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La nuova frontiera

«La nuova frontiera» non è solo la formula – memorabile – nella qualeJohn F. Kennedy decise di racchiudere il senso e la sfida della sua presi-denza. Quando, nel luglio del 1960, la pronunciò per la prima volta,l’America si trovava in un passaggio difficile della sua storia, non tantoper i rischi di una perdita della supremazia strategica, in un mondo domi-nato dalla guerra fredda, quanto per una sorta di insicurezza, di calo di fi-ducia nel proprio potenziale e nei propri destini. A essere chiamata incausa era la dimensione della storia americana, la sua connaturata neces-sità di tendere verso nuovi obiettivi e nuove conquiste, pena l’insuccessoe la sconfitta. Un benessere materiale più solido e più largamente distri-buito, una più forte acquisizione dei diritti e delle libertà di tutti, un ab-battimento delle barriere e delle discriminazioni razziali, e in fin dei con-ti la disponibilità di ciascun americano a prendere sulle sue spalle il pro-prio destino, erano i necessari presupposti senza i quali non avrebbe po-tuto funzionare, né trovare una sua legittimità, l’idea stessa di un model-lo americano da proporre al mondo.Tra i discorsi e gli scritti raccolti in questo volume – tutti concepiti nelbrevissimo torno di anni intercorsi tra la candidatura di Kennedy alla Ca-sa bianca e la fine tragica a Dallas – spicca non solo il fascino di una reto-rica dell’America civile che ha trovato in Kennedy forse il suo più abilerappresentante (e che solo Obama ha mostrato di saper emulare). È ilconcetto di storia come processo aperto e sottoposto, in ultima istanza,alla responsabilità democratica di tutti i suoi attori: è la fiducia nella su-periorità della democrazia sul dispotismo. Ed è la convinzione – magi-stralmente espressa nel pamphlet Una nazione di immigrati, per la primavolta qui tradotto in italiano – che sono le diversità a fare la qualità del-l’America, che la sua forza si esprime proprio in ragione del caratterecomposito del suo aggregato. Gli immigrati sono l’America, ci ricordaKennedy con una forza argomentativa incontrovertibile. Pensiero chesuona, dopo cinquant’anni, fortissimo – e scomodo – all’orecchio dellenostre incupite paure di vecchi europei.

Kennedy

John F. Kennedy nacque a Brookline, Massachusetts, nel 1917, secondo-genito di Joseph P. Kennedy e Rose Fitzgerald, membri di due tra le fa-miglie più in vista di Boston. L’origine irlandese e la stretta osservanza

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cattolica della famiglia segnarono la sua prima formazione. Nel 1936 siiscrisse all’Università di Harvard, dove conseguì, nel 1940, una laureacum laude in International Affairs. Scoppiata la guerra, nonostante unagrave malattia alla spina dorsale, fu arruolato in Marina, dove assunse ilcomando di una motosilurante. Il 2 agosto 1943 la sua nave fu speronatada un cacciatorpediniere giapponese, e Kennedy si adoperò per portare insalvo i suoi marines, meritandosi sul campo una medaglia. Qundo il fra-tello primogenito Joseph Jr. morì in un’azione di guerra, tutte le ambizio-ni politiche della famiglia si concentrarono su John. Membro del Con-gresso per il Partito democratico nel 1946, nel 1952 conquistò un seggiodi senatore. Nel 1953 sposò Jacqueline Bouvier, anche lei figlia di una del-le famiglie più importanti d’America. Nel 1957 Kennedy pubblicò il li-bro Profiles in Courage, che vinse il premio Pulitzer per le biografie.L’anno successivo pubblicò il pamphlet A Nation of Immigrants.Agennaio del 1960Kennedy lanciò la sua candidatura per la presidenza de-gli Stati Uniti. Vinte inaspettatamente le primarie, il 13 luglio fu nominatocandidato del Partito democratico. In settembre, si confrontò con il repub-blicano Richard Nixon nel primo duello televisivo per la conquista dellapresidenza, la cui vittoria fu da tutti considerata determinante ai fini delsuccesso finale, ottenuto, di strettissima misura, l’8 novembre. Assunta lacarica il 20 gennaio 1961, il presidente dovette gestire una delicatissimacontingenza internazionale: nell’aprile 1961 Kennedy patrocinò lo sbarcoa Cuba, presso la Baia dei porci, di 1500 esuli cubani contrari al regime diFidel Castro – sbarco risoltosi in un clamoroso fallimento; l’anno successi-vo, aerei spia americani rilevarono che i sovietici stavano costruendo unabase missilistica a Cuba; ne nacque la «crisi dei missili», che portò il mon-do sull’orlo di un conflitto nucleare; degli stessi mesi furono la decisione diintensificare il programma per la conquista dello spazio e quella di interve-nire direttamente nel conflitto vietnamita; nel frattempo Kennedy si ado-però a sottolineare il valore della difesa della libertà di Berlino ovest, accer-chiata dal Muro che il regime comunista le aveva costruito intorno. Supe-rata la fase più dura dello scontro, con i sovietici furono poi avviate concre-te trattative, che inaugurarono la riduzione bilanciata degli armamenti.Il 22 novembre del 1963 Kennedy cadde vittima di un attentato tragico etuttora oscuro. Lee Harvey Oswald, accusato dell’omicidio e catturato,fu a sua volta ucciso, due giorni dopo, da Jack Ruby. La CommissioneWarren concluse cheOswald aveva agito da solo; tuttavia nel 1979 il Com-mittee on Assassinations dichiarò che si era trattato di una cospirazione.

