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LA PESTE NELLA LETTERATURA

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LA PESTE NELLA

LETTERATURA

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La peste nella letteratura – I introduzione

I introduzione

La piaga della peste ha costantemente accompagnato la vita dell’uomo tanto da esserne diventata un topos letterario oltre che storico. La sua storia è iniziata con i primi testi scritti che sono giunti fino a noi ed è finita non molto tempo fa con la scoperta del batterio responsabile di queste grandi epidemie che sconvolsero il mondo intero, la Yersinia Pestis, trasmessa da un microparassita, spesso la pulce (xenopsylla cheopis), che con il morso, gli escrementi o le uova infetta il topo nero (rattus rattus, che è diverso dal topo comune).

Tuttavia la paura di morbi incontrollabili, quali l’AIDS, permane come causa d’angoscia nel lato oscuro dell’animo di tutti gli uomini, che, di fronte a ciò che non possono dominare, si sentono impotenti rischiando di cadere in uno stato di inquietudine da cui riesce loro difficile uscire. Questa sua continua presenza ha fatto sì che gli uomini imparassero a conviverci e difendersi. Ma per la sua gravità e rapida diffusione ha lasciato ben poche armi a chi ha tentato di opporsi per combatterla. Per questo motivo sono molte le pagine che sono state dedicate alla peste, con i più svariati intenti: in alcuni autori essa viene descritta come un fenomeno soprannaturale causato dall’ira di un dio, in altri le viene dato spazio per cercare di evitare contagi futuri riconoscendo in anticipo i suoi sintomi, in altri ancora è messo in luce l’imbarbarimento dei costumi e degli uomini che lascia dietro la sua scia di morte. Morbo cronico, implacabilmente ricorrente tanto da condizionare i comportamenti sociali ed economici dell’Europa per almeno tre millenni, la peste - questo “grande personaggio della storia di ieri”, come la definisce sinteticamente Bennassar - ha provocato uno stato di ansia e di paura così uniformemente radicato e diffuso da creare una sorta di rappresentazione mentale universale del flagello, uno stile unitario e ripetitivo che dalla Bibbia, da Tucidide e da Tacito si prolunga fino a Defoe, Manzoni e Camus. Nasce così una “letteratura della peste” sganciata dalla contingenza dell’esperienza individuale o storica e risolta in un nucleo ristretto di topoi rappresentativi destinati a ripresentarsi ogni volta che il cupo delirio del contagio rende incerti i rapporti umani e frantuma la scansione rassicurante dell’agire quotidiano.

In questa tesina voglio cercare di esaminare in una piccola antologia i principali passi della letteratura occidentale che narrano la terribile esperienza della peste. Sarà interessante vedere come cambiano le interpretazioni dei protagonisti che hanno vissuto in prima persona questa tragedia a seconda delle epoche storiche e dei conforti religiosi di cui hanno più o meno goduto. Da questo punto di vista si rivelerà importante la differenza tra autori laici e credenti, cristiani e musulmani, filosofi e artisti.

Marco Frego IIIb

Bolzano, 28 maggio 2004

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La peste nella letteratura – II Omero: la punizione divina

II Omero: la punizione divina

Nel mondo antico la peste era tristemente famosa, la incontriamo infatti nei primi versi della poesia occidentale, nel Proemio dell’Iliade. Ancora non ha un nome proprio, ma quello generico di “morbo maligno” – nouªsoj kakh/. Ciò si spiega perché non era ancora considerata come una malattia causata da batteri in seguito a scarsa igiene e infezioni, bensì era opera di un dio: la divinità era adirata con gli uomini e la peste era la manifestazione del suo xo/loj < xolo/w, collera subitanea.

Poiché essa non ha una sua autonomia, Omero non ne descrive i sintomi con l’attenzione che potrebbe avervi prestato un medico, invece fornisce una spiegazione religiosa: è la punizione di Febo Apollo nei confronti di Agamennone. L’Atride aveva infatti respinto con aspre parole il suo ministro di voti (a)rhth/r). Comincia dunque la descrizione delle molte morti nel campo acheo. Dapprima il racconto è lontano e distaccato, “destò fra l’esercito un morbo maligno, e i guerrieri morivano”, poi diventa più dettagliato, secondo lo stile epico del catalogo dalle dimensioni dilatate. Apollo scende dall’Olimpo con l’arco e la faretra: il “suono acuto a ogni passo”, le “frecce che cozzano”, la similitudine con la notte al verso 47, sono elementi prolettici dell’imminente arrivo della peste. I primi a morire sono i muli e i cani, poi Apollo scaglia i suoi dardi sull’uomo e “ i roghi ardevano sempre in gran numero”. La rapidità con cui la peste porta alla morte viene simboleggiata molto efficacemente con l’immagine delle frecce.

Tuttavia non bisogna vedere la calata di Apollo come un esempio di giustizia divina per punire lo sgarbo di Agamennone verso Calcante quanto come un intervento mosso da mero rancore (ko/toj) personale di un dio invasato nel sacerdote. Si può dire che la pestilenza è una vendetta privata di Febo Apollo, che innesca tutte le azioni narrate nell’Iliade. Dopo questa spiegazione è chiaro che i protagonisti del poema non cerchino come rimedio delle medicine quanto propongano un voto o un’ecatombe (v.65).

mh=nin a)/eide qea\ Phlhi+a/dew )Axilh=oj ou)lome/nhn, h(\ muri/' )Axaioi=j a)/lge' e)/qhke, polla\j d' i)fqi/mouj yuxa\j )/Ai+di proi/+ayen h(rw/wn, au)tou\j de\ e(lw/ria teu=xe ku/nessin oi)wnoi=si/ te pa=si+, Dio\j d' e)telei/eto boulh/, e)c ou(= dh\ ta\ prw=ta diasth/thn e)ri/sante )Atrei/+dhj te a)/nac a)ndrw=n kai\ di=oj )Axilleu/j. ti/j t' a)/r sfwe qew=n e)/ridi cune/hke ma/xesqai; Lhtou=j kai\ Dio\j ui(o/j: o(\ ga\r basilh=i+ xolwqei\j nou=son a)na\ strato\n o)/rse kakh/n, o)le/konto de\ laoi/, ou(/neka to\n Xru/shn+ h)ti/masen a)rhth=ra )Atrei/+dhj: o(\ ga\r h)=lqe+ qoa\j+ e)pi\++ nh=aj+ )Axaiw=n+ luso/meno/j+ te qu/gatra+ fe/rwn+ t' a)perei/si' a)/poina+, ste/mmat' e)/xwn e)n xersi\n e(khbo/lou )Apo/llwnoj xruse/w? a)na\ skh/ptrw?, kai\ li/sseto pa/ntaj )Axaiou/j, )Atrei/+da de\ ma/lista du/w, kosmh/tore law=n: )Atrei/+dai te kai\ a)/lloi e)u+knh/midej )Axaioi/, u(mi=n me\n qeoi\+ doi=en )Olu/mpia dw/mat' e)/xontej e)kpe/rsai Pria/moio po/lin, eu)= d' oi)/kad' i(ke/sqai: pai=da d' e)moi\++ lu/saite fi/lhn, ta\ d' a)/poina de/xesqai,

Cantami, o Diva, del Pelìde Achille l'ira funesta che infiniti addusse lutti agli Achei, molte anzitempo all'Orco generose travolse alme d'eroi, e di cani e d'augelli orrido pasto lor salme abbandonò (così di Giove l'alto consiglio s'adempìa), da quando primamente disgiunse aspra contesa il re de' prodi Atride e il divo Achille. E qual de' numi inimicolli? Il figlio di Latona e di Giove. Irato al Sire destò quel Dio nel campo un feral morbo, e la gente perìa: colpa d'Atride che fece a Crise sacerdote oltraggio. Degli Achivi era Crise alle veloci prore venuto a riscattar la figlia con molto prezzo. In man le bende avea, e l'aureo scettro dell'arciero Apollo: e agli Achei tutti supplicando, e in prima ai due supremi condottieri Atridi: O Atridi, ei disse, o coturnati Achei,

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La peste nella letteratura – II Omero: la punizione divina

a(zo/menoi Dio\j ui(o\n e(khbo/lon )Apo/llwna. e)/nq' a)/lloi me\n pa/ntej e)peufh/mhsan )Axaioi\ ai)dei=sqai/ q' i(erh=a kai\ a)glaa\ de/xqai a)/poina: a)ll' ou)k )Atrei/+dh? )Agame/mnoni h(/ndane qumw=?, a)lla\+ kakw=j a)fi/ei, kratero\n d' e)pi\ mu=qon e)/telle: mh/ se ge/ron koi/lh?sin e)gw\+ para\ nhusi\ kixei/w+ h)\ nu=n dhqu/nont' h)\ u(/steron au)=tij+ i)o/nta, mh/ nu/ toi ou) xrai/smh? skh=ptron kai\ ste/mma qeoi=o: th\n d' e)gw\ ou) lu/sw: pri/n min kai\ gh=raj e)/peisin h(mete/rw? e)ni\ oi)/kw? e)n )/Argei+ thlo/qi pa/trhj i(sto\n+ e)poixome/nhn kai\ e)mo\n le/xoj a)ntio/wsan: a)ll' i)/qi mh/ m' e)re/qize saw/teroj w(/j ke ne/hai. w(\j e)/fat', e)/deisen d' o(\ ge/rwn kai\ e)pei/qeto mu/qw?+: bh= d' a)ke/wn para\ qi=na polufloi/sboio qala/sshj: polla\ d' e)/peit' a)pa/neuqe kiw\n h)ra=q' o(\ geraio\j )Apo/llwni a)/nakti, to\n h)u/+komoj te/ke Lhtw/: klu=qi/ meu a)rguro/toc'+, o(\j Xru/shn a)mfibe/bhkaj Ki/lla/n te zaqe/hn+ Tene/doio/+ te i)=fi+ a)na/sseij++, Sminqeu=+ ei)/ pote/+ toi xari/ent' e)pi\ nho\n e)/reya, h)\ ei) dh/ pote/ toi kata\ pi/ona mhri/' e)/kha tau/rwn h)d' ai)gw=n, to\ de/ moi krh/hnon e)e/ldwr: ti/seian Danaoi\ e)ma\ da/krua soi=si be/lessin. w(\j e)/fat' eu)xo/menoj, tou= d' e)/klue Foi=boj )Apo/llwn, bh= de\ kat' Ou)lu/mpoio karh/nwn xwo/menoj kh=r, to/c' w)/moisin e)/xwn a)mfhrefe/a te fare/trhn: e)/klagcan d' a)/r' o)i+stoi\ e)p' w)/mwn xwome/noio, au)tou=+ kinhqe/ntoj: o(\ d' h)/i+e nukti\ e)oikw/j. e(/zet' e)/peit' a)pa/neuqe new=n, meta\ d' i)o\n e(/hke: deinh\ de\ klaggh\ ge/net'+ a)rgure/oio bioi=o: ou)rh=aj me\n prw=ton e)pw/?xeto kai\ ku/naj a)rgou/j, au)ta\r e)/peit' au)toi=si be/loj e)xepeuke\j e)fiei\j ba/ll': ai)ei\ de\ purai\ neku/wn kai/onto qameiai/. e)nnh=mar me\n a)na\ strato\n w)/?xeto kh=la qeoi=o+, th=? deka/th? d' a)gorh\n de\ kale/ssato lao\n )Axilleu/j: tw=? ga\r e)pi\ fresi\++ qh=ke+ qea\ leukw/lenoj (/Hrh+: kh/deto ga\r Danaw=n, o(/ti r(a qnh/skontaj o(ra=to. oi(\ d' e)pei\+ ou)=n h)/gerqen o(mhgere/ej te ge/nonto, toi=si d' a)nista/menoj mete/fh po/daj w)ku\j )Axilleu/j: )Atrei/+dh nu=n a)/mme palimplagxqe/ntaj o)i/+w a)\y a)ponosth/sein, ei)/ ken qa/nato/n ge fu/goimen, ei) dh\ o(mou= po/lemo/j te dama=? kai\ loimo\j )Axaiou/j: a)ll' a)/ge dh/ tina ma/ntin e)rei/omen h)\ i(erh=a h)\ kai\ o)neiropo/lon, kai\ ga/r t' o)/nar e)k Dio/j e)stin+, o(/j k' ei)/poi o(/ ti to/sson e)xw/sato Foi=boj )Apo/llwn, ei)/t' a)/r' o(/ g' eu)xwlh=j e)pime/mfetai h)d' e(kato/mbhj, ai)/ ke/n pwj a)rnw=n kni/shj ai)gw=n te telei/wn bou/letai a)ntia/saj h(mi=n a)po\ loigo\n a)mu=nai.

gl'immortali del cielo abitatori concedanvi espugnar la Prïameia cittade, e salvi al patrio suol tornarvi. Deh mi sciogliete la diletta figlia, ricevetene il prezzo, e il saettante figlio di Giove rispettate. - Al prego tutti acclamâr: doversi il sacerdote riverire, e accettar le ricche offerte. Ma la proposta al cor d'Agamennóne non talentando, in guise aspre il superbo accommiatollo, e minaccioso aggiunse: Vecchio, non far che presso a queste navi ned or né poscia più ti colga io mai; ché forse nulla ti varrà lo scettro né l'infula del Dio. Franca non fia costei, se lungi dalla patria, in Argo, nella nostra magion pria non la sfiori vecchiezza, all'opra delle spole intenta, e a parte assunta del regal mio letto. Or va, né m'irritar, se salvo ir brami. Impaurissi il vecchio, ed al comando obbedì. Taciturno incamminossi del risonante mar lungo la riva; e in disparte venuto, al santo Apollo di Latona figliuol, fe' questo prego: Dio dall'arco d'argento, o tu che Crisa proteggi e l'alma Cilla, e sei di Tènedo possente imperador, Smintèo, deh m'odi. Se di serti devoti unqua il leggiadro tuo delubro adornai, se di giovenchi e di caprette io t'arsi i fianchi opimi, questo voto m'adempi; il pianto mio paghino i Greci per le tue saette. Sì disse orando. L'udì Febo, e scese dalle cime d'Olimpo in gran disdegno coll'arco su le spalle, e la faretra tutta chiusa. Mettean le frecce orrendo su gli omeri all'irato un tintinnìo al mutar de' gran passi; ed ei simìle a fosca notte giù venìa. Piantossi delle navi al cospetto: indi uno strale liberò dalla corda, ed un ronzìo terribile mandò l'arco d'argento. Prima i giumenti e i presti veltri assalse, poi le schiere a ferir prese, vibrando le mortifere punte; onde per tutto degli esanimi corpi ardean le pire.

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La peste nella letteratura – III Sofocle: il rapporto tra sovrano e regno

III Sofocle: il rapporto tra sovrano e regno

Un secondo esempio di peste voluta dalla divinità è quello dell’Edipo re di Sofocle. La tragedia si apre sulla città di Tebe afflitta da sterilità e pestilenza. I cittadini si rivolgono allora al loro tu/rannoj Edipo affinchè, già vincitore della Sfinge, salvi un’altra volta la città dalla distruzione. Ecco che di nuovo a rendere conto del mi/asma che ha colpito la città viene chiamato Apollo, il quale parla per bocca dell’indovino Tiresia. La peste è stata scatenata dalla presenza, all’interno delle mura della città, dell’assassino del sovrano predecessore di Edipo, Laio. In verità questo empio è proprio il figlio di Laio e cioè Edipo stesso. E’ la terribile rivelazione del reticente indovino a costituire, come già aveva riconosciuto Aristotele, il momento più alto che l’arte tragica abbia raggiunto. Dopo questo riconoscimento (a)nagnw/risij) si comprende il tema del “doppio” che accompagna il personaggio di Edipo: egli veste contemporaneamente i panni di inquisitore e inquisito, di salvatore e distruttore. Sono numerose qui le analogie più con la peste narrata nel primo libro dell’Iliade che quelle con la peste di Atene del 430 a.C. . Si possono notare somiglianze tra i due sovrani Agamennone e Edipo, ma soprattutto tra il ruolo che giocano i due indovini: da una parte Calcante, dall’altra Tiresia , entrambi sacerdoti di Apollo. Inoltre sono i due sovrani ad aver compiuto l’azione empia che ha causato l’epidemia e nessuno dei due se ne avvede. I loro crimini sono tra i più gravi del mondo greco, il tradimento dell’ospitalità nei confronti di Crise e il parricidio da parte dell’ignaro Edipo. Sono i due vati che sciolgono il mistero rivelando la verità del dio: nel caso di Edipo la cecità sarà prolettica del suo accecamento all’epilogo della tragedia. Ma a causa della loro cecità i due sovrani si adirano e insultano gli indovini (“profeta di sventure, parli sempre contro di me; sei il peggiore degli scellerati”, v.335).

La morale comune ai due episodi è quella del dio misura di tutte le cose. La simbologia edipica dell’epidemia ha valenza anche nell’immaginario greco: la fecondità della terra è legata all’integrità morale e fisica del proprio sovrano e viceversa, quando il sovrano si ammalava o si macchiava di un’impurità, l’intera città si isteriliva, la terra diveniva arida e la peste (loimo/j) si abbatteva sulla società. “Il paese è sconvolto da un’immane tempesta e non riesce più a sollevare il capo dalla profonda bufera di sangue: languono i bocciuoli fruttiferi della terra, si spengono gli armenti dei buoi al pascolo, muoiono i figli nel grembo delle madri. Il dio che porta la febbre, la terribile peste, lo colpisce e lo tormenta, questo paese, vuotando le case; e l’Ade, dimora dei morti, si arricchisce di gemiti e lamenti”, vv.20-30.

Unica soluzione era allora l’eliminazione del re o in alternativa di un farmako/j, un sostituto umano (volontario o un prigioniero) o un animale, come capro espiatorio, che prendeva su di sé tutte le impurità del sovrano. Il topos della colpa del singolo che scatena una punizione divina lo possiamo riscontrare anche in Esiodo, “Opere e Giorni” (vv.240-245, 260-262):

“poll£ki kaˆ xÚmpasa pÒlij kakoà ¢ndrÕj ¢phÚra, Óstij ¢litra…nV kaˆ ¢t£sqala mhcan£atai. to‹sin d' oÙranÒqen mšg' ™p»gage pÁma Kron…wn, limÕn Ðmoà kaˆ loimÒn, ¢pofqinÚqousi d� lao…: [oÙd� guna‹kej t…ktousin, minÚqousi d� o�koi” – Spesso anche un’intera città si trova a soffrire per un solo cattivo, per loro il figlio di Crono manda dal cielo un grande castigo, fame e insieme peste, le genti periscono, le donne non partoriscono più.

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La peste nella letteratura – III Sofocle: il rapporto tra sovrano e regno

Anche qui si nota la compresenza di peste e sterilità femminile. Anche in Erodoto il motivo del delitto famigliare compiuto da chi è al potere ha ripercussioni su tutta la comunità colpita da sterilità. In Sofocle inoltre compaiono anche termini mutuati dalla terminologia medica di Ippocrate, come no/soj < nose/w, iÃasij, guarigione.

Oi)di/pouj ÈDIPO:

w)= te/kna, Ka/dmou tou= pa/lai ne/a trofh/, O nuova stirpe del vetusto Cadmo,

ti/naj poq' e(/draj ta/sde moi qoa/zete figli, perché, venuti alle mie soglie,

i(kthri/oij kla/doisin e)cestemme/noi; tendete i rami supplici? D'incensi,

po/lij d' o(mou= me\n qumiama/twn ge/mei, di peani, di pianti, è piena tutta

o(mou= de\ paia/nwn te kai\ stenagma/twn: la città. Figli, non mi parve bene

a(gw\ dikaiw=n mh\ par' a)gge/lwn, te/kna, chieder notizie a messaggeri: io stesso

a)/llwn a)kou/ein au)to\j w(=d' e)lh/luqa, son qui venuto: Èdipo: il nome mio

o( pa=si kleino\j Oi)di/pouj kalou/menoj. è chiaro a tutti. - O vecchio, ora tu dimmi,

a)ll' w)= geraie/, fra/z', e)pei\ pre/pwn e)/fuj ché degno sei di favellar tu primo,

pro\ tw=nde fwnei=n, ti/ni tro/pw? kaqe/state, perché veniste? Per pregare? O quale

dei/santej h)\ ste/rcantej; w(j qe/lontoj a)\n terror vi spinse? Ad ogni modo io voglio

e)mou= prosarkei=n pa=n: dusa/lghtoj ga\r a)\n darvi soccorso: se di tante preci

ei)/hn toia/nde mh\ ou) katoikti/rwn e(/dran. non sentissi pietà, non avrei cuore!

