo paesaggio, pur se aspro, solitario, “diverso”, sia degno di essere rappresentato è il primo segno della na-scita della “pittura lucana” e l’amore da parte di questi artisti verso questa diversità è da considerarsi un atto di fede e di autentica ispi-razione.23

Verso la metà dell’Ottocento si ha un primo accenno a temi stretta-mente lucani, di carattere storico e fortemente idealizzato, ancora pri-vo di attenzione agli aspetti propriamente naturalistici della realtà re-gionale; è tuttavia l’inizio di una certa autonomia espressiva.

Michelangelo Scardaccione24 (1838-1902), nativo di Sant’Arcange-lo, dipinge in quest’epoca la celebre tela in cui la Lucania, rappresen-tata ‘neoclassicamente’, in veste di dea, riceve dall’arcangelo Gabriele la corona di alloro, mentre con la mano destra indica il busto del pa-triarca e giurista Mario Pagano da Brienza, giustiziato dai Borboni per i moti liberali del 1799; ancora un soggetto storico-mitologico, quin-di, ma in esso è già presente un primo ed evidente legame con la ter-ra d’origine.

Il primo significativo passaggio da soggetto storico a realtà vissu-ta è compiuto da Andrea Petroni25 (1863-1943) di Venosa.26 Egli ritrae non già gli splendori della Campania felice, terra d’adozione, «sibbe-ne le tristezze della Basilicata, terra feconda d’ingegni e di patrioti ma stanca di malaria e gialla di febbre, che ha il triste sorriso dei tisici, tra le spaccature delle montagne, la vegetazione selvaggia, il cielo cruccia-to ed inclemente».27

Dello stesso autore è l’opera La Basilicata, di matrice simbolista, dipinta sul soffitto dell’ex Ministero dell’Agricoltura dell’Industria e del Commercio di Roma in cui la regione è vista dall’autore come una contadina che indossa una gonna alquanto malandata, essenziale nel-la forma e nello stile e con in testa un fazzoletto bianco. Nelle mani la “pacchiana” regge dei grappoli di granturco, tipico prodotto di una ter-ra che Andrea Petroni riconosce nella sua realtà storica di terra deso-lata e ancora economicamente arretrata.28 Con la sua pittura, espres-siva ed elegante, l’artista intende rappresentare la immensa e penosa

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desolazione delle terre lucane, abbandonate dai governanti e ignorate dal resto della Penisola.29

Niente potrebbe documentare la realtà della Basilicata meglio e più efficacemente del quadro di Petroni Riposo nella Val D’Agri,30 in cui il fiume serpeggia tra monti e colline inaridite e, su questo sfondo, un uomo spezza un tozzo di pane nero, assorto nei suoi pensieri di malin-conia e miseria. In esso si coglie perfettamente tutta la sconfinata tri-stezza della vallata e tutta l’ inesorabile sterilità della terra.31

La “lucanità”, intesa come totale senso d’appartenenza a questa terra, è caratterizzata innanzitutto da uno stato di infinita rassegna-zione e pazienza, come anche dall’ aurea mediocritas e dal modus in re-bus oraziano, tipici della mansuetudine lucana, che Orazio ereditò dal padre contadino.32

Gli artisti degli anni immediatamente successivi: Michele Giocoli, Italo Squitieri, Remigio Claps33 e Vincenzo Claps34 faranno finalmente rivivere sulla scena del paesaggio nativo la quotidiana esistenza della comunità: gli uomini e i loro sentimenti, i gesti della fatica35 e della fe-sta.36 Nello stesso periodo, intorno agli anni Venti, alcuni artisti italia-ni sono di ritorno da Parigi, soggiorno obbligato per chiunque voglia arricchire il proprio linguaggio pittorico37e, dimentichi della lezione di Modì, Picasso e Braque e degli ideali di velocità e movimento esalta-ti dal Futurismo, arretrano nuovamente verso una visione idillica del paesaggio.38 È proprio su questo rientro dell’avanguardia che opera il fascismo per realizzare la propria celebrazione propagandistica a ope-ra di validi artisti. L’idillio propagandista si sostanzia nella rappresen-tazione, tra il decorativo e il folclorico, di riti contadini, mietitura, fe-ste del grano, feste dell’uva, ritratti del duce a petto scoperto e con la falce in mano.39

Mentre dilaga questo idillismo di maniera, Giocoli, Squitieri, Remi-gio e Vincenzo Claps, insieme a pochi altri, resistono al mito della raz-za e all’esteriore e retorica celebrazione della campagna e rappresenta-no, con straordinaria ricchezza narrativa, il mondo della Lucania. L’at-tenzione di questi artisti si concentra soprattutto sull’esistenza reale.

