La Nazione 150 anni LA SPEZIA

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SUPPLEMENTO AL NUMERO ODIERNO A CURA DI www.lanazione.it La Spezia 150 ANNI di STORIA ATTRAVERSO LE PAGINE DEL NOSTRO QUOTIDIANO

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SUPPLEMENTO AL NUMERO ODIERNO A CURA DIwww.lanazione.it

La Spezia150 ANNI di STORIA

ATTRAVERSO LE PAGINEDEL NOSTRO QUOTIDIANO

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sommario4

Il Risorgimento vissutosotto il dominio austriaco

7 Ma quanto costa la Lombardia

8I dubbi di De Amicissu Roma capitale

10Il primo faro a luce elettricabrilla sull’isola del Tino

12 Scusi, ma che ore sono?

15La Spezia apre al pubblicoil Museo della Marina

19Gastone De Anna“Ecco come nacquerole nostre edizioni di provincia”

23Pegolotti, Goggioli e Liveraniecco le cronache dello sport

27 Alle origini del consenso

281953: una stanza in piazza Battisticon un tavolo e una Olivetti

31La Spezia in guerraraccontata da Arrigo Petacco

32Così abbiamo salvatola chiesa di Porto Venere

35Aggrediti due marinail’ammiraglio: “Reagiremo”

36Quella notte in cui un elicotterosalvò i 13 marinai della Margaret

39“Dalla B alla B” i molti successie le delusioni dello Spezia Calcio

41Paolo Ruisi ucciso in autohanno sparato con una 7.65

43L’omicidio di don Gandolfonella canonica di Vernazza

45Le intercettazioni del “Gico”scatenano Tangentopoli 2

46Le principesse del marefanno festa nel Golfo

Supplemento al numero odiernode LA NAZIONE a cura della SPE

Direttore responsabile:Giuseppe Mascambruno

Vicedirettori:Mauro Avellini Piero GherardeschiAntonio Lovascio (iniziative speciali)

Direzione redazione e amministrazione:Via Paolieri, 3, V.le Giovine Italia, 17 (FI)

Hanno collaborato:Enzo MillepiediGian Paolo BattiniMassimo BenedettiRino CapellazziFulvio MagiGiampiero Masieri

Manrico ParmaCorrado Ricci

Foto:Mauro Frascatore

Progetto grafico:Marco InnocentiLuca ParentiKidstudio Communications (FI)

Stampa:Grafica Editoriale Printing (BO)

Pubblicità:Società Pubblicità Editoriale spaDIREZIONE GENERALE:V.le Milanofiori Strada, 3Palazzo B10 - 20094 Assago (MI)

Succursale di Firenze: V.le Giovine Italia, 17 - tel. 055-2499203

LA SPEZIA 150 anni di storia attraverso le pagine del nostro quotidiano.Non perdere in edicola il terzo fascicolo regionale che ripercorre, attraverso le pagine de La Nazione, la storia fino ai nostri giorni e i 17 fascicoli locali con le cronache più significative delle città.

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IL RISORGIMENTO VISSUTO SOTTO IL DOMINIO AUSTRIACOCome la nostra città visse i lunghi anni di lotte per l’Italia UnitaNasceva intanto, a Firenze, un giornale sempre considerato amico: La Nazione

Napoleone fu il primo ad intuire le

potenzialità strate-giche de La Spezia e

del suo golfo.Ma fu solo

grazie a Cavour che nacquero il porto e l’Arsenale la cui

costruzione fu conclusa nel 1869.

per arrivare alla costruzione di una Nazione libera, La Spezia ne divenne subito una espressione militare di assoluto rilievo.

A La Spezia, dunque, il foglio dei risorgimentali toscani ebbe subito buona

accoglienza. Anche se dovremo aspettare la metà del secolo ven-tesimo, la ricostruzione seguita ai durissimi bombardamenti dell’ultimo conflitto, perché in modo organico e costante, il no-stro giornale potesse contare su corrispondenze dalla grande cit-tà e dal grande porto del Levante ligure. E infatti, cosa rappresentò il foglio fiorentino nella lunga

epopea risorgimentale? Nessun altro giornale può

vantarsi di essere nato con l’Italia e di averla accom-

pagnata giorno dopo giorno, fino ad oggi.

E infatti, se anche una testata, la Gazzetta di

Parma, sicuramente è più antica di quasi

100 anni rispetto al giornale fiorentino,

è anche vero che per lunghi periodi ebbe un

altro nome, in altri sospese le pubblicazioni, e in ogni caso non

svolse il ruolo fondamentale per l’Unità d’Italia che toccò al foglio di Bettino Ricasoli. Già, perché fu proprio lui, il “Savonarola del Risorgimento” come lo definiva Spadolini, a volere che il nostro giornale fosse in edicola, redatto e composto in una sola notte, alla notizia dell’armistizio di Villa-franca.

La storia è nota. L’11 luglio del 1859, nel pieno della seconda guerra di indipen-

denza, quando le truppe franco piemontesi avevano vinto batta-glie di rilevanza enorme, come quella di Solferino, e già si pensa-va come invadere e liberare il Ve-neto, all’improvviso francesi ed austriaci firmarono un armistizio

e il periodo risorgimentale fu vissuto dovendo piegare la testa sotto il giogo nemico. Proprio per questo, si sviluppò a Spezia un fortissimo sentimento repub-blicano, si diffuse ampiamente la carboneria, molti spezzini avrebbero poi sostenuto ed aiutato concretamente Garibal-di. E dunque, quando l’Italia fu finalmente unita, per precisa volontà di Cavour, La Spezia ot-tenne quello che Napoleone non era riuscito a realizzare. Ebbe il suo porto ed ebbe l’Arsenale che furono conclusi nel 1869. E dunque, come Firenze era stata la città che più di altre, da Villafranca, in poi aveva lottato

Un destino, benevolo e tragico allo stesso tempo, legato alla sua posizione

strategica e alla bellezza del suo golfo. Spezia deve grandissima parte della propria storia, fin dai giorni dell’antica Roma al suo trovarsi a cavallo fra due regioni che rappresentavano anche due culture e due realtà politiche diversissime: la Toscana e la Liguria.

Napoleone, l’11 maggio del 1808, l’aveva resa capoluogo di una vasta re-

gione, e aspirava a farne il porto principale del suo impero. Ma nel 1814 arrivarono gli austriaci,

ed i Savoia non ebbero la forza per opporsi. Lo fecero perché la Francia cominciava a temere un attacco da parte della Prussia che stava ammassando le sue truppe ai confini. E dunque, ecco che al Piemonte veniva concessa quasi per intero la Lombardia, ma il Veneto, il Trentino e la Dalmazia restavano agli austriaci, mentre in Toscana sarebbero tornati i Lorena, e in ogni caso si ipotiz-zava una federazione di stati del Centro Sud sotto la guida del Papa. Alla notizia, Cavour, dopo uno scontro durissimo con Vitto-rio Emanuele si dimise. E l’unico a sostenere la causa dell’Italia da unire, restò in quelle ore il capo del governo toscano costituitosi dopo la partenza del Granduca, Bettino Ricasoli appunto. La notizia dell’armistizio arrivò a Firenze nel pomeriggio del 13 luglio e i patrioti si riunirono in Palazzo Vecchio dove regnava la rabbia, il caos, la voglia di reagire ma anche un profondo senso di impotenza. E l’unico che dimo-strò di avere le idee chiare, ben al di là della logica, delle possibilità offerte dalla diplomazia, si rivelò Ricasoli che non poteva a nessun costo accettare quanto stava accadendo. Così, dimostrandosi in quelle ore il vero artefice del Risorgimento, ancor più dello stesso Cavour che in qualche modo aveva gettato la spugna, Ricasoli spedì due ambasciatori a Torino e a Parigi per tentare di modificare le cose. Ma nello stesso tempo mandò a chiamare tre patrioti fiorentini, il Puccio-ni, il Fenzi ed il Cempini, che a suo tempo avevano proposto di stampare un quotidiano in ap-poggio alle posizioni del governo toscano, e disse loro: “È arrivato il momento, per domattina voglio il giornale.” E dette anche il nome alla testata “La Nazione”, che era tutto un programma, anzi, era il programma. Puccioni, Fenzi e Cempini presero una carrozza e si fecero portare in via Faenza alla tipografia di Gaspero Bar-

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Il 14 luglio 1859 uscì il primo numero del quotidiano fiorentino, in un formato “tabloid” e privo di gerenza.Fu solo dal 19 luglio, primo numero ufficiale, che La Nazione si presentò ai lettori con tutte le indicazioni previste dalla legge.

bera, un patriota piemontese e quì cominciò un lavoro frenetico a redigere i testi ed a comporli. Alle cinque del mattino Ricasoli si presentò alla tipografia, lesse le bozze e dette il consenso. Alle dieci, tirate pare in tremila copie, due pagine in mezzo foglio, oggi diremmo formato tabloid, erano in vendita nel centro cittadino. Si trattava di un’edizione senza gerenza, senza il nome dello stampatore, senza il prezzo, senza pubblicità. Praticamente un numero zero.

E così si andò avanti fino al 19 luglio quando, finalmen-te, La Nazione uscì nel suo

primo numero ufficiale, con for-mato a tutto foglio, le indicazioni di legge, i prezzi per l’abbona-mento e per la pubblicità. Così, dunque, nacque il nostro gior-nale. Che conobbe i giorni fausti dell’Italia Unita, e poi quelli pieni di problemi, non solo economici, in cui Firenze fu provvisoriamen-te capitale. Quindi la questione romana, la breccia di Porta Pia, e insomma tutte le fasi che con alterne vicende portarono alla nascita dello Stato italiano. Ma fu proprio con Roma Capitale che La Nazione dovette modifi-care il proprio tipo di impegno. Che fare? Seguire il governo e il mondo politico fino a Roma, là dove si sarebbero svolte da allo-ra in poi tutte le vicende, e prese le decisioni relative all’Italia? La domanda fu posta ed era più che legittima. Nessun altro quotidia-no aveva il diritto di continuare le proprie pubblicazioni nella sede del regno e del governo italiano, più di quello che l’Italia aveva contribuito a farla nascere. Ma fu compiuta una scelta, che di certo non fu di tipo economico: restare. Restare a Firenze, accompagna-re la vita della città dove era

nata, e dedicare sempre di più le proprie attenzioni anche alla vita quotidiana, a quella che oggi diremmo la cronaca di ogni giorno. Insomma, da grande foglio risorgimentale carico di tensioni ideali, a giornale come oggi lo intendiamo. Con rubriche dedicate alla moda, allo sport, con grandi spazi dedicati alla vita musicale e teatrale. Con la disponibilità a condurre grandi battaglie nel nome e per conto di Firenze, che già allora viveva con naturalezza la sua doppia natura, ancor oggi visibile: quella di una dimensione provinciale aperta al mondo e città universale; e allo stesso tempo città dove pochi personaggi, e fra loro in costante conflitto, dominavano la scena.

Rese possibile questa scelta di obiettivi un grande direttore, Celestino Bian-

chi. Che seppe conquistare il pubblico femminile, interessare anche la media e piccola borghe-sia mercantile, ma soprattutto richiamare intorno al foglio di Ricasoli le migliori firme italiane del momento. Che, del resto, già erano presenti su La Nazione, fin dai primissimi anni. E allora ecco il D’Azelio e il Tommaseo, ecco il Manzoni e il Settembrini, e poi il Collodi, il De Amicis, Alessandro Dumas, Capuana, il Carducci e in seguito anche il Pascoli, ed infinti altri. Grandi firme che sarebbero continuate durante il fascismo e nell’Italia repubblicana fino ad oggi. Da Malaparte a Bilenchi, a Pratolini, ad Alberto Moravia, a Saviane, a Luzi. Dopo aver ospi-tato Papini, Prezzolini, Soffici, e gran parte dei letterati delle Giubbe Rosse nel periodo che precede e che segue la grande Guerra. Queste le scelte che permisero a La Nazione, pur dovendo affron-tare momenti di crisi e di difficol-

tà, di battere ogni volta le testate concorrenti. Se esisteva una difficoltà di vendita o addirittura di immagine, sempre riuscì a trovare gli uomini e le energie per risollevarsi. Liberale infatti, fu sempre il quotidiano fiorenti-no, ma di un liberalismo illu-minato che sapeva aprirsi ogni volta ai temi di interesse sociale, e per farlo non esitava ad ospi-tare anche firme lontane dalle proprie posizioni. Così, quando si trattò di presentare ai fioren-tini, e commentare, la nascita delle scuole serali, fu chiesto un articolo a un giovane e rivolu-zionario poeta, il Carducci. E fu tra i primi giornali, La Nazione di Firenze, a porre sul tappeto il dramma del lavoro minorile, e a pubblicare le relazioni di Sidney Sonnino sulla condizio-ne dei bambini, quelli del Nord Italia che a sette anni lavoravano anche 13 ore al giorno nell’indu-stria della seta e quelli di Sicilia, costretti a starsene chini, senza luce né acqua, nelle solfatare siciliane. Ancora di più colpisce, per il giornale del Risorgimento, la moderazione con la quale fu seguita la questione romana e fu data notizia della breccia di Porta Pia.

E dunque, è in omaggio ad una visione laica delle differenze fra Stato e

Chiesa, una visione totalmente deducibile dai vangeli che si combatté quella battaglia, che non significava affatto compia-cersi di un assoluto anticlericali-smo ideologico, o ancor di più di una qualsiasi forma di ateismo conclamato. E ancora, quando si trattò di decidere se trasferirsi a Roma capitale, seguendo le sorti del governo e del Re, la spiegazione data ai lettori fu questa. “Noi non vogliamo che Roma attiri a sé tutta la forza

intellettuale. Noi vogliamo che Napoli, Firenze, Bologna, Vene-zia, Milano, Torino, serbino la loro influenza legittima, portino il peso nella bilancia delle sorti politiche nazionali. Ogni regione ha elementi originali da custodi-re e nello stesso tempo è senti-nella dell’Unità inattaccabile.” Una prosa intelligente, moder-nissima, attuale ancor oggi, 140 anni dopo.

Un atteggiamento che La Nazione conservò anche in epoche ben diverse. Così,

durante il fascismo, pur costretta come tutte le testate a pubblicare le veline del minculpop, non per questo La Nazione si allineò mai totalmente al regime. Tanto da opporsi, allorché il Regime vole-va imporre come direttori uomi-ni di assoluta fede a Mussolini. E ospitare firme, come quella di Montale, il personaggio che per il suo antifascismo era pur stato “licenziato” dal Vieusseux. Uno stile, un modo di essere, che la premierà quando, pur con mille problemi tornerà alle pubblica-zioni nel 1947. E ancora, quando nel ’68 la realtà italiana dette segni di grande malessere e tutto il nostro modo di essere società fu posto in forse, La Nazione non esitò ad assumere giovani della più varia estrazione politica ed ideologica, anche con provenien-ze ben diverse da quelle liberali, perché contribuissero ad aiu-tare la direzione a interpretare quanto stava accadendo. Erano i giorni del direttore Mattei ed an-cor più del condirettore Marcello Taddei. La Nazione si poneva una volta di più il problema di come adeguarsi ai tempi. E se ciò le costò dei rischi, e dure minacce per alcuni dei suoi cronisti - quelli più esposti nei giorni del terrorismo - ciò non modificò la sua linea.

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Ecco il primo supplemento pubblicato a corredo de La Nazione. Fu diffuso il 22

ottobre 1859, ed andò a ruba fra i lettori. Si tratta di un dispaccio dell’Agenzia Stefani composto a tutta pagina arrivato da Parigi la sera del 21 ottobre, e contiene il trattato di pace tra Francia ed Austria. È dunque la conseguen-za dell’armistizio di Villafranca, del quale riprende in gran parte le decisioni, e segna la fine della seconda guerra di Indipenden-za.

Colpisce, leggendolo, l’aspetto economico che solitamente viene trascu-

rato nei libri di storia. Eppure, a guardar bene è forse la parte più rilevante della pace. Al Piemon-te infatti, per avere la Lombar-dia, in qualche modo conqui-stata sul campo di battaglia, occorre versare una cifra consi-derevole oltre a farsi carico dei tre quinti dei debiti della banca del Lombardo Veneto. Ora, se si pensa che il Veneto restava all’Austria, appare chiaro che la

Il 22 ottobre del 1859 i lettori de

La Nazione per la prima volta rice-

vono in omaggio un supplemento di particolare valore

storico.