(Iereu/j SACERDOTE:

a)ll' w)= kratu/nwn Oi)di/pouj xw/raj e)mh=j, O tu che reggi la mia terra, Èdipo,

o(ra=?j me\n h(ma=j h(li/koi prosh/meqa vedici innanzi all'are tue prostrati,

bwmoi=si toi=j soi=j: oi( me\n ou)de/pw makra\n supplici d'ogni età: questi, che poco

pte/sqai sqe/nontej, oi( de\ su\n gh/ra? barei=j, stendono ancora il volo; e questi, gravi

i(erh=j, e)gw\ me\n Zhno/j, oi(/de t' h)?qe/wn per età, sacerdoti, ed io di Giove;

lektoi/: to\ d' a)/llo fu=lon e)cestemme/non e questi, eletti dai fiorenti giovani.

a)gorai=si qakei= pro/j te Palla/doj diploi=j E per le piazze, tutta l'altra turba,

naoi=j, e)p' )Ismhnou= te mantei/a? spodw=?. tendendo rami, innanzi al tempio duplice

po/lij ga/r, w(/sper kau)to\j ei)sora=?j, a)/gan di Pàllade si prostra, ed alla cenere

h)/dh saleu/ei ka)nakoufi/sai ka/ra fatidica d'Apollo. La città,

buqw=n e)/t' ou)x oi(/a te foini/ou sa/lou, come tu stesso ben lo vedi, troppo

fqi/nousa me\n ka/lucin e)gka/rpoij xqono/j, è già sbattuta dai marosi, e il capo

fqi/nousa d' a)ge/laij bouno/moij to/koisi/ te piú non riesce a sollevar dal baratro

a)go/noij gunaikw=n: e)n d' o( purfo/roj qeo\j del sanguinoso turbine: distrutti

skh/yaj e)lau/nei, loimo\j e)/xqistoj, po/lin, i frutti della terra ancor nei calici:

u(f' ou(= kenou=tai dw=ma Kadmei=on, me/laj d' distrutti i bovi delle mandrie, e i parti

(/Aidhj stenagmoi=j kai\ go/oij plouti/zetai. delle donne, che a luce piú non giungono:

qeoi=si me/n nun ou)k i)sou/meno/n j' e)gw\ e il dio che fuoco vibra, l'infestissima

ou)d' oi(/de pai=dej e(zo/mesq' e)fe/stioi, peste, su Tebe incombe, e la tormenta,

a)ndrw=n de\ prw=ton e)/n te sumforai=j bi/ou e dei Cadmèi vuote le case rende:

kri/nontej e)/n te daimo/nwn sunallagai=j: sí ch'Ade negro, d'ululi e di pianti

o(/j g' e)ce/lusaj a)/stu Kadmei=on molw\n opulento diviene. Ora io, con questi

sklhra=j a)oidou= dasmo\n o(\n parei/xomen, figli, dinanzi all'are tue venimmo,

kai\ tau=q' u(f' h(mw=n ou)de\n e)ceidw\j ple/on non reputando te pari ai Celesti,

ou)d' e)kdidaxqei/j, a)lla\ prosqh/kh? qeou= ma fra gli uomini il primo a cui s'accorra

le/gei nomi/zei q' h(mi\n o)rqw=sai bi/on: nel varïar delle vicende umane,

nu=n t', w)= kra/tiston pa=sin Oi)di/pou ka/ra, o quando muti nostra sorte un dèmone:

i(keteu/ome/n se pa/ntej oi(/de pro/stropoi ché tu, giungendo alla città di Tebe,

a)lkh/n tin' eu(rei=n h(mi/n, ei)/te tou qew=n il tributo sciogliesti imposto a noi

fh/mhn a)kou/saj ei)/t' a)p' a)ndro\j oi)=sqa/ tou: dalla feroce cantatrice; e questo

w(j toi=sin e)mpei/roisi kai\ ta\j cumfora\j senza nulla da noi prima sapere

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La peste nella letteratura – III Sofocle: il rapporto tra sovrano e regno

zw/saj o(rw= ma/lista tw=n bouleuma/twn. né avere appreso: con l'aiuto solo

i)/q', w)= brotw=n a)/rist', a)no/rqwson po/lin, d'un dio, com'è fra noi fama e credenza,

i)/q', eu)labh/qhq': w(j se\ nu=n me\n h(/de gh= redenta hai nostra vita. Or, tutti vòlti,

swth=ra klh/?zei th=j pa/roj proqumi/aj: Èdipo, a te, che sommo sei nell'animo

a)rxh=j de\ th=j sh=j mhdamw=j memnw/meqa di tutti, or ti preghiamo: per noi trova

sta/ntej t' e)j o)rqo\n kai\ peso/ntej u(/steron. qualche soccorso: o sia che ti favelli

a)ll' a)sfalei/a? th/nd' a)no/rqwson po/lin: l'oracolo d'un Nume, o che t'illumini

o)/rniqi ga\r kai\ th\n to/t' ai)si/w? tu/xhn qualche mortale: poi che veggo a bene

pare/sxej h(mi=n, kai\ tanu=n i)/soj genou=. riuscire, a chi sa, fin le sciagure,

w(j ei)/per a)/rceij th=sde gh=j, w(/sper kratei=j, grazie ai consigli. Or via, sommo fra gli uomini,

cu\n a)ndra/sin ka/llion h)\ kenh=j kratei=n: rimetti in piedi Tebe! A lei provvedi!

w(j ou)de/n e)stin ou)/te pu/rgoj ou)/te nau=j Già per l'antico beneficio, questa

e)/rhmoj a)ndrw=n mh\ cunoikou/ntwn e)/sw. terra te chiama salvator: provvedi

tu, che del regno tuo fra noi non resti

Oi)di/pouj questa memoria: che ci alzammo, e poi

w)= pai=dej oi)ktroi/, gnwta\ kou)k a)/gnwta/ moi giú di nuovo piombammo: in piedi salda

prosh/lqeq' i(mei/rontej: eu)= ga\r oi)=d' o(/ti Tebe rimetti: un'altra volta già,

nosei=te pa/ntej, kai\ nosou=ntej, w(j e)gw\ con fausti augurî la fortuna a noi

ou)k e)/stin u(mw=n o(/stij e)c i)/sou nosei=. rendesti: quale allor fosti, ora móstrati.

to\ me\n ga\r u(mw=n a)/lgoj ei)j e(/n' e)/rxetai Ché, se tu reggi, come reggi, questa

mo/non kaq' au(to\n kou)de/n' a)/llon, h( d' e)mh\ terra, meglio è con gli uomini, che vuota

yuxh\ po/lin te ka)me\ kai\ j' o(mou= ste/nei. governarla: ché nulla è torre o nave,

w(/st' ou)x u(/pnw? g' eu(/donta/ m' e)cegei/rete, se deserta, se niuno è ch'entro v'abiti!

a)ll' i)/ste polla\ me/n me dakru/santa dh/,

polla\j d' o(dou\j e)lqo/nta fronti/doj pla/noij: ÈDIPO:

h(\n d' eu)= skopw=n hu(/riskon i)/asin mo/nhn, Miseri figli, a me la prece vostra

tau/thn e)/praca: pai=da ga\r Menoike/wj cose ben note, annunzia, e non ignote.

Kre/ont', e)mautou= gambro/n, e)j ta\ Puqika\ Tutti, bene lo so, v'opprime il morbo,

e)/pemya Foi/bou dw/maq', w(j pu/qoiq' o(/ ti tutti soffrite; ma nessun di voi

drw=n h)\ ti/ fwnw=n th/nde r(usai/mhn po/lin. soffre al pari di me. La vostra doglia,

kai/ m' h)=mar h)/dh cummetrou/menon xro/nw? di ciascuno di voi, ricade solo

lupei= ti/ pra/ssei: tou= ga\r ei)ko/toj pe/ra sopra lui stesso, e su niun altri. Ma

a)/pesti plei/w tou= kaqh/kontoj xro/nou. l'animo mio me piange insieme, e te,

o(/tan d' i(/khtai, thnikau=t' e)gw\ kako\j e la città. Sicché, non mi scoteste

mh\ drw=n a)\n ei)/hn pa/nq' o(/j' a)\n dhloi= qeo/j. dal sonno: io non dormivo; e molte lacrime

ho versate, sappiatelo, e pei tramiti

(Iereu/j del pensïero lungamente errai:

a)ll' ei)j kalo\n su/ t' ei)=paj oi(/de t' a)rti/wj investigai, trovai solo un rimedio:

Kre/onta prosstei/xonta shmai/nousi/ moi. m'attenni a quello: mio cognato, il figlio

di Menecèo, Creonte all'are pitiche

Oi)di/pouj mandai d'Apollo, a chiedere che debba

w)=nac )/Apollon, ei) ga\r e)n tu/xh? ge/ tw? io fare o dire a salvazion di Tebe.

swth=ri bai/h lampro\j w(/sper o)/mmati E già, se al tempo commisuro il giorno,

m'angustia il suo ritardo: ché già troppo

(Iereu/j piú che non si convenga, e ch'io pensassi,

a)ll' ei)ka/sai me/n, h(du/j: ou) ga\r a)\n ka/ra resta lontano. Quando ei sarà giunto,

polustefh\j w(=d' ei(=rpe pagka/rpou da/fnhj. ben perfido sarei, se non compiessi

tutto, quale pur sia, del Nume il cenno.

Oi)di/pouj

ta/x' ei)so/mesqa: cu/mmetroj ga\r w(j klu/ein. SACERDOTE:

a)/nac, e)mo\n kh/deuma, pai= Menoike/wj, A proposito parli: e questi, or ora

ti/n' h(mi\n h(/keij tou= qeou= fh/mhn fe/rwn; m'han fatto cenno che Creonte giunge.

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La peste nella letteratura – III Sofocle: il rapporto tra sovrano e regno

Kre/wn ÈDIPO:

e)sqlh/n: le/gw ga\r kai\ ta\ du/sfor', ei) tu/xoi E fortuna e salvezza, oh Apollo, giungano

kat' o)rqo\n e)celqo/nta, pa/nt' a)\n eu)tuxei=n. cosí con lui, com'egli in volto raggia!

Oi)di/pouj SACERDOTE:

e)/stin de\ poi=on tou)/poj; ou)/te ga\r qrasu\j Lieto è, se debbo argomentare: tante

ou)/t' ou)=n prodei/saj ei)mi\ tw=? ge nu=n lo/gw?. foglie e bacche di lauro al capo ha cinte!

Kre/wn ÈDIPO:

ei) tw=nde xrh/?zeij plhsiazo/ntwn klu/ein, Súbito lo sapremo: è tanto presso

e(/toimoj ei)pei=n, ei)/te kai\ stei/xein e)/sw. che udir mi può. - Cognato mio, Creonte,

quale responso a noi del Nume rechi?

Oi)di/pouj (Quasi súbito dopo queste parole, entra Creonte)

e)j pa/ntaj au)/da: tw=nde ga\r ple/on fe/rw

to\ pe/nqoj h)\ kai\ th=j e)mh=j yuxh=j pe/ri. CREONTE:

Buono! Fin la sciagura, ov'ella un esito

Kre/wn felice trovi, diverrà fortuna.

le/goim' a)\n oi(=' h)/kousa tou= qeou= pa/ra.

a)/nwgen h(ma=j Foi=boj e)mfanw=j a)/nac ÈDIPO:

mi/asma xw/raj, w(j teqramme/non xqoni\ Che responso è mai questo? Io non m'allegro

e)n th=?d', e)lau/nein mhd' a)nh/keston tre/fein. per tali detti, né timor mi coglie.

Oi)di/pouj CREONTE:

poi/w? kaqarmw=?; ti/j o( tro/poj th=j cumfora=j; Pronto sono a parlar. Vuoi che favelli

dinanzi a tutti? Entrar vuoi nella reggia?

Kre/wn

a)ndrhlatou=ntaj h)\ fo/nw? fo/non pa/lin ÈDIPO:

lu/ontaj, w(j to/d' ai(=ma xeima/zon po/lin. Parla dinanzi a tutti: il duol m'affanna

Oi)di/pouj piú per costor che per la vita mia.

poi/ou ga\r a)ndro\j th/nde mhnu/ei tu/xhn;

CREONTE:

Kre/wn Quel che udito ho dal Nume io ti dirò:

h)=n h(mi/n, w)=nac, La/i+o/j poq' h(gemw\n chiaramente ei c'impose ch'estirpassimo

gh=j th=sde, pri\n se\ th/nd' a)peuqu/nein po/lin. la lue nata e nutrita in questa terra,

prima ch'essa diventi immedicabile.

Oi)di/pouj

e)/coid' a)kou/wn: ou) ga\r ei)sei=do/n ge/ pw. ÈDIPO:

La lue qual è? Come espiar si deve?

Kre/wn

tou/tou qano/ntoj nu=n e)piste/llei safw=j CREONTE:

tou\j au)toe/ntaj xeiri\ timwrei=n tinaj. Il bando; o riscattar sangue con sangue:

ché sangue sparso la città travaglia.

Oi)di/pouj

oi(\ d' ei)si\ pou= gh=j; pou= to/d' eu(reqh/setai ÈDIPO:

i)/xnoj palaia=j duste/kmarton ai)ti/aj; Sangue sparso? E di chi? Lo dice il Nume?

Kre/wn SACERDOTE:

e)n th=?d' e)/faske gh=?: to\ de\ zhtou/menon Prima che tu reggessi Tebe, o re,

a(lwto/n, e)kfeu/gein de\ ta)melou/menon. Laio era duce della terra e nostro.

Oi)di/pouj ÈDIPO:

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La peste nella letteratura – III Sofocle: il rapporto tra sovrano e regno

po/tera d' e)n oi)/koij h)\ 'n a)groi=j o( La/i+oj Lo so, l'ho udito; ma non mai l'ho visto.

h)\ gh=j e)p' a)/llhj tw=?de sumpi/ptei fo/nw?;

CREONTE:

Kre/wn Apollo chiaramente ora c'impone

qewro/j, w(j e)/fasken, e)kdhmw=n, pa/lin gli assassini punir, quali che siano.

pro\j oi)=kon ou)ke/q' i(/keq', w(j a)pesta/lh.

ÈDIPO:

Oi)di/pouj E dove sono? E dove mai trovare

ou)d' a)/ggelo/j tij ou)de\ sumpra/ktwr o(dou= l'ardue vestigia d'un misfatto antico?

katei=d', o(/tou tij e)kmaqw\n e)xrh/sat' a)/n;

CREONTE:

Kre/wn In questa terra, disse: e che puoi cogliere

qnh/?skousi ga/r, plh\n ei(=j tij, o(\j fo/bw?, fugw\n ciò che tu cerchi; ma il negletto sfugge.

w(=n ei)=de plh\n e(\n ou)de\n ei)=x' ei)dw\j fra/sai.

ÈDIPO:

Oi)di/pouj Entro le case, oppur nei campi, fu

to\ poi=on; e(\n ga\r po/ll' a)\n e)ceu/roi maqei=n, Laio trafitto? O sopra estranea terra?

a)rxh\n braxei=an ei) la/boimen e)lpi/doj.

CREONTE:

Kre/wn Partito, disse, a consultar l'oracolo,

lh?sta\j e)/faske suntuxo/ntaj ou) mia=? piú non giunse alla casa onde fu mosso.

r(w/mh? ktanei=n nin, a)lla\ su\n plh/qei xerw=n.

ÈDIPO:

Oi)di/pouj Né messo giunse? Né compagno v'era,

pw=j ou)=n o( lh?sth/j, ei)/ ti mh\ cu\n a)rgu/rw? ch'abbia veduto, e dar ci possa indizio?

e)pra/sset' e)nqe/nd', e)j to/d' a)\n to/lmhj e)/bh;

CREONTE:

Kre/wn Fûr tutti spenti: uno sfuggí; ma seppe,

dokou=nta tau=t' h)=n: Lai/+ou d' o)lwlo/toj di ciò che vide, un punto sol dirci.

ou)dei\j a)rwgo\j e)n kakoi=j e)gi/gneto.

ÈDIPO:

Oi)di/pouj Quale? Un sol punto aprir può molte vie,

kako\n de\ poi=on e)mpodw/n, turanni/doj se di speranza alcun barlume fulga!

ou(/tw pesou/shj, ei)=rge tou=t' e)ceide/nai;

CREONTE:

Kre/wn Disse che in lui ladroni s'imbatterono,

h( poikilw?do\j Sfi\gc to\ pro\j posi\n skopei=n e l'ucciser: non uno, anzi una turba.

meqe/ntaj h(ma=j ta)fanh= prosh/geto.

ÈDIPO:

Oi)di/pouj Come tanto un ladrone avrebbe ardito?

a)ll' e)c u(parxh=j au)=qij au)/t' e)gw\ fanw=: Prezzolato da Tebe egli fu certo.

e)paci/wj ga\r Foi=boj, a)ci/wj de\ su\

pro\ tou= qano/ntoj th/nd' e)/qesq' e)pistrofh/n: CREONTE:

w(/st' e)ndi/kwj o)/yesqe ka)me\ su/mmaxon Cosí pensammo. Or, morto Laio, niuno

gh=? th=?de timwrou=nta tw=? qew=? q' a(/ma. surse a vendetta: ch'altro mal premeva.

u(pe\r ga\r ou)xi\ tw=n a)pwte/rw fi/lwn,

a)ll' au)to\j au(tou= tou=t' a)poskedw= mu/soj. ÈDIPO:

o(/stij ga\r h)=n e)kei=non o( ktanw/n, ta/x' a)\n E quale mai, che il signor vostro

ka)/m' a)\n toiau/th? xeiri\ timwrou=nq' e(/loi. cadea, vi tenne dal chiarir lo scempio?

kei/nw? prosarkw=n ou)=n e)mauto\n w)felw=.

a)ll' w(j ta/xista, pai=dej, u(mei=j me\n ba/qrwn CREONTE:

i(/stasqe, tou/sd' a)/rantej i(kth=raj kla/douj, A guardar ne inducea l'ambigua Sfinge

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La peste nella letteratura – III Sofocle: il rapporto tra sovrano e regno

a)/lloj de\ Ka/dmou lao\n w(=d' a)qroize/tw, il mal presente, e a trascurar l'occulto.

w(j pa=n e)mou= dra/sontoj: h)\ ga\r eu)tuxei=j

su\n tw=? qew=? fanou/meq' h)\ peptwko/tej. ÈDIPO:

Ma dal principio io chiaro lo farò:

(Iereu/j poi che meritamente Febo, e tu

w)= pai=dej, i(stw/mesqa: tw=nde ga\r xa/rin meritamente, ti sobbarchi a questa

kai\ deu=r' e)/bhmen w(=n o(/d' e)cagge/lletai. cura per lui ch'è spento. E a buon diritto

Foi=boj d' o( pe/myaj ta/sde mantei/aj a(/ma vostro alleato me vedrete, e vindice

swth/r d' i(/koito kai\ no/sou pausth/rioj. di questa terra, e insiem del Nume: ch'io,

non per lontani amici, anzi per me

stesso questa bruttura sperderò.

Ché certo quei che Laio ucccise, a me

la stessa pena infliggere vorrebbe:

onde, se Laio io vendico, a me giovo.

Figli, a voi, presto, raccogliete quelle

supplici rame, sorgete dall'are:

e il popolo di Cadmo qui si convochi,

ché a tutto io sono pronto! O trionfanti

o al suol caduti, al Nume obbediremo.

