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L’autrice

Barbara Mazzolai, biologa con un Dottorato di ricerca inIngegneria dei Microsistemi e un Master Internazionale inEco-Management alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa,dirige il Centro di Micro-Biorobotica dell’Istituto Italiano diTecnologia di Pontedera. Nel 2015 Robohub, la maggiorecomunità scientifica internazionale degli esperti di robotica,l’ha inclusa tra le 25 donne più geniali del settore. Haricevuto prestigiosi riconoscimenti quali il Premio MarisaBellisario e la Medaglia del Senato della Repubblica Italiana.Nell’ambito del programma europeo FET (Future andEmerging Technologies), che finanzia le idee di ricerca piùvisionarie, ha coordinato il progetto che ha portato allarealizzazione del Plantoide, il primo robot al mondo ispiratoalle radici delle piante, con applicazioni che vannodall’esplorazione spaziale alla microchirurgia almonitoraggio ambientale. Oggi coordina il progetto europeoGrowBot, per trasformare la natura delle piante rampicantiin tecnologie intelligenti e sostenibili.

Questo è il suo primo libro.

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PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATALonganesi & C. © 2019 – MilanoGruppo editoriale Mauri Spagnol

ISBN 978-88-304-5346-3

In copertina: illustrazione da CODEX SERAPHINIANUS© Luigi Serafini, 1981

Prima edizione digitale febbraio 2019

Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

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LA NATURA GENIALE

Ai miei genitoriA Ricky

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Introduzione

L’inevitabile

«Come per tutt’i viaggi si pò imparare. Questabenigna natura ne provvede in modo che per tutto ilmondo tu trovi dove imitare.»

Leonardo da Vinci

Apro il laptop, lo schermo si illumina e io inizio a digitare. Ilticchettio morbido prodotto dalle mie dita sulla tastiera simescola con il rumore proveniente dalla stanza accanto,dove la lavatrice completa un ciclo di risciacquo. È una bellagiornata di sole e ne ho approfittato per far andare iltagliaerba automatico in giardino: lui rasa il prato mentre iolavoro, così domenica avrò una cosa in meno a cui pensare.Come mi capita spesso, sono talmente assorta nel miomondo da avere completamente dimenticato che stasera hoorganizzato una cena tra amici. Di qui a breve arriveranno iprimi ospiti. Getto lo sguardo all’orologio del computer e miaccorgo che è tardi! La casa è un disastro e io devo ancoracominciare a cucinare. Ma il mio iniziale panico si placa nonappena vedo una coppia di compagni sempre fedeli: i mieirobot aspirapolvere e lavapavimenti. Possono occuparsi lorodel parquet in perfetta autonomia. Mi basta accenderli edimenticarli.

Il laptop, la lavatrice, l’auto, così come gran parte deglioggetti di più comune utilizzo che riempiono le nostregiornate, sono stati costruiti da un robot, uno di quelli grandie completamente automatizzati che hanno rivoluzionato lefabbriche e che spesso vediamo all’opera in tv, neidocumentari o durante il telegiornale, quando si parla di

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industria e sviluppo tecnologico.Sono sempre robot, più piccoli e perfettamente

«ambientati» fuori dalle fabbriche, anche il tagliaerba, lalavapavimenti, l’aspirapolvere. Proprio come Curiosity, ilrobot della NASA progettato per esplorare le terre ostili delPianeta Rosso alla ricerca di forme di vita del passato e delpresente, che dal 2012 ci invia splendide immagini di Marte.E mentre scrivo queste pagine, un piccolo plotone di robotsottomarini autonomi o controllati da remoto sta esplorandoper conto nostro un altro ecosistema che, al pari dello spazioprofondo, continua a esercitare sugli uomini, abitanti dellesuperfici assolate, un fascino magnetico: i misteriosi abissioceanici.

Come emanazioni tecnologiche dell’uomo, questi assistentirobotici arrivano dove noi non possiamo, sono i nostri occhi,il nostro braccio, le nostre gambe, perfino il nostro naso.Sono, in poche parole, uno strumento portentoso – potente edelicato allo stesso tempo – al servizio della facoltà chemeglio di tutte le altre connota, da sempre, l’essere umano:la curiosità di scoprire, conoscere e comprendere.

Tuttavia, a ben guardare, siamo ancora in attesa di queirobot che da tempo avrebbero dovuto toglierci il lavoro.Nell’edizione di luglio 2007 la rivista mensile di divulgazioneScientific American1 dedicava la copertina a un robot,accompagnato da una citazione di Bill Gates, il padre diMicrosoft, che annunciava un futuro con «Un robot in ognicasa», edizione rivista e aggiornata della sua celebre «Nelfuturo vedo un computer su ogni scrivania e uno in ognicasa», che risale all’ormai lontano 1975. Qualche anno dopo,nel marzo 2014, il settimanale inglese The Economist2

dedicava un’altra copertina all’avanzata dei robot (The Riseof the Robots), annunciando l’avvento di un mondo condivisotra questi ultimi e gli umani e argomentando sui vari aspettilegati a questo futuribile scenario. Ma allora la domandasorge spontanea. Siamo davvero così invasi dai robot? Se

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adesso ci guardassimo intorno, nelle nostre case, o uscissimoin strada, quanti robot potremmo realisticamente incontrare,anche in città metropolitane come Milano, New York oLondra? La risposta è: molto pochi. Eppure personalmentene sentirei un gran bisogno, ad esempio ogni volta che vedosituazioni di pericolo per l’operatore umano, come neicosiddetti scenari di rescue, ovvero nella ricerca della vitatra le macerie di un terremoto, oppure nelle operazioni dibonifica di aree industriali confinate in seguito a episodi didisastro ambientale. Ho citato due diversi tipi di emergenze– ma avrei potuto elencarne molte altre – ancora oggi gestiteda professionisti accompagnati, nel primo dei due esempi, dacani bene addestrati. Quanto guadagneremmo, in termini diefficienza e sicurezza, se tali interventi fossero inveceaffidati a sistemi robotici!

Ma i robot potrebbero trovare largo impiego anche in altrisettori del nostro quotidiano, come quello della gestione eraccolta dei rifiuti nelle nostre città, ancora effettuata amano da operatori, oppure nella logistica dell’ultimo miglio,ovvero nel trasferimento di merci da un hub logistico allaloro destinazione finale. Dove sono i robot? Dove sono quellemacchine autonome che dovrebbero ridurre il rischio di vitadegli uomini, ma anche aiutarci nei lavori domestici,nell’assistenza alle persone anziane bisognose di sostegno?

La strada è ancora lunga. Molto lunga. Ma il percorso,adesso, è tracciato. Questo percorso, che possiamoriconoscere come inevitabile, richiede ancora tanti sforzi daparte di scienziati e ingegneri nel progettare forme di robotpiù intelligenti e dotate di corpi più adatti a muoversi inambienti complessi, per interagire con un mondo pensato eorganizzato a misura d’uomo.

C’è bisogno di una robotica «nuova» che sappiarispondere alla necessità di costruire macchine in grado dioperare in contesti al di fuori delle fabbriche, ovvero inambienti che potremmo definire mutevoli, non strutturati equindi meno prevedibili. È con questo obiettivo che noi

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scienziati stiamo guardando al mondo della Natura conrinnovato interesse, perché gli esseri viventi sono «pensati»per reagire e adattarsi ad ambienti che cambianodinamicamente e sono dunque ottime fonti di ispirazione perle nuove tipologie di robot a cui stiamo lavorando, a cuichiediamo di assumere la forma, i comportamenti e persinole capacità di comunicazione di animali, piante, batteri.

Questa robotica, nota come bioispirata o biomimetica,3poggia le sue basi su principi sussunti dai fondamenti dellabiologia, della chimica e della fisica. Il suo avvento stacambiando il modo di osservare e studiare gli esseri viventi ele loro interazioni, per comprenderne il funzionamento esuccessivamente trasporre i meccanismi del vivente insistemi non biologici.

D’altra parte, l’intero progresso tecnologico della nostraspecie sembra essere stato concepito e sviluppato con ununico scopo: soddisfare l’inesauribile curiosità che proviamoper il mondo che ci circonda. I robot bioispirati, in questo,non fanno eccezione e sono una delle strategie più brillanticon cui stiamo testardamente perseguendo il nostro piùgrande obiettivo: strappare alla Natura le risposte cheancora si ostina a negarci.

Ma esiste un’altra faccia di questa affascinante disciplina.Poiché questi robot nascono sulla base di principi biologici,opportunamente elaborati e semplificati, essi stessirappresentano degli strumenti nelle mani degli scienziati pervalidare ipotesi sulle funzioni del modello biologico dal qualesono partiti e al quale si sono ispirati.4

Come si sviluppa il nuoto a due zampe nei vertebrati?Perché le radici delle piante crescono dalle loro punte?Come funzionano le ventose di un polpo? Come può unoscarafaggio correre più velocemente di un velocista,considerando le rispettive dimensioni? E che ruolo hanno intutto questo i robot?

Biologia e tecnologia sono legate in un circolo virtuoso di

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progresso della conoscenza che non ha fine e fa avanzareentrambe le discipline. Nel loro incontro risiedono le migliorichance dell’uomo per immaginare un futuro ecosostenibile.

È in questo mondo ancora poco conosciuto – un mondofatto di esseri viventi e di soluzioni artificiali che li imitano –che intendo condurvi nelle pagine che seguiranno. Sperandoche alla fine del nostro cammino non mi diciate, smarriticome Alice al cospetto della Regina di Cuori: «Non vicapisco, sapete, è una terribile confusione».

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Dove tutto è iniziato

«Più studio la Natura più rimango colpito con sempremaggior vigore da come i congegni e i meravigliosiadattamenti lentamente acquisiti in ogni partetrascendano in modo incomparabile i congegni e gliadattamenti che persino la più fertile immaginazioneumana sarebbe in grado di inventare.»

Charles Darwin

Al principio del diciannovesimo secolo era convinzionecomune che gli organismi viventi fossero il risultato di unaspeciale creazione. Il creazionismo, concezione filosofica oreligiosa che attribuisce l’origine del mondo e della vita a unatto compiuto da Dio, era ritenuto da molti dei più grandistudiosi dell’epoca l’unica verità esistente. Nel 1809nell’opera Philosophie zoologique, Jean-Baptiste de Lamarckformulò la prima teoria sull’evoluzione, sostenendo che lespecie originariamente presenti sulla Terra si erano andatemodificando in seguito a cambiamenti determinati dalleabitudini e dall’ambiente. La teoria di Lamarck si basava sudue principi fondamentali, ovvero le modifiche generatedall’uso e il non uso degli organi, e l’ereditarietà deicaratteri acquisiti. Secondo il pensiero lamarckiano l’usocontinuo di un organo ne determina lo sviluppo e il non usola conseguente riduzione e atrofizzazione. Inoltre Lamarcksosteneva che i caratteri acquisiti con l’uso o il non usopotessero essere trasmessi alla discendenza e quindiereditati dalla prole. Tutti noi abbiamo studiato a scuola lesue teorie secondo le quali gli antenati delle giraffe erano

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costretti a stirare il collo per raggiungere le foglie dabrucare sui rami più alti; gli effetti di quegli sforzi – intermini di allungamento del collo – sarebbero stati trasmessi,generazione dopo generazione, alla progenie chegradualmente avrebbe pertanto sviluppato un collo semprepiù lungo, fino alle dimensioni attuali. Per oltre duecentoanni la teoria di Lamarck è stata rigettata e considerataassolutamente non veritiera. Io stessa ricordo di averstudiato, a scuola, il lamarckismo come un esempio discienza ingenua, costruita su ipotesi semplicistiche.

Ma è noto che l’innovazione e l’avanzamento dellaconoscenza in tutti i campi sono il risultato di ragionamenti,ipotesi e azioni fuori dal comune pensare. Charles Darwinimpiegò oltre un quarto di secolo per pubblicare l’opera incui dava compiuta espressione a una delle più rivoluzionarieteorie mai concepite, destinata a cambiare il corso delpensiero scientifico. In L’origine delle specie,5 pubblicato nelnovembre del 1859, Darwin esordisce con l’ipotesi che lespecie odierne discendano linearmente da specie estinte,contrapponendosi alla teoria alla base del creazionismosecondo cui tutti gli esseri viventi sono stati creatiindipendentemente gli uni dagli altri. La Natura, tramiteleggi che al tempo di Darwin erano ancora sconosciute,genera variazioni e seleziona le soluzioni più adattate a unospecifico ambiente. L’umanità, fin dalla preistoria, partecipaa questo processo: con il passare del tempo, più l’uomoalleva e agisce per conservare le varianti favorevoli, più lamodifica si consolida nella direzione voluta. All’interno diuna specie le variazioni si verificano continuamente e quellevariazioni che consentono una migliore sopravvivenzadell’individuo vengono ereditate dalla prole. La prole che haereditato il vantaggio avrà maggiore probabilità disopravvivere e riprodursi a sua volta. Il principio per il qualeuna piccola variazione viene preservata se utile ed eliminatase dannosa fu denominato da Darwin «selezione naturale».

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Situazioni ambientali quali condizioni climatiche o scarsità dicibo contribuiscono al raggiungimento di un equilibrioall’interno di una popolazione.

Affermare che l’uomo è il risultato di un processoevolutivo avvenuto nel corso di milioni di anni, condizioneche del resto si applica a ogni altra specie che popoli lanostra Terra, non deve essere stato facile per Darwin.Significava affermare che l’uomo non è il re della creazione,«piazzato» nel mondo da una volontà divina, bensì unanimale tra gli animali con indubitabili affinità con il proprioantenato, la scimmia.

La genetica ha dimostrato con chiarezza che icambiamenti evolutivi conseguono a mutazioni che siverificherebbero in modo casuale, senza «tendere» versoalcuna direzione preferenziale. Alcune possono esserevantaggiose, ma la maggior parte risulta chiaramentedannosa e spesso letale, e proprio per questo non viene«conservata». Tornando al pensiero di Darwin, questogrande scienziato notò che tutte le specie animali e vegetalisono soggette a variazioni e che queste tendono a essereereditarie. Darwin ipotizzò allora che piccole differenzecontribuiscono a determinare la possibilità di un esserevivente di sopravvivere. Quelle che favoriscono lasopravvivenza sono migliorative e, se ereditate, diverrannopiù comuni nelle generazioni successive. Alla fine esserappresenteranno la condizione normale nella popolazione ecosì si sarà evoluto un nuovo carattere, ovvero una qualsiasicaratteristica di un organismo appartenente a essa.

Nuovi dibattiti scientifici hanno sollevato l’ipotesi che laselezione naturale sia tuttavia insufficiente per spiegarel’evoluzione di strutture complesse e l’emergere di nuovecaratteristiche e funzioni.

In tempi piuttosto recenti si è andata affermando unanuova area di ricerca del campo più ampio della genetica,denominata epigenetica.6 Il termine significa letteralmente

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«sopra» la genetica, per indicare una classe di modificheesterne al DNA, ovvero che non ne cambiano la sequenza mainfluenzano il modo in cui le cellule «leggono» i geni.Modificazioni epigenetiche dovute all’interazionedell’individuo con l’ambiente che lo circonda, compresi i suoistili di vita e la sua alimentazione, potrebbero quindi esseretrasmesse alla prole e valicare il confine tra le generazioni.Inoltre un buon numero di malattie umane, come cancro,disturbi cerebrali e sindromi metaboliche, sono stateassociate ad aberrazioni nei processi epigenetici.7

La teoria di Lamarck – con l’enfasi che poneva sul ruoloattivo degli organismi nel modificarsi sotto la spintaambientale e sulla ereditarietà di tali mutazioni nel volgeredi una singola generazione – è stata quindi riabilitata? Nondirei. Lamarck non aveva a disposizione gli strumenti e laconoscenza necessari per formulare tali ipotesi. Tuttavia ilsuo pensiero può essere oggi riesaminato sulla base diqueste recenti scoperte.

È proprio da qui che tutto ha avuto origine: l’osservazionee lo studio degli esseri viventi ci guidano fin dall’antichità.L’uomo ha sempre guardato alla Natura con curiosità,spesso con paura, per trovare risposte ai propri dubbi oproblemi.

D’altra parte da lungo tempo l’uomo sta passando dallafase di «oggetto» che partecipa ad «agente» che interferisce(o che è in grado, entro certi limiti, di farlo) con il processoevolutivo stesso, influenzando con le sue azioni e la suatecnologia il corso e lo sviluppo del pianeta. Che ruolo avrà –o sta già avendo – la robotica in questo scenario?

Mi piace pensare che la robotica ispirata ai principi dibase degli esseri viventi possa giocare un ruolo importantenegli anni a venire, nel promuovere un modello piùsostenibile di uso delle risorse del nostro pianeta e anchenello sviluppo di tecnologie più green. Il motto di questanuova scienza potrebbe essere «La robotica: dalla Natura

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per la Natura». Il punto non è cosa possiamo prendere dallaNatura, ma piuttosto cosa possiamo apprendere da essa.

Ma qual è il percorso da seguire e come si «interroga» ilmondo naturale per ottenere le risposte che guideranno lesfide tecnologiche di domani?

Le vie sono molteplici. Io proverò a raccontarvi la miaesperienza e come vedo il nostro futuro insieme a quellemacchine, affascinanti e un po’ misteriose, che sono i robotbioispirati.

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L’alba del terzo millennio

La storia moderna è permeata da una costante rincorsa alprogresso tecnologico, un processo a crescita esponenziale enon lineare, dunque evoluzionistico, in perfetto stilebiologico, che col tempo accelera la sua velocità diriproduzione.

A partire dalla metà del Settecento la struttura produttivae, più in generale, il tessuto socio-economico dei paesisviluppati sono stati plasmati dall’esplosione di tresuccessive rivoluzioni di volta in volta innescate daimponenti shift tecnologici: l’introduzione delle macchine avapore, l’ampia disponibilità di energia e le scopertederivanti dagli studi sulle particelle nucleari (elettronicadigitale, informatica, telecomunicazioni eccetera).

All’alba del terzo millennio stiamo prendendo parte aquella che è considerata la quarta rivoluzione industriale,dominata dai robot, dai moderni studi sull’intelligenzaartificiale e dall’Internet delle Cose (o Internet of Things),che ha dato origine a una nuova, pervasiva tecnologia,basata su dispositivi in grado di scambiarsi e trasmettereinformazioni. Se negli anni Sessanta del Novecento l’ambitoindustriale è stato il primo a beneficiare in modo massivodella forza lavoro robotica, sfruttata per automatizzare laproduzione, oggi quella fase è già storia e viviamo nell’eradei robot fuori dalle fabbriche. Questo significa che nelprossimo futuro condivideremo la nostra società con nuovi«attori». È già realtà infatti il progressivo ingresso dellenuove tecnologie di cooperazione informativa nelle «cittàintelligenti» o smart cities, negli ambienti di lavoro, nella

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vita quotidiana, finanche indosso alla persona: una nuovagenerazione di sensori in grado di misurare la nostraposizione e raccogliere un gran numero di dati su noi stessi eil mondo che ci circonda è entrata ormai a far parte delnostro vissuto. Il fine è lo sviluppo di soluzioni innovative peraspetti che investono settori cruciali nel progresso dellaciviltà umana, quali mobilità, riduzione del consumoenergetico e dell’inquinamento, miglioramento degli spazi dilavoro, offerta di servizi in ambiente domestico,monitoraggio del benessere e della salute fisica dellapersona.

L’Internet delle Cose è dunque una realtà, un palcoscenicodove si cimentano attori di differente natura tra cui, insordina, inizia a fare capolino un ospite inatteso:l’Intelligenza Artificiale (IA).

John McCarthy, inventore e pioniere americano del settoreinformatico, è noto come il padre dell’Intelligenza Artificialee ha giocato un ruolo fondamentale nella definizione delcampo dedicato allo sviluppo di macchine intelligenti.McCarthy coniò il termine nel 1955 usandolo nel documentodi preparazione della Conferenza di Dartmouth del 1956, laprima sull’Intelligenza Artificiale. L’obiettivo era quello diesplorare modi per realizzare una macchina che potesseragionare come un essere umano, capace di pensare inmaniera astratta, risolvere problemi e migliorare se stessa.McCarthy riteneva che «ogni aspetto dell’apprendimento oqualsiasi altra caratteristica dell’intelligenza può in linea diprincipio essere descritta in termini così rigorosi dapermettere la realizzazione di una macchina in grado disimularlo».8

La definizione «Intelligenza Artificiale» descrive quindiuna macchina che possa mostrare alcune forme diintelligenza – idealmente, una macchina che sappia pensare,imparare e comportarsi come un essere umano. Nessuno èriuscito a raggiungere questo scopo ultimo, almeno fino ad

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ora. Già nel 1950 Alan Turing aveva teorizzato chel’apprendimento fosse il modello da usare per trasformareun sistema semplice in uno dotato di un’intelligenza simile aquella umana.