Il primo supplemento de La Nazione

Ma quanto costa la LombardiaGli aspetti economici della pace che seguì a Villafranca

gran parte dei debiti dell’Istituto finanzia-rio finisce proprio a carico dei Savoia. E allora, il sangue versato a Solferino dalle armate vittoriose dei patrioti? L’altro aspetto riguar-da il timore che l’Italia Unita voglia in qualche modo rifarsi delle spese a scapito degli “stabilimen-ti religiosi” e in genere della Chiesa.

Cosa che poi avvenne in qualche modo, ma che austriaci e france-

si volevano evitare ad ogni costo. Così dettano una serie di regole per evitare che in Lombardia, il nuovo governo vada a far cassa confiscando le confraternite religiose. Al-tro aspetto, in qualche modo collegato, il ruolo che dovrà avere il Papa in una possibile confederazione di stati italiani.

IL TRATTATO DI PACE Parigi 21 ottobre sera – I fogli francesi ed inglesi riprodu-cono un dispaccio da Zurigo contenente i particolari del trattato Franco – Austriaco.L’Austria conserverà Peschiera e Mantova. Il Piemonte pagherà le pensioni accordate precedentemente dal Governo Lombardo.Pagherà all’Austria 40 milioni di fiorini, assumerà tre quinti del debito del Monte Lombardo Veneto: totale del debito assunto dalla Sardegna 250 milioni di franchi. Desiderando la tranquillità della Chiesa e volendo assicurare il potere del Papa, convinte che questo oggetto potrà essere compiutamente ottenuto soltan-to da un sistema che risponda ai bisogni delle popolazioni ed alle riforme di cui il Papa già conobbe la necessità, le due parti contraenti riuniranno i loro sforzi per ottenere che il Papa faccia delle riforme nell’amministrazione dei suoi stati. I limiti dei ter-ritori degli stati indipendenti italiani che non parteciparono alla guerra non potranno essere mutati che dietro il consenso delle

potenze che concorsero a formarli, garantendo la loro esistenza: i diritti dei sovrani di Toscana, Parma e Modena sono espressa-mente riservati alle potenze contraenti.I due imperatori daranno tutto il loro appoggio alla formazione di una Confederazione degli Stati Italiani, collo scopo di conser-vare all’Italia l’indipendenza e l’integrità, assicurare il benessere morale e materiale del Paese, vegliare alla sua difesa col mezzo di un esercito federale. La Venezia resta sotto lo scettro dell’Im-peratore d’Austria, farà parte della Confederazione, parteciperà ai diritti ed agli obblighi del trattato federale, quale sarà stabili-to fra gli stati italiani. Un articolo apposito regola l’amnistia. Le ratifiche saranno scambiate entro 15 giorni. L’Austria restituirà i depositi in valore affidati alla Casse pubbliche ai privati. Gli stabilimenti religiosi di Lombardia potranno disporre libera-mente dei loro beni di qualsiasi natura, se il possesso di questi beni fosse incompatibile colle leggi del nuovo governo.

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Così Edmondo De Amicis un mese circa dopo la Breccia di Porta Pia da lui stesso descrit-ta, raccontava di Roma, ormai pronta al suo ruolo di capitale del Regno d’Italia.

Comincio con una dichiara-zione: chi viene in questi giorni per la prima volta

a Roma, con le idee cercate solo nello studio della storia o acquistate nella lettura di molti giornali, è costretto a guardarsi dattorno meravigliato e con-fuso, e quasi a dubitare che un disguido ferroviario lo abbia condotto in una città qualunque che Roma non sia. È vero che quando si entra in San Pietro, l’impressione che se ne pro-va è di tale sgomento, di tale umiliazione, che si riconosce subito che solo Roma è capace di un miracolo simile: ma non di meno, io non vidi mai città che nelle mille ed una descrizione fosse più adulta, e più calunnia-ta ad un tempo quali inaspettate e nuove meraviglie!... e quanti strani ed inattesi disinganni! La mente giovanile si forma ad esempio un immenso concetto del Campidoglio: io l’ho salito il Campidoglio: per rispetto alle grandi memorie storiche che racchiude taccio le impressio-ni… ed anco le sensazioni che

da La Nazione del 24 ottobre 1870

I dubbi di De Amicissu Roma capitaleUn articolo pieno di perplessità alla vigilia della partenzada Firenze del governo e del Re

ne provai. Fu una delusione… e grande. Il cervello di molti uomini politici sognava e forse sogna tuttavia che a Roma si pensi e molto al Papa, al suo potere, alla sua influenza: in verità stando qui non solo si crede che il Papa sia partito, ma vi è da dubitare che la presenza del pontefice in Vaticano sia una leggenda antica, accettata, tanto per fare, dalla generazione presente. Che cosa fa Pio IX?

Nessuno se ne occupa: le notizie che lo riguardano si ricevono da Firenze,

ma quasi non si raccolgono. Ecco una prima meraviglia e non lieve. La vita politica della città si traduce in una sola parola: entusiasmo: cieco, veramente febbrile. Il solo aspetto continuo permanente di Roma è la dimostrazione. È una malattia: nel giorno mostra una fase cronica: nella sera tocca ai teatri il periodo flogistico. Ecco Roma. Ma debbo aggiungere che qua si sente molto, e si pensa poco. L’onorevole Sella che venne qua – come sapete – partì promettendo solennemente che il Re sarebbe venuto a Roma al più tardi fra 15 giorni, e che il trasferimento della capitale si sarebbe compiuto al presto. I ro-mani si compiacquero di ambe-

due gli annun-zi, specialmente (è giustizia il dirlo) del primo: ma non si occuparo-no né si occupano molto delle necessità che ambedue impongono. E queste necessi-tà sono molte e non è agevole provvedervi… Purtroppo, venendo qui, ci si accorge come il Governo sia assolutamente fuori di strada, non solo nelle idee, ma nei modi di attuarle per ciò che si riferi-sce al trasporto della capitale. Giudicando tale questione da Firenze, non si parlava che di difficoltà materiale, del bisogno di locali, di necessità di ingran-dimenti: tutte osservazioni di cui non si nega la giustizia, né la opportunità.

Vero è che diversi ministri trovarono un sistema nuovo, per risolvere

questa prima parte del pro-blema: ogni consigliere della corona, meno uno o due, mandò qui i suoi ingegneri per stu-diare quale località si sarebbe prestata al collocamento del proprio dicastero: ma ogni ministro agì indipendente-mente dai propri colleghi… Ma sono le difficoltà morali (per così dire) quelle di cui non si

preoccupano a Firenze né a Roma: e sono le più dure, le più lunghe, le più aspre per chi esamina la questione con occhio freddo ed imparziale… Occorre che dopo l’annessione di Roma, facile a stabilirsi con un decre-to, anco attivo, si determini la fusione dei romani negl’italia-ni. Qui non c’è il pensiero o il sentimento che all’uopo basti una imponente manifestazione all’Argentina. Occorre che dopo l’estensione delle leggi italiane, facile ad ordinarsi con un altro decreto, si applichino non solo materialmente colla percezio-ne delle imposte, ma con lo spirito nuovo che animi tutte le istituzioni, tutte le consuetudi-ni, ed accumuni la vita romana alla vita italiana. Questo è il più arduo problema che s’impone: il problema che non può risolversi dagl’ingegneri, ma che richiede perfetta conoscenza di Roma in chi sta a Firenze, conoscenza che, o io m’inganno a partito, o non si ha costì che sbagliata, o esagerata o imperfetta.

Nella foto grande: la vera immagine

dell’ingresso dei bersaglieri da Porta

Pia. La foto diffusa ufficialmente

riprodurrà in un fotomontaggio la

stessa scena con un numero ben mag-

giore di soldati.

Nel tondo: Edmondo De Amicis. L’autore di “Cuore” si accorse che i romani a tutto pensavano fuorché a riorganizzare la loro città. La ricerca dei palazzi per i Ministeri a quindici giorni dal trasferi-mento del governo da Firenze.

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Sono gli anni delle grandi sco-perte e dell’immensa fiducia nel progresso. L’uomo per la prima volta ha forato le Alpi, vola in pallone, il canale di Suez divide due continenti, non meravigli se anche i tra-sporti via mare sono sempre più affascinanti col varo di transatlantici e grandi navi da guerra. Ma come rendere sicu-ri i naviganti? Una delle prime decisioni è quella di rendere più potenti i fari utilizzando la luce elettrica. E La Spezia è la prima in Italia ad utilizzare le nuove tecniche.

I trionfi della elettricità con-tinuano a stupire il mondo. Ed un redattore di Rassegne

scientifiche ha principalmente per compito di registrare le applicazioni incessanti di questa agente meravigliosa. Incomincio da una nuova invenzione del celebre americano Edison, l’in-ventore del fonografo. Secondo i giornali degli stati uniti quell’in-faticabile fisico avrebbe trovato

il modo di trasmettere elet-tricamente i suoni attraverso l’acqua. Coll’apparecchio Edison i capitani di navi potranno te-nere corrispondenza fra di loro anche alla distanza di parecchie miglia, usufruendo l’acqua mari-na come conduttore del suono. Per chi non lo sapesse dirò che l’acqua trasmette i suoni ancora meglio dell’aria, tant’è vero che i palombari possono benissimo udire le voci dei marinari posti sopra qualche nave assai lonta-na dal punto ove quegli esplora-tori del mare trovansi sommersi

Nella cabina del capitano sarà collocato l’appa-recchio, consistente in

un fischio a vapore, il cui sono è trasmesso all’acqua mari-na mediante un conduttore elettrico, che comunica con un cornetto acustico, collocato poco al di sotto della linea d’ac-qua. Ogni nave deve possedere tanto il fischio a vapore quanto il cornetto acustico. Il suono emesso dal fischio procede così attraverso all’acqua con una velocità di circa 1430 metri al

secondo, giunta l’onda sonora al cornetto acustico della nave, cui è destinato il messaggio mediante un conduttore elet-trico, si pone in movimento una soneria che chiama il capitano o un impiegato. È facile capire che un alfabeto si possa formare col ripetere dei fischi a determinati intervalli, col prolungarli più o meno, in guisa da riprodurre in certa maniera coi suoni i punti e le linee del telegrafo Morse. E che dire ora dell’invenzione dell’ingegnere francese signor Carpentier, il quale è giunto, a

E Genova reclama per il suo porto una luce altrettanto potente Anche da Volterra, a 120 chilometri di distanza, vedono il chiaroreLe altre numerose scoperte di questi mesi

da La Nazione del 26 agosto 1887

Il primo faro a luce elettricabrilla sull’isola del Tino

quanto affermasi, a raccogliere elettricamente ed automatica-mente le tracce di tutti i movi-menti fatti eseguire ai tasti di un pianoforte, durante l’esecuzione di un pezzo di musica, e quin-di a tenere registro delle note componenti il pezzo stesso? I segni che l’apparecchio, detto il melotropo, ha raccolti, vengono stampati sopra una striscia.

Quel che è più bello ancora, il melotropo può ripro-durre la melodia: basta

porre la striscia di carta , o na-stro melografico, recante i segni impressi, basta porla, dico, sulla tastiera di un piano, far muovere la tastiera stessa con l’aiuto di un manubrio o altrimenti, ed ecco riprodursi il pezzo di musi-ca, tale quale era stato eseguito. Si dice che questa invenzione del melotropo formerà una delle più spiccate curiosità del con-corso internazionale di scienze ed industrie, quale avrà luogo a Bruxelles nel 1888. Questo con-corso dovrà mostrare i progressi compiuti nel mondo e negli ul-timi anni in fato di invenzioni e scoperte. Sarà quindi oltremodo interessante.

Così oggi si presenta il faro del Tino.Nel 1887 qui fu

installato, per la prima volta in

Italia, un impianto elettrico. La luce

era così visibile a 120 chilometri di

distanza.

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L’applicazione della elettricità alla illumina-zione dei fari non è cosa

recentissima, pure non posso fare a meno di dire due parole del faro elettrico di La Spezia, il quale ci interessa in sommo grado, perché è cosa nostra, e perché è uno dei più mera-vigliosi del mondo in quanto alla potenza della luce. Basti dire che per ottenere lo stesso effetto illuminante sarebbero necessari oltre cinque milioni di candele steariche.

Esso è un faro girevole, e manda ogni mezzo minuto tre lampi, fulgori

vivissimi, che si proiettano a grandissime distanze, tanto che giungono perfino ad illuminare la mostra dell’orologio pub-blico di Volterra; ora, Volterra è situata a 120 chilometri da La Spezia, e trovasi ad una elevazione di circa 600 metri al di sopra del livello del mare. Il faro della Spezia sorge nella piccola isola del Tino, che trovasi all’imboccatura del ce-lebre golfo. La luce è fornita da macchine dinamo – elettriche, animate da motori ad aria ri-scaldata. L’apparato ottico reca

i perfezionamenti più recenti, ed ha lenti a gradinata di grande perfezione. L’impianto del faro si deve al commendator Paro-di, ora defunto, ed al cavalier Luiggi. Le dinamo, i motori e l’apparato ottico uscirono dalla fabbrica Chance e C. di Birming-ham. Il dottor J. Hopkinson, dell’Istituto ingegneri civili di Londra dette i disegni.

A questi pochi cenni sul faro di La Spezia ag-giungerò che fra breve

anche Genova possiederà un faro elettrico da non sfigurare in confronto di quello testé succin-tamente descritto.

Parlando della luce elettrica giova qui far sapere che essa ha un’azione dan-

nosissima sulla vegetazione. Secondo un giornale berlinese, l’illuminazione del Palazzo d’in-verno a Pietroburgo ha cagiona-to la distruzione di molte piante ornamentali ivi conservate. Tra le altre, la ben nota collezione di palme, che formava una delle rarità di quel palazzo, ne è stata gravemente danneggiata. Avviso dunque chi volesse tenere pian-te di lusso in locali illuminati

Nella foto: alla fine dell’Ottocento cominciarono i primi esperimenti per l’applicazione della luce elettrica alla fotografia.

Nel tondo: gli operai della Edison Company sfilano per le vie di New York, con il casco luminoso, in occasione delle elezioni presidenziali del 1884.

dalla luce elettrica… passo a dire qualche parola sulla neve rossa che molti fra i lettori de La Nazione forse non conoscono nean-che di nome. Eppure sulle vette delle alte montagne è assai frequente questo fenomeno, che dové sembrare un miracolo a chi l’osservò per la prima volta. Non è molto che il professor Brugger rinvenne la neve rossa, ossia vide le macchie di questo colore sulle cime elevate del cantone dei Grigioni (Svizzera) e ne fece uno studio speciale. Egli consta-tò che il colore rosso della neve era dovuto, come già si sapeva, alla presenza di una pianticella semplicissima. L’Alga rossa in parola, della quale il celebre viaggiatore Nordenskjold nel settentrione d’Europa rinvenne la bellezza di 37 specie, esa-minata al microscopio, consta di una sola ed unica cellula, di forma rotonda, contenente al suo interno un granellino rosso granato. Singolare davvero questo vegetale che privilegia la neve per nascere o svilupparsi.

Il 1° del mese di agosto fu veduto ad Ahlbech in Pome-rania, un bellissimo esempio

di fata morgana, fenomeno dell’indole del miraggio, e così frequente a Reggio Calabria. Tutto ad un tratto, dopo le 8 di sera di quel giorno, si videro innalzarsi dal mare delle nubi, sulle quali era rappresentata in modo abbastanza distinto l’isola di Rugen, con le abitazioni, gli alberi eccetera, il tutto formante un quadro dilettevole all’occhio.

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I viaggi navali intorno al globo stanno creando il caos Un’ora identica in tutto il mondo o 24 ore, una per ogni meridiano? La disputa tra Greenwich e Gerusalemme

da La Nazione del 28 luglio 1890

Scusi, ma che ore sono?

Da quasi tre secoli è finalmente

dimostrato che la Terra gira intorno al Sole, e quindi le

ore sono diverse, pur nello stesso istante, nelle varie parti del

globo.