SACERDOTE:

Figli, sorgiamo! Il re promesso ha quanto

qui venimmo a cercare. E chi mandò

questi oracoli, Febo, ora ci assista,

ora ci salvi, ed allontani il morbo.

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La peste nella letteratura – IV Tucidide: un aiuto ai posteri

IV Tucidide: un aiuto ai posteri

Se la peste dell’epica e della tragedia ha una funzione di denuncia di qualcosa di marcio che contamina il resto della società, la descrizione che ci è tramandata da Tucidide si riferisce ad altri significati e valenze. Per esempio scompare completamente il motivo religioso e mitologico che lascia spazio all’intento storico dell’autore. In particolare egli narra l’epidemia di peste vaiolosa, che secondo altri sarebbe stata una forma di tifo, che si abbattè sulla città di Atene all’inizio dell’estate del 429 a.C., cioè durante il conflitto tra Sparta e Atene. Per prima cosa egli propone quelle che secondo lui sono state le cause delle pestilenza, e si nota subito la differenza con quelle addotte dal Tiresia sofocleo. Fu il collasso delle strutture igieniche della città sovraffollata a costituire la causa diretta: Pericle, riconoscendo l’indiscutibile superiorità spartana, aveva deciso di sgomberare i territori intorno alla città perché si era convinto della talassocrazia ateniese. Ma il contagio si ebbe proprio al Pireo per colpa di una nave battente bandiera dell’Egitto, dove per motivi sconosciuti era scoppiata la peste. Le truppe ateniesi propagarono questa epidemia, che durò fino al 427, per tutta la Grecia: certe fonti calcolano che quando terminò, la peste portò via con sé un terzo della popolazione di Atene.

Come in altre testimonianze, anche qui viene sottolineata l’impotenza della medicina e di ogni altra arte umana. Poiché Tucidide non sa spiegare l’origine della peste, il suo intento è quello di descriverne i sintomi per poterli riconoscere con tempestività, qualora fosse scoppiata una nuova epidemia ed evitare la sua diffusione. Lo storico delle “Storie” è contemporaneo di Ippocrate, da cui mutua diversi termini di uso medico che utilizza nella precisa ricostruzione delle sofferenze patite da chi aveva contratto il morbo, tra cui egli stesso. Siamo in una fase ancora primitiva della medicina greca, che non si è ancora liberata completamente dalle superstizioni e dalle false credenze, come ad esempio quella che univa sterilità e cecità.

Come farà Boccaccio, anche Tucidide osserva che la peste miete le sue vittime anche tra gli animali, in particolare tra cani e uccelli (cfr anche l’incipit dell’Iliade), dopo il loro orrido pasto sui cadaveri essi morivano in seguito al contagio. Anche nella cronaca da Atene sono narrati episodi di umanità: uomini sani che si rendevano utili agli altri come potevano, soccorrendo i contagiati e rimanendo a loro volta colpiti dal male incurabile. Un altro elemento comune ai due racconti è quello della pietas verso i defunti, i superstiti cercavano di dare una degna sepoltura ai propri cari anche gettandoli su pire che erano state innalzate per altri defunti. Ciò portava spesso anche a lotte furibonde tra le famiglie dei morti per l’eredità. Pure i costumi erano sconvolti e le leggi infrante perché c’era la consapevolezza di non restare in vita fino al momento della celebrazione del processo dal momento che già un’altra condanna ineluttabile era stata pronunciata e ognuno cercava di godersi la vita un po’, prima che la morte si abbattesse su di lui.

Ciò che traumatizza gli “osservatori” della peste non è tanto l’alta mortalità che la contraddistingue, bensì l’irrompere sulla scena di una morte scandalosa ed oscena, di un’agonia che non conosce nè il pudore della “buona morte”, nè il conforto post mortem dei consueti rituali funebri. In una società in cui la speranza di vita è bassa e che quindi convive con l’idea di una morte che è presenza dolorosa ma in fondo domestica, la peste introduce la rivelazione di un morire “sporco”, che deturpa il corpo e sconvolge le menti, di un nemico invisibile che coglie i popolani intenti alle loro faccende quotidiane.

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La peste nella letteratura – IV Tucidide: un aiuto ai posteri

XLVII.[1] toio/sde me\n o( ta/foj* e)ge/neto* e)n tw=? xeimw=ni tou/tw?: kai\ dielqo/ntoj au)tou= prw=ton** e)/toj tou= pole/mou tou=de e)teleu/ta. [2] tou= de\ qe/rouj eu)qu\j a)rxome/nou Peloponnh/sioi kai\ oi( cu/mmaxoi ta\ du/o me/rh*+ w(/sper kai\ to\ prw=ton e)se/balon e)j th\n )Attikh/n (h(gei=to de\ )Arxi/damoj o( Zeucida/mou Lakedaimoni/wn basileu/j ), kai\ kaqezo/menoi* e)dh/?oun th\n gh=n. [3] kai\ o)/ntwn au)tw=n ou) polla/j pw h(me/raj e)n th=? )Attikh=? h( no/soj* prw=ton h)/rcato* gene/sqai* toi=j )Aqhnai/oij, lego/menon* me\n kai\ pro/teron pollaxo/se e)gkataskh=yai* kai\ peri\ Lh=mnon kai\ e)n a)/lloij xwri/oij, ou) me/ntoi tosou=to/j ge loimo\j ou)de\ fqora\ ou(/twj* a)nqrw/pwn ou)damou= e)mnhmoneu/eto gene/sqai. [4] ou)/te ga\r i)atroi\ h)/rkoun to\ prw=ton qerapeu/ontej a)gnoi/a?, a)ll' au)toi\ ma/lista** e)/qnh?skon o(/sw?* kai\ ma/lista prosh=?san, ou)/te a)/llh a)nqrwpei/a te/xnh ou)demi/a: o(/sa te pro\j i(eroi=j i(ke/teusan* h)\ mantei/oij kai\ toi=j toiou/toij e)xrh/santo*, pa/nta a)nwfelh= h)=n, teleutw=nte/j te au)tw=n a)pe/sthsan u(po\ tou= kakou=* nikw/menoi.

47. Così si celebrarono le esequie in questo inverno con cui si concludeva il primo anno di guerra. All'apparire dell'estate, Peloponnesi e alleati con un corpo di spedizione pari a due terzi delle milizie, come l'anno precedente, irruppero nell'Attica (li dirigeva Archidamo, figlio di Zeussidamo, re di Sparta), vi si istallarono e si davano a devastarne il territorio. Si trovavano in Attica da non molti giorni, quando prese a serpeggiare in Atene l'epidemia: anche in precedenti circostanze s'era diffusa la voce, ora qui ora là, che l'epidemia fosse esplosa, a Lemno, per esempio, e in altre località. Ma nessuna tradizione serba memoria, in nessun luogo, di un così selvaggio male e di una messe tanto ampia di morti. I medici nulla potevano, per fronteggiare questo morbo ignoto, che tentavano di curare per la prima volta. Ne erano anzi le vittime più frequenti, poiché con maggiore facilità si trovavano esposti ai contatti con i malati. Ogni altra scienza o arte umana non poteva lottare contro il contagio. Le suppliche rivolte agli altari, il ricorso agli oracoli e ad altri simili rimedi riuscirono completamente inefficaci: desistettero infine da ogni tentativo e giacquero, soverchiati dal male.

XLVIII.[1] h)/rcato de\ to\ me\n prw=ton, w(j le/getai, e)c Ai)qiopi/aj th=j u(pe\r Ai)gu/ptou, e)/peita de\ kai\ e)j Ai)/gupton kai\ Libu/hn kate/bh kai\ e)j th\n basile/wj gh=n th\n pollh/n*. [2] e)j de\ th\n )Aqhnai/wn po/lin e)capinai/wj e)se/pese, kai\ to\ prw=ton e)n tw=? Peiraiei=* h(/yato tw=n a)nqrw/pwn+, w(/ste kai\ e)le/xqh u(p' au)tw=n w(j oi( Peloponnh/sioi fa/rmaka* e)sbeblh/koien e)j ta\ fre/ata*: krh=nai* ga\r ou)/pw* h)=san au)to/qi. u(/steron de\ kai\ e)j th\n a)/nw po/lin a)fi/keto, kai\ e)/qnh?skon pollw=? ma=llon h)/dh. [3] lege/tw me\n ou)=n peri\ au)tou= w(j e(/kastoj gignw/skei kai\ i)atro\j kai\ i)diw/thj, a)f' o(/tou* ei)ko\j h)=n* gene/sqai au)to/, kai\ ta\j ai)ti/aj* a(/stinaj nomi/zei tosau/thj metabolh=j i(kana\j ei)=nai du/namin e)j to\ metasth=sai sxei=n: e)gw\ de\ oi(=o/n te e)gi/gneto le/cw, kai\ a)f' w(=n a)/n tij skopw=n*, ei)/ pote kai\ au)=qij e)pipe/soi, ma/list' a)\n e)/xoi ti proeidw\j mh\ a)gnoei=n, tau=ta dhlw/sw au)to/j te nosh/saj kai\ au)to\j i)dw\n a)/llouj pa/sxontaj.

48. A quanto si dice, comparve per la prima volta in Etiopia al di là dell'Egitto, calò poi nell'Egitto e in Libia e si diffuse in quasi tutti i domini del re. Su Atene si abbatté fulmineo, attaccando per primi gli abitanti del Pireo. Cosicché si mormorava che ne sarebbero stati colpevoli i Peloponnesi, con l'inquinare le cisterne d'acqua piovana mediante veleno: s'era ancora sprovvisti d'acqua di fonte, laggiù al Pireo. Ma il contagio non tardò troppo a dilagare nella città alta, e il numero dei decessi ad ampliarsi, con una progressione sempre più irrefrenabile. Ora chiunque, esperto o profano di scienza medica, può esprimere quanto ha appreso e pensa sull'epidemia: dove si possa verosimilmente individuare il focolaio infettivo originario e quali fattori siano sufficienti a far degenerare con così grave e funesta cadenza la situazione. Per parte mia, esporrò gli aspetti in cui si manifestava, enumerandone i segni caratteristici, il cui studio riuscirà utile, nel caso che il flagello infierisca in futuro, a riconoscerlo in qualche modo, confrontando i sintomi precedentemente appurati. La mia relazione si fonda su personali esperienze: ho sofferto la malattia e ne ho osservato in altri il decorso.

XLIX.[1] to\ me\n ga\r e)/toj, w(j w(mologei=to, e)k pa/ntwn ma/lista dh\ e)kei=no a)/noson e)j ta\j a)/llaj a)sqenei/aj e)tu/gxanen o)/n: ei) de/ tij kai\ prou/kamne/ ti, e)j tou=to pa/nta a)pekri/qh. [2] tou\j de\ a)/llouj a)p' ou)demia=j profa/sewj, a)ll' e)cai/fnhj u(giei=j o)/ntaj prw=ton me\n th=j kefalh=j qe/rmai i)sxurai\ kai\ tw=n o)fqalmw=n e)ruqh/mata kai\ flo/gwsij e)la/mbane, kai\ ta\ e)nto/j, h(/ te fa/rugc kai\ h( glw=ssa, eu)qu\j ai(matw/dh h)=n kai\ pneu=ma a)/topon kai\ dusw=dej h)fi/ei: [3] e)/peita e)c au)tw=n ptarmo\j kai\ bra/gxoj e)pegi/gneto, kai\ e)n ou) pollw=? xro/nw? kate/bainen e)j ta\ sth/qh o( po/noj meta\ bhxo\j i)sxurou=: kai\ o(po/te e)j th\n kardi/an sthri/ceien, a)ne/strefe/ te au)th\n kai\ a)pokaqa/rseij xolh=j pa=sai o(/sai u(po\ i)atrw=n w)nomasme/nai ei)si\n e)ph=?san, kai\ au(=tai meta\ talaipwri/aj mega/lhj. [4] lu/gc te toi=j

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La peste nella letteratura – IV Tucidide: un aiuto ai posteri

ple/osin e)ne/pipte kenh/, spasmo\n e)ndidou=sa i)sxuro/n, toi=j me\n meta\ tau=ta lwfh/santa, toi=j de\ kai\ pollw=? u(/steron. [5] kai\ to\ me\n e)/cwqen a(ptome/nw? sw=ma ou)/t' a)/gan qermo\n h)=n ou)/te xlwro/n, a)ll' u(pe/ruqron, pelitno/n, fluktai/naij mikrai=j kai\ e(/lkesin e)chnqhko/j: ta\ de\ e)nto\j ou(/twj e)ka/eto w(/ste mh/te tw=n pa/nu leptw=n i(mati/wn kai\ sindo/nwn ta\j e)pibola\j mhd' a)/llo ti h)\ gumnoi\ a)ne/xesqai, h(/dista/ te a)\n e)j u(/dwr yuxro\n sfa=j au)tou\j r(i/ptein. kai\ polloi\ tou=to tw=n h)melhme/nwn a)nqrw/pwn kai\ e)/drasan e)j fre/ata, th=? di/yh? a)pau/stw? cunexo/menoi: kai\ e)n tw=? o(moi/w? kaqeisth/kei to/ te ple/on kai\ e)/lasson poto/n. [6] kai\ h( a)pori/a tou= mh\ h(suxa/zein kai\ h( a)grupni/a e)pe/keito dia\ panto/j. kai\ to\ sw=ma, o(/sonper xro/non kai\ h( no/soj a)kma/zoi, ou)k e)marai/neto, a)ll' a)ntei=xe para\ do/can th=? talaipwri/a?, w(/ste h)\ diefqei/ronto oi( plei=stoi e)natai=oi kai\ e(bdomai=oi u(po\ tou= e)nto\j kau/matoj, e)/ti e)/xonte/j ti duna/mewj, h)\ ei) diafu/goien, e)pikatio/ntoj tou= nosh/matoj e)j th\n koili/an kai\ e(lkw/sew/j te au)th=? i)sxura=j e)ggignome/nhj kai\ diarroi/aj a(/ma a)kra/tou e)pipiptou/shj oi( polloi\ u(/steron di' au)th\n a)sqenei/a? diefqei/ronto. [7] diech/?ei ga\r dia\ panto\j tou= sw/matoj a)/nwqen a)rca/menon to\ e)n th=? kefalh=? prw=ton i(druqe\n kako/n, kai\ ei)/ tij e)k tw=n megi/stwn perige/noito, tw=n ge a)krwthri/wn a)nti/lhyij au)tou= e)pesh/mainen. [8] kate/skhpte ga\r e)j ai)doi=a kai\ e)j a)/kraj xei=raj kai\ po/daj, kai\ polloi\ sterisko/menoi tou/twn die/feugon, ei)si\ d' oi(\ kai\ tw=n o)fqalmw=n. tou\j de\ kai\ lh/qh e)la/mbane parauti/ka a)nasta/ntaj tw=n pa/ntwn o(moi/wj, kai\ h)gno/hsan sfa=j te au)tou\j kai\ tou\j e)pithdei/ouj.

49. Quell'anno, a giudizio di tutti, era trascorso completamente immune da altre forme di malattia. E se qualcuno aveva contratto in precedenza un morbo, questo degenerava senza eccezione nella presente infermità. Gli altri, senza motivo visibile, all'improvviso, mentre fino a quell'attimo erano perfettamente sani, erano dapprima assaliti da forti vampe al capo. Contemporaneo l'arrossamento e l'infiammato enfiarsi degli occhi. All'interno, organi come la laringe e la lingua prendevano subito a buttare sangue. Il respiro esalava irregolare e fetido. Sopraggiungevano altri sintomi, dopo i primi: starnuto e raucedine. In breve il male calava nel petto, con violenti attacchi di tosse. Penetrava e si fissava poi nello stomaco: onde nausee frequenti, accompagnate da tutte quelle forme di evacuazione della bile che i medici hanno catalogato con i loro nomi. In questa fase le sofferenze erano molto acute. In più casi, l'infermo era squassato da urti di vomito, a vuoto, che gli procuravano all'interno spasimi tremendi: per alcuni, ciò avveniva subito dopo che si erano diradati i sintomi precedenti, mentre altri dovevano attendere lungo tempo. Al tocco esterno il corpo non rivelava una temperatura elevata fuori dell'ordinario, né un eccessivo pallore: ma si presentava rossastro, livido, coperto da una fioritura di pustolette e di minuscole ulcerazioni. Dentro, il malato bruciava di tale arsura da non tollerare neppure il contatto di vesti o tessuti per quanto leggeri, o di veli: solo nudo poteva resistere. Il loro più grande sollievo era di poter gettarsi nell'acqua fredda. E non pochi vi riuscirono, eludendo la sorveglianza dei loro familiari e lanciandosi nei pozzi, in preda a una sete insaziabile. Ma il bere misurato o abbondante produceva il medesimo effetto. Senza pause li tormentava l'insonnia e l'impossibilità assoluta di riposare. Le energie fisiche non si andavano spegnendo, nel periodo in cui la virulenza del male toccava l'acme, ma rivelavano di poter resistere in modo inaspettato e incredibile ai patimenti: sicché in molti casi la morte sopraggiungeva al nono e al settimo giorno, per effetto dell'interna arsura, mentre il malato era ancora discretamente in forze. Se invece superava la fase critica, il male s'estendeva aggredendo gli intestini, al cui interno si produceva una ulcerazione disastrosa accompagnata da una violenta diarrea: ne conseguiva una spossatezza, un esaurimento molte volte mortali. La malattia, circoscritta dapprima in alto, alla testa, si ampliava in seguito percorrendo tutto il corpo, e se si usciva vivi dagli stadi più acuti, il suo marchio restava, a denunciarne il passaggio, almeno alle estremità. Ne rimanevano intaccati i genitali, e le punte dei piedi e delle mani: molti, sopravvivendo al male, perdevano la facoltà di usare questi organi alcuni restavano privi anche degli occhi. Vi fu anche chi riacquistata appena la salute, fu colto da un oblio così profondo e completo da non conservare nemmeno la coscienza di se stesso e da ignorare i suoi cari.

L.[1] geno/menon ga\r krei=sson lo/gou to\ ei)=doj th=j no/sou ta/ te a)/lla xalepwte/rwj h)\ kata\ th\n a)nqrwpei/an fu/sin prose/pipten e(ka/stw? kai\ e)n tw=?de e)dh/lwse ma/lista a)/llo ti o)\n h)\ tw=n cuntro/fwn ti: ta\ ga\r o)/rnea kai\ tetra/poda o(/sa a)nqrw/pwn a(/ptetai, pollw=n a)ta/fwn gignome/nwn h)\ ou) prosh/?ei h)\ geusa/mena diefqei/reto. [2] tekmh/rion de/: tw=n me\n toiou/twn o)rni/qwn e)pi/leiyij safh\j e)ge/neto, kai\ ou)x e(wrw=nto ou)/te a)/llwj ou)/te peri\ toiou=ton ou)de/n: oi( de\ ku/nej ma=llon ai)/sqhsin parei=xon tou= a)pobai/nontoj dia\ to\ cundiaita=sqai.

50. Il carattere di questo morbo trascende ogni possibilità descrittiva: non solo i suoi attacchi si rivelavano sempre più maligni di quanto le difese a disposizione della natura umana potessero tollerare, ma anche nel

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La peste nella letteratura – IV Tucidide: un aiuto ai posteri

particolare seguente risultò che si trattava di un fenomeno morboso profondamente diverso dagli altri consueti: tutti gli uccelli e i quadrupedi che si cibano di cadaveri umani (molti giacevano allo scoperto) questa volta non si accostavano, ovvero morivano, dopo averne mangiato. Se ne ha una prova sicura poiché questa specie di volatili scomparve del tutto e non era più possibile notarli intenti al loro pasto macabro, né altrove. Ma indizi ancora più visibili della situazione erano offerti dal comportamento dei cani, per il loro costume di passar la vita tra gli uomini.

