PAURA E CORAGGIO - AIDP · 2019-01-24 · utti ricordiamo la frase che Franklin Delano Roosevelt...

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92 48° CONGRESSO NAZIONALE AIDP } { TRIMESTRALE DI INFORMAZIONE E CULTURA DELL’ASSOCIAZIONE ITALIANA PER LA DIREZIONE DEL PERSONALE NUMERO dicembre 2018187 dal 1980 PAURA E CORAGGIO Sono tante le paure che possono minacciare le relazioni organizzative, i risultati e il benessere delle nostre aziende. Ma la paura ben gestita è la forza che ci consente di osare e andare oltre i nostri limiti LE AZIENDE 28. CENTRO MEDICO SANTAGOSTINO 52. PRYSMIAN 62. BONDUELLE

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MILANO . NAPOLI . ROMA . BERGAMO

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92 48° CONGRESSO NAZIONALE AIDP }{

TRIMESTRALE DI INFORMAZIONE E CULTURA DELL’ASSOCIAZIONE ITALIANA PER LA DIREZIONE DEL PERSONALE

NUMEROdicembre 2018187

dal 1980

PAURA E CORAGGIO

Sono tante le paure che possono minacciare le relazioni organizzative, i risultati e il benessere delle nostre aziende. Ma la paura ben gestita è la forza

che ci consente di osare e andare oltre i nostri limiti

LE AZIENDE 28. CENTRO MEDICO SANTAGOSTINO52. PRYSMIAN62. BONDUELLE

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sommario

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Isabella Covili Faggioli • Paola De Gori • Massimo Ferrario • Julio Gonzalez • Marco Lombardi • Ezio Nardini • Marina Pastorelli • Pietro Santi • Massimiliano Santoro • Gilda Serafini • Giancarlo Traini • Claudio Tronconi • Giuseppe Varchetta • Luca Villani • Elio Vera • Danilo Villa

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Arretrati (a copia) Italia 20 euro - Estero 30 euro - Gratuita per i soci AIDPCHIUSO IN REDAZIONE A DICEMBRE 2018

DirezionedelPersonale

editoriale02. L’educazione alla paura di Maria Emanuela Salati

coverstory06. Elogio della paura di Giorgio Piccinino12. Organizzazioni antifragili di Augusto Carena15. Le emozioni al lavoro di Rosanna Gallo21. Paure, stereotipi e resistenze nel mondo del lavoro22. Robot, Intelligenza Artificiale e Lavoro in Italia di Isabella Covili Faggioli24. Abbiamo paura che i robot ci rubino il lavoro? di Umberto Frigelli28. Centro Medico Santagostino di Alessandra Cosso33. Invito a ripensare il lavoro di Michele Tiraboschi36. Paura del cambiamento di Pietro Trabucchi38. Immunità al cambiamento e ambiguità delle zone di comfortdi Francesca Romana Vender e Cristina Cremonesi42. Don Abbondio e il formatore di Matteo Rosa44. La paura e il coraggio nelle organizzazioni di Fabrizio Favini46. Oltre il coraggio di Gregorio Di Leo

storie52. Intervista a Fabrizio Rutschmann e Stefano BrandinaliL’HR 4.0 di Prysmian di Emilio Orlandini

strumenti62. Intervista a Silvana Iseni In Bonduelle cogli la vita ogni giorno di Roberto Monti68. Intervista a Simon Dolan e Paola ValeriSenza valori adeguati non si cambia di Elio Vera71. La strategia delle lean e teal organizations di Maria Terlizzi74. Privacy e lavoratore di Ciro Cafiero

idee78. Le competenze. Una mappa per orientarsi di Giuseppe Varchetta81. Tra palco e realtà di Marco Lombardi

AIDPnews82. Strumenti per la gender equality in azienda da GET UP & AIDP Diversity84. Intervista a Manuela Geleng Appunti da STA-GE di Maria Rosaria Fraticelli e Adriana Velazquez89. AIDP 2019 di Isabella Covili Faggioli90. Flash: nasce l’area AIDP Responsabilità Sociale - buon lavoro Domenico Martino- benvenuta AIDP4you91. AIDP Award 201992. 48° Congresso Nazionale AIDP96. Ciao Massimo

DdP nr.186 Si segnalano due refusi nel grafico “La campana del valore del lavoro” a pag. 49: la fascia di età intermedia è “30-40-50” e i colori che identificano la curva fisiologica e la curva patologica sono invertiti.

ERRATA CORRIGE

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editoriale

Direttore Responsabile

di Maria Emanuela Salati [email protected]{

02

Di tutto restano tre cose: la certezza che stiamo sempre iniziando, la certezza che abbiamo bisogno di continuare, la certezza che saremo interrotti prima di finire. Pertanto dobbiamo fare: dell’interruzione un nuovo cammino, della caduta un passo di danza, della paura una scala, del sogno un ponte, del bisogno un incontro. Fernando Pessoa

L’EDUCAZIONEALLA PAURA

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utti ricordiamo la frase che Franklin Delano Roosevelt pronunciò nel suo famoso discorso di inizio man-dato del 1933 che mise fine alla

grande depressione: “L’unica cosa di cui dobbia-mo avere paura è la paura stessa”. Per chi vive e lavora in azienda la paura è spesso una compagna di viaggio che determina i nostri comportamenti, perlopiù in maniera inconsapevole e con mille sfaccettature. C’è chi teme di essere licenziato, chi percepisce un momento di valutazione come un esame continuo o chi al contrario teme di non riuscire a ottenere l’anno successivo gli stessi ri-sultati di quello precedente, chi teme di essere escluso dai giochi di potere. Nei momenti buoni la paura rimane come un sottile rumore di fondo, quasi un basso continuo che semplicemente ci ricorda la fine delle cose. Nei momenti difficili la paura è una presenza costante che si sente nei silenzi, nelle parole, negli sguardi improvvisi, nelle omissioni, nella scelta di non agire. Diviene una sorta di alone, di stato d’animo vagamente minac-cioso che lascia una scia di effetti collaterali che distruggono il morale, le relazioni organizzative e minacciano i risultati delle nostre aziende: lo stress, la paranoia manageriale, il diffondersi dell’ipocrisia, dei non detti, dei falsi sé.

Ma, non dimentichiamolo, la paura non è un fattore dalle dichiarate connotazioni negative. La paura è un sistema di allarme necessario e può essere anche energizzante quando ci spinge a sal-tare più in alto e a raggiungere risultati insperati; o quando acuisce la nostra intelligenza, affina i nostri sensi e ci porta ad azioni tanto disperate quanto efficaci.

I neuroscienziati conoscono questo meccanismo e lo hanno spiegato molto bene: quando l’adrenalina è in circolo i sensi si acuiscono, le energie vengono canalizzate, siamo pronti all’attacco, alla fuga o al freezing, le tre reazioni primordiali umane di fronte a un pericolo. Purtroppo nelle organizzazioni vediamo spesso questo immobilismo generato dalla paura quando quest’ultima diventa un elemento di gestione del potere capace di tenere in scacco l’intera organizzazione. Spesso i manager, così come i governi, sono interessati a tenere intatto

il volume delle paure, anzi se possibile ad innalzarlo.Il vero problema è che noi siamo vulnerabili e deboli di fronte a ciò.

Quindi siamo manipolabili da chiunque lavori su queste nostre paure e ci proponga soluzioni facili che comunque mettano fine alle nostre angosce e ci offrano un qualunque aggancio ideologico o economico o sociale al quale appoggiarsi e non sentirci isolati. In azienda acca-de lo stesso e la paura viene spesso usata per farci perdere dignità e coscienza critica, per promuovere visioni distorte della realtà.

Ecco che in questo caso, quando adrenalina e cortisolo, i neurotra-smettitori del circuito della minaccia, hanno il sopravvento, vengono meno alcune capacità chiave delle organizzazioni di successo come la creatività, l’innovazione, la flessibilità, la cooperazione. Tutti compor-tamenti che sono antitetici fisiologicamente alle situazioni di stress.

Eppure la paura è la molla per molte delle nostre azioni ed è la forza che ci consente di andare oltre ai nostri limiti. C’è paura ogni volta che usciamo da una zona di comfort e affrontiamo una situazione nuova o imprevista e scopriamo di avere risorse insospettate dentro di noi.

In questo senso la paura è anche un potenziale di azione. Noi abbiamo paura di un evento che si sta verificando o che potrebbe verificarsi non di un evento già accaduto. In azienda si teme di essere licenziati, o di essere trasferiti, o di perdere il bonus o peggio di dover licenziare un gruppo di colleghi per salvarne altri. Ma in ogni caso la paura afferisce a qualcosa che potrebbe o no accadere piuttosto che a qualcosa di già avvenuto. In questo secondo caso non abbiamo paura ma proviamo rabbia, rancore, forse depressione, spesso voglia di ri-valsa ma la paura è dietro, appartiene al passato. Non è un caso che i peggiori film dell’orrore raccontano di cose che potrebbero accadere e che sono ambigue, misteriose nella loro natura.

Bisognerebbe, quindi, imparare a sfruttare questo potenziale positivo della paura che ci spinge oltre i nostri limiti, a trovare il giusto equilibrio tra una paura “generativa” che ci consenta di osare ma anche di proteggerci. Servirebbe più consapevolezza, più allenamento alla paura (e nel numero descriviamo qualche esempio possibile). Una formazione che conservi l’attenzione vigile ma che liberi dalla pre-occupazione cioè da quello stato d’animo che ampli-fica le paure, occupando spazio psicologico e paralizzando l’azione.

L’ascolto, in questo ipotetico “training della paura”, è una chiave cruciale perché consente un passaggio fondamentale: quello del ri-conoscimento dei timori a cui si è dato parola. Quando la paura esce dall’anonimato è già drasticamente diminuita e quando viene rico-nosciuta, accolta, curata attraverso la semplice luce dell’ascolto può scomparire rapidamente come i vampiri al sopraggiungere dell’alba nei film dell’orrore. Non sottovalutiamo questo potere enorme, salvifico, determinate del dialogo autentico come uno dei principali strumenti di gestione nelle nostre mani. n

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coverstorypubbliredazionale

ESPATRIO DI DIPENDENTI: BISOGNO O OPPORTUNITÀ?

a presenza di una posizione aperta presso la consociata brasiliana im-plicherà nel breve l’apertura di una selezione interna al nostro organico

di Corporate per comprendere chi potrà meglio garantire la copertura di quel fabbisogno” oppure “Il Brasile è un Paese in grande evoluzione per il nostro gruppo, un hub ideale per lo sviluppo dei nostri talenti e l’acquisizione di una cul-tura internazionale rotonda, circostanza non procrastinabile per un Manager che opera nel nostro business e più in generale sul mercato internazionale”.

In entrambi i casi parliamo di un’assegnazione in Brasile di un Manager o di uno specialista, ma gli scenari sono evidentemente distinti. Storica-mente le aziende italiane hanno spinto sulla mo-bilità internazionale delle proprie risorse a fronte di fabbisogni chiari e identificati che potevano essere risolti attraverso l’assegnazione all’estero di quel dipendente – “proprio lui o lei, quel dipendente XY che opera nella logistica, è un mago, vedrai che ci ri-solverà quell’inefficienza in Brasile”–, in buona so-stanza quel dipendente in grado di garantire la co-pertura di quello specifico “need” aziendale, di natura manageriale o tecnica.

Gli scenari, peraltro, stanno cambiando. L’e-spatrio è diventato, sta diventando, una concreta opportunità di sviluppo car-riera, uno step che aiuterà

il dipendente ad ampliare il proprio orizzonte di competenze, la propria capacità a diversificare le sue relazioni, a meglio profilare il suo mindset in-ternazionale. Nel 60% delle aziende partecipanti alla survey di ECA Italia 2018 Espatriati ita-liani e stranieri in Italia: politiche e prassi gestionali, i dipendenti delle stesse percepiscono l’assegnazione internazionale come un’esperienza utile al proprio percorso di carriera; il 30% ri-ferisce che per i propri dipendenti l’espatrio è un’importante possibilità di carriera. Per il 6% si tratta di un’esperienza neutrale; nel 4% dei casi il lavoratore si dimostra riluttante.

Ecco, lo scenario sta cambiando, fare mana-gement in un’azienda internazionale non può escludere dal menù l’esperienza internazionale e quindi un’assegnazione all’estero; conseguire un ROI della carriera performante, verosimilmente, lo richiederà sempre di più. n

LAndrea Benigni AD di ECA ItaliaECA Italia, dal 1994, è un gruppo leader nella consulenza e servizi per la gestione del personale espatriato.Ha un partner di riferimento in ECA International, società di diritto inglese che opera dal 1971 sul mercato dell’International HR con un database di informazioni Paese disponibile on line. Dal 2005 ha costituito Expatriates Key Solutions, società di servizi al 100% controllata che si occupa di gestire in outsourcing i processi di mobilità internazionale delle risorse umane.

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Assegnazione internazionale e carriera

Impopolare

Neutrale

Possibilità importante di carriera

Un'esperienza utile per carriera 60%

30%

6%

4%

Survey ECA 2018 «Espatriati Italiani e stranieri in Italia: politiche e prassi gestionali»

Secondo il 60% delle aziende partecipanti, i propri dipendenti percepiscono l’assegnazione internazionale come un’esperienza utile al proprio percorso di carriera. Il 30% riferisce che per i propri dipendenti l’espatrio è un’importante possibilità di carriera. Per il 6% si tratta di un’esperienza neutrale; nel 4% dei casi il lavoratore si dimostra riluttante.

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{06. Elogio della paura di Giorgio Piccinino} {12. Organizzazioni antifragili di Augusto Carena}{15. Le emozioni al lavoro di Rosanna Gallo}

{21. Paure, stereotipi e resistenze nel mondo del lavoro}{22. Robot, Intelligenza Artificiale e Lavoro in Italia di Isabella Covili Faggioli}{24. Abbiamo paura che i robot ci rubino il lavoro? di Umberto Frigelli}

{28. Centro Medico Santagostino di Alessandra Cosso}{33. Invito a ripensare il lavoro di Michele Tiraboschi}{36. Paura del cambiamento di Pietro Trabucchi}

{38. Immunità al cambiamento e ambiguità delle zone di comfort

di Francesca Romana Vender e Cristina Cremonesi}{42. Don Abbondio e il formatore di Matteo Rosa}

{44. La paura e il coraggio nelle organizzazioni di Fabrizio Favini}{46. Oltre il coraggio di Gregorio Di Leo}

coverstory

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SCENARIOcoverstory

ELOGIO DELLA PAURA

Della paura si parla ovunque, sui giornali, in televisione, nei

social e se ne parla soprattutto dal punto di vista sociologico

e politico. Noi abbiamo deciso di farlo accompagnati da un

grande psicoterapeuta per scoprire quali sono le nostre paure

vere e più profonde, dentro e fuori le aziende, da dove si

originano e come si affrontano

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di Giorgio Piccinino www.piccininogiorgio.it{

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Ho sempre visto i grandi spavaldi, coraggiosi, senza dubbi, sicuri di quello che dicevano e fa-cevano. I miei genitori mi dicevano spesso che non dovevo aver paura e alle mie incertezze ri-spondevano sempre sapendo quello che dicevano.

Per dirne una io non ho mai detto a nessuno che dormivo sempre dando le spalle alla finestra per non vedere arrivare i marziani, che certo sareb-bero entrati in casa da lì. Se mi avessero voluto rapire e trasportare su Marte, immaginavo, lo avrebbero fatto in ogni modo, sarebbe stato del tutto inutile opporsi, dunque non li avrei visti arrivare e non avrei avuto paura.

Poi come spesso accade alle paure dei bambini – quando non sono causate da disinteresse, ab-bandoni, traumi o violenze – anche quella passò: dopo un po’ di anni capii, con un certo orgoglio, che ben prima che gli alieni potessero arrivare a casa mia, li avrebbe intercettati la Nasa.

Ma anche quando qualche genitore si mo-stra debole e incerto tocca al bambino cercare di essere forte al posto suo, ci prova e si mette su una corazza, ma là sotto le gambine restano esili e tremanti. Insomma, non abbiamo quasi mai scampo: forti e niente paura.

Immaginavo che diventare grandi fosse una liberazione e solo troppo tardi scoprii la fregatura, perché i grandi, a differenza dei bambini, hanno ben altre paure, che sareb-bero poi quelle vere, anche se fanno finta di niente. Insomma, se la tirano.

Se fossimo veramente adulti, infatti, potremmo tranquillamente accettare di avere paura di un pericolo reale e certamente saremmo capaci di prepararci e affrontarlo. Se la paura fosse un sano

allarmarci sarebbe uno stimolo per affrontarne le vere cause.

Nella nostra storia tutte le malattie ci hanno spaventato al loro apparire, ma è grazie a questo che abbiamo sconfitto epidemie e allungato la vita, mica perché facevamo finta di niente.

Insomma, viva la paura… se fossimo vera-mente adulti.

La paura è un’emozione di base, antica e pro-fonda, un movimento interno ed esterno del corpo che di sua iniziativa si allerta automaticamente quando le condizioni di vita ci presentano un pericolo incombente. È come il brivido della febbre, come il pelo che si rizza.

Tutte le emozioni di base spiacevoli (paura, rabbia, tristezza) sono pre razionali e del tutto utili e necessarie a metterci in guardia.

Se la paura ci avverte di un pericolo, la rab-bia è la sentinella di fronte alle aggressioni e alle invasioni, mentre la tristezza ci ricorda che stiamo perdendo qualcuno o qualcosa di impor-tante per noi.

Dovrebbe essere vietato chiamare “negative” queste emozioni, e anche da questo già si capisce che tendiamo a sedarle e nasconderle. Purtrop-po da grandi siamo anche e per lo più ancora bambini: giriamo le spalle alla finestra da dove possono entrare i marziani e chi … non s’è visto non s’è visto!

SCENARIO

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rovare paura è stata per me quasi una conquista perché anch’io

come quasi tutti, fin da bambino, ho creduto che non si dovesse aver

paura, e ho anche creduto che i grandi non ne avessero mai, mi ero

fatto l’idea che il vantaggio di diventare adulti fosse proprio questo: non avere

più paura di niente e di nessuno.

PGiorgio Piccinino Sociologo, psicologo, psicoterapeuta, analista transazionale, consulente per le organizzazioni, trainer, supervisor, counselor e partner del Centro Berne

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delle informazioni e fa cultura dominante. Noi psicoterapeuti di scuola transazionale

sappiamo bene la differenza fra le emozioni genuine e quelle fasulle, usate sempre da tutti i poteri, politici o genitoriali, per controllare e conservare il proprio dominio. Se, per esempio, gironzoliamo nell’iconografia religiosa occiden-tale, vediamo un mondo popolato di diavoli, di giudizi universali, di figure orrende, di castighi. La paura è stata variamente utilizzata in parte per controllare il popolo e in parte per sviarlo dalla consapevolezza sulla propria esistenza. È una vecchia storia, pensiamo alla paura verso gli ebrei, verso le pandemie supposte di qualche anno fa, o alle infondate conseguenze nefaste dei vaccini o alla paura delle diversità di genere, dei vicini terroni, pensiamo alla irragionevole paura per la calata degli extracomunitari. Esportare il conflitto interno e orientarlo verso l’esterno è da sempre una strategia che riguarda sia i conflitti politici che quelli psicologici. Se c’è turbolenza nella nostra litigiosissima cantina basta attac-care un vicino di casa più debole e ogni conflitto interno si placherà immediatamente.

La terra non è mai stata così sicuraLa paura anche oggi è pilotata: in un mondo che non è mai stato così sicuro e pacifico siamo pieni di allarmi elettronici, di sbarre alle finestre, di videocamere. Perfino delle guerre non dovremmo più aver paura visto che non solo nel mondo occidentale sono ormai improponibili e perfino economicamente improduttive.

Cito dal libro dello storico Yuval Noah Hara-ri Sapiens. Da animali a dei: “Nell’anno 2000 le guerre hanno causato la morte di 310.000 individui e i crimini violenti altri 520.000 … Tuttavia, da un punto di vista macro, queste 830.000 vittime hanno rappresentato solo l’1,5%

SCENARIOcoverstory

Le paure negate Ma le paure umane negate, quando non si af-frontano si cacciano in fondo al sacco, finiscono nell’inconscio, continuando però ad agitarsi in un allarme sottopelle, pronto a esplodere nelle situazioni più disparate.

Le paure vere, e dirò poi quali sono, sono così sostituite da altre più facilmente esprimibili e orientabili, più immediate da sfogare contro obiettivi vulnerabili e indifesi.

Mica ce la prendiamo con i più forti di noi.La negazione e la sublimazione sono meccani-

smi di difesa che fanno uno sporco lavoro, infido e addirittura pericoloso: ci impediscono di vedere cosa c’è da migliorare in noi. La paura poi è così naturale e protettiva proprio perché si mette in mezzo fra la nostra propensione alla sopravvi-venza, alla stabilità, alla conservazione e altre pulsioni fondamentali che invece ci spingono a evolvere e andare, a crescere, esplorare, curiosare.

Tra il vecchio e il nuovo, fra lo stare e l’an-dare c’è sempre di mezzo, poca o tanta, la paura. Così esplorare è pericoloso, così cambiare è pericoloso.

Vivere fa paura e per fortunaCosì elogiando le paure quelle vere – che ci aiu-tano a vivere meglio e a stare sani – io elogio la nostra stessa natura meravigliosa che ci spinge a crescere e andare e, contemporaneamente, ci invita a essere prudenti e attenti e a bilanciare stabilità e cambiamento.

Ci vuole sempre una base sicura per poter viaggiare, il coraggio, quello vero, non è mai imprudenza né sconsideratezza.

Solo che purtroppo la paura, come le altre emozioni, è abbastanza facilmente manipolabile dalla cultura, l’emozione è ancestrale e universa-le, ma l’attribuzione di significato e di rilevanza è un pensiero nelle mani di chi possiede il potere

“Divise fra tanti le paure si riducono”

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• paura di non essere capaci e all’altezza dei compiti; • paura di non realizzare la nostra identità e i nostri talenti, di vivere senza scopo.

Quando, senza remore o paura del giudizio, gli esseri umani possono finalmente mostrarsi per quello che veramente sono, quelle sono le paure che emergono sempre, oltre le raziona-lizzazioni, le false difese, le baldanzosità e le furberie relazionali.

Del resto, tutte le forme del disagio psicologico sono tentativi fallimentari di dissimulare o di contenere queste paure che non sono state af-frontate al loro apparire nell’infanzia o che sono state vissute da grandi con un grado emotivo così elevato da diventare ingestibili e invasive. Il problema più destabilizzante per un bambi-no non protetto non è forse quello di sentirsi abbandonato, solo, di non essere visto? E non sono ancora queste le angosce più profonde di un adulto?

Le paure degli adultiAnche quando non c’è stato alcun dramma nell’in-fanzia queste paure emergono sempre quando da grandi veniamo messi sotto pressione, quando siamo considerati un numero, fatti fuori da un gruppo, quando siamo isolati e sfruttati, quando siamo svalutati, quando ci fanno sentire che non siamo all’altezza. Sono tutti attacchi alla nostra umanità e alla nostra individualità.

La paura che abbiamo oggi è soprattutto quella di essere insufficienti, sul lavoro tanto più, ma anche per i nostri ragazzi a scuola, le asticelle si alzano sempre di più e lo sforzo per superarle è sempre più individuale e solitario. Se non ce la fai tu, poi, lo farà qualcun altro, e sarà sempre colpa tua non avercela fatta. Senza che ce ne accorgiamo dimentichiamo le nostre

dei 56 milioni di individui che sono deceduti nel 2000. In quell’anno 1.260.000 persone sono morte di incidente automobilistico (il 2,25% della mortalità totale) e 815.000 hanno commesso sui-cidio (l’1,45%). Le cifre del 2002 sono ancora più sorprendenti”. Gli stessi dati emergono leggendo il saggio di Hans Rosling Factfulness: la terra non è mai stata così sicura.

La madre di tutte le paure Noi psicoterapeuti non abbiamo mai avuto un paziente che dicesse di aver paura dei neri o dei Rom, e nemmeno degli omosessuali. E an-che quando arrivano pazienti fobici, ossessivi, paranoidi, ansiosi e in preda al panico, di che paure si scopre siano veramente afflitti? Alla fine si tratta pur sempre della stessa paura … quella di morire.

Sì di morire, in senso lato naturalmente, sia fisicamente che psicologicamente. La madre di tutte le paure è ben questa: perderci come per-sone, morire. È questa la paura che non vogliamo sentire. Noi esseri umani siamo in fondo gli unici esseri viventi a sapere di essere morienti, di essere cagionevoli, di essere sostanzialmente sempre in pericolo e siamo anche gli unici a non sapere come comportarci. Persi per strada durante l’e-voluzione tutti i nostri istinti, siamo gli unici ad avere consapevolezza di noi e del nostro destino.

Siamo gli unici ad avere paura di vivere e di scegliere, di non avere una nostra identità, di non essere noi stessi, unici e diversi, di essere soli e non essere riconosciuti dagli altri per quello che siamo veramente, e per il nostro valore.

Questo è dunque l’elenco che farei delle paure reali di noi esseri umani:• paura delle malattie, della morte, della mise-ria; • paura di non essere amati, ben voluti; ➤

“Il lavoro umano è il contributo di una comunità al progresso della specie”

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La foto in basso ha fatto il giro del mondo, è la mia risposta alla paura del vivere. La paura del vi-vere non si sconfigge, ma possiamo con-dividerla, tutto quello che noi esseri umani possiamo fare è “stare vicini”, provare compassione, allearci, ma soprattutto mostrare affetto nel condividere la condizione umana, che è, e sempre sarà, precaria, dubbiosa, insicura, anche sul posto di lavoro.

Si tratta di realizzare la nostra pulsione di coappartenenza, come la chiamano gli antropo-logi, la nostra propensione naturale all’affetto e alla vicinanza, di recuperare il “prossimo” e la propria comunità.

Quella mano caritatevole sul viso è la risposta possibile anche fra noi e anche in condizioni meno drammatiche. È la negazione di quel terribile e infausto luogo comune che cinicamente ci dice

priorità e le nostre caratteristiche personali e saliamo su ring inadatti al nostro fisico. E da soli!

E dunque se le paure non devono e non possono essere negate cerchiamo di affrontarle, cerchiamo di guardarle in faccia e dare loro una risposta vera, cerchiamo di rimediare alle carenze di appoggio e di sostegno, cerchiamo di riattivare quelle protezioni e quelle decisioni che possa-no alimentare le nostre risorse inespresse. Noi non possiamo non avere paura, quando siamo in pericolo.

Dobbiamo scoprire da dove viene il pericolo e affrontarlo, o evitarlo.

Non si tratta di trovare un antidoto, né uno psicofarmaco per attutire la paura, si tratta di essere consapevolmente e “adultamente” degli esseri umani, che...

SCENARIOcoverstory

Sopravvissuta L’unica donna sopravvissuta al naufragio libico tratta in salvo il 17 luglio 2018, si chiama Josepha e viene dal Camerun. Il suo salvataggio è quasi un miracolo: è rimasta per due giorni in mare sostenendosi a galla grazie ad un pezzo di legno, prima che i volontari di Open Arms la ritrovassero al largo della Libia.

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ficoltà. Dobbiamo avere il coraggio di guardare in cantina e aprire le finestre alla luce della co-noscenza e della condivisione.

Siamo Adulti, smettiamo di inventarci inva-sioni marziane e di aspettare la Nasa.

Voler bene e creare cooperazione è certo più impegnativo e “costoso” che negare e sublimare, ma molto più efficace nell’affrontare le paure del vivere.

Se riuscissimo a mantenere la consapevolezza di quanto è facile perdersi e morire allora saprem-mo gustare ogni istante con gioia e riconoscenza per essere ancora al mondo e sapremmo come utilizzare al meglio il nostro tempo.

Chi sprecherebbe una risorsa così preziosa avendo ben chiaro quanto è limitata?

Spesso sprechiamo il tempo e non gioiamo abbastanza della vita che abbiamo perché non pensiamo alla morte e ai rischi che corriamo nel perdere la nostra essenza e la nostra identità.

Facciamo prima a comprarci degli oggetti, dei lussi sempre più esclusivi, valium e analgesici, divagazioni e false popolarità informatiche. In-vece che imparare a volare preferiamo comprarci dei palloncini che ci mantengano in aria sperando che il vento o un insetto non li faccia scoppiare.

Quando ci ammaliamo, quando passiamo da un’età all’altra, quando invecchiamo, quando incontriamo situazioni nuove, quando ci innamo-riamo, quando siamo lasciati, quando ci sentiamo trasparenti, quando non abbiamo una direzione e un significato nel lavoro, quando un’organiz-zazione ci maltratta o ci svaluta, proprio allora la paura è la nostra prima alleata perché ci invita a riflettere su quanto ci sta accadendo.

Ci sta indicando che siamo di fronte a una inevitabile necessità evolutiva.

Per questo i messicani se la ridono. n

che nella vita, alla fin fine, siamo sempre da soli.Con-divise fra tanti le paure si riducono ed

è così che si possono risolvere le difficoltà che le hanno suscitate. Se ci teniamo per mano ci sentiamo un po’ più forti, e un po’meno indifesi.

La nostra propensione universale alla grup-palità è nata evoluzionisticamente per questo.

La paura al lavoroCosì le organizzazioni dovrebbero promuo-vere modalità di lavoro che favoriscano la condivisione delle difficoltà come delle gioie, sapendo però che è nelle situazioni difficili e dolorose che gli esseri umani cimentano le alleanze più durature. Mica allo stadio o negli outdoor. Dunque, le organizzazioni dovrebbero smettere di spaventare le proprie persone facen-dole sentire insufficienti, intercambiabili e in competizione fra loro e anzi favorire l’assunzione del significato e della direzione del proprio opera-re, dovrebbero favorire la sensibilità relazionale e la consapevolezza che insieme si è nella stessa barca. Favorire la gioia per quello che si è e si sta facendo ogni giorno come espressione della propria vitalità e umanità.

Il lavoro umano è il contributo di una comu-nità al progresso della specie, è l’attività fatta in gruppo con l’obiettivo di creare valore, sicurez-za, benessere e stabilità. Deve essere svolto in un clima solidale, fiducioso e cooperativo dove le paure si condividono e si superano insieme alleandosi e facendosi forza l’un l’altro.

Il lavoro umano va ripensato come una delle grandi espressioni dell’essenza della natura umana: la cooperazione attivata per gli scopi condivisi e universali di ogni essere uma-no; sopravvivere, realizzare i propri talenti e la propria unicità, crescere e non ultimo scambiare affetto e amore.

Quando la paura è solitaria gli esseri umani si suicidano, si isolano, si deprimono o diventano assassini e violenti.

Inventarsi nemici esterni fra gli estranei e i diversi è esattamente dalla parte opposta della possibile soluzione delle nostre paure che è quella di guardare invece in casa nostra, di analizzare insieme agli altri le nostre inefficienze, le nostre contraddizioni, le nostre debolezze per uscirne insieme. Nella Terra intera come in una orga-nizzazione.

Questo è l’unico modo per imparare a vivere meglio, più sereni ed evolvere superando le dif-

Il film Scena da Coco, il film Disney-Pixar che si ispira alla festività messicana del Giorno dei Morti, per la regia di Lee Unkrich e Adrian Molina.

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SCENARIOcoverstory

Augusto Carena Formatore e autore sui temi della Complessità, Bias cognitivi, Etnografia organizzativa, Business simulation

bisogni di appartenenza, poi di stima, e infine di autorealizzazione personale.