Tra i numerosi ambiti applicativi dell’IA concentriamoadesso la nostra attenzione sulla robotica. Fino alla metàdegli anni Ottanta i ricercatori di IA per applicazionirobotiche lavoravano ponendosi l’obiettivo di creare unsistema intelligente in grado di svolgere ragionamenti di altolivello sulla base della capacità di collegare percezione eazione (il cosiddetto schema senti-pianifica-agisci). Fu ilfamoso robotico australiano Rodney A. Brooks – fondatoredelle aziende iRobot e Rethink Robotics e oggi professoreemerito di robotica al Massachusetts Institute of Technology(MIT) di Boston, di cui ha diretto l’Artificial IntelligenceLaboratory dal 1997 al 2007 – a trasformare totalmente ilcampo dell’IA introducendo un nuovo approccio definitobehavior-based, ovvero basato sul comportamento.9 Detto inestrema sintesi, il grande merito di Brooks è stato quello disciogliere gli studi sull’IA dalle pastoie di una visionedell’intelligenza molto complessa e sbilanciata sul ruolocentrale delle rappresentazioni interne, e troppo pocofocalizzata sull’importanza dei meccanismi reattivi, chesvolgono un ruolo fondamentale anche in organismi dotati dielevate forme di intelligenza. Per esempio: uncomportamento che consente al robot di inseguire una fonteluminosa in movimento può emergere dall’interazione trasensori che rispondono a stimoli ambientali, senzanecessariamente passare attraverso una pianificazionecentralizzata dell’azione.10 La robotica proposta da Brooks èalla base di applicazioni di grande successo nei settoridell’intrattenimento, dei servizi, dell’agricoltura, in campominerario e in ambito domestico. Brooks ha dato vita a robotmobili autonomi e a robot umanoidi come i robot Cog.11

Oggi informatici e ingegneri possono creare versioni

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«semplificate» di IA usando istruzioni passo passo note comealgoritmi. Diversi algoritmi consentono al computer disvolgere compiti che richiedono un determinato livello diintelligenza, come giocare a scacchi, tradurre testi da unalingua a un’altra, persino intrattenere una conversazione,seppur su tematiche circoscritte. Lo step successivo a cuistanno lavorando gli scienziati di tutto il mondo è lasimulazione del funzionamento del sistema nervoso centraledi animali complessi, come i mammiferi e, piùspecificatamente, dell’uomo. A questi studi la comunitàscientifica internazionale si riferisce con il termine di MentiArtificiali o Cervelli Artificiali, ovvero il tentativo disviluppare macchine che manifestino comportamenti simili aquelli dell’uomo, perseguendo un approccio all’IntelligenzaArtificiale detto IA forte o Strong Artificial Intelligence. Inprospettiva futura questi cervelli artificiali potrebbero esserein grado di pensare e provare emozioni, ma per il momentosiamo ancora nel campo delle ipotesi.12

Molti ricercatori impegnati nei settori dell’IA e dellarobotica ritengono che un algoritmo o un robot non potrannomai sostituire totalmente un uomo, in quanto incapaci diemulare l’empatia degli esseri umani, letteralmente lacapacità di «mettersi nei panni dell’altro», ovvero percepirele emozioni altrui come fossero le proprie.

La creatività sembrerebbe essere un’altra caratteristicache l’uomo non può condividere con il mondo artificiale. Almomento, quindi, non esistono prove della capacità di unrobot di imitare la parte più emotiva, sensibile e creativadell’essere umano. Eppure nei racconti di fantascienza ilrobot ha quasi sempre sembianze umane e spesso è statopresentato come una figura negativa, pronta a prendere ilposto dell’uomo o a distruggerlo. In Blade Runner, diretto daRidley Scott nel 1982 – film che personalmente adoro! –, RoyBatty è un replicante dotato di forza e intelligenzasovrumane. Eppure aspira a essere un uomo nonostante le

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debolezze e i difetti che riconosce nel genere umano.Quando Roy si trova a dover decidere della sopravvivenzadel suo nemico, il blade runner Rick Deckard, appeso a unatrave e in procinto di cadere nel vuoto, sceglie di salvarlo.Roy ha capito di non poter posticipare il termine dellapropria esistenza così come è stata prevista dai suoicostruttori, e con il famoso monologo «Io ne ho viste coseche voi umani non potreste immaginarvi» dedica un inno allavita e all’importanza delle esperienze fatte nel suo corso.

A partire dagli anni Quaranta Isaac Asimov fu promotoredi una figura positiva di robot, inteso come compagno di vitadell’uomo. Con la formulazione delle tre leggi dellarobotica,13 enunciate per la prima volta nel racconto Circolovizioso del 1942, poi confluito nell’antologia di Io, Robot del1950, Asimov è entrato a pieno titolo nella storia come ilpadre della fantascienza e la sua opera esercita ancora oggiprofonde influenze sulla letteratura di genere. D’altra partefinzione e realtà si sono spesso contaminate: Robbie, il primoracconto di Asimov sui robot positronici – una macchinaimmaginaria con un cervello positronico dotato diintelligenza artificiale e in grado di ubbidire alle tre leggidella robotica – fu scritto ispirandosi a un androide chel’autore aveva avuto occasione di ammirare l’anno primaall’esposizione internazionale di New York. Il primo robotindustriale, l’Unimate, fu realizzato dagli americani GeorgeDevol, inventore, e Joseph Engelberger, fisico e ingegnerenonché grande lettore di Asimov, a cui faceva risalire lapropria passione per la robotica. Insieme fondarono la primaazienda costruttrice di robot, la Unimation Inc., che avviò laproduzione in serie dei robot Unimate.

Asimov, da parte sua, aveva immaginato robot esploratoridi altri pianeti e macchine volanti. I primi sono già una realtàda anni e, grazie a questi robot, pianeti lontani e inesploraticome Marte ci sembrano ormai quasi familiari. Le macchinevolanti rappresentano la prossima sfida a cui molte aziende

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di robotica e automazione si stanno preparando e saranno abreve una realtà.

Nel prossimo futuro è indubbio quindi che uno deiprincipali e più attesi protagonisti della vita pubblica saràproprio il robot, che con la sua presenza modifica, plasma eidentifica la società contemporanea. La parola «robot»deriva dal cèco robota, che significa «lavoro forzato» o«lavoro duro». Il termine venne coniato nel 1920 dalloscrittore Karel Čapek che, nel suo dramma fantascientificoR.U.R., chiamò così degli esseri semiumani, costruitiassemblando componenti meccanici, che poi finiranno perribellarsi al dominio degli uomini.

In un’accezione moderna, la robotica è la scienza che sioccupa della costruzione di macchine dotate di capacità dimovimento, percezione e cognizione, i robot appunto, che –come abbiamo visto – sono dispositivi destinati a svolgerecompiti spesso gravosi o pericolosi, operando al servizio, purcon differenti livelli di autonomia, degli esseri umani.

I primi esemplari di robot comparvero addirittura più diduemila anni fa, progettati dal greco Erone, famosomatematico e inventore che esibì sul proscenio diAlessandria d’Egitto automi dotati di ingranaggi per ilmovimento, reso possibile e coordinato attraverso unsistema di corde e carrucole. Nel diciottesimo secolo,l’inventore francese Jacques de Vaucanson costruì un’anatrarobotica che poteva non solo muovere le ali ma anchemangiare chicchi di grano per poi espellerli. Nel 1816 loscrittore tedesco E.T.A. Hoffmann pubblicò una storiasurreale intitolata L’uomo della sabbia in cui il protagonistasi innamora di una donna bellissima di nome Olimpia, checanta e balla ma può dire soltanto «Ah, ah». La storia tra idue non finisce bene. Quando l’uomo scopre che Olimpia inrealtà è un automa impazzisce.

Pierre Jaquet-Droz è stato un orologiaio svizzero del tardodiciottesimo secolo, famoso per aver progettato e costruitobambole animate, o automi. Tra le sue opere, Jaquet-Droz

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realizzò Lo Scrivano, un automa raffigurante un giovanescalzo appollaiato su una scrivania di legno con in mano unapiuma, con tanto di calamaio e vero inchiostro. Vistodall’esterno il dispositivo appare semplice come una vera epropria bambola giocattolo. Ma al suo interno cela unameraviglia ingegneristica: seimila componenti realizzati sumisura lavorano insieme per creare una macchina dascrivere programmabile, completamente autonoma, chealcuni considerano l’antesignano del computer. L’automa èinfatti in grado di scrivere frasi complete, fino a un massimodi quaranta caratteri, imbevendo di tanto in tanto la piumanell’inchiostro e seguendo con lo sguardo e la testa ilprocedere della mano sul foglio.

Certo, i robot con cui oggi conviviamo sono molto diversida quelli progettati da Erone o immortalati nei film difantascienza. Attualmente parliamo di veicoli a guidaautonoma, dotati di intelligenza artificiale, che consentonouna totale rivisitazione del concetto di autovettura; di dronidai molteplici utilizzi; di robot assistenti in ambientidomestici e industriali; di robot chirurgici o persino daintrattenimento. Tutte queste macchine ci affiancheranno eaccompagneranno sempre di più negli anni a venire. Ma,come anticipato, la vera rivoluzione del secondo millennio èrappresentata dall’avvento della nuova branca della roboticache guarda alla Natura come modello da imitare eriprodurre. Ora comprenderemo più nel dettaglio perché.

Effetto fionda e menti collaborative

Abbiamo visto come la forte spinta all’innovazionetecnologica – che procede a ritmi di crescita esponenzialecon l’incedere del tempo –, l’Internet delle Cose, i modernistudi sull’Intelligenza Artificiale e i recenti risultaticonseguiti dalla ricerca nel settore della robotica di servizio

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rappresentino i pilastri a partire dai quali prende slancio laquarta rivoluzione industriale. Possiamo prevedere che essaavrà impatti al momento inimmaginabili sulla vita e sulbenessere delle persone, nel corso dei prossimi decenni.Stiamo per assistere a un nuovo «effetto fionda» nelpercorso di crescita del genere umano, o al manifestarsi diuna cosiddetta «singolarità» nell’evoluzione della nostraspecie14

Negli ultimi decenni – in particolare dagli anni Duemila –stiamo assistendo a uno sviluppo oltre l’immaginabile delletecnologie della comunicazione e della conoscenza. E conesse cresce la disponibilità democratica e la divulgazione abasso costo della conoscenza, uno scenario tecnologico cheha permesso l’accesso semplificato all’informazione amiliardi di persone, la creazione di reti (anche sociali)tematiche, spesso finalizzate alla collaborazione di centinaiadi migliaia, se non milioni, di esseri umani, in grado diinteragire (in tempo reale) per attività di problem solving,ricerche scientifiche e in campo clinico, nuovi sviluppiapplicativi e innovazioni radicali. Questa nuova capacità dicollaborazione ha consentito all’umanità di conseguire unrisultato che ha quasi dell’incredibile: secondo recenti studila conoscenza umana raddoppia mediamente ogni tredicimesi. È questo il frutto del superamento del modello disviluppo della conoscenza basato sul «genio isolato» (allaLeonardo da Vinci, per intenderci), a tutto vantaggio di unpiù moderno paradigma di «rete estesa di menticollaborative».

A questo scenario va aggiunto un altro importantetassello. Poiché l’essere umano non è soltanto mente erazionalità ma anche sentimento, istinto, emozioni, nel corsodegli ultimi decenni un ruolo importante nel processo dicondivisione della conoscenza a livello globale è statosegnato dall’evoluzione del concetto di trasporto dellepersone e, quindi, delle idee: l’alta velocità, i voli low cost,

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gli investimenti in moderne infrastrutture di trasporto hannopermesso di accorciare le distanze, non soltanto fisiche maanche culturali tra i popoli, consentendo di abbattere (inparte) barriere e diffidenze reciproche che in passato hannolimitato e condizionato il processo di diffusione dellaconoscenza.

In questo nuovo mondo interconnesso si inseriscono irobot ispirati agli esseri viventi, della cui natura e finalitàvedremo uno spaccato nei prossimi capitoli. Essi, sempre dipiù, andranno a interfacciarsi e integrarsi con l’IntelligenzaArtificiale. L’IA, intesa come intelligenza sintetica simulacrodell’intelligenza umana, come abbiamo visto vaconfigurandosi con un ruolo di crescente importanza nonsolo nel prossimo futuro, ma già nel presente della nostrarete estesa di menti collaborative.

I nuovi robot ispirati al mondo naturale saranno moltodiversi dai robot che Asimov ci aveva prefigurato. Intantoperché difetteranno di sentimento, istinto ed emozioni,caratteristiche fondamentali per poter utilizzare al meglio lepossibilità di interazione e collaborazione con gli esseriumani e con altri loro simili sintetici. Ciò nonostante èimportante interrogarci fin da oggi sul modo in cuiintendiamo integrarli nella società, con l’obiettivo ultimo diaumentare il benessere dell’uomo e la salubrità degliambienti in cui vive e condivide la sua esistenza con altriesseri viventi. L’uso di questi nuovi soggetti robotici poneimportanti domande sull’effetto che essi potranno produrresul progresso conoscitivo del genere umano:incrementeranno le possibilità di accesso e diffusione dinuova conoscenza, come sta accadendo con le tecnologiedella comunicazione?

Ma c’è molto altro. Sono numerose le riflessioni sugliscenari del futuro, non solo tecniche ma anche etiche, chebalzano alla mente solo guardandoci attorno.

Tino è il mio gatto, rosso e tigrato, e ha l’abitudine didormire ai piedi del mio letto, almeno fino a quando lo

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considera conforme al suo profilo psicologico della giornata.Questa mattina, alle cinque, ha deciso che era ora disvegliarsi e svegliare anche me, cosa che ha prontamentefatto con qualche colpettino ben mirato della sua testolinasulla mia guancia. Tino ha preso una decisione autonoma:era arrivato il momento di giocare e fare la sua primacolazione.

In natura noi incontriamo continuamente emozionimanifeste, autonomie di comportamento, esperienze econoscenze, pensiero razionale e libero arbitrio,consapevolezza di sé e del mondo. Sono tutte caratteristichefondanti dell’uomo ma non solo: le ritroviamo nelleespressioni di tutti gli esseri viventi, in diverse forme esecondo gradi variabili. Nel costruire le nuove macchineispirate alla Natura possiamo omettere, nel nostro ruolo discienziati, di accendere il dibattito sull’autonomia dei sistemiartificiali e di parteciparvi attivamente?

Proviamo a rifletterci insieme.

La Natura rivoluzionaria delle cose

Concepire la biologia come una fonte di ispirazione persviluppare l’ingegno umano, questo è il fine della roboticabioispirata. Già Leonardo da Vinci, come vedremo neiprossimi capitoli, applicava questo metodo alle discipline piùdiverse, dalla pittura alla progettazione ingegneristica. Lavera novità degli attuali studi sulla bioispirazione èrappresentata dal segmento tecnologico su cui si innestano:un campo di ricerca inedito, all’intersezione tra la biologia el’ingegneria, che rappresenta la frontiera su cui si testanoogni giorno nuove soluzioni per il nostro futuro e, in un certosenso, per la nostra sopravvivenza come specie.

Questo incrocio tra tecnologia e biologia, insito nellarobotica bioispirata, riassume bene anche il mio personale

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percorso formativo. Da bambina ero affascinata da tutto ciòche riguardava il mondo vivente, piante o animali, pocoimportava. In particolare, ero attratta dagli organismimarini. Ricordo che passavo ore al mare a osservare ilmovimento dei paguri sugli scogli o ad ammirare i movimentiondulatori di piccole alghe bianche, simili a minuscoliombrellini, sotto la spinta delle onde. Si chiamanoAcetabularia acetabulum, come ho scoperto più tardi.

L’Acetabularia acetabulum è un’alga che raggiunge i 5 cm dialtezza e cresce su rocce e substrati duri nei nostri mari. (©

scubaluna / Shutterstock)

Ho avuto la fortuna di crescere in un piccolo paese,circondata da animali di ogni genere. Il nostro giardino era

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una specie di zoo in miniatura: tartarughe, una grandevoliera piena di uccellini variopinti e cinguettanti, masoprattutto lui, il mio cane nero Zorro, uno splendidoincrocio tra uno spinone e un cocker, che mi haaccompagnata con la sua dolcezza fino all’età di diciottoanni. L’abitudine quotidiana al contatto col mondo naturale èstata determinante nell’orientarmi verso la biologia, quandomi sono trovata a scegliere il percorso universitario, ma fu ilcaso a pilotare la scelta del mio argomento di tesi, qualcheanno più tardi. Lessi nella bacheca del polo universitario dibiologia a Pisa un annuncio che presentava un argomentoper un lavoro di tesi a cavallo tra biologia, chimicaindustriale e ingegneria ambientale: l’impatto di inquinanti,come i metalli pesanti, sulla salute dell’uomo esull’ambiente. Eureka! Il mio interesse si acceseimmediatamente e così mi laureai con uno studio dal titoloEmissioni atmosferiche di mercurio nell’area del MonteAmiata, Italia.

È iniziato tutto in questo modo, con quel «girovagare» tradiscipline diverse che mi ha portato in seguito a interessarmiall’ingegneria dei microsistemi e, infine, molti anni dopo, allarobotica, secondo un approccio integrato che oggi non è piùun’eccezione o una bizzaria di pochi, errabondi ricercatori,ma un trend planetario. Esiste un interesse diffuso ecrescente verso la robotica bioispirata. A oggi sono oltre uncentinaio gli istituti nel mondo che si occupano di questosettore di ricerca, prendendo a modello le più disparatespecie viventi per realizzare sistemi artificiali dotati diabilità nuove rispetto a quelle dei robot esistenti.15

In un contesto di ricerca internazionale e di crescenteinteresse verso questa nuova forma di scienza applicata,ormai quasi dieci anni fa nasceva all’Istituto Italiano diTecnologia (IIT) di Pontedera, vicino a Pisa, il progetto cheha drasticamente cambiato il corso successivo della miacarriera.

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Insieme a un piccolo gruppo di studenti di dottorato ebbil’idea di prendere a modello le piante per sviluppare unnuovo tipo di robot in grado di muoversi, percepirel’ambiente, comunicare e crescere a somiglianza di questiesseri verdi. I plantoidi,16 così abbiamo denominato questirobot-pianta, di cui vi parlerò più diffusamente in seguito,stanno rivoluzionando il modo di intendere i robot: non piùsistemi dalla forma predefinita e fissata una volta per tutte,ma in grado di evolversi e mutare.

Proviamo a chiarirci le idee con qualche esempio pratico.Scendendo in giardino al mattino mi accorgo che, rispettoalla sera prima, il gelsomino è più avvolto al suo graticcio, lerose sono cresciute, l’edera ha finalmente trovato unsupporto al quale aggrapparsi. Ogni giorno queste piante –come del resto tutte le altre – modificano la loro formaperpetuando una strategia di movimento attraverso lacrescita. E così facendo si adattano all’ambiente circostante:l’adattamento, fine ultimo dell’evoluzione.

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Le piante si muovono attraverso la crescita e adattanocostantemente la propria forma all'ambiente. (© meteorite /

Shutterstock)

La capacità degli esseri viventi di adattarsi al mutare dellecondizioni ambientali è esattamente la caratteristica chevogliamo imitare e implementare nei robot di domani.Vogliamo robot che siano in grado di muoversi grazie a unprocesso di crescita continuo, per aggiunta di materiale, conuna direzionalità guidata da sensori integrati nel corpo e dacomportamenti legati a capacità di percezione dell’ambiente,proprio come avviene nelle piante.

Cosa ci insegnano le nostre amiche piante? In primis,riescono a muoversi sviluppando strategie diverse da quelleproprie del mondo animale, basate sulla contrazionemuscolare. Se osserviamo le piante che abbiamo in casa,noteremo che tendono a spostarsi verso la luce e che ognigiorno sono un po’ più grandi del giorno precedente. Ilmovimento attraverso la crescita è il processo che lecontraddistingue rispetto agli animali, i quali possonocrescere solo fino al raggiungimento della maturità, e poismettono. Le piante invece crescono per tutta la vita creandoforme straordinarie, in armonia con l’ambiente mutevole chele circonda. Ma i movimenti delle piante sono di diversi tipi,come vedremo in seguito, e tutti rappresentano possibilimodelli per nuove soluzioni robotiche.

Le piante sono anche in grado di variare la rigidità delloro corpo regolando il contenuto di acqua all’interno deitessuti. È un fenomeno che ci appare evidente quando leannaffiamo, magari dopo alcuni giorni di sole intenso. Glisteli, le foglie, i rami e i fiori precedentemente ricurvi su lorostessi per mancanza di acqua riacquistano lentamente vigoree si ergono verso l’alto. Questo spostamento, che avvienegrazie a movimenti di acqua all’interno dei tessuti vegetali,ha fornito a me e al mio gruppo di ricerca spunti interessanti

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per progettare nuovi motori a ridotto consumo energetico.Sono i cosiddetti attuatori osmotici, che presenterò nelcapitolo 13 e che sono basati su «ingredienti» molto semplicie poco costosi: acqua e comune sale da cucina.