Nel gennaio 1890 Nelly Bly, una giornalista americana, riuscì a concludere un avven-turoso giro intorno al mondo in 72 giorni e 6 ore, battendo così il record ipotizzato da Verne nel famoso “Il giro del mondo in Ottanta giorni”. L’impresa ebbe grande eco, se ne parlò soprattutto nelle località di mare, a La Spezia furono organizzati dibattiti sul tema, ma ancor più sulle sue conseguenze. E infatti, il grande problema per chi an-dava per mare, ancora in quei giorni, era fondamentalmente questo: “Ma che ore sono?” Domanda non da poco, che poteva mettere in difficoltà la stessa sicurezza dei navigan-

ti, visto che le comunica-zioni di eventuali pericoli, le richieste di soccorso, la stessa identificazione della

latitudine dipendevano dal conoscere un’ora esatta.

Due le tesi che si erano con-trapposte per anni. Quella

di chi sosteneva che nel mondo doveva esserci

una stessa ora, uni-versale, sempre e dovunque, così che il mezzogiorno di alcuni sarebbe stata la mezza-notte per altri. E quella, più com-plessa ma più ra-zionale, proposta

una prima volta dal canadese Sanford

Fleming nel 1878, che divideva la terra in 24

meridiani, a distanza pa-rallele fra di loro, ad indicare altrettanti passaggi del sole ad intervalli di un’ora. Nel 1888, in un congresso apposi-tamente tenuto a Washington, fu deciso di adottare questo sistema per la navigazione

internazionale. Ma da dove cominciare il conteggio? Gli inglesi e gli americani scelse-ro il meridiano di Greenwich. Ma molti si ribellarono e proposero Gerusalemme o comunque un luogo che avesse una rilevanza storica supe-riore a quella del meridiano londinese. La polemica andò avanti per decenni, tanto che la Francia dette ordine alle sue navi di regolarsi secondo Greenwich solo nel 1917, e la Russia lo fece due anni dopo.

I viaggi intorno al globo sono ora all’ordine del giorno: fer-ve una gara ardentissima fra i

viaggiatori per compiere il gran giro nel minor tempo possibile. Che direbbero, se risorgessero dal sepolcro, Magellano, Drake, Cavendish, Noort ed altri nel venire a conoscenza che il giro del globo non esige più che poche settimane?... due valorose e intrepide figlie della libera America, ambedue giornaliste, la prima redattrice e collabo-ratrice del giornale World di Nuova York l’altra appartenente alla redazione del Cosmopoli-tan Magazine della stesa città: miss Nelly Bly e Miss Elisabetta Bisland.

Le viaggiatrici partiro-no lo stesso giorno, 14 novembre 1889 da Nuova

York, proponendosi la prima di compiere il giro del globo in 75 giorni dirigendosi verso l’est, la seconda in 72 giorni, diri-gendosi in senso contrario cioè verso l’Ovest. Miss Bly arrivava a Southampton il 22 novembre; il 24 successivo era a Brindisi dove prendeva il piroscafo delle Indie. Arrivava ad Aden il dì 8 dicembre, a Singapour il 18 a Yokohjama il 5 gennaio del 1890. Di là varcava il Pacifico,

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Nel tondo: Galileo Galilei. Fu lo scienziato pisano che per la prima volta si pose il problema di come calcolare la longitudine.

Nella foto: la rap-presentazione della Terra in una stampa di questi anni. Sono

già riportati sulla carta i meridiani.

giungeva a San Francisco verso il 20 gennaio e attraversando l’America rientrava trionfalmen-te a Nuova York il 25 gennaio, avendo compiuto il giro del globo in 72 giorni e 6 ore.

Miss Bisland seguì lo stesso itinerario della sua competitrice, ma

in senso inverso. Il 18 gennaio trovatasi a Parigi ed intendeva d’imbarcarsi lo stesso giorno a Le Havre per Nuova York; ma il postale era partito e dovette recarsi a Queenstown in Irlan-da. Di là prese un passaggio il 19 gennaio sopra un piroscafo che giunse a Nuova York il 29 successivo, cioè quattro giorno dopo l’arrivo di miss Bly.: il suo viaggio era durato 76 giorni... L’unificazione dell’ora è un problema al quale si va cercan-do una soluzione pratica. Ogni paese può facilmente compiere questa unificazione entro le sue frontiere, sostituendo, come ognuno sa, all’ora del tempo medio locale l’ora del tempo medio normale: stabilendo che l’ora delle ferrovie e dei tele-grafi sia al tempo stesso quella della vita civile tutta intera. Ma se l’unificazione oraria interna è facile, quella esterna o inter-

nazionale è all’opposto molto difficile.

Per raggiungere l’intento si propongono tre mezzi: l’ora locale assoluta; l’ora

universale; i così detti fusi orari.Se avessi spazio per esaminare qui i primi due mezzi, dimo-strerei facilmente che ambedue offrono tali e tanti inconvenienti da doversi addirittura rigettare, mentre il terzo mezzo sembra il solo attuabile. Ne dirò due parole.

Il sistema delle zone o dei fusi orari è detto ancora ameri-cano, perché gli americani

lo hanno per primi applicato nel loro vasto territorio. La Terra, secondo questo sistema, dovrebbe essere divisa in 24 strisce o zone, o fusi, avente ciascuno la sua ora normale, che differisce di un’ora precisa dall’ora normale del fuso prece-dente. Gli americani hanno scelto per meridiano iniziale quello di Greenwich, di guida che le ore normali degli altri ventitré fusi si trovano ad essere le ore locali dei 15°, 30°, 45°, 60° grado di longitudine ovest ed est parten-do da Greenwich.

Nel continente europeo avre-mo tre fusi, cioè quello A, quello B e quello C sempre par-tendo da Greenwich. Il fuso A comprenderebbe le Isole Britanniche, i Paesi Bassi, la Francia, la Spagna, il Porto-gallo. Il fuso B la Scandinavia, la Germania, la Svizzera, l’Italia, l’Austria–Ungheria, la Serbia. Il fuso C la Polonia e la Russia fino a Mosca, la Romania, la Bulgaria, la Turchia europea, la Grecia. Di questi 24 fusi, 5 cadrebbero nell’Oceano Pacifico, 2 nell’At-lantico, e dei 17 rimanenti 9 hanno già in pieno vigore le nove ore normali. In due anni, cioè dal 1888, epoca della conferenza di Washington, il sistema dei fusiorari ha acqui-stato molto favore ed è gene-ralmente preferito. Infatti esso facilita singolarmente la unifica-zione oraria sul globo intero,ma semplicizza la coordinazione delle date; il salto di un’ora che esso impone al contato dei fusi sarà facilmente accettato ed en-trerà nelle abitudini dei popoli, tanto più poi se si farà coincide-re con le frontiere politiche.

Ma si vorrà accettare da tutti per meridiano iniziale quello di Gre-

enwich? That is the problem! Ecco perché sarebbe altamente desiderabile che si riunisse al più presto una grande confe-renza internazionale per fissare questo famoso meridiano, la cui ora diverrebbe per conven-zione l’ora internazionale. La Conferenza di Washington già citata, alla quasi unanimità (22 stati sopra 25) scartò il meri-diano iniziale oceanico; si tratta quindi di stabilirne uno conti-nentale. L’Accademia delle scienze di Bologna ha preso molto a cuore questa questione: essa caldeg-gia, assieme al Governo italiano, la convocazione della soprac-cennata Conferenza e l’adozio-ne del meridiano continentale di Gerusalemme.

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Venezia ha già da tempo il Museo della Storia della Ma-rina, quando La Spezia apre il “Museo tecnico navale” . Siamo nei primissimi anni del regime fascista, e si cerca di valoriz-zare quanto può dar lustro all’Italia e alla sua storia, dal Risorgimento in poi. I gior-nali dell’epoca non perdono l’occasione per dedicare ampi resoconti all’iniziativa. Qui riportiamo ampi stralci dall’ar-ticolo apparso sul mensile “La Lettura”.

Da pochi mesi è stato solennemente inaugurato a Spezia… il Museo della

R. Marina che è stato chiamato Museo tecnico navale per distin-guerlo dal Museo storico esisten-te a Venezia già da molto tempo e testé ampliato e riordinato.

Ma il Museo di Spezia che ha la sua sede in parec-chie sale di uno tra i nu-

merosi fabbricati del grandioso Arsenale è interessante non solo per le collezioni di armi di ogni

genere e di ogni epoca, strumenti nautici, modelli di navi e di baci-ni, ma anche per una raccolta di innumerevoli libri e giornali di bordo del periodo delle guerre del Risorgimento che contengo-no dati, notizie e autografi rari di eccezionale importanza per gli storici, gli eruditi ed i curiosi. E forse più che per i congegni di guerra, per questa raccolta di carte e volumi, il Museo della Marina merita di esser visitato e conosciuto non solo nel breve ambito della città marinara che lo accoglie, ma in tutta l’Italia, potendo fornire vasto e ricco materiale, sino ad ora sconosciu-to, agli studiosi di uno dei più interessanti periodi della nostra storia ed epopea nazionale…

Guidati dal direttore del museo, il Comandante Grana, valorosa figura

d’ufficiale che è innamorato della sua missione, coadiuvato nel suo compito da fedeli collaboratori, sottufficiali, marinai ed operai che hanno saputo eseguire con cura ed abilità infinita tutti i lavori di attrezzatura e rifinitu-

ra dei modelli dei bastimenti a vela e delle navi da guerra, percorriamo le varie sale che si arricchiranno ancora di nuovo materiale sempre più interes-sante e variato.

Nel grande salone, lungo ben settanta metri, dove si tengono le riunioni e

le conferenze di storia e cultu-ra agli ufficiali di Spezia, sono raccolti parecchi cofani delle bandiere di combattimento di vecchie navi ora scomparse dai ruoli del naviglio della nostra Marina. E leggiamo i nomi scolpiti che ci fanno rievocare pagine di storia e di gloria: ecco i cofani della Palestro e del Re d’Italia, le navi di Cappelletti e di Faà di Bruno, il cofano dell’Are-tusa e dell’Etruria; cofani che sono un capolavoro d’intarsio in legni pregevoli e in bronzo, di ogni formato, da quelli grandiosi delle corazzate a quelli piccoli e cesellati come scrigni prezio-si delle unità minori a quelli semplici, buste di cuoio o tubi con il solo nome della nave e lo stemma, che ricordano nella loro

semplicità l’anima del marinaio rude e modesto d’una modestia spesso esagerata che ha valso alla nostra marina, durante la guerra, il meritato appellativo de «la grande silenziosa».

Dalle piccole colubrine d’un tempo ai modelli dei primi mortai ad avancarica che

costituivano la principale difesa delle piazzeforti di Spezia e de La Maddalena, dai primi tipi di siluri alle spolette ed alle torpe-dini di massima precisione ed ai modelli dei cannoni moder-ni da 431 e 450 e degli obici i cui enormi proiettili sezionati mostrano le cariche autenti-che che impressionano per la loro terribile potenza. Alcune mitragliatrici cinesi dalle canne istoriate e cesellate, prese dai no-stri marinai nella guerra contro i boxers, armi turche e ricordi della guerra di Libia, proiettili di ogni genere e dimensione, mine e bombe contro i sommergibili ad alta potenza, strumenti nauti-ci e di precisione, bussole di ogni tipo dalle più antiche alle più precise e perfezionate…

Nella foto: un mortaio Carron del 1825 proveniente da Castellammare di Stabia esposto nel Museo.

Armi, modelli di navi, libri e diari di bordo all’interno dell’ArsenaleUna meta indispensabile per gli storici e i ricercatori

È il 1° settembre del 1925

La Spezia apre al pubblicoil Museo della Marina

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Il decreto col quale nel luglio del 1857 Vittorio Emanuele II decide di trasferire nel Golfo di La Spezia la flotta del Regno di Sardegna.

Nella foto sopra: una delle tante

meravigliose polene esposte nel Museo

Navale.Questa polena con il diadema, prove-

niente da Castellam-mare, rappresenta

un omaggio alla bellezza muliebre

napoletana.

In una saletta è l’apparecchio originale che servì all’inge-gner Rossetti per compiere

tutte le lunghe esperienze e gli allenamenti prima di tentare, insieme a Paolucci, l’ardua e magnifica impresa di Pola. Un minuscolo battellino a forma di siluro, lungo appena tre metri; si direbbe un innocuo sandolino od una canoa da diporto e invece fu il mezzo col quale i due intrepidi marinai seppero violare la più potente base navale e affondare la più grande e moderna coraz-zata nemica… La sala più vasta del museo, lunga circa settanta metri, è de-dicata all’architettura navale con una raccolta interessante e varia di modelli di navi e bastimenti della marina da guerra d’una volta, di scali di costruzione, bacini di carenaggio riprodotti in ogni più minimo particolare, argani, draghe, torri corazzate, fiancate e parti di navi di ogni tipo ed epoca. Nel fondo del sa-lone è una grande barca a venti remi sulla cui prora spicca l’aqui-la Sabauda, coperta da un ricco baldacchino guarnito in velluto; è l’antica autentica lancia reale adibita, sino ad alcuni anni fa, prima degli odierni motoscafi,

a trasportare i Sovrani a bordo delle navi da guerra. Alle pareti sirene intagliate e dorate, draghi marini, stelle e nodi di Savoia, i fregi che ornavano le navi a vela della Marina da guerra sarda e napoletana si alternano con stampe e quadri rappresentanti marine e battaglie navali.

Altra imbarcazione origi-nale e storica è la lancia che servì al trasporto di

Giuseppe Garibaldi, dopo la ferita d’Aspromonte, da Spezia alla sto-rica fortezza del Varignano. Tra i numerosi modelli di navi esposti nel salone assai interessanti sono quelli che riproducono i due più grandi bastimenti della marina italiana durante il Risorgimento.

Uno è la riproduzione del vascello a vela e a vapore «Monarca» la più grande

unità della marina da guerra del Regno Napoletano e che, catturata da Garibaldi dopo il suo ingresso in Napoli, cambiò il nome in quello di Re Galantuo-mo; l’altro è la riproduzione del vascello La Vittoria, della marina sarda costruito per poter com-battere il Monarca, con vantaggio per armamento e velocità.

Rotoli di gomene di ogni dimensione, mazzetti di cordicelle, lenze per la

pesca, aghi ed ami, l’ascia d’ab-bordaggio e i coltelli da cucina, il girarrosto ed il tamburlano per tostare il caffè, pentole, secchi di legno e mastelli, vele e pezze di tela. In un angolo la panca a schiena d’asino sulla quale veni-vano legati, anzi per dirla proprio nel gergo del nocchiere «imbrac-ciati» i marinai puniti, per mezzo di speciali ferri, scope e fretazzi per il lavaggio del ponte, mentre presso la lampada ad olio pen-zola dal soffitto il caratteristico «cazzotto» di tabacco, una specie di salame di tabacco pressato che veniva distribuito a pezzi ai marinai nei giorni festivi…

La parte storica del Museo che, come ho detto, è quella che può maggiormente inte-

ressare gli studiosi e gli appas-sionati è riunita nell’Archivio del Museo non ancora completata e riordinata definitivamente perché devono essere ancora esaminati molti libri e giornali di bordo che possono celare tra le loro pagine ingiallite e spesso rosicchiate dai topi documenti originali di sommo interesse e valore. Esaminiamo sui lunghi tavoli e negli scaffali le carte ed i libri che possono documentarci in modo certo molti periodi del nostro Risorgi-mento e lumeg-giare aneddoti ed episodi poco noti. Ecco una pagina di bordo della fregata a vela Des Genejs il comandante in capo della piccola flotta Sarda, ammiraglio e Governatore, al tem-po stesso, della città di Genova, che ci ri-corda un avvenimento che doveva produrre conseguenze di non lieve importanza per la storia d’Italia. In un quadro alla parete è il primo ruolo nominativo degli ufficiali della R. Marina

da guerra sarda del 27 ottobre 1815, un vero cimelio, elenco che comprende 25 ufficiali in tutto, tra i quali figura Giorgio Mameli, padre di Goffredo.