Nel tempo, molte organizzazioni hanno tentato la propria personale scalata alla piramide. Chi in misura maggiore, chi con meno ambizione, tutte si sono comunque mosse mirando al suo vertice.

Fino a qualche anno fa. Da qualche tempo, infatti, abbiamo la netta im-

pressione che la nostra piramide stia subendo un pericoloso smottamento. Intendiamoci: non molto di ciò traspare nel magico mondo dei PowerPoint, dove la sua immagine resiste perfettamente intatta in riunioni e presentazioni. Ma in diverse organiz-zazioni reali ci sentiamo come se ci fosse franata la punta della piramide sotto i piedi. Improvvisa-mente, i livelli alti della motivazione hanno perso consistenza, e ci siamo ritrovati, dopo tanti anni, a fare i conti con una vecchia conoscenza: la paura.

Le nuove forme della pauraNaturalmente, molte forme in cui essa si manifesta sono nuove. Ci sono paure globali, che dai grandi

problemi sociali filtrano nelle organizzazioni attra-verso la permeabilità dei singoli individui. Ve ne sono altre per così dire più professionali, come quelle che colpiscono in particolare le classi dirigenti, che sono legate all’accelerazione della complessità e della volatilità del business contemporaneo.

Colpisce particolarmente però il ritorno della paura per la stabilità della propria posizione nel mondo del lavoro. Preoccupa per lo shock che genera nella vita personale; ma anche per le profonde implicazioni a tutti i livelli delle organizza-

egli anni ’50 lo psicologo statunitense Abraham Maslow introduce

una assai influente metafora per la gerarchia dei bisogni dell’individuo,

che raffigura in forma di piramide. Alla sua base colloca le necessità

fisiologiche fondamentali della persona – fame, sete, sesso – seguite al piano supe-

riore da quelle legate alla sicurezza. A livelli progressivamente più alti troviamo i

di Augusto Carena [email protected]

N{

ORGANIZZAZIONI ANTIFRAGILIDobbiamo essere preoccupati quando la paura si annida nei nostri contesti organizzativi? Quanto e perché? Ci sono degli antidoti per contrastarla? La paura ha un ruolo funzionale nelle organizzazioni? È auspicabile un’organizzazione priva di paura?

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zioni. Le cascate comportamentali che essa genera riverberano ovunque, dall’attitudine al rischio ai rapporti tra colleghi, alla cultura dell’errore.

È questo effetto sistemico a interessarci in modo particolare. Le nostre organizzazioni dovrebbero essere preoccupate di questo sgradevole déjà-vu? E, nel caso, perché? La paura ha un ruolo funzionale nelle organizzazioni? È auspicabile un’organizza-zione priva di paura? Quando fa paura la paura?

Due prospettive, non propriamente mainstream, ci offrono qualche spunto, seppure in forma un po’ stilizzata.

Loss aversion & overconfidencePartiamo da un concetto della Psicologia Cogni-tiva, la loss aversion (letteralmente “avversione alla perdita”). Perdere, lo sappiamo, non piace a nessuno. Così come tutti amano guadagnare, ovvio. E tuttavia una delle scoperte che valse il premio Nobel a Daniel Kahneman è che, tra perdita e guadagno, esiste una forte asimmetria psicologi-ca. Se guadagnare ci piace, perdere è qualcosa che non riusciamo proprio a sopportare. Guadagnare 100 euro ci fa piacere, ma perdere la stessa cifra ci procura un disagio psicologico assai più inten-so (grosso modo due volte tanto, secondo alcune ricerche). E questo non si limita al denaro, ma si estende a tutti i campi della vita umana: perdita di stima, di affetto, di reputazione, di status, e così via. Quando caliamo la loss aversion in un contesto organizzativo, gli effetti sono tutt’altro che univoci. Prendiamo l’esempio degli obiettivi aziendali. L’a-simmetria implica, in generale, che la paura di non raggiungerli (una perdita) comporta una maggiore sollecitazione psicologica rispetto all’attrattiva di superarli (un guadagno), a meno che naturalmente gli incentivi non siano altrettanto asimmetrici.

Per la stessa ragione, anche un piano di change management presentato attraverso una vision in chiave positiva – vogliamo cambiare per... – può beneficiare da qualche occasionale richiamo alla loss aversion – se non cambieremo, allora... –. Un briciolo di paura spesso dà il pepe necessario a smuovere le organizzazioni. Un punto dunque a favore della paura (in modiche quantità).

Ma la loss aversion ha anche effetti dirompenti che colpiscono il cuore stesso dei meccanismi di intrapresa. Pensiamo ad un progetto che, a fron-te di un investimento di 100.000 euro, presenti

un outcome atteso di 150.000 euro. Le regole del decision-making razionale lo approverebbero, ma il bilancio motivazionale è assai diverso: il mio “costo psicologico” ammonta al doppio dell’inve-stimento, e l’intero progetto è “psicologicamente” in perdita. Il mio “sentire” non supporta la mia razionalità. A rigore, solo ritorni superiori al 100% me lo renderebbe accettabile; ma quanti progetti reali consentono margini simili?

Come fanno a sopravvivere le organizzazioni reali? Fortunatamente dispongono di qualche antidoto naturale. Uno di essi è la nostra siste-matica tendenza a sottostimare costi e durate di qualsiasi task: un flagello che prende il nome di planning fallacy, e tende dunque ad alleggerire il lato costi dei progetti. Ma il vero, potente contraltare alla loss aversion è la overconfidence, la nostra comune tendenza a sovrastimare le nostre chances di successo, sottostimando i rischi di fallimento. Si tratta di una distorsione sistematica e univer-sale del giudizio (bias), trasparente alla coscienza, che, con tutti i rischi che comporta, è comunque il vero motore che consente di superare l’inerzia indotta dalla loss aversion. Non a caso gli studi mostrano che risulta particolarmente concentrata nel top management delle organizzazioni. Nella dinamica organizzativa, è questa dialettica paura/overconfidence, mediata dalla cultura dell’impresa, a decidere la traiettoria finale.

Trarre vantaggio dai black swansRitroviamo questi stessi protagonisti in una diver-sa sceneggiatura, più sistemica e in qualche modo astratta, che attinge ampiamente alle Scienze della Complessità.

Tutti abbiamo sentito parlare dei cosiddetti cigni neri (black swans), eventi di ampia portata, irre-golari, estremamente rari e difficili da prevedere, spesso latori di grandi cambiamenti. Pensiamo alla crisi finanziaria del 2008 o alla caduta dell’Unione Sovietica, eventi per cui, ex post, è facile trovare convincenti ricostruzioni, senza che per questo siano prevedibili ex ante. Proprio questa illusione di prevedibilità (hindsight bias) ci spinge a conti-nuare a investire ingenti risorse nel tentativo di prevederli, invece di progettare organizzazioni in grado di resistere ai cigni neri. Di questo l’ex-trader libanese Nassim Nicholas Taleb, il padre della teoria dei cigni neri, si è occupato in un libro, ➤

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termine antifragilità.L’idea è vicina alle teorie organizzative del

caos. Reintrodurre piccole e ripetute quantità di stress e casualità, e una maggiore tolleranza agli errori, anziché danneggiare il sistema, tende a provocare un incremento diffuso di vigilanza, a non farsi sorprendere dai pericoli e a cogliere opportunità, a mobilitare energie e skill, a van-taggio dell’intero sistema. È qui che prosperano le organizzazioni antifragili: la casualità fluttua con un gran numero di piccole variazioni, che possono, anzi devono, far paura, ma tendono a controbilanciarsi negli aggregati e producono apprendimento e energia interna.

Incrociandosi, le due prospettive suggeriscono che, senza piccole dosi di paura, le organizza-zioni rischiano un’assuefazione all’inerzia, agli automatismi che le fanno pendere dal lato della fragilità. Un evento non previsto, e non possia-mo prevedere tutti gli eventi, diventa per esse un cigno nero.

Ma vivere nella paura, ridiscendendo i gradi-ni della piramide di Maslow, può essere assai più pericoloso. Le organizzazioni hanno bisogno di overconfidence, almeno in una parte dei pro-pri individui, per apprendere dagli errori, per intraprendere, per innovare.

La paura agisce come l’abbassamento della tem-peratura in un organismo: disattiva gran parte dei circuiti vitali, lasciando attivi solo quelli di base. E persino il ferro, immerso nell’azoto liquido, a temperature prossime allo zero assoluto, diventa delicato come la ceramica. La quintessenza della fragilità. n

SCENARIOcoverstory

Antifragile, del 2017.Possiamo dire che un sistema è fragile quan-

do soffre l’azione della casualità, del caos o di altri fattori di stress; e robusto, o resiliente, quando invece regge l’urto degli stessi fattori.

Negli ultimi decenni, la ricetta per costruire or-ganizzazioni robuste è stata quella di imporre la stabilità dall’alto, con sistemi di controllo molto sofisticati, spesso in tempo reale, nel tentativo di eliminare alla radice la casualità e la volatilità che caratterizzano l’operato quotidiano. Di annullare ogni variazione ed errore. Di minimizzare la paura.

È il modo migliore per affrontare il caos dei mer-cati moderni e i temibili cigni neri? Qualche dubbio è lecito. Oggi la stratificazione degli automatismi di controllo comincia a provocare erosioni di skill e attenzione (un effetto di scarsità, e non di eccesso, di stress). Sappiamo inoltre dalla Teoria dei Siste-mi, almeno dagli anni ’70, che sistemi fortemente controllati in tempo reale possono sì comprimere la varianza nella maggior parte delle situazioni, ma al prezzo di forti instabilità che esplodono im-provvisamente con effetti catastrofici. In questa condizione, le organizzazioni vivono per la maggior parte del tempo in uno stato di stabilità, ma sono esposte a cigni neri in grado di distruggerle. An-ziché resilienti, esse diventano sempre più fragili.

In realtà, dice Taleb, possiamo pensare a sistemi che, anziché limitarsi a non essere danneggiati da casualità ed errori, ne traggano addirittura van-taggio (almeno entro certi limiti). La Natura ne è l’esempio più imponente. Il vero contrario di fragi-lità non è dunque robustezza, ma un concetto che ancora non è stato definito, per cui Taleb conia il

“Senza piccole dosi di paura, le organizzazioni rischiano un’assuefazione all’inerzia e agli automatismi che le fanno pendere dal lato della fragilità”

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Rosanna GalloPsicologa del lavoro specializzata in benessere organizzativo e Amministratrice Unica di Eu-tròpia

negativamente sulle vite delle persone e delle or-ganizzazioni.

Le nevrosi organizzativeChi vive dentro le organizzazioni o chi vi trascorre molto tempo e ne può osservare diverse, profit e non, sa che le organizzazioni sono un luogo in cui le emozioni sono solo “contenute”, regolate dalle strutture, norme e processi; infatti osserviamo persone che comunicano controllo: in tempi così difficili, gli individui sono in balia di diverse emo-zioni, difficili da contenere o così sovrapposte una all’altra da divenire indecifrabili. Nel tentativo di controllarle, le persone soffrono di un’ansia diffusa, difficile da decifrare e comprendere. Spesso l’an-sia si manifesta nelle sue forme psicosomatiche: insonnia, dolori intestinali, emicranie, aumenti di pressione, orticarie, dolori articolari (frozen shoul-der), perdita di capelli, ecc. con conseguente ricorso a pseudo-soluzioni farmacologiche per tamponare

la situazione.La sensazione di continua precarietà nel lavoro,

ma anche negli affetti, minaccia i bisogni di base: quelli fisiologici (come il sonno) e quelli di sicurezza (protezione, tranquillità, prevedibilità) individuati da Maslow già nel 1954 come necessari alla so-pravvivenza umana. Un contesto così stressante produce comportamenti reattivi che impattano sul clima organizzativo e, conseguentemente, sulle per-formance. Se il potere “è quella capacità umana di cambiare, o di impedire di cambiare” allora pos-siamo sostenere che una bassa percezione del

organizzazione è sempre stata percepita come il luogo in cui tutto funziona

fluidamente grazie a norme, processi strutturati e persone ubbidienti.

Lo scenario organizzativo è, invece, in cambiamento continuo e con

continue richieste di flessibilità: i problemi connessi, come le sindromi da lavoro e

la riduzione della produttività, portano ad aumentati costi psicosociali che impattano

di Rosanna Gallo www.eu-tropia.it

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LE EMOZIONI AL LAVORO“Tanto più imprudente (impudente) è il tentativo dell’organizzazione di irridere il sentimento, di congelare l’emozione, di squalificare l’umore e l’impulso, tanto più sentimento, emozione, umore e impulso riprenderanno posizione nel territorio (nei sotterranei) dell’irrazionale: lo perturberanno e lo orienteranno, di preferenza... alla variante della rivalsa” G.P. Quaglino

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nomici che le organizzazioni fanno per processi e controlli e quanto minori o nulli siano quelli sullo sviluppo relazionale, comprendiamo l’aumento esponenziale delle cinque sindromi da lavoro, ri-conosciute dalla Comunità Europea: ansia, stress, depressione, burn-out e mobbing che hanno tutte origine da una incompetente gestione emotiva.

La paura al lavoro: attacco e fugaLa paura è l’emozione attualmente prevalente, vi-sibile nelle sue diverse declinazioni: congelamento, rassegnazione, depressione, rabbia, vendetta e “fuga nell’amore”.

Come tutte le emozioni, ha un aspetto positi-vo, legato a mantenere uno stato di allerta, utile a fornire quello stress positivo, l’eu-stress, che fa effettuare verifiche e attivare cautele allo scopo di prevenire problemi. Ma se la cautela diventa terrore di sbagliare, fa congelare le persone e allora osserviamo significative riduzioni nella comuni-cazione fino a silenzi angoscianti, porte chiuse e comportamenti che rendono le persone invisibili agli strali di una possibile perdita del posto di lavoro, minaccia esercitata da qualche manager inadeguato o semplicemente fantasmatica.

La percezione della minaccia fa mettere in atto meccanismi di difesa che “sequestra ossigeno al cervello e glucosio al sangue riducendo le capacità di risposta e di concentrazione... In altre parole, le funzioni esecutive e creative vengono meno”.

La paura genera due reazioni: attacco e fuga. Possiamo immaginare la prima reazione come quel-la della rabbia: viene espressa con l’aumento del tono della voce, il lancio di oggetti, l’incuria per gli strumenti di lavoro e per gli ambienti, la riduzio-ne della qualità del lavoro, l’assenteismo. Oppure viene espressa con la violenza fisica e verbale dove

SCENARIOcoverstory

proprio sentimento del potere porta allo “stallo”. Ci si interroga sul proprio valore professionale e sul proprio futuro; i continui cambiamenti, dentro e fuori dalle organizzazioni, evocano vulnerabilità, provvisorietà e transitorietà: concetti che richia-mano alla mortalità, per cui la capacità di con-frontarsi con lo stress ambientale senza perdere la propria integrità e responsabilità potrebbe andare in crisi. Tale crisi, che è collettiva, si può definire una nevrosi organizzativa di tipo depressivo, su cui diventa urgente intervenire prima che la nevrosi si patologizzi.

Se accettiamo l’assunto di Elliott Jaques, se-condo cui le organizzazioni sono il mezzo di cui i singoli membri si servono per rinforzare le proprie difese dall’ansia persecutoria e depressiva, allora possiamo pensare che si verificano continue nevrosi organizzative.

Per molti autori, quali Hirschhorn, i ricercatori del Tavistock Institute di Londra e Diamond, la vita organizzativa è percorsa da ansietà derivanti

• dalla dimensione operativa, cioè le azioni e le decisioni da intraprendere per raggiungere gli obiettivi;

• dalla dimensione relazionale, costituita da emozioni e sentimenti che nascono dalle relazioni di confronto e collaborazione.

Per ridurre l’ansietà gli individui ricorrono a meccanismi di difesa che vengono condivisi e socializzati nella cultura organizzativa. Quando entra in gioco l’ansia si cerca di contenerla, sul piano organizzativo, aumentando le procedure di controllo e, sul piano relazionale, aumentando il livello di collusione fra gli individui: essi si usano reciprocamente per ridurre la propria incertezza soggettiva.

Se pensiamo ai significativi investimenti eco-

“Sdoganiamo la parola felicità, perché è quello che tutti inseguono (anche nelle organizzazioni), ma che nessuno osa confessare”

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disgregazioni, più o meno formalizzate.

La gioia al lavoroAnche se in misura minore, osserviamo anche la gioia e il benessere che si producono nelle organiz-zazioni: si viene contagiati da un fluire di energia positiva che si scambia e che si moltiplica dove le emozioni positive sono prevalenti.

In queste organizzazioni misuriamo un senti-mento del potere elevato; definiamo il sentimento del potere, come la possibilità soggettiva e collettiva di influenzare gli eventi. Laddove risulti elevato, le persone sperimentano la possibilità di intervenire con efficacia ed efficienza. L’esperienza del potere come possibilità incoraggia le persone e le organiz-zazioni ad osare nuovi e più efficaci comportamenti, ad intraprendere coraggiosamente nuove strade.

Troviamo gioia dove si respira un clima positivo e collaborativo, dove c’è leggerezza, ironia ed autoironia, gentilezza, condivisione e gioco di squadra, sentimenti di orgoglio per il valore e il contributo di cui si è portatori e di appartenenza ad un’organizzazione di cui si condividono i valori, il rispetto e la stima per i colleghi e l’impatto positivo sul sociale. Le persone che percepiscono la coerenza fra i propri valori e quelli dichiarati e agiti dall’azienda, speri-mentano un forte senso di appartenenza e orgoglio.

Si sperimenta gioia nelle start-up e in tutte le situazioni nuove ricercate dalle persone stesse: un nuovo progetto, un nuovo team producono ecci-tazione positiva e curiosità aperta, tipiche di uno “stato nascente”, oltre ad apertura verso gli altri e collaborazione.

L’appartenenza ad un team solidale, che valo-rizza l’espressione individuale, fa percepire forza e un aumentato sentimento del potere nei singoli membri e nel gruppo stesso. Il gruppo difende dai sentimenti persecutori, protegge da possibili aggres-sioni e abbassa i livelli di ansia e stress; soprattutto non fa sentire soli, o emarginati, cosa che produce sofferenze cerebrali.

Al lavoro la gioia si esprime anche con l’esperien-za di flusso (flow); una passione così coinvolgente ed esaltante per l’attività che si sta svolgendo da far dimenticare i più elementari bisogni fisiologici di base, per cui si può stare ore, perdendo il senso del tempo, dimenticandosi di mangiare e dormire perché presi da un’attività appassionante.

Infine, la felicità è visibile nelle persone che si sentono in crescita che sentono di apprendere ogni giorno di più, che sentono l’investimento dell’or-ganizzazione sulle loro capacità e i loro sogni e che si curano della propria crescita personale

si pensa di poterlo fare con minor danno per sé: con i collaboratori e con le persone più fragili e con basso livello di autostima.

Dove cova la rabbia, ma non è possibile esprimer-la, si pensa a organizzare la vendetta: persone che si sentono mobbizzate o che si ritengono oggetto di ingiustizie o di persecuzioni si annotano giornal-mente i soprusi e le violenze psicologiche subiti, pensando ad una futura rivalsa: la vita organizzativa diventa la raccolta di prove per la propria futura e programmata vendetta.

Infine, c’è chi esercita un pesante controllo emo-tivo che porta a malattie psicosomatiche e poi alla depressione. Quando non è possibile ribellarsi a persone considerate più forti, gerarchicamente o strutturalmente, ci si ripiega verso se stessi, si sperimenta impotenza e si attua un ritiro indivi-dualistico: la persona depressa non ha più energie, è depotenziata per aver veicolato tutte i propri sfor-zi sul controllo, per timore di esplodere di rabbia (quindi di rompere e rompersi).

La persona depressa non ha voglia di vivere, perché le costa un’incredibile fatica; non riesce a relazionarsi, perché il controllo le ha “scaricato le batterie”. Siamo nella rassegnazione, che non è un’emozione fondamentale, ma che purtroppo osserviamo sempre più frequentemente e che se-gnala un totale senso di impotenza appresa.

Una seconda modalità di fronteggiare la paura è la fuga: si può esprimere nel rifiuto di assumer-si responsabilità, nell’elusione e/o negazione dei conflitti e delle diversità; nella collusione con il “nemico” (mi annullo “sono come tu mi vuoi”); an-cora nell’assenteismo, fisico o mentale, comunque con un evidente disengagement o proiettando su altri le proprie difficoltà e/o fragilità.

“Consapevolmente o meno, intenzionalmente o no, con il tacito consenso o con la forte resistenza da parte degli altri, ciascuno tenta di esportare ciò che non si sente di poter sopportare”.

Oggi assistiamo ad un’accelerazione e ad un vorticoso aumento di una particolare forma di fuga: la fuga nell’amore. Si tratta di ricorrenti accoppiamenti fra colleghi, che nulla hanno a che fare con l’amore, ma che sembra tale, perché preserva dall’angoscia della solitudine e opera da supporto emotivo per entrambi, grazie alla possibilità di condividere le angosce connesse alla paura nelle sue forme, e quindi poterne parlare abbassando il livello di ansia. Mentre l’impatto sulle performance aziendali può essere positivo, grazie alla riacquistata energia prodotta da questo tipo di amore, possiamo immaginare l’impatto negativo sulle rispettive famiglie e le conseguenti ➤

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nata da un orientamento alla realtà negativo e da una modalità passiva e pessimistica. La strategia costruttiva, invece, prende coscienza della realtà e la sa affrontare in modo positivo e progettuale.

Seligman ci ha insegnato che, come si impara ad apprendere l’impotenza, così possiamo imparare ad apprendere l’ottimismo e il pensiero positivo e questo ha un’efficacia anche nel tempo e 7 volte più alta degli psicofarmaci, che tamponano il disagio temporaneamente.

Crediamo sia arrivato il momento di investire davvero sulla crescita umana emotiva e relazionale: • star bene con se stessi, avere autoconsapevolezza, auto-motivarsi, sentirsi in armonia con il proprio corpo e con le proprie scelte valoriali e avere il go-verno di sé sono presupposti importanti per poter • stare bene con gli altri, provare empatia e com-prendere motivazioni ed emozioni che reciproca-mente contagiano e facilitano o meno le relazioni sociali;• star bene in un mondo che cambia continuamente, dove tutto è fluido: il lavoro, gli affetti, le famiglie, gli amici, le geografie e le regole, e non ci sono più punti di riferimento, per cui diventa necessario sviluppare il “centro di gravità” al nostro interno, il nostro locus of control.

Crediamo sia arrivato il momento di sdoganare la parola felicità, perché è quello che tutti inseguono, ma che nessuno osa confessare, su cui le scienze sociali, e in particolare la psicologia positiva e le neuroscienze, hanno portato i maggiori contribu-ti. Pensiamo che la felicità sia una scelta, che sia un sogno realizzabile, un progetto da immaginare, pianificare e implementare. n

SCENARIOcoverstory

e professionale.In queste organizzazioni, o in alcune “isole felici”,

si respira la cultura del feedback, dell’apprendimen-to dall’errore, dello spazio per pensare, immaginare e creare nuove realtà desiderate, da progettare e realizzare.

Apprendere dalle emozioni per il benessere e la produttività nelle organizzazioni

Sono ormai numerose le ricerche internazionali che dimostrano che i dipendenti felici producono una più alta redditività, clienti più soddisfatti, minori costi e minor assenteismo.

In effetti, negli ultimi anni, molte aziende si sono mosse nella direzione di occuparsi di benessere, ricorrendo però a parziali soluzioni, proponendo conferenze sulla prevenzione di malattie cardiache o tumorali, su un’alimentazione più sana e sull’im-portanza dell’attività fisica. Altre aziende hanno incrementato proposte di welfare, allargando oppor-tunità anche alle famiglie dei collaboratori. Nessuna si preoccupa della salute mentale, della prevenzione della prima malattia del secolo, la depressione, o del narcisismo e dell’individualismo in aumento. È più difficile trovare aziende che si siano mosse in modo strutturato per promuovere benessere nel contesto di lavoro, quindi benessere sociale e rela-zionale, per sviluppare consapevolezza e gestione emotiva, utili a vivere costruttivamente conflitti e stress e ad aumentare la resilienza organizzativa.

Esistono, secondo Kets de Vries, quattro mo-dalità di approccio: una strategia costruttiva, una improduttiva, una difensiva e una depressiva. Quest’ultima, la prevalente in Italia, è determi-

“La felicità è visibile nelle persone che si sentono in crescita che sentono di apprendere ogni giorno di più, che sentono l’investimento dell’organizzazione sulle loro capacità e i loro sogni e che si curano della propria crescita personale e professionale”

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pubbliredazionale

L’IMPORTANZA DEL WELFARE AZIENDALE: LA CURA E L’INTERESSE PER I DIPENDENTI

bbene sì, è proprio questo l’obiettivo che ogni anno Easy Welfare si ripropone e cerca di seguire al meglio:

avere a cuore i bisogni e le necessità dei dipendenti delle proprie aziende clienti.

Al giorno d’oggi le organizza-zioni e il modo di lavorare stanno cambiando rispetto a un tempo, curare il benessere aziendale e la qualità del lavoro è diventa-to fondamentale. La normativa, le aziende e i lavoratori stessi stanno cambiando mentalità e modo di approcciarsi al lavoro: l’attenzione al benessere orga-nizzativo è diventata la chiave di svolta dei business di suc-cesso. Di conseguenza, anche il welfare aziendale sta diventando sempre più importante e si sta facendo sempre più strada all’in-terno del panorama italiano, ri-volgendosi sia alle Big Corporate che alle PMI. È soprattutto grazie ai nuovi cambiamenti normati-vi che anche le Piccole e Medie

imprese si stanno facendo avanti com-prendendo l’importanza del welfare e del benessere aziendale; i dipendenti stessi paiono più soddisfatti e produttivi con l’introduzione di queste nuove politiche aziendali. Il welfare, infatti,

è rivolto a tutte le aziende ed è impor-tante diffondere il più possibile la sua cultura. È a tutti gli effetti un modo per aiutare a migliorare il clima aziendale; fa bene e porta benefici sia ai dipendenti che all’azienda, il suo scopo è proprio

quello di sostenere e valorizzare ogni singolo lavoratore aumen-tando il benessere aziendale e la serenità lavorativa. Si mettono così le basi per un percorso di crescita condivisa dove tutti vincono, la cosiddetta logica del We Win.

Negli ultimi anni infatti il welfare ha allargato i suoi oriz-zonti, il passo fondamentale è proprio quello di conoscere, ca-pire e avvicinarsi ai nuovi stru-menti che il mercato propone. E il welfare è uno di questi, uno strumento che favorisce la con-ciliazione della vita lavorativa e privata di ogni collaboratore ed è senza dubbio uno dei pila-stri della gestione delle risorse umane, o meglio la chiave del mondo HR. n

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PAURE STEREOTIPIE RESISTENZE NEL MONDO DEL LAVORO

Con il primo rapporto 2018 Robot, Intelligenza Artificiale e Lavoro in Italia abbiamo cercato di capire quanto di vero c’è nella realtà delle aziende italiane circa l’innovazione tecnologica e la robotizzazione, ma soprattutto quanto di vero c’è nelle paure di chi lavora e di chi il lavoro lo deve organizzare e prevedere per il successo delle imprese. In questa sezione commentiamo i principali risultati della ricerca. Segue il racconto di un’azienda che ha scelto di puntare su un progetto coraggioso e un invito a ripensare il lavoro in virtù delle grandi innovazioni che stanno avvenendo

coverstory RIFLESSIONI

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LAVORO E PERSONEcoverstory

Isabella Covili FaggioliPresidente Nazionale AIDP

I risultati del Rapporto 2018 su Robot, Intel-ligenza Artificiale e Lavoro in Italia – promosso da AIDP con LABLAW e realizzato da Doxa (nella pagina a fianco) – fanno capire che la digitalizza-zione non è mai solo una questione tecnologica ma strategica e che c’è sempre più la consapevo-lezza che a nulla serviranno le tecnologie se non ci riappropriamo del pensiero che nulla succede se le persone non lo fanno accadere e che sono le persone a fare la differenza, sempre e comunque, ottimizzando le innovazioni e dando loro il ruolo che hanno, un ruolo di supporto e di migliora-mento della qualità della vita. Questo significa affrontare in un modo radicalmente diverso la rivoluzione digitale perché rassicura la per-sona sulla sua importanza ed insostituibilità se non nei ruoli dove vuole essere sostituita per stare meglio.

La persona resta al centro del palcoscenico dando un valore aggiunto incredibile all’azienda quando riesce a definire le aree di miglioramento in cui la digitalizzazione può intervenire creando un ambiente di lavoro meno faticoso e più sicuro.

Il vero nocciolo duro, la vera sfida che ci si troverà ad affrontare, sarà quella delle com-petenze necessarie per rimanere allineati alle nuove tecnologie. Sarà richiesto un aggiorna-mento e una formazione continua per rimanere sul mercato del lavoro con potere contrattuale, ma le aziende lo sanno e hanno interesse ad occuparsi anche di questo.

Dalla ricerca emerge che come Paese siamo attenti sia all’offerta sia all’utilizzo di robot con la consapevolezza che, secondo i risultati delle interviste, chi è “early adopter” aumenta il numero

di nuovi clienti in modo esponenziale. Ma c’è anche la consapevolezza che entro il 2030

il 60% delle occupazioni sarà automatizzata per cui ci saranno sì nuovi posti di lavoro ma diversi e che richiederanno preparazione e competenze nuove.

È importante anche non sottovalutare che oc-correranno modelli organizzativi diversi perché l’avvento di robot o cobot prevede che non si possa applicare la stessa rigidità organizzativa cono-sciuta. All’evidenza di nuovi ruoli e alle nuove skills occorre affiancare una nuova capacità organizzativa. Così si aumenterà efficienza, qua-lità, fatturato e produttività, come emerge dalla nostra ricerca.

In una società che cambia in continuazione e per la cui interpretazione serve una struttura personale forte, occorre avere attenzione anche alla cresci-ta nelle competenze soft insieme a quelle hard. Essere veloci, avere attitudine al sociale, senso di responsabilità, adattarsi al cambiamento, non saranno competenze marginali, ma, anzi, faranno la differenza nel declinare il nuovo che avanza e che deve essere capito. L’onda del nuovo non si cavalca ma si genera ed occorre molta energia per farlo, energia soprattutto psichica.

Solo così i robot saranno utilizzati e divente-ranno supporto per i lavoratori e non sostituti dei lavoratori. I numeri del rapporto ci dicono che c’è la consapevolezza e che può essere un’opportunità da non perdere. n

ono tre secoli che il rapporto uomo macchina è complicato perché

basato sulla paura. Paura che le macchine sostituiranno le persone

mentre si è poi sempre verificato (un orizzonte temporale un po’ più

ampio nell’analisi aiuta anche in questo) che è solo migliorata la qualità della vita

e che si sono venute a creare nuove professionalità.