Ancor più affascinante è il modo in cui le piante ciinsegnano che può esserci comunicazione anche senzalinguaggio, attraverso il rilascio di sostanze nell’ambiente,oppure stabilendo connessioni con altri organismi comebatteri, funghi e persino animali. Nel suolo, gli alberi e tuttele specie vegetali creano vere e proprie reti di vitainterconnessa. Attraverso il rilascio di sostanze chimiche nelterreno le piante «parlano» tra loro, comunicando adesempio situazioni di pericolo in seguito all’attacco diparassiti, con conseguente attivazione di meccanismidifensivi da parte degli altri alberi. Gli scienziati chiamanoquesta rete, formata dalle radici di ogni albero, piantaerbacea o cespuglio, Wood-Wide Web.17 Ne fa parte anche lamassa di ife fungine (ovvero, i filamenti che partono dallabase del fungo a formare il suo corpo vegetativo o micelio)che avvolge l’estremità delle radici delle piante e chefornisce agli alberi i nutrienti del terreno in cambio dizuccheri, dei quali il fungo è privo.

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Le reti formate nel sottosuolo dalle radici e dalle ife dei funghiservono alle piante per assorbire nutrienti e comunicare. (©

Oakdalecat / Dreamstime.com)

La rete sotterranea di radici funziona come una vera epropria «catena di solidarietà» tra semenzali affini. Infatti,attraverso le ife dei funghi che connettono tra loro le radici,le piante più deboli o posizionate in condizioni più disagiate,ad esempio in ombra, ricevono nutrimento da membri dellastessa specie o di specie affini; avendo meno accesso allaluce solare, queste piante producono una minore quantità dizuccheri attraverso la fotosintesi rispetto agli alberi più alti oposizionati in zone più soleggiate ma, attraverso la «rete»,riescono comunque a ricevere il nutrimento necessario allaloro sopravvivenza.

Da questa sommaria descrizione potremmo pensare che lepiante siano delle «pacifiste». Niente affatto! Esiste una vera

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e propria competizione tra piante per il territorio e le risorsedisponibili, come luce, acqua o nutrienti, fenomeno che inbiologia è noto come allelopatia.18 Per fare un esempio,alberi come il pesco, il susino o l’albicocco sono moltocompetitivi tra loro e lo sanno bene gli agricoltori chedevono considerare queste ostilità per ottenere un miglioreraccolto.

Come vedremo meglio in seguito (in particolare vi rimandoal capitolo 11, dove approfondiremo gli studi sull’intelligenzacollettiva delle piante e la cosiddetta Rete verde), lacomunicazione tra piante non avviene solo a livello radicale:ad esempio gli alberi inviano segnali nell’aria, attraversosostanze chimiche volatili. Quando parte di una pianta èinfestata dagli insetti avverte le altre foglie della stessapianta, ma anche le piante affini nei dintorni, della necessitàdi prepararsi alla difesa. Di conseguenza la consistenza e ilsapore delle foglie possono subire cambiamenti a secondadella specie vegetale, della tipologia di aggressore edell’entità dell’aggressione. È noto che gli alberi di acaciadel Sudafrica sono capaci di comunicare tra loro e di attuareun’azione comune di difesa quando sono minacciati dapredatori quali le antilopi kudu. Quando il cibo è scarso puòaccadere che le acacie siano troppo sfruttate da questierbivori. Le piante allora si «avvertono» del pericoloemettendo molecole di etilene, un gas molto leggero,incolore e inodore. Il gas si disperde e raggiunge le fogliedelle altre acacie, che danno l’avvio a una maggiorproduzione di tannino, una tossina che le rende menoappetibili e più difficili da digerire. Se la quantità di tanninoè elevata, può causare problemi di digestione alle antilopi,fino a provocarne la morte.

Queste e molte altre caratteristiche naturali,apparentemente lontane dal mondo artificiale, sono oggettodi studio da parte di ingegneri e informatici, per crearenuovi modelli di reti Internet e nuovi algoritmi di controllo

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per robot in grado di muoversi in ambienti mutevoli, comestiamo facendo anche noi a Pontedera con i nostri plantoidi.

Il capitolo 10 e i successivi ci porteranno nel cuore di unmondo artificiale totalmente ispirato ai meccanismi dellepiante di cui qui vi ho solo accennato. Ma prima di parlare diradici robotiche che crescono e materiali che si muovonopassivamente, a imitazione delle pigne, vorrei fare qualchepasso indietro.

Per questo motivo nei prossimi capitoli mi soffermerò sulconcetto-chiave della nuova robotica di cui vi hosommariamente raccontato fin qui: la biomimetica. Lo faròrichiamando alcune esperienze comuni della nostraquotidianità, perché tutti i giorni può capitare a ciascuno dinoi di usare o cogliere una soluzione «tecnica» derivata dallostudio e dall’imitazione della Natura. Semplicemente, non lariconosciamo perché non ne siamo consapevoli. Labiomimetica rappresenta un settore di ricerca assaipromettente in molti ambiti applicativi, dalla produzione dienergia rinnovabile alla medicina, dall’industria tessile aldesign, all’architettura, per arrivare ovviamente allarobotica.

Successivamente, prima di addentrarci nel mondo ancoratutto da esplorare dei robot-pianta, ci avvicineremo allarobotica bioispirata iniziando con la classe di macchine che,nel settore, oggi la fa da padrone: i robot che imitano glianimali. Vi guiderò attraverso storie e prototipisorprendenti, in una caccia al tesoro che non perderà mai divista il filo rosso della nostra ricerca: il contatto con il mondonaturale.

Entreremo dunque in questo mondo di confine tra ilnaturale e l’artificiale, con la speranza che io riesca atrasmettervi almeno una frazione della passione che nutroper questa nuova frontiera del sapere.

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Scienziati in cerca d’ispirazione

Ogni essere vivente, dal minuscolo organismo allagigantesca sequoia, contribuisce a creare il complessoinsieme di Regni che compongono la Natura. A introdurre ilconcetto di classificazione naturale come metodo percatalogare gli organismi in raggruppamenti fu Carlo Linneo(Carl von Linné), naturalista e botanico svedese che nel 1735pubblicò il Systema Naturae. Linneo, seguace delcreazionismo, credeva di classificare la creazione di Dio enon aveva sentore delle teorie evoluzionistiche che, anchesulla scorta dei suoi studi, sarebbero state proposte inseguito da Charles Darwin.

Più recentemente è stato Robert Whittaker (lo scienziato,naturalmente, non il cultore di arti marziali!) a proporre nel1965 la classificazione moderna degli organismi viventi in unAlbero che dai batteri risale fino agli animali, passando perfunghi, protisti e piante.

La varietà delle specie che popolano il nostro pianeta è unprodotto della capacità di adattamento propria di tutti gliesseri viventi. Si tratta di un processo continuo che gliorganismi attuano in risposta alla mutevolezza degliambienti in cui vivono. In oltre 3,8 miliardi di anni, permezzo della selezione naturale gli organismi viventi si sonoevoluti verso soluzioni spesso più efficienti in terminienergetici e con maggiori capacità di interazione conl’ambiente circostante. Forme, colori, strategie disopravvivenza danno origine nel loro complesso a una fucinadi varianti da sempre oggetto di studio e di ispirazione perscienziati, artisti, ingegneri e poeti. Nel campo scientifico,

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questa attività di imitazione della realtà naturale ha unnome: biomimetica, o biomimesi, una disciplina recente (ilprimo uso di questo termine risale agli anni Sessanta delNovecento) ma dall’animo molto antico, che studia la Naturacome fonte di ispirazione per l’innovazione tecnologica e ilmiglioramento delle attività umane.

L’imitazione della Natura

Osservare la Natura per fare innovazione è una praticascientifica in un certo senso ancestrale. Lo faceva giàLeonardo da Vinci, che applicava questo metodo ai campi piùdiversi, dalla pittura all’ingegneria. Studiando e ispirandosial volo degli uccelli, nel 1485 progettò un ornitottero, unamacchina volante a superficie alare battente, dotata di alicome un uccello e mossa dall’energia umana attraverso l’usodi pedali. Questa Macchina Volante, così come molti altridispositivi ideati da Leonardo, non venne mai realizzata,fermandosi allo stadio della progettazione a causa di quelloche può essere definito un gap tecnologico, ovverol’impossibilità, per il suo inventore, di avere a disposizionetecnologie, materiali, sensori, motori e forme di energiaadatti alla produzione di marchingegni così avanzati. Asostegno di tale ipotesi, qualche anno fa un gruppo distudenti dell’Università di Toronto ha sviluppato, basandosisul disegno originale di Leonardo, un aeromobile dotato diali in grado di ricreare il movimento degli uccelli e di alzarsiin volo per 19,3 secondi, percorrendo una distanza di 145metri a una velocità media di 25,6 chilometri all’ora.

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Le straordinarie invenzioni di Leonardo da Vinci nascono sempredall'attenta osservazione della Natura. (© 2018, Scala, Firenze /

bpk, Bildagentur fuer Kunst, Kultur und Geschichte, Berlin)

Con i suoi studi Leonardo rivoluzionò la tecnicadell’illustrazione anatomica umana e animale, fornendo unfondamentale contributo scientifico alla comprensione dellameccanica del corpo umano e delle sue funzioni. Sulla basedi tali studi di anatomia e cinetica, intorno al 1495 Leonardoprogettò il primo robot umanoide della civiltà occidentale,l’Automa Cavaliere, un automa di forma umana cherispettava nelle proporzioni il canone vitruviano ed era ingrado di compiere alcuni movimenti simili a quelli umani,come alzarsi in piedi, agitare le braccia, muovere la testa ed

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emettere suoni dalla bocca. Tali movimenti avvenivanograzie a un sistema di cavi al suo interno, che simulavanomuscoli e tendini, e a un apparato di manovelle per farmuovere le gambe. Non ci sono fonti che dimostrino conassoluta certezza che l’automa sia stato poi effettivamenterealizzato.

Leonardo fu anche un grande studioso di piante. Sebbenela passione per la botanica sia nata più tardi rispetto a quellaper l’anatomia degli animali, incluso l’uomo, o a quella perl’ingegneria, egli non si limitò a un uso puramenteornamentale delle piante – ritraendole per esempio neidipinti, come era consuetudine all’epoca – ma scrisse anchealcuni testi scientifici sul tema. Sebbene i fondamenti dellachimica non fossero ancora noti all’epoca – e quindi nonfosse possibile conoscere i processi alla base della fotosintesi– Leonardo ipotizzò che il sole, insieme all’umidità delterreno, fosse responsabile dell’aumento della massa delcorpo di una pianta, a conferma della sua genialità.

Altri inventori hanno scrutato il mondo della Natura percarpirne i misteri e tradurli in dispositivi, soluzioniarchitettoniche, tessuti tecnologici o altre forme diinnovazione espressiva.19 A quest’ultima categoriaappartiene uno degli esempi più celebri di bioispirazione,ovvero il monumento simbolo di Parigi, la Tour Eiffel.

La Torre fu progettata alla fine del diciannovesimo secolodall’ingegnere Gustave Eiffel, incaricato di realizzare quellache all’epoca sarebbe diventata la torre più alta del mondo.Nella realizzazione di questa straordinaria opera, Eiffel sitrovò a dover risolvere un insidioso problema di stabilità.All’epoca il materiale più resistente era ritenuto il ferro.Eiffel tuttavia si rese ben presto conto che, se avessecostruito la struttura interamente con questo materiale, latorre avrebbe corso il rischio di collassare sotto il propriopeso. Dopo alcuni tentativi infruttuosi, si lasciò ispirare nellasua progettazione da una struttura molto particolare: l’osso

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del femore umano. Capiamo insieme il perché di questascelta.

Per ideare la Torre che gli valse fama imperitura, Eiffelsicuramente si basò sui precedenti studi del paleontologotedesco Hermann von Meyer, che aveva esaminato ladistribuzione delle trabecole nell’osso del femore umano,una conformazione a nido di ape, ovvero formata da unsistema di archi e volte finemente intrecciati, la cuidisposizione segue le linee di carico a cui abitualmente loscheletro viene sottoposto, con il compito di scaricare leforze sulla sezione mediana dell’osso, quella più forte ecompatta. Questa struttura consente al femore di resistere aimpatti di molti chili – come accade per esempionell’atterraggio dopo un salto – restando al tempo stessoleggero e flessibile. Eiffel dispose quindi le sbarre di ferrodella torre analogamente ai puntelli e alle arcate del femore,in modo da scaricare le forze sulle parti più robuste dellatorre stessa, cioè le basi di appoggio.

In realtà le nostre ossa sono molto più complesse rispettoalla soluzione implementata da Eiffel, perché sonocostantemente in moto e soggette a ogni tipo disollecitazione. Cellule specializzate producono nuovomateriale osseo in risposta a uno stimolo meccanico, mentrealtre cellule degradano le parti di osso che non devonoessere irrobustite. Il risultato è una continua rimodellazionedel tessuto osseo allo scopo di renderlo più resistente, omagari più leggero dove serve, al punto che ogni dieci annilo scheletro di un individuo risulta completamenterigenerato. Attraverso un processo di astrazione esemplificazione Eiffel aveva tratto dalla Natura solo ciò chegli era necessario per realizzare un’opera unica estraordinaria.

La parola «biomimetica» (dal greco bíos, vita, e mimesis,imitazione) nasce con Otto Schmitt, brillante scienziato einventore americano, famoso per i suoi studi di biofisica ebioingegneria, due discipline al confine tra la biologia e altre

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scienze di base e applicate, come la fisica, l’ingegneria,l’informatica. Durante il suo dottorato di ricerca Otto provò asviluppare un dispositivo che imitasse il potenziale elettricodi un nervo. Nel 196920 per la prima volta utilizzò la parolabiomimetica nel titolo di un suo articolo, e nel 1974 iltermine entrò nel dizionario di lingua inglese Merriam-Webster con questa definizione: «Lo studio della formazione,struttura, o funzione di sostanze e materiali prodottibiologicamente (come enzimi o seta), meccanismi e processibiologici (come sintesi proteica o fotosintesi), allo scopo disintetizzare prodotti simili attraverso meccanismi artificialiche imitino quelli naturali».21

Da allora sono stati coniati diversi sinonimi dibiomimetica, tra i quali bionica, biomimesi, bioispirazione oaltre locuzioni che implicano l’imitazione, l’adattamento o laderivazione dalla biologia.22 Mi preme qui sottolineare unadistinzione importante, quella tra «biomimetica» e«bioispirazione», due termini che indicano un diverso livellodi imitazione del modello biologico, rispettivamente da unapproccio più fedele all’originale a uno più superficiale,meno fedele. Semplificando molto potremmo dire che labiomimetica sta alla bioispirazione come i famosi Iris diVincent van Gogh stanno a un falso di autore; oppure,muovendoci in un campo tecnologico, come una protesi dimano funzionale sta a una protesi estetica. Insomma se labioispirazione si limita a imitare l’aspetto dei modellinaturali, senza carpirne il reale funzionamento, labiomimetica studia a fondo i principi biologici dell’organismovivente scelto come modello di studio, con lo scopo ditrasformare queste caratteristiche biologiche in soluzioniartificiali.

Per semplicità, ove non espressamente indicato, nellepagine che seguiranno userò con significato ampio il termine«bioispirazione», senza distinguerlo dal campo semantico delsuo vicino di casa, la biomimetica.

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Il sonno beato del koala

Di recente mi sono recata a Brisbane, in Australia, perpartecipare a una conferenza denominata ICRA (in inglese,International Conference on Robotics and Automation), unevento annuale di grande importanza nel settore dellarobotica, che richiama da tutto il mondo ricercatori escienziati.

L’Australia per me rappresenta da sempre una meta moltoambita. Il suo richiamo è comparso spesso, nel mio passatodi studiosa di biologia marina. Questa terra così lontanadall’Italia, letteralmente all’altro capo del mondo, ha ospitatoricerche fondamentali sulle specie uniche che la popolano.La frammentazione del supercontinente Pangea, avvenutacirca centocinquanta milioni di anni fa, diede luogo allaformazione dei continenti attuali, e l’Australia si trovò isolatageograficamente dal resto delle terre emerse. Questofenomeno ha generato quello che in biologia è noto comespeciazione allopatrica. Si tratta di un processo evolutivoche porta alla formazione di nuove specie, in quanto lebarriere geografiche provocano un’interruzione delloscambio genico in una popolazione; inoltre, popolazioni chevivono in territori diversi saranno sottoposte a condizioniambientali e, quindi, a pressioni selettive differenti. Sequesto percorso si conclude con l’impossibilità da parte didue popolazioni di incrociarsi, si sarà formata una nuovaspecie.

Per questo motivo in Australia si trovano specie uniche almondo, come i monotremi, ordine che include i mammiferiviventi più primitivi – tra cui l’affascinante ornitorinco –, o imarsupiali, ai quali appartengono animali dall’aspettocurioso come i canguri e i koala. Proprio quest’ultimoanimale, che ho avuto la fortuna di incontrare durante il miosoggiorno in Australia, mi ha fatto molto rifletteresull’approccio che dobbiamo seguire nei nostri studi sullabioispirazione.

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Il koala è universalmente noto per due caratteristicheproverbiali: la pigrizia e la dieta a dir poco specializzata.Questo orsetto col marsupio, infatti, si nutre esclusivamentedi foglie di eucalipto. Non solo: esistono oltre ottocentospecie di eucalipto, ma il koala si nutre soltanto di cinquantadiverse varietà, e ciascun esemplare mostra una spiccatapreferenza per un certo tipo di eucalipto, arrivando amangiare circa mezzo chilo di foglie al giorno.

L’aspetto che più mi ha incuriosito riguarda la peculiaritàdella «scelta» alimentare del koala: le foglie di eucaliptosono infatti molto fibrose e hanno un basso potere nutritivo.Per adattarsi a questa dieta a scarso contenuto energetico ikoala hanno sviluppato uno stile di vita pigro e sedentario:arrivano a dormire fino a diciotto o anche venti ore algiorno! E, così facendo, risparmiano una gran quantità dienergia. Inoltre, grazie a un limitato tasso metabolico, il cibososta nel loro sistema digestivo il più a lungo possibile,massimizzando la quantità di energia che riescono aricavarne.

Siamo spesso portati a pensare che la Natura «produca»soltanto soluzioni ottimizzate. Da un punto di vistaartificiale, questo significherebbe potersi limitare a copiaregli esseri viventi per avere soluzioni tecnologiche efficaci esostenibili. In realtà il koala – e non è l’unico esempio sulnostro pianeta – rappresenta un bellissimo caso diimperfezione naturale, risultato del processo di selezionedelle specie. Qualora ci venisse in mente di realizzare unkoala robotico dovremmo sicuramente tenere inconsiderazione la peculiare inefficienza energetica dellaspecie, nel definire le specifiche progettuali e gli eventualiscenari applicativi.

L’approccio bioispirato, insomma, non può prescindere daun’analisi critica delle soluzioni che la Natura puòsuggerirci.

Ma torniamo al nostro koala. Perché questo animale dallosguardo tenero avrebbe scelto di nutrirsi solo di foglie di

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eucalipto? Siamo di fronte a un raro caso di schifiltositàcongenita? In realtà questa estrema forma dispecializzazione alimentare è una strategia di sopravvivenzae adattamento all’ambiente molto interessante. Nonpossedendo l’agilità degli stambecchi alpini, che rimangonosospesi su pareti verticali grazie ai loro zoccoli larghi edelastici, o la velocità di un ghepardo, che può raggiungere i100- 115 chilometri all’ora in pochi secondi, il koala competecon altre specie cibandosi di foglie velenose. L’eucaliptoproduce infatti sostanze che rendono le foglie tossiche per imammiferi erbivori e gli insetti, come forma di difesa dapredazioni eccessive. Il koala però possiede molti genidetossificanti che lo proteggono dal veleno e gli consentonodi mangiare ogni giorno fino al dieci percento del suo peso infoglie. Inoltre, questo simpatico animale ha un utilissimosuperpotere: il suo apparato gustativo e quello olfattivo sonoparticolarmente sviluppati. Un koala sa distinguere le fogliemigliori già solo ricorrendo al fiuto, e grazie alle sue papillegustative molto specializzate riesce a scegliere quelle con ilminore contenuto di sostanze tossiche e più ricche di acquae nutrienti. La possibilità di estrarre anche l’acqua dalle sueamate foglie di eucalipto offre al koala un ulteriorevantaggio: può evitare di scendere dagli alberi alla ricerca dipozze o ruscelli, divenendo così facile preda.

C’è sempre una logica a guidare e giustificare le scelteadattative di ogni essere vivente, anche quando appaionomolto stravaganti. La Natura ha già fatto tutto il lavoro,basta saperlo interpretare e imitare con giudizio.

Il Regno animale

Un bellissimo esempio di soluzione tecnologica bioispirata èrappresentato dallo Shinkansen, il treno giapponese ad altavelocità che supera i trecento chilometri orari. Il suo

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progettista, l’ingegnere giapponese Eiji Nakatsu, preseispirazione dal becco del martin pescatore, un uccellopiccolo e veloce, famoso per le sue doti di predatore. Graziealla forma appuntita e aerodinamica del becco, il martinpescatore buca letteralmente la superficie dell’acqua, agrande velocità e senza generare spruzzi. In questo modoriesce a sorprendere le proprie prede aumentando leprobabilità di riuscita della pesca.

Il martin pescatore deve il proprio successo di cacciatore alla formaaerodinamica del becco, che entra in acqua senza generare spruzzi.