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donzelli editore gli essenziali

John Fitzgerald Kennedy

LA NUOVA FRONTIERAScritti e discorsi (1958-1963)

Introduzione diGiancarlo Bosetti

Traduzione diMarianna Matullo

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Per A Nation of Immigrants (revised and enlarged edition)Copyright © 1964, 2008 by Anti-Defamation League of B’nai B’rith

© 2009 Donzelli editore, Romavia Mentana 2b

INTERNET www.donzelli.itE-MAIL [email protected]

ISBN 978-88-6036-383-1ISBN PDF 9788860366108

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Introduzionedi Giancarlo Bosetti

John Fitzgerald Kennedy fu eletto presidente degli Sta-ti Uniti nel novembre del 1960, con una vittoria di strettamisura contro Richard Nixon, talmente stretta che le con-testazioni sui conteggi si prolungarono per diversi mesi.Quando nel 2000 il risultato della gara presidenziale traGeorge W. Bush e Al Gore produsse un risultato ancorapiù difficile da assegnare, quel precedente era stato quasidel tutto dimenticato. Il mito e il carisma di «Jack», il ca-rattere «iconico», come dicono gli americani, della sua pre-sidenza, il carisma dell’intera famiglia dei Kennedy, che sa-rebbe stato ingigantito dall’assassinio prima di John e poidel fratello Robert, avevano sommerso nell’oblio quellecontestazioni, tanto più che ad avanzarle era l’uomo chesarebbe poi affogato nello scandalo del Watergate e nel-l’impeachment.

È rimasto invece nella memoria collettiva degli ameri-cani – una specie di seconda ed eterna vittoria – il duellotelevisivo tra Nixon e JFK, diventato un paradigma, il se-gnale di inizio dell’era della videopolitica. Infatti dai son-daggi dell’epoca risultava che il pubblico aveva preferito ilsecondo perché era apparso più fiducioso e sicuro di sé e

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certamente più affascinante del primo, negato per le appa-rizioni televisive. Negli stessi giorni della campagna eletto-rale il confronto radiofonico aveva visto invece prevalereNixon, il che, visto poi il risultato, dimostrava, quasi in la-boratorio, l’incidenza della televisione.