SROBOT, INTELLIGENZA ARTIFICIALE E LAVORO IN ITALIA

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Il rapporto nasce da un’iniziativa di ricerca, promossa da AIDP insieme allo studio legale LABLAW, con l’obiettivo di produrre un quadro sufficientemente esauriente dell’impatto di intelligenza artificiale (AI) e robot sulle organizza-zioni aziendali nel panorama italiano. La ricerca è stata realizzata da Doxa su tre popolazioni differenti: 1. aziende che hanno introdotto sistemi di AI e robot; 2. aziende che non hanno introdotto sistemi di AI e robot; 3. dipendenti di entrambe le categorie di aziende.Per i primi due campioni sono stati coinvolti 303 manager e imprenditori, per il terzo campione 1000 dipendenti. La ricerca si è basata su un approccio quantitativo con la somministrazione di questionari strutturati online (sistema CAWI) tra maggio e giugno 2018. In aggiunta ai dati raccolti da Doxa, AIDP ha condotto un’ulteriore indagine, ad ottobre 2018, con l’obiettivo di raccogliere l’opinione dei capi del personale di diverse aziende italiane, per ottene-re un quadro di conoscenze più completo e verificare gli ambiti di applicazione dei sistemi di digitalizzazione nei processi HR.I risultati della ricerca sono stati presentati il 23 ottobre scorso alla presenza di numerosi direttori del personale e relatori istituzionali e associativi, presso la Sala Parlamentino del CNEL a Roma.

Il rapporto completo è disponibile in AREA SOCI del sito www.aidp.it nella sezione dedicata al Centro Ricer-che. La sessione, in costante aggiornamento, raccoglie e mette a disposizione risorse, risultati di indagini e approfondimenti sulle tematiche più attuali della professione frutto dell’attività di studio e divulgazione del Centro Ricerche AIDP.

LEGGI IL RAPPORTO

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DAL CENTRO RICERCHE AIDPcoverstory

Umberto Frigelli Coordinatore Nazionale Centro Ricerche AIDP

all’avanzare della tecnologia e al timore della per-dita di posti di lavoro, provocata dallo sviluppo delle macchine che sostituiscono le mansioni svolte dall’uomo.

I cambiamenti nella demografia e nella compo-sizione della forza lavoro sono però una costante nello sviluppo delle società. Basti pensare che nel 1881 il 61,8% dei lavoratori in Italia era occupato in agricoltura, nel 1951 la percentuale degli addetti era scesa al 44,3% e che nel 2014 gli occupati del settore agricolo erano solo il 3,6%, quelli dell’in-dustria il 26,9% e quelli dei servizi il 69,5%.

Che cosa stia comportando oggi lo sviluppo dell’intelligenza artificiale e della robotizzazio-ne nell’organizzazione aziendale, è la domanda di base che ha guidato il primo rapporto 2018 su Robot, Intelligenza Artificiale e Lavoro in Italia. L’obiettivo era raccogliere dati e percezioni su una realtà complessa e in evoluzione, che ci aiutassero a sfatare preconcetti e pregiudizi e a ragionare sulle politiche che devono guidare la gestione del benessere delle persone e lo sviluppo delle organizzazioni nel prossimo futuro.

Robot e AI stanno naturalmente introducendo un nuovo paradigma produttivo, quello della Quarta Rivoluzione Industriale che, come dimostra il caso Ruffino citato tra i case history della ricerca, tocca sempre di più tutti i settori produttivi, compresa l’agricoltura. Va da sé che industria e servizi sono i settori in cui maggiormente si avverte l’impatto delle nuove tecnologie, che consentono un livello crescente di personalizzazione dei prodotti e dei servizi, con volumi elevati.

I robot sono tecnologie che possono essere uti-lizzate sia in ambito industriale, sia di servizio. I robot industriali sono adattabili a diverse ap-

plicazioni, tipo la movimentazione, la saldatura, l’assemblaggio o la lavorazione. I robot nell’ambito dei servizi possono essere per uso personale (do-mestico, intrattenimento, assistenza ad anziani e disabili, sistemi di guida automatizzati) o per uso professionale (agricoli, pulizia di luoghi pub-blici, vigili del fuoco, per applicazioni mediche o militari). L’offerta mondiale di robot industriali è in continua crescita e si prevede fino al 2020 un incremento costante dell’offerta del 15% l’anno. Anche i robot di servizio per uso professionale vedono nelle previsioni dei prossimi tre anni un aumento di circa il 20-25% l’anno.

L’Intelligenza Artificiale ha diverse applica-zioni, che vanno dall’elaborazione del linguaggio naturale agli assistenti virtuali e ai chatbot, alle tecnologie di decision management, di machine learning, fino alla biometrica. La biometrica rende possibili interazioni tra esseri umani e macchine; le piattaforme di machine learning consentono

i narra che Ned Lud fosse un tessitore che nel 1779, distrusse il suo

telaio meccanico prendendolo a martellate, perché ripreso dal suo

datore di lavoro. Sembra che del mito esistano molte varianti e che

il movimento luddista probabilmente si sia sviluppato in Inghilterra intorno al

1811. Il luddismo è da tutti conosciuto come la reazione dei lavoratori di fronte

SABBIAMO PAURA CHE I ROBOT CI RUBINO IL LAVORO?

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STRUMENTI

ai computer di apprendere dei dati evitando gli errori commessi in precedenza e costituiscono quella parte sofisticata di intelligenza artificiale, adibita all’automiglioramento e all’autocorrezione. Le applicazioni di AI e robot nei processi aziendali portano alla robotic process automation. Anche le previsioni del mercato dell’AI anticipano una crescita esplosiva entro il 2025. Secondo uno stu-dio del Politecnico di Milano, il 56% delle grandi imprese italiane ha già avviato progetti di intel-ligenza artificiale, contro circa il 70% di Francia e Germania.

La parte di desk analysis della nostra ricerca evidenzia che, in termini di robot installati, siamo secondi in Europa dopo la Germania, e settimi nel mondo, e prevede per l’AI una media annua di crescita del 65% nel periodo 2017-2022. Sempre dalla desk analysis, emergono alcuni dati su cui molti studi ormai concordano. Innanzitutto gli occupati più a rischio a causa dell’avanzata dell’au-tomazione sono soggetti senza titolo di studio, con licenza media o con diploma di maturità e, in generale, i soggetti più giovani e meno preparati, in quanto impiegati in operazioni poco complesse e routinarie. Uno studio dell’OCSE suggerisce che le classi maggiormente a rischio di sostituzione sono quelle che hanno un’istruzione inferiore alla scuola media. Sempre l’OCSE, inoltre, stima che in Italia potrebbe scomparire il 10% delle mansioni automatizzabili, anche se la perdita del posto di lavoro non è inevitabile, poiché molto dipende dalle scelte delle imprese e dei lavoratori, oltre che dalla capacità degli individui di riqualificarsi e imparare a interfacciarsi con le nuove tecnologie.

Tutti gli studi, però, concordano sul fatto che nasceranno nuove mansioni e nuove attività in

grado di compensare le perdite ed aumentare il numero di occupati grazie alla digitalizzazione.

I risultati della ricercaLa ricerca ha coinvolto più di 300 aziende italiane con oltre dieci dipendenti, di cui la metà composta da aziende robotizzate, cioè che utilizzano processi basati su sistemi di AI e/o robot, e l’altra metà da aziende che non hanno ancora intrapreso il per-corso di robotizzazione o digitalizzazione. Le in-terviste sono state effettuate on line, attraverso un questionario strutturato secondo il sistema CAWI.

Il primo dato interessante è che le paure con-nesse all’avanzata delle tecnologie sono molto contenute. In termini generali, infatti, il 61% di questo campione si esprime in maniera favorevole all’utilizzo di sistemi di AI e robot, mentre solo l’11% si dichiara totalmente contrario.

Gli intervistati ritengono che l’utilizzo di sistemi di AI e robot nelle aziende renda il lavoro meno faticoso e più sicuro, faccia aumentare efficienza e produttività, consenta di creare ruoli e funzioni che prima non c’erano e, alle persone, consenta di lavorare meno e meglio. Interessante notare che la valutazione è più positiva nelle aziende che hanno già sperimentato queste tecnologie, rispetto a quelle che devono ancora introdurle. Per esempio, le aziende robotizzate al 99% ritengono che l’implementazione delle tecnologie renda il lavoro delle persone meno faticoso e più sicuro, contro l’87% delle aziende non robotizzate. Le pri-me, quelle che hanno già introdotto i nuovi sistemi pensano, nell’83% dei casi, che la robotizzazione faccia accrescere la competitività e il business con riflessi positivi sull’occupazione, contro il 56% delle aziende che devono ancora sperimentare

ABBIAMO PAURA CHE I ROBOT CI RUBINO IL LAVORO?

“Le previsioni del mercato dell’AI anticipano una crescita esplosiva entro il 2025”

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immaginarsi le aziende non robotizzate. Il fatturato e i ricavi sono aumentati nel 72% dei casi reali, contro il 43% della stima che sta facendo chi deve ancora robotizzare. Infine, il 28% delle aziende robotizzate registra un aumento nel numero to-tale dei dipendenti. Le aziende non robotizzate ipotizzano un aumento dei dipendenti solo nel 9% dei casi (fig. 2).

Le aziende robotizzate, poi, mostrano tutte, in percentuale, ricadute positive sui lavoratori per quanto riguarda i carichi di lavoro, la sicurezza sul lavoro, le condizioni dei lavoratori, il clima aziendale e i rapporti tra azienda e dipendenti, consegnandoci un quadro molto più positivo di quanto prefigurato dalle aziende che ancora non hanno sperimentato la robotizzazione.

In conclusione, seppure non mancano criticità e difficoltà, la ricerca evidenzia vissuti ed espe-rienze sostanzialmente positivi, e ci fotografa un contesto in cui è necessario pianificare e guidare un cambiamento, al quale le Direzioni Risorse Umane non possono essere estranee, né possono delegare alle sole funzioni tecnico-specialistiche dell’azienda. n

DAL CENTRO RICERCHE AIDPcoverstory

le nuove tecnologie (fig. 1). Chi ha già introdotto sistemi di AI o robot

dichiara che questi forniscano ausilio al lavoro delle persone nel 56% dei casi, abbiano sostituito mansioni prima svolte dai dipendenti nel 42% dei casi, o nel 33% dei casi svolgano attività nuove che prima non venivano realizzate.

Naturalmente, la ricerca evidenzia anche del-le criticità nell’introduzione di queste tecnolo-gie. Anche il questo caso, l’esame di realtà mostra una situazione in cui le criticità reali sono diverse da quelle temute o prefigurate da chi non ha ancora esperienza diretta di robot e AI. Per esempio, le difficoltà tecniche operative di implementazione prefigurate sono al 35%, contro il 23% di quelle realmente sperimentate. Maggiore invece è la ne-cessita di formazione del personale e di upgrade delle competenze in chi sta già utilizzando robot e AI, così come le resistenze culturali al cambia-mento possono essere superiori a quanto si stima.

Benché vadano superate delle difficoltà, i ri-sultati sono più che confortanti. Le aziende ro-botizzate, al 73%, hanno riscontrato un aumento della produttività, contro il 54% di quanto possono

“In termini generali, il 61% del campione si esprime in maniera favorevole all’utilizzo di sistemi di AI e robot, mentre solo l’11% si dichiara totalmente contrario”

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STRUMENTI

FIGURA 2 IMPATTI SUI PRINCIPALI KPI A SEGUITO DELL’UTILIZZO DEI SISTEMI DI INTELLIGENZA ARTIFICIALE E ROBOT IN AZIENDA: CONFRONTI

FIGURA 1 VALUTAZIONI SULL’UTILIZZO DI AI E ROBOT IN AZIENDA

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UN CASOcoverstory

Alessandra Cosso segue il CMS come formatrice, consulente e coach, individuale e di gruppo. Supervisor Counselor, Executive coach e giornalista professionista, è consulente d’impresa ed esperta diNarrazione e Comportamento organizzativi. Docente di Dinamiche Psicosociali dei Racconti Organizzativi e Presidente dell’Advisory Board del Master M.U.S.T., dirige l’Osservatorio di Storytelling dell’Università di Pavia.

è arrivati a tanto? Con un progetto imprenditoriale coraggioso, perché in controtendenza. In un’epoca di economia “estrattiva”, in cui chi investe tende a cercare un ritorno immediato, Luciano Balbo, e poi i suoi partner, hanno scelto di investire e distribuire il valore tra tutti gli stakeholder: gli azionisti ma anche i dipendenti e, non ultimo, i pazienti. Un modo di fare impresa che vorremmo vedere più spesso.

IL VALORE DELLA SALUTECom’è nato il progetto del Centro Medico Santagostino? Quali erano le vostre paure all’inizio e in che cosa è un progetto coraggioso? Balbo È nato da una mia idea, dalla constatazione che c’è un gap ampio tra quanto si paga in ambu-latorio col SSN (ticket) e quanto si paga privata-

el 2017 il Centro Medico Santagostino conta 14 sedi, 139 dipendenti,

635 professionisti (medici, dentisti, psicoterapeuti, fisioterapisti, ecc),

una crescita del fatturato del 46% grazie a 623 mila prestazioni e 240

mila pazienti nel corso dell’ultimo anno. Qualche dato sul servizio offerto: 60 euro

il prezzo medio di una visita, 3 i giorni di attesa, 0,12% il tasso dei reclami. Come si

di Alessandra Cosso www.cmsantagostino.it

N{

CENTRO MEDICO SANTAGOSTINOUNA SCELTA CORAGGIOSA, DIECI ANNI DI SUCCESSI

L’idea di creare, 10 anni fa, un servizio di ambulatori medici privato low cost è stata salutata con scetticismo dal mondo della sanità lombarda. Da allora il CMS non ha mai smesso di crescere a ritmi impressionanti. La paura? È quella di non riuscire a tenere il passo, ci spiegano il fondatore Luciano Balbo e il CEO Luca Foresti. Mentre Anna De Longhi, la giovanissima HR manager del centro, ci racconta come la sua funzione si prenda cura delle persone che lavorano con un ritmo così frenetico

Luciano BalboImprenditore con 20 anni di esperienza nel settore del Venture Capital e del Private Equity, fonda Oltre Venture dopo un percorso in ambito sociale iniziato nel 2002 con la costituzione di Fondazione Oltre, prima

fondazione Italiana di Venture Philanthropy. Luciano è stato co-fondatore di B&S Private Equity, uno dei principali operatori italiani nel settore del Private Equity. In precedenza ha ricoperto il ruolo di Direttore Generale di Finnova (SO.PA.F spa), prima società di Venture Capital in Italia. Luciano vanta inoltre nove anni di esperienza manageriale in importanti aziende nel settore chimico e dell’acciaio. Laureato in Fisica all’Università degli Studi di Milano ha conseguito un MBA presso l’Università Bocconi.

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mente. Tenendo conto che sono gli stessi medici che ti visitano. Perché allora non fare un’offerta al prezzo più basso possibile con una buona qualità di prestazione? All’inizio ho parlato molto con i medici, ma la sanità è un ambiente molto conservatore e tanti erano scettici: ci dicevano che non avremmo trovato medici disponibili. Quindi la prima paura era questa: il timore era di non saper attrarre le persone o trovare i medici. Poi i primari di alcuni ospedali milanesi hanno deciso di crederci e hanno mandato i propri collaboratori. Il nostro merito è stato di avere tenacia, anche perché i primi due anni ci siamo esposti e non avevamo un vero business plan, non sapevamo quale sarebbe stata la risposta.

Quali sono stati i momenti cruciali della vostra storia? Balbo Siamo partiti quasi 10 anni fa. E siamo sempre cresciuti in modo evidente. Io ho fatto una scelta coraggiosa: invece che cercare un break even vicino ho deciso di continuare a investire nel servizio. Ma tra il secondo e terzo anno mi sono chiesto se la strategia fosse troppo rischiosa. Nel 2012 ho trovato altri investitori privati che sono entrati nel progetto per condividere il rischio. Da lì è stato un po’ più facile per le maggiori capacità finanziarie e i volumi sono diventati via via più consistenti ma abbiamo sempre investito tanto. Qualche dato: nel 2017 sono stati investiti 1.445.200 euro in attrezzature mediche, 1.873.070 euro in nuove sedi e ambulatori e 408.739 euro in innova-zione tecnologica. Quello che ci caratterizza oggi è di avere fatto così tanti investimenti in un’azienda che, anche a regime, ha una bassa redditività, un basso ritorno finanziario. Pochi investitori ac-cettano rischi con un’aspettativa non così alta. Noi vogliamo distribuire il valore in modo equo tra utenti azionisti, pazienti e dipendenti. Oggi c’è un’economia estrattiva, gli azionisti tendono a portare verso di sé il valore: ecco noi non abbiamo questa filosofia.

Cosa sperare, o temere, per i prossimi anni? Balbo A Milano dobbiamo aumentare la penetra-zione e ampliare l’offerta facendo sempre più cose. Fuori Milano (abbiamo una piccola presenza a Bo-logna e siamo appena partiti a Brescia) il tema è se

tentare l’avventura nazionale eventualmente con altri partner. E poi, spostare l’offerta nel mondo della salute oltre che della cura: avere una vita sana costa pochissimo e riduce di molto i problemi di salute (e il costo per la Sanità). Infine, una scelta di fondo: gli azionisti prima o poi dovranno cedere questa azienda. Come fare in modo che la sua filosofia, il suo approccio, il suo DNA non vada perduto?

“FAST AND FURIOUS”: RITMI DA START UP E NON AVER PAURA DI RISCHIARELuca Foresti è CEO del Centro Medico Santagostino dal 2010. Quando lo incontri nei corridoi della sede di via Temperanza a Milano colpisce per l’andatura e l’altezza. Del basket (che ha praticato) mantiene lo stile veloce e lo scatto repentino. Unito a una luce negli occhi di chi sa dove sta andando, un pensiero dalla logica stringente e un’energia incontenibile. Molto del merito per la crescita inarrestabile del Centro va a lui, che ha saputo interpretare un mo-dello di business innovativo in modo non scontato. ➤

Luca ForestiLaurea in Fisica alla Scuola Normale Superiore di Pisa (SNS) e Master in Fisica, ha studiato nel PhD program di Matematica Finanziaria presso la stessa SNS. Inizia la sua esperienza professionale lavorando in Paesi in via di sviluppo presso un network di banche che si occupano di microfinanza. Dal 2004 al 2005 si occupa della creazione di un centro dati a Francoforte per la gestione di carte di credito e debito, bancomat e POS per istituzioni finanziarie locate in tutto il mondo. Nel

2005 fonda Econoetica, start-up tecnologica che opera nel settore dei servizi avanzati ICT, in particolare nel segmento dei contenuti multimediali e delle tecnologie wireless. È Amministratore Delegato del Centro Medico Santagostino dal giugno del 2010.

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UN CASOcoverstory

Quali sono le caratteristiche dell’or-ganizzazione che guidi? Come la descriveresti nella sua evoluzione? Foresti Una learning company. Età media 31 anni, anzianità di servizio stabile a 2,5 anni (a causa dell’aumento del personale), crescita media del 50% all’anno. Con questi numeri non è possibile basarsi semplicemente sull’esperienza delle persone ma bisogna creare un sistema che ne acceleri in modo “innaturale” la crescita. Siamo molto più simili a una start-up ad alta crescita che a un ospedale italiano.

Per guidare un’organizzazione come il CMS ci vuole coraggio? Perché? Foresti Se per coraggio si intende prendersi molti rischi calcolati, sì ci vuole molto coraggio. Abbiamo bisogno di un tasso di cambiamento furioso per poter crescere in modo equilibrato e costruendo continuamente un’azienda che regga ad uno zero in più su tutti i suoi numeri. Ovvero ogni processo deve reggere numeri che sono 10 volte quelli di oggi, altrimenti diventa obsoleto prima di imple-mentarlo. In pratica significa che ci troviamo a fare continuamente cose nuove che non sapevamo fare prima e lo facciamo con un tasso di esperienza tra il nullo e il basso. Dobbiamo quindi sbagliare molto, velocemente, apprendere e andare oltre. Insomma, ci vuole coraggio diffuso.

Qual è la tua peggior paura relativa-mente alla gestione del Centro? E la paura delle persone che ci lavorano? Foresti Che finiscano i medici disponibili nel mer-cato italiano e quindi che la nostra crescita venga bloccata dalla mancanza di uno dei fattori principali. Le persone che lavorano con me sono ovviamen-te tutte diverse e quindi ognuno di loro ha paure diverse. Se dovessi indovinare quella principale è quella di non essere in grado di crescere in modo sufficientemente veloce rispetto all’azienda e quindi perdere opportunità di carriera.

GIOVANI, CARINI E… MOLTO OCCUPATIL’età media della popolazione del CMS è 31 anni, l’entusiasmo e l’energia che circola in azienda sono palpabili ovunque. Ma anche i ritmi di lavoro e il continuo cambiamento di ruoli, task, progetti. Un habitat sfidante e potenzialmente molto stressato. Ad accompagnare la popolazione in questo viaggio è Anna De Longhi, classe 1992. Le abbiamo chiesto la ricetta HR per il CSM.

Quali sono le caratteristiche della tua organizzazione? De Longhi La popolazione è molto giovane e la com-ponente femminile è preponderante, le maternità sono all’ordine del giorno. Il management conta tra le proprie fila una forte presenza di giovani neolaureati e laureandi. In generale uno sguar-do fresco e innovativo, grinta, voglia di fare e intraprendenza sono caratteristiche irrinun-ciabili per uno sviluppo professionale da noi. Il tutto combinato con una dose di coraggio e di capacità di lavorare in autonomia. Non è un caso che la policy aziendale di assunzione preveda un periodo iniziale di stage per la conoscenza reci-proca, un periodo fondamentale durante il quale ➤

Anna De LonghiDopo la Laurea in Economia e Management all’Università Bocconi, lavora un anno a Mumbai seguendo l’implementazione di un sistema di reporting economico per un’organizzazione che accoglie bambini di strada, lebbrosi e tubercolotici. Poi lavora per una start-up digitale indiana che opera nel settore della formazione per lo sviluppo di rapporti con università internazionali. Nel 2016 consegue con lode un master in Management per le Imprese Sociali, Aziende Non

Profit e Cooperative alla SDA Bocconi School of Management, dove svolge una collaborazione con l’Impact Investing Lab, curando pubblicazioni di rilievo internazionale.Dopo uno stage al fondo Oltre Venture entra nello staff del Centro Medico Santagostino.

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UN CASOcoverstory

l’azienda mette alla prova i ragazzi, stimolandoli e testandoli sotto pressione e al contempo li forma per affrontare le sfide successive.

La responsabilità richiede coraggio e ingene-ra paura, soprattutto quando le competenze non sono ancora del tutto consolidate. Il cambiamento continuo e la necessità di rimettere in discussione decisioni e progetti, nella logica trial error richiesta dall’implementazione di idee innovative, espongono a tensioni e incertezze. È un obiettivo importante creare le condizioni affinché giovani inesperti possano imparare ad avere coraggio e a farsi carico delle proprie responsabilità. Offriamo mol-ta formazione tecnico-professionale, manageriale e coaching, in particolare con focus su tematiche relazionali all’interno dei gruppi di lavoro e più in generale sul clima organizzativo; cerchiamo di accre-scere le competenze della popolazione per sostenere la trasformazione continua dell’organizzazione e dei suoi codici. Teniamo staff meeting settimanali e Management Pills ogni mese con testimoni esterni di esperienze aziendali diversificate che vengono a trovarci e creano occasioni di incontro, confronto e discussione. Chiediamo alle nostre persone un ele-vato orientamento al servizio, un livello di produt-tività e di adattamento al cambiamento continuo, in cambio offriamo loro orari flessibili, ambiente di lavoro gratificante, autonomia nello svolgimen-to delle mansioni e opportunità di formazione qualificanti e sviluppo professionale che garan-tiscano l’employability. Un esempio? il docente madrelingua inglese che ogni mercoledì svolge, in orario lavorativo, delle sessioni di conversazione con i dipendenti che vogliano partecipare.

Quali sono le politiche che adottate per accompagnare le persone al meglio nell’avventura CMS? De Longhi Per la costruzione di un habitat or-ganizzativo coerente si sta lavorando sul prin-cipio dell’accoglienza diffusa. In quest’ottica il CMS ha deciso di introdurre lo smart working, con la possibilità di svolgere lavoro smart per il numero di giorni massimo previsti dalla nor-mativa. Non abbiamo ancora dati consistenti, vista la recente introduzione, ma possiamo già affermare che in alcuni casi sono migliorati i rapporti familiari e il coinvolgimento nel lavoro.

Per potenziare il lavoro dei people mana-ger e diffondere la cultura del feedback a tutti i livelli aziendali, l’anno scorso abbiamo fatto un percorso di formazione di un anno, combina-to a percorsi di coaching individuali. Sono stati momenti di dialogo e di proficua interazione che hanno portato ad una maggiore consapevolezza di gestione e di prassi aziendali.

Per valutare il grado di coinvolgimento del personale e l’analisi del clima abbiamo fatto colloqui individuali con tutto il personale delle Case (così vengono chiamate le sedi ambulatoriali): è stato possibile ripercorrere e ricostruire la storia di ciascun dipendente all’interno del CMS, facendo emergere l’individualità di ogni operatore, approfondendo eventuali bisogni for-mativi di ciascuno e ponendo massima attenzione alle aspirazioni con la possibilità di esprimere punti di vista, suggerimenti e in alcuni casi anche critiche. n

Le immagini di queste pagine sono della sede dell’Head Office in via Temperanza: spazi comuni e call center.

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Michele Tiraboschi Coordinatore scientifico ADAPT e Membro del Comitato Scientifico AIDP mentalità comune è portata ad affiancare alle nuove

tecnologie la scomparsa del lavoro e uno scenario da disoccupazione di massa con forti ripercussioni sui sistemi di welfare. Robot, algoritmi, Internet delle cose, ma anche e-commerce e gig economy oggi ci rimandano a scenari pessimistici nei quali le macchine svolgeranno il lavoro degli uomini che resteranno disoccupati. E spesso anche chi cerca di leggere in chiave ottimistica queste dinamiche lo fa sostenendo che finalmente l’uomo avrà più tempo per occuparsi di se stesso, non impegnato nelle dure attività lavorative. Insomma, uno scenario da ozio creativo. In entrambe le letture quindi il lavoro scompare o comunque si disperde sulle piattaforme virtuali e nel precariato diffuso. In questo modo una nuova paura si somma ad altre più tradizionali legate ai processi di innovazione e riorganizzazione delle imprese: la difficoltà a convincere i lavoratori a cambiare ruolo e mansioni, il timore di una dura risposta sindacale che possa bloccare i processi di trasformazione, la paura di gestire gli esuberi che potrebbero derivare così come quella di non tro-

vare i profili professionali adatti per governare i nuovi processi, colpa anche dei ritardi del sistema di istruzione e formazione.

Tutto questo insieme di paure è figlio da un lato di una concezione ancora novecentesca dell’impresa e delle sue logiche sia organizzative sia di relazioni industriali. Dall’altro è figlio di un sistema di regolazione del lavoro e del mercato del lavoro, specialmente nella sua connessione con il mondo della formazione e della ricerca, che non sembra rispondere alle esigenze di oggi. Spesso infatti molte paure nascono dalla constatazione che le imprese non hanno a disposizione gli strumenti necessari per poter organizzare il lavoro conciliando flessibilità e tutela del lavoratore e della produzione. Quindi, anche a fronte del coraggio di alcune scelte manageriali, il rischio è quello di non poterle agire al meglio, vincolati da un sistema normativo che si muove ancora all’interno delle strette vie della subordinazione giuridica del Novecento, con chiari vincoli in termini di orario e luogo di lavoro, ma soprattutto costruita intorno a quello che Marx

el corso degli ultimi anni le prospettive del futuro del lavoro sono state

sempre più affiancate a un senso di paura e timore. L’elemento prin-

cipale che sembra favorire questa dinamica è quello della rivoluzione

tecnologica che stiamo vivendo e che ci siamo ormai abituati a definire Quarta rivolu-

zione industriale. Complice una narrazione semplicistica e a tratti apocalittica oggi la

di Michele Tiraboschi www.adapt.it

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INVITO A RIPENSARE IL LAVOROOggi la paura può essere affrontata proprio in virtù delle grandi innovazioni che stanno avvenendo: la Quarta rivoluzione industriale ci invita a leggere i rapporti di lavoro contemporanei non dalla categoria del “lavoro astratto” ma da quella della professionalità e a costruire, in Italia, un nuovo modello di relazioni industriali, partecipativo

NUOVE REGOLEcoverstory

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NUOVE REGOLEcoverstory

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chiamava “lavoro astratto” e che oggi va sempre più riducendosi.

Da cosa ripartire quindi per ridurre le paure e dare spazio e libertà d’azione al coraggio?

Professionalità e relazioni industrialiDue possono essere gli elementi centrali. Il primo è rileggere i rapporti di lavoro contemporanei par-tendo non dalla categoria del lavoro astratto ma da quella della professionalità. Nelle imprese che fanno innovazione la difficoltà maggiore non è solo infatti quella di reperire i profili che cercano all’interno di un mercato che spesso non li offre. Una volta indi-viduati, la difficoltà è quella di inquadrarli in modo moderno all’interno dell’organizzazione mettendo al centro la loro professionalità e costruendo di conseguenza le logiche retributive, i tempi di lavoro, i ruoli, i rapporti con le altre persone dell’impresa. Questo impone la scelta più coraggiosa: superare il modello organizzativo industrialista costruito sulle logiche gerarchiche di ordini e direttive e alimentato da una forte burocrazia interna. Tale modello rischia oggi di impedire l’emergere della professionalità in azienda, all’interno di un panorama nel quale la forza lavoro ha e avrà sempre più competenze specifiche e trasversali e nel quale il capitale umano farà sempre di più la differenza. Nel concreto significa rivedere e riformare gli inqua-dramenti contrattuali e le declaratorie presenti nei contratti collettivi, ripensare il rapporto tra salario e professionalità e competenze, ripensare ai tempi

di lavoro e ai luoghi all’interno di logiche di vero smart working che non siano una semplice riproposizione del vecchio telelavoro. Soprattutto dare avvio alle politiche attive e di ricollocazione che sono il tassello mancante delle ultime riforme del lavoro avviate nel nostro Paese.

Il secondo elemento è l’innovazione delle relazioni industriali. Per superare la paura che il rapporto tra impresa e parti sindacali può generare occorre dirigersi verso un modello di relazioni industriali parte-cipativo. Ciò non significa negare gli elementi di contrasto che potranno sempre esserci tra management e lavoratori ma individuare modalità di gestione di questo contrasto che possano andare oltre la mera contrap-posizione nell’interesse di tutti. È quanto del resto prevede l’articolo 46 della nostra Carta Costituzionale che recita: “Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della pro-duzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”. La Germania è da sempre un modello in questo senso, ma non occorre semplicemente importare il loro assetto. Il vero coraggio si gioca nella costruzione di un modello partecipativo italiano, che si sposi con le caratteristiche delle imprese e dei sindacati del nostro Paese. La Quarta rivoluzione industriale, lungi da essere ostacolo a questa trasformazione ne è un volano. Infatti proprio i cambiamenti legati alla professionalità che abbiamo rapidamente illustrato incidono profondamente sulle lo-giche di responsabilità e di condivisione tra le parti.

Siamo quindi di fronte ad un momento storico nel quale la paura può essere affrontata, dal punto di vista dei cambiamenti nel lavoro, pro-prio in virtù delle grandi innovazioni che stanno avvenendo. La svolta starà nello smettere di osservarle come si osserva qualcosa che è fuori dal nostro controllo e che si sviluppa in modo autonomo e distaccato, al contrario è fondamentale ricordarci che siamo padroni del nostro destino economico, sociale e politico. La sfida non è facile, ma è pur sempre meglio che viverla da spettatori impauriti. n

PROGETTIAMO INSIEME UN NUOVO MODO DI FARE UNIVERSITÀ

Così nasce ADAPT, per intuizione del professor Marco Biagi, quale modo nuovo di “fare università”.ADAPT è una associazione senza fini di lucro, nata nel 2000 e con sede presso il Centro Studi DEAL dell’Ateneo di Modena e Reggio Emilia. Nel 2012 ADAPT ha concorso alla nascita di Fondazione ADAPT che promuove una Scuola di alta formazione in Transizioni occupazionali e relazioni di lavoro.