(© HTU / Shutterstock)

Eiji Nakatsu focalizzò i suoi studi sulla forma della testa edel becco del martin pescatore che, nel momento del tuffo,fanno sì che la massa d’acqua non venga semplicementespinta in avanti ma scorra lungo il becco, creando quasi una

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sorta di cuneo. Questo fa sì che non si generi la pressionenegativa che è all’origine degli spruzzi. Traducendo labiologia in ingegneria, il muso del treno Shinkansen è statorimodellato in forma di becco del martin pescatore pereliminare l’improvviso aumento di pressione che si originavaogni volta che il treno entrava in una galleria e cheproduceva un terribile frastuono, udibile tutto intorno entroun raggio di diverse centinaia di metri. Risultato: la velocitàdel mezzo è aumentata del dieci percento, il suo consumoenergetico si è contestualmente ridotto del quindici e delboato da ingresso in galleria non è rimasta traccia.

Cambiando specie, alcuni anni fa un gruppo di ricercadella Alcatel-Lucent (Bell Labs) ha condotto degliinteressanti studi su una spugna tropicale, la Euplectella oCesto di Venere. Come informazione generale, le spugnesono i più primitivi tra gli animali multicellulari. Poichéquesti animali sono sessili (ovvero ancorati al suolo) emostrano movimenti di scarso rilievo, Aristotele, Plinio ealtri antichi naturalisti li consideravano parte della famigliadelle piante – ma vedremo più avanti come questa visionedelle piante sia totalmente errata! Soltanto nel 1765 lanatura animale delle spugne fu chiaramente stabilita.

Tornando alla nostra spugna, l’Euplectella vive nei fondalimarini a grandi profondità e appartiene alle spugne silicee.Cresce in forma tubulare simile a una elegante e fittagabbietta di cristallo, costruendo strutture reticolari moltoresistenti a partire da una rete di fibre vetrose contenentisilicio, lunghe qualche decina di centimetri e con undiametro pari a quello di un capello umano. I ricercatori deiBell Labs studiarono queste fibre, sorpresi dalla lorosomiglianza con i cavi di fibre ottiche di produzioneindustriale: sebbene non possedessero la trasparenzanecessaria alle moderne reti di telecomunicazioni, glistudiosi avevano infatti osservato che le strutturedell’Euplectella erano molto più resistenti alla rottura e perquesto motivo le ritennero un modello interessante cui

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ispirarsi. Inoltre, le fibre della Euplectella si formano perdeposizione chimica a basse temperature, mentre le fibreartificiali attualmente in produzione devono essere realizzatein fornaci ad alte temperature (fino a duemila gradicentigradi), con un elevato dispendio economico edenergetico. La bioispirazione offre dunque una soluzionetecnologica molto meno inquinante e più sostenibile da unpunto di vista ambientale. Tuttavia la produzione perdeposizione successiva di materiale richiederebbe tempitroppo lunghi – che la Natura può permettersi, ma un cicloproduttivo industriale no – elevando di conseguenza i costi diproduzione. Le fibre ottiche bioispirate sono ancora a unlivello di maturità tecnologica teorico-sperimentale, marappresentano un’interessante dimostrazione di come nuoveidee applicative possano prendere forma partendodall’osservazione di una tra le infinite forme viventi presentisul pianeta.

Sempre dal mare arriva un altro invertebrato protagonistadi un affascinante caso di bioispirazione a cui ho presopersonalmente parte. Intorno al 2010 con il mio team dell’IITdi Pontedera lanciammo una nuova linea di ricerca cheprevedeva lo sviluppo di ventose artificiali realizzate inmateriali morbidi. Le ventose sono largamente utilizzate inambito industriale per la manipolazione di oggetti fragili (adesempio larghe lastre di vetro), ma anche in campo roboticoper la realizzazione di robot in grado di arrampicarsi susuperfici verticali. Tra i molti esseri viventi ai quali cisaremmo potuti ispirare, la nostra scelta ricadde su unmisterioso abitante dei fondali marini: il polpo.

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La maggior parte dei neuroni del polpo sono distribuiti nelle sueotto braccia, che il mollusco usa per esplorare, manipolare oggetti

e spostarsi. (© Barbara Mazzolai)

Il comune polpo (Octopus vulgaris) è un invertebrato – unmollusco, per la precisione – con caratteristichestraordinarie in termini di capacità di manipolazione,locomozione, percezione dell’ambiente e intelligenza, che lorendono un modello eccellente per la realizzazione di nuovidispositivi. Noto (ahimè) soprattutto per la sua bontà incucina (che ne sta mettendo a rischio la sopravvivenza),questo animale è in realtà assai peculiare per la totaleassenza nel suo corpo di strutture rigide, scheletriche; ciò gliconsente di comprimersi ed entrare anche nei pertugi piùangusti, senza alcun danno agli organi interni. Al tempostesso, il polpo può compiere movimenti diversi contraendoselettivamente i muscoli che costituiscono le sue otto

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braccia, riuscendo ad allungarle e piegarle in ogni direzione,ma anche a nuotare, «camminare» sul fondale, afferrareoggetti e prede. Ma il dato più sorprendente è che il polpoha all’incirca cinquecento milioni di neuroni, la maggiorparte dei quali distribuiti nelle sue otto braccia. Gli umani nehanno molti di più – qualcosa come cento miliardi – ma nellascala di «equipaggiamento neuronale» il polpo si trovacomunque alla pari di animali tradizionalmente consideratiintelligenti, come i cani, e possiede il sistema nervoso piùsviluppato tra gli invertebrati conosciuti.

Per completare questo quadro stupefacente, aggiungo chesulle braccia del polpo si trovano disposte una o due file (aseconda delle specie) di ventose, che gli consentono diaderire a qualunque superficie, anche la più ruvida oirregolare. Servendosi dei sensori connessi a ciascunaventosa il polpo perlustra l’ambiente circostante epercepisce la presenza di prede o predatori, afferra emanipola oggetti.

Lo studio dell’anatomia e delle caratteristiche meccanichedei materiali che compongono le ventose del polpo è stato ilpunto di partenza del nostro lavoro. Le nostre ventoseartificiali riproducono le caratteristiche del polpo che hodescritto prima: come quelle naturali aderiscono a ogni tipodi substrato, consentendo allo strumento utilizzato percondurre i nostri esperimenti di afferrare oggetti, anchemolto delicati, senza danneggiarli.23 Si tratta dunque disoluzioni tecnologiche che possono trovare utili applicazioniin ambienti industriali o domestici, e possono inoltre essereintegrate in robot pensati per compiti di manipolazione o dimovimento in ambienti ristretti.

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Le ventose artificiali realizzate all'IIT, come quelle naturali delpolpo, sono strutture cave e rugose che aderiscono a ogni

superficie. (© Francesca Tramacere @CMBR IIT)

Se da una parte abbiamo sviluppato soluzioni artificialimorfologicamente e funzionalmente identiche a quellenaturali, dall’altra il lavoro di ricerca ci ha condotti ascoprire aspetti che non erano ancora mai stati osservati inbiologia. I nostri risultati si sono rivelati fondamentali per ladecodifica del meccanismo biologico di adesione e distaccoda una superficie e la conseguente traduzioneingegneristica. Nonostante infatti la comunità scientificafosse ormai universalmente concorde in merito all’anatomiadella ventosa del polpo, le nostre ricerche ci hanno fin dasubito stimolato a riporre l’attenzione su un aspettotutt’altro che risolto. La parte interna della ventosa – che erastata descritta come una struttura cava, liscia e senzaasperità – era in realtà una struttura sì cava, ma moltorugosa. Sulla base di queste nuove conoscenze, abbiamo

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voluto «riscrivere» lo stesso meccanismo di adesione delpolpo dando un ruolo ai vari componenti anatomici e unarisposta su come faccia questo animale a rimanere attaccatoalle superfici per tempi molto lunghi, con un consumoenergetico ragionevolmente in linea con il propriometabolismo. È questo un ottimo esempio di retroazionecognitiva, in cui studi in campo ingegneristico e tecnologicoportano a scoperte in ambito biologico.24

Altre interessanti scoperte sui polpi sono giunte da ungruppo di scienziati israeliani e americani coordinati daBinyamin Hochner e Frank Grasso.25 Nel 2014 questogruppo di ricercatori ha dimostrato che il polpo possiede unmeccanismo di autoriconoscimento che impedisce alleventose di attaccarsi al corpo e quindi all’animale diannodarsi su se stesso. La scoperta è il risultato di test dilaboratorio condotti su braccia amputate. Non è infrequenteche in natura i polpi «perdano» un braccio, magari a operadi predatori che amano cibarsi di questo morbido mollusco.Il braccio, una volta staccato dal corpo, rimane in grado dimuoversi o afferrare gli oggetti per circa un’ora. Nel corsodell’esperimento in laboratorio, si è scoperto che le ventosenon si attaccano al braccio stesso, né ad altre parti dellostesso individuo, a patto che la superficie della pelle siaintatta. Questo meccanismo, una volta compreso in manieraapprofondita da un punto di vista biologico, potrebbe essereutile anche per implementare controlli nelle nostre ventoseartificiali. Ad esempio potremmo immaginare arti roboticiflessibili, dotati di molte ventose, con applicazioni nelrecupero di oggetti in zone inaccessibili, come i pozzi.Integrando negli arti i controlli ispirati alle strategie diautoriconoscimento del polpo sarebbe possibile impedire alleventose di aderire all’arto stesso, anziché all’oggetto darecuperare, aumentandone notevolmente l’efficacia.

In collaborazione con l’Università Cornell situata a Ithaca,nello stato di New York, recentemente abbiamo sviluppato

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una nuova pelle artificiale, anch’essa nata dallo studio delleproprietà della pelle del polpo.26 Le capacità di mimetismodei cefalopodi, molluschi ai quali appartengono polpi, seppiee calamari, sono ben note. I polpi riescono ad assumere nonsoltanto la colorazione delle strutture o superfici che licircondano e con le quali entrano in contatto, ma addiritturala loro forma. Esiste una specie di polpo, il Thaumoctopusmimicus, volgarmente noto come polpo mimetico, che si èspinto oltre! Questa creatura riesce a imitare l’aspetto e lalocomozione di oltre quindici differenti animali tra i qualiserpenti di mare, pesci leone, sogliole, stelle marine,lumache, meduse e granchi giganti.

Pur essendo ancora lontani dal raggiungere talecomplessità e bellezza, con i colleghi americani abbiamoimitato i tessuti della pelle dei cefalopodi, in particolare deipolpi, caratterizzati da un’elevata flessibilità ed estensibilità.Tali caratteristiche biomeccaniche, insieme alla capacità diemettere e assorbire luce e rispondere agli stimoli tattili,sono state le specifiche necessarie per realizzare il tessutoartificiale.

Grazie alla composizione dei materiali utilizzati, questapelle artificiale elastica può estendersi fino a quasi cinquevolte le proprie dimensioni e si illumina con diverse intensitàquando viene deformata. Pensando in termini pratici, lanostra pelle «polpo-ispirata» potrebbe essere utilizzata percreare display tattili soffici per smartphone e personalcomputer di nuova generazione, nei quali le diversefunzionalità siano associate alla variazione dei colori e dellepressioni applicate.

Lasciando il mondo degli abissi marini e inoltrandoci sullaterraferma incontriamo un altro stupefacente esempio dibioispirazione tratto dal mondo animale: il Geckskin, uninnovativo scotch definito «il nastro adesivo che siarrampica». Il Geckskin imita un grande arrampicatore, ilgeco, e proprio come lui riesce a aderire alle pareti verticali,

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si attacca a ogni tipo di superficie, dalle porte in legno aipilastri di cemento, può essere riutilizzato molte volte eregge fino a trecento chili di peso. Come funziona questoscotch miracoloso che non usa collanti di alcun genere? Iricercatori Alfred Crosby e Duncan Irschick hanno studiato igechi per vent’anni, in cerca del segreto che li rende capacidi imprese a dire poco singolari. Pensate che un geco puòraggiungere una velocità contro la gravità, mentre siarrampica sui muri, di circa trenta passi al secondo; siattacca alle superfici in otto millesimi di secondo e si staccain sedici.27

Da dove si originano queste straordinarie capacità?Semplicemente dall’organizzazione gerarchica dellestrutture che ricoprono la superficie delle cinque dita dellazampa del geco. L’avvento del microscopio elettronico haconsentito agli scienziati di visualizzare questa peculiareanatomia, non visibile a occhio nudo o con un sempliceingrandimento. Ogni dito di un geco contiene lamelleformate da centinaia di migliaia di microscopici peli chiamatisetae, a loro volta formati da migliaia di strutture dettespatulae. Queste ultime permettono ai gechi di penetrarenelle asperità e nelle fessure, massimizzando il contatto chestabiliscono con la superficie e generando deboli forzeattrattive intermolecolari, denominate di van der Waals.28

Ma come fa il geco a staccarsi altrettanto velocemente?Fondamentale a tale scopo è l’angolo che la spatula formacon la superficie. Quindi, adesione e distacco avvengonograzie a una specifica struttura anatomica e alla lorocapacità di interazione con l’ambiente esterno.

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Le «armi segrete» del geco sono i microscopici peli dalla strutturagerarchica sulle dita, e la coda che l'animale usa come contrappeso

per stabilizzarsi. (© Mr. B-king / Schutterstock)

Questo miracolo della Natura è oggetto di studio e fonte diimitazione anche in robotica dove, come vedremo nelcapitolo 5, si stanno realizzando macchine in grado dimuoversi come il geco, da utilizzare nell’esplorazione diambienti naturali di difficile accesso.

Gli esempi di bioispirazione animale che abbiamoincontrato in questo capitolo sono soltanto alcuni tra inumerosi risultati conseguiti dalla ricerca internazionaleutilizzando un approccio ispirato alla Natura. La selezionerispecchia, ovviamente, i miei gusti e interessi personali.Con lo Shinkansen abbiamo visto come l’imitazione di unaspecifica caratteristica anatomica possa generare soluzioniinnovative: in quel caso uno stupefacente treno ad altissimo

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tasso tecnologico. D’altra parte, sia la ventosa del polpo, siale dita del geco dimostrano che dall’attenta analisi distrategie naturali particolarmente efficienti è possibile trarreimportanti insegnamenti per risolvere problemi concreti:nello specifico, aderire alle superfici in modo stabile e sicurosenza usare additivi chimici.

Ma se vi ho parlato proprio di questi animali – il martinpescatore, ma anche il polpo e il geco – è perché li trovo, adispetto di ciò che si potrebbe pensare in prima battuta,affascinanti e carichi di misteri ancora irrisolti riguardanti illoro «funzionamento». La scienza ha ancora molte sfide daaffrontare nello studio di questi esseri viventi. Noi ingegnerirobotici attendiamo fiduciosi che i nostri colleghi scienziatiottengano nuove conoscenze biologiche. Per quanto ciriguarda, cercheremo di contribuire a questo processo dievoluzione del sapere, pronti a tradurre nuovi principibiologici di base in moderne tecnologie al servizio dell’uomo.

Il Regno vegetale

Non solo gli animali ma anche le piante sono presenti inquesta sfida all’imitazione. Esseri viventi di grande eleganzache, con il loro fascino discreto, suggeriscono sofisticateinnovazioni, le piante rappresentano la nuova sfidascientifica e tecnologica che mi sono posta, ritenendole unafonte inesauribile di idee per creare nuovi materiali edispositivi al servizio dell’uomo.

La mia passione per il mondo vegetale è condivisa da tantiscienziati e innovatori del passato e del presente. Mi piacericordare Sir George Cayley, un nobile inglese vissuto tra il1773 e il 1857, considerato il padre dell’aeronauticabritannica per aver progettato numerosi velivoli. A lui sideve il primo concetto di biplano, triplano e perfino unasorta di pionieristico elicottero. Inventore vulcanico, è

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famoso per aver tratto ispirazione, nella realizzazione deisuoi velivoli, dall’osservazione delle forme e delle strategiedi movimento degli esseri viventi.29 Studiando le strategie didispersione dei frutti e dei semi di Tragopogon pratensis,una pianta erbacea comunemente nota come barba di becco,Cayley progettò addirittura un paracadute. I frutti di questapianta sono fusiformi e hanno una struttura, denominatapappo, composta da barbe piumose e intrecciate che lirendono perfetti per essere trasportati lontano dalla piantamadre (disseminazione anemocora). Funzionano, in pratica,come un paracadute: la Natura li ha progettati permassimizzare la resistenza aerodinamica e aumentare lacapacità di volo orizzontale. L’analisi strutturale del pappoha rivelato un’organizzazione leggera fatta di fibre cavedisposte in fasci per comporre uno scheletro di supporto. Lecellule si staccano dai fasci per creare un tessuto sottile eintricato che forma il paracadute stesso. La disposizionedelle fibre nel Tragopogon costituisce un tessuto complessoche a quanto sappiamo è del tutto unico: grazie allenervature principali che offrono solidità alla struttura, e allepiccole fibre che la rendono permeabile, la barba di beccorisulta nel suo insieme anch’essa permeabile, solida esoprattutto leggera.

Un altro interessante esempio di velivolo ispirato allepiante è rappresentato dal monoplano, un aeroplano chedispone di una sola ala, progettato da Igo Etrich, ingegnereboemo con la passione per l’aeronautica. La pianta inquestione è la Zanonia macrocarpa, una liana tropicale cheproduce semi di forma alare, ha estremità flesse verso l’altoe una linea molto appiattita, somiglia insomma a un veroaliante in miniatura. Grazie a questa struttura il seme simuove nell’aria come una farfalla in volo: guadagna altezza,si blocca, discende e accelera, producendo ancora una voltaun sollevamento, simile a un processo che nel linguaggioaeronautico viene chiamato moto fugoide, ovvero, secondo la

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definizione che ce ne offre l’Enciclopedia Treccani: «il motodel velivolo in un piano perpendicolare al suolo sotto l’azionedelle sole forze aerodinamiche e di gravità, escluso ogniintervento del pilota».

Venuto a conoscenza dell’esistenza della Zanonia e dellapeculiarità dei suoi semi, Etrich ne rimane affascinato erealizza prima alcuni modelli in carta di questo aliantenaturale, di dimensioni ridotte, poi riproduzioni in scala viavia maggiore fino a raggiungere qualche metro di aperturaalare. Nel 1907 costruisce il primo prototipo funzionante dialiante e lo battezza Taube («colomba» in tedesco). Il primovolo è datato 1910.

In realtà, molti sono gli esempi di bioispirazione al regnovegetale che hanno portato innovazione in disparati settoriapplicativi. Tra questi, due casi molto noti sono quelli delVelcro e dell’Effetto Loto, ispirati rispettivamente alle pianteArctium lappa, nota come bardana maggiore, e Nelumbonucifera, ovvero il fior di loto.

L’invenzione del più celebre sistema di chiusura a strappomai creato dall’uomo si deve alla fervida osservazione di uningegnere svizzero, Georges de Mestral, che portando aspasso il suo cane notò come gli uncini di bardanarimanessero attaccati al manto dell’animale in modo quasiinestricabile. Da bravo ricercatore si mise a osservare lestrutture al microscopio e ne imitò le funzionalità, ricreandoartificialmente da una parte il pelo del cane e dall’altra gliuncini della pianta. Aveva inventato il Velcro, una dellesoluzioni adesive industriali più utilizzate al mondo. Il 15ottobre 1952 Georges de Mestral depositò la proposta dibrevetto americano per «un tessuto tipo velluto» che lo resericco e famoso nel mondo.

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L'ingegnere svizzero Georges de Mestral si è ispirato all'Arctiumlappa, o bardana maggiore, nell'ideare il Velcro{{x00AE}}. (©

LutsenkoLarissa / Shutterstock)

Il fiore di loto è stato invece studiato per via delle sueproprietà super-idrofobiche, in quanto le sue caratteristiche

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foglie dalla forma larga e tondeggiante e dall’aspetto quasivellutato, sono assolutamente impermeabili e autopulenti,tanto che, come vi sarà capitato di osservare, risultanosempre perfettamente pulite, nonostante il loto viva in acquestagnanti. Il segreto sta nella rugosità gerarchica e nellageometria strutturale delle foglie, ricoperte da nanocristallidi cera idrofobica. Le goccioline di acqua scivolano sullasuperficie della foglia portando con sé anche sporco eparticelle. Esistono molte piante con queste caratteristiche,ma il loto è quella che le esprime al meglio. Partendo daquesta proprietà biologica sono state sviluppate disparatesoluzioni tecnologiche, dalle vernici autopulenti per facciate,a tessuti perfettamente impermeabili, in grado di scrollarevia acqua e particelle di cibo.

La superficie super-idrofobica e idrorepellente delle foglie di loto fasì che l'acqua scivoli portando via con sé anche lo sporco. (©

Michael Steden / Dreamstime.com)

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Studiare i risultati dell’evoluzione naturale per risolvereproblemi ingegneristici legati all’attività umana ci insegnainnanzitutto a guardare con attenzione il mondo che cicirconda. L’osservazione rappresenta non a caso il primopunto del metodo scientifico che Galileo Galilei ci ha lasciatoin eredità. Fisico, astronomo, filosofo e matematico, padredella scienza moderna, tra le tante cose Galileo ci hainsegnato che l’acquisizione di conoscenza è il motore cheinduce l’uomo a spingersi sempre un passo oltre ciò che ènoto. Attraverso il metodo sperimentale ci ha mostrato comela scienza debba procedere verso la conoscenza in manieraoggettiva, affidabile, verificabile e condivisibile. Attraversola sua emblematica esperienza di uomo ci ha insegnatol’importanza della determinazione e della fiducia nelleproprie idee, quando queste sono portate avanti con onestàintellettuale e prove oggettive.