LI.[1] to\ me\n ou)=n no/shma, polla\ kai\ a)/lla paralipo/nti a)topi/aj, w(j e(ka/stw? e)tu/gxane/ ti diafero/ntwj e(te/rw? pro\j e(/teron gigno/menon, toiou=ton h)=n e)pi\ pa=n th\n i)de/an. kai\ a)/llo parelu/pei kat' e)kei=non to\n xro/non ou)de\n tw=n ei)wqo/twn: o(\ de\ kai\ ge/noito, e)j tou=to e)teleu/ta. [2] e)/qnh?skon de\ oi( me\n a)melei/a?, oi( de\ kai\ pa/nu qerapeuo/menoi. e(/n te ou)de\ e(\n kate/sth i)/ama w(j ei)pei=n o(/ti xrh=n prosfe/rontaj w)felei=n: to\ ga/r tw? cunenegko\n a)/llon tou=to e)/blapten. [3] sw=ma/ te au)/tarkej o)\n ou)de\n diefa/nh pro\j au)to\ i)sxu/oj pe/ri h)\ a)sqenei/aj, a)lla\ pa/nta cunh/?rei kai\ ta\ pa/sh? diai/th? qerapeuo/mena. [4] deino/taton de\ panto\j h)=n tou= kakou= h(/ te a)qumi/a o(po/te tij ai)/sqoito ka/mnwn (pro\j ga\r to\ a)ne/lpiston eu)qu\j trapo/menoi th=? gnw/mh? pollw=? ma=llon proi/+ento sfa=j au)tou\j kai\ ou)k a)ntei=xon ), kai\ o(/ti e(/teroj a)f' e(te/rou qerapei/aj a)napimpla/menoi w(/sper ta\ pro/bata e)/qnh?skon: kai\ to\n plei=ston fqo/ron tou=to e)nepoi/ei. [5] ei)/te ga\r mh\ 'qe/loien dedio/tej a)llh/loij prosie/nai, a)pw/llunto e)rh=moi, kai\ oi)ki/ai pollai\ e)kenw/qhsan a)pori/a? tou= qerapeu/sontoj: ei)/te prosi/oien, diefqei/ronto, kai\ ma/lista oi( a)reth=j ti metapoiou/menoi: ai)sxu/nh? ga\r h)fei/doun sfw=n au)tw=n e)sio/ntej para\ tou\j fi/louj, e)pei\ kai\ ta\j o)lofu/rseij tw=n a)pogignome/nwn teleutw=ntej kai\ oi( oi)kei=oi e)ce/kamnon u(po\ tou= pollou= kakou= nikw/menoi. [6] e)pi\ ple/on d' o(/mwj oi( diapefeugo/tej to/n te qnh/?skonta kai\ to\n ponou/menon w)?kti/zonto dia\ to\ proeide/nai te kai\ au)toi\ h)/dh e)n tw=? qarsale/w? ei)=nai: di\j ga\r to\n au)to/n, w(/ste kai\ ktei/nein, ou)k e)pela/mbanen. kai\ e)makari/zonto/ te u(po\ tw=n a)/llwn, kai\ au)toi\ tw=? paraxrh=ma perixarei= kai\ e)j to\n e)/peita xro/non e)lpi/doj ti ei)=xon kou/fhj mhd' a)\n u(p' a)/llou nosh/mato/j pote e)/ti diafqarh=nai.

51. È questo il generale e complessivo quadro della malattia, sebbene sia stato costretto a tralasciare molti fenomeni e caratteri peculiari per cui ogni caso, anche se di poco, tendeva sempre a distinguersi dall'altro. Nessun'altra infermità di tipo comune insorse nel periodo in cui infuriava il contagio e in esso confluiva qualunque altro sintomo si manifestasse. I decessi si dovevano in parte alle cure molto precarie, ma anche un'assistenza assidua e precisa si rivelava inefficace. Non si riuscì a determinare, si può dire, neppure una sola linea terapeutica la cui applicazione risultasse universalmente positiva. (Un farmaco salutare in un caso, era nocivo in un altro). Nessuna complessione, di debole o vigorosa tempra, mostrò mai di possedere in sé energie bastanti a contrastare il morbo, che rapiva indifferentemente chiunque, anche quelli circondati dalle precauzioni più scrupolose. Nel complesso di dolorosi particolari che caratterizzavano questo flagello, uno s'imponeva, tristissimo: lo sgomento, da cui ci si lasciava cogliere, quando si faceva strada la certezza di aver contratto il contagio (la disperazione prostrava rapida lo spirito, sicché ci si esponeva molto più inermi all'attacco del morbo, con un cedimento immediato); inoltre la circostanza che, nel desiderio di scambiarsi cure ed aiuti, i rapporti reciproci s'intensificavano, e la gente moriva, come le pecore. Era questa la causa della enorme mortalità. Chi per paura rifiutava ogni contatto, periva solo. Famiglie al completo furono distrutte per mancanza di chi fosse disposto a curarle. Chi invece coltivava amicizie e relazioni, perdeva egualmente la vita: quelli in particolare che tenevano a far mostra di nobiltà di spirito. Mossi da rispetto umano, si recavano in visita dagli amici, disprezzando il pericolo, quando perfino gli intimi trascuravano la pratica del lamento funebre sui propri congiunti, abbattuti e vinti sotto la sferza del la calamità. Una compassione più viva, su un morto o verso un malato, dimostravano quelli che ne erano scampati vivi: conoscevano di persona l'intensità del soffrire e si facevano forti d'un sentimento di sicurezza. Il male non aggrediva mai due volte: o, almeno l'eventuale ricaduta non era letale. Erano giudicati felici dagli altri e nella eccitata commozione di un momento si abbandonavano alla speranza, illusoria e incerta, che anche in futuro nessuna malattia si sarebbe più impossessata di loro, strappandoli a questo mondo.

LII.[1] e)pi/ese d' au)tou\j ma=llon pro\j tw=? u(pa/rxonti po/nw? kai\ h( cugkomidh\ e)k tw=n a)grw=n e)j to\ a)/stu, kai\ ou)x h(=sson tou\j e)pelqo/ntaj. [2] oi)kiw=n ga\r ou)x u(parxousw=n, a)ll' e)n kalu/baij pnighrai=j w(/ra? e)/touj diaitwme/nwn o( fqo/roj e)gi/gneto ou)deni\ ko/smw?, a)lla\ kai\ nekroi\ e)p' a)llh/loij a)poqnh/?skontej e)/keinto kai\ e)n tai=j o(doi=j e)kalindou=nto kai\ peri\ ta\j krh/naj a(pa/saj h(miqnh=tej tou= u(/datoj e)piqumi/a?. [3] ta/ te i(era\ e)n oi(=j e)skh/nhnto nekrw=n ple/a h)=n, au)tou= e)napoqnh?sko/ntwn: u(perbiazome/nou ga\r tou= kakou= oi( a)/nqrwpoi, ou)k e)/xontej o(/ti ge/nwntai, e)j o)ligwri/an e)tra/ponto kai\ i(erw=n kai\ o(si/wn o(moi/wj. [4] no/moi te pa/ntej cunetara/xqhsan oi(=j e)xrw=nto pro/teron peri\ ta\j

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La peste nella letteratura – IV Tucidide: un aiuto ai posteri

tafa/j, e)/qapton de\ w(j e(/kastoj e)du/nato. kai\ polloi\ e)j a)naisxu/ntouj qh/kaj e)tra/ponto spa/nei tw=n e)pithdei/wn dia\ to\ suxnou\j h)/dh proteqna/nai sfi/sin: e)pi\ pura\j ga\r a)llotri/aj fqa/santej tou\j nh/santaj oi( me\n e)piqe/ntej to\n e(autw=n nekro\n u(fh=pton, oi( de\ kaiome/nou a)/llou e)pibalo/ntej a)/nwqen o(\n fe/roien a)ph=?san.

52. L'imperversare dell'epidemia era reso più insopportabile dal continuo afflusso di contadini alla città: la prova più dolorosa colpiva gli sfollati. Poiché non disponevano di abitazioni adatte e vivevano in baracche soffocanti per quella stagione dell'anno: il contagio mieteva vittime con furia disordinata. I cadaveri giacevano a mucchi e tra essi, alla rinfusa, alcuni ancora in agonia. Per le strade si voltolavano strisciando uomini già prossimi a morire, disperatamente tesi alle fontane, pazzi di sete. I santuari che avevano offerto una sistemazione provvisoria, erano colmi di morti: individui che erano spirati lì dentro, uno dopo l'altro. La violenza selvaggia del morbo aveva come spezzato i freni morali degli uomini che, preda di un destino ignoto, non si attenevano più alle leggi divine e alle norme di pietà umana. Le pie usanze che fino a quell'epoca avevano regolato le esequie funebri caddero travolte in abbandono. Ciascuno seppelliva come poteva. Molti si ridussero a funerali indecorosi per la scarsità di arredi necessari, causata dal grande numero di morti che avevano già avuto in famiglia: deponevano il cadavere del proprio congiunto su pire preparate per altri e vi appiccicavano la fiamma prima che i proprietari vi facessero ritorno, mentre altri gettavano sul rogo già acceso per un altro il proprio morto, allontanandosi subito dopo.

LIII.[1] prw=to/n te h)=rce kai\ e)j ta)=lla th=? po/lei e)pi\ ple/on a)nomi/aj to\ no/shma. r(a=?on ga\r e)to/lma tij a(\ pro/teron a)pekru/pteto mh\ kaq' h(donh\n poiei=n, a)gxi/strofon th\n metabolh\n o(rw=ntej tw=n te eu)daimo/nwn kai\ ai)fnidi/wj qnh?sko/ntwn kai\ tw=n ou)de\n pro/teron kekthme/nwn, eu)qu\j de\ ta)kei/nwn e)xo/ntwn. [2] w(/ste taxei/aj ta\j e)paure/seij kai\ pro\j to\ terpno\n h)ci/oun poiei=sqai, e)fh/mera ta/ te sw/mata kai\ ta\ xrh/mata o(moi/wj h(gou/menoi. [3] kai\ to\ me\n prostalaipwrei=n tw=? do/canti kalw=? ou)dei\j pro/qumoj h)=n, a)/dhlon nomi/zwn ei) pri\n e)p' au)to\ e)lqei=n diafqarh/setai: o(/ti de\ h)/dh te h(du\ pantaxo/qen te e)j au)to\ kerdale/on, tou=to kai\ kalo\n kai\ xrh/simon kate/sth. [4] qew=n de\ fo/boj h)\ a)nqrw/pwn no/moj ou)dei\j a)pei=rge, to\ me\n kri/nontej e)n o(moi/w? kai\ se/bein kai\ mh\ e)k tou= pa/ntaj o(ra=n e)n i)/sw? a)pollume/nouj, tw=n de\ a(marthma/twn ou)dei\j e)lpi/zwn me/xri tou= di/khn gene/sqai biou\j a)\n th\n timwri/an a)ntidou=nai, polu\ de\ mei/zw th\n h)/dh kateyhfisme/nhn sfw=n e)pikremasqh=nai, h(\n pri\n e)mpesei=n ei)ko\j ei)=nai tou= bi/ou ti a)polau=sai.

53. Anche in campi diversi, l'epidemia travolse in più punti gli argini della legalità fino allora vigente nella vita cittadina. Si scatenarono dilagando impulsi prima lungamente repressi, alla vista di mutamenti di fortuna inaspettati e fulminei: decessi improvvisi di persone facoltose, gente povera da sempre che ora, in un batter di ciglia, si ritrovava ricca di inattese eredità. Considerando ormai la vita e il denaro come valori di passaggio, bramavano godimenti e piaceri che s'esaurissero in fretta, in soddisfazioni rapide e concrete. Nessuno si sentiva trasportare dallo zelo di impegnare con anticipo energie in qualche impresa ritenuta degna, nel dubbio che la morte giungesse a folgorarlo, a mezzo del cammino. L'immediato piacere e qualsiasi espediente atto a procurarlo costituivano gli unici beni considerati onesti e utili. Nessun freno di pietà divina o di umana regola: rispetto e sacrilegio non si distinguevano, da parte di chi assisteva al quotidiano spettacolo di una morte che colpiva senza distinzione, ciecamente. Inoltre, nessuno concepiva il serio timore di arrivar vivo a rendere conto alla giustizia dei propri crimini. Avvertivano sospesa sul loro capo una condanna ben più pesante: e prima che s'abbattesse, era umano cercare di goder qualche po' della vita.

LIV.[1] toiou/tw? me\n pa/qei oi( )Aqhnai=oi peripeso/ntej e)pie/zonto, a)nqrw/pwn t' e)/ndon qnh?sko/ntwn kai\ gh=j e)/cw dh?oume/nhj. [2] e)n de\ tw=? kakw=? oi(=a ei)ko\j a)nemnh/sqhsan kai\ tou=de tou= e)/pouj, fa/skontej oi( presbu/teroi pa/lai a)/?desqai

‘h(/cei Dwriako\j po/lemoj kai\ loimo\j a(/m' au)tw=?.’

[3] e)ge/neto me\n ou)=n e)/rij toi=j a)nqrw/poij mh\ loimo\n w)noma/sqai e)n tw=? e)/pei u(po\ tw=n palaiw=n, a)lla\ limo/n, e)ni/khse de\ e)pi\ tou= paro/ntoj ei)ko/twj loimo\n ei)rh=sqai: oi( ga\r a)/nqrwpoi pro\j a(\ e)/pasxon th\n mnh/mhn e)poiou=nto. h)\n de/ ge oi)=mai/ pote a)/lloj po/lemoj katala/bh? Dwriko\j tou=de u(/steroj kai\ cumbh=? gene/sqai limo/n, kata\ to\ ei)ko\j ou(/twj a)/?sontai. [4] mnh/mh de\ e)ge/neto kai\ tou= Lakedaimoni/wn xrhsthri/ou toi=j ei)do/sin, o(/te e)perwtw=sin au)toi=j to\n qeo\n ei) xrh\ polemei=n a)nei=le kata\ kra/toj polemou=si ni/khn e)/sesqai, kai\ au)to\j e)/fh cullh/yesqai. [5] peri\ me\n ou)=n tou= xrhsthri/ou ta\

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La peste nella letteratura – IV Tucidide: un aiuto ai posteri

gigno/mena h)/?kazon o(moi=a ei)=nai: e)sbeblhko/twn de\ tw=n Peloponnhsi/wn h( no/soj h)/rcato eu)qu/j, kai\ e)j me\n Pelopo/nnhson ou)k e)sh=lqen, o(/ti kai\ a)/cion ei)pei=n, e)penei/mato de\ )Aqh/naj me\n ma/lista, e)/peita de\ kai\ tw=n a)/llwn xwri/wn ta\ poluanqrwpo/tata. tau=ta me\n ta\ kata\ th\n no/son geno/mena.

54. Tale flagello aveva prostrato Atene, imponendovi il suo giogo. Dentro le mura cadevano le vittime del contagio; fuori, le campagne subivano la devastazione nemica. Venne naturalmente alla luce, mentre il morbo incrudeliva, la memoria di quell'oracolo che, a detta dei più anziani, risaliva a tempi molto antichi:

«Verrà la guerra Dorica e pestilenza con essa.»

Si discusse se gli antichi avessero veramente pronunciato nel testo di quell'oracolo l'espressione «pestilenza» e non piuttosto «carestia». Prevalse, come ci si può ragionevolmente aspettare, considerate le circostanze, l'interpretazione secondo cui nel testo suddetto compariva la parola pestilenza, in quanto la gente configurava il suo ricordo alle presenti sofferenze. Ma io sono convinto che se i Dori, successiva a questa, scatenassero un'altra guerra ed esplodesse una carestia prevarrebbe allora l'altra interpretazione, come è del resto naturale. Inoltre, quanti ne erano al corrente, rammentarono l'altro oracolo riguardante gli Spartani, quello espresso dal dio in occasione della loro richiesta se dovessero dichiarare la guerra, con la risposta che la vittoria avrebbe arriso a loro, se s'impegnavano a fondo nei combattimenti, e con la promessa di un aiuto particolare del dio. Si congetturava che gli eventi coincidevano con le parole dell'oracolo: l'invasione dei Peloponnesi aveva segnato l'esplosione immediata dell'epidemia, che non era invece penetrata nel Peloponneso, almeno con conseguenze degne di menzione. Invase soprattutto Atene e, in un processo di tempo, anche le fasce più popolose delle altre regioni. Questo è quanto concerne l'epidemia.

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La peste nella letteratura – V Lucrezio: non serve temere la morte

V Lucrezio: non serve temere la morte In modo simile ma non uguale ci parla anche Lucrezio della peste di Atene del 430 a.C.: la similitudine bisogna ricercarla nell’eziologia del male, che, come nello storico ateniese, non è legata alla superstitio di una volontà divina, bensì ad un mortifer aestus giunto dall’Egitto, frutto della forza della natura; la differenza che distingue nettamente i due autori è data dal diverso stile che utilizzano. Lucrezio è più attento a mettere in luce il rifiuto di riconoscere una colpa nel dolore sofferto dagli uomini e la libertà dalla responsabilità del male insito nella condizione umana. Abbandona quindi le spiegazioni metafisiche per concentrare la sua attenzione sul mondo degli uomini, sulla vita di una città sulla quale si abbatte un male cieco per sconvolgerla e annientarla. Sottolinea allora gli effetti ripugnanti dell’infezione, la distruzione del corpo e il dissolversi della dignità della persona, l’insinuarsi e poi trionfare della paura, fino allo spezzarsi anche dei più solidi legami famigliari e sociali, lasciando spazio al terrore, all’irrazionalità, all’empietà. Il poeta epicureo entra in medias res nell’ultima parte del “De rerum natura” a partire dal verso 1141 del VI libro, che è quello che conclude l’opera. Dopo l’elogio di Atene e di Epicuro e la trattazione di fenomeni atmosferici (il tuono, il fulmine, le nuvole, le piogge), passa a quelli terrestri concludendo con la peste, intesa come grandiosa esemplificazione di un ragionamento strettamente consequenziale, volta a dimostrare che gli uomini non devono avere paura perché se non va temuta la morte [seconda diade], tanto meno vanno temuti i naturali sconvolgimenti e cataclismi di qualsiasi specie [terza diade]. Temere è turbarsi e il turbamento è fonte di infelicità: insegnare all’uomo a non turbarsi anche di fronte al cosmo è l’ultima lezione morale del poema. Operando un confronto tra Lucrezio e Tucidide si nota che il secondo indaga psicologicamente, entrando, secondo l’ au¹toyi/a, nelle case e nei templi, osservando i funerali e i piaceri. Lucrezio invece descrive il crollo della religione: “Né ormai il timore degli dèi né la potenza divina contava molto”. E Tucidide: “Gli uomini, non sapendo quale sarebbe stato il loro futuro, iniziarono a trascurare le leggi divine e umane”. I primi paragrafi delle “Storie” hanno una loro rielaborazione piuttosto fedele nei versi 1144-1181 del poema, ma alla prosa sobria, asciutta, quasi scientifica dello storico, si sostituisce uno stile elaborato, ricco di artifici retorici, tendenti a dilatare le immagini al fine di renderle più drammatiche e ricche di pathos. Ad esempio, scrive Tucidide: “La gola e la lingua diventavano subito di color sangue ed emanavano un alito disgustoso e fetido”, mentre per Lucrezio “la gola, nera all’interno, grondava sangue, indebolita dal male, grave a muoversi, ruvida al tatto; l’alito, fuori dalla bocca, emanava un lezzo fetido, come puzzano i cadaveri putrefatti abbandonati”. Un altro esempio significativo si ha dove Tucidide afferma che il male scendeva nel petto e da lì nello stomaco, al contrario Lucrezio dice che il male giungeva nel cuore. Questo per ribadire che il poeta latino non esamina con occhio clinico il morbo, infatti non è attento né ad usare termini scientifici né a descrivere precisamente il corso della malattia, gli interessa soprattutto rendere il clima di morte e desolazione.