La natura leggendaria, accresciuta dalla giovinezza diun presidente che entra alla Casa bianca a soli 43 anni(Obama lo ha fatto a 48), con la bellissima Jacqueline e idue piccoli John John e Caroline – immagini di una dora-ta, sublime felicità famigliare –, il trauma della conclusio-ne a Dallas il 22 novembre del 1963, tutto questo ha in uncerto senso complicato la comprensione della sua presi-denza, l’ha collocata in una bolla mediatica, ne ha fatto,appunto, una icona nell’immaginario globale. Nelle rievo-cazioni è rimasto molto spesso in ombra il posto che Ken-nedy ha avuto nella storia del XX secolo in una fase cru-ciale della guerra fredda, le politiche che ha sostenuto, lacultura riformatrice e progressista che lo ha ispirato. Nelcorso dei decenni la sua figura è stata oggetto sia di mitiz-zazioni che hanno spinto qualche critico anche troppo se-vero, come Eric Hobsbawm, a recriminare sulla sua «so-pravvalutazione» sia di denigrazioni basate sui love af-fairs, suoi e della famiglia, in una nuvola di teorie cospira-tive e complotti, come quelli relativi alla sua uccisione, maiin verità chiariti fino in fondo.

Ora i discorsi e gli scritti di JFK qui raccolti aggiranoquesta nebulosa e consentono di avvicinarsi direttamentealla politica, ai programmi, alla cultura che il presidenteKennedy ha rappresentato, e permettono di conoscerne gliaspetti essenziali.

La prima cosa da ricordare al lettore di oggi è che Ken-nedy si trovò a fronteggiare il regime comunista in una fa-se ben diversa da quella che è nella memoria più recente:

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Stalin era scomparso nel 1953; tre anni dopo NikitaChrušcëv aveva rivelato la verità sui suoi crimini; il «disge-lo» e la destalinizzazione avevano lasciato sconcertato ilmondo «oltre cortina» e i comunisti di tutto il pianeta, maavevano accresciuto il potere di attrazione dell’Unione So-vietica. C’era stata la violenta repressione della rivoluzionedemocratica ungherese, nello stesso ’56, ma il comunismonon appariva ancora piegato dai disastri economici, dal-l’inefficienza, dal peso di una burocrazia privilegiata, capa-ce solo di reprimere nel sangue ogni dissenso e moto di li-bertà, come a Praga nel ’68 o a Varsavia nel 1980. Così sa-rebbe apparso nell’era brežneviana, più vicina e definitivanel bilancio storico e nei nostri ricordi, e poi nel momen-to del collasso del 1989.

Al contrario, quando Kennedy viene eletto il comuni-smo è ancora in gioco, la partita appare aperta. Gli storicidiscutono se fosse davvero così, se il confronto tra gli ar-mamenti a disposizione dei due blocchi fosse proprio in-certo, ma quel che è sicuro è che tale appariva. Il lancio delprimo «satellite artificiale», come allora si diceva, è statoopera sovietica. Si chiamava Sputnik e non Vanguard – co-me Kennedy ricorda in campagna elettorale nel discorso diDetroit ai veterani –; i primi animali mandati in orbita sichiamavano «Strelka e Belka, non Rover e Fido». Intantoil comunismo conquistava posizioni in Asia e si spingevafino a «novanta miglia» dalla Florida, in quell’isola che im-pegnerà Kennedy nel duello più teso e pericoloso: il falli-mento dello sbarco nella Baia dei porci e poi il braccio diferro sui missili russi a Cuba, il blocco delle navi sovieti-che, il mondo per tredici giorni con il fiato sospeso, sul-l’orlo di un conflitto nucleare.

Quando il futuro presidente pone agli americani ungrande interrogativo – saremo ancora la prima potenza

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mondiale militare, nella scienza, nell’istruzione? – non fadunque soltanto della retorica. Il satellite è una realtà, ilprimato sovietico nello spazio non è un’invenzione. An-che il primo astronauta di lì a poco, nel 1961, si chiameràJurij (Gagarin) e non John o Neil (Glenn, il primo ame-ricano in orbita, e Armstrong, il primo uomo sulla Lunaverranno dopo, nel 1962 e nel 1969). La portata militaredei lanci spaziali da Bajqonyr è evidente. La campagnaelettorale di «Jack» ha qui un suo punto di forza: «Augu-riamoci di non dover attendere che la Russia lanci il pri-mo satellite di ricognizione in grado di scrutare ogni an-golo del nostro paese». Bisogna svegliarsi subito, ora, ac-celerare la preparazione dei sottomarini Polaris e dei mis-sili Minuteman, accrescere le forze convenzionali, pro-teggere gli Stati Uniti dal «primo colpo», recuperare ilterreno perduto. Sarà Kennedy, peraltro, ad annunciare,durante la sua presidenza, il programma della conquistadella Luna «entro la fine del decennio», che si realizzeràa sei anni dalla sua morte.