Un mio grande amico, eccellente pittore e scultore, mi hainsegnato che un artista deve osservare il mondo con occhi«diversi», non si deve accontentare di un semplice sguardo,perché la luce che colpisce gli oggetti dona loro unmovimento e un’anima propri.

Diceva Pablo Picasso che «ci sono pittori che dipingono ilsole come una macchia gialla, ma ce ne sono altri che, con laloro arte e intelligenza, trasformano una macchia gialla insole».30

Io credo che sia proprio questo sguardo diverso – curiosoe mai sazio – il giusto modo di osservare gli esseri viventiche ci circondano, per poterli comprendere davvero edunque imparare anche a imitarli.

La Natura può insegnarci tanto, basta guardarla con occhidiversi, cercando la luce speciale che la rende unica. Eimparare a rispettarla.

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Nel laboratorio della Natura

Abbiamo visto come la Natura sia maestra nel generare ideee soluzioni innovative capaci di migliorare la qualità dellanostra vita. Nell’era dei robot fuori dalle fabbriche, tuttoquesto si traduce in una felice convergenza tra robotica ebiologia: correre velocemente come un ghepardo, volarecome un insetto, muoversi con naturalezza in ambientiimpervi e in condizioni proibitive per l’essere umano sonosolo alcuni degli obiettivi propri dei robot bioispirati.

Come si è visto nel capitolo introduttivo, l’ispirazionebiologica è il fattore che principalmente connota e distinguele ricerche nell’ambito della robotica. Storicamente moltidegli studi in questo settore hanno interessato robotmodellati sulle abilità degli animali di muoversi e operareefficacemente nel loro ambiente: gli animaloidi. Il mondodella robotica bioispirata annovera tra i suoi modelli un veroe proprio zoo: insetti, polpi, gechi, salamandre, pesci, cani e,ovviamente, l’uomo.

Osservando il mondo animale con altri occhi possiamosvelare quei segreti che ancora ci tiene nascosti. Lo studiobiorobotico lo ha dimostrato: scandagliare i meccanismiprofondi degli organismi biologici con lo scopo di imitarne ilfunzionamento fa progredire la conoscenza in entrambe lediscipline, la biologia e la robotica. Gli esempi virtuosi in talsenso sono molti e alcuni, più di altri, sono particolarmentesignificativi anche perché derivano dalla collaborazione discienziati e ingegneri che insieme affrontano la complessitàdella Natura per «regalarci» soluzioni artificiali totalmentenuove.

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Un esempio interessante di questo approccio è il robotinsetto sviluppato dal gruppo di ingegneri diretti da MarkCutkosky dell’Università di Stanford, in California, incollaborazione con Robert Full, un biologo dell’Università diBerkeley, anch’essa californiana. Per i loro studi questi duescienziati hanno scelto un insetto poco amato ma dotato dicaratteristiche che lo rendono interessante all’occhio delrobotico e al tempo stesso del biologo, lo scarafaggio. Adesempio lo scarafaggio sa muoversi velocemente su terreniimpervi ed è capace di raggiungere velocità elevatemantenendo un’alta stabilità. La Periplaneta americana puòraggiungere velocità superiori a cinquanta volte la lunghezzadel suo corpo al secondo – 1,5 metri al secondo. Pensate cheUsain Bolt, il famoso velocista che ha percorso i cento metriin 9,58 secondi raggiungendo il record di circa 10,44 metrial secondo, è arrivato a toccare una velocità pari «solo» acirca 5,35 volte la lunghezza del proprio corpo. LaPeriplaneta americana «supera» Bolt di circa dieci volte!Un’altra specie di scarafaggio, il Blaberus discoidalis, ècapace di attraversare terreni accidentati con ostacoli altitre volte l’altezza del suo centro di massa, senza cadere.

Partendo da queste osservazioni, Cutkosky e Full,piuttosto che copiare ogni singolo dettaglio morfologico ofisiologico dello scarafaggio, hanno indagato sui principi allabase di una determinata funzione per poi tradurli in unanuova soluzione tecnologica. Complicato? Sì, un po’ lo è.Proviamo a ragionare attraverso degli esempi. Un principioche fa apparire lo scarafaggio utile per progettare robotesapodi veloci, stabili e capaci di correre è la sua posturaautostabilizzante, ovvero la capacità di non perderel’equilibrio nel momento in cui è «disturbato», ad esempio,da un terreno accidentato o dal contatto con l’esterno. Comefa lo scarafaggio a mantenere la stabilità anche in condizionidifficili? La risposta sta nella posizione delle sue zampe,generalmente rivolte verso l’esterno, in modo da fornirgliun’ampia base di supporto. Il centro di massa o baricentro

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dello scarafaggio è spesso così basso che il suo corpo tocca ilterreno. La postura con le zampe rivolte all’esterno riduce lapossibilità che le forze di contatto tra le zampe e l’esternoprovochino un ribaltamento del corpo. La stabilità èaumentata dal movimento a tripode, svolto da tre zampe (laprima e l’ultima di un lato e la mediana dell’altro). Le zampeinoltre hanno funzioni diverse: quelle anteriori servono perdecelerare, quelle posteriori per accelerare, le zampemediane possono accelerare o decelerare.

Un’altra caratteristica fondamentale che rende loscarafaggio un corridore formidabile risiede nellacedevolezza ed elasticità delle articolazioni delle zampe,ovvero le connessioni tra i segmenti che le compongono, cheforniscono un’immediata risposta alle perturbazioni senza ilritardo dovuto ai riflessi nervosi. In condizioni normali,l’animale si adatta automaticamente e in maniera passiva alsubstrato su cui si muove, mostrando robustezza alleperturbazioni. Soltanto nel momento in cui si verificanosituazioni impreviste (come un ostacolo troppo alto dasuperare o un terreno molto accidentato) intervengonoinformazioni sensoriali elaborate dal cervello dell’animale,che riduce la sua velocità per concentrarsi sul problema darisolvere.

Partendo da queste caratteristiche Mark Cutkosky harealizzato una famiglia di robot scarafaggi denominati i-Sprawl:31 robot esapodi del peso di circa trecento grammi,completamente autonomi, pilotati da motori elettrici e dacavi tiranti flessibili. Come l’animale, anche i-Sprawl siadatta dinamicamente all’ambiente esterno raggiungendouna velocità per secondo che supera di quindici volte lalunghezza del suo corpo (2,3 metri al secondo).

A cosa serve i-Sprawl? Da un punto di vista biologicoquesto piccolo robot ha contribuito ad approfondire i principidi funzionamento dell’animale preso a modello. Infatti,essendo il robot dotato di un corpo soggetto alle stesse

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condizioni ambientali che influenzano il corrispondentemodello biologico – ad esempio la gravità, o l’asperità delterreno – esso rappresenta un’ottima piattaforma perconfrontare le caratteristiche del naturale e dell’artificiale.Potremmo dire che il biologo usa il robot per rispondere invia sperimentale a quesiti scientifici sul funzionamentodell’animale che, diversamente, non riuscirebbe a risolvereavvalendosi soltanto della pura osservazione o dello studiodel suo comportamento. Ma non dimentichiamo che il robotha anche un preciso scopo applicativo: pur trattandosi di unprototipo di laboratorio, quindi non ancora disponibile sulmercato, i-Sprawl, equipaggiato con una telecameraminiaturizzata, potrebbe essere utilizzato per monitorareambienti angusti, ostili o di difficile accesso, obiettivo cheaccomuna diversi altri robot insetti sviluppati da svariatilaboratori di ricerca in tutto il mondo.

Dall’acqua arriva invece il secondo robot animaloide di cuivoglio parlarvi in questo capitolo. Si tratta di un robot-pescesviluppato recentemente a scopo esplorativo al MIT diBoston. Gli attuali prototipi robotici non forniscono soluzioniadeguate per lo studio della vita marina in habitat naturali,se non attraverso piattaforme rigide o molto ingombrantiche, a causa di queste caratteristiche fisiche, rischierebberodi danneggiare organismi animali e vegetali dei fondali neltentativo di esaminarli da vicino (pensate alla delicatezza diun ambiente come quello della barriera corallina!). Il nuovorobot-pesce del MIT, chiamato SoFi (Soft Robotic Fish),32

rappresenta il risultato di anni di studi e tentativi in questoambito di ricerche. I modelli precedenti infatti potevanonuotare solo in acque poco profonde ed erano privi dicontrollo remoto. SoFi invece ha un corpo e una pinnaformati da materiali morbidi con caratteristiche più simili aquelle naturali, che gli consentono un moto sinuoso esilenzioso. Il robot è in grado di nuotare per monitorare e

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registrare continuamente la vita acquatica con cui condividegli spazi. È dotato di una telecamera per osservarel’ambiente circostante e, grazie a un modulo dicomunicazione acustica miniaturizzato, può essere diretto daun subacqueo e ricevere comandi relativi alla velocità,all’angolo di virata e all’immersione verticale dinamica. SoFiè già stato testato lungo le barriere coralline nell’OceanoPacifico: i pesci robotici possono immergersi con successo aprofondità fino a diciotto metri e sono in grado dimimetizzarsi efficacemente tra i pesci «veri» che popolanoquesti ecosistemi ricchi di vita e di colori. Questo vuol direche SoFi potrà essere utilizzato in futuro per studiare leinterazioni tra vita acquatica e dinamiche oceaniche.

Un altro straordinario animaloide che viene dal mare èOCTOPUS,33 il primo «robot soffice» mai realizzato (dellasoft robotics, la branca della robotica di cui mi occupo,parleremo più approfonditamente nel prossimo capitolo),ispirato al polpo e sviluppato proprio in Italia da un gruppodi ricercatori, del quale facevo parte, coordinato da CeciliaLaschi della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.

Del polpo e delle sue eccezionali capacità di mimetismo,esplorazione e intelligenza distribuita nel corpo abbiamoparlato nel capitolo precedente, dunque non vi sorprenderàche la scelta sia caduta proprio su questo straordinariomodello biologico. OCTOPUS è un robot in silicone a ottobraccia ed è in grado di muoversi e agire in acqua propriocome l’animale dal quale è ispirato. In particolare il robotpossiede la capacità – propria anche dei polpi reali – diallungare ogni braccio più del doppio rispetto alla loromisura a riposo.34 Il polpo usa abitualmente questastrategia, ad esempio quando rimane al sicuro dentro la suatana e allunga un solo braccio all’esterno per afferrare unoggetto, come una conchiglia destinata ad abbellire il suoterritorio, o per esplorare l’ambiente circostante. Un bracciorobotico con simili caratteristiche potrebbe avere

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applicazioni pratiche inimmaginabili: potrebbe essereimpiegato all’interno di pozzi o condutture, perl’esplorazione e il recupero di oggetti, così come per lamanipolazione in ambienti industriali.

Il braccio del robot OCTOPUS, come quello del polpo, si allunga piùdel doppio rispetto alla sua posizione a riposo. (© Istituto di

Biorobotica, Scuola Superiore Sant'Anna)

Il piccolo scarafaggio robotico di Cutkosky e Full, SoFi,OCTOPUS e gli altri animali robotici che incontreremo neiprossimi capitoli hanno tutti qualcosa in comune: la doppianatura di piattaforme di studio e di macchine con specifiche

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destinazioni d’uso. Questo abbraccio tra biologia etecnologia rappresenta la vera essenza della bioispirazionein robotica, oltre che un formidabile fattore di accelerazionenell’accrescimento delle nostre conoscenze sul grandelaboratorio della Natura. Ma possiamo spingerci oltre? Lericerche sugli animaloidi si fermano sulla soglia dellabioispirazione, oppure siamo riusciti a progredire nellenostre conoscenze, in ottica biomimetica? È ciò chescopriremo insieme nel prossimo capitolo.

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Di salamandre, plesiosauri e altri animali fantastici

I robot animaloidi realizzati dall’uomo in decenni di ricercasono troppi per elencarli tutti. Qui mi limiterò a presentarviuna breve e spero curiosa galleria di «casi» che,particolarmente interessanti per il modello biologico scelto eper la sua implementazione artificiale, raccontano eillustrano meglio di lunghe spiegazioni teoriche che cosaintendiamo quando parliamo di robotica biomimetica.

La tartaruga marina e il giallo evolutivo

Gli studi di John Long del Vassar College sono per me unacostante fonte di ispirazione. Long è un biologo diformazione e il suo lavoro fornisce spunti interessanti sucome sviluppare robot con funzionalità ispirate alla Naturache, in un perfetto circolo virtuoso, oltre ad assolvereprecise attività, aiutino i ricercatori a capire l’origineevolutiva stessa del modello biologico imitato.

Uno dei robot più interessanti ideati da Long si chiamaMadeleine e la sua principale novità è lo scopo per cui èstato costruito: testare la validità di una teoria scientifica,nella fattispecie una teoria evoluzionistica.

La forma di Madeleine ricorda quella di una tartaruga dimare, per l’esattezza una Lepidochelys olivacea. Si tratta diuna bellissima tartaruga dal colore verde oliva, di piccoledimensioni: gli esemplari della specie raggiungono unalunghezza massima di ottanta centimetri.

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Madeleine è stata sviluppata per studiare i costi energeticidella locomozione subacquea e imita il modo di nuotare dellatartaruga attraverso le sue quattro pinne in poliuretano (unmateriale analogo a quello usato per i materassi o gli arredidelle auto), dotate della stessa rigidità della loro contropartenaturale. Il robot è munito anche di sensori per lanavigazione in mare e ha un computer di bordo per ilcontrollo del movimento.

Attraverso Madeleine ci si propone di capire quali spinteevoluzionistiche abbiano portato i vertebrati a preferire ilnuoto a due arti rispetto a quello a quattro, che era tipicodegli antichi plesiosauri.35 Questi enormi rettili acquaticierano veri e propri mostri – marini e lacustri – di formasimile a quella della famosissima Nessie, leggendariaabitante del lago scozzese di Loch Ness. Non a caso, forse, leprime tracce di plesiosauri vennero rinvenute proprio inGran Bretagna, nell’Ottocento. Ci si riferisce ai plesiosaurianche definendoli come «serpenti infilati nel corpo di unatartaruga»: ovviamente questi rettili non avevano alcunaaffinità con le tartarughe, ma la definizione si adatta benealla loro forma. Essi possedevano, infatti, un collo o un musolunghi, a volte entrambi; il tronco era corto, largo e piuttostoappiattito. Sebbene vivessero in acqua non potevano piùricorrere a un sistema di locomozione simile a quello deipesci, perché il loro tronco era poco flessibile e la codatroppo corta. In compenso i loro arti si erano evoluti instrutture simili a pagaie, che i plesiosauri usavano per«volare», piuttosto che remare, nell’acqua, con unmovimento molto simile a quello osservato nelle tartarughemarine.

Madeleine ci aiuta dunque a far luce su un avvincentemistero biologico ed evoluzionistico che da secoli affascinavai paleontologi, oltre che tutti gli appassionati di Jurassic Parke delle leggende sui mostri acquatici: perché il sistema dinatazione dei grandi bestioni tetrapodi che passeggiavano

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sul nostro pianeta durante il Giurassico è stato in seguitosoppiantato da un sistema diverso, oggi prevalente? Perché,insomma, da quattro pinne si è passati al nuoto a due?

Madeleine è in grado di nuotare sia con due sia conquattro pinne e così ci offre una bella lezione sull’evoluzione.Come spesso accade, anche nella scelta dell’una o dell’altrasoluzione ci sono costi e benefici! Il nuoto con quattro pinnemostra alcuni chiari vantaggi: ad esempio l’animalebeneficia di accelerazione e frenata rapide e di un’ottimamanovrabilità. E quindi cosa ci suggerisce questo? Che iplesiosauri, novanta milioni di anni fa, erano in grado dicompiere abili manovre in acqua, e che erano predatoripiuttosto sedentari, ma capaci di scattare velocemente perraggiungere e afferrare una preda. Tuttavia il nuoto aquattro pinne brucia il doppio dell’energia rispetto a quello adue pinne. I vertebrati odierni che sono tornati a vivere inacqua a volte sono costretti a percorrere anche lunghi trattidi nuoto per procurarsi il pesce. Quindi, da un punto di vistaevoluzionistico, il nuoto a quattro arti si rivelaenergeticamente non conveniente ed ecco spiegato comemai i moderni vertebrati – tartarughe, ma anche uccelliacquatici, pinguini, o mammiferi come i leoni marini – adifferenza di quelli preistorici usano due pinne per muoversi,mentre le altre due sono state adibite a timone per guidarela navigazione, con funzionalità intercambiabile, a secondadelle manovre che devono compiere.

Madeleine ci dimostra come il robot possa trasformarsi inuna efficacissima piattaforma di studio, assolvendo al tempostesso a funzioni pratiche. Nel caso specifico della nostrasimpatica tartarugona, offrire una soluzione eco-compatibilee a minimo impatto energetico per l’esplorazione dei fondalimarini.

Salamandre alla conquista delle terre emerse

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Nel cuore dell’era paleozoica si cela un altro grande misteroevolutivo che la biorobotica ha contribuito a scandagliarecon l’aiuto del suo zoo artificiale.

Siamo nel Devoniano, un periodo compreso tra 410 e 360milioni di anni fa, noto anche come «Età dei Pesci» a causadell’abbondanza di questi animali, in acqua sia dolce siamarina. I fossili giunti fino a noi da quel periodo geologico ciraccontano di un clima caldo, di tipo subtropicale, constagioni aride e protratte e temperature delle acque chepotevano raggiungere anche i trenta gradi. Alle siccità sialternavano fasi di intense piogge, che incrementavano ilcontenuto di acqua di fiumi e laghi. Le siccità successivetrasformavano i laghi in enormi distese di poco ospitaleacqua stagnante. È in questo scenario che si sviluppano leprime piante erbacee acquatiche e semiacquatiche, maanche i primi alberi, grazie ai quali si avviò il processo cheavrebbe portato alla formazione delle foreste nel successivoperiodo Carbonifero. Fossili di piante del medio-tardoDevoniano rinvenuti in un deserto nel Nord della Cinatestimonierebbero una diversa struttura di alcuni alberi diallora rispetto a quelli oggi conosciuti. Gli alberi delDevoniano erano molto alti rispetto al loro diametro eavevano una struttura interna complessa. Le foreste formateda questi alberi contribuirono a rilasciare grandi quantità diossigeno nell’atmosfera e, al tempo stesso, a sottrarrel’anidride carbonica, rendendo la Terra più ospitale. Ma,sorprendentemente, questi alberi alti e snelli si estinserosenza lasciare eredi, per motivi ancora non chiariti.

Il Devoniano ha visto accadere la più grande tra tutte leavventure cui andarono incontro i vertebrati nel corso dellaloro lunga storia: l’invasione delle terre emerse. I pesci osseipiù comuni all’epoca erano i Crossopterigi, aggressivi epredatori, dai quali sembra si siano evoluti i primi vertebratiterrestri. Tra di essi vi sono i Ripidisti, che si estinsero primadella fine del Paleozoico, e forme prima ritenute estinte, main realtà ancora viventi, come i Celacanti, a cui appartiene

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un «fossile vivente» chiamato Latimeria. Un esemplare diquesto pesce fu pescato nel 1939 al largo delle coste delSudafrica, con grande stupore degli scienziati del tempo. Daallora molti altri esemplari sono stati catturati nelle acqueprofonde al largo delle Isole Comore nell’Oceano Indiano, inSudafrica, Madagascar, e in molte altre zone. Sebbene laLatimeria non assomigli perfettamente agli antenati deitetrapodi, il suo studio è di grande rilevanza per lacomprensione del passaggio dall’acqua all’ambienteterrestre, la cui origine può essere fatta risalire aiCrossopterigi Ripidisti, come emerge da un attento esamedella struttura del cranio, delle vertebre, delle pinne e deidenti di questi pesci.

Ma com’è avvenuto, meccanicamente, il passaggio dallalocomozione acquatica a quella terrestre, e perché?

In quell’epoca, come già ricordato, le acque dolci siriducevano notevolmente durante i prolungati periodi disiccità. Un ulteriore sviluppo delle pinne pari carnose, giàpresenti nei Crossopterigi, avrebbe dato la possibilitàall’animale di trascinarsi sulla terraferma sino a raggiungerela più vicina pozza di acqua, dove poter continuare la suanormale esistenza di pesce.

Pensate a quale incredibile impresa i primi tetrapodifurono costretti ad affrontare, e alla serie di profondetrasformazioni strutturali e funzionali che essa comportò.Tra i cambiamenti più ovvi quelli riguardanti il tipo dilocomozione (dal nuoto allo spostamento su quattro zampe) ela respirazione dominante (dalle branchie ai polmoni). Tuttoil corpo di questi animali subì importanti modifiche percontrastare la forza di gravità, ma anche la vista e gli altriorgani di senso dovettero adeguarsi alle nuove condizioniambientali.