Nam penitus veniens Aegypti finibus ortus, Venendo infatti dal fondo della terra d'Egitto, ove era nato, aeëra permensus multum camposque natantis, dopo aver percorso molta aria e distese fluttuanti, incubuit tandem populo Pandionis omni. piombò alfine su tutto il popolo di Pandione. inde catervatim morbo mortique dabantur. Allora, a torme eran preda della malattia e della morte. principio caput incensum fervore gerebant Dapprima avevano il capo in fiamme per il calore et duplicis oculos suffusa luce rubentes. e soffusi di un luccichìo rossastro ambedue gli occhi. sudabant etiam fauces intrinsecus atrae La gola, inoltre, nell'interno nera, sudava sangue, sanguine et ulceribus vocis via saepta coibat e occluso dalle ulcere il passaggio della voce si serrava, atque animi interpres manabat lingua cruore e l'interprete dell'animo, la lingua, stillava gocce di sangue, debilitata malis, motu gravis, aspera tactu. infiacchita dal male, pesante al movimento, scabra al tatto. inde ubi per fauces pectus complerat et ipsum Poi, quando attraverso la gola la forza della malattia morbida vis in cor maestum confluxerat aegris, aveva invaso il petto ed era affluita fin dentro il cuore afflitto omnia tum vero vitai claustra lababant. dei malati, allora davvero vacillavano tutte le barriere della vita.

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La peste nella letteratura – V Lucrezio: non serve temere la morte

spiritus ore foras taetrum volvebat odorem, Il fiato che usciva dalla bocca spargeva un puzzo ributtante, rancida quo perolent proiecta cadavera ritu. simile al fetore che mandano i putridi cadaveri abbandonati. atque animi prorsum [tum] vires totius, omne Poi le forze dell'animo intero; tutto il corpo languebat corpus leti iam limine in ipso. languivano, già sul limitare stesso della morte. intolerabilibusque malis erat anxius angor E agli intollerabili mali erano assidui compagni adsidue comes et gemitu commixta querella, un'ansiosa angoscia e un lamentarsi commisto con sospiri. singultusque frequens noctem per saepe diemque E un singhiozzo frequente, che spesso li costringeva notte e giorno corripere adsidue nervos et membra coactans a contrarre assiduamente i nervi e le membra, li struggeva dissoluebat eos, defessos ante, fatigans. aggiungendo travaglio a quello che già prima li aveva spossati. nec nimio cuiquam posses ardore tueri Né avresti notato che per troppo ardore in alcuno corporis in summo summam fervescere partem, bruciasse alla superficie del corpo la parte più esterna, sed potius tepidum manibus proponere tactum ma questa piuttosto offriva alle mani un tiepido contatto, et simul ulceribus quasi inustis omne rubere e insieme tutto il corpo era rosso d'ulcere quasi impresse a fuoco, corpus, ut est per membra sacer dum diditur ignis. come accade quando per le membra si diffonde il fuoco sacro. intima pars hominum vero flagrabat ad ossa, Ma la parte più interna in quegli uomini ardeva fino alle ossa, flagrabat stomacho flamma ut fornacibus intus. nello stomaco ardeva una fiamma, come dentro fornaci. nil adeo posses cuiquam leve tenveque membris Sicché non c'era cosa, benché lieve e tenue, con cui potessi giovare vertere in utilitatem, at ventum et frigora semper. alle membra di alcuno, ma vento e frescura cercavano sempre. in fluvios partim gelidos ardentia morbo Alcuni immergevano nei gelidi fiumi le membra ardenti membra dabant nudum iacientes corpus in undas. per la malattia, gettando dentro le onde il corpo nudo. multi praecipites nymphis putealibus alte Molti caddero a capofitto nelle acque di pozzi profondi, inciderunt ipso venientes ore patente: mentre accorrevano protendendo la bocca spalancata. insedabiliter sitis arida corpora mersans La sete che li riardeva inestinguibilmente e faceva immergere aequabat multum parvis umoribus imbrem. i corpi, rendeva pari a poche gocce molta acqua. nec requies erat ulla mali: defessa iacebant E il male non dava requie: i corpi giacevano corpora. mussabat tacito medicina timore, stremati. La medicina balbettava in un muto sgomento, quippe patentia cum totiens ardentia morbis mentre quelli tante volte rotavano gli occhi spalancati, lumina versarent oculorum expertia somno. ardenti per la malattia, privi di sonno. multaque praeterea mortis tum signa dabantur: E molti altri segni di morte si manifestavano allora: perturbata animi mens in maerore metuque, la mente sconvolta, immersa nella tristezza e nel timore, triste supercilium, furiosus voltus et acer, le ciglia aggrondate, il viso stravolto e truce, sollicitae porro plenaeque sonoribus aures, le orecchie, inoltre, tormentate e piene di ronzii, creber spiritus aut ingens raroque coortus, il respiro frequente o grosso e tratto a lunghi intervalli, sudorisque madens per collum splendidus umor, e stille di sudore lustre lungo il madido collo, tenvia sputa minuta, croci contacta colore sottili sputi minuti, cosparsi di color di croco salsaque per fauces rauca vix edita tussi. e salsi, a stento cavati attraverso le fauci da una rauca tosse. in manibus vero nervi trahere et tremere artus Non cessavano, poi, di contrarsi i nervi nelle mani e di tremare a pedibusque minutatim succedere frigus gli arti, e di montare su dai piedi a poco a poco il freddo. non dubitabat. item ad supremum denique tempus Così, quando alfine si appressava il momento supremo, conpressae nares, nasi primoris acumen erano affilate le narici, assottigliata e acuta la punta tenve, cavati oculi, cava tempora, frigida pellis del naso, incavati gli occhi, cave le tempie, gelida e dura duraque in ore, iacens rictu, frons tenta manebat. la pelle nel volto, cascante la bocca aperta; la fronte rimaneva tesa. nec nimio rigida post artus morte iacebant. E non molto dopo le membra giacevano irrigidite dalla morte. octavoque fere candenti lumine solis E generalmente quando raggiava il sole dell'ottavo giorno, aut etiam nona reddebant lampade vitam. o anche sotto la luce del nono, esalavano la vita. quorum siquis, ut est, vitarat funera leti, E se taluno d'essi, come accade, era sfuggito a morte e funerali, ulceribus taetris et nigra proluvie alvi per ulcere orrende e nero flusso di ventre posterius tamen hunc tabes letumque manebat, più tardi tuttavia lo attendevano consunzione e morte; aut etiam multus capitis cum saepe dolore o anche molto sangue corrotto, spesso con dolore di testa, corruptus sanguis expletis naribus ibat. gli colava dalle narici intasate: qui affluivano huc hominis totae vires corpusque fluebat. tutte le forze dell'uomo e la sostanza del suo corpo. profluvium porro qui taetri sanguinis acre Se poi qualcuno era scampato al terribile profluvio di sangue exierat, tamen in nervos huic morbus et artus ributtante, ciò nonostante la malattia gli penetrava nei nervi ibat et in partis genitalis corporis ipsas. e negli arti e fin dentro gli organi genitali. et graviter partim metuentes limina leti E alcuni, gravemente temendo il limitare della morte, vivebant ferro privati parte virili, vivevano dopo essersi mutilati del membro virile col ferro; et manibus sine non nulli pedibusque manebant e taluni, pur senza mani e senza piedi, rimanevano in vita tamen et perdebant lumina partim. tuttavia in vita, come altri perdevano gli occhi: usque adeo mortis metus iis incesserat acer. tanto si era impadronito di loro un acuto timore della morte. atque etiam quosdam cepere oblivia rerum E inoltre un oblio di tutte le cose invase certuni, cunctarum, neque se possent cognoscere ut ipsi. sicché non potevano riconoscere neppure sé stessi. multaque humi cum inhumata iacerent corpora supra E benché sulla terra giacessero insepolti mucchi di corpi corporibus, tamen alituum genus atque ferarum su corpi, tuttavia gli uccelli e le fiere o fuggivano aut procul absiliebat, ut acrem exiret odorem, balzando lontano, per evitare l'acre puzzo, aut, ubi gustarat, languebat morte propinqua. oppure, se li assaggiavano, languivano per morte imminente. nec tamen omnino temere illis solibus ulla E d'altronde in quei giorni non era affatto facile che qualche comparebat avis, nec tristia saecla ferarum uccello comparisse, e le stirpi delle fiere, abbattute, exibant silvis. languebant pleraque morbo non uscivano dalle selve. La maggior parte languiva et moriebantur. cum primis fida canum vis per la malattia e moriva. Soprattutto la fedele forza dei cani,

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La peste nella letteratura – V Lucrezio: non serve temere la morte

strata viis animam ponebat in omnibus aegre; stesa per tutte le strade, spirava penosamente; extorquebat enim vitam vis morbida membris. ché la forza della malattia strappava la vita dalle membra. incomitata rapi certabant funera vasta Funerali senza corteo, desolati, gareggiavano nell'esser affrettati. nec ratio remedii communis certa dabatur; Né c'era specie di rimedio che valesse sicuramente per tutti; nam quod ali dederat vitalis aeëris auras infatti ciò che ad uno aveva dato la possibilità di continuare volvere in ore licere et caeli templa tueri, a respirare i vitali aliti dell'aria e a contemplare gli spazi hoc aliis erat exitio letumque parabat. del cielo, ad altri era esiziale e cagionava la morte. Illud in his rebus miserandum magnopere unum Una cosa, in tali frangenti, era miseranda, e molto, aerumnabile erat, quod ubi se quisque videbat sopra ogni altra, penosa: ognuno, quando si vedeva implicitum morbo, morti damnatus ut esset, assalito dalla malattia, come se fosse condannato a morte, deficiens animo maesto cum corde iacebat, perdendosi d'animo giaceva col cuore addolorato funera respectans animam amittebat ibidem. e, rivolto a visioni funeree, esalava l'anima in quel punto stesso. quippe etenim nullo cessabant tempore apisci E infatti il contagio dell'avida malattia non cessava ex aliis alios avidi contagia morbi, in alcun momento d'attaccarsi dagli uni agli altri, lanigeras tam quam pecudes et bucera saecla, come se fossero lanute pecore e torme di cornuti bovi. idque vel in primis cumulabat funere funus E questo soprattutto accumulava morti su morti. nam qui cumque suos fugitabant visere ad aegros, Giacché tutti quelli che evitavano di visitare i congiunti malati, vitai nimium cupidos mortisque timentis mentre troppo bramavano la vita e temevano la morte, poenibat paulo post turpi morte malaque, li puniva poco dopo con morte turpe e trista, desertos, opis expertis, incuria mactans. derelitti, privi di soccorso, la micidiale mancanza di cure. qui fuerant autem praesto, contagibus ibant Ma quelli che aiutavano, se ne andavano per il contagio e la fatica, atque labore, pudor quem tum cogebat obire cui allora li costringevano a sobbarcarsi il senso dell'onore blandaque lassorum vox mixta voce querellae. e la carezzevole voce dei languenti con mista una voce di pianto. optimus hoc leti genus ergo quisque subibat. Questo genere di morte affrontavano, dunque, tutti i migliori Praeterea iam pastor et armentarius omnis e l'uno sugli altri, gareggiando nel seppellire la folla et robustus item curvi moderator aratri dei congiunti; tornavano spossati dal pianto e dal cordoglio; languebat, penitusque casa contrusa iacebant poi, in gran parte s'abbandonavano sui letti per l'angoscia. corpora paupertate et morbo dedita morti. Né si poteva trovare alcuno che la malattia exanimis pueris super exanimata parentum o la morte o il lutto non colpissero in tale frangente. corpora non numquam posses retroque videre Inoltre languiva ormai ogni pastore e custode di armenti matribus et patribus natos super edere vitam. e insieme il robusto guidatore dell'aratro ricurvo; nec minimam partem ex agris maeror is in urbem e ammucchiati in fondo ai tuguri giacevano i corpi confluxit, languens quem contulit agricolarum che povertà e malattia avevano dati in balìa della morte. copia conveniens ex omni morbida parte. Su esanimi fanciulli corpi inanimati di genitori omnia conplebant loca tectaque quo magis aestu, avresti potuto talora vedere, e viceversa figli confertos ita acervatim mors accumulabat. esalare la vita su madri e padri. multa siti prostrata viam per proque voluta E in non minima parte dai campi quell'afflizione confluì corpora silanos ad aquarum strata iacebant nella città: la portò la languente folla dei campagnoli, interclusa anima nimia ab dulcedine aquarum, che colpita dalla malattia conveniva da ogni parte. multaque per populi passim loca prompta viasque Riempivano tutti i luoghi e le case: tanto più, quindi, languida semanimo cum corpore membra videres nell'arsura così ammassati la morte a caterve li accatastava. horrida paedore et pannis cooperta perire, Molti corpi prostrati dalla sete per via e stramazzati corporis inluvie, pelli super ossibus una, presso le fontane giacevano distesi, ulceribus taetris prope iam sordeque sepulta. col respiro strozzato dal troppo deliziarsi d'acqua; omnia denique sancta deum delubra replerat e in gran numero avresti potuto vedere, per i luoghi aperti corporibus mors exanimis onerataque passim al popolo, qua e là, e per le vie, membra languide nel corpo cuncta cadaveribus caelestum templa manebant, mezzo morto, orride per lo squallore e coperte di stracci, hospitibus loca quae complerant aedituentes. perire nella sozzura del corpo, con sulle ossa la sola pelle, nec iam religio divom nec numina magni ormai quasi sepolta sotto ulcere spaventose e lordura. pendebantur enim: praesens dolor exsuperabat. Tutti i santuari degli dèi la morte aveva infine riempiti nec mos ille sepulturae remanebat in urbe, di corpi esanimi; e tutti i templi dei celesti quo prius hic populus semper consuerat humari; rimanevano ingombri di cadaveri dovunque, perturbatus enim totus trepidabat et unus perché i custodi avevano gremito di ospiti quei luoghi. quisque suum pro re [cognatum] maestus humabat. E infatti ormai né la religione, né la maestà degli dèi multaque [res] subita et paupertas horrida suasit; contavano molto: il dolore presente aveva il sopravvento. namque suos consanguineos aliena rogorum Né si serbava nella città quel rito di sepoltura insuper extructa ingenti clamore locabant con cui prima quel popolo sempre aveva usato farsi inumare; subdebantque faces, multo cum sanguine saepe infatti, sconvolto, era tutto preso dal panico; e ognuno, mesto, rixantes, potius quam corpora desererentur, inumava il proprio morto [composto]; secondo la circostanza. inque aliis alium populum sepelire suorum E a molti orrori li indussero [gli eventi] repentini e la povertà. certantes; lacrimis lassi luctuque redibant; Così con grande clamore ponevano i propri consanguinei inde bonam partem in lectum maerore dabantur; sopra roghi eretti per altri, e di sotto accostavano nec poterat quisquam reperiri, quem neque morbus le fiaccole, spesso rissando con molto sangue nec mors nec luctus temptaret tempore tali. piuttosto che lasciare i corpi in abbandono.

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La peste nella letteratura – VI Ovidio e Tacito: la peste non risparmia nessuno

VI Ovidio e Tacito: la peste non risparmia nessuno

Soltanto in periodo più tardo della letteratura si notano nuovi aspetti e considerazioni sulla peste, con Ovidio e Tacito. Publio Ovidio Nasone si occupa della peste quando narra la sorte della città di Egina, colpita dall’epidemia a causa dell’ira di Giunone per l’astio che un luogo portasse il nome di una sua rivale. Si tratta anche in questo caso di un capriccio divino che colpisce gli uomini incolpevoli: l’elemento nuovo è dato dalla consapevolezza di Ovidio di questa causa. Infatti egli distingue tra male naturale e causa oscura, i rimedi nel primo caso erano l’arte medica, che quando si rivela svilita dall’impotenza contro il flagello, dimostra che il fenomeno è stato voluto da un dio. E’ allora inutile combattere la peste con armi umane, bisogna ricorrere a pratiche soprannaturali, poiché l’umano nulla può contro il divino. Dal momento che l’epidemia non è “naturale”, fantastici sono anche gli eventi che provoca, come i serpenti inquieti che vagano a migliaia per le campagne contaminando l’acqua con il loro veleno. L’elemento descrittivo è arricchito con riferimenti all’Iliade, infatti il morbo miete le sue prime vittime tra gli animali (e i primi che vengono nominati sono proprio cani e uccelli). Il pathos aumenta quando gli animali stessi si rendono conto della gravità dell’epidemia e temono il contagio. Cani, uccelli, lupi non divorano più i cadaveri che giacciono abbandonati lungo le strade perché sanno che contrarrebbero la malattia. Questo episodio viene poi rielaborato da Boccaccio, nell’Introduzione alla prima giornata del Decameron (i due maiali) .

Dopo la lunga descrizione degli effetti sul mondo animale, il poeta delle Metamorfosi passa in rassegna i comportamenti umani. Il risultato è del tutto simile a quello dei resoconti precedenti, lasciata ogni speranza di salvezza, gli uomini si abbandonano ai loro istinti, trascurando tutto ciò che giova. La sofferenza accompagna tutte le persone della città, sia chi è contagiato sia chi non lo è, perché soffre per la sorte della sua famiglia. La similitudine della morte improvvisa con i dardi scagliati dal dio vi è anche in Ovidio: le persone cadono a terra senza preavviso tendendo le braccia al cielo.

Non c’è però solo uno scenario di dissolutezza, perché il male oscuro porta anche a ricercare la salvezza nella fede, tuttavia la morte colpisce anche chi è raccolto in preghiera davanti agli “altari impassibili”. Questo tema verrà ampliato da Boccaccio e Manzoni. Un ulteriore problema sollevato da Ovidio è ancora una volta quello dei funerali, il numero dei morti è così grande che non è possibile provvedere una degna sepoltura per tutti. Le pire ardono per tutta la città, ma non c’è spazio per i sepolcri e sufficiente non è la legna per accendere altri fuochi. Di fronte a tutto ciò il protagonista leva un’invocazione al padre degli dèi, l’unico che possa salvarlo, e riesce a strappargli un segno: un lampo e un tuono. Il temporale e la pioggia purificatrice sono l’altro tema che verrà utilizzato anche da Manzoni come rimedio per la peste.