Dal 2007 ADAPT ha finanziato: 3 scuole di dottorato in relazioni di lavoro - 271 borse triennali di dottorato di ricerca. Dal 2003 ha finanziato e promosso: 110 contratti di apprendistato di alta formazione e ricerca - 64 assegni di ricerca annuali - 33 borse private per corsi di alta formazione - 4 riviste, 3 collane scientifiche e 3 bollettini sui temi del lavoro.

ADAPT ASSOCIAZIONE PER GLI STUDI INTERNAZIONALI E COMPARATI SUL DIRITTO DEL LAVORO E SULLE RELAZIONI INDUSTRIALI - [email protected] - WWW.ADAPT.IT - @ADAPTLAND

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NUOVE REGOLE

DIREZIONE DEL PERSONALE 210X270.qxp_Layout 1 04/04/18 14:05 Pagina 1

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AUTOMOTIVAZIONEcoverstory

Pietro Trabucchi Psicologo dello sport e dei limiti umani. Si occupa da oltre due decenni di motivazione, gestione dello stress e resilienza e insegna all’Università di Verona. Già Psicologo di varie Squadre Olimpiche: sci di fondo (Torino 2006), triathlon (Sydney 2000) e canottaggio (Rio 2016) si è occupato dell’allenamento psicologico di varie spedizioni alpinistiche. Nel 2005 ha raggiunto la cima dell’Everest con la spedizione Everest Vitesse ed è stato 4 volte finisher del Tor des Geants (endurance). Ha pubblicato libri sulla resilienza e la motivazione, tra i quali Resisto dunque sono e Opus.

vertiginosamente. Credo che oggi siamo all’interno di una grande tempesta globale che ci disorienta e in cui il vecchio ordine mondiale (certezze, riferimenti, valori) sta sparendo e nulla di nuovo appare all’orizzonte che possa prenderne il posto.

Sia chiaro: questo non è il valzer della nostalgia. Il cambiamento non è di per sé un male. E in ogni caso, che piaccia o no, c’è e basta. Sta a noi saperlo trasformare da maledizione ad opportunità. Il problema vero sono quindi gli atteggiamenti con cui lo affrontiamo; e le risorse interne attraverso cui lo filtriamo.

A causa dell’impatto sui nostri cervelli di una serie di fattori sociali e tecnologici, oggi siamo mediamente meno allenati alle sfide e molto più facilmente demotivabili. Inoltre, forse a causa della passività crescente indotta dalla cultura digitale, siamo troppo spesso propensi ed abituati ad aspettarci che le soluzioni arrivino dall’esterno, che

ygmunt Bauman se ne era già reso conto vent’anni fa. Il grande so-

ciologo e filosofo polacco aveva descritto la nostra condizione come

Società liquida (Liquid modernity, Polity Press, 2000) perché i nostri

riferimenti solidi sono svaniti e l’incertezza regna sovrana sia a livello collettivo che

a livello individuale. Ma dal tempo della sua analisi il cambiamento ha accelerato

di Pietro Trabucchi www.pietrotrabucchi.it

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PAURA DEL CAMBIAMENTOLa paura è un’emozione positiva perché segnala alla coscienza l’esistenza di un problema. Le persone oggi non hanno consapevolezza degli esiti a lungo termine delle loro stesse scelte e la politica populista cavalca questa incoscienza. Alla paura del cambiamento e del sentirsi inadeguati si risponde allenando le proprie risorse motivazionali come ci racconta Pietro Trabucchi nel suo ultimo libro

PERCHÉ L’AUTOMOTIVAZIONE SARÀ SEMPRE PIÙ IMPORTANTE NEL MONDO CHE VERRÀ

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qualcun altro se ne faccia carico. Conviene invece iniziare a darci da fare per so-

pravvivere. Per prima cosa sgomberando il campo dai preconcetti e dagli alibi che ci ostacolano nel fare assegnamento sull’automotivazione, poi, im-parando ad allenarla. Essa infatti sarà sempre più importante in futuro, e vediamo perché.• La globalizzazione ha esasperato la competizione economica, cambiando il mondo del lavoro e facen-do lievitare il senso di precarietà degli individui: scompariranno il posto fisso, molte garanzie e i lavori a media qualificazione. • L’automazione della rivoluzione industriale 4.0, sottraendo mano d’opera, renderà il mondo del lavoro sempre più polarizzato. Da un lato rimarran-no solo quei compiti esecutivi di livello così basso che non è conveniente automatizzarli, dall’altro ci sarà il lavoro di quelli che progettano e implementano la tecnologia; oppure tutte quelle professioni che non è possibile automatizzare, come per esempio tutti i lavori basati sulle relazioni umane. Il tramonto di un mondo, ma è anche il sorgere di un contesto dove continuamente cambiano il sapere, le com-petenze, gli obiettivi e le procedure. Un ambiente che richiede tantissima automotivazione perché si deve saper continuamente ripartire da capo, ri-apprendere tutto. Più e più volte nel corso di una vita. Un mondo faticoso. Dove non puoi più imboscarti o vivacchiare. • Esiste poi un altro motivo, più profondo e radicale, per cui imparare ad automotivarsi diventa essen-ziale nel tempo della globalizzazione: perché oggi alcune strutture, che sono state nei secoli scorsi un costante riferimento per l’individuo, sono ridimen-sionate. Pensiamo agli Stati nazionali che stanno perdendo alcune delle loro prerogative, a vantaggio di altri tipi di organismi come le multinazionali. Un esempio di come queste organizzazioni tendono a sostituirsi agli Stati riguarda la sovranità economi-ca stessa: oggi molti processi produttivi non sono più collocati in una singola nazione, ma vengono frantumati e dislocati dalle multinazionali in varie parti del mondo. Queste organizzazioni, che a volte producono fatturati paragonabili al PIL di piccole nazioni, frazionano le fasi del ciclo di produzione per collocarle in zone dove possono ricavare profitti maggiori, contando su una manodopera a un costo più basso o su un lavoro meno tutelato. Questa de-

cadenza nel potere di controllo degli Stati lascia gli individui più “orfani”: se prima, infatti, era lo Stato a doversi occupare delle esigenze dell’individuo in quanto “cittadino” (pensiamo al concetto stesso di Stato assistenziale), ciò non ha alcun senso per le multinazionali per cui l’individuo esiste solo in quanto consumatore. • A questa aumentata percezione di precarietà e solitudine dell’individuo e alla sua sfiducia verso la possibilità di soluzioni collettive contribuisce anche l’inarrestabile decadenza morale delle classi politiche. Oggi fare il politico non risponde più a un’esigenza di militanza di valori o al mettersi al servizio della comunità: soddisfa semplicemente un bisogno narcisistico di potere personale e di atten-zione. Così, con rare eccezioni, la classe politica lungi dal risultare la selezione delle caratteristiche migliori della popolazione, ne testimonia le peggiori: arrivismo, spregiudicatezza, cinismo, egocentrismo. La politica è diventata l’attuazione perfetta della Legge di Michels (o Legge di ferro dell’oligarchia, Robert Michels, La sociologia del partito politi-co, 1966, Il Mulino) che recita: “qualsiasi gruppo dirigente giunga al vertice di un’organizzazione politica tende ad abbandonare ogni ideologia che non sia quella di perpetuare il proprio potere”. Io la ribattezzerei “l’inesorabile Legge della Poltrona”: le ideologie sono paraventi dietro ai quali l’unico scopo per cui ci si sta dando da fare è rimanere attaccati alla sedia stessa.

Quanto sopra significa che è ora di sventolare il fazzoletto e dire addio alle aspettative che le so-luzioni arrivino dall’esterno. Il mondo che verrà necessita di sempre maggiore iniziativa autonoma delle persone. Servirà molta automotivazione per farsi carico delle nuove problematiche che le antiche strutture non sono più in grado di gestire. Per fare un esempio, secondo molti osservatori, il problema del cambiamento climatico non si risolverà con i trattati tra governi (che comunque ben vengano), ma solo grazie a una modifica radicale dei compor-tamenti individuali (A. Hiller, M. Hourdequin). Come novelli Atlanti saranno gli individui a doversi fare carico del peso del mondo; e ci vorrà molta passione. Cominciamo quindi a sgombrare il campo dalla visione di comodo, fatalistica e fuorviante che spesso adottiamo quando pensiamo alla parola “motivazione”. n

Titolo OpusAutore Pietro TrabucchiCollana I libri del benessereCasa Editrice CorbaccioAnno 2018Pagine 176 pagine, Prezzo 16,00€

In Opus Pietro Trabucchi spiega i meccanismi che governano l’automotivazione, le strutture cerebrali su cui si fonda, le azioni che la sostengono e le relazioni che la incentivano, ribadendo che si tratta di una forza che nessuno può darci dall’esterno, ma che è in ognuno di noi. E che, tuttavia, può essere «allenata» con l’aiuto di altri, così come possiamo noi stessi contribuire a sostenere la motivazione altrui, in un circolo virtuoso di sviluppo della potenzialità e della personalità umana.

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ANTIDOTOcoverstory

a metafora della patologia autoimmune è utile nel coaching. “La malattia autoimmune è una condizione patologica causata da una reazio-ne immunitaria, diretta contro costituenti del proprio organismo, che sono interpretati come

agenti esterni pericolosi” APAI, Associazione Patologie Au-toimmuni Internazionale. Le persone arrivano in azienda ad intraprendere un percorso di coaching senza avere idea di dove si trovino nel processo di cambiamento: hanno un bisogno più o meno consapevole, a partire dal quale formulano una richiesta di sviluppo e di cambiamento. Il coaching ha così inizio. In realtà quella che ha inizio, per un coach esperto, è

la fase di analisi della coach-ability della persona ma anche dei gruppi, per verificare insieme in quale fase del processo di cambiamento si trovi la persona.

Un buon modo per affrontare questa fase, come per un medico o per un allenatore, è fare un body scan, analisi del sangue, per verificare che tutto sia in ordine e pronto. Avere informazioni oggettive sul proprio stato. Uscendo dalla me-tafora, esiste una buona possibilità che la persona arrivi alle volte al coaching senza conoscere quanto si voglia davvero impegnare su quegli obiettivi.

Spesso persone volenterose nascondono a loro stesse prima di tutto una situazione di blocco e di resistenza ad un cambia-

Francesca Romana Vender Trainer-coach certificato con Teleos Leadership Institute (Usa), Executive Coach, PCC per I.C.F. e Certificata Immunity To Change (Harvard) HOGAN, MBTI® OPP Europe, insegna People Management e Personal Development in Scuole di Formazione Aziendale.

Cristina Cremonesi Trainer e coach, esperta in sviluppo manageriale e in dinamiche relazionali applicate al comportamento organizzativo e di psicologia dei gruppi. Psicologa e psicoterapeuta, è docente di Management e Leadership in varie Corporate University.

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di Francesca Romana Vender e Cristina Cremonesi {

IMMUNITÀ AL CAMBIAMENTO E AMBIGUITÀ DELLE ZONE DI COMFORTCome il sistema immunitario fisico ci protegge dai virus che minacciano la nostra salute, così esiste un sistema immunitario psicologico impegnato ad allontanare ciò che ci fa paura e a mantenerci in una zona di comfort. Per cambiare e sbloccare il potenziale è necessario trovare un sistema più potente che modifichi le convinzioni che abbiamo di noi e del mondo che ci circonda. Scopriamo come

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mento più profondo e spendono soldi per un costoso maquillage utilizzando il coaching come strumento improprio. In pratica voglio una cosa ma voglio contemporaneamente e inconsciamente il suo opposto. Secondo R. Kegan e L. Laskow Lahey, autori di Immunity to change (Harvard Business Press), alcune persone sviluppano resistenze, si costruiscono eleganti alibi che nascono in parte dall’autoprotezione in parte dalla paura di ri-ve-dere alcune zone della propria identità. Uscire da zone conosciute (la comfort zone nella psicologia comportamentale indica una condizione menta-le di sicurezza, dove tutto è rassicurante e noto) della propria personalità, richiede sia la capacità di sapere come affrontare queste zone meno note sia la consapevolezza di riconoscere e gestire blocchi emotivi autolimitanti, auto sabotaggi interni che noi stessi mettiamo in atto.

La capacità che abbiamo dunque di prevenire cambiamenti, è una malattia autoimmune, ed il motivo vero per cui non cambiamo. Le richieste interne ed esterne tengono tutto il nostro sistema dinamico in equilibrio come una omeostasi e se arriva la richiesta di migliorare la nostra capacità di delega, per esempio, la vediamo come minaccia e siamo così autoprotettivi fino a negare internamente tale richiesta. Gli autosabotaggi che realizziamo sono perfettamente funzionanti anche per molti anni, perché se si ha un piede sull’acceleratore e uno sul freno, la macchina non si sposta e la nostra sensazione è di infinita solidità, ci sentiamo granitici ed affidabili, ma non sappiamo di esse-re finiti nell’immobilismo e forse nella felicità apparente.

Identificare e superare la nostra immunity to change non ci esonererà mai definitivamente dal provare ansia, paura, rabbia, tristezza, ma ci ren-derà nuovi e più liberi.

Sbloccare questo robusto sistema di preven-zione, di difesa significa ricostruire un sistema di significati che non ha nulla di tecnico, ma ha molto di psicologico e di adattativo.

Cristoforo Colombo stava solo cercando di ri-solvere un problema di navigazione e riscrisse la mappa del mondo. Da un problema tecnico si può andare verso un percorso trasformativo. Spesso investire in energie per un cambiamento, restituisce successivamente molti più dividendi di quelli che

si pensa di dover tirar fuori all’inizio di un investi-mento. Ogni cambiamento tiene in conto l’idea che non sappiamo dove ci porterà ma la consapevolezza che può solo essere più sano della stagnazione.

L’immunity to changeL’obiettivo della metodologia proposta ITC (Immuni-ty to change) è quello di avere informazioni prima di iniziare un allenamento. Il cambiamento è così duraturo perché esplora il nostro mondo emotivo. Cambiare dunque è sempre un tema-problema di tipo adattativo e non tecnico. Il metodo proposto da Kegan e Laskow Lahey viene così contestua-lizzato all’interno del coaching individuale e del group coaching nella nostra esperienza professio-nale. La metodologia dell’ITC è uno strumento che utilizziamo previamente al percorso di coaching, perché permette di:• accelerare un processo di cambiamento• considerare più in profondità gli obiettivi che si sono scelti.

Nella nostra esperienza abbiamo chiesto alle per-sone dove volessero cambiare e per quale motivo. Poi abbiamo chiesto se fossero curiose di sapere prima di tutto come funziona il loro sistema di ansia-energia. Infine, prima di iniziare il coaching, abbiamo fatto “vedere” loro le resistenze, i blocchi, costruiti per proteggersi dal cambiamento e di cui spesso non erano consapevoli. Kant diceva che la percezione senza il pensiero è cieca ma anche che il pensiero senza la percezione crea paralisi (La critica della Ragion pura). L’obiettivo di questa metodologia è quello di avere più informazioni di noi stessi sia dal punto di vista cognitivo che emotivo. L’errore più grande è quello di considerare obiettivi di cambiamento come ascoltare, gestire i conflitti, lavorare in team, come compitini tecnici e non sfide che riguardano l’intero sistema persona ed adattamento nel suo insieme. Lo strumento pro-posto da Kegan e Laskow Lahey serve ad aiutare a identificare quattro aree che riguardano il proprio cambiamento: • Visible commitment l’impegno o le azioni che si vogliono intraprendere;• Doing/not doing le cose che già si fanno o non si fanno rispetto all’impegno intrapreso;• Hidden competing commitments l’agenda na-scosta, ovvero quello che veramente mi interessa

Titolo Immunity to change Editore Harvard Business PressCollana Leadership for the Common GoodAnno 2009Pagine 368 p.Testo in Inglese

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misurare la readiness to change; fare delle valuta-zioni sulle risorse disponibili per un cambiamento;• la metodologia dell’ITC può portare i manager-formatori, e chiunque abbia ruolo di guida, ad avere una visione più positiva del cambiamento, specialmente quando questo è presentato come uno sviluppo armonico della personalità.

Nelle diverse esperienze professionali e con centinaia di persone, ci siamo resi conto che “sbloccare le resistenze” delle persone e dei team rispetto a nuove sfide che l’organizzazione si propone, diviene una priorità fondamentale e presupposto necessario rispetto all’imple-mentazione di qualsiasi azione innovativa ed è un investimento che alcune aziende stanno intra-prendendo con successo e che dovrebbe far parte dei percorsi “trasformazionali” da promuovere per raggiungere i risultati che si prefiggono.

Diviene possibile così, attraverso sperimenta-zioni concrete e dispositivi metodologici costruiti ad hoc, accompagnare gli individui a rendere vi-sibile il sistema di regole e convinzioni sommerse che impediscono loro e ai team di assumere nuove modalità e prospettive per affrontare le sfide e i cambiamenti di scenario talvolta così repentini.

Il processo così attivato, favorisce nell’individuo il desiderio di lavorare su evidenze e motivazioni che promuovono la crescita nel dare un senso di direzione al proprio cambiamento ed alla propria vita. Vengono allora spezzati quegli alibi o routine organizzative, che non fanno emergere le proprie potenzialità. L’acquisizione di strumenti che sviluppano un maggior senso di possibilità e di motivazione al cambiamento, funge da ac-celeratore, per diventare in modo consapevole, prima “osservatori di se stessi”, poi “ricercatori” di nuove modalità e atteggiamenti. n

ANTIDOTOcoverstory

e che non vorrei mai cambiare;• Big assumptions le convinzioni radicate che sottendono l’agenda nascosta.

ConclusioniNon esiste scopo più nobile che quello di guidare le persone verso l’eccellenza, la realizzazione, le conquiste collettive. Negli ultimi anni, le nostre esi-stenze e le nostre società sono cambiati con grande velocità e in modo del tutto imprevedibile e quello che abbiamo visto fino ad ora è, con ogni probabili-tà, solo la punta dell’iceberg. Se vogliamo scoprire la strada che ci conduce ad un mondo migliore, a un ambiente più stabile, servono persone capaci di guardare oltre il presente, in grado di generare speranza e non disperazione e con la capacità di guidarci tutti in un viaggio consapevole di trasfor-mazione. Occorrono più leader che siano davvero in gamba e che pensino ed agiscano in modo nuovo: donne e uomini che non abbiano paura di percorrere il sentiero meno battuto, quello che richiede vision e coraggio. Il ruolo del co-ach richiede molta più preparazione per essere, davvero, leader risonante. Con questo articolo il nostro desiderio è di fornire degli strumenti per prendere più sul serio il proprio ruolo di change agent insieme ad alcune raccomandazioni e linee guida per chiunque abbia un ruolo di Education nella propria vita professionale:• per un formatore conoscere le difese psicologiche è strumento fondamentale per osservare e superare le resistenze al cambiamento;• le resistenze sono una guida importante per com-prendere il nucleo attorno a cui si sono formati il carattere e la personalità del coach e del cliente;• la metodologia dell’immunity to change può essere spesa in fase di analisi del contesto di cambiamento;

“Riconoscere le ragioni del proprio sistema di immunità al cambiamento significa conoscere le forze che tengono in equilibrio dinamico l’individuo”

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CORAGGIOcoverstory

Matteo Rosa Consulente e Formatore Senior

più o meno così: “Il coraggio, uno, da qualche parte, se vuole, lo può trovare.”

L’altro pilastro della formazione al coraggio, come di qualsiasi formazione che sviluppi l’intelligenza emotiva, è la chiarezza su cosa significa avere pau-ra: il provare paura non fa necessariamente di me una persona paurosa; la paura è un’emozione che tutti provano e la distinzione tra persone paurose e coraggiose sta nel modo in cui rispondiamo alla paura.

Il coraggio quindi non è il non aver paura, ma è una risposta timida, umile e sensata alla paura, che riconosce il vero valore delle nostre risorse davanti al pericolo. Ci aiuta a usare bene le tre risposte automatiche al pericolo: fuga, immo-bilità, controaggressione e ne aggiunge una quarta tipicamente umana, la parola (le altre le hanno anche le lucertole).

Quindi sviluppare il coraggio, per un formatore, significa aiutare le persone innanzitutto a ricono-scere i segnali fisiologici della paura (che come tante altre emozioni è un utile segnale precoce, in

questo caso di pericolo). Poi a valutare il segnale e la minaccia, molto velocemente, per decidere il corso d’azione più opportuno usando anche (non solo) la parte più razionale del nostro cervello. Infine a utilizzare la spinta energetica generata dalla paura (di solito descritta come una bella iniezione di adrenalina) per agire in maniera efficace, traendo così il massimo risultato sia dalle risorse emotive

l formatore che lavora su temi quali la paura e il coraggio incontra spesso nei

partecipanti ai corsi un atteggiamento simile a quello di Don Abbondio nel

XXV capitolo dei Promessi Sposi: “Il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se

lo può dare”. Questa è la prima e la più potente credenza debilitante che dobbiamo

affrontare, se vogliamo lavorare sul coraggio. Per esempio cambiando la narrativa,

di Matteo Rosa [email protected]

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DON ABBONDIO E IL FORMATOREChiavi, strumenti e riflessioni per una formazione al coraggio

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che dalle risorse razionali di ognuno.

Alcuni strumentiDescriverò qui alcuni strumenti da noi utilizzati negli ultimi anni per lavorare sul coraggio.• Alcune attività outdoor apparentemente estre-me, che portano a impratichirsi non solo nell’uscire dalla comfort zone ed entrare nel discomfort, ma anche a travalicarlo e saltare avanti e indietro nella panic zone, per vedere come l’energia che se ne trae sia molto maggiore e dia un’efficacia impen-sata. Un esempio sono le attività in grotta, svolte ovviamente con la supervisione di istruttori che garantiscono la sicurezza. Altre possibilità, come il bungee jumping, sono interessanti ma non sempre hanno copertura assicurativa, il che scoraggia il committente dal tentarle.• Ci sono peraltro situazioni che generano paure diverse da quelle fisiche dell’outdoor, per esempio la paura sociale di fare brutta figura o di non riu-scire. Queste si possono esplorare con alcune forme estreme di teatro (come il teatro di strada) o con attività di utilità sociale che portino a contatto con persone molto lontane dalla media (per miseria o nobiltà) o davvero problematiche.• Tra le attività più legate all’aula, usiamo i film dell’orrore: aiutano a identificare la paura, le paure, ma anche a ragionare sulla figura della vittima, per rovesciarla in un’ottica di empowerment. L’uso di clip e di rievocazioni personali permette di eviden-ziare i segnali scatenanti, le reazioni fisiologiche, le risposte automatiche o emotivamente intelligenti (e le relative conseguenze), la narrativa interna e sociale della paura. C’è da dire che la maggior parte dei film horror sono veramente brutti, perciò bisogna saper scegliere con cognizione di causa. Secondo Luca Guadagnino – che ha appena girato il remake di Suspiria di Dario Argento – i tre miglior horror sono nell’ordine Halloween di John Carpenter, Shining di Stanley Kubrick e L’esorcista di William Friedkin, perché riescono a costruire e mantenere una coerente atmosfera di paura, senza ricorrere a scene che ti pigliano di sorpresa (c.d. shockers). Per questo si può assegnare un film da vedere a casa come pre-compito e poi in aula usare clip di altri titoli, sfruttando così sia il clima di terrore costruito dai registi più abili nel corso dell’intera pellicola, sia l’effetto istantaneo di alcune scene iconiche, e scegliere i titoli tenendo anche presente come

la paura si manifesta nell’ambiente lavorativo dei partecipanti al corso.

Gli obiettiviNaturalmente, la corretta conoscenza della situa-zione aziendale – e dei bisogni che spingono a com-missionare un’iniziativa abbastanza insolita come un corso sul coraggio – è il presupposto della buona progettazione, e anche di un debriefing dell’espe-rienza capace di generare un vero cambiamento. In particolare, se si lavora sulla paura, il debrief dovrebbe porsi l’obiettivo di raggiungere almeno tre risultati:• portare allo scoperto le radici del timore che si vive nell’organizzazione. È un clima di terrore endogeno? Deriva da situazioni di mercato o da altri fattori esterni? È la conseguenza di azioni precise o di una mancanza di azione? Insomma, c’è uno squalo come nel film di Spielberg, o un fantasma, un killer, un demonio, un vampiro? O solo un ter-rore diffuso e inspiegabile come in The Blair Witch Project? Paradossalmente le situazioni in cui c’è o si sospetta un cattivo sono le più facili da gestire, mentre quando ci si trova di fronte a “ciò che non si può dire” ed è stato rimosso dalla coscienza or-ganizzativa, allora cominciano davvero i problemi.• Trovare il coraggio, l’energia e la voglia di af-frontare la situazione. In questo senso il corso di formazione può diventare davvero l’Evento Focale di cui parla Manfred Kets De Vries, lanciando un cambiamento comportamentale contagioso. Per ottenere questo risultato si capovolge il vivibile della paura, da emozione paralizzante a generato-re dell’azione. In questo senso, torna utile tenere diverse sessioni di debriefing, immediatamente a ridosso delle esperienze.• Generare intelligenza organizzativa su come e quando dare corso all’azione, trovandosi gli alleati giusti e combattendo battaglie che si possono vincere. Un comportamento intelligente tutela non solo i neo-coraggiosi – evitando sacrifici inutili – ma tutta l’organizzazione: vedere qualcuno che si immola invano non contribuisce di sicuro a far passare la paura ai suoi colleghi. Al contra-rio, li trasforma immediatamente in altrettanti Don Abbondio e questo sì che sarebbe davvero spaventoso. n

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CONSAPEVOLEZZAcoverstory

Fabrizio Favini Consulente per lo sviluppo del talento in Azienda. Consulente per il business development. Facilitatore e formatore. Utilizza le neuroscienze per favorire lo sviluppo delle competenze sociali indispensabili a modificare i comportamenti non più funzionali alla crescita sia dell’Individuo che dell’Azienda. Autore di articoli e libri di management su vendita di relazione, marketing complesso e sviluppo dei talenti.

ci troviamo ad esprimerle.Vi sono poi emozioni secondarie o sociali che

sono più vicine al nostro moderno stile di vita in quanto, fortunatamente, di rado oggi dobbiamo risolvere problemi di mera sopravvivenza, abbia-mo piuttosto l’esigenza di far fronte ad ambienti sociali sempre più complessi e impegnativi. Le principali emozioni secondarie sono l’imbarazzo, la gelosia, l’invidia, il senso di colpa, l’orgoglio, la vergogna.

Nel nostro mondo sociale e lavorativo il concet-to di paura viene di sovente associato al rifiuto verso gli altri, al timore dell’ignoto, del nuovo, del cambiamento. Anche perché la nostra cul-tura ci incoraggia alla cautela a discapito della curiosità e, quindi, della crescita. Ne deriva, nel comune sentire, che la paura dell’ignoto è assi-milabile al pericolo: ogni cambiamento è gravido di incertezze.

Conseguenza evidente di questo stato è l’ac-cidia, ossia l’avversione all’azione.

L’emozione negativa della paura induce una

situazione di paralisi. In assenza di azione il pensiero e la percezione girano a vuoto, diven-tano inutile dispendio energetico. Ne deriva che decidere ha senso solo se si è nella condizione di implementare la decisione, ossia di agire.

• La paura ti impedisce di ragionare, sentire, agire? Sei paralizzato!• La rabbia ti impedisce di lavorare efficace-mente? Sei paralizzato!NB. Tutte le emozioni negative determinano una situazione di paralisi.

Si raggiunge il successo solo quando si smet-te di avere paura del fallimento. Ho paura di

neuroscienziati ci dicono che la paura è una delle 6 emozioni primarie, o

universali; le altre sono gioia, tristezza, rabbia, sorpresa e disgusto. Queste

emozioni servono a generare automaticamente comportamenti funzionali

alla nostra sopravvivenza e hanno la peculiarità di essere facilmente riconoscibili

grazie ad una caratteristica espressione facciale che il nostro viso assume quando

di Fabrizio Favini [email protected]

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LA PAURA E IL CORAGGIO NELLE ORGANIZZAZIONIAlcune considerazioni per creare consapevolezza nel management circa l’importanza e l’urgenza degli interventi da intraprendere in azienda per uscire dall’incertezza e decidere ed agire con coraggio

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non riuscirci è il mantra di chi non intende assu-mersi nessuna responsabilità. L’atteggiamento che porta a temere il proprio insuccesso rappresenta uno dei più diffusi e consistenti ostacoli al rag-giungimento di un obiettivo personale. Di questo atteggiamento fa parte la tendenza a lamentarsi, non certo quello di cercare di cambiare le cose.

Quasi sempre l’inerzia, ossia il rinviare, il di-luire, il procrastinare rappresenta una fuga dalla realtà. Le persone che aspettano che tutte le condizioni siano perfette per agire, non agiscono. E alla base di questo atteggiamento quasi sempre esiste un alibi, normalmente molto consolidato: evitando iniziative si evita il rischio di un possibile insuccesso. Rimandando si può ottenere che un altro faccia una certa cosa al posto nostro. Inoltre, chi non agisce è, spesso, uno che critica. Criticando ci si sente importanti a spese altrui. È così che il rimandare può diventare un modo per manipolare il prossimo.

Una variante della paura caratteristica del no-stro tempo è il senso di colpa. È il più inutile dei comportamenti autolimitanti. Di tutti gli sprechi di energia emozionale è tra i maggiori.

Il senso di colpa è atteggiamento ampiamente negativo: riguarda una cosa storicamente suc-cessa; non consente di affrontare efficacemente e lucidamente i problemi; immobilizza moltiplican-do le probabilità di sbagliare ancora; non serve, non aiuta, non fa crescere. Concludo dicendo che non esiste problema che possa essere risolto, nemmeno lontanamente, dalle nostre paure.

Parliamo ora, finalmente, dell’antidoto alla pau-ra ossia del coraggio. Nessuno nasce cuordileone ma il coraggio, come qualsiasi altra nostra facoltà intellettuale (per la precisione: rappresentazione interna) può essere sviluppato, allenato, consolidato.

Basta acquisire la consapevolezza che ci serve, ci è utile, migliora la nostra esistenza, pertanto lo vogliamo. Il coraggio rientra a pieno titolo nella nostra strategia di automiglioramento che si sviluppa in 4 direzioni: • sviluppo di atteggiamenti e capacità positive. Vi rientrano: la costruttività (essere responsabili), l’orientamento al risultato (essere concreti) e la predisposizione al contributo (essere integratori e apportatori di valore);• autosottrazione al prevalere di atteggia-menti negativi;• disponibilità a migliorare le proprie presta-zioni: miglioramento delle attività in corso, del lavoro, del ruolo, del rapporto sociale ed affettivo;• spirito di iniziativa: gestire le attività con lo spirito del si può fare, perseguire gli obiettivi anche al di là del proprio target, mobilitare l’in-traprendenza degli altri, non restare in attesa bensì anticipare gli eventi.

Il coraggio è l’ingrediente fondamentale per un comportamento consapevole, responsabile, autonomo.