Sono ancora molti gli aspetti misteriosi di questa fasecruciale nella storia evolutiva del pianeta. Nella nebbia fittache gli scienziati combattono a colpi di fossili e ritrovamenti,la biorobotica sta portando il proprio contributo,

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scandagliando un aspetto essenziale del processo: comehanno fatto i vertebrati terrestri più primitivi, gli anfibi, aadattarsi come dice l’etimologia del nome stesso (dal grecoamphíbios, «dalla doppia vita») a vivere sia in acqua chesulla terra?

Alla classe degli anfibi oggi appartengono le rane e i rospi,i tritoni e le salamandre e alcune forme fossorie simili aivermi. La salamandra in particolare può tornarci utile perrispondere alla nostra domanda, giacché assomiglia ai primianfibi originatisi dai pesci. Ha un corpo allungato, masolidamente costruito, con muscolatura potente e una lungacoda molto adatta al nuoto. Quella delle salamandre è unalocomozione di base, con le zampe divaricate rispetto alcorpo. Questo animale è capace di alternare rapidamente ledue modalità di locomozione: nuoto e camminata. Il suonuoto è simile a quello della lampreda, un pesce primitivo,con ondulazioni veloci che si propagano come onde dallatesta alla coda, mentre gli arti sono piegati all’indietro.Quando invece si trova sul terreno passa a un’andatura piùlenta, con le zampe diagonalmente opposte che si muovonoinsieme, mentre il corpo forma una esse.

I paleontologi del Museo delle scienze MUSE di Trento, inuno studio pubblicato qualche anno fa, hanno dimostrato chele salamandre attuali assomigliano nella forma e nellabiomeccanica agli anfibi permiani, oggi estinti.36 Come lorostessi hanno dichiarato, osservare una piccola salamandramuoversi nel sottobosco è un po’ come fare un salto indietronel tempo di circa trecento milioni di anni, quando anfibisimili per forma avevano già sviluppato una dinamica dellalocomozione evolutiva, cioè un modo di muoversi ecamminare simile.

Partendo dallo studio di due specie in particolare,Salamandra salamandra e Pleurodeles waltl, il team di AukeIjspeert all’École polytechnique fédérale di Losanna hasviluppato una famiglia di robot che prendono il nome di

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Salamandra robotica e si propongono di contribuire achiarire il passaggio dalla vita acquatica a quella terrestre. Ilrobot-salamandra è anfibio come l’animale al quale èispirato, ha quattro zampe e una spina dorsale azionata, chegli consente di eseguire il nuoto anguillare in acqua e dicamminare sul terreno. Studi comparativi tra l’animale e ilrobot hanno mostrato sorprendenti somiglianze con leandature osservate in vere salamandre, in particolare perquanto riguarda i tempi dei movimenti del corpo e degli arti,e la relativa velocità di locomozione nel passaggio dal nuotoalla camminata e viceversa.

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La salamandra robotica realizzata all'EPFL di Losanna è in grado dieseguire il nuoto anguillare in acqua e di camminare sul terreno.

(© Biorobotics Laboratory, EPFL, Switzerland)

Come in altri animali vertebrati, le andature dellesalamandre sono generate da una classe particolare diprogrammi motori, tecnicamente chiamati Central Pattern

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Generators (CPGs), responsabili di azioni ritmicheautomatiche, ossia azioni eseguite in assenza di controllo daparte del cervello.37 Questi circuiti neuronali controllanoattività basilari, quali la locomozione, la masticazione, ladeglutizione, la respirazione.

I ricercatori hanno proposto un modello di CPG perspiegare la capacità delle salamandre di alternare il nuoto alcammino e lo hanno implementato anche nel robot. I segnaliche controllano il movimento della salamandra robotica sonotrasmessi da un computer e attraversano i segmenti che necompongono il corpo, come se fossero il midollo spinale.38

Vengono poi trasmessi alle zampe e controllano di volta involta i movimenti del nuoto e della camminata, modulandovelocità, direzione e tipo di andatura.

Grazie al fatto che il robot interagisce con il mondo che locirconda, la salamandra artificiale può essere considerata unmodello ideale per studiare il passaggio da un movimento ditipo ondulatorio alla capacità di coordinare il movimento delcorpo e quello delle zampe. Come abbiamo visto conMadeleine, i robot possono rivelarsi piattaforme perfette perstudiare anche animali estinti e il modo in cui questi simuovevano negli ambienti di allora. Senza avere la pretesadi voler comprendere tutto del mondo naturale che cicirconda attraverso la progettazione e lo sviluppo di sistemiartificiali, possiamo pensare di utilizzare un robot per capirequale sia il segreto che consente a un animale di nuotare,volare, arrampicarsi, strisciare e così via, sia che il nostrooggetto di studio viva nel presente, sia che provenga datempi remoti, più difficili da investigare.

L’organizzazione anatomica di base della salamandra èrisultata adatta a superare milioni di anni di cambiamentiambientali ed ecologici e, di conseguenza, questi animali nonhanno subito profonde modifiche tali da alterarne in modosignificativo la struttura ancestrale. La salamandra e il suocorrispettivo artificiale sono dunque un valido modello di

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studio per i paleontologi, che possono riconoscere nella loroforma e nelle loro strategie di locomozione quelle tipiche dianfibi vissuti oltre trecentocinquanta milioni di anni fa,quando iniziarono a conquistare le terre emerse.

Discese ardite e risalite

Uno dei «segreti» animali più invidiati e studiati dall’uomo èsenza dubbio la capacità – a noi bipedi tristemente negata –di arrampicarsi su muri e altre strutture ripide, e scendernemolto rapidamente. La fantasia umana è stata molto ispiratada quello che, a noi esseri inesorabilmente costretti a terradalla forza di gravità, pare a tutti gli effetti un superpotere.Non è un caso che ne siano stati dotati alcuni supereroistraordinari come Spider-Man, e in certa misura ancheBatman e Catwoman.

Muoversi su superfici verticali è un’attività difficile erischiosa anche per gli animali, che avvenga su materialilisci come il vetro o rugosi come la corteccia di un albero,rigidi come una roccia e le pareti di una casa, orelativamente morbidi come i tessuti. Per ognuna di questesituazioni la Natura ha «inventato» soluzioni diverse espesso combinate tra loro: spine, cuscinetti adesivi, unghie eartigli sono soltanto alcune delle strategie messe in atto dainsetti, ragni, rane arboricole, scoiattoli o gechi. Abbiamovisto nel capitolo 3 come questi ultimi, in particolare, sianoin grado di esercitare deboli forze sulle superfici grazie allatripla struttura gerarchica presente sulla parte interna delleloro dita: lamelle, sete, spatole. Tuttavia questo non è l’unicosegreto che consente al geco di essere un perfetto scalatoree rimanere attaccato ai muri per ore. Il geco è anche ingrado di distribuire diversamente il proprio peso sullezampe, così da aumentare la forza di adesione già esercitatadalle strutture gerarchiche.

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Questo animaletto dalle straordinarie doti viene studiatocon grande attenzione in robotica con l’obiettivo direalizzare robot agili quasi quanto la controparte naturale,destinati all’esplorazione ambientale non invasiva, ovveroche non arrechi danno o disturbo alla fauna e alla flora dellezone da monitorare.

Recentemente Robert Full, di cui abbiamo già parlato per isuoi studi sugli scarafaggi, ha scoperto che la coda del gecosvolge un ruolo fondamentale nel far aderire il più possibileil corpo alla superficie e nel mantenerlo attaccato anchequando le zampe perdono aderenza.39 Infatti, quandol’animale avverte che sta per cadere, attacca prontamentel’intera coda al muro, e così facendo avvicina tutto il corpo alsubstrato e riassume una posizione di equilibrio e di stabilitàcon le zampe.

Volendo riassumere i «segreti» che consentono al geco diarrampicarsi lungo i muri e i motivi per i quali riesce a farloin maniera così efficace, potremmo menzionare:l’organizzazione gerarchica delle strutture del piede checonsente di ottenere ampie aree di contatto e caricouniforme su materiali che vanno dal vetro alla corteccia;controllo dell’attacco e distacco; controllo distribuito delleforze, al fine di aumentare la stabilità.

Ma perché queste caratteristiche dovrebbero essereinteressanti anche per un robot e come è possibile imitarle?

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Il robot geco StickyBot realizzato all'Università di Stanford siarrampica su superfici verticali di ogni tipo, dal vetro alla ceramica.

(© Mark R. Cutkosky http://bdml.stanford.edu)

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Mark Cutkosky, già ideatore di i-Sprawl, il robotscarafaggio, ha sviluppato un bellissimo robot-geco che sichiama StickyBot. StickyBot ha una forma molto simile algeco, con una lunga coda e quattro zampe formate da diversipolimeri, fibre di carbonio e tessuto. Il robot-geco è in gradodi scalare una vasta gamma di superfici a novanta gradi tracui vetro, piastrelle di ceramica lucida, acrilico e granitolevigato a velocità fino a quattro centimetri al secondo. Perrealizzarlo, anni fa Mark Cutkosky ha inventato anche unanuova tecnica di fabbricazione (in inglese Shape DepositionManufacturing)40 che consente di mescolare parti rigide,come le componenti elettroniche e i motori, a materiali piùmorbidi. Una versione evoluta di tale tecnologia èrappresentata dalle stampanti tridimensionali di recentesviluppo che consentono di stampare componenti in 3Dutilizzando più materiali contemporaneamente, con notevolivantaggi in termini di costo, tempo e precisione rispetto aidispositivi di precedente generazione. L’utilizzo nel campodella robotica bioispirata di queste e altre tecnologieanaloghe di fabbricazione consente di sviluppare sistemiartificiali più somiglianti a quelli naturali, non soltanto da unpunto di vista morfologico ma anche strutturale, includendocomponenti rigidi – analoghi allo scheletro – e morbidi – chesimulano la presenza di muscoli, articolazioni e organi. Lamaggior parte degli esseri viventi è costituitaprevalentemente da materiali morbidi e deformabili! Anchegli animali con endoscheletri rigidi sono compostiprincipalmente di tessuti molli e liquidi, e basti pensare chenell’essere umano lo scheletro contribuisce in genere soloall’undici percento della massa corporea di un maschioadulto, mentre il muscolo scheletrico contribuisce in mediaper il quarantadue percento della massa corporea. Inoltre, leparti del corpo di un animale che giocano ruoli di supportonella locomozione (come digestione, scambio di gas e dicalore) sono sempre altamente deformabili.41 Insomma la

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Natura ama i tessuti soffici e una tecnologia che vogliaappropriarsi di segreti e strategie naturali non può evitare ditenerlo in considerazione.

In questo contesto circa dieci anni fa è nata una nuovabranca della robotica che sta rivoluzionando il modo in cui sirealizzano i robot bioispirati e, più in generale, i robot didomani: la soft robotics. Il suo obiettivo è sviluppare robotdotati di materiali e componenti parzialmente morbidi edeformabili, in grado di agire in ambienti non strutturati.Esiste quindi una stretta connessione tra la roboticabioispirata e la robotica soft.

Studiare come gli animali usano i materiali morbidi permuoversi e adattarsi all’ambiente circostante può rivelarsimolto utile nella progettazione di robot soft.42 In un robot-animale dotato di arti, per esempio, possiamo imitarel’organizzazione delle strutture scheletriche e muscolari delnostro modello biologico per replicarne rispettivamente lecapacità di sostegno e di adattamento passivo delle zampe edel corpo all’ambiente esterno,43 riducendo così lacomplessità del controllo dei movimenti. I robot soft,44 otecnologie da loro derivate, potranno nel futuro trovareapplicazioni in chirurgia, dove strumenti morbidiconsentirebbero di lavorare a contatto con un tessuto senzadanneggiarlo, o nella manipolazione di oggetti, per esempioin agricoltura per controllare il livello di maturazione difrutta e verdura.

Mi piace concludere con la soft robotics questa brevecarrellata, assolutamente non esaustiva ma rappresentativa,dei più famosi animaloidi realizzati dall’uomo nel corso degliultimi dieci anni. Possiamo infatti considerare i robot sofficicome il più avanzato risultato di quel fertile incontro trabiologia e tecnologia ingegneristica di cui parlavo all’iniziodi questo capitolo. Dall’intersezione tra queste due disciplinestanno senza dubbio nascendo alcune tra le soluzioni piùpromettenti per immaginare un futuro diverso e migliore da

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lasciare alle generazioni che verranno, un futuro sostenibile,avanzato e finalmente in armonia con la Natura.

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Le macchine che ci somigliano

Tra i robot ispirati al regno animale, sicuramente i piùaffascinanti – quelli che più stuzzicano la fantasia – sono gliumanoidi o androidi, creati a nostra somiglianza.

Nel 1980 Alberto Sordi diresse un film, Io e Caterina,incentrato proprio su questo tema. La pellicola racconta ildelicato rapporto che si instaura tra il protagonista EnricoMelotti e Caterina, cameriera robotica di sua proprietà.Caterina, acquistata da Enrico nella speranza di riuscire cosìad affrancarsi dalle assillanti donne della sua vita (moglie,governante e amante), alla fine si innamora del padrone finoa condizionarne pesantemente l’esistenza, come e più diquanto non avessero fatto in precedenza le sue donne incarne e ossa. Questa piccola perla di casa nostra – unararità, non sono molte le produzioni cinematograficheitaliane dedicate ai robot – delinea bene i timori, non solonostrani, suscitati dal mito dell’androide.

Spesso quando parliamo di umanoidi abbiamo in menteimmagini alla Terminator, macchine simili a noi che siribellano al genere umano. Niente di più lontano dalla realtà.È vero che la ricerca ha fatto passi da gigante da quandosono nati i primi robot di forma umana, più di trenta anni fa.Ma l’obiettivo non è quello di annientare o sostituire l’uomo,quanto piuttosto di aiutarlo in molti contesti.

Un esempio di assoluta bellezza e capacità ingegneristicaè rappresentato da Atlas, della Boston Dynamics, unumanoide di un metro e mezzo di statura per settantacinquechilogrammi di peso e con l’agilità di uno stambecco. Atlaspuò camminare anche su terreni scoscesi e riesce a superare

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ostacoli correndo e adattando il proprio corpo all’ambientecircostante, con movimenti che ricordano quelli tipici delparkour.

Gli umanoidi hanno dimensioni e «volti» tra i più disparatie sono anche pensati per scopi diversi: come nel caso diAtlas, nel futuro i cosiddetti co-bot potranno lavorare infabbrica a fianco degli uomini, per aiutarli nei lavori pesantio per manipolare oggetti. Altri umanoidi nascono invece perfornire aiuto in ambienti domestici o accudire gli anziani.Altri ancora vengono usati come guide nei musei o negliaeroporti.

Alcuni robot sono stati creati a immagine dell’essereumano per studiare come quest’ultimo interagisca con unandroide e quali sensazioni vengano attivate da taleinterazione. È il caso dei geminoidi di Hiroshi Ishigurodell’Università di Osaka, in Giappone. Geminoid deriva dallatino geminus, «gemello». Si tratta di robot creati a perfettasomiglianza di un modello umano, dotati di una pelleartificiale in silicone e di capelli veri. La forma del viso vieneottenuta attraverso un calco in gesso del soggetto dacopiare, mentre il corpo viene riprodotto utilizzando unoscanner 3D. Ishiguro ha creato diversi autentici clonirobotici di se stesso e della propria famiglia. Il motivo diquesta scelta, che a molti nel mondo è apparsa singolare einquietante, è stato elegantemente sintetizzato da Ishigurocon la seguente argomentazione: l’apparenza è una parteimportante dell’identità di un individuo. Un androideidentico a un essere umano può essere usato per tramandarealle generazioni future l’apparenza di questa persona, peresempio. Ma nelle intenzioni di Ishiguro il vero obiettivo ècondividere la propria esperienza personale con il gemelloandroide e viceversa. Qualche anno fa, in occasione di unavisita in Italia per partecipare al Romaeuropa Festival,Ishiguro così sintetizzava la propria filosofia, in un’intervistarilasciata al quotidiano la Repubblica: «Non ho mai volutocostruire semplicemente una macchina capace di svolgere il

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nostro lavoro, ma qualcosa che ci somigliasse a tal punto daentrare in contatto con noi in maniera empatica. Gli androidisono degli specchi di noi stessi. Sono la chiave per aiutarci acomprendere meglio la nostra natura».45

A noi occidentali sembra stravagante questo rapportointimo tra uomini e androidi, di cui stentiamo a comprenderel’utilità. Tuttavia esistono studi scientifici che dimostranosperimentalmente le conseguenze positive dell’interazionetra uomo e robot.

PARO è un robot a forma di cucciolo di foca, realizzato inGiappone dal gruppo di Takanori Shibata circa venti anni fa.Questo robot, che potrebbe sembrare un giocattolo e di cuioggi è in commercio l’ottava generazione, è stato sviluppatoin realtà per scopi terapeutici. Gli studi condotti dal gruppodi ricercatori giapponesi diretti da Shibata dimostranochiaramente che l’interazione di PARO con persone anzianeproduce evidenti miglioramenti relazionali e sociali nei«pazienti» umani. Questo simpatico robot è ricoperto di pelobianco e dotato di una complessa rete di sensori che glipermettono di reagire agli stimoli ambientali. Quando lo siaccarezza è impossibile resistere ai suoi occhioni vivaci ealla sua dolcezza.

Ma queste emozioni di tenerezza e calore restanocircoscritte principalmente a un pubblico di utentigiapponesi, più abituati di noi a interagire con robot di ognisorta? In realtà, no. Un progetto di ricerca tutto italiano,condotto dal Dipartimento di scienze della comunicazionedell’Università di Siena e coordinato da Patrizia Marti,dimostra tutto il contrario. PARO è stato infatti utilizzato inuna serie di esperimenti condotti sul campo con anziani ebambini con deficit cognitivi di vario genere. Durante lesedute con PARO sono stati registrati evidenti miglioramentidei livelli di attenzione e di partecipazione relazionale deisoggetti presenti.46 Tra i tanti casi che potrebbero essereelencati, in alcune sue interviste Patrizia Marti racconta con

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orgoglio dei miglioramenti osservati in un paziente anzianocon una grave forma di demenza, dopo alcuni mesi di seduteterapeutiche insieme a PARO. L’anziano si mostrava moltoaggressivo e incapace di comunicare con chiunque, ma inpresenza del robot accettava di essere accudito e riusciva aformulare frasi di senso compiuto, diminuendo sensibilmenteanche il livello di aggressività.47

Un’altra applicazione cruciale degli androidi è – comeabbiamo visto anche in numerosi casi di robot-animali – l’usoa fini scientifici, per studiare caratteristiche umane difficilida approfondire direttamente sul soggetto biologico. Unesempio affascinante, che vede nella robotica lo strumentoideale per validare modelli teorici neuroscientifici, vieneancora una volta dal Giappone, precisamente da Kyoto. QuiMitsuo Kawato – che dal 2010 dirige il Brain InformationCommunication Research Laboratory Group dell’ATR(Advanced Telecommunications Research Institute), uno deiprincipali centri mondiali nello studio di interfacce uomomacchina e nel campo della robotica – utilizza da vent’annipiattaforme umanoidi per studiare il controllo motorio e ilfunzionamento del cervello umano. «Comprendere il cervellocreando il cervello» è l’obiettivo della ricerca di Kawato. Sipropone di far compiere alla macchina movimenti anchesemplici, attraverso processi di trasmissione dei segnalielettrici che riproducano il modo in cui comunicano tra loro ineuroni del cervello. Questo primo step ci aiuterebbe poi acomprendere livelli di funzionamento di complessità semprecrescente e le conoscenze così acquisite troverebbero utiliapplicazioni in campo diagnostico o terapeutico, ad esempionella cura di ictus, malattie neurologiche, fino a problemicognitivi e comportamentali.

All’Università di Waseda, a Tokyo, i ricercatori guidati daAtsuo Takanishi hanno studiato l’anatomia, la morfologia e laneurofisiologia umana per realizzare vari modelli di Wabian-2R, un robot umanoide capace di camminare come un uomo.

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Wabian simula il più possibile la camminata umana graziealla possibilità di flettere le ginocchia e a un’avanzatamobilità dei piedi. Studiarne la locomozione fornirà agliscienziati risposte importanti sulle patologie umane cheimpattano sulla mobilità e consentirà di svilupparedispositivi di ausilio per chi soffre di disturbi delladeambulazione, come gli anziani o chi ha subito traumi.

Ma non c’è solo il Giappone, in questa affascinante corsaverso i nuovi orizzonti della robotica applicata allo studiodell’essere umano. Un gruppo di colleghi dell’IstitutoItaliano di Tecnologia di Genova, sotto la guida di GiorgioMetta, ha sviluppato un robot umanoide unico nel suogenere. Si chiama iCub («I» come in I, Robot, di asimovianamemoria, e «Cub» come in man-cub, cucciolo d’uomo, dalLibro della giungla) ed è un bambino-robot, realizzato perstudiare lo sviluppo delle capacità percettive, cognitive emotorie nel bambino e, quindi, lo sviluppo dell’intelligenza.48

Nato nel 2004 nei laboratori dell’Università di Genova, doveil team di Giulio Sandini e Giorgio Metta stava iniziando asviluppare iCub, questo robot negli anni è cambiato e si èarrivati alla sua terza versione. È alto 104 centimetri, comeun bambino di cinque anni circa, e oggi è presente intrentasei laboratori in tutto il mondo.