Venticinque ufficiali e quat-tro navi da guerra era la forza della Marina Sarda;

quanto cammino percorso in un solo secolo di vita! La tragica ed infausta giornata di Lissa è ampiamente illustrata e docu-mentata attraverso lettere e i libri di alcune navi che rievocano le varie fasi del bombardamento del Re di Portogallo e dell’affon-damento della Palestro, insieme a rapporti autografi di Persano e dei comandanti S. Bon, Albini e Lercari… Alle pareti, interessantissima la raccolta dei disegni fatti eseguire dal colonnello Chiodo per la tra-sformazione del golfo di Spezia nell’odierno, munito e potente porto militare, e in un cofanetto a vetri un frammento del feretro del generale Lamarmora morto di colera a Sebastopoli nel 1855. Vincenzo Sechi

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Gastone de Anna (al centro della foto, in ginocchio) tra i colleghi Rosario Poma e Paolo Marchi. Alle loro spalle circondano Wanda Lattes redattori e cronisti de La Nazione alla fine degli anni Sessanta.

In principio c’erano dei corrispondenti, uno per ogni capoluogo di provincia.

Erano personaggi di rilievo nelle proprie realtà, ma non per questo avevano molto a che fare con il giornalismo. Un nobiluo-mo legato alla causa risorgimen-tale, un professore di liceo, un sacerdote. A Perugia, ad esem-pio, quando ancora era sotto il papato, e dunque fra il 1860 e il 1870, un anonimo estensore inviava notizie, per lo più di po-litica, rischiando le persecuzioni e l’arresto. Fu tra gli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, che ogni capoluogo toscano ebbe il suo corrispondente. Le notizie, battute a macchina e spedite con un fuori sacco (si trattava di un plico che viag-giava “fuori dal sacco postale” perché ad attenderlo e a ritirar-lo alla stazione, dei treni o degli autobus, per abbreviare i tempi di consegna era un usciere de La Nazione) impiegavano per lo più una notte ad arrivare a Firenze. L’indomani venivano vagliate, qualche volta riscritte, titolate

Gastone De Anna

“Ecco come nacquerole nostre edizioni di provincia”Il “fuori sacco” e i megafoni che annunciavano il ritorno in edicola del nostro giornale I “pionieri” di una grande avventura nel racconto di colui che seppe trovarli e organizzarli

e impaginate nella redazione di via Ricasoli. E per lo più ogni provincia aveva almeno un titolo al giorno, qual-che volta mezza pagina. Non di più.

Negli anni Quaranta la redazione delle province era formata da quattro

redattori sotto la guida Giusep-pe Cartoni il cui figlio, Mario, sarebbe poi diventato un noto cronista giudiziario. Fra questi era Nicola Della San-ta, almeno finché non fu richia-mato sotto le armi. Fu allora che entrò in scena un personaggio destinato a organizzare le reda-zioni provinciali così come sono ancor oggi, sia pure con ben altra consistenza di pagine e di giornalisti. Si trattava di Gastone De Anna, figura mitica del gior-nale, al quale si deve – assieme a Giordano Goggioli, ad Alberto Marcolin, e ai grandi direttori Russo e Mattei – il rilancio del dopoguerra che permise a La Nazione di raggiungere negli anni Cinquanta le centomila co-

pie. De Anna ha oggi novant’an-ni, non uno di meno. Ma anche una memoria di ferro e una lucidità invidiabile. È capace, perfino, di divertirsi a raccon-tare quegli anni. Ha conservato l’ironia, la capacità di narrare e fare sintesi, che ne fece un gran-de giornalista. Assieme a Giorgio Batini è l’ultimo di una grande generazione di colleghi, che in-segnarono a tutti noi il mestiere. Ci riceve a casa sua, splendida vista su una delle più prestigiose piazze di Firenze. E dopo pochi minuti si ricrea l’atmosfera di un tempo. Come si diventava giornalisti ai suoi tempi? “Per quanto mi riguarda fu davvero un caso. Sono nato nel 1919, mio padre comandante di marina era morto nel ’20 a Trieste, con D’Annunzio, quindi ero orfano di guerra. Nel ’40 tro-vai un mio amico di scuola che voleva offrirmi da bere perché era entrato come correttore di bozze a La Nazione. Era felice, volevo diventarlo

anch’io. Così, ci provai. Avevo buoni studi e come orfano di guerra anche qualche vantaggio. Mi chiamarono in prova perché Nicola Della Santa, che dopo una lunga prigionia sarebbe tornato a collaborare nel mio stesso ufficio, era stato richiamato in guerra”. Con chi ebbe il primo colloquio? “Con Micheli, un capo redattore leggendario che faceva tutto, conosceva tutto, anche il lavoro dei tipografi, e lo svolgeva a una velocità impressionante. Aveva un occhio di vetro, e noi dicevamo che l’unico lampo di umanità gli veniva proprio da quell’occhio”. Com’era il clima in redazione? “Scansonato, ironico, divertente. Ma lavoravamo tutta la notte senza pause. L’editore era Favi, l’amministratore Gazzo, era tutto un gioco di parole.” Quanto rimase a La Nazione prima della guerra? “Pochissimo. Nel ’42 fui richia-

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Gastone De Anna al telefono con il corrispondente di Siena Chiantini in una delle primissime vignette di Giannelli.

mato sotto le armi, poi fui fatto prigioniero. Fuggii, fui catturato e portato in Polonia, ci stetti due anni e infine mi liberarono gli americani mentre scappavo perché stavano arrivando i rus-si. Tornai a casa nel ’45, la feci tutta a piedi, o quasi, e trovai Firenze distrutta. Al posto de La Nazione c’erano tre giornali, La Nazione del popolo, il Nuovo Corriere e la Patria. Presi a collaborare col Nuovo Corriere, che era inizialmente il giornale degli alleati. Ma finalmente, nel ’47, a marzo, riprendemmo le pubblicazioni.” E lei? “Favi mi considerava come un figlio. Mi disse: “Devi ricostru-ire la rete dei corrispondenti.” Mi dette un auto e un autista. Andavamo nelle varie province, e quando io ero sceso - prima no perché mi vergognavo - lui cominciava ad urlare in un megafono “La Nazione! Torna La Nazione!” Come organizzò il lavoro? “Dove era possibile contattavo i vecchi corrispondenti e riapri-vo i vecchi locali. Altrimenti cercavo edifici e uomini nuovi. Nel ’48, quando Favi morì, tutte le redazioni dei capoluoghi di provincia erano riorganizzate.” Qualche nome di allora, qual-che collega? “Passaponti a Pisa, Chiantini a Siena, Coppini ad Arezzo e poi Dragoni e Piero Magi. A Spezia Reggio che poi passò il testimo-ne al figlio, il conte Vitelleschi e poi Bassi a Perugia. E ancora Ciullini a Pistoia, Del Beccaro a Lucca, Valleroni e Pighini a Massa, Rossi a Grosseto. Mauro Mancini diresse la prima re-dazione di Prato. Poi divenne inviato speciale assieme a Piero Magi, e più tardi a Piero Paoli e Raffaele Giberti che ricordo con immenso affetto, veniva da Spezia. Intanto cresceva anche la redazione province a Firenze. Era tornato Della Santa, poi ar-rivarono Gianfranco Cicci, Nereo Liverani, Romolo De Martino, Enrico Mazzuoli, Aldo Satta, Giancarlo Domenichini, Tiberio Ottini, Giuseppe Mannelli, Luigi Scortegagna, Rossi, l’indimen-

ticabile Piero Chirichigno, Franco Ignesti e una splendida segretaria, la signorina Giorni, che divenne un po’ l’anima di quell’ufficio. Si andò avanti così sino alla fine degli anni Sessanta quando arrivarono giovani come Enrico Maria Pini, Riccardo Ber-ti e Maurizio Naldini. Spero di non aver dimenticato nessuno.” Come lavoravate? “Al contrario di oggi. Tutto il materiale viaggiava col fuori sacco, e in base alle ore in cui arrivava era controllato e tito-lato in redazione. Fu solo con il computer che le redazioni pre-sero a organizzare le loro pagine direttamente. L’impaginazione poi partiva dalle nove di sera con la prima edizione che veniva chiamata “Nazionale”. Poi si pas-sava alle province più lontane

come Spezia, Perugia, Grosseto, e un po’ alla volta si arrivava a impaginare Prato. Quindi, alle tre di notte veniva preparata l’ultima edizione, quella che i fiorentini trovavano in edicola al mattino. Intanto i primi corri-spondenti erano diventati gior-nalisti professionisti, accanto a loro erano vari collaboratori, poi assunti come giornalisti anche loro, mentre la rete si infittiva fino a raggiungere anche i paesi più piccoli e sperduti.” Quando fu concluso il lavoro di organizzazione? “Praticamente mai, continua-va giorno dopo giorno. Però, alla fine degli anni sessanta La Nazione dominava totalmente il suo territorio di diffusione, e cominciavano anche le edizioni di Sarzana con Osvaldo Ruggeri

e di Pontedera con Orazio Petti-nelli. Era poi arrivato dal Nuovo Corriere un ottimo amministra-tore, Ivo Formigli, che già aveva collaborato con Favi negli anni Quaranta.” Rimpianti? Lo rifarebbe quel lungo lavoro? “Subito. Credo di essere nato per svolgere quell’attività. Eravamo una grande squadra, un gruppo di amici che riuscivano a lavorar bene divertendosi. La redazione era sempre affollata di perso-naggi famosi che venivano a trovarci. Per segnalare notizie, per commentarle, semplice-mente per scambiare due idee. Potevano essere attori o perso-naggi della televisione, atleti, uomini politici. Ci sentivamo forti, i lettori del resto, ci davano ragione.”

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di Giampiero Masieri

Queste sono le vicende, sconnesse come molte strade fiorentine - e a dire

sconnesse si sta certamente sul leggero - della redazione sportiva di questo giornale. Giornalisti famosi da ricordare subito ce ne sarebbero tanti. Ci fermiamo a due, di due generi diversi, Beppe Pegolotti e Giordano Goggioli. Piacevole, ironico e dissacrante raccontatore, il primo, anche sulle decennali vicende della Fiorentina. Indimenticabile Pego-lotti, per le sue battute sui viola, e anche per le sue cronache dal Giro di Francia e dal Giro d’Italia. Ferreo organizzatore era Goggioli nell’era moderna. Con loro, anni prima e tanti anni dopo, miria-di di colleghi e di collaboratori esterni.

Cominciamo da molto lontano, il 1925, con l’aiuto indispensabile

delle collezioni del giornale. Le corse al galoppo all’ippodromo di San Siro erano tra le notizie di maggiore lunghezza, dieci righe. I campionati di calcio? “Dura scon-fitta della Cremonese a Vercelli”. Niente formazioni, testi sempre sul breve, rare le fotografie. In testa al campionato, tra paren-tesi, c’era sempre il Bologna. Nel

ciclismo Tano Belloni, l’eterno secondo, smentiva tutti e vinceva la Milano-Modena. Con un salto di dieci anni troviamo una intera pagina giornaliera dedicata allo sport, non più piccole notizie e via. Troviamo anche le prime firme importanti, e diciamo pure storiche. Il sommo Giuseppe Am-brosini scriveva di ciclismo, Giro d’Italia compreso, Vittorio Pozzo era naturalmente sul calcio, partite della nazionale comprese. Il famoso Nedo Nadi, livornese, scriveva, altrettanto naturalmen-te, di scherma. Giuseppe Centau-ro era sulla cresta dell’onda come resocontista. Nelle cronache sull’ippica troviamo un nome molto caro a questo giornale, il nome di Italo Marchi. Con un termine forse in disuso, ma che a tutti i costi deve rendere l’idea, lo definiamo un gentiluomo, preciso, puntuale e nello stesso tempo pieno di rispetto per tutti. Rimase in mezzo a noi per molti anni, fino alle Olimpiadi del ’60 Roma e anche oltre. Sul Gran Premio di Merano, la famosa Lotteria, riferiva puntualmente con lunghi articoli. In mezzo a noi gli dette il cambio il figlio Paolo quale redattore in pianta stabile, nel settore dedicato alle notizie dall’interno. Due tipi completa-

mente differenti, Italo riservato, Paolo esuberante. Li ricordiamo con affetto.

A questo punto incontriamo un personaggio che segnò, o per lo meno accom-

pagnò il passaggio dalle poche notizie di sport e un solo arti-colo, a pagine e pagine intere. Si chiamava Mario Liverani, e anche lui, come Italo Marchi, ebbe come erede il figlio: Nereo. Mario entrò al giornale in punta di piedi con il desiderio di imparare. C’era da riparare dappertutto, e Liverani non si sottrasse mai. Era nato nel 1903 a Modigliana, allora in provincia di Firenze, poi di Forlì. Arrivato da quel posto di frontiera, frequentò subito circoli di sportivi. “La Nazione” cercava persone che si dessero da fare. Mario era l’uomo giusto. Era innamorato del ciclismo, lo segui-va, lo conosceva a fondo. Tanti anni dopo, l’ex commissario tecnico del ciclismo, Alfredo Mar-tini, disse: “Voleva così bene al ciclismo che per lui una corsa di allievi intorno al Campo di Marte equivaleva a una preolimpica”.

Mario Liverani era amico e cantore di Bartali. Seguì le sue corse, magari da

lontano causa gli impegni al gior-nale, fino dal ’31. Dopo la guerra, alla ripresa delle pubblicazioni, quando in caporedattore era Micheli, aiutò Giordano Goggioli a organizzare il lavoro in senso moderno. Goggioli, ex campione di pallanuoto con la Rari Nantes Florentia, era un uomo pieno di idee e di iniziative, e siccome aveva un voce potente e imperio-sa, contraddirlo restava difficile. Mise su una bellissima redazione, con Mario Liverani redattore di notte, Raffaello Paloscia di giorno, Beppe Pegolotti inviato, Giorgio Moretti nell’edizione della sera, Romolo De Martino a fare, diciamo, da coscienza a tutti. Lavoravano benissimo. Pegolotti, nato a Cecina, veniva dal “Tirre-no” di Livorno, aveva esordito nel ’34 nientemeno che con le due partite in due giorni tra Italia e Spagna, la Spagna di Zamora. I collaboratori erano tanti, da

Antonio Ghirelli a Roberto L. Quercetani per l’atletica leggera internazionale, Saverio Ciattini per i motori, Paolo Lucchesini per l’ippica, Manlio Gazzo per il pugilato, Giuliano Mazzoni per il ciclismo e poi come preziosissi-mo segretario, Mara Novelli per il tennis, Paolo Pepino per nuoto e pallanuoto, e ancora Franco Ignesti, Pier Giovanni Canepele, Roberto Checcucci, Vincenzo Tessandori. Sandro Bennucci e Pier Lugi Brunori che del calcio conosceva tutto, ma proprio tutto, specie se si trattava di numeri e statistiche. Piero Fo-cardi scriveva di basket, era così preciso che in coda alla notizia su qualsiasi partita al Palazzetto Iti di Via Benedetto Dei indicava sempre: tram numero 23. E poi c’erano anche Pieraccini, Naldo-ni e Roberto Parigi per il calcio minore e Marzuchini per la neve. Sempre per il calcio, quello viola, Maurizio Naldini ed Enrico M. Pini. Altra garanzia. Accanto a Paloscia, il quieto Paloscia che poi prese il posto di Goggioli, si susseguirono come redattori Sandro Picchi, Luca Fra-ti, Enzo Bucchioni, Andrea Galli, Alessandro Fiesoli e il sottoscrit-to, che in quanto tale conferma. Sempre con molto affetto e rim-pianto ricordiamo inoltre Athos Di Clemente, che si divideva dalla mattina alla sera tra articoli, titoli, diciture e sigarette.

A capo della redazione si susseguirono, citiamo senza l’ordine cronolo-

gico, Sandro Picchi, poi inviato, Enrico Maria Pini, Stefano Cecchi, Franco Caniato, Angiolo Gior-getti, Piero Campani, Bucchioni, Massimo Pandolfi, Angelo Costa, Francesco Matteini e di nuovo il sottoscritto, poi inviato. Oggi alla guida c’è Paolo Chirichigno. Alla guida e addetto anche alle grane, con Giorgetti, Riccardo Galli, Simone Boldi e Maurizio La Ferla. Quaranta le pagine di sport ogni lunedì nelle varie edizioni. Re-soconti, o comunque notizie con le formazioni, sulle partite dalla serie A fino alla terza categoria. E via andare, come dicevano un tempo i cronisti.

Pegolotti, Goggioli e Liveraniecco le cronache dello sport Da via Ricasoli a piazza Beccaria, dalla macchina da scrivere al computer Un inserto di quaranta pagine tutti i lunedì

Nella foto: Giordano Goggioli tra due suoi allievi di giornalismo: Giorgio Moretti (a sinistra) e Raffaello Paloscia.