Mentre agli inizi del secolo Cézanne avvia la scomposizione degli oggetti per collocarli sul piano plastico, anticipando quanto fu poi fat-to da Picasso e Braque, che concepirono l’idea del quadro come forma oggetto, la Lucania ripiega su se stessa, come del resto l’intero Sud.40 Qui infatti la creatività si indirizzerà più verso forme conservative di

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rappresentazione, sia per una forma di fuga dalle esortazioni propa-gandistiche di regime, sia per il ruolo pressoché statico cui il Sud Italia è relegato a causa di un tessuto sociale ancora prevalentemente basa-to su strutture feudali. 41

Remigio Claps (Avigliano 1911 - Potenza 1985), pur appartenendo a una famiglia alto-borghese, risulta attento alle tematiche della cultu-ra contadina,42 mostrando un profondo attaccamento alla sua terra; lo stesso attaccamento che il padre, giurista di chiara fama, trasfuse nei suoi racconti aviglianesi.43 Nelle sue tele il paesaggio è reso in manie-ra essenziale, con una tavolozza cromatica morbida e calda nei toni, tale da suscitare un’atmosfera elegiaca e sottilmente romantica.44 Al-cuni sostengono però che, a causa delle sue origini e della sua forma-zione accademica, dominato come fu dalle visioni paesaggistiche della scuola toscana e napoletana, egli non sia riuscito a cogliere la specifici-tà geografico-storica dell’ambiente nativo.45

Soprattutto a Giocoli, Squitieri e Vincenzo Claps, formatisi in pie-no Fascismo, va il merito di aver tagliato con gli influssi di scuola na-poletana ed essersi messi in rigoroso, anche se forse inconscio, anta-gonismo rispetto all’iconografia araldica del ventennio, opponendosi al mito della razza attraverso la rappresentazione di gente e cose del-la propria terra.46

La pittura di Giocoli47 (Potenza 1904-1987), appartenente per estrazione di nascita alla media borghesia agraria, si dispone in volu-mi scarni ed essenziali con una gamma cromatica povera e passaggi di mezzi toni dal grigio al nero.48 Il suo linguaggio pittorico è autorevol-mente definito «naturalistico, debitore della pittura ottocentesca “di macchia”»49 ma con risvolti cromatici «non privi tuttavia di accensio-ni inattese».50 Negli anni Trenta abbandona la pittura di scuola napo-letana e si lega all’ambiente contadino che lo circonda51 e interessan-ti sono le sue raffigurazioni di «processioni di donne velate e le nature morte in cui predominano i gialli cadmio di girasoli maturi».52

Una Lucania di sapore arcaico è quella che propone Italo Squitieri (1907-1994), anch’egli di origini borghesi, che, nei suoi continui viag-gi, ha continuato a cantare la sua terra per le strade del mondo.53 La sua produzione gravita intorno alla natura, colta in tutte le sue espres-sioni, quale principale strumento di decodificazione del reale; i boschi, i contadini sono una costante semantica dei suoi quadri.54 L’immagine più ricorrente nelle sue opere è quella delle donne in abito tradizionale

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lucano, «avvolte nei loro scialli antichi e strette nelle gonne affusolate e lunghe, spesso recanti i colori del lutto»,55 e che, nella loro «secchez-za geometrizzante» ricordano l’esempio di Sironi.56

Vincenzo Claps (1913-1975), di modesta famiglia artigiana, volge la sua attenzione a personaggi umili, marginali, mostrando particola-re sensibilità al dramma sociale della sua gente. Egli costituisce l’ecce-zione più significativa alla tendenza tipica dei suoi contemporanei, a un’oscillazione continua tra temi e motivi della pittura di genere napo-letana e temi e motivi lucani, indirizzandosi verso una più consapevole e piena riconquista della “lucanità”. Caratterizzato da una solida e com-patta materia, da una precisa e modernissima definizione spaziale, que-sti coglie, attraverso la lezione di Felice Carena e l’influenza della cul-tura pittorica centro-italiana, gli spunti migliori della pittura degli anni Trenta, legata insieme al concetto di “ritorno all’ordine”e alla rilettura della pittura antica italiana: dalla «semplicità dei Primitivi alla spazia-lità pierfrancescana».57 Predilige un’estensione tonale del colore, una pittura velata nelle tinte e austera nell’impostazione formale.58