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iCub, il bambino robot realizzato all'IIT, apprende interagendo congli esseri umani. (© Dynamic Interaction Control, IIT, Genoa, Italy)

L’obiettivo ultimo di iCub è quello di indagare gli aspetticognitivi del nostro cervello, in particolare del modo in cuiesso controlla il nostro comportamento. Per riuscirci il robot

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deve emulare modelli di comportamento umani sino a uncerto livello di complessità. Dotato di un sistema visivo eacustico, iCub deve quindi essere in grado di muoversi inmaniera simile a un essere umano: ha imparato prima agattonare, poi a camminare, a interagire con oggetti e adapprendere attraverso l’esperienza acquisita. È stato dotatodi mani progettate per supportare azioni di manipolazioneavanzata, poiché per l’uomo esse rappresentano unostrumento di conoscenza, essenziale per lo sviluppodell’intelligenza in età evolutiva attraverso operazioni comeafferrare e riconoscere oggetti sulla base della loro formaattraverso il tatto.

Oltre a questi importanti obiettivi scientifici, piùrecentemente il team di ricerca si è concentrato sul temadell’interazione sociale, mirando a dare al robot la capacitàdi comprendere i bisogni dell’uomo e quindi di collaborarecon gli altri come se lui stesso fosse un essere umano. iCub èin grado di modulare l’espressione facciale e di dirigere losguardo verso il proprio interlocutore o verso un oggetto,caratteristiche importanti per un robot che deve interagirecon un umano.

Recentemente, un gruppo coordinato da Cristina Becchio,ricercatrice all’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova, hainiziato a lavorare su iCub per lo sviluppo di nuovi approccisenso-motori nello studio dell’autismo. I bambini condiagnosi di autismo si muovono diversamente rispetto aibambini a sviluppo tipico. Partendo da questo presupposto,l’idea dei ricercatori IIT è di studiare tali differenze eprovare a modificare la cinematica dei movimenti deibambini autistici per ottenere un impatto sul loro controllomotorio, ma anche sulla loro capacità di percepire l’azionealtrui e quindi sulla loro capacità di interazione sociale.Grazie a iCub, i ricercatori vogliono sfruttare un fenomenonoto come «contagio motorio»: dato che le azioni altrui sonocontagiose, il robot implementerà pattern motori con unacinematica più simile a quella dei bambini a sviluppo tipico,

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per contagiare i bambini con autismo e indurli a muoversi inmaniera analoga.

Potrei continuare per molte pagine ancora a raccontare diumanoidi e animaloidi, sviluppati da laboratoriall’avanguardia in tutto il mondo, nelle forme e con lemotivazioni scientifiche più disparate. L’obiettivo piùambizioso che guida la ricerca a livello planetario è quello disviluppare piattaforme robotiche che possano essereconcretamente di aiuto nel quotidiano: nelle nostre case,negli ospedali e nel contesto urbano. La strada scientificache porterà a questi risultati è ancora lunga. Non possiamoammettere alcun margine di errore in campi tanto delicati:un robot incaricato di interagire con l’uomo, ad esempionell’assistenza al malato o all’anziano fragile, non puòsbagliare neppure una volta.

Per agire con e per gli uomini questi robot dovrannoessere intrinsecamente sicuri e dotati di funzionalità piùsimili a quelle degli esseri viventi, che li abilitino sia aadattarsi a situazioni mutevoli sia, se necessario, a interagirecon l’uomo. Per questo servono corpi agili, in grado dimuoversi in ambienti reali, ma anche sistemi di elaborazionedelle informazioni più rapidi ed efficienti, magari anchegrazie all’uso di una rete di dati distribuita come quellarappresentata dal web.

Esplorazione, monitoraggio ambientale, salvataggio,endoscopia e strumentazione medica sono solo alcune dellepossibili applicazioni dei robot ispirati al regno degli animali.Nello scenario futuribile di robot concepiti per adattarsiall’ambiente antropizzato, l’approccio bioispirato riveste unruolo fondamentale. La tendenza più diffusa nella robotica,oggi, è dotare l’intelligenza artificiale di un corpo in grado diagire nell’ambiente. È questa la vera rivoluzione di domani?Sono molti gli scienziati che la pensano così.

Un discorso a parte meritano gli studi di biorobotica che sisono ispirati a un altro regno, quello delle piante: un mondo

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verde, che rappresenta la parte silenziosa, immobile, inertedel nostro pianeta.

Ma lo è davvero?

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Gli alieni tra noi

Se dovessi immaginare un alieno sulla Terra, credo chesceglierei una pianta. Non a caso la letteratura è ricca distorie popolate da piante aliene che attaccano e colonizzanoil nostro pianeta. Una delle ultime che hanno catturato lamia fantasia è Trees, un serial fantascientifico a fumettiideato da Warren Ellis per la Image Comics statunitense,dove si racconta di giganteschi alberi alieni sbarcati su unaTerra del futuro. Queste immense strutture cilindriche,chiamate Trees, «alberi», sono atterrate in diverse parti delpianeta portando il panico tra la gente, ma poi lì sonorimaste, colossali e silenziose. Il lettore segue le storieparallele di diversi personaggi – tra New York, Cefalù, laCina e le isole Svalbard – che interagiscono con le misteriosecreature. Gli alieni, percepiti inizialmente dagli uomini come– neanche a dirlo – inerti, si rivelano molto più interessantidel previsto: per esempio trasudano effluvi tossici e, del tuttoincuranti delle umane faccende, osservano dall’alto ilbrulichio che si scatena ai loro piedi. Assistiamo così a unaserie di eventi più o meno devastanti, quali la rinascita delpartito fascista a Cefalù, lo scoppio di guerre civili in Africa,o i tentativi delle persone di cambiare sesso in Cina. Vizi edebolezze umane si dipanano all’ombra di questegigantesche strutture cilindriche, senza che loro se ne curinominimamente.

Già solo questo passaggio appare ai miei occhi come unarivoluzionaria novità. Ellis infatti ha invertito i ruoli cuisiamo abituati: dominanti gli uomini e subalterne le piante,esseri inferiori spesso ritenuti indegni della nostra

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attenzione.Eppure basterebbe riflettere su un semplice dato

numerico: le prime piante sono comparse sulla terrafermacirca 450 milioni di anni fa, sotto forma di organismiunicellulari in grado di effettuare la fotosintesi. I primiominidi, invece, vengono fatti risalire ad «appena» cinque osei milioni di anni fa e bisogna arrivare a 2,3 o 2,4 milioni dianni fa per incontrare il genere Homo. È evidente che lenostre compagne di avventura hanno avuto un tempo moltopiù lungo di noi per adattarsi alla vita sulla Terra e proprioper questo le strategie di sopravvivenza che hannoimplementato ci appaiono molto diverse dalle nostre, quasialiene, appunto.

Torniamo per un momento a occuparci di fantascienza.Nel bellissimo film di James Cameron, Avatar, un albero è ilfulcro di tutto. Siamo su Pandora, uno dei satelliti delpianeta gassoso Polifemo, nel sistema stellare di AlfaCentauri. La vita su questa luna ruota intorno a quello che ina’vi, la popolazione indigena, chiama Albero delle Anime.49

Imponente e antico, con una chioma strabiliante composta diliane rosa che si illuminano al buio, l’Albero viene veneratocome l’essere vivente più sacro su Pandora, l’anima,l’essenza di ogni cosa, connesso con ogni essere vivente econ la stessa Eywa, la Grande Madre, che incarnal’equilibrio e l’armonia naturale.

Quando vidi il film al cinema, nel 2009, ricordo che rimasicolpita dalle parole con cui la dottoressa Grace Augustinedescrive le connessioni che l’enorme numero di alberi suPandora creano tra loro. Ogni singolo albero – spiega lascienziata – è connesso con quelli vicini, creando una rete dicomunicazione biochimica molto simile a quella stabilita daineuroni di un cervello umano. Pura fantasia? Proprio in quelperiodo, una decina d’anni fa, insieme al mio gruppo dilavoro dell’Istituto Italiano di Tecnologia avevo cominciato aoccuparmi di un progetto ambizioso: creare il primo robot

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ispirato alle piante. All’epoca la robotica bioispirata stavamuovendo i suoi primi passi a livello mondiale e noi stavamo«gettando i primi semi» per realizzare quello che, negli annisuccessivi, sarebbe diventato il cosiddetto plantoide (di cuiabbiamo accennato nel capitolo 2 e che tratteremo più indettaglio nel capitolo 10). La descrizione della connessionebiochimica tra alberi in Avatar mi colpì, quindi, con tantamaggiore intensità quanto più notai le innegabili somiglianzecon i risultati che stavamo ottenendo in laboratorio. Leproprietà dell’immaginaria rete sotterranea formata dalleradici degli alberi nel film di Cameron mostravano infattisingolari somiglianze con i dati che andavamo raccogliendosulle capacità di movimento, comunicazione e percezionedistribuita nelle piante.

Prima di allora mi ero occupata di robotica di servizio,ovvero costruivo robot autonomi dotati di sensori per ilmonitoraggio della qualità dell’ambiente. Avendo studiatoper anni biofisica e l’impatto degli inquinanti sulla salutedell’uomo e sull’ambiente, una volta approdataall’ingegneria mi era sembrato naturale impegnarmi nellarealizzazione di tecnologie volte al miglioramento dellaqualità della vita. Con i miei colleghi avevamo realizzatorobot che si occupavano dell’analisi dell’aria e delle acque,sistemi autonomi che potevano muoversi nell’ambienteevitando gli ostacoli e inviando wireless i dati acquisiti a unoperatore remoto. Quando si trattò di immaginare eprogettare un robot che fosse in grado di esplorare il suolomuovendosi al suo interno, venne naturale rivolgerci allepiante in cerca di un modello cui ispirarci: le loro radiciformano infatti reti capaci di spingersi nel sottosuolo inmaniera capillare e riescono a muoversi in un ambienteestremo, caratterizzato da alte pressioni ed elevati attriti giàa pochi centimetri dalla superficie.

Ma come può una pianta diventare un modello in robotica?Abbiamo visto nel capitolo precedente che le caratteristicheprincipali richieste a un robot sono movimento e, spesso,

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velocità, capacità sensoriali, intelligenza e controllo. Tuttol’opposto di una pianta, o no?

Secondo alcune definizioni un robot è un dispositivoartificiale in grado di percepire il suo ambiente e agiredeliberatamente su o in quell’ambiente. Altre definizionievidenziano come un robot sia un sistema dotato diIntelligenza Artificiale con un corpo fisico. L’IntelligenzaArtificiale fornisce al robot la sua intenzionalità di azione, ilsuo comportamento. Più semplicemente, un robotintelligente è una creatura meccanica che può funzionare inmaniera autonoma.

Ma cos’è l’intelligenza e come possiamo definirla? Nonesiste una definizione universale, il concetto di intelligenzapuò assumere diversi significati a seconda della cultura –asiatica o occidentale, per esempio – o della disciplina che sene occupa (psicologia, etologia, filosofia ecc.). Senza avere lapretesa di trattare in maniera esaustiva l’argomento, dalmomento che viene dibattuto da almeno un secolo da filosofie psicologi che le hanno dedicato interi volumi, potremmodire che l’intelligenza è la facoltà di comprendere e implical’insieme di funzioni mentali, come la ragione, il giudizio e ilpensiero astratto, che contribuiscono alla conoscenzaconcettuale e razionale. Questa definizione richiede lapresenza di un cervello. Un’altra definizione più generale èquella che descrive l’intelligenza come la capacità di unessere vivente di affrontare e risolvere con successosituazioni e problemi nuovi o sconosciuti.

Da un punto di vista ecologico ed evoluzionistico lo stessoconcetto può essere definito come segue: l’intelligenza è lacapacità di un individuo di adattarsi a una data situazione,adeguando al meglio il proprio comportamento in funzionedel contesto e dell’ambiente circostante. Quindi adattamentoe comportamento flessibile alle situazioni nuove o complessesembrano essere criteri fondamentali nello sviluppodell’intelligenza. Possiamo, allora, definire una piantaintelligente?

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Una pianta è un essere vivente in grado di adattarsiall’ambiente circostante anche in condizioni estreme – adesempio, dopo un incendio – e di interagire con gli altriorganismi che lo abitano. Traete voi le conclusioni sulla basedella precedente definizione di intelligenza.

Ma se le piante sono intelligenti e in grado di adattarsiall’ambiente circostante, può un robot aiutarci acomprendere meglio le caratteristiche che le rendono tali?Questa è la sfida che ci siamo posti quando abbiamo iniziatoa lavorare sui plantoidi, ed è ciò che proverò a raccontarenei prossimi capitoli.

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Belle senz’anima

Abbiamo visto come la robotica bioispirata si proponga distudiare alcune proprietà degli esseri viventi, soprattuttoanimali, per riprodurle in macchine autonome che riescano aoperare con efficacia in ambienti naturali. È pensabilerealizzare un robot che si muova, percepisca l’ambiente,comunichi con altri organismi e prenda decisioni sulledirezioni di crescita, ispirandosi alla biologia delle piante?

Oggi posso rispondere che sì, è possibile, ma l’inizio delpercorso che mi ha condotta fin qui non è stato scevro dipregiudizi e difficoltà.

Le prime volte in cui mi sono trovata a presentare l’ideadel plantoide alla comunità scientifica internazionale, apartire dal 2008, durante incontri o conferenze, riscontravouna reazione a dir poco tiepida nella platea che mi ascoltavaparlare di sistemi artificiali per l’esplorazione del suoloispirati alle caratteristiche delle piante. Una delle domandepiù frequenti che mi venivano rivolte era: «Perché proprio lepiante? Esistono animali che esplorano il suolo in manieramolto efficiente, come le talpe o i lombrichi». Altriobiettavano seccamente che un robot, per risultare utile,deve potersi muovere e percepire l’ambiente: cose che lepiante non sono in grado di fare.

Incontrai lo stesso muro di pregiudizio anche quando, nel2009, decisi di presentare alla Commissione europea laprima versione di Plantoid («Innovative Robotic ArtefactsInspired by Plant Roots for Soil Monitoring»), una propostadi ricerca focalizzata sullo sviluppo di un robot ispirato alleradici delle piante, le cui applicazioni potevano risultare di

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grande utilità in agricoltura e nel monitoraggio ambientale.Il gruppo di ricerca da me coordinato nell’ambito di questoprogetto includeva brillanti scienziati di fama internazionale:Stefano Mancuso dell’Università di Firenze, famosoneurobiologo italiano con cui avevo iniziato anni prima aparlare delle caratteristiche straordinarie delle piante e dellaloro possibile traduzione in campo ingegneristico; DarioFloreano, dell’EPFL di Losanna, in Svizzera, luminare nelcampo della robotica evolutiva, specializzato in robot volantie bioispirati; e lo spagnolo Josep Samitier dell’Istituto dibioingegneria della Catalogna, un esperto internazionale disensori e microsistemi. La nostra idea fu accolta daivalutatori con radicale scetticismo e soltanto al terzotentativo, dopo tre anni, ottenne una valutazione positiva conil massimo del punteggio, consentendoci di partire conquesta straordinaria esperienza lavorativa e formativa.

Il pregiudizio nei confronti delle piante e delle loro ridottefunzionalità affonda nell’antichità. Aristotele nel suo DeAnima sostiene che anche le piante hanno un’anima, inquanto dotate di organi, seppur semplici, che consentonoloro di crescere, assumere nutrimento e riprodursi. Nelpensiero del grande filosofo e scienziato greco, le proprietàdell’anima sono direttamente collegate al livello di sviluppodel corrispondente organismo: si parla, quindi, per le piantedi proprietà nutritive e di anima vegetativa; sensitive emotrici negli animali (anima sensitiva); e intellettivenell’uomo (anima intellettiva). Le proprietà non sonoseparate tra loro e le più complesse includono le piùsemplici.

La definizione aristotelica delle piante non si discosta poimolto dal pensiero botanico degli scienziati sette eottocenteschi. Nel diciottesimo secolo John Ellis, notonaturalista dell’epoca, in una lettera indirizzata a Linneo, ilgrande studioso svedese a cui si deve la modernaclassificazione scientifica degli organismi viventi, descriveva

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le caratteristiche di una pianta carnivora chiamata Dionaeamuscipula. Ellis inviò a Linneo uno schema dettagliato dellapianta, mostrando che è in grado di muoversi tantovelocemente da intrappolare e uccidere mosche e altreprede. Nella didascalia che accompagnava il disegno Ellisscriveva che ogni foglia è come una trappola per topi inminiatura dotata di denti e si chiude su qualunque mosca oaltro insetto si insinui tra i suoi lobi, stringendolo fino allamorte. Una sorta di macchina per catturare il cibo.

La Dionaea muscipula chiude le proprie foglie in meno di unsecondo quando una potenziale preda tocca i peli tattili all'interno

della foglia. (© Barbara Mazzolai)

Protestante, ligio in senso letterale alla Bibbia, Linneo

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rifiutò di credere alla natura carnivora della Dionaea perché«l’idea che una pianta sia in grado di intrappolare e uccidereinsetti è assolutamente contro l’ordine naturale voluto daDio». Con il suo Systema Naturae, Linneo voleva faremergere dall’esame delle creature l’immenso e perfettodisegno di Dio. Citando la Genesi, rispondeva a Ellis dicendoche Dio ha creato le piante affinché gli animali e gli uominipossano nutrirsene. E non il contrario. Linneo era lamaggiore autorità botanica dei suoi tempi e nonostanteall’epoca studiasse i generi che oggi noi sappiamo esserecarnivori, come Drosera, Sarracenia, Pinguicula eUtricularia, tacciava di blasfemia i botanici che sostenevanola natura carnivora di questi e altri vegetali.

Più di un secolo dopo, nel 1875, Charles Darwin pubblicala versione originale del libro Piante insettivore50 in cuidescrive, con spettacolare dovizia di particolari, le lorocaratteristiche, trattando approfonditamente proprioDrosera rotundifolia, Dionaea muscipula, Aldrovandavesiculosa, i generi Pinguicula e Utricularia, e dando per laprima volta la dimostrazione scientifica della naturacarnivora già intuita da Ellis. Particolarmente significativo èil percorso svolto dallo studioso prima di giungere allapubblicazione di questo libro.

Darwin era a conoscenza del ritrovamento di alcuniesemplari di piante contenenti insetti morti al propriointerno e in particolar modo conosceva il genere Nepenthes,poiché l’espansione coloniale britannica verso l’EstremoOriente aveva fatto sì che pervenissero in Inghilterranumerosi esemplari vivi di questa pianta, molto amata dairicchi inglesi. Nel 1860 Darwin visita il Sussex el’Eastbourne, dove trova esemplari vivi di Droserarotundifolia. Si dedica quindi allo studio eall’approfondimento di questa pianta e i risultati che ottienesono tali che potrebbe pubblicare presso la Società Linneanale prime note sull’argomento. Tuttavia le parole di Linneo in

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materia di botanica hanno messo a tacere numerosi studiosifino alla seconda metà del 1800 e Darwin è preoccupato divenire deriso dai sostenitori di Linneo. Così esita e solo dopomolti anni pubblica il suo libro sul tema e lo intitola Pianteinsettivore, piuttosto che «carnivore».

Noto e apprezzato dai più prevalentemente per gli studisull’evoluzione degli esseri viventi, culminati nellapubblicazione dell’Origine delle specie nel 1859, Darwinscrisse ben sei libri e una settantina di articoli di stampobotanico e, durante il suo viaggio a bordo del Beagle,raccolse oltre duecento esemplari di piante delle Galápagosche catalogò con rigore scientifico. Fu proprio grazie aquegli attenti e rigorosi studi sulle piante che potéapprofondire la sua teoria sull’evoluzione e sulla selezionenaturale. Dopo L’origine delle specie il naturalista inglesescrisse infatti numerosi libri sulle capacità percettive, dicomunicazione e di movimento delle piante, formulandoipotesi precise e corrette e osservazioni ancora oggi ritenutevalide.

Questo rapido assaggio di storia della scienza ci dimostraquanto sia antico il diffuso pregiudizio sull’inferiorità delmondo vegetale, e come si fondi in realtà su una limitazionenelle capacità percettive umane: il nostro occhio non riesce avedere i movimenti delle piante perché questi avvengono nelsuolo, come nel caso delle radici che crescono in profondità,o perché avvengono troppo lentamente per essere colti.Questa mancata percezione ha fatto sì che la scienza abbiafaticato a considerare le piante qualcosa di più e di diversoda una pura fonte di cibo per gli animali e l’uomo. Ilpregiudizio ha insomma limitato i nostri orizzonti, la nostraprospettiva sul mondo, e ha continuato a farlo a lungo, anchedopo che il progresso tecnologico ci aveva offerto strumentiabbastanza avanzati da superare la nostra impossibilitàfisica di osservazione.

L’innovazione alla base del plantoide nasce proprio dalla

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volontà e dalla capacità di osservare le piante con occhidiversi, a partire dai criteri normalmente utilizzati nellostudio degli animali per la realizzazione dei robot a loroispirati, ovvero: movimento, percezione e controllo,comunicazione, velocità.