Anche solo per cambiare un’abitudine ci ser-ve il coraggio che ci aiuta a portarci fuori dalla comfort zone, dalla nostra pigrizia, dalla pre-disposizione a semplificare, ad agire con sforzo poco costoso, superficiale e disinvolto, senza fare riferimento a regole impegnative e faticose. Pen-siamo al semplice fatto che oltre il 40% delle nostre azioni quotidiane non è frutto di decisioni bensì di abitudini. Questa situazione può avere un impatto non trascurabile sulle nostre aziende. Ecco perché il pensiero critico è una delle 3 skill da sviluppare per sopravvivere nel mondo del lavoro (The future of job – World Economic Forum). n

“Quando si agisce cresce il coraggio; quando si rimanda cresce la paura” Publilio Siro

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PLAYGROUNDcoverstory

Gregorio Di Leo Psicologo esperto di Leadership e sviluppo organizzativo, formato al Coaching Training Institute di Londra e Co-Founder di WYDE School of Leadership, Change and Innovation. Docente di Leadership e Cambiamento Organizzativo presso la Business School cinese Tsinghua University e presso la Links Community in Danimarca. 5 volte Campione del Mondo di Kick Boxing.

mata!) provi a salire la scala, ma appena le zampe toccano il primo gradino, dal soffitto cade un getto di acqua ghiacciata che colpisce tutte le scimmie, indistintamente.

La storia si ripete ogni volta che una scimmia tenta di salire la scala. Basta che una scimmia tocchi il gradino che tutte vengono bagnate.

Dopo un paio di tentativi, e un po’ di acqua, av-viene un fatto curioso: bagnate e un po’ arrabbiate, sono le stesse scimmie che quando un membro del gruppo si avvicina alla scala iniziano a malmenarlo per evitare la tanto odiata doccia fredda. Questa però è solo la prima fase dell’esperimento.

Nella seconda parte, uno alla volta, ogni membro del gruppo originario (quello di scimmie che era stato bagnato) viene sostituito da un’altra scimmia proveniente dall’esterno.

Come è facile immaginare, la “nuova scimmia”, che non hai mai provato la punizione, prova ad arrampicarsi ma, esattamente come succedeva nella prima parte dell’esperimento, viene picchiata dai restanti membri del gruppo che avevano invece

ricevuto lo spruzzo d’acqua. L’attacco si ripete ogni qualvolta un “nuovo membro” sostituisce uno del “gruppo originario” e prova a raggiungere il cesto.

La particolarità di questo esperimento consiste nel fatto che, nonostante dentro alla gabbia, una alla volta vengano sostituite tutte le “vecchie scimmie” con altre “nuove”, quando qualcuno si avvicina alla scala il gruppo interviene con violenza.

Le scimmie si sono trasmesse la loro esperienza di membro in membro. E seppure alla fine non resti nessuno del gruppo iniziale, tutti finiscono per continuare a comportarsi alla stessa maniera senza sapere davvero il perché.

A essere onesti, alcuni dubitano della correttezza dell’esperimento, o addirittura che abbia mai avuto luogo, ma questa storia, reale o immaginaria, vale più di mille esempi.

ominciamo con una piccola storia.

In un celebre esperimento condotto negli anni Sessanta dal Dottor

Gordon R. Stephenson, un gruppo di cinque scimmie viene chiuso

in una gabbia. Appeso al soffitto un casco di banane, sotto al casco, una scala.

Ci vuole molto poco perché la scimmia più coraggiosa (o semplicemente più affa-

di Gregorio Di Leo www.wyde.it

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OLTRE IL CORAGGIOIl primo mito che dobbiamo oltrepassare è quello che il coraggio e l’innovazione siano dei fenomeni individuali. E abbracciare l’idea che siano piuttosto espressioni collettive...

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Il prezzo del coraggioQuanto sono incastrate le nostre aziende in vec-chi paradigmi, culture, regole, processi che non sono più attuali? Quanto e come sono premiati (o puniti) coloro che escono fuori dagli schemi?

Le aziende sono comunità che definiscono le proprie regole, e queste vengono trasmesse di generazione in generazione. Le regole sono state sviluppate perché hanno funzionato in passato, perché hanno evitato che qualcuno si prendesse una doccia fredda.

Vogliamo davvero che le nostre persone siano coraggiose, proattive, aperte e flessibili? Oppure è l’ennesima storia che circola nelle sale riunioni, nei corsi di formazione, nei convegni, ai tavoli con i consulenti o nei colloqui one to one con i colla-boratori?

Quando si parla di coraggio bisogna stare attenti a non ridurre e semplificare. Ma bisogna piuttosto chiedersi quale sia il prezzo che siamo disposti a pagare.

Si parla di coraggio oggi perché la capacità di agire fuori dalle proprie zone di comfort, abbrac-ciando l’incertezza e andando oltre i propri confini (mentali e organizzativi) è un pre-requisito per ogni reale processo di innovazione.

La narrativa corrente sull’innovazione (forse un po’ meno sul cambiamento, che rappresenta l’altra faccia della medaglia) è che sia bella; che in fin dei conti basti guardare le cose da un altro punto di vista, coinvolgendo le persone con modalità nuove,

attendendo finalmente risultati straordinari. Non è cosi.La trasformazione attuale nella quale tutti oggi

viviamo richiede di stravolgere la nostra visione del mondo, delle organizzazioni, del senso del lavoro, del contributo individuale e collettivo che ognuno porta dentro e fuori le imprese.

Parlare davvero di coraggio significa per prima cosa chiedersi se siamo disponibili a mettere in discussione gli assunti fondamentali sui quali ab-biamo fatto impresa negli ultimi trent’anni.

Fino a ieri, nel mondo globale in continua espan-sione, alle persone era richiesto di portare a casa dei risultati agendo all’interno di binari precostituiti.

Questi binari erano il ruolo, le strutture gerar-chiche, i processi, e più in generale tutte quelle modalità consolidate sviluppate dall’organizzazione nel corso della sua storia (le famose best practices) attraverso le quali erano stati ottenuti importanti successi.

Nel mondo da cui veniamo il passato era il mi-gliore predittore del futuro.

Non dobbiamo stupirci che le nostre organizza-zioni facciano fatica ad agire con coraggio, in fin dei conti non è mai stato davvero richiesto. Quando l’innovazione e il miglioramento sono al massimo incrementali e lo scenario complessivo è in espan-sione, il passato guida il futuro.

La carriera personale e la crescita dell’azienda erano due fenomeni che più o meno velocemente venivano garantiti dal sistema complessivo. ➤

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spalle il “vecchio” mondo, davanti a noi un terri-torio incerto del quale nessuno conosce la forma. Coraggio, cambiamento e innovazione sono le parole chiave. Ma siamo davvero certi di avere capito che cosa significa?

Il vero coraggio e la vera innovazione disturbano, in particolare le aziende ben strutturate che se da una parte sentono il bisogno di innovare e agire fuori dagli schemi consolidati, dall’altra fanno fatica a innovare i propri modelli, prima di tutto mentali.

Nei vecchi modelli il coraggio e l’innovazione sono ancora dei fenomeni individuali. Come scrive Yoval Noah Harari in 21 Lezioni per il 21° secolo, uno che l’Economist ha definito probabilmente il primo intellettuale globale di sempre “Non solo la razionalità, ma anche l’individualità è un mito. Gli esseri umani raramente pensano solo per sé. Pensiamo piuttosto sempre in gruppo. Così come ci vuole una tribù per allevare un bambino, ci vuole una tribù per inventare uno strumento, risolvere un conflitto, curare una malattia. Nessun indi-viduo da solo conosce tutto. Quello che ha dato vantaggio all’Homo Sapiens non è stata la nostra razionalità ma la nostra incredibile capacità di pensare insieme in grandi gruppi”.

Allora il primo mito che dobbiamo oltrepassare è quello che il coraggio e l’innovazione siano dei fenomeni individuali. E abbracciare l’idea che siano piuttosto espressioni collettive.

I PLAYGROUND: SPAZI FUORI DALL’ORDINARIOAlle aziende non serve una persona coraggiosa, e nemmeno una persona innovativa. Questi faranno facilmente la fine di quelle scimmie che, seppur non abbiano mai subito la doccia di acqua fredda, dopo un paio di schiaffoni dei compagni si met-tono a menare pure loro tutti quelli che soltanto provano a salire la scala.

La situazione è complessa ma c’è qualche spe-ranza.

PLAYGROUNDcoverstory

Dal vecchio mondo ci sono rimaste in eredità culture organizzative che premiano l’execution, la reattività e la pianificazione. Organizzazioni dotate di confini chiari, che ricercano certezze e punti di riferimento, che cercano di prevedere il futuro guardando al passato. La logica è quella del budget e del forecast per intenderci. Come farne a meno?

A metà del guadoOggi ci troviamo a metà del guado. Alle nostre

“Vogliamo davvero che le nostre persone siano coraggiose, proattive, aperte e flessibili?”

Un luogo di apprendimento continuo e sperimentazione in cui: • si progetta il futuro non basandosi sul passato;• non ci sono materie ma strumenti ed esperienze;• non si fanno compiti ma si sviluppano progetti;• si sperimentano e validano nuove pratiche e si genera nuova conoscenza condivisa;• facilitati da figure multidisciplinari si affrontano temi legati alla complessità e si creano nuovi punti di vista;• si sviluppano nuove modalità di collaborazione oltre i silos funzionali, si va oltre i confini;• fuori dalle logiche di status e interesse, l’individuo cresce nel gruppo e il gruppo cresce grazie al contributo dell’individuo;• l’innovazione e il coraggio vengono protetti e coltivati per diventare patrimonio dell’intera organizzazione;• si parte per contaminare il resto dell’impresa attraverso le logiche del cambiamento virale.Wyde School for Leadership, Change and Innovation è un luogo di apprendimento permanente che facilita la trasformazione delle im-prese e delle persone. È una comunità di aziende che hanno scelto la condivisione, il coraggio e l’innovazione come motore del cambiamento aziendale.

CHE COS’È UN PLAYGROUND?

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Per poter riabilitare le culture organizzative all’innovazione e al coraggio all’interno di strutture organizzative già consolidate, che hanno le loro prassi, i loro sistemi premianti, le loro dimensioni di potere e di interesse (non dimentichiamolo), si de-vono creare dei contesti protetti (noi li chiamiamo playground) in cui le persone possano sperimentare una dimensione progettuale diversa.

I playground (vedi box) sono dei luoghi di ap-prendimento e di sperimentazione in cui team multifunzionali e multidisciplinari affrontano sfide (meglio se strategiche) o problemi cronici dell’azienda, mettendo in pista nuove modalità di lavoro fuori dagli schemi ordinari.

I team sono formati all’utilizzo di nuovi stru-menti di analisi del business, di design e gestione dei progetti e, allo stesso tempo, invitati ad appli-care strada facendo quanto appreso.

I gruppi sono accompagnati da figure di facili-tatori con background diversi (antropologi, filosofi, imprenditori, manager, ex manager, economisti, psicologi, storici...) che stimolano e aiutano a guar-dare le proprie sfide da angolature diverse.

È solo così che una parte dell’azienda diventa campo di gioco in cui i membri hanno la possibilità di attivare dinamiche nuove. Si va oltre i confini organizzativi e di funzione, la leadership è vissuta come fenomeno collettivo e non più individuale. Il dialogo e la conversazione sono messi al cen-tro al fine di creare nuovi punti di vista e nuova conoscenza condivisa che possa essere messa alla prova (esattamente il contrario delle cosiddette best practice) attraverso attenti processi di spe-rimentazione e validazione sul campo.

I playground sposano l’idea del cambiamen-to virale, ovvero quello secondo il quale “i nuovi comportamenti vengono abbracciati e disseminati all’interno dell’organizzazione attraverso l’azione di piccoli gruppi che creano tipping point sociali, ovvero piccoli agglomerati di attivisti, per i quali i nuovi comportamenti diventano la norma” (Le-

andro Herrero).È solo creando un luogo parallelo all’ordina-

rietà che è possibile fare emergere il coraggio e l’innovazione in culture stabili. Bisogna creare spazi di contaminazione, luoghi di apprendimento permanente che si pongano scopi diversi e regole di ingaggio divergenti dal resto dell’organizzazione per lassi di tempo definiti.

Il coraggio non può e non deve essere un obiet-tivo individuale ma un fenomeno collettivo. Il co-raggio è l’abilità condivisa di divergere progettando il futuro non dal passato, ma trovando un nuovo scopo.

Nei playground si allargano gli orizzonti, si va in esplorazione di nuove realtà organizzative, si sostituiscono i compiti con progetti, e la ripetizione con l’esperienza.

È il caso di reparti R&D e Marketing di un’a-zienda che aveva bisogno di ridefinire il senso dei propri prodotti all’interno del mercato. Abbiamo visitato il Museo del Cinema di Torino, lavorato con designer, registi, psicologi ed ex manager e alla fine del percorso insieme il team ha ideato ben tre nuovi prodotti (e alcuni nuovi possibili brevetti). Oppure il caso di un’azienda manifatturiera che ha deciso di investire per tre anni su un playground in cui si alterneranno manager e dirigenti chiave coinvolti in importanti cambiamenti organizzativi, che avranno il compito di veicolare l’innovazio-ne all’interno, attraverso lo sviluppo di progetti concreti condotti secondo la metodologia Agile.

Il coraggio e il cambiamento possono attecchi-re in qualsiasi luogo dell’organizzazione se mo-difichiamo collettivamente la nostra maniera di concepire le imprese. Se abbracciamo nuovi miti.

Se creiamo spazi di gioco in cui poter sperimen-tare, sbagliare, apprendere, divergere, progettare e non più solo organizzare.

Se decidiamo di partire dal futuro e non dal passato. n

“Il coraggio è l’abilità condivisa di divergere progettando il futuro non dal passato, ma trovando un nuovo scopo”

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storie

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storie{52. Intervista a Fabrizio Rutschmann e Stefano Brandinali

L’HR 4.0 di Prysmian di Emilio Orlandini}

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DOPPIA INTERVISTAstorie

L’HR 4.0 DI PRYSMIANUna combinazione di innovazione e pragmatismo e un approccio vincente alla digital transformation fanno di Prysmian un’eccellenza italiana. Scopriamo le ragioni di questo successo nella doppia intervista a Stefano Brandinali e Fabrizio Rutschmann, rispettivamente CDO/Group CIO e CHRO del Gruppo

Emilio Orlandini Managing Director Allos, HR Innovation company

rima di tutto qualche battuta su Prysmian, la storia e i traguardi più importanti che hanno contribuito a

consolidare la vostra reputazione di pionieri nel settore.Brandinali Prysmian è il leader mondiale nello svi-luppo e nella produzione di cavi per la trasmissione dell’energia elettrica e dei dati, con un fatturato consolidato di circa 12 miliardi di euro, oltre 30.000 dipendenti distribuiti in 50 Paesi e 112 impianti produttivi. Si tratta in generale di un mercato dif-ficile, ancora frammentato nonostante le recenti azioni di consolidamento, nel quale concorriamo sia con i grandi competitor internazionali sia con i piccoli competitor locali, spesso aggressivi sulla variabile prezzo. Siamo leader indiscussi nel settore dei cavi ad alto contenuto tecnologico, laddove gli investimenti industriali e in r&d riescono a fare la differenza. Abbiamo infatti ben 25 centri di ricerca e sviluppo nel mondo, oltre ad alcuni stabilimenti di produzione della fibra ottica (che viene utilizzata all’interno dei nostri cavi ottici o venduta diretta-mente sul mercato). La nostra posizione di leader-ship è il risultato del riconoscimento internazionale della nostra abilità nell’innovare, nel fare tecnologia meglio degli altri, unita alla capacità di generare massa critica nel business ad alto volume, laddove la battaglia si fa su altri terreni: dal prezzo al servizio sino allo sviluppo di modelli di business innovativi. Siamo un’azienda che sa nel contempo guardare al

futuro e scaricare a terra nel presente. Un’azienda che, pur investendo molto rispetto ai competitor, procede sempre con una politica di realizzazione, di concretezza, di piccoli passi, di gradualità. La storia di Prysmian Group affonda le sue radici in quella del Gruppo Pirelli con la fondazione, nel 1879, della Società Pirelli Cavi. Prysmian nasce ufficialmente nel 2005 da uno spin-off di Pirelli e, inizialmente gestita da un fondo di investimento, fa il suo ingresso in Borsa di Milano nel 2007, dive-nendo una vera public company. La prima grande acquisizione è del 2011: con Draka, di matrice olandese, Prysmian raddoppia i propri volumi e acquisisce alcune nuove tecnologie differenzianti. La recente acquisizione di General Cable, chiusa prima dell’estate 2018, ci permette di estendere il nostro portafoglio prodotti e di rafforzare la nostra posizione dominante come leader by far, doppiando il fatturato del principale follower, Nexans, società di matrice francese. Questa acquisizione consente di coprire meglio alcune aree geografiche: da azien-da Europa-centrica oggi possiamo contare su una presenza decisamente significativa anche negli Stati Uniti e in America Latina.

Nell’ottica del CIO cosa significa la Digital Transformation in Prysmian? Brandinali Nella strategia IT uno dei pilastri fonda-tivi è la Digital Transformation ovvero un approccio che vede la digitalizzazione e l’innovazione digitale come leva per il cambiamento aziendale. Questo

di Emilio Orlandini www.allos.it

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53Progetto Santiago Calatrava.Foto di: Kai-Uwe Schulte-Bunert

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DOPPIA INTERVISTAstorie

approccio in Prysmian ha portato a conferire pro-gressivamente dignità e autonomia alla funzione IT, sino alla nascita nel 2018 del dipartimento di Digital Innovation ed alla creazione del ruolo di Chief Digital Officer (prima esisteva solo il ruolo di CIO), anticipate nel 2017 dalla creazione di un Innovation Lab, un laboratorio di innovazione all’interno dell’IT il cui obiettivo principale è stato quello di esplorare nuove soluzioni digitali a sup-porto del business, secondo una prospettiva princi-palmente tecnologica. Non siamo partiti dunque dal bisogno di business, ma dalla tecnologia per valutare se questa potesse avere qualche campo di applicabilità all’interno dei processi aziendali di un’azienda manifatturiera come la nostra. Riteniamo che l’innovazione debba essere alimentata, coltivata e stimolata. E che questo stimolo possa arrivare dalle tecnologie. Il mondo attorno a noi cambia velocemente, spesso più velocemente del contesto intra moenia: siamo un’azienda che ha 150 anni di storia, molto efficiente, con processi consolidati. Per un’azienda di successo è difficile promuovere logiche di cambiamento e di trasformazione, la reazione tipica è: perché dovremmo cambiare visto che stiamo andando così bene? Per stimolare il pensiero laterale abbiamo deciso di partire dalla tecnologia e mo-strare ai nostri interlocutori di business che cosa la tecnologia oggi potesse fare, anche in contesti molto diversi dal nostro: facendo conoscere e suggerendo soluzioni e realizzazioni di altri mercati, di altre industry, di altri settori, di altre funzioni. Abbiamo esplorato ad esempio l’intelligenza artificiale per sviluppare dei chatbot in area commerciale. Una soluzione che è piaciuta anche al mondo HR a tal punto che, quando si è trattato di integrare le due società Prysmian e General Cable, si è mutuato un modello dall’esperienza acquisita, sviluppando un chatbot che rispondesse a domande sull’integrazione

del personale: Blu Bot, è un chatbot che porta nella nostra intranet la preesistente esperienza di Digital Transformation all’interno di una dimensione HR e di change management. Analogamente, abbiamo sviluppato un pilota con i droni per gli inventari di magazzino, soluzione innovativa per un’azien-da manifatturiera tradizionale, rimpiazzando con macchine evolute un’attività manuale rischiosa per gli operai e abbastanza onerosa in termini di costi e tempi, di blocco di magazzino, etc… Questo è il modello con cui il laboratorio di innovazione sta proponendo idee. Ne sforna tante, alcune arrivano ad essere anche brevettate.

Quale accoglienza ha avuto l’attività del laboratorio di innovazione in ambito HR e come sta funzionando la collaborazione? Brandinali L’attività del laboratorio di innovazione ha trovato terreno fertile nella direzione HR, che ha sempre mostrato una sensibilità non comune rispetto ai temi della Digital Transformation, grazie anche ad un ingaggio proattivo del proprio middle management. Abbiamo dunque stimolato un po’ di sana competizione interna: nel mondo industriale ad esempio le Operations hanno già un modello di Industry 4.0 ben codificato, che prevede l’utilizzo di robotica, AI, machine learning, IoT. Abbiamo provocatoriamente lanciato il tema di HR 4.0: cosa possiamo fare per trasformare la funzione HR in chiave moderna attraverso l’adozione di strumenti digitali? Se la sensoristica IoT può risultare poco applicabile al mondo del People, l’utilizzo dell’AI può fare la differenza. Da subito una delle aree di interesse è stata quella del recruiting marketing legata anche a un desiderio di migliorare la nostra employer branding. Prysmian ha solo 13 anni

“Le forme tecnologiche e la qualità delle piattaforme sono fondamentali per accelerare l’integrazione e i processi HR”

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DOPPIA INTERVISTAstorie

di vita ed opera nel mondo B2B: non abbiamo una platea di consumatori finali alla quale promuo-vere quotidianamente il nostro nome. Dunque, cosa possiamo fare per farci conoscere di più? Il nuovo sito di recruiting ci assicura una visibilità verso l’esterno in sintonia con il tipo di società che siamo, giovane, innovativa, di successo e in costante crescita. La nuova piattaforma, lancia-ta con la nostra campagna di reclutamento più importante rivolta ai graduates, ci ha consentito di ricevere ben 40.000 cv in pochissimi mesi, e sarà estesa progressivamente a tutti i paesi in cui Prysmian opera. Un balzo in avanti in termini di efficienza e produttività per HR: la piattaforma precedente era poco più che un collettore di cv, la maggior parte delle attività era manuale e la vita del recruiter era davvero difficile. La sfida più importante che abbiamo vinto è stata ottenere la cooperazione delle funzioni IT, Corporate Communication e HR in tempi record e per un progetto di successo. Per affrontarla è stata fondamentale l’attività di consulenza di un part-ner esterno, che abbiamo individuato in Allos, un partner che comprendesse concretamente le necessità architetturali dell’IT e che sapesse al contempo gestire e soddisfare le aspettative delle HR. Un partner con la giusta autorevolezza per potersi interfacciare a interlocutori diversi, in grado comunque di intervenire efficacemente in termini realizzativi e di integrazione. Il successo del progetto ha di fatto abilitato altri processi su SAP SuccessFactors, consentendo di utilizzare in modo più estensivo la piattaforma, anche in ambiti

utili a favorire l’integrazione delle due aziende (Prysmian e General Cable).

Cosa vi ha spinto a focalizzare l’innovazione sul modulo di recruiting?Rutschmann Per un gruppo internazionale, di-stribuito in 5 continenti, che cresce anche per ac-quisizioni e opera nel b2b, il digitale e le nuove tecnologie offrono una grande opportunità per collegare il network internamente e, al contempo, per aumentare la propria capacità di self attrac-tion nel mondo, specialmente in mercati dove la competizione sui talenti è molto più accesa che in Italia (come negli Stati Uniti, in Germania, Asia ed alcuni paesi dell’Africa). Essendo in fase di post-merger poi le forme tecnologiche e la qualità del-le piattaforme sono fondamentali per accelerare l’integrazione e i processi HR. Avevamo urgenza di rendere tutte le nostre piattaforme non solo più efficienti ma anche più smart cioè facili, dinamiche e vivaci in termini di User Experience (assumiamo circa 450 professional all’anno). Allo stesso modo abbiamo sviluppato nuove piattaforme di perfor-mance management legate al nostro sistema di talent per migliorare la mobilità interna e offrire un sistema di job post evoluto.

Nell’ottica del CHRO cosa significa quindi la Digital Transformation in Prysmian? Rutschmann Intendiamo fare per le persone quello che stiamo facendo per Industria 4.0: Big Data sulla

Fabrizio Rutschmann SVP Human Resources & Organization di Prysmian GroupLaureato in Amministrazione Aziendale presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, con una specializzazione ottenuta presso l’Università SDA Bocconi di Milano, Fabrizio Rutschmann ha iniziato la sua carriera nel Gruppo Electrolux, dove ha rivestito diverse posizioni nel settore Risorse Umane prima di diventare Direttore HR di una delle sette banche Unicredit. Entrato a far parte del Gruppo Pirelli nel 1999 come Human Resources Manager per la divisione italiana della business unit Tyre, Rutschmann è stato nominato Chief HR Officer di Pirelli nel 2006. Da giugno 2010 è SVP Human Resources & Organisation del Gruppo Prysmian.

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parte People. Progettare sistemi HR intelligenti che utilizzino l’AI per il tracking, il recupero e il collegamento di tantissime informazioni sparse, che riguardano le persone negli anni, le loro valu-tazioni in fase d’ingresso, il loro percorso, le loro performance, i loro punti di forza e debolezza, le loro motivazioni e aspirazioni. E che possano in-tegrare questi dati anche con tutte le informazioni che oggi sono disponibili ad esempio sui social: dove le persone raccontano molto di sé affidando informazioni di qualità e talvolta anche più aggior-nate e dettagliate di quelle di cui l’azienda dispone. L’aggiornamento è un altro tema cruciale: occorre rendere il singolo employee interessato affinché tutto ciò che lo riguarda (percorso, prestazioni, com-petenze, progetti, interessi) sia aggiornato. Non si tratta di una semplice integrazione ed addizione, ma di un salto di qualità: per un gruppo come il nostro, è fondamentale tenere “interessati” tutti i dipendenti al destino dell’azienda, sviluppando programmi che creano una community di persone informate, formate e che, al tempo stesso sanno di essere ascoltate. Nel mondo HR si è tradizionalmente dedicata molta attenzione ai dati analitici di base, segmentando l’organico sulla base dei costi, della seniority, delle unità di business, degli indicatori di produttività, dei dati retributivi e organizzativi. Ugualmente ci si è molto concentrati a misurare i dati all’ingresso della risorsa in azienda (Q.I., test di personalità), come se fornissero informazioni valide per sempre, indipendenti dal contesto e dalla seniority della persona e dalla sua evoluzione e maturazione umana e professionale. Ma l’analisi

del curriculum non basta, è centrata sul passato, non fornisce un contributo sufficiente a prevedere i comportamenti futuri. La vera sfida nei dati HR oggi risiede nella raccolta, gestione e valorizzazione anche dei dati qualitativi, pensiamo ad esempio quanto sia importante valutare, oltre alle capacità di analisi e ragionamento, l’intelligenza emotiva, fattore sempre più rilevante in ruoli di leadership, o tenere traccia di come le persone performano negli anni e nei diversi ruoli e circostanze, sia in termini di risultati raggiunti sia di leadership e comportamenti organizzativi espressi. Servono sistemi concepiti per il tracking organico dei dati, non solo per ottenere misure più obiettive dell’esistente ma per conferire ai vari indicatori una capacità predittiva per supportare le deci-sioni di sviluppo, promozione e mobilità delle persone. I dati sono ovunque, ma oggi abbiamo a disposizione risorse per accedervi e utilizzarli per una migliore conoscenza del capitale umano in azienda e prendere quindi le decisioni migliori.

Quali sono i dati sui quali l’HR punterà di più e che faranno la differenza nella gestione del personale? Quali le dimensioni e i parametri su cui si focalizzerà sempre di più la sua attenzione?Rutschmann Una dimensione in cui i dati possono fare la differenza è sui temi di clima interno e di motivazione. Anche in questo caso misurare il livello di soddisfazione è importante ma non suf-ficiente: ciò che muove realmente un’organiz-

Stefano Brandinali Chief Digital Officer and Chief Information Officer È entrato a far parte del Gruppo Prysmian come Chief Information Officer nel novembre 2015. In questo ruolo, ha lavorato per riposizionare l’IT come business partner e motore di innovazione all’interno dell’azienda. La definizione dell’IT e della strategia digitale, il rimodellamento dell’organizzazione IT e lo sviluppo di soluzioni innovative ai margini sono stati i pilastri del suo approccio di trasformazione. Laureato in Mathematical Praise, ha ricoperto posizioni dirigenziali in società multinazionali come Kraft / Mondelez, Bolton Group, Ferrero e Walgreens Boots Alliance, acquisendo una significativa esperienza internazionale in Lussemburgo e nel Regno Unito. Ha una buona esperienza di collaborazione con alcune università italiane (Università di Bergamo, Università di Torino, SDA-Bocconi, Politecnico di Milano) ed è membro dell’Advisory Board della Graduate School of Business del Politecnico di Milano.

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DOPPIA INTERVISTAstorie

zazione e che crea le condizioni per performance superiori sono le opinioni che i dipendenti hanno dell’azienda in cui lavorano, quanto condividono e hanno fatto proprie le sfide aziendali, quanto si sentono davvero “parte della squadra”. Per misurare questa dimensione vanno rilevati sistematicamente e collegati tra loro tantissimi dati e tanti piccoli segnali sparsi nell’organizzazione; il livello di en-gagement dipende anche dalla reputazione di cui un’azienda gode internamente ed esternamente, dalle cose che fa, dalla sua missione e dalle sue eccellenze riconosciute. Dallo stile e dalla qualità del suo management che deve saper ispirare e co-struire fiducia fra i collaboratori.

Le decisioni più difficili che un manager deve prendere sono proprio le people decisions, che hanno a che fare con le persone. Decidere chi assu-mere, chi licenziare, promuovere, incentivare, può condizionare le performance dell’organizzazione in modo rilevante. Se queste scelte vengono fatte istintivamente rischiano statisticamente di essere molto più spesso decisioni sbagliate, ancor più se in un’organizzazione nessuno “paga” per una decisione

sbagliata sulle persone. È come se la responsabilità della decisione ricadesse sulla persona prescelta, che non è stata in grado di fare quanto richiesto nonostante la fiducia ricevuta, e non su chi ha scelto una persona inadeguata al compito. In questo campo occorre ridurre al minimo gli errori: non bastano le valutazioni fatte dai capi (che non sono né neutre né immutabili nel tempo), neanche se integrate con i punti di vista dei peers. E dopo una nomina o una promozione occorre fare un tracking sistematico per verificare se la decisione presa era corretta. In Prysmian facciamo una mappatura molto precisa delle competenze soft, derivante da un modello di leadership che abbiamo adottato a livello worldwi-de, è questa mappatura a guidare il processo per l’identificazione e lo sviluppo del talento.

Un’altra considerazione meritano le circostanze particolari e le sfide: un conto è gestire la routine (es. un impianto produttivo), altro è l’evento ecce-zionale, come creare un nuovo impianto o raddop-piare quello esistente, magari introducendo nuove tecnologie, o affrontare la chiusura di un’attività produttiva. È di fronte a queste decisioni, dove il

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costo di un fallimento può essere particolarmente oneroso, che servono dati predittivi: non basta la semplice lettura di quanto è stato fatto in passato, perché esiste una dimensione nuova di gestione del cambiamento.