È questo un carattere fondamentale della nuova fron-tiera e la caratterizza non meno dei programmi che impe-gneranno i fondi federali per la sanità, la scuola pubblica,gli anziani e non meno della campagna contro le discrimi-nazioni razziali. Lo slogan di Kennedy si pone in continui-tà con il New Deal di Roosevelt e il Fair Deal di Truman –la stagione delle politiche sociali e keynesiane dei presiden-ti democratici – ma introduce un elemento nuovo di sfidae di orgoglio: il primato americano è minacciato, bisognariscoprire il coraggio dei pionieri che si aprirono la stradaverso ovest, bisogna sacrificare il presente a vantaggio delfuturo, bisogna eguagliare i russi nel sacrificio e non «sa-crificare il nostro futuro per godere del presente». Le po-litiche di welfare state degli anni successivi alla grande cri-

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si promettevano e realizzavano sostegni sociali agli indivi-dui; qui si chiede agli individui di fare loro da sostegno peruna impresa comune, di sfoderare coraggio. Non promes-se ma sfide. Il discorso inaugurale sancirà il concetto con lasua sintesi più famosa, illustrando l’idea di una democraziapartecipativa, basata sulla pienezza e sull’efficacia del prin-cipio di rappresentanza e sulla fiducia accordata dal popo-lo alla classe dirigente. In campagna elettorale Kennedyaveva parlato non di «ciò che io intendo offrire al popoloamericano, bensì [di] quel che intendo chiedere al popo-lo americano».

Il futuro vincitore fa appello all’orgoglio degli ameri-cani, «non al loro portafoglio, offre la promessa di ulte-riori sacrifici anziché di maggiore sicurezza», indicando icampi di azione della nuova frontiera: le aree inesploratedella scienza e dello spazio, i problemi irrisolti della pacee della guerra, le sacche di ignoranza e pregiudizio nonancora conquistate, la povertà, la sovrapproduzione. E davincitore proclamerà, dando inizio alla sua attività di pre-sidente: «Americani, non chiedetevi cosa il vostro paesepuò fare per voi, chiedetevi cosa voi potete fare per il vo-stro paese» e rivolgendosi oltre le frontiere americane ai«cittadini di tutto il mondo» dirà: «Non chiedetevi cosal’America farà per voi, ma cosa insieme possiamo fare perla libertà dell’uomo».

Il disegno della nuova frontiera rivela una chiara lineadi coerenza fin dall’inizio, fin dalla nuova idea di presi-denza con la quale JFK imposta il problema: dopo il ci-clo di Eisenhower, il repubblicano con le sue idee «di-staccate e ristrette» sulla funzione della Casa bianca, oc-corre un comandante in capo della grande alleanza, nonun semplice contabile che considera finito il proprio la-voro quando il bilancio è in pareggio; si tratta di ripristi-

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nare una leadership mondiale, e questo è un compitogrande come quello di Lincoln quando firmò il Proclamadi emancipazione. L’ambizione è altissima e la sua rappre-sentazione emblematica è Berlino, la città simbolo di li-bertà, «confutazione vivente della dottrina sovietica se-condo cui solo una società comunista può generare pro-sperità». Lo «spirito di Berlino» è la risorsa che consenti-rà di vincere e di ricostruire il primato della «società aper-ta». «Ich bin ein Berliner» significa per Kennedy procla-mare, sulla Rudolf Wilde Platz di quella città, il nome dadare alla cittadinanza della libertà.

L’efficacia retorica dei discorsi di JFK è leggendaria,così come la sua capacità di scegliere e utilizzare la colla-borazione di intellettuali: da Ted Sorensen, il ghostwriterdi tutta la sua vita politica, a Arthur Schlesinger, lo storicoche seguì da vicino sia John sia Robert Kennedy nella loroavventura fino alla tragica conclusione, o Robert McNama-ra, il manager che il neopresidente convinse a lasciare la gui-da della Ford per dirigere la Difesa e coordinare il rilanciodel primato militare americano. Con Ted Sorensen scrisseanche Profiles in Courage, storie di figure politiche ameri-cane che rischiarono la carriera per difendere le proprieidee, un’opera che meritò il Pulitzer nel 1958 e che provo-cò sospetti e critiche quando emerse che il valente collabo-ratore rivendicava la gran parte del lavoro.