Alcuni tra gli artisti citati, come lo stesso Vincenzo Claps, frequen-tano Licei Artistici e Accademie di Belle Arti in importanti città italia-ne, dove apprendono stili e tecniche pittoriche da valenti maestri del-l’epoca e, nel fare ritorno alla propria terra, scoprono nell’amabile na-tura e nei costumi degli abitanti fonti insostituibili di ispirazione.59 Questi artisti sono soprattutto pittori di storia “con la minuscola”, in altri termini di “condizione”.60

Quando Carlo Levi, piemontese e gobettiano, scopre nel suo confi-no politico la Lucania, nella questione meridionale individua “la condi-zione”, ossia l’abisso di classe esistente tra questa e le altre regioni ita-liane.61 A dividere questa regione dal resto del paese non sono soltan-to mali locali come la disfunzione organizzativa o l’isolamento cultu-rale, ma una condizione oggettiva,62 che si identifica con la “questione meridionale” intesa come divario persistente tra regioni sviluppate in senso industriale e regioni ancora ferme a una economia di sussisten-za, con tutte le conseguenze che ne derivano a livello non solo econo-mico, ma anche politico, sociale e culturale.

La questione meridionale ha caratterizzato gli ultimi decenni del-l’Ottocento e i primi del Novecento ed è stata ereditata dal regime fa-scista senza che il gruppo dirigente abbia affrontato il problema in ma-niera adeguata. Se il fulcro della propaganda di regime rimane la valo-

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rizzazione delle campagne e delle zone rurali, la politica industriale ha in effetti ampliato ancor di più il divario esistente tra queste due real-tà contrapposte.63 La povertà economica e l’assurdità della vita in que-sta terra sono tali da indurre un economista agrario del tempo a defi-nirle in termini di “pazzia”:

«È tutto il centro (…) occidentale della regione (…) un territorio tormentato, desolato, di nude argille, che smot-tano, franano, vanno a mare. È il regno quasi incontrasta-to del grano e della più dura fatica contadina.(…) In queste zone, che sono tanto frequenti in tante regioni del Medi-terraneo e della Sicilia, quella che c’è non si può chiamare agricoltura, ma pazzia.(…) Ci sarebbe tutto da rifare, tutto da riordinare, perché è assurdo vivere come lì si vive, è as-surdo coltivare il grano come lo si coltiva; è assurdo tratta-re la terra come la si tratta, è assurdo tutto».64

Se la “condizione” è “condizione e basta” in Giocoli, Squitieri e Vin-cenzo Claps, essa diventa autentica “condizione contadina” in Levi.65

Nel suo confino politico nei paesi lucani di Aliano e Grassano, tra gli anni 1935 e ‘36, Levi è ispirato dai volti umani e dal paesaggio lu-cano, che traspone sulla tela in un linguaggio formale a metà strada tra Neoimpressionismo ed Espressionismo.66 Dai suoi dipinti emergo-no il dramma umano e la condizione sociale della gente del Sud, in una dimensione di denuncia verso uno Stato troppo lontano, ma anche di esaltazione dei valori umani insiti nella cultura locale.67 Quest’uomo, che il fascismo ha condannato al confino, dominerà la letteratura del secondo dopoguerra e la cultura lucana in genere, proprio mentre si scopre la funzione politica e civile dell’intellettuale e mentre più senti-ta è la necessità di misurarsi con i problemi effettivi della società e della vita, in contrapposizione a ogni forma di fuga o evasione dalla realtà.68

La classe intellettuale ha spesso considerato Levi una sorta di “anno zero” del panorama artistico locale,69 per il ruolo centrale che questi ha avuto nella cultura lucana del secondo Dopoguerra. In realtà non è corretto interpretare la continuità dei temi contadini come “levismi di ritorno” dal momento che Giocoli, Squitieri e Vincenzo Claps han-no dipinto il mondo contadino e la classe emarginata ancor prima di Levi.70 È stata inoltre autorevolmente e ulteriormente specificata la

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differenza che sussiste tra la produzione artistica dei pittori lucani e Carlo Levi:

«La stessa differenza che passa tra un occhio impres-sionista, che carica (…) (la) pennellata di un movimento in eccesso, quasi fosse un’azione drammatica sulla tela, e lo sguardo fermo di chi immobilizza il reale e lo giudi-ca definitivamente. Illuminato e illuminista Levi, pron-to a cogliere la deformazione per attitudine politica, e al-l’opposto solido e realistico Giocoli, religioso e categoria-le Claps».71

La “pittura contadina” di Levi nasce da una cultura letteraria di ori-

gine laica e risorgimentale, e questa mediazione ha certamente un ca-rattere originale e irripetibile.72

La pittura lucana, caratterizzata da un significativo e graduale pas-saggio, a partire dall’Ottocento, dalla mitologia alla “Storia” e dalla “Storia” alla “storia”, intesa quale “condizione”, si è esplicitata in una crescente attenzione al quotidiano e, proprio quando comincia a riflet-tere sulla storia come “condizione”, essa comincia ad assumere conno-tati propri, ancor prima che si esplichi il magistero di Levi, al quale an-drà poi il merito tutto particolare di aver portato la “condizione” all’at-tenzione del movimento democratico nazionale.73

Il paesaggio, il paese e il mondo contadino sono dunque i tre nuclei problematici intorno ai quali la pittura lucana in genere si è sviluppa-ta a partire dagli anni Trenta.74 La matrice comune è il realismo senti-to come legge morale e come soluzione all’impossibilità di una qualun-que evasione dalla realtà; il tema dominante è l’uomo, protagonista del grande dramma della natura; uomo e natura che diventano quindi gra-dualmente soggetti attivi della storia sociale del Mezzogiorno.75 A tali riferimenti contenutistici corrispondono scelte artistiche diverse sot-to l’influenza della scuola napoletana prima e del Neorealismo poi.76

Quest’ultimo movimento, in particolare, si sviluppa soprattutto negli anni Quaranta e Cinquanta , in concomitanza con la resistenza al nazi-fascismo e con la lotta partigiana. «Il fervido clima culturale lu-cano del secondo dopoguerra vede infatti l’esordio di numerosi artisti sensibili agli ideali democratici e antifascisti e partecipi del linguaggio neorealista».77 Si sviluppa pertanto la concezione secondo cui gli intel-

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lettuali devono assumersi delle responsabilità storiche e farsi portavo-ce dei bisogni del popolo.

Si forma in questi anni nella regione un nucleo di artisti, poeti e uomini di cultura uniti dall’attenzione alle problematiche sociali del-la terra lucana e del Mezzogiorno in genere.78 Nonostante questi ap-partengano spesso a famiglie benestanti o talvolta di prestigiosi pro-fessionisti, volgono la propria attenzione a personaggi umili e, fin dal-le prime esperienze, testimoniano un forte legame a una terra e a una “condizione”.

La terra, nel nostro caso, è una Lucania non più arcaica, ma non an-cora moderna, lacerata da profonde contraddizioni e oppressa da per-sistenti squilibri; la Lucania «dura e amara dei paesi addormentati, del-le campagne deserte, dell’emigrazione e del sottosviluppo».79 Tuttavia non si tratta più del mondo immobile, precedente alla fine della guerra e descritto nel Cristo si è fermato ad Eboli, ma di quel mondo contadino che nella sua prima fase di liberazione viene definito da Rocco Scotella-ro, che di quel mondo fu poeta e vate, come “l’uva puttanella”; sterile, ma dolce abbastanza per servire con l’altra uva a formare il mosto.80

Il Mezzogiorno appare infatti estremamente cambiato, prende fi-nalmente coscienza di sé e, attraverso il movimento contadino, si ve-ste di un valore rivoluzionario, capace di fondare una nuova cultura che trova finalmente espressione nella lingua ufficiale dell’arte.81 Sco-tellaro riconosce che «è fatto giorno, siamo entrati in gioco anche noi, con i panni, le scarpe, le facce che avevamo». 82

Levi, a questo proposito, ricorda una pagina significativa della biografia del bandito Carmine Crocco, da questi dettata negli anni di prigionia. Crocco, camminando nelle sale del palazzo del princi-pe Colonna, si ferma dinanzi a una grande tela raffigurante il princi-pe in battaglia e riflette su ciò che differenzia il principe condottie-ro da sé e dai propri seguaci affermando che, mentre il principe era stato ricordato e dipinto, nessuno invece avrebbe mai ricordato e ce-lebrato le sue gesta, 83 perché gesta di “povera plebaglia”.84 Il bandi-to della terra contadina è pienamente consapevole che l’arte, al pari di ogni mezzo di trasmissione e celebrazione della memoria storica, è in mano ai potenti.