Dira lues ira populis Iunonis iniquae Una peste tremenda, inflitta dall'ira di Giunone per l'astio incidit exosae dictas a paelice terras. che un luogo portasse il nome della rivale, si abbatté sul popolo. dum visum mortale malum tantaeque latebat Finché parve un male naturale e oscura ci fu la causa causa nocens cladis, pugnatum est arte medendi: che provocava quell'immane strage, si lottò con l'arte medica; exitium superabat opem, quae victa iacebat. ma il flagello prevalse su ogni cura, svilita dall'impotenza. principio caelum spissa caligine terras All'inizio una caligine densa calò sulla terra pressit et ignavos inclusit nubibus aestus; dal cielo, che in quella cappa di nubi concentrò un'afa spossante, dumque quater iunctis explevit cornibus orbem e per tutto il tempo che la luna impiegò a colmare quattro volte Luna, quater plenum tenuata retexuit orbem, il suo disco congiungendo le corna, e decrescendo ad intaccarlo, letiferis calidi spirarunt aestibus austri. con le sue folate mortali soffiò un Austro soffocante. constat et in fontis vitium venisse lacusque, Sappiamo che il contagio si propagò anche a fonti e laghi, miliaque incultos serpentum multa per agros e che migliaia di serpenti, errando per i campi desolati, errasse atque suis fluvios temerasse venenis. contaminarono l'acqua dei fiumi coi loro veleni. strage canum primo volucrumque oviumque boumque Fu con una strage di cani, uccelli, pecore, buoi e animali

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La peste nella letteratura – VI Ovidio e Tacito: la peste non risparmia nessuno

inque feris subiti deprensa potentia morbi. selvatici che all'improvviso il morbo mostrò la propria violenza. concidere infelix validos miratur arator Con sgomento, durante l'aratura, il contadino per disgrazia inter opus tauros medioque recumbere sulco; vede stramazzare e accasciarsi tra i solchi i tori più forti. lanigeris gregibus balatus dantibus aegros Alle greggi di pecore, che emettono lamentosi belati, sponte sua lanaeque cadunt et corpora tabent; la lana cade da sola e i corpi si riempiono di piaghe. acer equus quondam magnaeque in pulvere famae Il cavallo, un tempo famoso per il suo ardore nell'arena, degenerat palmas veterumque oblitus honorum si fa indegno di vittoria e, dimentico degli onori trascorsi, ad praesepe gemit leto moriturus inerti. geme nella sua stalla in attesa di una morte ingloriosa. non aper irasci meminit, non fidere cursu Il cinghiale non pensa più ad infuriarsi, la cerva a cercare cerva nec armentis incurrere fortibus ursi. scampo nella fuga, gli orsi ad aggredire lo stuolo degli armenti. omnia languor habet: silvisque agrisque viisque Tutto languisce: nei boschi, sui campi, per le strade corpora foeda iacent, vitiantur odoribus aurae. giacciono corpi in sfacelo; da miasmi fetidi è appestata l'aria. mira loquar: non illa canes avidaeque volucres, Ed è incredibile, neppure i cani, neppure gli uccelli ingordi non cani tetigere lupi; dilapsa liquescunt o i lupi grigi toccano quei corpi in decomposizione, adflatuque nocent et agunt contagia late. che con le loro esalazioni infette estendono l'epidemia. 'Pervenit ad miseros damno graviore colonos Poi, con effetti ancor più gravi e infami, la peste giunge a colpire pestis et in magnae dominatur moenibus urbis. i contadini e a imperversare fin tra le mura della città. viscera torrentur primo, flammaeque latentis Prima s'infiammano i visceri, e sintomo della fiamma che cova indicium rubor est et ductus anhelitus; igni è un rossore della pelle e l'affanno febbrile dell'alito; aspera lingua tumet, tepidisque arentia ventis la lingua si fa gonfia e rugosa, la bocca inaridita ora patent, auraeque graves captantur hiatu. si spalanca all'afa del vento e in gola entra quell'aria malsana. non stratum, non ulla pati velamina possunt, Non si tollera giaciglio, né veste quale sia; nuda sed in terra ponunt praecordia, nec fit ci si stende col ventre indolenzito sulla terra, e non è il suolo corpus humo gelidum, sed humus de corpore fervet. a rinfrescare il corpo, ma il corpo ad arroventare quello. nec moderator adest, inque ipsos saeva medentes Non c'è chi possa mitigare il male: il flagello scoppia spietato erumpit clades, obsuntque auctoribus artes; anche fra i medici, che rimangono vittime dell'arte loro. quo propior quisque est servitque fidelius aegro, Chi è più a contatto col malato e con più tenacia l'assiste, in partem leti citius venit, utque salutis più in fretta cade in braccio alla morte. Svanita ogni speranza spes abiit finemque vident in funere morbi, di guarire, accertato che l'esito del morbo sarà la morte, indulgent animis et nulla, quid utile, cura est: la gente si abbandona ai propri istinti, trascurando ciò che giova: utile enim nihil est. passim positoque pudore tanto, nulla può giovare. Lasciato ogni ritegno, gli uni e gli altri fontibus et fluviis puteisque capacibus haerent, si attaccano alle fonti, ai fiumi, ai pozzi più capaci, e a furia nec sitis est exstincta prius quam vita bibendo. di bere, la sete non si estingue che con la loro vita. inde graves multi nequeunt consurgere et ipsis Così molti, non riuscendo ad alzarsi per il peso, inmoriuntur aquis, aliquis tamen haurit et illas; muoiono annegati: eppure c'è chi continua a bere! tantaque sunt miseris invisi taedia lecti, Tanto insopportabile, fastidioso è il letto per quegli infelici, prosiliunt aut, si prohibent consistere vires, che ne balzano fuori o, se non hanno la forza d'alzarsi, corpora devolvunt in humum fugiuntque penates si rotolano giù per terra, e tutti fuggono, fuggono via quisque suos, sua cuique domus funesta videtur, di casa. A ognuno la propria dimora sembra foriera di lutti, et quia causa latet, locus est in crimine; partim ed essendo ignota la causa, s'incrimina l'angustia del luogo. semianimes errare viis, dum stare valebant, Avresti potuto vedere delle larve errare per le strade, adspiceres, flentes alios terraque iacentes finché si reggevano in piedi, ed altri piangere distesi a terra lassaque versantes supremo lumina motu; e stralunare gli occhi stanchi, con un estremo sussulto: membraque pendentis tendunt ad sidera caeli, tendevano le braccia verso gli astri del cielo opprimente, hic illic, ubi mors deprenderat, exhalantes. esalando l'anima là dov'erano sorpresi dalla morte. ‘Quid mihi tunc animi fuit? an, quod debuit esse, Quale emozione provai allora? E quale avrebbe dovuta essere, ut vitam odissem et cuperem pars esse meorum? se non l'odio per la vita e l'ansia di spartire la sorte loro? quo se cumque acies oculorum flexerat, illic Ovunque si volgessero gli occhi, c'erano a terra vulgus erat stratum, veluti cum putria motis corpi inanimati, come mele marce cadute poma cadunt ramis agitataque ilice glandes. quando si agitano i rami, o ghiande quando si scuote il leccio. templa vides contra gradibus sublimia longis: Vedi, là di fronte, in cima a quella lunga scalinata, quel tempio? Iuppiter illa tenet. quis non altaribus illis È dedicato a Giove. Chi, senza averne riscontro, non ha offerto inrita tura dedit? quotiens pro coniuge coniunx, incenso a quegli altari? Quante volte avvenne pro gnato genitor dum verba precantia dicit, che raccolto in preghiera, un uomo per la moglie, un padre non exoratis animam finivit in aris, per il figlio, spirasse davanti a quegli altari impassibili inque manu turis pars inconsumpta reperta est! e gli si trovasse in mano un po' d'incenso ancora da ardere! admoti quotiens templis, dum vota sacerdos Quante volte avvenne che, mentre il sacerdote pronunciava concipit et fundit durum inter cornua vinum, la formula di rito, spruzzando vino in mezzo alle corna, i tori haud exspectato ceciderunt vulnere tauri! condotti al tempio stramazzassero senza attendere il colpo! ipse ego sacra Iovi pro me patriaque tribusque Io stesso stavo sacrificando a Giove per me, per la mia patria cum facerem natis, mugitus victima diros e i miei tre figli, quando la vittima emise un tremendo muggito edidit et subito conlapsa sine ictibus ullis e si accasciò all'improvviso senza essere colpita, macchiando exiguo tinxit subiectos sanguine cultros. appena il coltello alla gola con qualche goccia di sangue. exta quoque aegra notas veri monitusque deorum Anche i tessuti infetti avevano perso le tracce che rivelano perdiderant: tristes penetrant ad viscera morbi. la volontà degli dei: nelle viscere s'era infiltrato il morbo. ante sacros vidi proiecta cadavera postes, Ho visto cadaveri abbandonati davanti alle porte sacre; ante ipsas, quo mors foret invidiosior, aras. proprio davanti agli altari, a rendere più odiosa ancora la morte, pars animam laqueo claudunt mortisque timorem v'è chi con un cappio tronca la sua vita e, scacciando con la morte morte fugant ultroque vocant venientia fata. il terrore di morire, affretta una fine che incombe spietata.

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La peste nella letteratura – VI Ovidio e Tacito: la peste non risparmia nessuno

corpora missa neci nullis de more feruntur I corpi dei defunti non sono inumati con le esequie funeribus (neque enim capiebant funera portae): di rito: troppo anguste sono le porte di città per quel numero; aut inhumata premunt terras aut dantur in altos o insepolti giacciono al suolo o senza onori vengono gettati indotata rogos; et iam reverentia nulla est, in cima ai roghi. Ormai non c'è rispetto che valga: la gente deque rogis pugnant alienisque ignibus ardent. si azzuffa per un rogo e brucia i propri morti tra le fiamme altrui. qui lacriment, desunt, indefletaeque vagantur Non c'è chi pianga; senza un conforto vagano le ombre natorumque patrumque animae iuvenumque senumque, di padri e figli, di giovani e vecchi: non c'è spazio nec locus in tumulos, nec sufficit arbor in ignes. per i sepolcri e sufficiente non è la legna per fare fuoco. Attonitus tanto miserarum turbine rerum, Sconvolto da un cumulo così immenso di calamità: "Iuppiter o!" dixi, "si te non falsa loquuntur "O Giove," gridai, "se non si tramanda il falso dicta sub amplexus Aeginae Asopidos isse, quando si dice che a Egina, la figlia di Asopo, ti sei unito, nec te, magne pater, nostri pudet esse parentem, se tu, padre degli dei, non ti vergogni d'essermi genitore, aut mihi redde meos aut me quoque conde sepulcro!" restituiscimi i miei o spedisci anche me nella tomba!". ille notam fulgore dedit tonitruque secundo. E lui con un lampo ed un tuono mi diede un segno di assenso. "accipio sintque ista precor felicia mentis "Ti sono debitore," dissi allora, "e m'auguro che ciò significhi signa tuae!" dixi, "quod das mihi, pigneror omen." la tua benevolenza. Questi presagi li considero un pegno".

In Ovidio dunque ci sono elementi di innovazione e modernità rispetto alla tradizione precedente: lo stesso si può dire di Tacito. Egli infatti è il primo a riconoscere imparzialità alla peste: essa colpisce indistintamente uomini e donne, ricchi e poveri, bambini e anziani. Prima di Tacito, gli eroi omerici non venivano colpiti da malattie, che decimavano invece solo i soldati semplici, anche Edipo non ha nulla da temere perché è stato scelto per una fine diversa. Ora invece non c’è più la “bella morte”, ma un disordine sociale e morale che rispecchia i frantumi di un’identità impaurita che non tollera lo scandalo della “cattiva morte”, mentre gli eventi diventano atti tragici del tramma collettivo dell’umanità. Tot facinoribus foedum annum etiam dii tempestatibus et morbis insignivere. vastata Campania turbine ventorum, qui villas arbusta fruges passim disiecit pertulitque violentiam ad vicina urbi; in qua omne mortalium genus vis pestilentiae depopulabatur, nulla caeli intemperie quae occurreret oculis. sed domus corporibus exanimis, itinera funeribus complebantur; non sexus, non aetas periculo vacua; servitia perinde et ingenua plebes raptim extingui, inter coniugum et liberorum lamenta, qui dum adsident, dum deflent, saepe eodem rogo cremabantur. equitum senatorumque interitus quamvis promisci minus flebiles erant, tamquam communi mortalitate saevitiam principis praevenirent. Gli dèi vollero che quell'anno, insozzato da tanti delitti, si segnalasse per violente tempeste e pestilenze. Fu devastata la Campania da una bufera di vento, che spazzò via ovunque ville, alberi, messi e portò la sua violenza fin nei pressi di Roma, nella quale la furia di un'epidemia seminava la morte tra persone d'ogni ceto, senza che fosse dato di scorgere alterazione alcuna nell'atmosfera. Le case si riempivano di corpi esanimi, le strade di funerali; il contagio non risparmiava né sesso né età; perivano di fulminea morte tanto schiavi che popolani liberi, fra i lamenti dei coniugi e dei figli che, mentre stanno loro vicino, mentre li piangono, vengono cremati sullo stesso rogo. Le morti di cavalieri e senatori, per quanto numerose, erano oggetto di compianto minore, quasi che, morendo di morte naturale, prevenissero la ferocia del principe.

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La peste nella letteratura – VII Boccaccio: meraviglia e mostruosità

VII Boccaccio: meraviglia e mostruosità

Completamente diverso è il rapporto tra Boccaccio e l’epidemia della Morte Nera del 1348, introdotto dall’autore nella Prima Giornata: la peste è l’occasione che ha permesso ai dieci giovani di incontrarsi. Solo avendo chiara la situazione straordinaria di orrore e disgregazione morale provocata dalla pestilenza si può capire il significato del progetto dei protagonisti: essi appartengono all’agiata borghesia cittadina. Andandosene da Firenze non intendono tanto evitare i rischi del contagio – non meno gravi nel contado che in città – quanto dimenticarlo e continuare a ispirare la loro vita a criteri di misura, ragionevolezza, decoro, onestà, in contrasto con la volgarità e la corruzione circostanti. Non ha senso infatti restare in città abbandonati alla violenza e alla desolazione quando la “natural ragione” suggerisce di “aiutare e conservare e difendere la propria vita”. Dunque meglio recarsi nel contado e qui vivere il più piacevolmente possibile senza però mai “trapassare in alcun atto il segno della ragione”.

Con queste premesse Boccaccio manifesta il suo fine artistico, basato sul meraviglioso, sul curioso, sull’osservazione esatta e realistica dei consumi. Lo spettacolo di sfacelo di ogni tessuto sociale e morale attrae il vivissimo interesse dell’autore prima di ogni altra considerazione di ordine etico o patetico. Tutto ciò è funzionale alla dimostrazione dell’onestà della brigata giovanile, che si sforza, fuggendo, di restare fedele ad un suo ideale di decoro e ragionevolezza.

Nelle prime righe questo intento artistico è chiaro, perchè Boccaccio non si pone nemmeno il problema dell’origine della peste, che è arrivata a Firenze “per operazion de’ corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio”. Poi nella sua descrizione del male compare la formula fissa dell’ignoranza “de’ medicanti” e della gente, che per la disperazione del contagio contratto ricorre a indovini, maghi e stregoni. Quest’ultimi hanno gioco facile ad arricchirsi a spese loro, puntando sulla paura della morte. Ciò avviene anche oggi quando si trae profitto dalla paura e dalla disperazione oltre che dall’ignoranza delle persone. E questo è un crimine davvero basso e vile.

L’altro elemento fisso della descrizione del comportamento umano è il disfacimento dei costumi e delle leggi: questa parte si riscontra praticamente invariata da Tucidide a Camus. Dico adunque che già erano gli anni della fruttifera incarnazione del Figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nella egregia città di Fiorenza, oltre a ogn'altra italica bellissima, pervenne la mortifera pestilenza: la quale, per operazion de' corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali, alquanti anni davanti nelle parti orientali incominciata, quelle d'inumerabile quantità de' viventi avendo private, senza ristare d'un luogo in uno altro continuandosi, verso l'Occidente miserabilmente s'era ampliata. E in quella non valendo alcuno senno né umano provedimento, per lo quale fu da molte immondizie purgata la città da oficiali sopra ciò ordinati e vietato l'entrarvi dentro a ciascuno infermo e molti consigli dati a conservazion della sanità, né ancora umili supplicazioni non una volta ma molte e in processioni ordinate, in altre guise a Dio fatte dalle divote persone, quasi nel principio della primavera dell'anno predetto orribilmente cominciò i suoi dolorosi effetti, e in miracolosa maniera, a dimostrare. E non come in Oriente aveva fatto, dove a chiunque usciva il sangue del naso era manifesto segno di inevitabile morte: ma nascevano nel cominciamento d'essa a' maschi e alle femine parimente o nella anguinaia o sotto le ditella certe enfiature, delle quali alcune crescevano come una comunal mela, altre come uno uovo, e alcune più e alcun' altre meno, le quali i volgari nominavan gavoccioli. E dalle due parti del corpo predette infra brieve spazio cominciò il già detto gavocciolo mortifero indifferentemente in ogni parte di quello a nascere e a venire: e da questo appresso s'incominciò la qualità della predetta infermità a permutare in macchie nere o

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La peste nella letteratura – VII Boccaccio: meraviglia e mostruosità

livide, le quali nelle braccia e per le cosce e in ciascuna altra parte del corpo apparivano a molti, a cui grandi e rade e a cui minute e spesse. E come il gavocciolo primieramente era stato e ancora era certissimo indizio di futura morte, così erano queste a ciascuno a cui venieno. A cura delle quali infermità né consiglio di medico né virtù di medicina alcuna pareva che valesse o facesse profitto: anzi, o che natura del malore nol patisse o che la ignoranza de' medicanti (de' quali, oltre al numero degli scienziati, così di femine come d'uomini senza avere alcuna dottrina di medicina avuta giammai, era il numero divenuto grandissimo) non conoscesse da che si movesse e per consequente debito argomento non vi prendesse, non solamente pochi ne guarivano, anzi quasi tutti infra 'l terzo giorno dalla apparizione de' sopra detti segni, chi più tosto e chi meno e i più senza alcuna febbre o altro accidente, morivano. E fu questa pestilenza di maggior forza per ciò che essa dagli infermi di quella per lo comunicare insieme s'avventava a' sani, non altramenti che faccia il fuoco alle cose secche o unte quando molto gli sono avvicinate. E più avanti ancora ebbe di male: ché non solamente il parlare e l'usare cogli infermi dava a' sani infermità o cagione di comune morte, ma ancora il toccare i panni o qualunque altra cosa da quegli infermi stata tocca o adoperata pareva seco quella cotale infermità nel toccator transportare. Maravigliosa cosa è da udire quello che io debbo dire: il che, se dagli occhi di molti e da' miei non fosse stato veduto, appena che io ardissi di crederlo, non che di scriverlo, quantunque da fededegna udito l'avessi. Dico che di tanta efficacia fu la qualità della pestilenzia narrata nello appiccarsi da uno a altro, che non solamente l'uomo all'uomo, ma questo, che è molto più, assai volte visibilmente fece, cioè che la cosa dell'uomo infermo stato, o morto di tale infermità, tocca da un altro animale fuori della spezie dell'uomo, non solamente della infermità il contaminasse ma quello infra brevissimo spazio uccidesse. Di che gli occhi miei, sì come poco davanti è detto, presero tra l'altre volte un dì così fatta esperienza: che, essendo gli stracci d'un povero uomo da tale infermità morto gittati nella via publica e avvenendosi a essi due porci, e quegli secondo il lor costume prima molto col grifo e poi co' denti presigli e scossiglisi alle guance, in piccola ora appresso, dopo alcuno avvolgimento, come se veleno avesser preso, amenduni sopra li mal tirati stracci morti caddero in terra. Dalle quali cose e da assai altre a queste simiglianti o maggiori nacquero diverse paure e immaginazioni in quegli che rimanevano vivi, e tutti quasi a un fine tiravano assai crudele era di schifare e di fuggire gl'infermi e le lor cose; e così faccendo, si credeva ciascuno medesimo salute acquistare. E erano alcuni, li quali avvisavano che il viver moderatamente e il guardarsi da ogni superfluità avesse molto a così fatto accidente resistere; e fatta brigata, da ogni altro separati viveano, e in quelle case ricogliendosi e racchiudendosi, dove niuno infermo fosse e da viver meglio, dilicatissimi cibi e ottimi vini temperatissimamente usando e ogni lussuria fuggendo, senza lasciarsi parlare a alcuno o volere di fuori di morte o d'infermi alcuna novella sentire, con suoni e con quegli piaceri che aver poteano si dimovano. Altri, in contraria oppinion tratti, affermavano il bere assai e il godere e l'andar cantando attorno e sollazzando e il sodisfare d'ogni cosa all'appetito che si potesse e di ciò che avveniva ridersi e beffarsi esser medicina certissima a tanto male; e così come il dicevano mettevano in opera a lor potere, il giorno e la notte ora a quella taverna ora a quella altra andando, bevendo senza modo e senza misura, e molto più ciò per l'altrui case faccendo, solamente che cose vi sentissero che lor venissero a grado o in piacere E ciò potevan far di leggiere, per ciò che ciascun, quasi non più viver dovesse, aveva, sì come se', le sue cose messe in abbandono; di che le più delle case erano divenute comuni, e così l'usava lo straniere, pure che ad esse s'avvenisse, come l'avrebbe il proprio signore usate; e con tutto questo proponimento bestiale sempre gl'infermi fuggivano a lor potere. E in tanta afflizione e miseria della nostra città era la reverenda autorità delle leggi, così divine come umane, quasi caduta e dissoluta tutta per li ministri e esecutori di quelle, li quali, sì come gli altri uomini, erano tutti o morti o infermi o sì di famigli rimasi stremi, che uficio alcuno non potean fare; per la qual cosa era a ciascun licito quanto a grado gli era d'adoperare. Molti altri servavano, tra questi due di sopra detti, una mezzana via, non strignendosi nelle vivande quanto i primi né nel bere e nell'altre dissoluzioni allargandosi quanto i secondi, ma a sofficienza secondo gli appetiti le cose usavano e senza rinchiudersi andavano a torno, portando nelle mani chi fiori, chi erbe odorifere e chi diverse maniere di spezierie, quelle al naso ponendosi spesso, estimando essere ottima cosa il cerebro con cotali odori confortare, con ciò fosse cosa che l'aere tutto paresse dal puzzo de' morti corpi e delle infermità e delle medicine compreso e puzzolente. Alcuni erano di più crudel sentimento, come che per avventura più fosse sicuro, dicendo niuna altra medicina essere contro alle pestilenze migliore né così buona come il fuggir loro davanti; e da questo argomento mossi, non curando d'alcuna cosa se non di se' , assai e uomini e donne abbandonarono la propia città, le propie case, i lor luoghi e i lor parenti e le lor cose, e cercarono l'altrui o almeno il lor contado, quasi l'ira di Dio a punire le iniquità degli uomini con quella pestilenza non dove fossero procedesse, ma solamente a coloro opprimere li quali dentro alle mura della lor città si trovassero, commossa intendesse; o quasi avvisando niuna persona in quella dover rimanere e la sua ultima ora esser venuta. E come che questi così variamente oppinanti non morissero tutti, non per ciò tutti campavano: anzi, infermandone di ciascuna molti e in ogni luogo, avendo essi stessi, quando sani erano, essemplo dato a coloro che sani rimanevano, quasi abbandonati per tutto languieno. E lasciamo stare che l'uno cittadino l'altro schifasse e quasi niuno vicino avesse dell'altro cura e i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano: era con sì fatto spavento questa tribulazione entrata né petti degli uomini e delle