La foto è tratta dal volume “Giordano Goggioli” di Massimo Sandrelli e Raffaello Paloscia.

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Alle origini del consensoEcco perché, negli anni, i lettori ci hanno preferito. Redattori, cronisti, fotografi, collaboratori e poligrafici formano una squadra affiatatissima

di Enzo Millepiedi

La sana concorrenza, la concorrenza cioè senza quartiere e senza soluzione

di continuità (che è quella che suscita un interesse aggiunto e che fa leggere di più) tra giornali di cronaca, è stato uno dei fattori di successo de La Nazione in terra spezzina. In alcuni anni si è arri-vati in questa città dell’estremo levante ligure, un’area margina-le come la chiama il professor Giuseppe De Rita, alla presenza di ben otto testate con pagine locali. È dunque su questo terreno che si è sempre giocata la partita che ha decretato fortune e sfortune di testate.

Ècosì che il cambio genera-zionale, fortunatamente accompagnato da chi era

nell’età di mezzo, non solo ana-graficamente ma anche professio-nalmente parlando, ha trasmesso questo dna perpetuando la sfida nonostante sul campo sia rimasto, con La Nazione leader, solo un altro quotidiano di cronaca. L’abi-tudine, in questo caso, è stata una scuola anche per altri, in una città complessa. La Spezia non è infatti solo un capoluogo di provincia. Oltre a tutte le caratteristiche proprie che può avere e che ha una città di queste dimensioni e funzioni, La Spezia ha offerto ai giornalisti un campo più vasto e per molti versi singolare: il porto mercantile da record europeo dell’efficienza, la sede di comando in capo dell’Alto Tirreno, la base navale, l’arsenale militare, il tri-bunale militare (ora abolito) con la più estesa competenza territo-riale davanti al quale sono stati celebrati i processi per le stragi naziste, la centrale termoelettrica che fu la più grande d’Europa, l’unico rigassificatore nazionale; La Spezia già sede di una delle più potenti concentrazioni di indu-stria pubblica civile e militare (prima Efim e ora Finmeccanica, Fincantieri e Termomeccanica), e affacciata sul Golfo dei Poeti, che sta diventando un polo nazio-nale della nautica, con Lerici e Porto Venere sentinelle del bello, e custode di uno dei patrimoni

mondiali dell’Umanità: le Cinque Terre, incastonate in una affasci-nante Riviera ligure di Levante. Da questo sommario quanto vario elenco, si può intuire quanto vasto e impegnativo sia stato e sia il campo di azione, di quanto sia stata e sia la richiesta di presenza e di attenzione di chi fa cronaca.

Èper rispondere a questo confronto, ora dopo ora, giorno dopo giorno, che si

sono allenati e che si allenano i cronisti de La Nazione che, per la verità, ha tenuto sempre dal canto suo in particolare attenzione que-sta terra che alla testata ha dato costanti soddisfazioni non solo nella diffusione.

Nulla è stato fortunataman-te regalato, tutto è stato quotidianamente conqui-

stato e difeso. D’altronde ad ogni iniziativa editoriale, sociale, cit-tadina o umanitaria che fosse, la risposta dei lettori è sempre stata entusiasta e forte. Lettori che hanno seguito il giornale nelle sue - spesso originali e anticipatrici proprie di chi ha il senso della sfida - rivoluzioni tecnologiche e grafiche nel segno del nuovo, del-la modernità, dello stare al passo con tempi sempre più complessi e difficili, tempi nei quali la famiglia dell’informazione, anche nella nostra città, si è allargata. Ed è nel segno dei tempi che la sede da via Chiodo si è trasferita in piazza Caduti per la Libertà, volutamen-te a pianterreno e le pareti a vetro per significare la vicinanza alla gente che sa di poter contare su una casa dell’informazione aperta a tutti.

Resta e continua a premiare la linea della autorevolezza, del senso della mediazione,

della nostra difesa delle istitu-zioni cittadine in quanto tali e in piena e assoluta libertà e del no-stro essere, nel contempo, spirito e voce popolari. La Nazione ha infatti promosso, per limitarci ad alcune citazioni, in fascicoli «La Spezia in guerra» riconosciuta come iniziativa editoriale dell’an-

Le scelte che hanno permesso al nostro giornale di imporsi tra i lettori de La Spezia. Una concor-renza sempre molto attiva. I rapporti tra la nostra provincia e la Toscana.

no in Italia ma ha anche ingaggia-to una campagna per la difesa di Porto Venere che fece scalpore e accanto a queste è stato signifi-cativo il viaggio nelle antiche e potenti famiglie spezzine come contributo alla ricerca storica; come è stato trionfale il concorso per la commessa ideale. Ma sono state e sono la presenza massiccia e senza risparmio di energie nella cronaca per i grandi e i piccoli fatti da una parte e l’equilibrio dall’altra che hanno determinato le «fortune» de La Nazione, non condizionata da sospetti e da insi-die di campanilismi dominanti, in questa terra Liguria. A chi ci chiederà conto domani noi potremo serenamente rispon-dere che c’eravamo.

E opportunamente nella redazione è stata mantenuta costante la «spezzinità»

dei redattori i quali, comunque in tutti questi ultimi anni, hanno potuto avere proficui rapporti con molti colleghi di altre redazioni che hanno svolto periodi più o meno intensi alla Spezia prima

di essere assegnati a redazioni di Toscana e Umbria. Il nucleo che ha avuto l’onore di raccogliere il testimone della redazione storica forma la squadra attuale di redat-tori, a me affidata da quasi venti anni, è formata da Corrado Ricci (vice caposervizio), da Fulvio Magi (responsabile dello sport), da Gian Paolo Battini, Manrico Parma e da Massimo Benedetti per la cronaca bianca e nera, assistiti per le immagini dall’insostituibile pre-senza e conoscenza delle cose del mondo di Mauro Frascatore. La squadra dei poligrafici è composta da Laura Ambrosiani, Riccardo Balossino e Fabrizio Ferrari. Com-pletano la forza in campo attenti e laboriosi collaboratori e corri-spondenti, profondamente inseriti nelle realtà di tutto il territorio, la cui penetrazione è un altro punto di forza del giornale. Perché se la città dà soddisfazioni la provincia non è da meno. È con queste cre-denziali e con questi risultati che abbiamo l’orgoglio e il piacere di invitare tutti gli spezzini alla festa dei 150 anni de La Nazione.

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1953: una stanza in piazza Battisticon un tavolo e una OlivettiCosì fu aperta la prima redazione del nostro giornaleArturo Reggio Postiglione e un gruppo di giovani promettenti

di Rino Capellazzi

Erano i primi mesi del 1953 quando il quotidiano La Nazione di Firenze varcò il

Rubicone, pardon La Sprugola, per portare il suo verbo anche in Liguria. Venne aperta una redazione alla Spezia. Non fu fa-cile trovare una sede, ancorché modesta, in quanto «quattrini da far ballare», si disse subito, stavano nel palmo di una mano. Ma il fiuto del giornalista Arturo Reggio Postiglione, nominato da pochi giorni redattore da Gastone De Anna e dal direttore del personale Lamberto Mi-gliori, scovò la prima redazione spezzina. Fedele esecutore degli ordini fu l’ispettore Gian Carlo Sorelli (subentrò al mito Stefano Tafi) anima e core di tutta l’ope-razione. La piccola redazione al primo piano di Piazza Cesare Battisti, era di stile civettuolo, modesta, con una sola scrivania, una sola Olivetti (anche se a Reggio piaceva scrivere a mano con calligrafia ben leggibile) e con alcuni giovani a contatto di gomito pronti a sfidare il mondo.

Dunque. Reggio il capo, Sil-vano Robusti specialista di nera, io il jolly e inviato

al seguito dello Spezia, nonché pronto a tuffarsi nelle inchieste sui quartieri con i famosi «pagi-noni». Entrarono poi Silvano Ve-stri, re del colore e della bianca, più qualche giovanotto pronto a proporsi quasi giornalmente. E nel tempo ecco pronti all’esame di giornalismo Luigi Cardinale, Silvio Nitti, Ugo Mannoni (il papà del Mannoni televisivo), Franco Ballardin (finito poi al Corriere della Sera), Gian Franco Rossetti (poi direttore a Milano di una rivista, quindi commen-tatore a Mediaset a fianco di Maurizio Costanzo), e ancora Gino Ragnetti, Franco Maggiani, Fulvio Magi responsabile dello sport, Francesco Carrassi, Fran-co Carozza, il giovanissimo Gian Paolo Battini, Corrado Ricci, Max Benedetti, Mauro Frascato-re obiettivo infallibile.

Gastone De Anna e Giancar-lo Sorelli seguivano con interesse e passione la

redazione che stava bruciando tutti i record di vendita (Il Tir-reno intanto vedeva sbriciolarsi il suo impero di 13mila copie giornaliere) e nel salotto della città di via Chiodo furoreggia uno strillone, detto Battello. Ar-rivano da Firenze grandi inviati come Giorgio Batini, Piero Magi e Mauro Mancini; si dà inizio al periodo delle sponsorizzazioni culturali e dei patrocini sportivi: allora furoreggiavano Graziano Battistini (secondo al Tour de France dietro Gastone Nenci-ni); Bruno Visintin, campione europeo di pugilato e eroe dei Cinque Continenti della noble art; Marco Lucchinelli, campio-ne del mondo delle moto 500, la Scuderia automobilistica Della Favera con piloti Albino Buticchi e Rinaldo Parmigiani, e tanti altri. Fu proposta con grande successo dall’ispettore Sorelli la «Pagina della Lunigiana» e dato alle stampe libri come La Spezia in Guerra, autore Arrigo Petac-co, e L’Album della Spezia, un doppio trionfo edito-riale. Insomma passo dopo pas-so la cronaca spezzina fece da te-stiomone alla cit-tà. Ma tornia-mo a 56 anni orsono. Il primo giorno dell’uscita della «Na-zione» ven-nero acquistati un centinaio di copie, con tutti noi ad accerchiare le edicole come tanti Apaches per «forzare» le vendite, poi una certa flessione, quindi grazie anche ad alcune iniziative inedite il giornale lentamente decollò. Il succes-so per gradi si dovette anche all’esperienza di un distributore,

Nel tondo in alto:Eugenio Adalberto Reggio, figlio del primo corrispon-dente de La Nazione, durante un incontro conviviale presenta l’allora direttore de La Nazione France-sco Carrassi.

Nel corso della sua storia, la redazione di La Spezia ha dato due direttori al nostro giornale: Francesco Carrassi e Arrigo Petacco (tondo in basso).

Tino Casali. Certo la strada per imporsi è stata lunga e tortuosa, ma nel tempo la redazione, che fu retta anche da Rodolfo Del Beccaro di Lucca, dall’indigeno Raffaele Giberti e da Eugenio Adalberto Reggio, figlio del primo redattore, fornì alla Casa Madre di Firenze due Diretto-ri: Arrigo Petacco e Francesco Carrassi.

Non solo la nostra reda-zione dissodò il terreno tra i non molti lettori di

allora, ma dovette difendersi-attaccando quando la piazza venne invasa da altre otto testate, tutte con pagine di cro-naca che diedero origine a una concorrenza addirittura al calor bianco. E fu per tutti una grande scuola. Mancarono soltanto i duelli all’ultimo sangue sulla collina di Porta Isolabella, ma vi si andò molto vicini! In quegli anni, dunque, la controprova della personalità del quotidiano fiorentino si confermò quasi con naturalezza.

Ma sapete dove agli inizi il capo redattore Arturo Reggio Postiglione an-

dava a scovare le notizie di nera? Nei posti più malfamati della città: il giro delle 7 osterie e per-sino nelle case di tolleranza! Da quelle visite uscivano notizie a volte clamorose, (anche il nome di un assassino!) che il giorno dopo potevi leggere soltanto sulla cronaca spezzina. Proprio in quella guerra di testate dove tutto era permesso, La Nazione trionfò in modo netto, inequivo-cabile, tanto che da quel trampo-lino il giornale fece tabula rasa persino del Tirreno di Livorno, dominatore assoluto sino ad allora.

Possiamo dire che dal 1953 giornale e città siano cresciuti in simbiosi allo

slogan: «Una copia in più, una iniziativa in più». Poi il quotidia-no, con l’avvento di Enzo Mille-piedi, mollò ogni gerarchia per involarsi da solo raggiungendo mete impensabili persino dalla strategia di Firenze che vide in questa parte di Liguria la possi-bilità di espandersi. E ora? Ora nella grave crisi editoriale ita-liana, La Nazione alla Spezia ha l’onore di festeggiare, assieme ai 150 anni dalla nascita fiorentina, i suoi primi 56 anni da leader in una Provincia dove allora il quotidiano era sconosciuto.

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di Gian Paolo Battini

È stata la piu importante iniziativa editoriale della Nazione alla Spezia. Stia-

mo parlando de «La Spezia in guerra - 1940-45, cinque anni della nostra vita», un inserto curato dal nostro ex direttore Arrigo Petacco, pubblicato nel 1984 e sponsorizzato dalla Cas-sa di Risparmio della Spezia. Il volume aveva colmato un vuoto. Le attese per una iniziativa del genere da parte dei lettori e della cittadinanza erano tante. Furono vendute trentacinque-mila copie del libro allegato a fascicoli distribuiti gratuitamen-te a La Nazione. Un vero record. Il volume è stato ristampato nel 2005 per celebrare la Liberazio-ne con copie diffuse soprattutto nelle scuole e sponsorizzato da

Banca Carispe e Fondazione Ca-rispe per conto di Luna Editore. La prima edizione era stata rea-lizzata grazie anche alla collabo-razione di alcuni noti giornalisti e scrittori oggi scomparsi come Giancarlo Fusco, Ugo Mannoni e Gino Patroni. Vi hanno collabo-rato inoltre il giornalista Gino Ragnetti, Vinicio Ceccarini, Patrizia Gallotti, Monica Petacco e Franco Puddu. Per la ricerca iconografica Massimo Giangre-co. «La Spezia in Guerra» ha varcato anche i confini naziona-li: una copia del volume si trova anche nella Biblioteca nazionale di Melbourne. Com’è nata questa iniziativa e chi ha proposto di farla? Come la prese l’editore? Fu ripresa anche altrove? «Era stato l’Editore, il cavalier

La Spezia in guerraraccontata da Arrigo Petacco

La copertina del volume “La Spezia in guerra” Inizialmente l’opera uscì a dispense distribuita con il nostro giornale. Il suo successo permise a La Nazione di essere apprezzata dai lettori spezzini.

Presentata come inserto del giornale nel 1984 l’iniziativa è stata poi raccolta in un volume Una intervista all’autore

Attilio Monti a propormi l’ini-ziativa - racconta Arrigo Petacco - pochi anni prima avevo realizzato la storia della II Guerra Mondia-le per l’editore Curcio di Roma. Si trattò di una pub-blicazione di 108 dispense raccolte in nove volumi che ebbe un gros-so successo e in totale aveva rag-giunto un milione di copie. Ricordo che la prima edi-zione fu stampata in 250mila copie. Il Cavalier Monti mi propose di scrivere un libro come si viveva durante la guerra. Prima uscì la De

Agostini «Come eravamo du-rante la Guerra». Si raccontava come si viveva giorno per giorno durante la guerra. Il Cavalier Monti mi disse: «Lei è spezzino. Mi dia una mano per Spezia». E mi mise a disposizione i potenti mezzi della Poligrafici Editoriale. I fascicoli uscirono settimanal-mente insieme a La Nazione». «Quest’opera ti ha procurato qualche problema nelle rela-zioni? Si è risentito qualche spezzino che si è visto citato negli articoli o nelle foto? Ci sono state rimostranze? «Nessun problema. Cito invece alcuni episodi curiosi. Il vescovo dell’epoca salutava romanamen-te. Molti personaggi spezzini si ritrovarono giovani in camicia nera e con la uniforme avanguar-dista».