Su quali leve deve puntare il Management?Rutschmann L’uso intelligente e organico dei big data in ambito People, basato sull’analisi e correla-zione di tanti micro-comportamenti e micro-conte-sti, è fondamentale per pianificare l’impatto della strategia di business in termini di capitale umano e i relativi investimenti o disinvestimenti. Credo che oggi sia sempre più necessaria una vera e propria funzione di HR marketing intelligence, capace di cogliere il sentiment del sistema organizzativo, la reputazione dell’azienda, di identificare problemi emergenti di clima, scoprire isole di progettualità e motivazione, gestire le persone avendo in mente che esistono valori e aspettative comuni ma anche cluster distinti con loro esigenze e disponibilità. Serve anche a valorizzare il tempo (il digitale è esso stesso un acceleratore) a beneficio di efficien-za e ingaggio: conoscere quanto tempo i colleghi dedicano a processi burocratici e quanto invece a innovare o stare con i clienti, significa avere una consapevolezza maggiore delle motivazioni interne e della capacità imprenditoriale. Serve poi a valo-rizzare il talento, non solo quello dei migliori, ma dell’azienda come sistema. È fondamentale poi a guidare l’aggiornamento e l’allineamento del pro-cesso di assessment delle soft skills in un contesto in cui le tecnologie forzano a ritmo veloce nuove competenze, gli ambienti di lavoro si fanno sempre più instabili, complessi, composti da un articolato mix demografico (gender, cultura, intergenerazio-nalità) e gli stessi confini fra interno ed esterno dell’azienda sono sempre più permeabili e indistinti.

Come si traduce questa visione di Prysmian sul Digital Workplace?Brandinali Il building nel quale lavoriamo oggi ne è una chiara espressione. Si tratta ovviamente di una struttura fisica, ma metaforicamente suggerisce un nuovo modello dei processi, un paradigma che mette la persona al centro del nostro concetto di Smart Working. L’originario progetto immobiliare di sostituzione dei vecchi uffici si è trasformato in un progetto di ridisegno complessivo dell’Employee Experience e, in subordine, del Digital Workplace delle persone. Considerando l’esperienza dell’im-piegato come baricentrica, abbiamo iniziato a prenderci cura della persona dal momento in cui si sveglia al momento in cui va a dormire, dunque non esclusivamente durante la sua permanenza sul posto di lavoro. In concreto, l’azienda ha deciso di occuparsi del tragitto casa lavoro (offrendo la possibilità di usufruire gratuitamente della tessera tranviaria annuale), delle persone che hanno an-ziani da accudire, dei genitori con bambini piccoli da gestire, ecc. Ci siamo preoccupati dei temi di ecosostenibilità dell’ambiente: grazie ai nuovi pan-nelli solari generiamo energia elettrica per i nostri consumi interni. Abbiamo rivoluzionato lo spazio di lavoro favorendo una logica multi-workplace, ridisegnando la postazione individuale, gli spazi di aggregazione, di unione, di socializzazione, le aree destinate ai meeting o ai gruppi di progetto, il remote working. Oggi la popolazione nell’head quarter vive l’esperienza dell’open space secondo la metafora della biblioteca, uno spazio di concen-trazione dove regna un ragionevole silenzio a tutela e rispetto del lavoro individuale. Per il lavoro di gruppo (almeno 2 persone) ci si può spostare dall’o-pen space nelle sale riunioni (ne abbiamo 93 per circa 700 posti a sedere, più o meno la popolazione aziendale), o usufruire di spazi di aggregazione più informali, come le greenhouse o le aree break.

“Intendiamo fare per le persone quello che stiamo facendo per Industria 4.0: Big Data sulla parte People”

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DOPPIA INTERVISTAstorie

Un elemento di potenziale disturbo nel workplace è rappresentato dall’uso del telefono. Per mitigare questo problema, abbiamo disseminato nel buil-ding diversi phone booth, dall’aspetto simpatico delle vecchie cabine telefoniche, che sono però un concentrato di tecnologia, con l’aria condizionata, collegamenti USB, connessioni alla rete aziendale, sgabellino, tavolino, luci automatiche e totalmente insonorizzate... per garantire la massima riserva-tezza e non disturbare gli altri.

Per ottenere tutto questo qual è stato il lavoro sulle Persone?Brandinali Abbiamo puntato sul concetto esteso di mobilità. Al bando i desktop: notebook per tutti i dipendenti (l’ufficio deve “poter seguire” il dipen-dente e non viceversa), 2-in-1 tablet per gli utenti ad elevata mobilità, policy inclusive di Bring Your Own Device e politiche di remote working (oggi diffuso in buona parte della popolazione aziendale, per un giorno alla settimana, secondo categorie di prelazione). L’edificio stesso, ricco di tecnologia, con alti livelli di automazione ed elevati standard di efficienza (ha infatti conseguito la certificazione LEED), è stato pensato come elemento abilitatore di questa trasformazione digitale ed ha favorito il cambio nel modo di lavorare delle persone. Oltre alla digital transformation, un altro importante driver ispiratore è stato il trust. Provenendo da una cultura manifatturiera tradizionale e con-solidata, basata sul principio del controllo, si è deciso di impostare un approccio nuovo basato sull’auto-responsabilizzazione, che si è declinato in una semplificazione delle logiche di timbratu-ra, un’estensione della flessibilità in entrata ed uscita e la già citata adozione del remote wor-king massivo. Un cambiamento sostanziale per un’azienda tradizionale che affonda le proprie radici nel secolo XIX! n

“Il building nel quale lavoriamo oggi esprime un nuovo modello dei processi che mette la persona al centro del nostro concetto di Smart Working, ridisegnando complessivamente l’Employee

Experience e il Digital Workplace”{62. Intervista a Silvana Iseni

In Bonduelle cogli la vita ogni giorno di Roberto Monti}

{68. Intervista a Simon Dolan e Paola Valeri

Senza valori adeguati non si cambia di Elio Vera}

{71. La strategia delle lean e teal organizations di Maria Terlizzi}

{74. Privacy e lavoratore di Ciro Cafiero}

strumenti

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{62. Intervista a Silvana Iseni

In Bonduelle cogli la vita ogni giorno di Roberto Monti}

{68. Intervista a Simon Dolan e Paola Valeri

Senza valori adeguati non si cambia di Elio Vera}

{71. La strategia delle lean e teal organizations di Maria Terlizzi}

{74. Privacy e lavoratore di Ciro Cafiero}

strumenti

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Roberto Monti Partner VisionMind

Ride Silvana Iseni HRBP di Bonduelle Italia, un solido passato costruito in alcune tra le multi-nazionali leader nei settori Food e Beverage, forte di un carattere allegro, sempre positivo, che l’aiuta a proiettarsi nel futuro partendo sempre da una consapevole analisi del presente.

Bonduelle è un gruppo francese con una storia lunga e bellissima: fondato nel 1853, oggi è lea-der mondiale nel settore delle verdure. Da sempre caratterizzato da visione e capacità innovativa a lungo termine, commercializza i suoi prodotti in oltre cento Paesi, con varie marche, in tutti i canali di distribuzione e in tutte le tecnologie: conserva, surgelato, pastorizzato, disidratato e

fresco pronto al consumo.

Partiamo dal business: come sta l’Italia oggi?«Per chi come me non ha vissuto le gioie del boom economico d’altri tempi, è abbastanza evidente che l’Italia sia ormai da anni in difficoltà a far crescere il proprio PIL e a stimolare i consumi e gli investimenti in modo massiccio. Per le aziende FMCG, e in particolare per chi ha marchi più o meno storici e radicati, si pongono sfide decisa-mente inedite, perché anche in Italia stanno cam-biando non solo trend e abitudini di consumo, ma anche i sistemi valoriali alla base delle scelte dei

e posso confessare una cosa? Soddisfare la nostra dichiarazione di mis-

sion – rendere accessibile al più gran numero possibile di famiglie e

individui i benefici di un’alimentazione nella quale le verdure ricoprono

un ruolo fondamentale (N.d.r.) – anche con i bambini (io ho due gemelle di quattro

anni) le assicuro che è la sfida più difficile”.

di Roberto Monti [email protected]

L

{

IN BONDUELLECOGLI LA VITA OGNI GIORNO PERCHÉ È UN ORTO UNICO, STRABOCCANTE DI OPPORTUNITÀRoberto Monti intervista Silvana Iseni HRBP di Bonduelle Italia e ci porta in un orto unico, alla scoperta di come si coltivano i talenti delle persone e si crea il contesto giusto in cui possano liberare le proprie energie per dare il meglio di sé, ogni giorno

TESTIMONIANZEstrumenti

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consumatori. Pensare di approcciare il business disegnando strategie tradizionali è una scommessa persa in partenza: nel mercato di oggi vince chi sa rompere gli schemi, non più semplicemente attraverso l’innovazione di prodotto».

Tutto questo, per chi come lei si occupa di risorse umane, che risvolti comporta?«Le strategie sono pensate e realizzate dalle Per-sone. Se il modo di pensare, di confrontarsi, di costruire scenari non cambia, difficilmente avremo strategie nuove e alternative.

Pensiamo agli attributi tipici della start-up, la forma organizzativa che si è rivelata decisamente vincente negli ultimi anni: struttura organizzativa snella, capacità di osare e sperimentare idee mai pensate, velocità di esecuzione, forte responsabi-lità individuale. Accostiamola a un’azienda tradi-zionale: struttura organizzativa complessa, con gerarchie funzionali o matriciali, process-driven o peggio talvolta procedure-driven, che anche se genera buone idee ci impiega troppo tempo a re-alizzarle.

È abbastanza intuitivo che, in un mercato dove l’innovazione cambia rapidamente il nostro modo di vivere a una velocità letteralmente esponenziale, questo secondo tipo di azienda avrà vita breve, se non sarà capace di modificarsi e adattarsi al nuovo contesto.

E questa capacità di adattarsi deve appartenere alle Persone che lavorano per l’Azienda. Ma non

basta selezionare o formare i propri collaboratori, dobbiamo assicurarci di metterli nelle condizioni di lavorare al meglio, liberi da vincoli inutili e total-mente coinvolti e responsabilizzati sull’obiettivo.

Quindi, per noi, oggi la priorità numero uno è diventata la necessità di creare un contesto in cui le Persone possano liberare le proprie ener-gie e possano osare di pensare e fare qualcosa di “differente”». ➤

Silvana IseniHRBP di Bonduelle

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Interessante, le chiedo però di spiegarci meglio cosa state facendo per “liberare le energie delle persone”. «Innanzitutto, siamo partiti da una constatazio-ne apparentemente banale: tutte le Persone che lavorano nella nostra Azienda sono “adulte”, non semplicemente “maggiorenni”. Nel relazionarci con un adulto, ci aspettiamo normalmente che la persona sia responsabile, capace di pensare con la propria testa e trovare soluzioni, capace di costruire relazioni solide e trasparenti, in una parola, una persona affidabile.

Eppure, una volta varcata la soglia dell’azienda, spesso le Persone trovano regole, modi di lavorare, sistemi di controllo, prevalentemente basati su un principio esattamente opposto, che li considera bambini, piuttosto che adulti.

Abbiamo pertanto scelto di iniziare a smonta-re alcuni di questi meccanismi, toccando un po’ tutte le leve tipicamente ascritte al mondo delle Risorse Umane: ad esempio, abbiamo eliminato le timbrature per tutti gli impiegati, introducendo un sistema basato sulla flessibilità oraria e sull’auto-responsabilizzazione; abbiamo creato uno spazio all’aperto, fuori dagli uffici tradizionali, per of-frire uno spazio di incontro e confronto diverso e appunto “aperto” in tutti i sensi. Ora invece stiamo approcciando una completa riorganizza-zione degli spazi interni, realizzando iniziative di comunicazione interna per riavvicinare tutti i nostri collaboratori ai prodotti e al brand per coinvolgerli nel cuore del business, promuovendo un modo diverso di lavorare, stimolando il lavoro

in team interfunzionali, a partire da processi core quali il piano strategico e il budget. Abbiamo inoltre cambiato il modo di fare formazione, li-berandoci dalle giornate d’aula e promuovendo momenti di formazione e confronto in pillole, più veloci e fruibili anche da parte dei manager più impegnati».

Interventi quindi sugli ambienti di lavoro, sul sistema di regole, sui flussi di comunicazione interna, sulle modalità di collaborazione. Quali sono, tra gli strumenti che avete utilizzato, quelli che hanno prodotto i migliori risultati?«Non credo sia possibile identificarne uno o qualcu-no in particolare. In realtà l’esperienza che stiamo vivendo ci dimostra che ogni iniziativa è un pezzo del puzzle, che modifica, a volte impercettibilmen-te, il nostro modo di vivere l’Azienda e interpre-tare il nostro ruolo in modo più “adulto”. Inoltre, come è naturale, ogni Persona fa propri i cambia-menti che le sono più congeniali: probabilmente, intervistando i miei colleghi, scopriremmo che qualcuno ha vissuto una rivoluzione copernicana con l’eliminazione delle timbrature, mentre per altri l’abbattimento dei silos funzionali è la vera carta vincente. Personalmente, sto apprezzando molto tutte le occasioni di incontro e socializza-zione, perché nella nostra realtà si era forse perso il piacere di vivere l’Azienda come luogo sociale».

Quali sono le principali sfide che vi siete trovati a dovere affrontare?

“La sfida principale è rinnovare ogni giorno la fiducia nelle persone”

TESTIMONIANZEstrumenti

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abbiamo organizzato una giornata interamente dedicata ai nostri Collaboratori, che hanno potuto sperimentare nuovi approcci alla formazione, alla comunicazione, al benessere, al vivere l’Azienda come luogo di crescita personale. E l’entusiasmo che abbiamo letto negli occhi delle persone du-rante quella giornata è il nostro carburante per progettare presto nuove iniziative!».

“Cogli la vita ogni giorno” è uno slogan accattivante e sfidante. Cosa significa per lei concretamente?«Abbiamo iniziato la nostra chiacchierata dalla promessa del nostro Brand: accompagnarci in un viaggio alla scoperta del piacere di gustare le verdure quotidianamente, avendo la curiosità di provare sempre nuove combinazioni. Se traduco questa missione nel mio campo da gioco, quello delle Risorse Umane, l’ambizione che abbiamo è che davvero ciascuno viva la propria esperien-za professionale, ogni giorno, con lo spirito del viaggiatore, che non perde occasione per scoprire un nuovo angolo di mondo. Con questo spirito, nessun lavoro può essere monotono o ripetitivo. Con questo spirito, saremo agili e veloci, capaci di cogliere ogni opportunità; siamo performanti, sempre focalizzati sulla tappa che dobbiamo rag-giungere; facciamo crescere le persone, perché le ispiriamo a dare il meglio di sé, per godere appieno del viaggio insieme.

E mi permetta di concludere con pura poesia... con questo spirito... siamo liberi!».

Quale sarà la sua sfida professionale dei prossimi tre anni? «Non so se basteranno tre anni, ma la sfida è ve-dere dove ci porta questo viaggio, con l’obiettivo di contribuire alla costruzione di un modello or-ganizzativo nuovo, per un’Azienda che è sempre stata capace, nei suoi 160 di storia di rinnovarsi ed adattarsi ai tempi. E dopo, chissà: magari mi aprirò con coraggio alla possibilità di fare anche un lavoro diverso e al di fuori del mondo HR». n

E come le avete superate?«La sfida principale è rinnovare ogni giorno la fidu-cia nelle Persone: basta un errore o un malinteso per innescare la tentazione di ritornare ai sistemi direttivi e al controllo. Come dice benissimo Isaac Getz, vale spesso la regola del 3%: per punire o controllare il 3% dei collaboratori “irresponsabili”, si penalizza il restante 97% con procedure, controlli o inibizioni di ogni genere».

Quali sono stati gli impatti sull’identità e sul senso di appartenenza delle persone all’organizzazione?«Il cambiamento sta toccando molti aspetti e, come dicevamo, ciascuno è più sensibile a un fattore piuttosto che a un altro. Ciò che posso osservare è il livello di energia delle Persone che, pur con-tinuando ad avere carichi di lavoro decisamente importanti, e pur lavorando ancora con processi e procedure non sempre efficienti, hanno piacere di partecipare ed essere coinvolti, rispondendo spesso con entusiasmo alle novità che proponiamo».

In una precedente circostanza ci aveva parlato di un progetto per rinforzare gli aspetti di Employer Branding. A che punto siete? Cosa rimane ancora da fare?«Quando abbiamo iniziato a parlare di Employer Branding, pensavamo che ci sarebbe servito in primis per dare visibilità all’Azienda, purtroppo piuttosto trasparente agli occhi dei candidati, no-nostante la forza del nostro brand. Invece, con il passare dei mesi, ci siamo resi conto che sarebbe stato un supporto di importanza strategica al nostro processo di cambiamento interno. Abbiamo per-tanto concepito e realizzato messaggi, strumenti, iniziative che potessero essere in primis “venduti” all’interno. Abbiamo costruito uno slogan che con-tiene per noi il senso di lavorare in Bonduelle, che recita: “In Bonduelle. Cogli la vita ogni giorno. Cosa scoprirai oggi?”. Liberare le energie delle persone significa infatti lasciarle libere di scoprire... e per far vivere sulla loro pelle il piacere della scoperta,

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Elio VeraCESMA, Centro Esperienze e Sudi di Management e Amministrazione. Cofondatore e consigliere di APAFORM

imon, so che hai effettuato recentemente una ricerca sul futuro del lavoro per la Commissione

Europea. Puoi parlarci dei risultati e dell’impatto che i cambiamenti avranno sul management?Dolan Inizio enumerando una seria di trasforma-zioni in atto. La popolazione in Europa include una grande porzione di persone anziane, porzione che crescerà. La catena di approvvigionamento sta cambiando data la necessità della sostenibilità, dell’economia verde. L’automatizzazione accelererà l’efficienza grazie ai robot e all’intelligenza artifi-ciale. Ma l’altro aspetto positivo è che le funzioni che non possono essere automatizzate aumente-ranno di valore e saranno svolte dalle persone. Siamo immersi in una profonda trasformazione da cui non c’è modo di tornare indietro. In questo scenario, possiamo immaginare che i posti di lavoro a tempo pieno e determinato saranno l’eccezione e che in breve la maggioranza dei lavoratori avrà contratti a breve termine, saranno self employed o impiegati con un ventaglio di compiti specifici.

La sfida sta nello sviluppare le abilità

imprescindibili per affrontare un continuo cambiamento. E nell’equipaggiare manager e leader delle capacità di attrarre e mantenere il talento.

Il “lavoro” in quanto funzioni e risultati, sarà sempre più soddisfacente per la persona perché richiederà creatività, qualità intellettuali, inte-razioni umane. Questi cambiamenti riguardano anche le relazioni lavorative. Siamo già entrati nell’era del pluri-impiego mutante dove si cam-bierà spesso professione e azienda. Una sfida per la gestione delle persone.

Tradizionalmente la formazione nell’ambito del management si è centrata sul knowledge. Ora credo vada invece favorito un cambiamento nelle attitudini.Valeri Esatto. Per esempio la metodologia innova-trice di coaching che sto sviluppando in Italia da tre anni fa sì che i coach che abbiamo formato già ci raccontino degli effetti concreti nelle aziende in cui la applicano. Recentemente abbiamo in-terrogato le persone certificate per sapere in che settori stanno applicando il coaching dei valori, quali sono le eccellenze. Abbiamo potuto verifi-care che questa metodologia si sta radicando nel

di Elio Vera [email protected]

S{

SENZA VALORI ADEGUATI NON SI CAMBIANell’era del pluri-impiego mutante la gestione delle persone sarà sempre più centrata a favorire e sviluppare le attitudini e le abilità utili ad affrontare il continuo cambiamento

INTERVISTA A SIMON DOLAN E PAOLA VALERIstrumenti

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campo aziendale, in particolare nel team coaching e nell’executive coaching. Appare anche utilizzata in ambiti quali l’educazione, la psicoterapia e la genitorialità. Di fatto, il processo di innovazione in qualsiasi ambito richiede alla persona un cam-biamento di attitudine. Per i leader e i manager si tratta di acquisire un set di nuove competenze che permettano loro di riconoscere e superare i propri limiti per pensare in grande, sfidare lo status quo, creare il nuovo. Dolan Aggiungo che queste skills nascono da una attitudine di do-learn and re-learn, ossia dalla capacità e disposizione di imparare apprendendo e poi dis-imparare per imparare di nuovo.

Appare una situazione assai stressante e foriera di grandi incertezze. Dolan Alcune abilità critiche per il futuro sono: saper sviluppare pensiero critico e problem sol-ving; creare reti di collaborazione, comunicare efficacemente per stabilire alleanze e assicura-re l’impegno dei collaboratori, vagliare l’infor-mazione in un’epoca di eccesso informativo. Si tratta di creare alleanze e potenziare i membri del team per innovare, soft skills che non sempre si insegnano nelle business school. Noi siamo macchine psicologiche molto complesse. Dirigere, coordinare e motivare persone è infatti un lavoro estremamente complicato. I valori sono il collante che può affrontare questa complessità.

Quale ruolo giocano i valori concretamente? Dolan Molte multinazionali hanno perso la rotta, non sanno come affrontare il futuro, verso dove

andare e che valore creare. Anche le università hanno perso la rotta, e continuano a formare persone per un mondo che già non esiste più. Tutti cercano ma non sanno che cosa e dove cercare. I tre driver della trasformazione: la digitalizza-zione (e virtualizzazione), la globalizzazione e la creatività, si possono gestire. Sono i valori, individuali e condivisi, che ci offrono la bussola per non perdere la strada.

Paola, come vedi la situazione italiana?Valeri Noto un crescente interesse delle aziende e degli imprenditori a comprendere meglio cosa i valori hanno di nuovo da offrire come strumento di lavoro in azienda e nella gestione delle persone. La neuroscienza ci dimostra che le emozioni sono cruciali nel nostro comportamento. Però parlare di emozioni non è tanto facile in azienda. Il la-voro sui valori crea un ponte tra la razionalità necessaria nei processi aziendali e la coscienza necessaria per gestire processi umani complessi.Dolan La metodologia Coaching by Values sorge dai risultati scientifici delle nostre ricerche e si è dotata di strumenti divertenti, versatili e facili da usare in azienda. Con la nuova fondazione Global Future of Work abbiamo creato corsi per manager per accompagnare le persone, ponendo l’accento sui valori, a migliorare i loro risultati nel business e nella vita. Dopo una vita di lavoro sul campo ho la certezza che il lavoro sui valori permetterà alle persone di assumere l’impegno per realizzare il cambiamento. n

Paola ValeriFondatrice e direttore di Coaching by Values Italia, per 20 anni manager in PMI e in organizzazioni globali, è coach certificata ICF, in Interventi Sistemici Organizzativi dal Bert Hellinger Instituut Nederland, nel Marshall Goldsmith Stakeholder Centered Coaching e Master Practitioner in PNL.

Simon L. DolanÈ uno dei maggiori pensatori del “futuro”, è il creatore della metodologia Coaching by Values ed è presidente della Fondazione Global Future of Work (GFWF). La sua carriera accademica e professionale è focalizzata sull’innovazione nella gestione delle persone, leadership e valori nelle organizzazioni, consulenza ad aziende e istituti di ricerca in tutto il mondo. È il creatore del modello triassiale.

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The

Van

THE VAN group Via Domenico Cucchiari 20 - 20155 Milano - 02 36531141 - [email protected] http://www.thevan.it

Se la tua azienda non comunica, lo farà qualcun altro.

“Ho sentito dire che…”

All’interno di un’azienda i processi di comunicazione sono sempre in atto, che lo vogliamo o no. Se l’azienda non comunica, il silenzio sarà interpretato come la prova di un problema. Se la comunicazione è reticente, qualcuno inventerà le informazioni mancanti. Se la visio-ne strategica non viene spiegata, si penserà che non esiste. Per questo la comunicazione interna è importante, più che mai nei momenti difficili. Per unire e motivare. Per indicare gli obiettivi prioritari. Per attrarre e trattenere i migliori talenti. The Van realizza strategie e strumenti di comunicazione interna per aziende grandi e piccole, italiane e multinazionali. Ci piacerebbe farlo anche per voi.

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Maria TerlizziCorporate e Business Coach certificata con una lunga esperienza in ambito bancario e una grande passione per i processi evolutivi, la comunicazione, il potenziamento delle competenze e di tutto ciò che favorisce lo sviluppo del business attraverso la valorizzazione del potenziale inespresso delle persone.

nuovo sistema organizzativo emergente, altamen-te flessibile che si differenzia da altri sistemi noti, rappresentati simbolicamente con colori diversi.

Le organizzazioni TEAL, secondo Laloux, sono il prodotto del più recente stadio di evoluzione della coscienza umana, che si esprime in termini sociali ed organizzativi e che coincide, secondo la teoria dei bisogni di Maslow, con il livello di autorealizzazione. I luoghi di lavoro che i fondatori delle organizzazioni Teal aspirano a creare e stanno già creando, sono pensati come organismi viventi, capaci di auto-organizzarsi attraverso un sistema di relazioni paritarie guidati dalla condivisione di un proposito evolutivo da servire. Se vogliamo usare una metafora, la Teal organization potrebbe essere rappresentata da uno stormo di uccelli in volo, ognuno con la sua individualità ma uniti da uno scopo comune.

Motivazioni e spinte all’emergere di nuovi modelli sociali e organizzativiSe vogliamo capire dove stiamo andando, come ci stiamo evolvendo, di che cosa avremo bisogno, occorre comprendere quali sono le caratteristi-che del sistema sociale ed organizzativo in cui ci troviamo ora e cosa ci ha portato fin qui. Fre-derich Laloux, ex consulente McKinsey esperto di sistemi sociali ed organizzativi, sostiene che le forme organizzative che prevalentemente adot-tiamo sono figlie del nostro modo di osservare, pensare e governare il mondo identificando diversi stadi evolutivi.

Le tipologie organizzative partendo dalla

on il termine “Lean” si fa riferimento a sistemi organizzativi agili,

snelli, flessibili e capaci di adattarsi velocemente al cambiare delle

situazioni ed esigenze esterne ed interne. Il termine “Teal” fa invece

riferimento al colore azzurrognolo della foglia da thè, scelto da Frederich Laloux

nel suo libro Reinventing Organizations per rappresentare le caratteristiche di un

di Maria Terlizzi [email protected]

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LA STRATEGIA DELLE LEAN E TEAL ORGANIZATIONSSe vogliamo capire dove stiamo andando, come ci stiamo evolvendo, di che cosa avremo bisogno, occorre comprendere quali sono le caratteristiche del sistema sociale ed organizzativo in cui ci troviamo ora e cosa ci ha portato fin qui. Un viaggio che l’autrice ci invita a fare in compagnia di Frederich Laloux

MODELLI ORGANIZZATIVIstrumenti

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fase evolutiva più lontana nel tempo sono:• l’organizzazione Rossa risale all’era in cui l’uo-mo era un cacciatore che per sopravvivere doveva dominare con la paura e la forza. Questo modello decisionale è rappresentato oggi dalle bande di strada e nella mafia;• l’organizzazione Ambrata risale all’era in cui l’uomo era agricoltore e allevatore che per adattarsi alle leggi ripetitive ed immutabili della natura definiva gerarchie e regole imposte attra-verso una leadership autoritaria. Questo modello decisionale è rappresentato oggi della Chiesa e dalle istituzioni pubbliche; • l’organizzazione Arancione risale all’era della rivoluzione industriale, si basa su ciò che è mi-surabile, sugli obiettivi e sui risultati. La visione è meccanicistica: azienda come macchina e lea-dership scientifica. Questo modello decisionale è rappresentato oggi dalle moderne multinazionali;• l’organizzazione Verde fa riferimento all’era post moderna che rimette al centro dell’orga-nizzazione l’uomo, la cultura, i valori, l’empo-werment e la prospettiva dei multi stakeholders ed esprime una leadership di servizio. Questo modello decisionale è rappresentato oggi dalle Onlus e dalle cooperative;• l’organizzazione Teal, che rappresenta la visione di un futuro emergente, vede l’azienda come organismo vivente che risponde a un contesto multiplo e complesso in modo integrato sulla base di una leadership distribuita e un proposito evo-lutivo condiviso.

Non possiamo dire che un modello sia migliore dell’altro ma che, alla fine, prevale solo quello che si adatta meglio di altri alla propria realtà.

Siamo nell’era dell’Industria 4.0 e della digita-lizzazione che sta già profondamente cambiando le nostre abitudini di vita, i nostri bisogni e il modo di produrre beni e servizi. Sociologi, fu-

turologi, economisti sono tutti d’accordo che la portata e la velocità dei cambiamenti saranno tali da rendere impossibile qualsiasi riferimento a best practices e a modelli previsionali. In questo contesto la differenza la faranno le persone e la loro capacità di cogliere e di rispondere tem-pestivamente ai segnali di cambiamento. Risulta quindi evidente che sistemi organizzativi molto strutturati, rigidi e complessi, con costi di gestione elevati e personale scarsamente motivato come quelli arancioni, non risultano più adeguati alla nuova realtà, mentre quelli verdi, troppo orien-tati alla pace sociale non riescono ad esprimere adeguata dinamicità ed attenzione agli obiettivi di business.

Simon L. Dolan psicologo del lavoro, sostiene che per ottenere l’impegno volontario e sincero da parte dei collaboratori occorre fare leva sulle necessità fondamentali dell’essere umano di appartenere, di essere riconosciuto, di sapere dove collocarsi in un sistema e di percepire che esiste un equilibrio tra il dare e l’avere nel sistema. Da tutto quanto evidenziato ne consegue che, se un’azienda vuole fare un salto di qualità ed attuare un vero cambiamento generativo, deve lavorare sul perché e sulla ragione profonda di come si fanno le cose, e con la ragione d’essere del progetto a cui sta lavorando.

Caratteristiche dei nuovi sistemi organizzativiUna possibile risposta la dà Frederich Laloux che vede l’azienda come organismo vivente che si fonda su 3 principi: Self Management, Pie-nezza e Proposito evolutivo. Un modello di integrazione che, come una matriosca, non si pone in alternativa ai modelli precedenti ma li racchiude ed integra attraverso una visione si-stemica ed olistica.

“Oggi più che mai abbiamo la necessità di dare un nuovo senso e valore alla nostra vita e al nostro lavoro. Il successo di un’azienda, per essere reale e duraturo, non può che passare attraverso il benessere delle persone che vi lavorano e del contesto sociale di riferimento”

MODELLI ORGANIZZATIVIstrumenti

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Budzorg leader nell’assistenza infermieristica con più di 14.000 dipendenti; Zappos società di vendita di abbigliamento on-line cresciuta grazie ad una sistematica politica di priorità al cliente e al benessere del personale; Patagonia società leader nell’attrezzatura sportiva che, attraverso un circolo virtuoso di rigenerazione dei prodotti, coniuga qualità dei materiali, qualità del servizio e tutela dell’ambiente. Tra le tante realtà italiane che hanno intrapreso felicemente questa strada ne cito solo alcune che ho avuto modo di cono-scere direttamente come: Mondora, società di riconosciuta eccellenza nel campo dell’Informa-tion Technology che offre servizi di consulenza, progettazione, sviluppo, mentoring, supporto pro-dotti e formazione, aderenti ai migliori standard di qualità; Peoplerise, società di consulenza che svolge la funzione di catalizzatore, sviluppatore e facilitatore di progetti di trasformazione inno-vativi che coinvolgono persone e organizzazioni; NaturaSi società di prodotti biologici specializ-zata nell’intero processo produttivo e distributi-vo che serve capillarmente un migliaio di punti vendita specializzati in tutte le regioni d’Italia; Foxwin start-up che realizza piattaforme on line che aiutano le persone a migliorare i processi e ad autorealizzarsi sul lavoro consentendo di rendere visibili le idee nel cassetto, di selezionarle e tra-sformarle in progetti concreti per l’innovazione e il miglioramento.

Questi esempi, insieme a tanti altri, rappre-sentano la prova concreta che anche in presen-za di una realtà economica e sociale complessa, ambigua e incerta come quella che stiamo vi-vendo, rimettere la Persona al centro, intesa nel senso più ampio dei lavoratori e di tutti gli stakeholders, rappresenta una strategia vincente.