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La peste nella letteratura – VII Boccaccio: meraviglia e mostruosità

donne, che l'un fratello l'altro abbandonava e il zio il nipote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito; e (che maggior cosa è e quasi non credibile), li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano. Per la qual cosa a coloro, de' quali era la moltitudine inestimabile, e maschi e femine, che infermavano, niuno altro sussidio rimase che o la carità degli amici (e di questi fur pochi) o l'avarizia de' serventi, li quali da grossi salari e sconvenevoli tratti servieno, quantunque per tutto ciò molti non fossero divenuti: e quelli cotanti erano uomini o femine di grosso ingegno, e i più di tali servigi non usati, li qual niuna altra cosa servieno che di porgere alcune cose dagl'infermi addomandate o di riguardare quando morieno; e, servendo in tal servigio, se molte volte col guadagno perdeano. E da questo essere abbandonati gli infermi da' vicini, da' parenti e dagli amici e avere scarsità di serventi, discorse uno uso quasi davanti mai non udito: che niuna, quantunque leggiadra o bella o gentil donna fosse, infermando, non curava d'avere a' suoi servigi uomo, egli si fosse o giovane o altro, e a lui senza alcuna vergogna ogni parte del corpo aprire non altrimenti che a una femina avrebbe fatto, solo che la necessità della sua infermità il richiedesse; il che, in quelle che ne guerirono, fu forse di minore onestà, nel tempo che succedette, cagione. E oltre a questo ne seguio la morte di molti che per avventura, se stati fossero atati , campati sarieno; di che, tra per lo difetto degli opportuni servigi, li quali gl'infermi aver non poteano, e per la forza della pestilenza, era tanta nella città la moltitudine che di dì e di notte morieno, che uno stupore era a udir dire, non che a riguardarlo. Per che, quasi di necessità, cose contrarie a' primi costumi de' cittadini nacquero tra quali rimanean vivi. […] E acciò che dietro a ogni particularità le nostre passate miserie per la città avvenute più ricercando non vada, dico che, così inimico tempo correndo per quella, non per ciò meno d' alcuna cosa risparmiò il circustante contado, nel quale, (lasciando star le castella, che erano nella loro piccolezza alla città) per le sparte ville e per li campi i lavoratori miseri e poveri e le loro famiglie, senza alcuna fatica di medico o aiuto di servidore, per le vie e per li loro colti e per le case, di dì e di notte indifferentemente, non come uomini ma quasi come bestie morieno. Per la qual cosa essi, così nelli loro costumi come i cittadini divenuti lascivi, di niuna lor cosa o faccenda curavano; anzi tutti, quasi quel giorno nel quale si vedevano esser venuti la morte aspettassero, non d'aiutare i futuri frutti delle bestie e delle terre e delle loro passate fatiche, ma di consumare quegli che si trovavano presenti si sforzavano con ogni ingegno. Per che adivenne i buoi, gli asini, le pecore, le capre, i porci, i polli e i cani medesimi fedelissimi agli uomini, fuori delle proprie case cacciati, per li campi (dove ancora le biade abbandonate erano, senza essere, non che raccolte ma pur segate) come meglio piaceva loro se n'andavano. E molti, quasi come razionali , poi che pasciuti erano bene il giorno, la notte alle lor case senza alcuno correggimento di pastore si tornavano satolli. Che più si può dire (lasciando stare il contado e alla città ritornando) se non che tanta e tal fu la crudeltà del cielo, e forse in parte quella degli uomini, che infra 'l marzo e il prossimo luglio vegnente, tra per la forza della pestifera infermità e per l'esser molti infermi mal serviti o abbandonati né lor bisogni per la paura ch'aveono i sani, oltre a centomilia creature umane si crede per certo dentro alle mura della città di Firenze essere stati di vita tolti, che forse, anzi l'accidente mortifero, non si saria estimato tanti avervene dentro avuti? 0 quanti gran palagi, quante belle case, quanti nobili abituri per adietro di famiglie pieni, di signori e di donne, infino al menomo fante rimaser voti! O quante memorabili schiatte, quante ampissime eredità, quante famose ricchezze si videro senza successor debito rimanere! Quanti valorosi uomini, quante belle donne, quanti leggiadri giovani, li quali non che altri, ma Galieno, Ipocrate o Esculapio avrieno giudicati sanissimi, la mattina desinarono co' lor parenti, compagni e amici, che poi la sera vegnente appresso nell'altro mondo cenaron con li lor passati!

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La peste nella letteratura – VIII Manzoni: tra untori, romanzo e storia

VIII Manzoni: tra untori, romanzo e storia La peste narrata da Manzoni è quella più complessa e ricca di interpretazioni simboliche. Egli vuole descrivere da una parte i sintomi della peste che colpì la Lombardia nel 1630, dall’altra vuole fare chiarezza sulle dicerie, sulle superstizioni, i processi agli untori, dall’altra ancora non trascura di procedere con l’intreccio del suo romanzo pur sollevando notevoli questioni teologiche. Le domande che pone restano insolute, altre trovano risposte, per esempio in Camus. I capitoli XXXI e XXXII vogliono essere i capitoli storici della trattazione della peste a Milano. Del loro carattere storiografico e non romanzesco, l’autore ha piena consapevolezza. Infatti dichiara all’inizio del capitolo che intende ricostruire storicamente gli eventi più rigorosamente dei suoi predecessori, tutti lacunosi e privi di spirito scientifico. Questa importanza data alla storia non deve stupire, essendo del tutto coerente con la poetica dell’autore, il quale preferisce alla letteratura d’invenzione quella basata sulla storia e tende a vedere il compito dello scrittore subordinato alla sua capacità di rendere l’intreccio fra vero storico e morale. Così l’accertamento dei fatti si accompagna a una critica incessante degli errori umani dovuti a superstizione, pigrizia e irrazionalità. La sua è un’amara riflessione, ora pietosa e malinconica, ora sarcastica e sferzante, sugli errori delle autorità e sulle illusioni del popolo: sia i capi che le masse sembrano vivere in un delirio che non consente loro di rendersi conto della realtà e li induce invece alle illusioni, facili consolazioni. Il regno della peste finisce così con l’essere quello del caos e del disordine, ben personificato dagli orribili monatti che penetrano nelle case altrui, minacciano, ricattano, rubano, estorcono. D’altronde nei momenti di calamità emergono le doti positive dei pochi che si sacrificano per la collettività, ma ancor di più si affermano quelle negative della gran massa. Proprio la deresponsabilizzazione provocata dalla pestilenza terrorizza Manzoni, che vi vede la rottura dei freni inibitori, la prevalenza del male sul bene, la conferma del fondo malvagio e selvaggio della natura umana. L’uomo può salvarsi solo con il senso di responsabilità e la sublimazione razionale e religiosa. E’ naturale che a sacrificarsi allora per gli altri siano gli uomini di chiesa (i parroci di Milano e i cappuccini del lazzaretto, il cardinale Borromeo). Scrive infatti anche Martin Lutero: Pestis. Cum quidam diceret duos praedicatores Naunburgae peste absumptos esse, interrogabat quidam, an etiam ecclesiastes, qui tantum esset conductus ad praedicandum, posset hominibus aegrotis denegare suam

operam tempore pestis? Respondit: Non! Bei leib nein! E| mussen die prediger nicht allzu sehr flihen, damitt sie da| volck nicht zu furchtsam machen. Und da| man bisweilen sagt, man soll der pfarner und die prediger vorschonen und sie tempore pestis nicht so sehr beladen, geschicht darumb, da|, wo je die pestilenz ihe die cappellan ein| teil| hinweg nem, da| man andere hett, qui

visitarent aegrotos; item da| nicht iderman zu solchen zeiten die briester scheuet, wie man sihet, da| niemand zu in will, und iderman fleucht sie. Darumb wer e| wol fein, da| man nicht alle damitt belude, sondern einen oder zwen und dieselbigen in die schanz schlug. Wenn mich da| lo| treffe, wolt ich mich nicht| furchten. Ich bin nun drei pestilenz au|gestanden, bin auch bei ettlichen gewest, die sie ausgestanden und gehabt, al| Schadewald, der hatt er zwo, die begriff ich alwol, abr e| hat mir nicht| geschadt, Gott lob! Ich kam noch desselbige mal einheim und grieff meiner Margarethen, die da zur zeit noch klein wa|, umb da| maul mitt ungewaschenen henden; abr ich hatt| warlich vorgessen, sonst hett ich| auch nicht gethan, denn e| wer Gott versucht.

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La peste nella letteratura – VIII Manzoni: tra untori, romanzo e storia

Invece la follia della gente addossava tutta la colpa del contagio agli untori: Il “venefizio”: ecco l’ultimo topos che i testi ci trasmettono, ultima rappresentazione delirante di un viaggio senza ritorno nella indecifrabilità del Male, estremo tentativo di dare un volto al nemico comune. Assuefattisi allo spettacolo delle violenze, delle sofferenze, del patetico e della decomposizione, registrata la vanità delle spiegazioni “naturali”, esaurite le preghiere e le penitenze, agli uomini non resta altro che far proprio l’ultimo fantasma dell’inconscio collettivo: l’untore, lo straniero venuto ad avvelenare la città, la vita stessa. Gli stessi uomini di cultura credono a questa possibilità, lo stesso Federigo Borromeo scrive (De pestilentia): … si diffuse tra il volgo una certa convinzione che coloro che esercitavano l’impegnativa arte di ungere, mescolassero agli unguenti anche accordi pattuiti con i Demoni, e che gli stessi unguenti risultassero composti di veleni oltre al veleno vero e proprio della peste. Dicevano che dagli stessi erano ricercati e raccolti rospi e serpenti [cfr. Lucrezio e Ovidio]: tali bestie venivano fatte cuocere e mescolate con il marcio che usciva dalle ulcere dei corpi affetti da peste. In tal modo triplice era stata per loro la via per portare strage: con l’aiuto cioè dei Demoni, per mezzo dei veleni e per mezzo della peste stessa. Che tutto ciò sia potuto accadere sono portato a crederlo; infatti sia i tossici che le pozioni magiche sono in grado di annientare la vita e nota è la natura della peste. Anche Ripamonti descrive le sostanze usate dagli untori: …anche noi andammo a vedere. C’erano macchie che sgocciolavano di qua e di là in modo disuguale, come se qualcuno avesse spruzzato il sudicio marciume con una spugna, appiccicandolo ai muri: e si vedevano qua e là anche le porte delle case e gli ingressi contaminati con la medesima sostanza. Questo delirio porta a scene terribili che ci narra Manzoni: Nella chiesa di sant'Antonio, un giorno di non so quale solennità, un vecchio più che ottuagenario, dopo aver pregato alquanto inginocchioni, volle mettersi a sedere; e prima, con la cappa, spolverò la panca. - Quel vecchio unge le panche! - gridarono a una voce alcune donne che vider l'atto. La gente che si trovava in chiesa (in chiesa!), fu addosso al vecchio; lo prendon per i capelli, bianchi com'erano; lo carican di pugni e di calci; parte lo tirano, parte lo spingon fuori; se non lo finirono, fu per istrascinarlo, così semivivo, alla prigione, ai giudici, alle torture. " Io lo vidi mentre lo strascinavan così, - dice il Ripamonti: - e non ne seppi più altro: credo bene che non abbia potuto sopravvivere più di qualche momento ". Tuttavia questi non sono i soli comportamenti della gente colpita dalla peste, Manzoni riporta anche episodi umani e poetici o esempi di morale cattolica che si afferma come suprema dignità di fronte alla morte. La madre di Cecilia rappresenta non solo i valori religiosi, ma anche quelli civili: ella riesce a restaurare il senso del sacro trasformando in rito e in forma, e cioè in un atto di civiltà e di pietà religiosa, la consegna del cadavere della figlioletta. Dalla cura con la quale ha pettinato e vestito la figlia, quasi per una festa rituale, emerge la resistenza dei valori religiosi e civili. Dai suoi movimenti spirano una nobiltà e una dignità che sono il risultato del sentimento cristiano e del controllo razionale e che riescono a vincere per un attimo anche la bestiale arroganza dei monatti. Scendeva dalla soglia d'uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d'averne sparse tante; c'era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un'anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne' cuori. Portava essa in collo una bambina di forse nov'anni, morta; ma tutta ben accomodata, co' capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l'avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una

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La peste nella letteratura – VIII Manzoni: tra untori, romanzo e storia

parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull'omero della madre, con un abbandono più forte del sonno: della madre, ché, se anche la somiglianza de' volti non n'avesse fatto fede, l'avrebbe detto chiaramente quello de' due ch'esprimeva ancora un sentimento. Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d'insolito rispetto, con un'esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo, - no! - disse: - non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete -. Così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi continuò: - promettetemi di non levarle un filo d'intorno, né di lasciar che altri ardisca di farlo, e di metterla sotto terra così. Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, più per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato, che per l'inaspettata ricompensa, s'affaccendò a far un po' di posto sul carro per la morticina. La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come sur un letto, ce l'accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l'ultime parole: - addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi; ch'io pregherò per te e per gli altri -. Poi voltatasi di nuovo al monatto, - voi, - disse, - passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola.

Alla fine la peste viene portata via dalla pioggia purificatrice (capitolo XXXVII) che lava Renzo dal sudiciume infetto in cui si è immerso per un’intera giornata, e nello stesso tempo sembra simbolicamente purificarlo rendendolo disponibile a una nuova vita. In questa prospettiva la peste e la pioggia che le pone fine rappresentano indubbiamente una prova e una speranza volute da Dio, ma il loro senso ultimo non può che sfuggire alla mente umana. Appena infatti ebbe Renzo passata la soglia del lazzeretto e preso a diritta, per ritrovar la viottola di dov'era sboccato la mattina sotto le mura, principiò come una grandine di goccioloni radi e impetuosi, che, battendo e risaltando sulla strada bianca e arida, sollevavano un minuto polverìo; in un momento, diventaron fitti; e prima che arrivasse alla viottola, la veniva giù a secchie. Renzo, in vece d'inquietarsene, ci sguazzava dentro, se la godeva in quella rinfrescata, in quel susurrìo, in quel brulichìo dell'erbe e delle foglie, tremolanti, gocciolanti, rinverdite, lustre; metteva certi respironi larghi e pieni; e in quel risolvimento della natura sentiva come più liberamente e più vivamente quello che s'era fatto nel suo destino. Come dal male possa nascere il bene e da questo quello, resta un enigma. Alle domande: perché la peste? Perché la morte di Cecilia? Perché la vigna inselvatichita? La fede può dare una risposta rinviando alla volontà di Dio; ma la ragione umana non può trovare invece cause certe e scopi definiti. Nella storia, certo, agisce la Provvidenza, ma in modi enigmatici, imperscrutabili: il male prodotto dall’uomo può spesso essere evitato, ma il male naturale, la peste? Si tratta forse di una punizione divina della malvagità umana? E se sì, perché non colpisce solo don Rodrigo, ma anche fra Cristoforo? Domande che indubbiamente Manzoni si pone, ma che restano senza risposta (così anche negli “Inni sacri”). La Provvidenza agisce sì nella storia ma non ne indirizza il senso in modo chiaro e univoco, non la converte in “progresso”, in sviluppo civile, in un percorso rettilineo che assorbe in sé l’errore e il negativo per tramutarli in condizioni di nuovo progredire, come ritenevano Hegel e gli storicismi. Manzoni resta sempre antistoricista. La morale angusta di don Abbondio, che interpreta la peste come “provvidenza” perché ha agito da “scopa” spazzando via i malvagi come don Rodrigo è solo una morale utilitaria e di piccolo cabotaggio. Né è meno angusta quella di Renzo che più volte nel corso del romanzo, e anche alla fine, interpreta la Provvidenza come realizzazione dei propri desideri o della propria formazione personale. La teologia di Manzoni non è certo quella di don Abbondio, e neppure quella di Renzo. La fiducia in Dio serve per rendere il dolore più sopportabile e magari utile per la salvezza dell’anima. Si tratta di una conclusione nient’affatto idillica, ma anche il romanzo, nonostante l’apparenza scontatamente bonaria, ha una fine problematica e tutt’altro che tranquillizzante.