Levi sostiene che la “povera plebaglia” ha finalmente trovato una propria forma di espressione nella lotta politica e nella presa di co-scienza di se stessa non più come classe sottomessa, ma come classe

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che rivendica la propria autonomia e, insieme, l’arte dei “propri auto-ri”. I nuovi artisti interpretano i valori del popolo perché con questo si identificano e, come Levi stesso afferma, «non solo vanno verso il po-polo, ma sono (essi stessi) il popolo».85

In questo contesto esordiscono Maria Padula86, Mauro Masi87, Francesco Ranaldi88, Giuseppe Antonello Leone89 e si formano artisti più giovani come Rocco Falciano,90 Luigi Guerricchio,91 Gerardo Corra-do92 e Antonio Masini.93

Molti di essi sono tra i protagonisti negli anni Cinquanta dell’emi-grazione intellettuale lucana verso le più grandi città d’Italia.94 Han-no tutti in comune una matrice realistica di partenza, che si estrinse-ca però in modalità differenti. Questa diversificazione iconica ricalca il diversificarsi delle esperienze individuali degli artisti in questione, fino a giungere, per alcuni di essi, ai confini dell’onirico e del visionario come ultima forma di sopravvivenza e di denuncia.95 Questi artisti, po-nendo la propria attenzione sulla nuova problematica dello scontro tra società agro-pastorale e società industriale, testimoniano la graduale inevitabile scomparsa-sconfitta del mondo contadino a opera della ci-viltà industriale.

Nel 1957, presso la Galleria del Ponte a Napoli, viene organizza-ta la mostra Pittori lucani che, pur mettendo a confronto artisti di va-rie generazioni, giunge a evidenziare un ideale filo di continuità che lega questi tra loro e che deriva dal comune senso di appartenenza alla propria terra.96 È inutile infatti cercare nell’arte lucana correnti, movi-menti o scuole; la storia di questa va ricostruita osservando il rappor-to di ciascun artista col proprio ambiente e la propria società di appar-tenenza.97

Una tradizione pittorica lucana o una scuola pittorica in senso pro-prio non è storicamente rintracciabile,98 tuttavia, molti tra i numero-si pittori lucani possono essere considerati partecipi di una concezio-ne unitaria data dalla comune fonte di ispirazione. La pittura nasce in questo caso particolare, più che in ogni altro, da fatti sociali e culturali, da una matrice morale e culturale più che estetica.

Questa forma di affermazione della propria autonomia antropolo-gica ed esistenziale non ha escluso, tuttavia, la possibilità di un con-tatto fra l’arte lucana e la moderna cultura figurativa nel mondo,99 seb-bene sia da sottolineare il ritardo con il quale sono giunte le novità in questa terra.

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Se il realismo sociale di Guttuso, Migneco e Sassu, di fine anni Tren-ta, è giunto in Lucania solo un ventennio più tardi, lo stesso è da osser-varsi riguardo alla pittura Informale che, sviluppatasi altrove nell’im-mediato dopoguerra con, fra gli altri, Burri, Fontana e Capogrossi, in Lucania è praticata solo a partire dagli anni Settanta.100

Nel 1980 gli artisti Nino Tricarico e Gerardo Corrado si fanno pro-motori e curatori del primo rilevante tentativo di storicizzazione del-l’arte lucana, proponendo, presso la fondazione Corrente di Milano, la mostra Cinquant’anni di pittura in Basilicata, in cui sono esposte opere di Vincenzo e Remigio Claps, Gerardo Corrado, Rocco Falciano, Miche-le Giocoli, Luigi Guerricchio e Mauro Masi.101 Il significato dell’evento è quello di attirare l’attenzione verso questa regione, così duramente col-pita dal terremoto del 1980 e di contribuire a ricordare che in questa terra esiste tutto un patrimonio culturale da preservare e da salvare.102

Levi, in una lettera del Maggio 1957 utilizzata come introduzione al catalogo della succitata mostra napoletana alla galleria Del Ponte, evidenziando ciò che accomuna le opere di tutti i partecipanti, scrive:

“Si può sperare di trovare (…) qualcosa di comune tra i pittori di questa terra e non soltanto il fatto che essi vi siano nati o vissuti. (…) Se (…) un qualche modo profon-do dell’espressione, malgrado le differenze di formazione, di esperienza, valore, stile, potesse scoprirsi comune, al-meno ad alcuni di questi artisti, se cioè il rapporto di que-sti pittori con la loro terra si ritrovasse essere un rappor-to reale, legato alla sua storia e alla sua esistenza, ciò cre-do sarebbe cosa di non priva importanza”. 103

Le considerazioni finora svolte permettono pertanto di affermare che nel legame indissolubile che unisce gli artisti lucani alla propria terra, legame da più parti riconosciuto e apprezzato, risiede ciò che di quest’arte rappresenta un fondamentale elemento di originalità e uni-cità.

La pittura lucana è solo al principio di un «viaggio intorno a se stessa e al mondo, ma finora non ha mai alienato la sua umanità d’ori-gine, il paese che si porta dentro».104

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TAVOLA N. 1

La maschera di Beethoven

Databile al 1932olio su tela, cm 45 x 49,5. Potenza, collezione privata Carmela Claps.Iscrizione a pennello-corsivo, in basso a destra: V. Claps. Bibliografia specifica: Pittori lucani, 2002, p. 67, fig. p. 74; scheda OA Soprintendenza per i beni artistici e storici della Basilicata, Ma-tera. Mostre: Retrospettiva del pittore Vincenzo Claps, Potenza,1976.Pittori lucani dell’800 e dei primi del ‘900, Potenza, 2002.Pittori lucani dell’800 e dei primi del ‘900, Torino, 2002.

Il dipinto, di impronta simbolista, è un’originale composizione raf-figurante libri, strumenti musicali, una collana tradizionale e la ma-schera di Beethoven in primo piano. Gli oggetti simboleggiano l’inte-resse dell’artista per la musica e il suo legame con la terra d’apparte-nenza. Quest’opera giovanile di Claps appare ancora molto legata alla lezione pittorica appresa in Accademia.

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TAVOLA N. 2

Manzolillo (il ragazzo della forgia)

1933olio su tela, cm 116 x 86,5.Firmato e datato.Potenza, Museo Provinciale.Iscrizione a pennello-corsivo, in basso a destra: V. Claps /1933.Bibliografia specifica: Pittori lucani, 2002, p. 67, fig. p. 71; scheda OA Soprintendenza per i beni artistici e storici della Basilicata, Ma-tera. Mostre: Retrospettiva del pittore Vincenzo Claps, Potenza, 1976.Pittori lucani dell’800 e dei primi del ‘900, Potenza, 2002.Pittori lucani dell’800 e dei primi del ‘900, Torino, 2002.

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Il dipinto, intriso di forte realismo, raffigura un giovane minora-to psichico assunto dal padre dell’artista come garzone di bottega. Fu realizzato nel periodo in cui Claps studiava a Firenze, durante uno dei soggiorni aviglianesi dell’artista.

L’opera, premiata nel 1933 a Firenze con medaglia d’argento al concorso di pittura Hollaender, risente della spazialità e dell’eviden-za plastica tipica della corrente Novecento, della ritrattistica classica e delle istanze della pittura dei Primitivi. Il dipinto è allo stesso tem-po anticipatore delle tematiche sociali, nel soggetto “provocatorio” che raffigura.

Il discreto stato di conservazione dell’opera rese inevitabile un re-stauro negli anni novanta del Novecento, che fu curato da Emanuele Taddonio e consisté in una pulitura della materia pittorica con solu-zione di ammoniaca, alcool, petrolio, e una stesura finale di vernice. L’opera è provvisoriamente conservata nel Museo Provinciale di Po-tenza dopo essere stata per diversi anni esposta in una sala del Consi-glio Provinciale di Potenza, in piazza Mario Pagano, 1.

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TAVOLA N. 3

Natura morta 1936 olio su tela, cm 36,5 x 49.Potenza, collezione privata Carmela ClapsIscrizione a pennello-corsivo, in basso a destra: V. Claps.Mostre: Retrospettiva del pittore Vincenzo Claps, Potenza, 1976.Inedito.

L’opera raffigura una composizione formata da frutta, ceramiche e gioielli tradizionali, probabilmente legati al lavoro artigianale dei Claps.

In particolare, la collana tipica è bianca, come in altre nature morte che precedono la scomparsa della sorella dell’artista.