Ricostruendo la storia di Spezia in guerra, c’è qualche episodio che ti ha colpito in modo particolare? «Nella Scalinata Spallanzani c’era un rifugio antiaereo. Dalla Spezia partirono i Mas della Re-gia Marina per raggiungere via terra il lago Ladoga sul confine e la Marina li trasportò su ruote: i finlandesi fecero un monu-mento. Flotte di Mas furono trasportati a bordo di autotreni. I Mas erano motoscafi armati di acciaio e dotati di siluri. L’ufficiale spezzino Massarini, poi diventato ammiraglio, portò questi motoscafi enormi nel lago Ladoga e nel Mar Nero attraverso i Balcani». Vogliamo chiarire un aspetto ancor oggi irrisolto? Spezia fu liberata dagli americani o dai partigiani? «I primi ad arrivare furono gli uomini della Quinta Armata americana al comando del gene-rale Marc Clark. Molti partigiani spezzini e sarzanesi, che aveva-no varcato le linee in occasione del famoso rastrellamento del 29 novembre ’44, tornarono insieme agli americani».

Tra le altre curiosità della guerra c’è anche un aspet-to commovente: quello

di una giovane sposa morta nei bombardamenti in un rifugio antiaereo alla Spallanzani, lato stazione. Non s’è mai saputo chi fosse. Aveva infilato nel dito una fede nuova di zecca. Si suppone fosse la moglie di un militare che venne a trovare il marito a La Spezia.

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di Manrico Parma

Cinque mesi di battaglia giornalistica, portata avan-ti da La Nazione, salvarono

la chiesetta millenaria di Porto Venere. Nel 1977 il tempio, costruito nel V Secolo sui resti di un edificio romano dedicato per l’appunto a Venere, rischia-va di scivolare in mare. L’effetto di due lastre sdrucciolevoli, una appoggiata all’altra, poteva sbri-ciolare la roccia della scogliera sulla quale sorge l’incantevole opera, classificata dall’Unesco patrimonio mondiale dell’uma-nità.

Protagonista di un esempio di giornalismo vero fu il colle-ga Gino Ragnetti. Incalzò con tenacia i ministeri clamorosa-mente insensibili e indifferenti; invitò La Spezia alla sfida; fece esplodere un caso che mobilitò il mondo da settembre a febbra-io. Fino a quando Roma, vinta dall’evidenza, non si decise a stanziare i soldi e iniziare i lavori.

Come sei venuto a conoscenza della notizia?«Tutto è cominciato dall’omelia del parroco delle Grazie. Disse

che alcuni bagnanti avevano notato una profonda fenditura nella roccia e nei massi che so-stenevano San Pietro. Eravamo negli ultimi giorni dell’estate 1977. L’allarme era lanciato. Ho appreso la notizia dal fatto che l’aveva detto il prete. Ci fu il primo articolo».

Quali furono le reazionia caldo?«Avevo fatto un pezzo chieden-do interventi di salvaguardia per la chiesetta di San Pietro. Siccome niente si muoveva, cosa alquanto strana, La Nazione decise di insistere».

Qualcuno poi si mosse?«Dopo una serie di servizi, visto che ancora nulla si muoveva, riprendemmo il caso lanciando un vero appello sotto il titolo “Salviamo San Pietro”. Eravamo agli inizi di ottobre».

Prime adesioni?«Fra i primi ricordo il sindaco di Porto Venere Mauro Lotti, il prefetto, l’ammiraglio del

Un’omelia del parroco, poi una battaglia condotta e vinta da Gino Ragnettie dal nostro giornale

Così abbiamo salvatola chiesa di Porto Venere

Dipartimento dell’Alto Tirreno, il presidente del Tribunale, il Vescovo, deputati e senatori, il sindaco della Spezia Aldo Giacché, il presidente dell’Ente turismo Domenico Bevilacqua. Si mise in moto il mondo dell’ar-te e della letteratura. In prima fila ricordo Mario Soldati. Anche dalla redazione centrale del nostro giornale a Firenze arrivo il consenso spontaneo di firme importanti, Maurizio Naldini e di Mauro Mancini. A metà ottobre 1977 eravamo a 500 firme. Fu un crescendo. Ricordo la partecipazione del premio Nobel Eugenio Montale».

Intanto la scogliera continua-va a sfaldarsi?«Il 21 ottobre 1977 finalmente la Sovrintendenza si decise a effettuare un sopralluogo. Il dirigente arrivò a Porto Venere richiamato dalle ferie. Andò via terrorizzato. Ricordo le sue parole: “La chiesetta è come una nave sullo scalo pronta per essere varata”».

Costruita sui resti di un tempio romano

del V secolo la millenaria chiesetta

di Porto Venere nel 1977 rischiava di

crollare.

Fu allora che La Nazione con

l’ammirevole impegno di Gino

Ragnetti organizzò una campagna

per la salvezza del monumento.

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Nelle immagini: alcuni articoli e

titoli tratti da La Nazione nei giorni

della campagna a favore della

chiesetta di Porto Venere.

Giornalista, è nato nel 1942 a Pennabilli, nelle Marche, ma ha sempre abitato alla Spezia. Ha lavorato al La Nazione, dirigendo anche le reda-zioni di Massa-Carrara e della Spezia-Liguria. Ha collaborato con Arrigo Petacco alla realizzazione dell’opera La Spezia in guerra. È autore del libro “Tavolara - L’Isola dei re” (2005, Mursia) scrit-to con Ernesto Carlo Geremia. Un documento inedito e ricco di curiosità, che ricostruisce la storia dell’isola dei re, frugando negli archivi e nel cassetto dei ricordi di uno degli ultimi principi di Tavolara. Di recente ha pubblicato “Luna, una misteriosa città romana nel Golfo della Spezia” (2007, Luna Editore).

Uno dei più antichi e suggestivi luoghi di culto della Liguria. L’edificio attuale, risalente al XIII secolo ma più volte ristrutturato, con la caratteri-stica struttura a fasce bianche e nere in stile gotico genovese, venne innalzato sulle rovine di un luogo di culto paleocristiano, a sua volta eretto su un tempio romano dedicato a Venere, al quale si do-vrebbe il nome di Porto Venere. Lo scenario dà il meglio di sé nel pomeriggio quando, sostando sul belvedere sopra la chiesa, si vede il sole illuminare l’alta scogliera sulla destra.

GINO RAGNETTI

LA CHIESADI SAN PIETRO

Quindi?«Ci fu un palleggiamento di responsabilità. Solite cose all’ita-liana. Nel frattempo si formò un comitato che chiese un incontro con il ministro dei Lavori pub-blici. Ci fu anche chi propose una legge speciale».

Il nostro giornale continuò la sua battaglia?«Certamente», risponde Gino Ragnetti, mostrando con orgo-glio un grande registro dove vennero raccolti tutti gli articoli, le firme, le cartoline provenienti dall’estero. Scandendo tutte le tappe e i servizi del giornale, aggiunge: «Allora non c’era il fotoritocco al computer, ma proponemmo ai lettori un’im-magine truccata di San Pietro senza la chiesetta. Fu una specie di choc».

Interventi ancora niente?«Alla fine di ottobre del 1977 la zona della chiesetta venne tran-sennata per impedire l’ingresso al tempio e alle zone panorami-che».

E le adesioni?«A fine ottobre arrivammo a 2700 firme. Il caso prese una piega nazionale. Ricordo l’ap-poggio di Claudia Cardinale e Maurizio Costanzo, Bruno Vespa

e Pasquale Squitieri, Mike Bon-giorno e Enzo Biagi. Lo sport diede un grande contributo di immagine grazie ai campioni d’Italia di basket della Mobil-girgi, al bomber Beppe Savoldi, a Giancarlo Antognoni e ai suoi compagni della Fiorentina, a Gianni Rivera, Nereo Rocco e tutto il Milan. A metà novembre le firme lievitarono a 17mila».

Ancora niente per quanto riguarda l’intervento?«Un comitato formato dal sinda-co, dal presidente dell’ente turi-smo andò a Roma dal ministro dei Lavori pubblici Antonino Pietro Gullotti. Tornò indietro amareggiato. “Ragazzi non c’è una lira” fu il nostro titolo che sintetizzava l’incontro romano».

Con la chiesetta rischiò di sprofondare anche il morale?«Niente affatto. A dicembre le firme sull’appello salirono a oltre 20mila. Il tam-tam dei radioamatori ci assicurò intanto sostegno da diverse parti del mondo. Oggi con Internet im-magino sarebbe stato un evento planetario. Il Soroptmist Club interessò il suo rappresentan-te alle Nazioni Unite. Perfino i bambini delle scuole misero a disposizione la loro fantasia per salvare la chiesetta con centina-

ia di disegni. Disegni che furono esposti in una mostra di tre gior-ni al Centro Allende, organizzata da Mario Bruchi, allora capo sala disegno del Comune della Spezia e da La Nazione. Ricordo che mi chiamò da Firenze il nostro direttore Alberto Sensini. Lo ras-sicurai su una battaglia giorna-listica che stava andando avanti da tempo. Mi fece fare un grosso servizio in terza pagina».

La svolta?«All’inizio di febbraio il governo cedette e stanziò 800milioni delle vecchie lire. Vinse l’appalto una grossa società, gente del mestiere che aveva addirittu-ra “smontato e rimontato” un duomo a Colonia, spostandolo in un’altra parte della città. Il responsabile dell’azienda mi di-chiarò che il lavoro di San Pietro per loro non presentava grosse difficoltà tecniche. Si trattava di inserire migliaia di micropali per “saldare” le due porzioni di roccia. Ma che lo volevano a tutti i costi. Il motivo? Poter mettere sul loro calendario, un fascicolo distribuito in tutto il mondo, l’intervento provvidenziale alla chiesetta di San Pietro».

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Sono gli anni della conte-stazione e anche La Spezia deve fare i conti con forme di teppismo e di violenza. Come già era accaduto a Pisa con i parà, anche qui alcuni “teppi-sti” prendono di mira la divisa. Il comandante, però non è disposto a vedere insultati e fatti oggetto di violenza i pro-pri uomini. Così dichiara “ho dato l’ordine di non molestare nessuno, ma di reagire alle provocazioni”.

Dal nostro inviatoPiero Magi

La Spezia 9 aprile - “Sono state impartite disposi-zioni di non molestare

nessuno nella consapevolezza che la calma è il primo sintomo della forza morale. Ma è stato anche disposto che nessuna provocazione sia lasciata senza una reazione in termini di pari entità.” Siamo andati a trovare l’ammiraglio, stamani, nella sede del comando in capo del dipartimento Alto Tirreno. La stanza è disadorna, il mare a un passo ma non si vede. È ripara-to, protetto dalle alte muraglie dell’Arsenale: il mare di La Spezia, un mare armato.

L’ammiraglio di squadra Luigi Longanesi Cattani comanda il dipartimento:

è un vecchio sommergibilista atlantico, un famoso affondatore che ormai ha lasciato il peri-scopio per un tavolato di alta responsabilità militare. La tensione è finita. La Spezia è tornata alla calma. Si parla di tafferugli con parole rassere-nate. Qual è l’opinione dell’ammira-glio Longanesi Cattani sui disor-dini dei giorni di Pasqua? “I no-stri marinai sono stati aggrediti da giovani civili che gli hanno

buttato addosso delle immon-dizie, poi li hanno insolentiti e picchiati approfittando di una grossa disparità numerica” (si riferisce all’episodio di dome-nica scorsa, avvenuto nei pressi della stazione ferroviaria. Ora si è saputo quanti erano i teppisti che assalirono i marinai: erano quindici, quindici contro due!)

Fu episodio dovuto a rancori personali, a qualche gelo-sia non rara in una città

di porto dove civili e marinai si contendono spesso una medesi-ma conquista? L’ammiraglio Longanesi Cattani lo esclude: “Non potevano esi-stere rancori personali al fondo di questa aggressione perché i due marinai erano reclute, arrivate a La Spezia soltanto da qualche giorno. È invece da pensare che l’aggressione sia stata deliberatamente condot-ta contro la divisa stessa del marinaio.” “Ora – afferma l’ammiraglio – non è accettabile chela divisa venga attaccata in quanto tale, voglio dire come simbolo, perché non è credibile che un soldato sia capace di difendere la patria se prima non è capace di salvaguardare la sua stessa dignità di soldato.”

Firma questo artico-lo uno dei giornali-sti destinati a a un futuro di successo e di responsabilità. All’epoca inviato speciale, Piero Magi diverrà infatti un indimenticabile direttore de La Nazione.

Scontri tra giovani alla stazione ferroviaria nel giorno di PasquaUna bomba è scoppiata al genio militare

Gli ordini sono stati chiari: non molestare nessuno ma reagire ad ogni provocazione. “Ad atti intollera-bilmente ostili – ha detto l’ammiraglio – o miei marinai hanno reagito nella misura in cui dovevano. È per il loro contegno che la calma ha po-tuto tornare in città. Quando dei malintenzionati si sentono inco-raggiati ed hanno la sensazione di poter operare impunemente il rischio dei disordini è grave e continuo: in questo modo invece i vili potranno rendersi conto che le loro azioni potrebbero avere un prezzo molto caro.”

Sono parole pronunciate da un uomo che ha alte responsabilità. “Si è parlato

spesso di risse fra marinai e civili. Posso dire che si è trattato sempre di vere e proprie aggres-sioni ai danni dei miei soldati. Essi ora hanno risposto”…

Ha poi soggiunto… “La situazione è sempre stata sorvegliata dal comando

marittimo attraverso aiutanti di piazza che sono dei sottuffi-ciali con lo specifico incarico di

Siamo nel 1969, il clima politico si sta facendo sempre più

difficile.A La Spezia alcuni marinai sono ag-

grediti da gruppi di contestatori. Il loro ammiraglio, un ex

sommergibilista, dice esplicitamente

che i suoi uomini sapranno reagire

alle provocazioni.

da La Nazione del 10 aprile 1969

Aggrediti due marinail’ammiraglio: “Reagiremo”

seguire i marinai in franchigia. Ritengo che i marinai abbia-no capito di far parte di una compagine di uomini chiamata all’assolvimento di un compito elevato.”…

Sulla bomba scoppiata ieri mattina fervono intanto le indagini. È caduta l’ipotesi

che l’innesco sia stato assicurato a quel filo di nylon che venne trovato in via Colombo in pros-simità della palazzina colpita… la carica di tritolo fu quindi fatta scoppiare con un congegno ad orologeria oppure con un inne-sco a miccia lunga…

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di Corrado Ricci

I motori e l’ancoraggio di nave Margaret, nel tentati-vo di guadagnare il ridosso

del Golfo dopo la partenza da Genova, non ressero alla furia del vento e del mare. La burra-sca di libeccio, la notte a cavallo fra il 2 e 3 dicembre del 2005, travolse la cementiera georgia-na senza carico, fino a spingerla sui massi della diga foranea. Gli “artigli” delle onde si allungava-no sull’equipaggio in coperta. Il comandante lanciò l’Sos: «Save my crew! save my crew!» urlava a squarciagola Abdandi Beridze.

Iniziò allora la più spettacola-re e impegnativa operazione di salvataggio di marittimi

nella storia del Golfo della Spezia. Ad uno a uno, in tredici, vennero recuperati dall’elicotte-ro e dalle vedette della Guardia costiera e sbarcati nell’eliporto

Era il 3 dicembre del 2005

Quella notte in cui un elicotterosalvò i 13 marinai della MargaretFu la più impegnativa operazione nella storia del GolfoUna colletta per i marinai. Il relitto ancora in fondo al mare

di Comsubin. Professionalità, addestramento, coordinamen-to dei militari del corpo delle Capitanerie di porto fecero il «miracolo»: tutti salvi, nemme-no un ferito. Il tempo di tirare il fiato, e il comandante della Capitaneria di Porto Giovanni Pettorino - che dalla centrale operativa aveva coordinato i soccorsi - doveva affrontare l’emergenza ambientale. Anche quella, grazie ad un dispositivo scattato a tamburo battente, si risolse positivamente, senza danni di rilievo.

Si è stimato che, dai serbatoi della nave, siano fuoriusci-ti, complessivamente, 40

tonnellate di gasolio; la mag-gior parte venne recuperata a razzo dai mezzi della Sepor e della Castalia. Il resto si volati-lizzò nell’aria prima di finire in costa. Poi, nei giorni successivi, vennero aspirate le ultime 30

tonnellate dalle cisterne. E il Golfo fu salvato. E con esso la mitilicoltura.