Nessun sospetto invece ha circondato A Nation of Im-migrants, che qui riproponiamo, un’opera che è certo ori-ginariamente di JFK e che, per la sua storia – il presidentestava preparando la revisione e l’ampliamento dell’edizio-ne apparsa nel 1958 quando fu assassinato, il fratello Bobne curò la riedizione postuma del ’64, il fratello Edwardquesta nuova del 2008 –, può essere considerata un lascitoideologico e politico dei Kennedy.

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Il testo ha oggi una indiscutibile, straordinaria effica-cia per il lettore europeo, e per quello italiano in partico-lare. I Kennedy sono di origine irlandese, sono sbarcati ametà dell’Ottocento a Boston, e JFK è stato, tra le altrecose, il primo e (finora) ultimo presidente americano cat-tolico. Questo spiega le rassicurazioni che dovette dare incampagna elettorale circa le pressioni che potessero «di-rettamente o indirettamente» interferire con la sua ge-stione della Casa bianca in tema di religioni. È un trattomolto importante della cultura kennediana l’enorme at-tenzione sia alla religiosità del paese sia all’equilibrio trale differenze culturali che compongono la società degliStati Uniti.

È opportuno ricordare qui come il discorso inaugura-le di JFK sia il testo più citato (dopo il secondo di Lin-coln, e ora da affiancare a quello di Obama del gennaio2009) per documentare il carattere di «religione civile»che caratterizza la devozione degli americani alle loroistituzioni politiche, vale a dire la «dimensione religiosadell’ambito politico» (come l’ha definita Robert Bellahimpiegando il concetto rousseauiano), una dimensioneche evita accuratamente di identificarsi con una singolafede, ma che non per questo rinuncia a riferirsi al trascen-dente, come Kennedy fa con una particolare forza quan-do descrive gli stessi diritti umani come elargiti «dallamano di Dio» e la nostra stessa opera comune di nazionecome il compimento «della volontà di Dio». E come sipotrebbe del resto trascurare l’enorme apporto dato allebattaglie per i diritti civili dalle Chiese nere e da MartinLuther King, il quale sostenne la campagna elettorale diKennedy?

L’intreccio tra pluralità delle fedi, rispetto delle religio-ni in quanto tali e apertura liberale verso l’apporto degli

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immigrati alla vita della nazione ritorna in grande eviden-za nel saggio che qui si può leggere per la prima volta initaliano. Si tratta di un testo che illustra in modo esempla-re la continuità del liberalismo pluralistico e multicultura-le americano, e che fa delle idee kennediane il sostrato del-l’ideologia dei democratici, tuttora vitale.

Infatti Edward Kennedy, che è stato un grande puntodi appoggio della campagna elettorale di Obama, ha fat-to suo il lavoro del fratello e proprio in quel periodo neha voluto la pubblicazione in una collana della Anti-De-famation League, l’organizzazione che si batte contro ilrazzismo e l’antisemitismo su scala mondiale. L’aperturaalla varietà delle religioni è un test cruciale della tolleran-za di una società. È bene meditare in Europa sulle paroledi Abraham Fox, il direttore della League: «Sappiamoche quando una società comincia a demonizzare un grup-po come meno meritevole di diritti, di minor valore, me-no umano, meno uguale, allora possono seguire a ruota ladiscriminazione, lo sfruttamento e peggio».

È persino divertente, disarmante, e poi anche amaro,constatare la regolarità con cui gli atteggiamenti razzisti,fomentatori di odio contro gruppi stranieri, contro inuovi arrivati, appaiono, dopo qualche decennio, ridi-coli. Forme di razzismo sembrano conquistare una ro-busta minoranza di conservatori, di bigotti, di menti ac-cecate dalla paura; ogni volta ciò si manifesta con la for-za di una oscura evidenza ontologica circa la «inferiori-tà» o la «incompatibilità» del gruppo in questione, chesiano gli irlandesi, i cinesi, o gli italiani, oppure i catto-lici o i musulmani.