ConclusioniCredo quindi che il modello delle Lean e Teal Organizations risulterà prevalente nella misura in cui le persone diventeranno più consapevoli che la globalizzazione ci rende sempre più stret-tamente interconnessi, che abbiamo oggi più che mai la necessità di dare un nuovo senso e valore alla nostra vita e al nostro lavoro e che il successo di un’azienda, per essere reale e duraturo, non può che passare attraverso il benessere delle persone che vi lavorano e del contesto sociale di riferimen-to. Successo che non può che passare attraverso la tutela e la valorizzazione della fantasia, della creatività e della passione delle persone, che nes-suna macchina potrà mai imitare. n

Come risulta ormai chiaro, questo processo evolutivo coinvolge profondamente l’azienda e si basa su principi di fondo, su valori, su una filosofia di vita e di lavoro che devono trovare la piena condivisione e sostegno a partire dai massimi vertici aziendali, affinché si generi la necessaria spinta propulsiva al cambia-mento. Cambiamento che non può assolutamente prescindere dalla conoscenza e consapevolezza della realtà in cui l’azienda oggi si trova e di quali sono i passi che oggettivamente è in grado di compiere per andare verso questa direzione.

Errori da evitare, leve da utilizzareAnche se può sembrare un paradosso, la prima cosa da non fare è chiedersi “come posso diven-tare una Teal organization” ma porsi la domanda: “come questa mappa evolutiva può ispirarmi per fare dei passi di sviluppo consapevoli e innovativi?”.

Gli errori che invece sarebbe opportuno evi-tare sono: pensare di introdurre questo modello organizzativo senza coinvolgere e preparare le risorse; avere l’aumento della redditività come unica spinta al cambiamento; agire comporta-menti incoerenti rispetto ai principi dichiarati.

Come abbiamo visto, questo non è solo un pro-cesso riorganizzativo ma un profondo processo di cambiamento culturale, che coinvolge tutte le persone dell’azienda. In questo contesto il supporto di un coach può facilitare e accele-rare l’intero processo aiutando le aziende che vogliono intraprendere questo viaggio, attraverso un processo innovativo di co-creazione del fu-turo emergente, ad abbandonare gli schemi del passato, ad ampliare la loro capacità di riflettere sulla realtà che stanno vivendo e a visualizzare con maggiore chiarezza i cambiamenti necessari. Il coaching può inoltre supportare le aziende, at-traverso interventi mirati di gruppo e individuali, nell’importante attività di coinvolgimento delle persone, di superamento delle loro resistenze e dei loro timori e nell’adozione di nuove modalità di relazione, coinvolgimento e responsabilizzazio-ne che rappresentano le fondamenta del nuovo sistema organizzativo.

Dalla teoria alla pratica: alcuni esempi concretiNel suo Reinventing Organizations Frederich La-loux cita alcuni esempi di aziende di successo che hanno adottato questi principi e modelli organiz-zativi come: MorningStar – la più importante so-cietà americana di trasformazione del pomodoro;

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Ciro CafieroAvvocato Giuslavorista e Segretario Giovani Aidp Lazio

Non a caso, la Relazione Ministeriale al disegno di legge dello Statuto dei lavoratori già ammoniva che la sorveglianza dovesse essere “mantenuta in una dimensione umana e cioè non esasperata dall’uso delle tecnologie che possono rendere la vigilanza stessa continua e anelastica, eliminando ogni zona di riservatezza e di autonomia nello svolgimento del lavoro”.

tempo protetti da una cortina invalicabile. In tale prospettiva, vuole di seguito farsi luce, con la ne-cessaria sintesi, sui limiti di tale controllo a tutela della privacy del lavoratore ma anche interrogarsi sulla tenuta di tali limiti con particolare riferi-mento agli sviluppi futuri dello smart working, per rassegnare infine le dovute conclusioni.

La tutela della privacy del lavoratore Gli articoli 4 e 8 dello Statuto dei lavoratori han-no la finalità di tutelare dai controlli c.d. odiosi il lavoratore nell’ottica di garantirne la sfera di riservatezza nel segno degli articoli 1, 2, 6, 13, 14 e 15 della Costituzione.

L’articolo 4, invero, limita il potere di c.d. con-trollo a distanza, ovvero da remoto, dell’attività dei lavoratori mentre l’articolo 8 vieta al datore di lavoro l’indagine sulle opinioni (politiche, sindacali, religiose etc.) del lavoratore. Tali disposizioni sono il frutto del bilanciamento tra l’esigenza di tutela del lavoratore dai controlli pervasivi del datore di lavoro e l’esigenza di quest’ultimo di sorvegliare il patrimonio aziendale nonché di controllare la

prestazione del primo in funzione sia dell’esercizio del potere disciplinare che di quello organizzativo e direttivo (nel segno degli articoli 2086 e 2094 del codice civile). L’articolo 4, in particolare, ha perseguito la sua finalità di tutela attraverso la previsione di una procedura autorizzatoria ai fini del controllo a distanza del lavoratore, che deve aver luogo o in sede sindacale o presso l’Ispetto-rato del lavoro.

Ad opera delle modifiche apportate dall’arti-colo 23 del d.lgs. n. 151 del 2015 (c.d. Jobs Act), tale procedura resta obbligatoria con esclusivo riferimento agli strumenti diretti null’altro che al controllo del lavoratore come ad esempio i sistemi di video sorveglianza, e non anche agli strumen-ti di lavoro, da cui possa derivare il controllo di quest’ultimo, come ad esempio il tablet, i dispositivi

l nostro diritto del lavoro ha mutato radicalmente pelle. Da più di qualche

anno, lo Statuto dei lavoratori, legge n. 300 del 1970, mostra cedimenti in

conseguenza dell’innovazione tecnologica, che ne ha sovvertito le logiche

anche sotto il profilo del trattamento dei dati del lavoratore.

Infatti, la tecnologia ha reso accessibili al datore di lavoro dati del lavoratore un

di Ciro Cafiero [email protected]

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PRIVACY E LAVORATORE

DIRITTO DEL LAVOROstrumenti

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mobile, il pc. Ciò in quanto il legislatore ha preso atto che il controllo del lavoratore, che fa uso di tali strumenti, è così immanente alla prestazione di lavoro che viene meno l’utilità di una qualsiasi procedura per autorizzarlo. Ciò posto, gli articoli 4 e 8 dello Statuto dei lavoratori devono leggersi in combinato disposto con la disciplina sulla privacy, e dunque con il d.lgs. n. 196 del 2003, c.d. Codice della Privacy, modificato dal Regolamento (Ue) 679 del 2016 per effetto del d.lgs. 10 agosto 2018, n. 101, in vigore dal 19 settembre 2018.

Secondo tale combinato disposto, la tutela del-la privacy del lavoratore, nel segno del principio di c.d accountability, espresso dal Regolamento europeo, passa per l’osservanza dei due principi fondamentali di privacy by design e di privacy by default.

Tali principi, in buona sostanza, impongono al titolare dei dati del lavoratore, e dunque al datore di lavoro, di trattare tali dati minimizzando i rischi di un loro trattamento illecito.

Con trattamento illecito, si intende un trat-tamento in violazione del principio di necessità, secondo cui i sistemi informativi e i programmi informatici devono essere configurati riducendo al minimo l’utilizzazione di dati personali e di dati identificativi in relazione alle finalità perseguite (ex art. 3 del Codice della Privacy, par. 5.2). Un trattamento in violazione del principio di corret-tezza, secondo cui le caratteristiche essenziali dei trattamenti devono essere rese note ai lavoratori (ex art. 11 del Codice della Privacy). Un tratta-mento, infine, del principio di non pertinenza e non eccedenza (ex art. 11 del Codice della Privacy) secondo cui: i trattamenti devono essere effettuati per finalità determinate, esplicite e legittime; il datore di lavoro deve trattare i dati “nella misura meno invasiva possibile”; le attività di monitorag-gio devono essere svolte solo da soggetti preposti ed essere “mirate sull’area di rischio, tenendo conto della normativa sulla protezione dei dati” (a tale riguardo, si veda altresì il Parere n. 8/2001 del Garante per la protezione dai dati personali). Si vedano, per un approfondimento, le Linee Guida del Garante per la protezione dei dati personali n. 13 del 1 marzo 2017 in tema di utilizzo della posta elettronica e della rete internet aziendali.

A tali principi rimanda anche l’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori, come modificato dall’ar-ticolo dal d.lgs. n. 151 del 2015, che subordina l’utilizzabilità dei dati del lavoratore al rispetto “di quanto disposto dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196”.

I nuovi confini della privacy nell’era dello smart workingSe tutto questo è vero, è anche vero che lo smart working, introdotto nel nostro ordinamento prima dalla contrattazione collettiva e poi dalla legge n. 81 del 2017, rischia, in un futuro molto prossi-mo, di indebolire la tenuta delle descritte misure, nazionali ed europee, a tutela della privacy del lavoratore.

In via preliminare, deve osservarsi che il con-trollo della gran parte dei dati personali e iden-tificativi dello smart worker da parte del datore di lavoro è, sin da ora, più che immanente allo svolgimento della prestazione lavorativa per mezzo di un’ininterrotta connessione di dati tra datore di lavoro e lavoratore. In altri termini, il datore di lavoro entra “comodamente” nei luoghi ricon-ducibili alla sfera privata dello smart worker e che quest’ultimo ha eletto a luogo di svolgimento della prestazione di lavoro.

Ciò posto, alcune tecnologie saranno presto in grado di registrare la fatica o l’emotività del lavo-ratore ai fini del controllo della sua produttività, e dunque dati appartenenti alla sfera inconscia del lavoratore, con ogni conseguente riflesso, peraltro, in termini di utilizzo di tali informazioni sotto il profilo disciplinare. In tal senso, si considerino i dispositivi applicabili all’iride per rilevare il grado di attenzione del lavoratore o ancora i rilevatori di stanchezza applicabili alla tastiera del pc con-nesso alla sede datoriale o, infine, i caschi in grado di leggere le interazioni celebrali del lavoratore già sperimentati in Cina. Si tratta di evenienze che gli articoli 4 e 8 dello Statuto dei lavoratori, malgrado il lifting operato con il già citato d.lgs. n. 151 del 2015, come lo stesso Regolamento UE 679 del 2016, ad oggi, non contemplano. Invero, i dati derivanti dall’utilizzo di tali tecnologie non appartengono né alla sfera dei dati personali né a quella dei dati sensibili del lavoratore ma alla sfera dei dati che potrebbero essere definiti “sen-sibilissimi”, sconosciuta al nostro ordinamento e al legislatore europeo.

Su tali presupposti, è evidente che i principi di necessità, correttezza, pertinenza e non eccedenza non saranno sufficienti a garantire la privacy del lavoratore ma si imporranno misure più incisive.

Le soluzioni potrebbero essere due. In primo luogo, per ogni azienda che tratterà dati “sensi-bilissimi” del lavoratore, potrà essere opportuno rendere obbligatoria la nomina di un Data Pro-tection Officer. Come noto, ai sensi dell’art. 37 del Reg. UE 679 del 2016, ad oggi, tale figura ➤

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è obbligatoria solo per soggetti pubblici o per le aziende ovvero per gli altri soggetti privati le cui attività principali consistono: i) in trattamenti che richiedono il monitoraggio regolare e sistematico di interessati su larga scala, ii) ovvero che trattano, su larga scala, categorie particolari di dati o di dati personali relativi a condanne penali e reati.

Il Data Protection Officer dovrebbe vigilare perché l’utilizzo dei dati “sensibilissimi” dei la-voratori non violi le garanzie minime, in tema di diritto di lavoro e di privacy, a tutela degli stessi.

Ad esempio, nell’ottica dell’utilizzo di tali dati ai fini disciplinari, dovrebbe essere resa allo smart worker idonea informativa, nel senso del rischio del controllo dei suoi dati anche “sensibilissimi”, con espressa accettazione dello stesso. E ciò sulla scorta di un modello già tracciato, sotto altri pro-fili, dal d.lgs. n. 81 del 2008. O ancora, dovrebbe consentirsi allo smart worker il diritto di oppor-si, con adeguato contradditorio, al trattamento dei dati “sensibilissimi” sulla scorta del diritto di opposizione già contemplato, rispetto ai processi decisionali automatizzati, dall’art. 21 del Re. Ue 679 del 2016.

E così, sul piano pratico, il lavoratore dovrà essere messo nelle condizioni di provare che un errore commesso sul posto di lavoro che la tecno-logia registra connesso ad un calo di produttività è conseguenza, non già di un volontario calo di produttività, ma di un particolare momentaneo stato di salute o della fisiologica stanchezza legata ad attività lavorativa intensiva.

Per intenderci sulla fallibilità di queste tecno-logie, basti osservare quelle di molte auto di mo-derna generazione che segnalano al conducente cali dell’attenzione alla guida in conseguenza del semplice variare della velocità del veicolo, dovu-to alle frequenti decelerazioni o frenature che il conducente, viceversa, prudentemente realizza in conseguenza delle code di auto o di alcuni ostacoli sui tratti stradali.

In secondo luogo, nel segno del principio di by design, potrebbe imporsi ai costruttori delle tecnologie in grado di leggere i dati “sensibilissimi” del lavoratore di adottare algoritmi intelligenti, anche attraverso il machine learning, in grado di interpretare tali dati e di trasmetterli solo ove necessario. Uno spiraglio per nuove soluzioni a problemi nuovi sembra essere aperto, non a caso, dallo stesso Reg. Ue 679 del 2016 ove sia nel nr. 155 sia all’art. 88 si rimette agli Stati membri il compito di elaborare, “con legge o tramite con-tratti collettivi, norme più specifiche per assicu-rare la protezione dei diritti e delle libertà con riguardo al trattamento dei dati personali dei dipendenti nell’ambito dei rapporti di lavoro, in particolare per finalità di assunzione, esecuzione del contratto di lavoro, compreso l’adempimento degli obblighi stabiliti dalla legge o da contratti collettivi, di gestione, pianificazione e organiz-zazione del lavoro, parità e diversità sul posto di lavoro, salute e sicurezza sul lavoro, protezione della proprietà del datore di lavoro o del cliente e ai fini dell’esercizio e del godimento, individuale o collettivo, dei diritti e dei vantaggi connessi al lavoro, nonché per finalità di cessazione del rapporto di lavoro”.

ConclusioniIn conclusione, la tecnologia pone il nostro ordina-mento dinanzi a nuove sfide che, per essere superate, richiedono ai decision makers di guardare alla realtà con lenti nuove, dismettendo quelle novecentesche, e buone dosi di ingegneria legislativa e contrat-tuale. Ciò al fine di governarla indirizzandone il flusso. D’altro canto, significherebbe commettere un grave errore approntare paletti per arrestare la travolgente “piena” dell’innovazione. Si tratta di applicare categorie giuridiche nuove a situazioni giuridiche nuove. In fondo, il cambiamento ci chiama a costruire una società win win in cui innovazione, lavoro e uomo vincono insieme. n

“La tecnologia pone il nostro ordinamento dinanzi a nuove sfide che richiedono ai decision makers di guardare alla realtà con lenti nuove, dismettendo quelle novecentesche, e buone dosi di ingegneria legislativa e contrattuale”

DIRITTO DEL LAVOROstrumenti

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idee{78. Le competenze. Una mappa per orientarsi di Giuseppe Varchetta}

{81. Tra palco e realtà di Marco Lombardi}

AIDPnews

{82. Strumenti per la gender equality in azienda

da GET UP & AIDP Diversity}

{84. Intervista a Manuela Geleng Appunti da STA-GE

di Maria Rosaria Fraticelli e Adriana Velazquez}

{89. AIDP 2019 di Isabella Covili Faggioli}

{90. Flash: nasce l’area AIDP Responsabilità Sociale

- buon lavoro Domenico Martino - benvenuta AIDP4you}

{91. AIDP Award 2019}

{92. 48° Congresso Nazionale AIDP}

{96. Ciao Massimo}

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RECENSIONIidee

enere in mano per qualche giorno quest’ultima, pre-ziosa ricerca, della Fonda-zione Agnelli e connettersi

sia emotivamente che cognitivamente con quanto sta accadendo nel mondo grande e nel piccolo mondo dell’espe-rienza organizzativa quotidiana, induce a una riflessione, che viene limitata ai contesti organizzativi che attraversiamo ogni giorno.

A ben considerare l’esperienza orga-nizzativa – e ci limitiamo a una tem-porizzazione collocabile agli anni della ricostruzione dopo l’orrore della Seconda Guerra mondiale – è stata caratterizzata da una tendenza orientata a sublimare la ragione sotto forma di modelli, che si presentano tendenzialmente come auto sufficienti. L’esperienza organizzativa è stata meccanizzata fino a una ripetitività ossessiva e le condotte operative sia in-tellettuali che manuali, che si sono svolte tra gli attori diversi dentro l’organizza-zione, hanno attraversato tendenzial-mente forme di normatività inesorabili e inflessibili. Si potrà osservare contro questa affermazione, che ha un verso indubbiamente apocalittico, che l’espe-rienza organizzativa occidentale a par-tire dal 1946 ha visto anche le relazioni umane, l’ampia teoresi sviluppata dalla psicologia sociale intorno a comunica-zione, motivazione, leadership, lavoro di gruppo, le neo-relazioni umane, i sistemi socio-tecnici, l’analisi istituzionale, la

T

LE COMPETENZEUNA MAPPA PER ORIENTARSI

socio-psicosocioanalisi e altro. Tali os-servazioni sono tanto fondate quanto, tuttavia, non sufficientemente cariche di anticorpi per confutare l’ipotesi iniziale di una pervasività, qualitativa e quanti-tativa, dei meccanismi della ripetitività, della ricerca di un modello normativo perfetto e autosufficiente quale para-

digma caratterizzante nella gran parte delle sue espressioni l’esperienza orga-nizzativa che abbiamo alle spalle.

Le ricorrenti crisi economico finan-ziarie a partire dalla metà degli anni Ottanta e l’esplosione dell’idea di qualità totale e di servizio con uno spostarsi dell’accezione dei collaboratori da va-riabile di costo a variabile di sviluppo ha generato un processo di cambiamento tanto confuso quanto pervasivo, tuttora in atto, di difficile valutazione, anche in considerazione della ristretta economia di questa pagina, che ha tuttavia nel movimento delle competenze un non dubbio e rilevante riferimento.

Il costrutto della competenza è emerso a partire dagli anni Settanta del secolo scorso soprattutto nell’area del lavoro e della formazione, affrontato da molte discipline (scienze del lavoro, dell’organizzazione e del management, della formazione) e fin dall’inizio ha as-sunto significati e definizioni diverse, fino a creare controversie non ancora del tutto superate. “Spesso sono state usate retoricamente per disegnare alcuni modi di denominare certe qualità indi-viduali, altre volte sono invece divenute parametri su cui valutare e misurare; altre ancora … dispositivi attraverso cui tradurre contenuti professionali e formativi, oppure per descrivere carat-teristiche individuali legate alle identità e personalità dei soggetti”.

Su un dato vi è una diffusa conver-

LA SCHEDATitolo Le competenze. Una mappa per orientarsi Autori Fondazione Agnelli Anno 2018Casa editrice Il Mulino, BolognaPrezzo 15 euro

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Giuseppe [email protected], consulente di formazione e sviluppo organizzativo e Socio Onorario AIDPPsicologo dell’organizzazione di formazione psico-socioanalitica, socio fondatore e past president di Ariele, dopo una lunga esperienza nell’area della formazione, dello sviluppo organizzativo e della gestione del Personale, è stato professore a contratto presso l’Università Statale Bicocca di Milano, dove ora collabora come cultore della materia. Membro della redazione della rivista Educazione sentimentale, ha al suo attivo molte pubblicazioni in tematiche di formazione e sviluppo organizzativo.

genza di opinioni: la circostanza del dif-fondersi del costrutto delle competenze mette in gioco “la trasformazione dei contenuti e delle relazioni tra i mondi professionali e i mondi formativi, en-trambi oggi messi sotto pressione da incertezze e crisi che reclamano solu-zioni inedite nella produzione e nell’uso della conoscenza … le competenze sono senz’altro una risorsa individuale, ma anche una potenzialità modificabile dalle condizioni del contesto: dunque una risorsa collettiva e relazionale, da non trattare solo come una proprietà esclusiva dell’individuo e frutto della sua esperienza e traiettoria professionale”.

Una nota attraversa tutte le pagine della ricerca presentata dalla Fonda-zione Agnelli, che non a caso ha come sottotitolo Una mappa per orientarsi: la competenza è originata da un attore organizzativo operante una prestazione con note di eccellenza collocata in un contesto organizzativo specifico, in una temporalità definibile, riconosciuta nella sua eccellenza da utenti con livelli di

to di esperienze collettive di successo, pensate ed agite dalla comunità/gruppo del quale l’attore umano testimone del valore è membro. Con conoscenze fun-zionali si può intendere tutto ciò che si sa, appreso in vari modi, comunicabile, suscettibile di trasmissione e di processi di appropriazione.

Con capacità attuative si fa riferi-mento a un costrutto di caratteristiche individuali o collettive, espresso nei pro-cessi di esecuzione, prestazione, e che ha la proprietà di poter essere deconte-stualizzato da un contesto organizzativo e trasferito in altri.

Le quattro variabili suindicate sono realtà in sé, “proprietà” peculiari e spe-cifiche dell’attore organizzativo soggetto della prestazione e come tali realtà ogget-tuali. In quanto realtà oggettuali possono essere descritte, misurate e inventariate. Questi processi non possono essere tra-sferiti al costrutto di competenze che è in sé struttura che dev’essere valutata: le competenze infatti “non sono cose”.

“Le competenze sono proprietà

soddisfazione valutabili. Una prestazione con note più o meno

rilevanti agita da un attore organizzati-vo è risultato di un’azione individuale immersa in una organizzazione. Quali variabili intervenienti nutrono un’azio-ne? Una risposta fondata a tale quesito indica come variabili intervenienti: il carattere, la cultura organizzativa, le conoscenze funzionali e le capacità at-tuative dell’attore organizzativo.

Con carattere si può intendere la con-figurazione relativamente permanente di un individuo alla quale si possono riferire gli aspetti e le fattispecie abituali e tipiche del suo comportamento, tra di loro integrati sia a livello intrapsichico che a livello transpersonale. Con cultura si rimanda al substrato attivo relativo alla idealizzazione di senso del porta- ➤

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emergenti in prima istanza relaziona-li, cioè legate all’uso e ai contesti, non riconducibili alle condizioni che ne per-mettono l’espressione. … le competenze non nascono dal nulla, dipendono da una storia e in un certo senso sono ogni volta uniche … le competenze sono altamente specifiche e legate alle condizioni che ne permettono l’espressione: sono in un certo senso sempre ‘qui e ora” (Cepol-laro G., Le competenze non sono cose, Guerini e Associati, 2008).

Per comprendere appieno, in tutta la sua ricchezza, il potenziale di cam-biamento e innovazione dell’esperienza organizzativa connesso al costrutto di competenze occorre abbandonare una logica oggettuale e descrittiva ed entrare in una prospettiva di apprendimento, di evoluzione, di contingenza e soprat-tutto di riconoscimento all’interno di una visione caratterizzata da una at-tenzione relazionale di ogni esperienza organizzativa.

Lungo queste tracce si può così riflet-tere sul costrutto di competenze:

“Noi non le vediamo, mentre vediamo i loro effetti, cioè i comportamenti lavo-rativi (attività svolte; attività compiute; modalità di esercizio e stili di comporta-mento) dei quali tendiamo ad attribuire l’origine ad una qualità dell’individuo che definiamo competenza.

La competenza ci appare cioè come il risultato aggregato, olistico, composito che risulta dalla interazione sinergica di componenti che definiamo competenze.

Le competenze sono dunque un co-strutto, cioè sono entità delle quale noi inferiamo l’esistenza e la presenza solo indirettamente, osservando un comportamento lavorativo efficace.

Osservando un comportamento la-

re la competenza, Franco Angeli, 2012).Il processo centrale di ogni processo

di individuazione e conseguentemente di ogni processo di apprendimento origina-to e nutrito dal costrutto di competenze è quello del riconoscimento. Non si ha competenza se non si origina e non si sviluppa una sua descrizione in sé, la descrizione di un riconoscimento: “il ri-conoscimento, che è quindi costitutivo della competenza, interessa uno spazio intersoggettivo, ossia delle relazioni tra un soggetto e un altro, uno spazio intra-soggettivo, ossia delle relazioni ogget-tuali, uno spazio trans-soggettivo, ossia delle relazioni tra soggetto e contesto condiviso” (Cepollaro).

Il costrutto di competenze interpreta-to in una prospettiva relazionale ha nel riconoscimento un nucleo di responsa-bilità reciproche. L’osservatore che ri-conosce introduce una responsabilità organizzativa: al di fuori della sua azione di riconoscimento la competenza non avrebbe alcuna possibilità di vita. Il rico-noscimento da parte dell’organizzazione transita attraverso un gesto individuale, al di fuori del quale non ci sarebbe alcu-na ricaduta in termini di condivisione organizzativa. Riconoscere la matrice e la sostanza relazionale del costrutto di competenze implica un’organizza-zione e attori organizzativi capaci di consentirsi una elaborazione riflessiva delle esperienze e come tale un’autentica appropriazione intra e transoggettiva di tutte le fenomenologie che nella “com-media organizzativa” accadono quoti-dianamente.

A pensieri come questi e ad altri ha ricondotto la lettura delle pagine dense della ricerca propostaci dalla Fondazione Agnelli. Ci sembra un denso risultato. n

vorativo competente (un’attività; una prestazione), si afferma che la causa di tale efficacia vada attribuita a delle entità che in qualche modo l’individuo possiede.

In questa prospettiva, noi non vedia-mo mai le competenze ma ne vediamo sempre solo la concretizzazione in com-portamenti efficaci cioè ne vediamo le evidenze: sono queste evidenze a fornirci la conferma che quell’individuo possiede quella competenza” (Bresciani P.G., Capi-

“Le competenze

sono senz’altro una

risorsa individuale,

ma anche una

potenzialità

modificabile

dalle condizioni

del contesto:

dunque una

risorsa collettiva

e relazionale,

da non trattare

solo come una

proprietà esclusiva

dell’individuo

e frutto della

sua esperienza

e traiettoria

professionale”

RECENSIONIidee

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di “marito” per abbracciare quello di amante immaginario, ma le due cose possono andare bene insieme? Cioè, il desiderio di fuga può essere un modo per (paradossalmente) consolidare il suo essere marito, in nome di una ri-trovata consapevolezza e maturità? Il film (un po’ buonisticamente) sembre-rebbe dire di sì, ma questa soluzione è valida anche in azienda? Il nostro universo emozionale, qualunque esso sia, può cioè “andare d’accordo” con il nostro “dover essere in un certo modo”, professionalmente parlando? In altri termini, ancora: le “fantasie” possono giovare al ruolo? Probabilmente sì, se accompagnate da una certa dose di maturità, e se (naturalmente!) non ri-guardano la nuova collega o il nuovo collega d’ufficio… n

l titolo di questa celebre canzo-ne di Ligabue sintetizza bene la condizione di chi vive in azienda, diviso com’è fra la sua “rappre-

sentazione da organigramma” e la sua (personalissima) umanità, che gli fa vi-vere degli stati d’animo non sempre in linea con il ruolo aziendale. Se è vero che tutte le organizzazioni sociali nascono (e si sviluppano, o s’inquina-no) a partire da quella che possiamo definire “l’organizzazione di base”, cioè la famiglia, Sogno di una notte di mezza età, opera prima del celebre attore Daniel Auteuil, ha molto a che vedere con il tema.

Il film (una piacevolissima comme-dia degli equivoci, ai limiti del classico e del teatrale) mette infatti in scena il “ruolo” di un marito all’interno del suo

matrimonio: che, pur continuando a essere “d’amore”, è tuttavia logorato dai tanti (troppi?) anni insieme. Succe-de allora che quando l’amico (Gerard Depardieu) va a cena dalla coppia per presentare la sua nuovissima (e bellis-sima, e giovanissima) fiamma con cui è andato a vivere dopo aver lasciato la moglie (che è pure amicissima della moglie di Auteuil), il protagonista del film, attratto com’è dalla ragazza, inizia a immaginarsi una storia romantica-mente passionale che sgomita con la realtà della cena, portandolo a fare dei commenti ad alta voce che appartengo-no a quello che lui sta sognando di lei/con lei. In altri termini: esce dal ruolo

I

Marco [email protected], sceneggiatore, critico

idee L’AZIENDA È TUTTA UN FILM

TRA PALCO E REALTÀ

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AIDPnews

STRUMENTI PER LA GENDER EQUALITY IN AZIENDAGrazie ad AIDP Diversity, capitanato da Claudia Tondelli, e al team di GET UP per aver sancito, mettendo a disposizione nuove risorse e spunti, le pari opportunità di genere come competenza professionale e non solo come scelta etica

collaborazione con AIDP e altre 6 organizzazioni provenienti da Italia, Belgio, Francia, Lituania, Malta e Bulgaria.

GET UP investe nella professionalizzazione di quanti intervengono nelle delicate fasi di transi-zione, dotandoli delle competenze necessarie per operare in maniera seria, qualificata ed eticamente accettabile nei confronti, soprattutto, delle giovani donne. Per essere all’altezza di svolgere il proprio compito e ridurre errori e stereotipi, che spesso agiscono in maniera inconsapevole, che conducono a sprecare talenti e risorse, negando opportunità di crescita, orientamento e sviluppo a coloro che possono rappresentare un potenziale su cui vale

la pena investire.Con GET UP i Soci AIDP hanno la possibilità di rafforzare le

proprie competenze e acquisire maggiore consapevolezza su come gli stereotipi di genere possano essere superati grazie a nuovi strumenti e risorse utili e liberamente accessibili online come bibliografie, materiali didattici e di approfondimento, ricerche e confronti internazionali, notizie, eventi, casi, video sui temi #wasteoftalent #genderpaygap #worklifebalance; il Serious Game GET UP e il Training Kit.

Opportunità di formazione gratuita GET UP mette a disposizione gratuitamente un originale percorso di formazione online, costruito sui bisogni e le competenze di HR manager e professionisti della filiera scuola-formazione-lavoro,

on la conferenza internazionale A GENDER STORY si sono presentati il 5 di-

cembre scorso, nell’aula magna del prestigioso Liceo Torquato Tasso di Roma,

i risultati raggiunti in questi due anni da GET UP. GET UP, acronimo di Gen-

der Equality Training to overcome Unfair discrimination Practices in education and

labour market, è un progetto cofinanziato dalla Commissione Europea coordinato da UIL in

Ca cura del team AIDP di GET UP

Claudia Tondelli, Massimiliano Nucci, Marina Galzignato, Laura Bruno, Sylvia Liuti, Sonia Rausa, Adriana Velazquez, Katja Gallinella, Elin Miroddi e Marcella Loporchio{

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strutturato in base alle competenze definite nello Standard Minimo Euro-peo (EMSC on Gender Equaliy) che consente di:• praticare comportamenti e acquisire capacità di contrasto alle discrimi-nazioni, di valorizzazione delle dif-ferenze di genere, di lettura e analisi dei dati disaggregati per genere per un più efficace supporto alla decisione;• ridurre le disuguaglianze di genere nei luoghi di lavoro;• incoraggiare l’adozione di nuove stra-tegie per la conciliazione vita-lavoro nelle aziende.