Il comandante Giovanni Pet-torino, dal 2007 non è più alla Spezia; lavora sulla “plancia”

del Comando generale della Capi-tanerie di Porto. Ma il legame con la città è restato forte, sulle ali di un’amicizia che si alimenta nella riconoscenza verso gli uomini delle Capitanerie di Porto della Spezia. Una storia drammatica e al tempo stesso esaltante quella del naufragio della Margaret e del salvataggio del suo equipag-gio. A cui seguì una splendida gara di solidarietà, all’insegna del gioco di squadra: Capitaneria, Comune della Spezia, Diocesi si adoperarono per dare ospitalità ai marittimi. Per loro si aprirono le porte del monastero di Santa Maria del Mare. Lì rimasero per tre settimane, accuditi dalle suore.

Poi, con la raccolta di fondi effettuata dai volonta-ri della Stella Maris, fu

garantito il rimpatrio, il ritorno alle famiglie. Furono storie di povertà e disperazione quelle raccolte da coloro che in quei giorni ebbero modo di parlare con i marittimi, di dare loro conforto dopo la drammatica esperienza vissuta. C’è chi dopo il rientro in patria ha scritto alla Nazione, che diede mediatica-mente impulso all’assistenza ai marinai, per ringraziare la reda-zione e con essa la Capitaneria, il Comune, le suore di Marina-sco. Tutto bene quel che finisce bene? Non proprio. Resta il relitto della Margaret addossato sulla diga. Le ultime libecciate l’hanno solo scalfito. Ormai è un tutt’uno con il fondale e con i massi della barriera foranea. Cinque anni dopo il drammatico affondamento - il salvataggio da manuale dell’equipaggio

È la notte fra il 2 e il 3 dicembre 2005.

La cementiera giorgiana Margaret

viene sospinta contro i massi

della diga da un fortissimo vento

di libeccio. Il comandante lancia

l’Sos.

Le operazioni di salvataggio mobili-tarono, con successo, tutti gli uomini e i mezzi destinati alla sicurezza nel nostro porto.

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georgiano da parte degli uo-mini della Guardia costiera, la bonifica-lampo del gasolio fuo-riuscito in mare e l’aspirazione di quello nelle cisterne - resta la spettrale immagine dell’ex nave cementiera.

All’epoca del naufragio, il capo della Protezione civile Guido Bertolaso,

forse sulla scia dell’entusiasmo per il successo delle operazioni della Capitaneria e sicuramente per stemperare le ansie che si levavano dal golfo, si era lanciato in promesse azzardate: «Entro quattro mesi il relitto sarà rimosso».

Purtroppo, l’uomo della Protezione civile, che pur ha conquistato tanti

meriti nell’affrontare questa o quell’emergenza nella penisola, non è stato di parola. «Quan-do parlava - questa la difesa che sale dalla Capitaneria - le ultime 30 tonnellate di gasolio erano ancora nei serbatoi... Ma queste, già a gennaio 2006, erano state aspirate senza spo-stare la nave». Bertolaso deve avere tirato un grande sospiro. Nell’aprile del 2006, nell’ultima riunione prima delle elezioni, il Consiglio dei Ministri decretò lo stato di emergenza, presup-

posto giuridico per tenere in piedi la prospettiva della rimozione del relitto e del risarcimento danni. Ma tutto è finito in secca, come la Margaret, seppur messa in sicurezza e bonificata.

E così riaffiora l’idea di ren-dere il relitto, opportuna-mente attrezzato, un’oasi

per le immersioni subacquee in sicurezza. Insomma, trasfor-mare la Margaret da vincolo in opportunità turistica. Un’idea caldeggiata sulle pagine de La Nazione sin dai giorni successivi al naufragio, nella consapevolez-za che sarebbe stata impossibile una rimozione in tempi rapidi. Come volevasi dimostrare...

Gli articoli d’epoca de La Nazione sono custoditi da Gaetano Lopresti come fossero oggetti preziosi: ben riposti in

cartelline, all’interno di un cofanetto. Non si agitò più di tanto quando, appena ricevuta la medaglia d’oro al valor civile nel 1962 per le sue prodezze nel mare, qualcuno gliela rubò. «Ma se perdessi questi pezzi di carta, sarebbe come perdere un tesoro», dice ora con i suoi 85 anni portati in splendida forma. Sono gli articoli che raccontano due suoi salvataggi nel Golfo della Spezia in qualità di comandante dei rimorchiatori Linaro e Sant’Antioco.

Il 9 novembre recuperò due turisti ameri-cani, Tom e Johnny Stevens, padre e figlio, dopo il naufragio del loro panfilo a causa

di una micidiale tempesta con vento forza 9: li trovò aggrappati, in piena notte, ad una delle boe metalliche della Marina, che erano riusciti a raggiungere a nuoto. Un soccorso da manua-le. Il 19 giugno del 1963 pose in salvo quattro vip carraresi: il capitano marittimo Renzo Dazzi e tre professionisti: Cesare Frugoli, Pier Alberto Pezzicca e Emilio Cucurnia. In quel caso a provocare l’affondamento del motor-yacht sul quale si trovavano fu la collisione con un oggetto galleggiante tra il Tino e la Palmaria.

Anche loro si aggrapparono ad una boa metallica della Marina. E lì furono re-cuperati, col mare che si “gonfiava”, dal

comandante Lopresti. «Ogni tanto mi rileggo quegli articoli: precisissimi, testimonianza di una grande professionalità», dice il marittimo. La firma è quella di Eugenio Reggio, nostro indimenticabile “capo”.

Gaetano Loprestile prodezze in mare

Nel tondo:un elicottero della

Guardia Costiera durante il recupero

di uno dei tredici marinai della nave

georgiana.

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di Fulvio Magi

Tra le due date c’è oltre mezzo secolo di storia. Con gioie e dolori. Da de-

finire «dalla B alla B», o meglio dalla discesa alla risalita. Nella stagione 1950-51 lo Spezia, sorto nel lontano 1906 e che militò, ante guerra, anche nel massimo campionato quand’era suddiviso in gironi, disputa la sua ultima partita nella serie cadetta a Livorno il 24 giugno 1951. Perde 1-0 con questa formazione: Fabbri, Mocca, Pramaggiore, Cappelli, Macchi, Sgobbi, Banci, Ragazzo, Bertoni II, Pozzo, Frugali. Si classifica al 17° posto su 21 squadre e retro-cede in serie C, assieme a Bari, Seregno, Cremonese e Anconita-na. Il presidente è Mario Farina, l’allenatore, dopo la rinuncia di Luigi Scarabello, è Sergio Bertoni. Il popolare Gigi era alla guida nel ‘49-‘50, con la squadra classificata al sesto posto alla pari con il Brescia.

Il 7 maggio 2006, invece, si congeda dalla serie C1 per salire in B superando al

“Picco” il Ravenna per 2-1, ma dopo lo 0-0 di Padova (1° mag-gio) che sancisce la matematica promozione, con presidente Giuseppe Ruggieri e allenatore Antonio Soda, davanti al Genoa che salirà anch’esso tramite i play-off. Schieramento di quella gara, in un clima di festa: Rubini (87’ Locatelli), Giuliano, Fusco, Maltagliati, Gorzegno, Ponzo, Grieco, Saverino (75’ Padoin), Alessi (83’ Ciarcià), Varricchio, Guidetti.

Prima della B nel dopoguer-ra, la prestigiosa vittoria nel 1944 dei Vigili del

Fuoco della Spezia (presiden-te l’ingegner Luigi Gandino, allenatore Ottavio Barbieri, gare casalinghe a Carpi in quanto il Picco è indisponibile per la

“Dalla B alla B” i molti successi e le delusioni dello Spezia Calcio

Il patron Gabriele Volpi e

l’amministratore della Asd Spezia

Aldo Jacopetti che stanno guidando

lo Spezia della rinascita dopo

il fallimento avvenuto nel 2008.

La società nata nel 1906 ha conosciuto agli inizi anche la serie AIl fallimento e la rinascita

guerra) davanti a Torino e Vene-zia, con uno scudetto onorifico che arriverà dalla Figc dopo oltre cinquant’anni e che fa bella mostra, perennemente, sulle maglie dei calciatori, che stanno susseguendosi in questi anni.

Dopo la retrocessione, invece, lo Spezia si ritrova anche in promozione

ligure, nel ‘53-‘54 (presidente Albino Buticchi, che dopo anni arriverà al vertice del Milan) e per tornare in IV serie la stagio-ne successiva dovrà diventare Spezia-Arsenal (allenatore il mitico Wando Persia, capitano Sergio Curletto), unendosi con l’altra società cittadina. Si salta al ‘57-‘58 quando gli aquilotti vincono la cosiddetta IV se-rie d’eccellenza (e nelle finali nazionali si classificano al primo posto con Ozo Mantova e Cosen-za) e salgono in serie C. Nella stessa annata lo Spezia, con direttore tecnico Luigi Scarabel-lo e allenatore Carlo Scarpato, si aggiudica anche la coppa d’oro Ottorino Barassi. Per quattro stagioni (‘58-‘59, ‘59-‘60, ‘60-‘61 e ‘61- ‘62) milita in serie C, poi scende in D (‘62- ‘63, ‘63-‘64, ‘64-‘65 e ‘65-‘66). Torna in C (vicenda Viareggio, con penalizzazione di 3 punti inflitta al club versiliese) dove resta sino alla stagione ‘77-‘78, quando viene inserito in C1, visto che la lega decide la suddi-visione dei campionati di terza serie, come avviene tutt’ora, anche se con denominazioni di prima e seconda divisione.

Nel ‘78-‘79, penultimo, retrocede in C2, quindi di nuovo in C1 per un

campionato (penalizzata di 6 punti la Rondinella, per cui gli aquilotti sono secondi dietro al Prato), al quale ne fanno seguito cinque in C2, e nella stagione

‘82-‘83 retrocesso tra i dilettan-ti ma ripescato per la rinuncia del Banco di Roma. Torna in C1 dopo la stagione ‘85-‘86 (quando il comitato di salvezza composto da Renato Caruso, Stefano De Ferrari e Luciano Razzuoli, subentra a Pietro Ros-setto, arrestato) con allenatore Sergio Carpanesi e capitano Sergio Borgo e vi milita per undici stagioni. Ritorna in C2 e vince il campionato 1999-2000 senza sconfitte con mister Andrea Mandorlini e capitano Roberto Bordin.

Dopo altre sei stagioni di C1 (dove sfiora la serie B arrivando ai play-off),

arriva, nel campionato 2005-2006, la promozione in serie B e il successo nella supercoppa a spese del Napoli. Nel 2006-2007 si salva dopo i play-out con il Verona, nel 2007-2008 retrocede e la società fallisce, nonostante il disperato tenta-tivo dei tifosi. A questo punto entra in ballo l’Asd Spezia calcio 2008 srl e la squadra sta dispu-tando un campionato di serie D all’avanguardia, con l’obiettivo di tornare tra i professionisti, nella nuova seconda divisio-ne che prende il posto della vecchia C2. Il patron è Gabriele Volpi, il proprietario della Pro

Recco di pallanuoto, plurivit-toriosa in Italia e all’estero, l’amministratore unico Aldo Ja-copetti, l’allenatore Marco Ros-si, il capitano Pietro Fusco. E i tifosi, che faticosamente stanno digerendo la discesa dalla serie B alla serie D, continuano co-munque a sostenere la squadra, in casa e fuori, con l’auspicio che possa tornare quanto prima tra i professionisti.

L’Asd Spezia calcio 2008 srl, dal canto suo, ricorda anche il passato con un

occhio di riguardo nei con-fronti dei cosiddetti centenari, quelli che hanno disputato cento o più partite in maglia bianca, con l’aggiunta dell’al-lenatore Sergio Curletto e del segretarissimo Federico Finetti, concedendo il libero ingresso alle partite casalinghe allo stadio Alberto Picco. Sul podio troviamo Osvaldo Motto con 409 presenze, seguito da Gianni Zennaro con 381 e Giampaolo Bonanni con 378. Traguardi, sinceramente, difficili da avvicinare. E tra i presidenti da ricordare Enrico Bertorello, Guerriero Menicagli, Alfeo Mordenti (con l’appoggio importante del nipote Sauro), Giovanni Fusani e Domenico Mastropasqua.

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È il 9 gennaio del 1997

Paolo Ruisi ucciso in autohanno sparato con una 7.65

La pagina con la quale La Nazione

in cronaca di La Spezia dava notizia,

il 10 gennaio 1997, dell’assassinio di

Paolo Ruisi uno dei proprietari del Ca-

chondeo, un locale in stile messicano di

via Valdilocchi.

Al momento dell’uc-cisione, la vittima aveva in tasca 10 milioni di lire.Ruisi fu ucciso in macchina da un colpo di pistola che lo colpì a un fianco.Con lui si trovava Cristiana Vitrale la fidanzata.

Risale a più di dodici anni fa, alla notte del 9 gennaio 1997,

uno dei delitti che hanno scosso La Spezia. Vittima del tragico agguato, che aveva riportato la nostra città indietro di qualche anno quando gli omici-di erano putroppo più frequenti, Paolo Ruisi di 32 anni, uno dei titolari del Cachondeo, il locale in stile messicano di via Val-dilocchi molto frequen-tato dai giovani. I malvi-venti avevano atteso il suo ritorno in auto, assieme alla fidanzata Cristiana Vetrale di 25 anni, davanti alla loro casa in via dei Boschetti 35. Erano in due, col volto coperto da una calzamaglia, entrambi armati di pistola.

Non erano extraco-munitari e non par-lavano con inflessio-

ni dialettali. Solo uno ha sparato, esplodendo quattro colpi con un’arma automatica calibro 7.65. Un proiettile ha colpito mortal-mente al fianco Paolo Ruisi che era al volante dell’auto, un altro si è conficcato nella portiera dal lato della ragazza che era al suo fianco. Nonostante il proiettile, sparatogli attraverso il finestri-no, gli avesse trapassato il fianco e raggiunto il cuore, ha avuto la forza di guidare per un centinaio di metri. Poi si è accasciato e ha detto alla ragazza: «Portami all’ospedale».

Di quel delitto la squadra mobile, all’epoca diretta dal commissario Filippo

Ferri attuale dirigente della squadra mobile di Firenze, ha incolpato Giampiero Pata, amico della vittima, a scopo di rapina peraltro non riuscita perché il denaro non era stato preso. Gli indizi raccolti erano in primo luogo la prova dell’ex guanto di paraffina da cui, a poche ore dal delitto, erano emerse tracce

di polvere da sparo sulla mano destra di Pata. Per la difesa plau-sibile effetto di una contamina-zione accidentale in questura per l’abbraccio di Pata con Cristiana Vetrale che era con la vittima al momento della rapina. Poi la testimonianza di una inserviente del Cachondeo che aveva riferito delle confidenze raccolte sulle cattive condizioni economiche di Pata e sull’ipotesi da lui prospet-tata di una rapina quale “soluzio-ne” dei problemi; quindi il rifiuto di Pata di sottoporsi alla prova del Dna per verificare se fosse suo o meno il capello trovato su un passamontagna rinvenuto nei pressi del luogo dell’omicidio.

La corte di assise della Spezia aveva assolto l’imputato. Si era rivelata importante

anche la testimonianza dei nostri cronisti Massimo Benedetti e Alberto Vignali, che avevano ef-fettuato un sopralluogo il giorno successivo nelle vicinanze del luogo del delitto ipotizzando la fuga degli aggressori lungo il bi-

nario della ferrovia che conduce al porto. Ipotesi poi avvalorata dagli stessi inqurenti che aveva-no anche trovato delle tracce. I cronisti de La Nazione, però, non videro alcun passamontagna lun-go il tragitto, eppure dai reperti della polizia doveva essere ben visibile.

Da lì l’ipotesi che qualcuno l’avesse messo apposta nei giorni successivi, con

l’intento di incastrare Pata. Giam-piero Pata è passato da uomo libero a detenuto nel processo d’appello a Genova. Da un’asso-luzione col dubbio alla condanna all’ergastolo. La sua vita è cambiata in un secondo alle 19.15 del 22 giugno 1999; quando dopo cinque ore di camera di consiglio il presidente della corte ha letto la sentenza d’appello infliggendo a Pata la pena più pesante prevista dal nostro ordinamento e disponen-do l’arresto immediato in aula. Drastico epilogo sanzionatorio del convincimento maturato dai

giudici durante il processo di secondo grado: fu Pata ad uccidere; a scopo di rapi-na; Francesco Paolo Ruisi.