Quella di JFK, sostenuta nello scritto e poi messa inatto con la sua amministrazione, è stata una politica digraduale riduzione del rigido sistema delle quote, che as-

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segnava a ciascun paese di origine un certo numero di po-sti e che era basato sulle proporzioni della popolazionedefinite negli anni venti. Si trattava di aprire la via a un si-stema che non operasse più discriminazioni, ma facessevalere in primo luogo i criteri del ricongiungimento fami-gliare e delle doti professionali dei richiedenti, senza piùarbitrii contro gli asiatici o contro qualsiasi etnia e nazio-nalità. Anche per questo Kennedy si preoccupa di descri-vere l’apporto che ciascuna minoranza ha dato alle fortu-ne dell’America. E lo fa con l’attenzione e lo scrupolo dichi si accingeva a governare quella «nazione di immigra-ti» che sono gli Stati Uniti.

Seguendo il suo ragionamento e i dati da lui riferitiscopriremo l’enorme contributo dato dalle minoranze inun paese che è somma di minoranze. Per quantità gli ita-liani sono secondi solo ai tedeschi e vengono prima degliinglesi! Eppure un giornale di New York poteva scriveredei nostri connazionali all’inizio del secolo: «Le caterattesono aperte. Le sbarre abbassate. Le porte sono incustodi-te. La diga è stata spazzata via. La fogna è sturata […]. Lafeccia dell’immigrazione si sta riversando sulle nostre co-ste. Dai serbatoi di melma del Continente la marmaglia diterza classe viene travasata nel nostro paese». A ogni on-data di arrivi corrisponde un’ondata di «nativismo», di«indigenismo» anti-immigrati, che tende a vestirsi con icavilli di misure restrittive, talora plausibili, talora pure,cervellotiche e sadiche strategie di sbarramento. E spessoi penultimi arrivati si trasformano nei più duri difensoridell’ordine «originario».

Nelle pagine di JFK appare con evidenza eccezionale– più che forza retorica si tratta di forza delle cose – co-me la storia del coraggio e della intraprendenza degli im-migrati sia storia del coraggio e della intraprendenza del-

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la società americana. La cura per le paranoie dei «nativi»– veri o falsi – consiste sempre nella evidenza delle diver-sità, nel consentire e promuovere la loro piena visibilitànella vita sociale. A vincere è la strategia del mostrare ledifferenze, non del nasconderle. Solo così si dissolvono lepiaghe infette della xenofobia e le ricorrenti teorie cospi-rative che vedono l’immigrazione come il risultato di uncomplotto ordito da oscuri poteri internazionali contro il«nostro villaggio».

Kennedy aveva in mente molta stampa anti-irlandese eanti-italiana quando scriveva che «alcuni americani, allar-mati, credevano davvero che i cattolici fossero agenti stra-nieri inviati dal papa per sovvertire la società americana».Succedeva poi che bruciassero un convento delle orsolinenel 1834 nel Massachusetts.

Si trovano sempre dei politici disposti a investire sullapaura più che sul coraggio. Kennedy si dette da fare perbatterli e ci riuscì. La legislazione dell’immigrazione è cam-biata, con lui, nella direzione da lui voluta, quella che hafatto l’America di oggi, più aperta e ospitale di quella cheaveva trovato.

Come accade per molta letteratura politica prove-niente dalle file dell’intellettualità liberal americana – daJohn Rawls a Michael Walzer a Martha Nussbaum – sem-pre meno si può dire che si riferisca a una eccezionalitàamericana, a uno scenario multiculturale, multireligioso,comunitario e non paragonabile a quello europeo. Con lemigrazioni e la globalizzazione gli scenari sono semprepiù vicini.

E lo scenario descritto da Kennedy in The Nation ofImmigrants è oggi molto più vicino all’Europa di quantolui stesso potesse immaginare nel 1958. Ciascuno può da-re da sé i nomi nostrani ai gruppi politici, ai giornali, ai

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commentatori che coltivano dalle nostre parti gli stessi ri-correnti cliché dell’immigrazione come una congiura or-dita da menti raffinate e lontane per farci del male, maga-ri nel nome di una religione ostile.