Il training, suddiviso in tre moduli indi-viduale, organizzativo e sociale è gratuito e fruibile, in più lingue, previa registrazione alla piattaforma www.getupproject.eu/platform/

Dopo aver sostenuto il self-assessment finale è possibile richiedere l’attestato da esibire nel proprio curriculum professionale. n

Per saperne di più www.getupproject.eu

Stereotypes, gender segregation and inequalitiesIf you don’t show it, it doesn’t existGET UP è stato sostenuto da un’ampia campagna di comunicazione che ha incluso un photo contest, video di animazione, poster affissi nelle principali città europee e la realizzazione di un Serious Game per ragazzi e ragazze dai 13 ai 18 anni, come esperienza di apprendimento e confronto basata su un gioco di ruolo in cui possano sperimentare direttamente le discriminazioni e gli stereotipi di genere nella vita personale e professionale di due personaggi immaginari: www.agenderstory.eu

A GENDER STORY si può rivedere su Facebook, Instagram, Twitter e integralmente su AIDP Channel, in tre puntate (aidpchannel.applygroup.it). Tra i protagonisti della mattinata di lavori: Ivana Veronese Confederal Secretary UIL, Isabella Covili Faggioli President AIDP, Daniela Oliva Sociologist, board member @IRS, Aneta Petrovska-Rusomaroski Head of Department Human Resources and Organisation @EVN Macedonia, Luisa Rosti Full Professor of Economic Policy @University of Pavia, Suzanna Flocken European Director @European Trade Union Committee for Education, Małgorzata Druciarek Head of the Gender Equality Observatory Polish, Riccarda Zezza CEO of MAAM - Life Based Value, Henk ter Stege @Arcus College, Giusy Sica Re-Generation (Y)outh President

“Il supporto del Programma Diritti, Uguaglianza e Cittadinanza (REC) dell'Uni

one Europea per la produzione di questo poster non

costituisce un'approvazione dei suoi conte

nuti, che riflettono solo le opinioni degliautori. La Commissione non può essere ritenuta

responsabileper qualsiasi

uso che possa essere fatto delle informazioni in esso contenute.”

#wasteoftalentwww.getuppr

oject.eu

Unisciti a noi per pari opportunità

di genere a scuola e nella formazione!IL TALENTO NON HA GENERE.

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AIDPnews

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Maria Rosaria Fraticelli Responsabile Comunicazione FSE della Regione Umbria

Adriana Velazquez Presidente AIDP Umbria e Coordinatrice Nazionale Gruppo AIDP Giovani

abbandono scolastico in Ita-lia è una piaga che ruba il fu-turo ai giovani. I paesi dell’UE si sono impegnati a ridurre la media degli abbandoni scola-stici a meno del 10% entro il

2020. Ma l’Italia è lontana da questo tra-guardo: sebbene i dati del MIUR rilevino come la dispersione scolastica nel nostro Paese sia in calo, resta forte il divario tra Nord e Sud e con il resto d’Europa. Su que-sto fronte sappiamo che state agendo con forza. Facciamo il punto sulle ragioni di questo divario e sui modi per contrastarlo.«Innanzitutto il 10% va considerato come obiettivo da conseguire a livello europeo, ma va declinato dai singoli Stati Membri in target a livello nazionale, compatibilmente con le condizioni economiche e sociali presenti in quel territorio. Tuttavia, il tema rimane uno dei punti su cui tutte le istituzioni europee si stanno impegnando. Sulle cause del feno-meno e quindi sul divario tra Stati membri e le differenze al loro interno agiscono diversi

fattori attribuibili a due principali catego-rie, la prima si riferisce alla condizione delle istituzioni scolastiche, al contesto educativo in generale (in termini di efficienza dei ser-vizi offerti) di una particolare area; l’altra attiene più propriamente alla sfera privata, familiare e sociale. Ad esempio, per i giova-ni provenienti da un contesto migratorio il rischio di abbandono scolastico è superiore, ed è particolarmente elevato per i Rom e altre minoranze svantaggiate. Con il recente aumento di rifugiati e migranti si è accen-tuato il problema di come integrare gli alun-ni provenienti da tali realtà, promuovendo l’acquisizione di conoscenze e competenze.

Ritornando ai dati, nel 2017 il tasso medio UE dell’abbandono prematuro di istruzione e formazione è stato pari al 10,6%, con una tendenza al ribasso negli ultimi anni (oltre 3 punti percentuali dal 2010). Sono 17 gli Stati membri che hanno già raggiunto l’obiettivo principale della strategia Europa 2020 di un tasso di abbandono inferiore al 10%, due – Lettonia (10%) e Germania (10,3%) – vi sono

di Maria Rosaria Fraticelli e Adriana Velazquez

L{

APPUNTI DA STA-GE

INTERVISTA A MANUELA GELENG

I giovani sono al centro delle politiche della Commissione Europea, che promuove diverse azioni per offrire loro nuove e pari opportunità nell’istruzione e nel mercato del lavoro e incoraggiarli a partecipare attivamente alla società. Ne abbiamo parlato agli Stati Generali dei Giovani, qui approfondiamo per i nostri lettori con Manuela Geleng, a capo della Direzione Politiche Sociali DG Employment della Commissione Europea

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Manuela Geleng Head of Social Investment Strategy Unit, DG Employment, Social Affairs and Integration.Manuela Geleng è entrata a far parte della Commissione nel 1995, dove ha ricoperto diverse posizioni. In precedenza, ha lavorato nel settore privato e per il Programma di sviluppo delle Nazioni Unite.

molto vicini. Da sottolineare come tra gli 11 Paesi ancora al di sopra dell’obiettivo dell’UE, solo l’Italia ha raggiunto il proprio obiettivo nazionale del 16%, scendendo al 14% nel 2017.

Per sciogliere questo nodo così critico si deve agire su diversi fronti. Vi è già una raccomandazione del Consiglio europeo del 2011 in cui si forniscono indicazioni agli Stati membri su come affrontare l’abbandono sco-lastico, innanzitutto si ribadisce l’importanza delle misure di prevenzione sui processi che conducono all’abbandono scolastico, inter-venendo già nella fase della prima infanzia, promuovendo percorsi educativi flessibili e che permettano una migliore integrazione dei bambini migranti.

A questa fase di prevenzione dovrebbero seguire interventi mirati a combattere qua-lunque difficoltà degli studenti al suo manife-starsi, migliorando la qualità dell’istruzione e della formazione. Una rilevazione precoce delle criticità può portare ad un valido so-stegno necessario all’apprendimento e alla motivazione. E se nonostante tutti gli sforzi

fatti per evitare l’abbandono questo doves-se verificarsi sono importanti le misure di compensazione, che creano nuove opportu-nità di ottenere una qualifica per coloro che hanno abbandonato precocemente i percorsi di istruzione e formazione.

In questo ambito il ruolo delle istituzioni europee, ed in particolare della Commis-sione, è quello sia di indirizzo che di pro-mozione di politiche orientate al contrasto di tale fenomeno, come l’Iniziativa Oc-cupazione Giovani, strumento concepito per quei giovani che non si trovano né in situazione lavorativa, né di formazione (i cosiddetti NEET), finanziando interventi quali apprendistato, tirocinio e inserimento professionale. Ovviamente sono gli Stati membri che devono mettere in campo le azioni per limitare l’uscita dei giovani dai percorsi formativi. Nelle stesse Raccoman-dazioni specifiche per paese dell’UE per il 2018, si evidenziava come in Italia la qualità generale dell’istruzione scolastica stia migliorando, sebbene persistano ➤

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AIDPnews

Formazione scendono al di sotto del 10% permettendo pochi investimenti reali per i giovani. Quali sono le cause e cosa si sta facendo per migliorare la situazione?«Le scelte sull’ammontare delle risorse da allocare sono dettate dalle diverse priorità politiche che derivano da alcune norme re-golamentari ma in primo luogo dalle scelte programmatiche degli Stati Membri. Le cause delle difficoltà che affliggono i giovani sono molteplici ed è, quindi, necessario agire su più fronti. La lotta alla disoccupazione è stata posta come tema prioritario al cen-tro delle politiche di sviluppo dell’Unione europea. Oltre al FSE, agiscono le risorse dell’iniziativa per l’occupazione giovanile per sostenere l’attuazione dei progetti della Garanzia Giovani. L’iniziativa punta a for-nire un sostegno ai giovani che vivono nelle regioni in cui la disoccupazione giovanile superava nel 2012 il 25%. In Italia con i fondi dell’Iniziativa Occupazione Giovani sono stati coinvolti in misure di politica attiva oltre 600.000 ragazzi tra i 15-29 anni. Il 51% di coloro che hanno portato a termine un intervento risulta occupato e il 71,6% ha comunque avuto un’esperienza lavorativa a conclusione dello stesso. Il programma operativo italiano prevede di coinvolgere oltre 720.000 persone. Diversi programmi finanziati dal FSE prevedono il rafforzamento e la promozione dei percorsi di Specializ-zazione Tecnica Post Diploma: un esempio positivo di miglioramento delle competenze e di creazione di profili professionali che assicurano maggiori opportunità occupazio-nali è rappresentato dagli Istituti tecnici superiori. Queste realtà sono espressione di una nuova strategia che unisce le politi-che d’istruzione, formazione e lavoro con le politiche industriali del Paese. Un modello organizzativo di tipo partecipativo che vede la fattiva collaborazione di imprese, univer-sità/centri di ricerca scientifica e tecnologica, enti locali, sistema scolastico e formativo».

Il territorio è particolarmente sensibile alle difficoltà di chi sta cercando lavoro e di chi deve riqualificarsi nel mondo del lavoro. Le risorse del Fondo Sociale Europeo di-ventano indispensabili per progettare ➤

Combattere l’abbandono scolastico e la povertà educativaLa strategia definisce una serie di azioni da attuare nei prossimi 5 anni nel quadro di un piano nazionale coordinato dal Governo in accordo con le regioni e i comuni e supervisionato dal Parlamento che prevedono azioni di analisi del contesto con la mappatura delle iniziative esistenti e la promozione di nuove misure per combattere l’abbandono scolastico come le reti per condividere le buone pratiche, migliorare i collegamenti tra città e quartieri e la comunità scolastica, attività di apprendimento e doposcuola e incoraggiare un maggiore coinvolgimento delle famiglie.

ampie disparità regionali e si invitava ad un miglioramento delle competenze e a dare attuazione alla strategia nazionale generale per le competenze, avviata nell’ottobre 2017.

Su questo fronte una prima risposta è arrivata con la pubblicazione, nel gennaio 2018 da parte del Ministero della Pubblica Istruzione, di una strategia per combattere l’abbandono scolastico e la povertà educativa, proprio con l’intento di ridurre il tasso di abbandono scolastico verso la fatidica soglia del 10%.

Dal punto di vista finanziario, l’Unione Europea interviene in particolare con i fondi strutturali e d’investimento europeo. In Italia il Fondo Sociale Europeo e il Fondo Europeo per lo Sviluppo Regionale cofinanziano una serie di programmi operativi, regionali e na-zionali; tra cui in particolare il Programma Operativo Nazionale per la Scuola, con una dotazione complessiva pari a quasi 3 miliardi di euro per interventi nell’area dell’istruzione con il coinvolgimento previsto di circa 2.4 milioni di studenti».

Il futuro dell’Europa è in mano ai giovani. Quali sono le occasioni che permettono ai giovani di costruire il loro futuro e quello del paese in cui vivono? «I giovani sono al centro delle politiche della Commissione Europea. Nel maggio 2018 la Commissione ha presentato proposte per una nuova strategia dell’UE per la gioventù per il 2019-2027, che saranno discusse dal Con-siglio dell’Unione europea. Ne sono esempi Garanzia Giovani già citata, Erasmus+, che è il programma dell’UE per l’istruzione, la formazione, la gioventù e lo sport in Europa che grazie ad un bilancio di 14,7 miliardi di euro, fornisce a 4 milioni di giovani europei l’opportunità di studiare, formarsi, acquisire esperienza e fare volontariato all’estero; il Corpo europeo di solidarietà che offre ai giovani opportunità di lavoro o di volontaria-to, nel proprio paese o all’estero, nell’ambito di progetti destinati ad aiutare comunità o popolazioni in Europa».

Il Fondo Sociale Europeo rappresenta il 23,1% dei finanziamenti Europei. Ma i fondi che vengono destinati all’Istruzione e alla

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Si è svolta in Umbria, il 27, 28 e 29 novembre, a Perugia, la seconda edizione degli STATI GE-NERALI DEI GIOVANI PER L’ISTRUZIONE LA FORMAZIONE E IL LAVORO.

Tre giorni dedicati ai giovani che intendono essere protagonisti del proprio avvenire e pronti a riflettere sul cambiamento del mondo del la-voro. Un esempio di eccellente collaborazione tra pubblico e privato promosso da AIDP grazie all’attivismo del Gruppo Umbria e di AIDP Gio-vani. Questa edizione di STA-GE ha avuto un forte focus sul recruiting con seminari pratici, esercitazioni e svariate modalità di partecipa-zione e coinvolgimento.

I partecipanti hanno potuto definire i propri obiettivi futuri grazie a SORPRENDO, conoscere i progetti finanziati dal Fondo Sociale Europeo, ascoltare testimonianze provenienti dal mondo accademico, delle associazioni e dell’impresa, mettersi alla prova con JOB interview 4U e rice-vere i consigli da esperti selezionatori, partecipa-

re allo SPEED Date Erasmus, seguire i seminari EURES ottenendo tante informazioni per vivere e lavorare in Europa e, novità dell’edizione, parte-cipare al JOB TALENT SHOW by Aboca, Acciai Speciali Terni e Smartpeg, una simulazione di placement e selezione del personale, sotto la guida del CEO e dell’HR Manager – il premio per i finalisti è uno stage retribuito finalizzato all’assunzione. Il primo se lo è già aggiudicato, in Smartpeg, Francesco Cagnoli, neolaureato di Terni. La possibilità di candidarsi è aperta fino al 28 febbraio 2019 (application su www.sta-ge.it).

L’evento, finanziato dal Fondo Sociale Europeo e realizzato da una “cordata” composta dalla Regione Umbria, AIDP Umbria, AIDP Giovani e la rete Europe Direct si può rivedere su Fa-cebook e Instagram – @statigeneralideigiova-ni – grazie agli studenti del corso di Strategie di comunicazione in rete della magistrale di Scienze della Comunicazione di Perugia.

STA-GE 2018

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iniziative utili ai cittadini in difficoltà. La sensa-zione però è che manchino risorse o competenze tali per poter richiedere e utilizzare in modo adeguato questi fondi. Cosa state facendo?«L’obiettivo tematico 11 si propone di miglio-rare l’efficienza della pubblica amministra-zione attraverso azioni orientate ad investire in strutture, capitale umano, sistemi e strumenti del settore pubblico che garantiscano una mag-giore efficienza dei processi organizzativi e una gestione più moderna, volte inoltre a motivare e qualificare i dipendenti pubblici.

L’Italia, per prima tra gli Stati Membri, sta sperimentando una strategia nazionale di raf-forzamento della capacità amministrativa nel 2014-2020 attraverso i Piani di Rafforzamento Amministrativo (PRA) con cui si definiscono azioni finalizzate da una parte a dare concreta attuazione ai processi di riforma amministrativa e di modernizzazione della Pubblica Amministra-zione, dall’altra a migliorare complessivamente le prestazioni delle amministrazioni pubbliche rafforzando stabilmente le capacità delle am-ministrazioni nelle funzioni amministrative e tecniche cruciali per aumentare la qualità e l’ef-ficacia delle politiche di investimento pubblico.

Inoltre sono previsti, nell’ambito della pro-grammazione dei fondi FSE per il 2014-2020, mo-dalità di coinvolgimento e di gestione partecipata dei Programmi stessi. Un esempio è il Comitato di Sorveglianza, attraverso cui i rappresentanti delle autorità competenti sull’attuazione del program-ma, degli organismi intermedi, del partenariato

istituzionale e socio-economico (sindacati, associazioni di categoria, gruppi di interes-se organizzati) valutano l’implementazione del programma e i progressi compiuti nel conseguimento dei suoi obiettivi prefissati».

Iniziative come STA-GE rappresentano esempi di come si può avvicinare l’Unione Europea alle specifiche realtà territoriali. Cosa ne pensa di questa iniziativa che vede impegnate la Regione Umbria, AIDP e la rete Europea Europe Direct? E quali spunti può dare al Gruppo Giovani AIDP?«Iniziative di dibattito e confronto rappresentano sempre un mo-mento di crescita. La collabo-razione tra i diversi livelli isti-tuzionali e con il partenariato economico e sociale sono ele-menti chiave che la Commis-sione riconosce e ribadisce sia negli atti normativi che nel suo modus operandi, in cui i diversi attori del mondo economico e so-ciale trovano sempre il loro spazio.

Per quanto riguarda i giovani mi sentirei di dire che il punto cruciale è quello di farli sentire il più possibile partecipi, fornendo loro opportunità in cui poter esprimere le proprie potenzialità e allo stesso tempo sostenendoli nel loro percorso di crescita professionale». n

GET UP @STA-GEDurante la terza giornata di lavori dal palco di STA-GE Federica Bonaventura del Gruppo Giovani AIDP Umbria ha presentato a studenti, insegnanti e professionisti della formazione il Serious Game di Get Up per riconoscere e contrastare gli stereotipi di genere, disponibile su www.agenderstory.eu

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a fiducia dei Soci che si sono iscritti nel

2018, la convinzione di quelli che da tanti

anni si riconoscono in AIDP, la passione

e l’energia che esprimono tutti gli amici

che si impegnano perché i professionisti e

manager HR trovino in AIDP le risposte ai loro dubbi e la

disponibilità a condividere le esperienze e le conoscenze,

sono motivo di orgoglio davvero grande.

La certezza che far parte di AIDP serva a costruire

un’identità professionale generativa di valore per le persone e per il lavoro,

è il motivo che porta molti ad impegnarsi senza interessi, ma per l’esigenza

di far qualcosa di utile per il mondo del lavoro. L’orgoglio della credibilità e

dell’attenzione che viene riconosciuta a chi svolge una professione utile allo

sviluppo dell’occupazione e all’economia del paese è tanto.

So che crescere ogni anno è un obiettivo davvero molto sfidante: proprio

per questo ai nostri Soci non mancherà mai l’ascolto e l’attenzione, così come

un aggiornamento puntuale delle novità normative e su come valoriz-

zare le persone al lavoro con confronti anche tra aziende e con altre

nazioni, la proposta di nuovi servizi utili, congressi nazionali che

portino cultura ma anche visione e piacere di stare insieme e

tanto altro ancora.

Tutti i nostri Soci sanno bene che non è solo questo che

spinge a far parte di una famiglia professionale, ma

quel valore intangibile che fa sentire che si può con-

tare su chi comprende fino in fondo le difficoltà

di un “mestiere” difficile, ma che non nega mai

soddisfazioni impreviste.

Vi aspetto dunque tanti di più, con grande

realistico ottimismo.

E grazie a tutti gli amici che saranno testimoni

di tutto questo e ai colleghi che hanno fatto tanto

credendoci fino in fondo.

AIDP 2019

LIsabella Covili Faggioli Presidente Nazionale AIDP

RINNOVA LA TUA ASSOCIAZIONEAIDP il network dei manager e professionisti HRwww.aidp.it . [email protected] . +39 02 6709558

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AIDPnews

Parlare di responsabilità sociale è sempre molto impegnativo e occuparsene ancor di più. Già da qualche tempo se ne sente parlare molto frequentemente talvolta con finalità nobili a volte meno. Ma al di là delle mode oggi non si può fare impresa senza occuparsi di etica e di solidarietà nel senso più ampio e profondo del termine. Le organizzazioni scambiano con l’esterno informazioni, messaggi, merci, denaro, sogni, desideri, speranze e sull’esterno hanno im-patto, alimentando positività o negatività. Essere social-mente responsabili significa agire con una doppia valenza: supportare chi ne ha bisogno e fare role modelling agendo per il bene. Dare, donare, ascoltare, supportare sono azioni necessarie che ci fanno donne e uomini oltre che manager. Le aziende oggi possono conciliare, per esempio, egregiamente attività formative e solidarietà attraverso esperienze di social team building costruendo parchi giochi per bambini in una comunità per tossicodipendenti, di team working in una mensa dei poveri e attività di sviluppo dell’empatia vivendo in team in una corsia di un ospedale, ed è meraviglioso ed emozionante vivere queste esperienze come, per fortuna, è capitato a me. Ma la nostra AIDP? Di esperienze ricche e utili ce ne sono davvero tante in giro per l’Italia: donazioni, attività formative generose, orientamento a persone da supportare e molte altre. Il punto oggi è sistematizzarle e comunicarle come si fa con le best practices preziose e strategiche. Per questo nasce l’Area della Responsabilità Sociale che raccoglierà progetti, idee ed esperienze da raccontarci. Insomma belle e buone notizie dal mondo AIDP...

Matilde Marandola Referente Nazionale AIDP Area Responsa-bilità Sociale & Presidente AIDP Campania

NASCE L’AREA RESPONSABILITÀ SOCIALE

BUON LAVORO A DOMENICO MARTINO

BENVENUTA AIDP 4 YOUIL NUOVO PORTALE DI CONVENZIONI AIDP

Dal 28 settembre è alla Presidenza del Gruppo Basilicata dopo 3 anni di “onorato servizio” di Andrea Frascati. Domenico Martino è Direttore Stabilimento Melfi - SAPA Group S.p.A. Dirigente industriale operante nel settore Automotive, ha maturato oltre 24 anni di esperienza nella gestione del Personale e delle relazioni sindacali/industriali, governando aziende complesse e moderna-mente organizzate. Ricopre per procura il ruolo di Datore di Lavoro ed esercita il potere institorio. È componente del COmitato COnsultivo PROvinciale INAIL di Potenza. È iscritto nell’Elenco Nazionale degli Organismi di Valuta-zione della Performan-ce. In AIDP, Socio fon-datore – Presidente de l l ’Assemblea Costituente – del Gruppo Regionale Basilicata, ha ri-coperto la carica di Vice Presidente dal 2009 a settem-bre 2018.

Tra i nuovi servizi del 2019 anticipiamo la nascita del-la piattaforma AIDP 4 YOU che consentirà a tutti i Soci di accedere a un network di agevolazioni e sconti

per l’acquisto di prodotti e servizi delle migliori marche commer-

ciali e a proposte esclusive. Il nuovo servizio è frutto

della collaborazione con Corporate Benefits, che vanta un’esperienza di 15 anni come leader nel mercato delle con-venzioni aziendali. Il portale verrà fornito su una piattaforma

multicanale (web e mo-bile) accessibile dall’A-

rea Riservata Soci del sito www.aidp.it

Offerte vantaggiose a condizioni esclusive

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er condividere e promuove-re l’eccellenza HR si rinno-va l’ottava edizione di AIDP AWARD, quest’anno ancora più protagonista al Congres-so. Un’importante occasione

di confronto per apprezzare l’innovazione delle pratiche dei protagonisti del lavoro: Imprese, Pubblica Amministrazione e Or-ganizzazioni impegnate nel No Profit.

Una sfida aperta, a colpi di progetti, idee e sperimentazioni per raccontare il lavoro e conoscere la pluralità di proposte a cui le Aziende e le Direzioni del Personale stanno dando forma per una nuova Cul-tura del Lavoro.

CALL Con quali approcci le aziende stanno ge-stendo la trasformazione del lavoro e le sue implicazioni? Quali strade stanno sperimen-

PREMIAZIONE AL CONGRESSO #aidp2019 LE AZIENDE SI RACCONTANOLe esperienze ritenute meritevoli di maggior stimolo e ispirazione per la comunità HR saranno presentate e discusse, con una modalità coinvolgente, con i partecipanti del 48° Congresso Nazionale AIDP, in plenaria, in una sessione dedicata: Le aziende si raccontano.

CANDIDATURE Regolamento, commissione e form di partecipazione su award.aidp.it

TERMINE ADESIONI 30 MARZO 2019

INFORMAZIONI E CONTATTI Segreteria Nazionale AIDP - +39 02/6709558 - [email protected]

tando per creare ambienti sempre più inclusivi e coinvolgenti, per promuovere l’apprendimento e gestire nuovi e diversificati rapporti di lavoro? Quali sono le sfide organizzative più rilevanti per far dialogare innovazione, business e persone?

Il concorso è aperto a tutte le aziende, pubbliche e private, con interna funzione HR, che abbiano realizzato negli ultimi 12 mesi o stiano realizzando, un progetto di particolare valore per le ca-ratteristiche di innovazione, complessità, originalità, qualità, pragmatismo, impatto sulla struttura aziendale e sulle persone, replicabilità in altri ambienti e contesti. Il terreno di gioco è ampio e abbraccia tutti gli ambiti HR dall’engagement & retention (politiche di incentivazione, welfare, compensation, formazione) allo sviluppo, organizzazione & change management, alla responsabilità sociale d’impresa, al digital HR & innovation alle relazioni industriali.

Ciascuna azienda potrà presentare una sola candidatura. I progetti saranno esaminati da una Commissione di Valutazione, composta da professionisti e accademici di alto prestigio del mondo HR, presieduta dal prof. Gabriele Gabrielli Adjunct Professor di HRM & Organisation all’Università LUISS Guido Carli, Direttore del People Management Competence Centre & Lab della LUISS Business School e Presidente della Fondazione Lavoroperlapersona.

AIDP AWARD 2019UN PREMIO PER LE DIREZIONI DEL PERSONALE

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AIDP48°CongressoNazionale

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AIDP48°CongressoNazionale

Persona e lavoro costituiscono i fuochi attorno ai quali si stanno concentrando, oggi, le

maggiori aspettative e preoccupazioni. Il soggetto, al centro di una crisi antropologica

prima ancora che sociale, è il perno su cui poter immaginare un nuovo modello sociale,

civico e produttivo. La possibilità di un nuovo umanesimo capace di confrontarsi con le

forze e le opportunità del nostro tempo: le nuove tecnologie, le mutate forme di orga-

nizzazione e le nuove frontiere del lavoro.

#aidp2019

DIALOGHI E PROPOSTE PER UNA NUOVA CULTURA DEL LAVORO

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AIDP48°CongressoNazionale «Con il prossimo congresso abbiamo voluto proporvi un argomento e una sede che ci permettessero di leggere la bellezza del passato e declinare il nuovo che avanza in chiave non solo tecnologica ma anche orgogliosamente umana.

Vi aspettiamo ad Assisi, nella patria della pace e della serenità, per un confronto che parta dalla condivisione delle esperienze e dei punti di vista di chi è già andato oltre ed ha sperimentato un modo diverso e più proficuo per tutti di essere attori del cambiamento.

Vi proponiamo una chiave di lettura delle regole e della tecnica che non si ferma al domani, consci che, con un orizzonte temporale più ampio, l’umanesimo e la soggettività possano servirsi della tecnologia per far crescere imprese ed economia e far star meglio le persone che tutti i giorni i manager e professionisti HR devono saper valorizzare interpretando il “mestiere” con creatività e nuove intuizioni.

Isabella Covili Faggioli Presidente Nazionale AIDP

LUmbria è il posto più bello – penso che tutti lo sappiano – e Assisi, sebbene sia piccola, è come una gemma: perfetta e brillante. Una città che risplende di un amore intelligente e appassionato per le Persone, il Dialogo e la Cul-

tura. L’atmosfera in Umbria è un misto di attenzione e informalità, e la sua Gente è incredibilmente ricettiva e accogliente. Con questa premessa, da Assisi città del dialogo, AIDP si prefigge l’obiettivo di dare alle persone e alle organizzazioni, la possibilità di avere un nuovo sguardo, diverso e rinnovato; per un mondo del la-voro che sappia dialogare con le nuove tecnologie per cercare di carpire l’ultima o la prima Verità... da un fine o nuovo inizio del lavoro. Con un Congresso che vuole superare se stesso, che vuole fagocitarsi per rinascere nuovo; che stimola e sveglia a nuove idee, a nuovi Grandi Dialoghi per una nuova Cultura del lavoro in un avvenire, prossimo venturo, tra intelligenza artificiale, intelligenze umane e nuovo umanesimo. Lasciatevi incantare, Aidp Umbria vi invita a fermarvi e provare a ritrovare quel sentimento di stupore che ci fa rimanere a bocca aperta, a recuperare la potenza, la gioia e la sorpresa di “essere Umani”.

Adriana Velazquez Presidente AIDP Umbria

Due intense giornate, in cui porteremo i nostri Dialoghi sul Lavoroin una terra bellissima, carica di fascino e spiritualità

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7 GIUGNO H 14.00 Inizio lavoriH 14.20 Plenaria H 16.30 Coffee break H 17.00 Sviluppo delle tre parallele: workshop H 18.30 Fine lavoriH 20.30 Gala Dinner

Il rapporto persona e lavoro costituirà il minimo comun denominatore di tre di-versi interventi plenarili sugli ambiti Innovazione (digital transformation, chan-ge e HR), Persone (sviluppo della persona e gestione delle risorse: nuove forme e strumenti della funzione HR) e Regole (i rapporti di lavoro, le parti sociali, le novità e le criticità irrisolte). Le tesi esposte in plenaria dai keynote speaker ver-ranno riprese, analizzate e sviluppate in tre parallele.

Il programma

8 GIUGNO H 9.30 Sviluppo delle tre parallele: workshopH 12.30 Light lunchH 14.00 Plenaria Le aziende si raccontano. Workshop con i protagonisti di AIDP AWARD 2019 H 17.00 Chiusura congresso

Sede Congressuale Valle di Assisi Hotel Spa & Golf - vallediassisi.comVia San Bernardino da Siena, 116 Santa Maria degli Angeli (PG)

Iscriviti subito al Congresso per beneficiare delle quote agevolate. Assisi e dintorni offrono un ampio numero di strutture ricettive. Prenota subito per scegliere al meglio. Sul sito AIDP trovi una selezione di strutture convenzionate, i contatti dell’agenzia di prenotazione e suggerimenti e facilitazioni per raggiungere la sede congressuale!

www.congresso.aidp.itSegreteria Nazionale AIDP +39 02 6709558 /67071293 - [email protected]

SOCIO AIDP210 euro + iva

dal 1° marzo310 euro + iva

non SOCIO AIDP420 euro + iva

dal 1° marzo500 euro + iva

MULTIPLE AZIENDA ≥ 3 iscrizioniriservato a colleghi della direzione HR della stessa azienda di cui almeno un Socio:

Socio AIDP 210 euro + iva - non socio 350 euro + iva

SOCIO <35150 euro + iva

dal 1° marzo250 euro + iva

accompagnatore120 euro + iva

under 18 free

EARLY BIRD ENTRO IL 28 FEBBRAIO 2019

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Ciao Massimo,un abbraccio da tutti noi, gli amici di AIDP

Massimo GiulibertiGià Presidente AIDP Piemonte e Valle d’Aosta, 1958-2018

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MILANO . NAPOLI . ROMA . BERGAMO

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92 48° CONGRESSO NAZIONALE AIDP }{

TRIMESTRALE DI INFORMAZIONE E CULTURA DELL’ASSOCIAZIONE ITALIANA PER LA DIREZIONE DEL PERSONALE

NUMEROdicembre 2018187

dal 1980

PAURA E CORAGGIO

Sono tante le paure che possono minacciare le relazioni organizzative, i risultati e il benessere delle nostre aziende. Ma la paura ben gestita è la forza

che ci consente di osare e andare oltre i nostri limiti

LE AZIENDE 28. CENTRO MEDICO SANTAGOSTINO52. PRYSMIAN62. BONDUELLE