Per Pata solo il tem-po di sbiancare in volto, guardare negli

occhi gli avvocati e balbet-tare qualche parola. Poi il trasferimento in carcere. Una vita da recluso, per una vita spezzata, per tante vite, quelle dei familiari di Fran-censco Paolo Ruisi, distrutte dal dolore. Era in aula il papà della vittima, Nicolò. Quan-do il dottor Noli, presidente della corte, ha pronunciato la parola «ergastolo», Nicolò ha chinato il capo. In segno di rispetto, di riconoscenza. «Quando sarete in camera di consiglio ricordatevi di tutte le esistenze coinvolte in que-sta tragedia, dall’uomo ucciso

all’uomo imputato, di tutti i loro cari», così l’avvocato Aldo Nicco-lini - legale di parte civile insieme ai colleghi Andrea Buondonno; Andrea Guastini e Riccardo Ragusa - aveva concluso la sua replica, ad altissimo impatto emotivo. L’ultima parola l’aveva avuta il legale di Pata, l’avvocato Paolo Scovazzi; che ha puntato tutto sul «rigore» della sentenza della corte di assise della Spezia, quella che aveva accolto le tesi sviluppate dagli avvocati Mar-co Corini, Giuliana Feliciani e Maurizio Sergi, incentrate sulla “contaminazione accidentale” della mano destra di Pata, mano nella quale, nell’immediatezza del delitto, furono rinvenuti residui di particelle metalliche da colpo di pistola. Evidentemente i giudici hanno considerato tali re-perti come la prova regina della responsabilità di Pata, come fin dalle prime risultanze investiga-tive aveva sostenuto la squadra mobile. Indizi gravi, precisi e concordanti; anche secondo la corte di appello. La Corte di Cassazione ha poi confermato la pena dell’ergastolo a Giampiero Pata il 25 settembre 2000.

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Cronaca di un delitto irrisoltoIl movente che non c’era e che non c’è

le a commentare il luttuoso e drammatico evento. Increduli, sgomenti per quanto successo. Don Emilio, parroco di Vernazza dal ’92, era benvoluto da tutti. Persona di grande cultura, or-ganizzava spesso viaggi in Terra Santa, aveva contatti in Vaticano ed era amico addirittura di papa Giovanni Paolo II, come testi-moniava una foto che li ritraeva insieme.

Fin dai primi elementi a disposizione di carabinieri e polizia, era sembrato

chiaro che si trattasse di un de-litto. E non si è mai escluso che gli autori potessero essere più di uno. In paese, però, nessuno si era accorto di nulla. Misterio-so il movente. Un delitto a scopo di rapina? Gli inquirenti non hanno tralasciato alcuna ipotesi.

Sembra però che don Emilio non avesse denaro e nep-pure oggetti di valore, se si

esclude un computer portatile

di Massimo Benedetti

Tra gli omicidi irrisolti avvenuti in provincia della Spezia, quello che mag-

giormente ha colpito l’opinione pubblica è l’orrendo delitto di don Emilio Gandolfo, il parroco della chiesa di Santa Margherita a Vernazza, scoperto il 3 dicem-bre 1999.80 anni compiuti, il religioso è stato ferocemente assassinato nella sua canonica. Il corpo venne scoperto quando i fedeli si preoccuparono non vedendolo arrivare per celebra-re la messa vespertina. Già altre volte don Emilio era arrivato alla funzione qualche minuto dopo, perché il treno era in ritardo. Ma questa volta la ragione era ben altra. Due donne erano salite in canonica al terzo piano, sopra la chiesa. Avevano trovato la porta aperta.

Dietro c’erano delle tracce di sangue e all’interno era tutto a soqquadro. In-

tuendo che potesse essere suc-cesso qualcosa di grave, spaven-tate, erano fuggite andando in piazza a chiedere aiuto. Nell’al-loggio del sacerdote erano così saliti Gianni Gallo, Mino Lercari e Giuliano Basso che avevano trovato il corpo di don Emilio privo di vita, disteso in terra tra il letto e l’armadio. Aveva la testa fracassata, intorno c’erano chiazze di sangue. Sul letto un grosso crocifisso, che però non era stato usato per colpire il pover’uomo. Un primo colpo gli sarebbe stato inferto proprio sulla porta della canonica, gli altri nella stanza da letto.

La notizia della violenta morte del parroco aveva fatto il giro del paese in un

attimo. In poco tempo le case si erano svuotate e quasi tutti gli abitanti di Vernazza si erano riversati nella piazza principa-

col quale era solito scri-vere. E non aveva nemici. Sembra che qualcuno gli avesse bussato alla porta della canonica le sere prece-denti e lui non avesse aperto. Il decesso sarebbe avvenuto nella notte precedente al ritrovamen-to del cadavere.

Il corpo del parroco, infatti, era già rigido e il sangue coagulato. È toccato poi al

medico legale Marisa Tessa, giunta a Vernazza col sostituto procuratore Maurizio Capo-ruscio, fugare ogni dubbio. Lo stesso vescovo Bassano Staffieri si era recato personalmente nel-la località delle Cinque Terre. Nonostante le laboriose indagi-ni condotte dai carabinieri, non si è mai saputo chi è stato ad uccidere il parroco. A Vernazza, dove a memoria d’uomo non si ricordano delitti, la gente ha esorcizzato la possibilità che la mano assassina fosse di uno del posto o di suoi complici.

Tutti hanno guardato il più lontano possibile, propensi a credere che ad uccidere don Emilio siano stati dei balordi che magari hanno reagito con ferocia inaudita proprio perché non sono riusciti a farsi conse-gnare quello che il parroco non possedeva.

Nella foto grande: don Gandolfo, molto

apprezzato dai suoi parrocchiani era un

uomo di raffinata cultura e amico

del papa Giovanni Paolo II.

Nel tondo: il letto, nella canonica di Vernazza, dove alcune donne trovarono il cadavere del parroco.

È il 3 dicembre del 1999

L’omicidio di don Gandolfonella canonica di Vernazza

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Il presidente delle ferrovie, quello dell’Oto Melara, uomini d’affari e perfino ministri sotto l’occhio della magistratura e delle telecamere

Le intercettazioni del “Gico”scatenano Tangentopoli 2

sotto Dio», come era stato battez-zato, tre anni prima, dal pool di

Mani Pulite di Milano.

Tre i filoni d’inchiesta della cosiddetta Tangentopoli 2:

un presunto traffico di armi, una presunta attività di addomesti-camento delle sentenze nel palazzo di giustizia di Roma, un presunto

vantaggio economico di Di Pietro nella gestione delle

inchieste all’epoca in cui era pubblico ministero a Milano.

Tutto fondato sulle famose inter-cettazioni telefoniche effettuate dagli investigatori del Gico della Guardia di Finanza di Firenze che, indagando inizialmente sugli intrighi nelle Ferrovie dello Stato, incapparono in frasi che finirono per aprire i nuovi orizzonti inve-stigativi, radicando la competen-za del voluminoso fascicolo alla Spezia per via della prima ipotesi di reato delineatasi che portava dritta all’Oto Melara.

Per effetto delle misure cautelari che scattarono all’epoca e degli interroga-

tori dei personaggi eccellenti, si catapultarono alla Spezia inviati di ogni giornale e telegiornale, impegnati in un’avvincente, talvolta spericolata, corsa alla notizia fra le maglie del segreto istruttorio. In mezzo quattro magistrati spezzini: i pubblici

di Corrado Ricci

Tra il settembre e il novem-bre del 1996 La Spezia visse, da protagonista, una

delle pagine più importanti e con-troverse della storia giudiziaria italiana. Il Palazzo di giustizia finì sotto i riflettori dei media nazio-nali e internazionali costituendo l’epicentro di un terremoto che scosse il mondo della politica e dell’economia, per via dei nomi dei personaggi eccellenti finiti sul registro degli indagati. Fra questi l’amministratore delle Ferrovie Lorenzo Necci, il ministro Anto-nio Di Pietro, il presidente di Oto Melara Piergiuseppe Guarguagli-ni e il business-man Francesco Pacini Battaglia, «l’uomo appena

ministeri Alberto Cardino e Silvio Franz e i giudici delle indagini preliminari Maria Cristina Failla e Diana Brusacà

Nonostante loro tenes-sero le bocche cucite, le indiscrezioni fioccavano a

ruota libera, con l’Ansa di Firenze che, alla sera, batteva le “novità” che spesso bruciavano il lavo-ro di una giornata a Palazzo di giustizia. Finì in pasto ai lettori una “montagna” di intercetta-zioni telefoniche dalle quali si delineavano i rapporti disinvolti fra i protagonisti della vicenda e frasi aperte a letture penalmente rilevanti.

A fare più notizia fu la famo-sa frase di Francesco Paci-ni Battaglia: «Lucibello (il

suo avvocato ndr) e Di Pietro mi hanno sbancato» a proposito del coinvolgimento del faccendiere nelle inchieste del pool milanese di Mani Pulite. Successe poi che, nel giro di 40 giorni, la maxi-inchiesta si smembrò per effetto dei luoghi di presunta consuma-zione dei reati.A Perugia, per via del coinvolgimento di magistrati romani, finì il filone delle sen-tenze della capitale in odore di intrigo; a Brescia l’inchiesta su Di Pietro. Alla Spezia rimase solo l’inchiesta sul presunto traffico d’armi. Questa si concluse poi con l’archiviazione. Emersero, seppur controversi, gli indizi di alcuni “benefit” a favore di mili-

tari di paesi esteri per la vendita di sistemi d’arma ma emerse che la normativa dell’epoca non configurava il reato di corruzio-ne di funzionari pubblici esteri. Risultato: tutto in archivio con, però, un’iniziativa conseguente del Parlamento: la rimodulazione della legge.

Conclusa col proscioglimento l’inchiesta su Di Pietro, che - nel frattempo dimessosi

da ministro - dimostrò di non aver “sbancato” Francesco Pacini Battaglia. Qualche spezzone dell’inchiesta rimase in vita a Perugia; ma anche lì fu ridotta ai minimi termini la schiera dei personaggi eccellenti perseguibili, complice l’incalzare della prescrizione dei reati. In ogni caso, sul piano indiziario i magistrati spezzini videro giusto, considerando che i tribunali del riesame respinsero, quanto meno in prima battuta, i ricorsi verso le misure cautelari. Ma una cosa sono gli indizi, un’al-tra le prove. Alla fine a patire le conseguenze della maxi inchiesta e della visibilità assunta a livello nazionale, fu il pm Cardino, chiamato dal Csm a risponde-re di qualche parola di troppo durante un’intervista in diretta rilasciata a Paolo Brosio. Gli fu erogata la sanzione della censura. Dopo qualche tempo Cardino chiese e ottenne di passare dalla magistratura inquirente a quella civile. Voleva stare tranquillo.

L’inchiesta Tangentopoli 2, resa possibile dalle intercettazioni telefoniche della Guardia di Finanza di Firenze, coinvolse tra gli altri l’amministratore delle Ferrovie e il presidente dell’Oto Melara.

Il Natale del 1989 fu, per 1800 spezzini, il più triste in assoluto. Mentre c’era chi si scambiava i regali sotto l’albero loro erano sotto choc: Tiziano Mugnai, il finanziere d’assalto al quale ave-vano consegnato i risparmi, attratti dalla promessa di interessi da capogiro, si era volatilizzato, aprendo una voragine da 60 miliardi di vecchie lire. Un intrigo non chiarito fino in fondo. Nemmeno dallo stesso Mugnai che, nel 1991, venne localizzato e arrestato a Los Angeles. Otto anni di reclusione, questa la pena inflittagli in via definitiva. Ma lui, prima che arrivasse la

Mugnai, quando il finanziere d’assaltofuggì coi risparmi di 1800 spezzini

sentenza della Cassazione, era già a Cuba a fare nuovi “affari”; compravendita di case. L’indole truffaldina, però, l’ha travolto anche al tepore dei Caraibi. Là non scherzano: dal 2002, da quando fu arrestato, Mugnai non ha più riassaporato il gusto della libertà. Nel frattempo ha subìto una nuova condanna a 15 anni di reclusione. Ha chiesto di espiare la pena in Italia. Ma Cuba non lo rilascia. Forse non si fida del “sistema” italiano che, quando si avvicinava l’ora del carcere per la maxitruffa perper-trata alla Spezia, gli aveva riconsegnato il passaporto.

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di Corrado Ricci

Da borgo di pescatori a principale Arsenale della Marina militare e, da quel

momento (1869) in avanti, culla della marineria e della cantie-ristica navale fino a diventare uno dei principali porti del Mediterraneo (il secondo per traffici in Italia) e, negli ultimi anni, polo cardine dell’industria e della portualità nautica. Una storia tutta “giocata” sul mare e per il mare, quella della Spezia. I cui fili si sono riannodati per “Maìna”, la Festa della Marineria organizzata dal Comune della Spezia con la celebrazione di passato e presente, per dare ulteriore impulso allo sviluppo delle attività marittime, per un futuro in cui amore ed economia del mare si rafforzino a vicen-da. Missione compiuta, il mese scorso, ad epilogo di un lungo percorso organizzativo che, tra gli impulsi più incoraggiati, ha avuto proprio La Nazione che, sul tema della cultura del mare, ha sempre dimostrato una particolare sensibilità, nella consapevolezza del suo valore strategico. Per anni, dal 1998, ogni settimana, nel fascicolo di cronaca locale, si è materializza-

ta la pagina “Gente di mare” che ha esplorato le varie espres-sioni della comunità marittima spezzina, evidenziandone le specificità e le eccellenze nel panorama nazionale. Da com-partimenti stagni le varie realtà Marina militare, cantieri navali, porto, porticcioli, università nautica, centri di ricerca, circoli velici, sono apparse come le tes-sere di un grande mosaico. Quel mosaico proprio “assemblato” in occasione della Festa della Marineria, con l’impegno in pri-ma linea dell’assessore spezzino Paolo Manfredini, lo stesso che ha rilanciato il Palio del Golfo.

Per la Festa della Marine-ria sono convenute a La Spezia, a far cornice alle

navi della scuola della Mari-na, fra cui spiccava la “regina” Vespucci, tante principesse del mare: barche e derive d’epoca, gozzi e lance a vela latina, le imbarcazioni delle Repubbliche marinare. Il tutto con corredo di spettacoli, mostre di antiquaria-to e suggestivi allestimenti che hanno “celebrato” l’arte delle costruzioni navali, dei maestri d’ascia. L’Arsenale, con le sue navi militari, si è “concesso” in-sieme al suo carico di storia, di culla dell’ingegno... L’anno scelto per la prima edizione della Festa della Marineria del resto aveva come “motore” proprio i 140 anni dall’inaugurazione dell’Arsenale voluto da Cavour. Ma il 2009 è anche l’anno della nascita del Distretto delle tecno-

“Maina”, un evento per celebrare i 140 anni dell’Arsenale Come La Nazione ha contribuito al recupero della nostra storia e cultura

Le principesse del marefanno festa nel Golfo

logie marine (che sta mettendo in rete università, cantieristica navale, enti di ricerca). La Festa della Marina ha dato ulteriore impulso all’operazione strategi-ca, tesa a qualificare La Spezia come “capitale” del Mediterra-neo.

Simbolo della festa è stata l’immagine di un leudo, l’antico veliero emblema

della marineria ligure, quello con cui si svolgevano i traffici, prima dell’avvento dei motori. Un omaggio alla tradizione e an-che ad un’operazione tuttora in corso: il restauro del leudo Feli-ce Manin che, dopo essere stato salvato della demolizione a Chicago nel 2000 e rimpatriato alla Spezia, ora sta assolvendo ad una missione promettente: essere “palestra” della forma-zione professionale dei giova-ni, proprio in Arsenale, nella struttura nata sulle ceneri della mitica Scuola Allievi Operai, dove ora operano il Centro Du-rand De la Penne della Provincia e il Cisita. Con la Fincantieri main sponsor dell’iniziativa. Un piccolo esempio di sinergia che, nella salvaguardia delle radici culturali, diventa modello per il futuro della comunità.

Per i 140 anni dall’inaugurazio-

ne dell’Arsenale, sostenuta dal nostro

giornale, si svolge quest’anno una

Festa della Marine-ria di eccezionale

prestigio.

Il simbolo della Fe-sta della Marineria è un “leudo” la tipica barca ligure che prima dell’avvento del motore svolgeva ogni tipo di traffico commerciale lungo le nostre coste.

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