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* Il 2 gennaio 1960 John F. Kennedy annunciò ufficialmente la suacandidatura alla presidenza degli Stati Uniti. Per la giovane età (42 anni)e l’appartenenza alla religione cattolica, la sua corsa elettorale era vistacon scetticismo anche all’interno del Partito democratico. Pochi giornidopo, Kennedy tenne al Circolo nazionale della stampa questo discorsoin cui espose la sua idea di una presidenza forte e dinamica, in contrastocon quello che considerava l’immobilismo mostrato nei due precedentimandati presidenziali dal generale Dwight David Eisenhower.

Una nuova idea di presidenza14 gennaio 1960*

Le campagne presidenziali oggi si occupano di qualsia-si cosa, attinente o meno al programma, dai mirtilli allacreazione. Ma è raro che le persone siano informate sul te-ma centrale, quello attorno a cui ruota tutto il resto. E iltema centrale, il punto fondamentale del mio intervento,non è la questione agricola, né la difesa o l’India: è l’ideastessa di presidenza.

Certo, la linea politica di un candidato ha la sua rilevan-za, eppure Theodore Roosevelt e William Howard Taftcondividevano la medesima linea, ma con risultati del tut-to differenti una volta alla Casa bianca. Ovviamente è es-senziale eleggere una persona onesta, ma sia WoodrowWilson che Warren G. Harding erano persone oneste, cosìcome Lincoln e Buchanan, eppure alla Casa bianca c’è unastanza intitolata a Lincoln, e non a Buchanan.

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di stranieri legalmente residenti in America, ma sempre esoltanto nell’ambito del sistema delle quote. Tale aspettoandrebbe modificato al fine di accordare la massima prio-rità agli individui dotati delle migliori capacità per contri-buire al benessere della nazione, indipendentemente dalluogo di nascita. Dopodiché occorrerebbe dare priorità aquanti fanno domanda di entrare nel nostro paese per ri-congiungersi con i propri familiari. A parità di requisiti,dovrebbero essere ammessi per primi coloro i quali abbia-no fatto richiesta prima.

Al fine di rimuovere gli altri ostacoli ai ricongiungi-menti familiari occorre apportare due ulteriori modifichealla legge: primo, ai genitori di cittadini americani che at-tualmente rientrano nelle categorie preferenziali del siste-ma delle quote dovrebbe essere garantito l’accesso al difuori del numero previsto dalla quota; secondo, ai genito-ri di stranieri residenti negli Stati Uniti che non rientranonelle categorie preferenziali dovrebbe essere accordato untitolo di preferenza, subito dopo i professionisti specializ-zati e gli altri familiari dei cittadini e dei residenti stranieri.

Tali modifiche non comporteranno grandi ripercussio-ni sul numero totale di immigrati ammessi, ma avrebberoun impatto enorme alleviando le difficoltà che oggi moltidei nostri cittadini e residenti devono sopportare lontanidalle proprie famiglie.

Tali modifiche non risolveranno tutti i problemi legatiall’immigrazione, ma garantirebbero il progresso in dire-zione dei nostri ideali e verso la realizzazione degli obiet-tivi umanitari.

Dobbiamo evitare quella che il poeta irlandese JohnBoyle O’Really una volta ha definito:

Beneficenza organizzata, micragnosa e glaciale,in nome di un Cristo cauto, statistico.

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Le leggi sull’immigrazione dovrebbero essere genero-se, dovrebbero essere eque, dovrebbero essere flessibili.Con leggi siffatte potremo guardare al mondo, e al nostropassato, con le mani pulite e la coscienza tranquilla. Unatale politica non sarebbe che una conferma dei nostri anti-chi principi. Esprimerebbe la nostra adesione alle parole diGeorge Washington: «Il grembo dell’America è pronto adaccogliere non solo lo straniero ricco e rispettabile, ma an-che gli oppressi e i perseguitati di ogni nazione e religione;a costoro dovremmo garantire la partecipazione ai nostridiritti e privilegi, se con la loro moralità e condotta deco-rosa si mostrano degni di goderne».

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