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La peste nella letteratura – IX Defoe: una cronaca da Londra

IX Defoe: una cronaca da Londra Daniel Defoe scrisse un resoconto storico, del tutto simile a quello di Manzoni, dell’epidemia di peste che sconvolse la City di Londra e i borghi delle vicinanze. Il suo intento è di affiancare al vero poetico anche il vero storico: inserisce infatti i bollettini medici che indicavano i decessi dovuti al “morbo funesto” e in parte li accoglie, in parte li critica come inesatti o addirittura falsati. Una reticenza, un mascherare il nemico, che dai bollettini di Sanità e dai dispacci ufficiali si trasmette ai cronisti, agli storici, ai predicatori, ai medici e agli artisti stessi. Così, i testi parlano di “piaghe”, in dichiarata analogia con quelle bibliche che punirono l’Egitto ma con un malcelato richiamo ai corpi enfiati e piagati che ammorbano la città appestata; di “nubi divoratrici” che, spostandosi da una contrada all’altra, seminano la morte al loro passaggio, emblematici messaggeri di quegli astri che, congiungendosi o opponendosi, provocano il sorgere del mortale contagio; di incendi, di “pioggia di frecce”, quando ad accendere la scintilla della mortalità non è il lugubre cavaliere dell’Apocalisse, il “nemico formidabile”, la “fiera crudele”: “ ... Stette questa fiera crudele serrata fuori della Città per molti giorni, quasi legata et sequestrata, ma alla fine tamquam leo rugiens, qui circuit querens quem devoret, entrò per permissione divina [...] et fece a guisa di rabioso e mordente cane [...] Così a punto fece questo non cane ma arabiata tigre ... “ [Giovan Pietro Trevi, Historia della Peste, et febbri pestilentiali ..., Novara, 1630]. Le metafore dell’incendio e della pioggia di frecce sono indubbiamente le più diffuse e meriterebbero una trattazione a parte, non fosse altro che per la fortuna iconografica che hanno avuto e per l’attivazione di particolari riconoscimenti a santi o sante (come San Sebastiano e Santa Barbara) obliati o relegati in secondo piano dalla Chiesa. Basti qui annotare che laddove il fuoco si presta analogicamente a rappresentare la furia del pestifero contagio (come attesta, tra l’altro, lo slittamento semantico per il quale anche il morbo “s’appicca” e “s’avventa”): “ ... E fu questa pestilentia di maggior forza perciò che essa dagl’infermi di quella per lo comunicare insieme s’aventava a’ sani, non altramenti che faccia il fuoco alle cose secche o unte quando molto gli sono avvicinate ... “ [Giovanni Boccaccio, Decamerone, Introduzione]; “ ... parea che Milano in poco tempo, essendo così fieramente accesa, si avesse a consumare nell’incendio di essa ... “ [San Carlo Borromeo, Memoriale ai Milanesi, Milano, 1565]; “ ... La pestilenza è come un grande incendio [ ... ] se s’appicca a una città costruita con le abitazioni l’una vicina all’altra e si sviluppa, il suo furore cresce, infuria per tutta la zona, e distrugge tutto quello che può raggiungere ... “ [Daniel Defoe, La peste di Londra]. La pioggia di frecce convoglia tanto l’idea della punizione divina, così cara ai predicatori, quanto quella della subitaneità subdola del morbo, a cui nessuno - giovane o vecchio, ricco o povero - può sfuggire. In questo caso il modello letterario è da ricercarsi nel noto passo del canto I dell’Iliade, mediato in chiave cristiana da un episodio della Legenda Aurea di Jacopo da Varagine in cui a San Domenico appare la visione di Cristo armato di tre lance in atto di colpire l’umanità colpevole. Ed è un tema, questo della punizione divina che cade dall’alto, che domina ossessivamente l’iconologia devozionale e che ci rimanda, sul piano meramente iconografico, a quei Trionfi della Morte (sempre più diffusi proprio a partire dal 1348) in cui uno scheletro ghignante scocca i suoi strali mortali su uomini e donne di ogni età e di ogni condizione sociale. Se si confronta, dunque, il ricco materiale iconografico con quello letterario ci si rende conto immediatamente che ciò che maggiormente colpisce gli spettatori/attori della peste è la repentinità dell’attacco del morbo, il suo colpire, attaccarsi a tutti e a tutto, il suo

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La peste nella letteratura – IX Defoe: una cronaca da Londra

distruggere in pochi istanti l’ordito rassicurante delle relazioni sociali. La peste, dunque, nell’immaginario collettivo, è soprattutto questo: una presenza misteriosa e sfuggente che si annida nelle coperte, negli abiti o persino in un fiore, nei semplici oggetti di una quotidianità che si palesa all’improvviso, senza ragione alcuna, insidioso strumento di desolazione e di morte. Si muore per una camicia rubata, per un bucato della vicina sottratto agli avidi commissari di Sanità, per aver nascosto la balla di seta indispensabile a garantire la sopravvivenza o per aver curato in casa il parente o l’amico che non si vuole abbandonare all’inferno senza speranza del lazzaretto. Si muore per quelli che sono i consueti gesti che scandiscono i rapporti sociali, di vicinato, ma si muore anche perché, folli di paura, ci si abbandona disperati alla frenetica bramosia di vivere. Il personaggio a cui Defoe affida la sua ricostruzione storica e statistica (la città divisa in quartieri, distretti, parrocchie) è il protagonista del romanzo, H. F. un mastro sellaio. Egli si aggira silenzioso, a volte quasi spaesato, in una città che non riconosce più, registrando mentalmente gli avvenimenti che vede. Il suo comportamento è diverso da quello del resto dei cittadini: non teme il contagio, come credente si sente nelle mani di Dio e questo gli basta per non rimanere chiuso in casa o fuggire in campagna come la Corte d’Inghilterra, i nobili o i ricchi. Pensava di seguire, come i musulmani, l’abitudine di ritenere tutto predestinato, sicchè la conseguenza era che i mercanti turchi e arabi frequentavano i luoghi infetti e trattavano con le persone appestate senza la minima preoccupazione, mentre quelli cristiani, che sapevano guardarsi, sfuggivano quasi sempre il contagio. Nei suoi momenti di massimo sconforto si ferma a pregare recitando dal Salmo 91: “Il Signore è il mio ricetto e la mia fortuna, Egli ti riscoterà dal laccio dell’uccellatore, dalla pestilenza mortifera”. Il resto della popolazione non confidava più in Dio, ma temeva gli effetti che avrebbero avuto le due comete che passarono nel 1664 sulla città: una lenta, l’altra veloce e fiammeggiante. Non mancarono quindi le interpretazioni che prevedevano una lunga epidemia seguita da un violento incendio. Queste peraltro si verificarono puntualmente entro la fine dell’anno. Ma la peste da una parte indurì il cuore di alcuni uomini, che pur in mezzo a quella catastrofe, commisero furti, saccheggi e atti di dissoluta sfrenatezza, dall’altra indusse ladri ed assassini a fare confessione dei loro crimini ad alta voce, senza che nessuno osasse avvicinarglisi e confortarli. La peste era imparziale e come la morte non prediligeva ricchi o poveri: avviluppati in tappeti o lenzuoli, quando i corpi venivano precipitati nella gran fossa comune, erano tutti nudi o seminudi e non c’era più differenza tra loro. Per quanto concerne l’origine dell’epidemia, per Defoe era stata la mano di Dio a mandarla e solo essa era in grado di fermarla: la medicina era impotente dinanzi al contagio e questo fece perdere agli uomini ogni speranza, tanto che uno diceva all’altro: “A che scopo dovrei chiederti se sei malato o sano? Tanto dovremo andarcene tutti”. Many consciences were awakened; many hard hearts melted into tears; many a penitent confession was made of crimes long concealed. It would wound the soul of any Christian to have heard the dying groans of many a despairing creature, and none durst come near to comfort them. Many a robbery, many a murder, was then confessed aloud, and nobody surviving to record the accounts of it. People might be heard, even into the streets as we passed along, calling upon God for mercy through Jesus Christ, and saying. "I have been a thief" , "I have been an adulterer" , "I have been a murderer" , and the like, and none durst stop to make the least inquiry into such things or to administer comfort to the poor creatures that in the anguish both of soul and body thus cried out. Some of the ministers did visit the sick at first and for a little while, but it was not to be done. It would have been present death to have gone into some houses. Molte coscienze si svegliarono, molti cuori ch’eran di pietra ruppero in lacrime, e si ebbero numerose confessioni di delitti rimasti a lungo celati. Era terribile udire i gemiti di tante e tante creature disperate e vedere che nessuno osava avvicinarsi loro a confortarli. Ladri e assassini facevano confessione dei loro crimini ad alta voce e non c’era nessuno che tale confessione raccogliesse. Si udiva, passando per le strade, invocar la misericordia divina e gridare “ho rubato”, oppure “ho commesso adulterio”, oppure “ho ucciso”, e nessuno osava fermarsi ed entrare nelle case per amministrare qualche conforto a quei disgraziati che in tal modo gridavano tra l’angoscia del corpo e dell’anima. Nei primi tempi v’erano dei sacerdoti che visitavano i malati, poi non ve ne furono più. Significava morte sicura entrare in certe case infette…

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La peste nella letteratura – X Camus: il Male Assoluto

X Camus: il Male Assoluto Fino a questo momento abbiamo visto che della peste si prendono in considerazione soltanto gli effetti “esterni” che essa provoca sulla società e sul comportamento umano. Nessuno degli autori trattati finora ha focalizzato la sua attenzione su che cosa succeda “dentro” l’uomo che vive la peste. Questo forse si spiega in parte perché non erano state scoperte le teorie psicanalitiche di Freud del XX secolo, né il mondo aveva visto due guerre mondiali e il nazismo. Infatti la lettura della peste secondo Camus (1947) è diversa dalle precedenti, egli si pone il problema del male assoluto: la peste è allora un’allegoria della guerra e del nazismo, come sconvolgimento di ogni legge e di ogni morale. L’avvenimento nasconde sotto una dimensione allegorica non solo la lotta contro il nazismo, ma anche contro tutte le calamità e oppressioni. La peste mette in evidenza la fragilità della condizione umana, l’unica via di scampo – per Camus – può essere rappresentata dalla solidarietà che unisce gli uomini. Ma non la vita in opposizione alla morte rappresentata dalla peste, no, la vita durante la peste, ancora più che la vita nonostante la peste. La malattia aleggia nella città, pervade la mente del lettore, lo ossessiona ma, quantitativamente, è presente di rado nell’opera in maniera concreta. Quello che importa a Camus è la vita, anche nelle sue manifestazioni più squallide, nelle sue forme più alienate, nelle sue sfaccettature più tragiche; non importa. La vita che, in quanto tale, è anche il confronto con la peste, il male assoluto e indecifrabile. E infatti quando la peste passa e la città ritorna a vivere secondo il modello tradizionale, un velo di tristezza e incompletezza assale il lettore e, allo stesso modo, il protagonista. Forse che la peste in qualche modo completasse la vita? O forse fosse il solo parametro negativo in grado di dare un senso positivo all’esistenza umana? Il taglio che ne emerge è attento alla psiche dei vari personaggi protagonisti del romanzo. Gli abitanti di Orano tentano di compensare le difficoltà dell’isolamento, abbandonandosi ai piaceri materiali. Padre Paneloux indica la peste come lo strumento della punizione divina e chiama i suoi fedeli a meditare su questa punizione mandata ad uomini privi di qualsiasi spirito di carità. La forza pubblica è obbligata a reprimere rivolte e saccheggi. L’agonia di un bambino, figlio del giudice Othon e le sofferenze provate dal piccolo innocente scuotono nell’intimo Rieux e minano le certezze di Padre Paneloux. All’alba di una bella mattina di febbraio, le porte della città si riaprono infine. Gli abitanti, assaporano finalmente di nuovo il gusto della libertà ma non dimenticano la terribile prova “che li ha messi di fronte all’assurdità della loro esistenza ed alla precarietà della condizione umana”. Sanno che il virus della peste può ritornare un giorno e chiamano alla vigilanza. Cambiano le persone, sotto un flagello inarrestabile come la guerra o la peste, e Camus ne mette in scena i tipi con una leggerezza ed una misura forse dovuti proprio alla guerra appena passata. Ci sono quelli che si danno da fare per combattere il flagello, senza risparmiarsi (Rieux, Tarrou, Othon), quelli che si chiudono in casa o cercano di scappare (molti dei cittadini di Orano), quelli che approfittano per arricchirsi (Cottard), quelli che accettano con la cecità bigotta della fede il flagello (Paneloux); quelli che si sentono a poco a poco sempre più coinvolti e consapevoli, e prima cercano di scappare e poi si uniscono alla lotta. E c’è la morte quotidianamente presente che tutto cambia, che lascia il segno anche quando l’epidemia è finita e si ritrovano i famigliari e gli amici dispersi; la morte inattesa e collettiva che non è mai debellata del tutto (“Il microbo della peste non muore mai”, fa dire Camus al suo narratore, “e può restare dormiente per decenni, ma non scompare”: la guerra potrà tornare, fuor d’allegoria).

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La peste nella letteratura – X Camus: il Male Assoluto

Il dottore guardava sempre dalla finestra. Da una parte del vetro il fresco cielo primaverile e dall'altra la parola che ancora risuonava nella stanza: la peste. La parola non conteneva soltanto quello che la scienza ci voleva mettere, ma anche una lunga serie d'immagini straordinarie che mal si accordavano con quella città gialla e grigia, moderatamente animata a quell'ora, ronzante piuttosto che rumorosa, felice insomma, se è possibile essere insieme felici e tetri. E una tranquillità sì pacifica e indifferente negava quasi senza sforzo le vecchie immagini del flagello, Atene contagiata e disertata dagli uccelli, le città cinesi piene di moribondi silenziosi, gli ergastolani di Marsiglia che accatastavano nelle buche i corpi grondanti, la costruzione in Provenza d'un gran muro che doveva fermare il vento furioso della peste, Giaffa e i suoi orribili mendicanti, i letti umidi e putridi stesi sulla terra battuta dell'ospedale di Costantinopoli, i malati trascinati con gli uncini, il carnevale dei medici mascherati durante la peste nera, gli accoppiamenti dei vivi nei cimiteri di Milano, le carrette di morti in Londra atterrita, e le notti e i giorni pieni dappertutto e sempre dell'interminabile grido degli uomini. No, questo non era ancora sì forte da uccidere la pace di quella giornata. Dall'altra parte del vetro, la campana d'un tram invisibile respingeva in un attimo la crudeltà e il dolore. Soltanto il mare, oltre la cupa scacchiera dei caseggiati, testimoniava di quello che vi è d'inquietante e di mai stabile nel mondo. E il dottor Rieux, guardando il golfo, pensava ai roghi di cui parla Lucrezio, innalzati davanti al mare dagli Ateniesi, ai tempi del morbo. Vi si portavano i morti durante la notte, ma il posto mancava e i vivi si battevano a colpi di torce per mettervi coloro che gli erano stati cari, sostenendo lotte sanguinose piuttosto che abbandonare i cadaveri. Si potevano immaginare i roghi rosseggianti davanti all'acqua tranquilla e scura, i combattimenti di torce nella notte crepitante di scintille e gli spessi vapori velenosi che salivano verso il cielo intento. Si poteva temere...

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La peste nella letteratura – XI Conclusione

XI Conclusione

Sotto l’azione del flagello, le strutture della società si disgregano, l’ordine crolla, si assiste al totale sconvolgimento della morale, a tutte le disfatte della psicologia. Fino a Camus tutti prestavano attenzione alla peste descrivendola dall’esterno, trascurando gli effetti di debilitazione da essa prodotti sugli spiriti. Invece prima di qualsiasi ben precisato malessere fisico o psicologico, il corpo si copre di macchie rosse di cui l’ammalato si accorge improvvisamente, solo quando cominciano ad annerire, ha appena il tempo di spaventarsene che già la sua testa si mette a bollire, a pesare in modo incredibile ed egli crolla.

Nella “Città di Dio” S. Agostino denuncia la similitudine tra l’azione della peste, che uccide senza distruggere gli organi, e quella del teatro, che senza uccidere, provoca le alterazioni più misteriose non soltanto nello spirito di un individuo, ma in quello di un’intera collettività.

La peste coglie immagini assopite, un disordine latente e spinge d’improvviso a gesti estremi. Ecco allora che i giorni della peste ci si presentano come una sorta di teatro vivente dove si consuma il dramma della solitudine esistenziale dell’uomo. Ne è palcoscenico la città o il lazzaretto, quel microcosmo infernale in cui si istituzionalizza la desocializzazione dell’individuo; ne sono attori ed autori ad un tempo i cittadini abbandonati a se stessi in un universo irriconoscibile ove i consueti rapporti umani risultano rovesciati o annullati. E’ la scoperta, questa sì scandalosa ed intollerabile, della presenza “naturale” del Male nell’uomo; la rivelazione di quella oscura malattia dell’essere, sfuggita parzialmente a Manzoni cui ripugnava accettare tale conclusione, che può spingere l’uomo alla distruzione ma che, come ben compresero a secoli di distanza tra di loro Sofocle e Camus, riesce anche a far riemergere in una comunità assopita nel rassicurante torpore della quotidianità e della normalità il germe sacro del rimosso, dell’irrazionale. L’episodio più celebre lo offre ancora una volta Daniel Defoe quando ricorda il caso della gentildonna londinese assassinata da un appestato che, dopo averla inseguita e baciata, così la apostrofa cinicamente: “... Ho la peste, bellezza. Perché non avresti dovuto averla anche tu? ...” oppure Lutero: “ ... Ma vi sono criminali ancora più grandi: molti, sentendo in essi il germe della malattia, si mescolano senza nulla dire ai loro fratelli, come se sperassero di scaricare su di loro il veleno che li consuma. Presi da quest’idea, costoro vanno per le strade, entrano nelle case, arrivano al punto d’abbracciare i loro figli o i loro domestici, nella speranza di salvare se stessi. Io voglio credere che sia il diavolo ad ispirare tali gesti e che si debba accusare lui solo; ma mi hanno detto anche che una sorta di disperazione invidiosa spinge qualche volta tali disgraziati a spargere così la peste, poiché non vogliono essere i soli ad esserne colpiti ...” La peste è una malattia superiore perché è crisi totale dopo la quale non rimane altro che la morte o una purificazione assoluta che solo così giunge all’equilibrio supremo, non senza distruzione. Si può notare che dal punto di vista umano, l’azione della peste, è benefica, perché spingendo gli uomini a vedersi quali sono, fa cadere la maschera, mette a nudo la menzogna, la rilassatezza, la bassezza e l’ipocrisia; scuote l’asfissiante inerzia della materia che deforma perfino i dati più chiari dei sensi; e rivelando alla collettività la sua oscura potenza, la sua forza nascosta, la invita ad assumere di fronte al destino un atteggiamento eroico e superiore che altrimenti non avrebbe mai assunto.

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La peste nella letteratura – XII Bibliografia

XII Bibliografia Per i testi in lingua originale:

• Homer. Homeri Opera in five volumes. David B. Monro and Thomas W. Allen. Oxford, Oxford University Press. 1920.

• Opera et dies, ed. F. Solmsen, Hesiodi opera. Oxford: Clarendon Press, 1970 • Sophocles. The Oedipus Tyrannus of Sophocles. Edited with introduction and notes

by Sir Richard Jebb. Cambridge. Cambridge University Press. 1887 • Thucydides. Historiae in two volumes. Henry Stuart Jones and Johannes Enoch

Powell. Oxford, Oxford University Press. 1942. • Lucrezio, La natura, trad. A. Fellin, Torino, 1976 • Decameron, a cura di V. Branca, Einaudi, Torino 1992 • I promessi sposi, Milano, Il Principato, 1988; A. Manzoni, Storia della colonna

infame, Palermo, Sellerio, 1981 e gli Atti del processo agli untori (in G. Farinelli - E. Paccagnini, Processo agli untori, Milano, Garzanti, 1988).

• D. Defoe, A Journal of the Plague Year • Lutero, Luthers Werke in Auswahl, herausgegeben von Otto Clemen, Walter de

Gruyter & Co, Berlin, 1962 Per le traduzioni:

• I. Pindemonte, L’Iliade • Esiodo, Opere e giorni, G. Arringhetti, Milano, 1985 • Sofocle, Tragedie. A cura di Giuseppina Lombardo Radice, Einaudi, 1948 • Tucidide, La guerra del Peloponneso, F. Fenoni, Milano 1985 • Tito Lucrezio Caro, La natura, trad. A. Fellin, Torino, 1976 • La peste di Londra, D. Defoe, a cura di Elio Vittorini, Portico Bompiani, 1940 • Albert Camus, La peste, Bompiani, 1999

Per la critica:

• Il teatro e il suo doppio, Antonin Artaud, Einaudi, 1964 • Edipo re, a cura di R. Lauriola, Paravia, 2000 • Il teatro della peste, Ida Li Vigni, Università degli Studi di Genova • L’attività letteraria nell’antica Grecia, Casertano-Nuzzo, Palumbo, Palermo

Per le immagini:

• La Scandalosa, bassorilievo in cera policroma, ignoto del XVII sec., Napoli, Congrega di S. Maria

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La peste nella letteratura – XIII Sommario

XIII Sommario I Introduzione Pag 1

II Omero: la punizione divina “ 2

III Sofocle: il rapporto tra sovrano e regno “ 4

IV Tucidide: un aiuto ai posteri “ 10

V Lucrezio: non serve temere la morte “ 16

VI Ovidio e Tacito: la peste non risparmia nessuno “ 19

VII Boccaccio: meraviglia e mostruosità “ 22

VIII Manzoni: tra untori, romanzo e storia “ 25

IX Defoe: una cronaca da Londra “ 28

X Camus: il Male Assoluto “ 30

XI Conclusione “ 32

XII Bibliografia “ 33

XIII Sommario “ 34

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