Come si muove una pianta? Come sceglie la direzione dicrescita? Perché alcune piante riescono a compieremovimenti rapidissimi in poche frazioni di secondo, e comefanno? Le piante comunicano tra loro, e se sì che cosa sidicono? Ma soprattutto che cosa c’è del mondo vegetale inun plantoide?

Andiamo a scoprirlo...

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Il movimento invisibile

Immaginate di essere seduti a un tavolo e di essere moltoassetati. Per qualche motivo non potete alzarvi a prenderequella bottiglia di acqua fresca che si trova a pochi metri davoi. Che fare? Le vostre dita iniziano a crescere, superano lacolonna che si frappone tra voi e la bottiglia, per poiafferrarla con cupidigia. Finalmente potete bere. Tuttavia, ameno che non siate come Mister Fantastic dei FantasticiQuattro, che ha la capacità di estendere e deformare il suocorpo come se fosse di gomma, tutto ciò rimane nella vostrafantasia.

Ebbene, una radice che cresce nel suolo alla ricerca diacqua si comporta proprio come Mister Fantastic. Così comeun ramo, che si allunga verso la luce, una radice si estendeaggiungendo nuove cellule a livello dei suoi apici. Cresce,quindi, e lo fa per tutta la vita adattando, al tempo stesso, ilproprio corpo e la propria morfologia all’ambientecircostante. La pianta è l’unico essere vivente che associa ilmovimento alla crescita. Per questo motivo in biologia siattribuisce alle piante un’elevata plasticità, ovvero lacapacità di plasmare e adattare il proprio corpo a tutto ciòche trova lungo il suo percorso.

I primi a classificare i movimenti compiuti dalle piantesono stati, ancora una volta, Charles e Francis Darwin, chenel loro fondamentale saggio Il potere di movimento nellepiante (The Power of Movement in Plants) pubblicato daJohn Murray nel 1880, ne individuano tre tipi diversi, adimostrazione di quanto sia errata la comune percezionedelle piante come esseri immobili. Parliamo quindi di

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tropismi, classe di movimenti indotti da fattori esterni edipendenti dalla direzione dello stimolo (ad esempio lospostamento con cui una pianta si orienta in direzione delsole); movimenti nastici, dipendenti da fattori esterni ma noncorrelati alla direzione dello stimolo (come l’apertura e lachiusura di alcuni fiori con la luce, o la chiusura veloce dellefoglie della Dionaea muscipula); e le circumnutazioni,termine introdotto per la prima volta da Charles Darwinproprio in questo libro, per descrivere una particolare classedi movimenti oscillatori con traiettorie ellittiche o a spiralegenerati dalle zone in crescita delle piante, come gli apicidelle radici e della parte aerea. Le circumnutazioni, lovedremo più avanti, sono cruciali per le piante rampicanti.

In questo capitolo ci occuperemo di capire più a fondoquali sono i meccanismi associati alla crescita di una radicee al movimento che ne consegue nel suolo. Nel capitoloconclusivo del libro ci occuperemo invece più da vicino dellecircumnutazioni e di come siamo riusciti a imitare questimovimenti nei nostri robot.

Molte specie di piante, anche se non siamo in grado diosservarle direttamente, hanno radici che penetrano perchilometri nel suolo, creando reti e infrastrutture. Vi è maicapitato di osservare le radici del pino marittimo (Pinuspinaster)? Sono fortissime, in grado di aprirsi varchi nelcemento, penetrare murature e fondamenta degli edifici,schiantare tubature, sconquassare le coperture stradali.Come si concilia questa forza inarrestabile con la proverbialelentezza di un albero?

Io vivo in un piccolo ma delizioso paese della Toscana dinome Castiglioncello, ricco di vegetazione tipica dellamacchia mediterranea, e quindi di pini. Le nostre strade nesono letteralmente devastate. Il pino è una pianta cheavrebbe bisogno di crescere in ampi spazi e praterie, lontanodalla concorrenza di altri alberi, ma viene spesso trapiantatoaccanto a strade o edifici. Le radici di questi splendidi alberi

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crescono inizialmente a fittone per poi espandersisuperficialmente, nei primi trenta o quaranta centimetri diterreno. E non amano farsi contenere.

Le radici riescono a penetrare nei suoli, anche quelli piùresistenti, sfruttando un ingegnoso meccanismo checonsente loro di ridurre le pressioni necessarie per lospostamento. Crescono aggiungendo nuove cellule in unazona dell’apice radicale, ovvero la parte più distante dalfusto, che si chiama meristema. In quest’area le cellule sidividono per mitosi51 e poi si allungano per assorbimento diacqua dall’ambiente esterno. La zona della radiceimmediatamente al di sopra dell’apice è infatti caratterizzatada tessuti con cellule in via di differenziazione, ovvero chepassano a una forma più matura con funzioni piùspecializzate, e per questo definita zona di differenziazione.Alla distensione delle cellule nel meristema è dovuto inmassima parte l’accrescimento in lunghezza della radice.Questo fenomeno determina una spinta verso il basso,consentendo il movimento nel suolo della sola parte apicale.È una fine strategia che permette di mantenere immobile ilcorpo della radice più matura, così da ridurre enormementel’attrito che ostacolerebbe il movimento radicale.Ricapitolando, il meccanismo è il seguente: le cellule dellapunta della radice si dividono, assorbono acqua e infine siallungano, producendo un movimento verso il basso.

Nel processo di penetrazione della radice nel terreno, unruolo fondamentale è svolto anche da una moltitudine di pelisottili che si formano nella zona sopra la punta e che siinseriscono tra le particelle di suolo, al fine di ancorarequesta parte della radice al substrato. Inoltre, non appenal’apice radicale è penetrato nel suolo a profondità limitata, siverifica un aumento radiale della radice che, unito allaproduzione di peli, rende la spinta longitudinale tramite lacrescita più efficace e consente alla radice di penetrare piùin profondità. Ecco che anche una radice di dimensioni

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modeste, come quella del fagiolo, può spostare un peso diqualche chilogrammo.52

Per ridurre gli attriti durante la crescita nel suolo la radiceadotta anche altre strategie. A livello della punta rilasciamuco e cellule morte, che creano una sorta di guainaprotettiva, evitando il danneggiamento dei tessutisottostanti. Inoltre, questo strato di cellule morte sicomporta come un’interfaccia tra la radice e il suolo,riducendo ulteriormente l’attrito esterno. È proprio a questofenomeno naturale che ci siamo ispirati per realizzare laprima versione di radice artificiale.53 Certo, la radicenaturale è molto più complessa. Per seguire o allontanarsi dastimoli ambientali, oppure per evitare gli ostacoli, le radiciriescono a curvarsi tramite un processo di crescitadifferenziale, ovvero regolando l’incremento e/ol’allungamento di cellule sui lati opposti della radice.

Negli anni abbiamo sviluppato sistemi robotici capaci diriprodurre una gamma sempre più ampia di movimenticompiuti dalle piante, ed è sorprendente considerare ilritardo con cui questa branca della robotica si sia sviluppata,rispetto a quella ispirata dal mondo animale. Un limitepercettivo proprio dell’uomo – la difficoltà nell’osservare imovimenti delle piante e soprattutto delle loro radici – haostacolato per lungo tempo lo studio delle capacità sensorialie decisionali degli esseri vegetali e, di conseguenza, anche larobotica ha stentato a considerarli come possibili modelli perlo sviluppo di nuove macchine.

Oggi è sufficiente utilizzare la tecnica fotografica del time-lapse, che accelera il movimento, per godere dellameravigliosa danza di un fiore o di una pianta, per assisterealla rotazione compiuta da una foglia che si dispone a favoredel sole, per osservare un fiore che sboccia o si chiudeall’imbrunire, una radice che tocca il terreno ed evita unostacolo quasi fosse un lombrico,54 o un ramo di vite che siattacca a un traliccio. Un tempo invece questo genere di

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osservazioni ci era precluso, o era molto complesso daottenere.

Quando abbiamo iniziato a lavorare al progetto delplantoide, con il mio gruppo di ricerca avevamo ben chiaroquale dovesse essere il primo step del lavoro: l’osservazione.Grazie a tecniche di time-lapse, terreni artificiali trasparentisimili alla gelatina, e set-up sperimentali abbiamo potutoosservare e capire le strategie di movimento e interazionetra le piante e l’ambiente circostante.55 Ci è apparso subitochiaro che le piante compiono molteplici movimenti che,sebbene non si basino su contrazioni muscolari, sonoefficienti al punto da aver consentito a questi esseri verdi diconquistare ogni ambiente sulla Terra, anche i più estremi.Raramente le piante si muovono ad alta velocità (vi sonosoltanto pochi esempi di «fretta», nel Regno vegetale, comela Mimosa pudica e la Dionaea muscipula, che chiudono leloro foglie in frazioni di secondo, quando toccate, o il Cornuscanadensis, i cui fiori si aprono alla velocità di 6,7 metri alsecondo). D’altra parte le piante si muovono soprattutto inrisposta a stimoli, come luce, gravità, tatto e sostanzechimiche. Questi stimoli non richiedono in genere unarisposta immediata ed è per questo che le piante non hannofretta. Si sono evolute, di conseguenza, in manieracompletamente diversa rispetto agli animali. È in questadiversità che noi scienziati troviamo la nostra maggiore fontedi ispirazione per creare nuovi automi.

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Plantoide: storia di una rivoluzione

Se volessimo riassumere in una sola parola il principaleelemento di novità del plantoide, direi che è la suapotenziale plasticità. È il primo robot mai costruito checresce e cambia la propria morfologia, esattamente come ilsuo modello biologico: la radice di una pianta.

Come è fatta dunque una radice robotica? Come quellanaturale, anche la nostra radice artificiale è dotata di unaparte apicale munita di sensori per la misurazione di svariatiparametri nel suolo – acqua, gravità, temperatura, sostanzechimiche –, e di sensori tattili che servono a evitare gliostacoli. A ogni sensore è associato un tropismo, ovvero ilmovimento attraverso cui la radice riesce a avvicinarsi o aallontanarsi dallo stimolo, a seconda che sia positivo onegativo per la pianta. Ad esempio si definisce«idrotropismo» la crescita in direzione di un gradiente diacqua, e «tigmotropismo» la capacità di una pianta di evitareun ostacolo.

L’aspetto davvero rivoluzionario del plantoide, tuttavia,risiede nella sua capacità di muoversi attraverso la crescita,proprio come fanno le piante in natura. La svolta è arrivataquando abbiamo pensato di miniaturizzare e integrareall’interno dell’apice robotico una stampante tridimensionaleo 3D.56 Le stampanti commerciali ricevono da un computerun file nel quale è descritta la geometria tridimensionaledell’oggetto da creare, e la utilizzano per stampare insuccessione strati dell’oggetto stesso. In pratica lageometria viene «affettata» con tagli in sezione trasversale ele porzioni così create vengono stampate una sopra l’altra

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per ricreare fisicamente l’oggetto. Nel caso del plantoide, leistruzioni per costruire la struttura tridimensionaleprovengono dal suo interno – ovvero dai tropismi che siattivano in base alle informazioni raccolte dai sensori – e nonda un computer esterno. Come funziona? Nell’apice roboticoè integrato un motore che «tira» da un rocchetto unfilamento di materiale plastico sensibile alla temperatura.Quest’ultimo viene depositato a contatto con la puntaattraverso ruote dentate e scaldato da una resistenzaelettrica, anch’essa collocata all’interno dell’apice. Una voltascaldato, lo strato di materiale diventa morbido e al tempostesso adesivo, quindi in grado di attaccarsi allo stratoprecedentemente depositato. Strato dopo strato il robotcresce e crea la sua struttura in autonomia. Il corpo che sicrea è cavo al suo interno e questo spazio viene utilizzatoper far passare i fili elettrici diretti all’apice, insieme ad altrisensori, ad esempio fibre ottiche, che possono essere utili infunzione della specifica applicazione del robot. Siamo passaticosì dal mondo naturale a quello artificiale non attraversouna copia, ma piuttosto astraendo il principio alla base delfunzionamento che consente alla radice di muoversi nelsuolo riducendo le pressioni e gli attriti: la crescita.

Per il raggiungimento di questo obiettivo è statofondamentale il concomitante sviluppo a livellointernazionale di tecnologie innovative come le stampantitridimensionali, che ci hanno consentito di superare quelfamoso gap tecnologico che si verifica ogni qual volta citroviamo di fronte a un’idea nuova, inesplorata. Il rischio concui ogni inventore deve misurarsi, dai tempi di Leonardo eprima ancora di lui, è quello di aver precorso troppo i tempie di trovarsi nell’impossibilità tecnica di andare oltre ilconcetto e di validare le proprie teorie dimostrandole nellapratica. A noi, per fortuna, questo non è accaduto.

Associato alla crescita, c’è il concetto di velocità richiestaper muoversi in un ambiente estremo come il suolo,connotato da alte pressioni e attriti elevati. Sebbene il nostro

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robot si muova a velocità superiori a quelle della radicenaturale (considerate che Zea mays, il comune mais, simuove a 1-3 millimetri all’ora, mentre la nostra radice fa i 2-5 millimetri al minuto), una velocità elevata, in questo caso,non rappresenta un valore di per sé. Nel suolo le altevelocità determinano anche un aumento dell’attrito e quindidel consumo energetico. A ciò va aggiunta la necessità, daparte della radice così come del plantoide, di esplorarel’ambiente, seguire o allontanarsi da gradienti fisici ochimici, evitare ostacoli, mediare e integrare i diversi stimolia cui è sottoposta. Muoversi ad alte velocità, in questo caso,non è la condizione ideale.

Pensiamo a una quercia o a una grande sequoia, solo perfare degli esempi. Il tempo e la velocità assumono per lorovalori dilatati. Queste piante, come anche il cipresso, l’olivo,il platano, il tasso, possono raggiungere età millenarie,crescere per tutta la vita alle loro estremità, adattarsi acondizioni mutevoli. Un esempio estremo di crescitaindeterminata è rappresentato da una specie di pinochiamato Pinus longaeva. Alcuni esemplari di questo alberohanno intorno ai cinquemila anni. Uno degli esemplari piùantichi sorge nelle White Mountains in California ed è statobattezzato Matusalemme, proprio per la sua longevità! Moltegenerazioni di cellule – nelle foglie, nei rami, nel fusto enelle radici – sono morte, ma vengono continuamentesostituite dai meristemi. Quindi, se una parte della pianta hacirca cinquemila anni, la maggioranza delle cellule checompongono i suoi apici avrà pochi anni. È questo il segretodella vita eterna degli alberi: attraverso la costantesostituzione cellulare l’albero riesce a mantenere la propriagiovinezza.

Abbiamo tradotto in tecnologia questo segreto elisir dilunga vita, implementando nel nostro robot la crescita dalleestremità per aggiunta di nuovo materiale, introducendoinoltre una velocità ottimizzata in funzione dellecaratteristiche dell’ambiente, capacità sensoriali in grado di

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guidare il movimento delle radici e un’intelligenza distribuitaa livello apicale, come vedremo più avanti.

Dotato di un tronco, radici e rami con foglie, il plantoide realizzatoall'IIT si ispira alle piante e alle loro capacità di percezione,

movimento e intelligenza distribuita. (© Emanuela Del Dottore@CMBR IIT)

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Guardando il plantoide si intuisce immediatamente la suaderivazione vegetale. Il corpo principale è composto da untronco in materiale plastico, all’interno del quale è alloggiatala parte elettronica. Con un po’ di fantasia il tronco ricordaquello di un olivo, una pianta che adoro per il suoportamento e le venature scure. Dal tronco si diramanocinque radici con i loro apici sensorizzati e una parte aerea,costituita da rami sui quali sono integrate foglie artificiali. Imateriali di cui sono formate le foglie sono anch’essi ispiratiai tessuti delle piante, e rispondono a variazioni delcontenuto di umidità dell’aria o della temperatura. Pensate auna pigna, che si apre e si chiude in particolari condizioni dicalore e umidità, o al seme di farro che penetra nel terreno,solo per citare alcuni tra i casi più noti: entrambi si muovonograzie all’interazione tra i materiali di cui sono composti e iltasso di umidità dell’aria e rappresentano un esempiomirabile di efficienza energetica. Ciò che più sorprende èche tutte queste strutture57 sono morte e quindi prive dimetabolismo, ma continuano a muoversi interagendo conl’ambiente. Un esempio estremo di efficienza energetica!Siamo in presenza di una classe di movimenti che non sibasa sulla contrazione di muscoli come accade per lamaggioranza degli animali, uomo compreso. Al contrario lepiante hanno sviluppato e potenziato una strategia chepotremmo definire di movimento passivo, che sfruttal’energia disponibile nell’ambiente – sotto forma ad esempiodi umidità o di luce – per ottenere risultati senza dispendioenergetico da parte del soggetto. In questo senso, ladispersione dei semi diventa una strategia di movimentousata dalle piante per spostarsi da un sito all’altro.

Durante la progettazione del plantoide abbiamo studiatoun modo per tradurre tecnologicamente questa strategiavegetale dei movimenti passivi, e per farlo ci siamoconcentrati sui materiali. Le foglie del nostro plantoide sonostate realizzate con polimeri plastici di diversa tipologia:

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uno, depositato in forma di strati sottili, che risponde allevariazioni di umidità ambientale, e l’altro che guida ilmovimento. Questi materiali intelligenti funzionano dasensori e motori al tempo stesso e, proprio come quellinaturali, possono interagire con l’umidità dell’ariagenerando un movimento associato: le foglie del plantoidesono dunque in grado di aprirsi e chiudersi in risposta algrado di umidità ambientale.58

Le foglie del plantoide, realizzate con polimeri plastici, si muovonoper l'interazione con l'umidità dell'aria. (© Silvia Taccola @CMBR

IIT)

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In un futuro spero non troppo lontano il mio sogno èrealizzare dei robot-pianta che crescano adattando la propriamorfologia all’ambiente che esplorano. Un robot così fatto,dotato di telecamere e sensori, potrebbe muoversi in areepotenzialmente pericolose per l’uomo senza mai perdere ilcontatto con un operatore, che potrebbe seguirne imovimenti da remoto. Le sue applicazioni potrebbero esserele più varie: penetrare tra detriti o macerie per esplorare sitiinstabili o ricercare reperti archeologici nel suolo. A secondadei sensori integrati nelle punte, potrebbe essere utilizzatoin agricoltura59 e per il monitoraggio dei suoli alla ricerca diacqua, nutrienti o inquinanti. Nell’ambito di applicazioni perlo spazio, il nostro robot potrebbe essere impiegato perl’esplorazione dei suoli di pianeti alieni o per l’ancoraggio dialtri sistemi, compito svolto in modo eccellente dalle radicianche in natura. In medicina il plantoide (una sua versioneassai miniaturizzata) potrebbe venire adattato perfunzionare come endoscopio flessibile e non invasivo, ingrado di muoversi all’interno del nostro corpo senza crearedanni ai tessuti. Senza dimenticare che – come abbiamo vistoper Madeleine, la Salamandra robotica e molti altri robotdescritti in letteratura – il plantoide rappresenta anche unaeccezionale piattaforma di studio, tramite cui confermareipotesi biologiche. Con il mio team abbiamo utilizzato laradice robotica ispirata ai meccanismi di crescita dalla puntain modo da dimostrare quantitativamente i vantaggi diquesta strategia per muoversi nel sottosuolo, rispetto a unsistema analogo ma con spinta dall’alto. Dall’analisicomparativa è emerso che la crescita dalla punta consente aldispositivo di aumentare del quaranta percento la propriavelocità di penetrazione e di risparmiare energia fino alsettanta percento.60 Possiamo dunque concludere che laradice robotica, sebbene non sia ottimizzata in termini didimensioni e di geometria rispetto alla radice naturale,rappresenta un eccellente compromesso tra funzionalità e

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semplificazione della complessità del sistema biologico a cuisi ispira.

Nei capitoli che seguiranno vi condurrò lungo il sentiero distudio e scoperta del Regno verde sul quale io e il miogruppo di ricerca ci siamo incamminati quando abbiamodeciso di scandagliare l’ignoto e creare la prima pianta-robotdella storia dell’umanità.

Come in ogni indagine che si rispetti abbiamo dovutoraccogliere indizi, fare lunghi appostamenti, studiare a fondole abitudini dei nostri sospettati. Ci siamo così trovati aentrare nel cuore del geniale laboratorio della Natura, chenella sua millenaria esperienza di selezione e adattamentoha trovato soluzioni molto diverse da quelle umane a unaserie di problemi complessi. Dall’intelligenza distribuita nelcorpo (come nel caso degli apici radicali delle piante), allacomunicazione che avviene nel silenzio del sottosuolo (neparleremo nel prossimo capitolo, a proposito deglistraordinari studi della canadese Suzanne Simard), fino alleingegnose strategie di movimento che non hanno bisogno deimuscoli per realizzarsi, l’eleganza e la maestosa inventivadella Natura e delle sue leggi ci hanno ispirati e commossi,rafforzando in noi la convinzione che il rispetto e lo studiodel mondo naturale siano non solo un dovere, ma unanecessità imprescindibile per il progresso e la sopravvivenzastessa del genere umano.

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L’intelligenza delle piante

L’osservazione senza pregiudizi delle piante ci ha insegnatocome progettare nuovi dispositivi tecnologici a minorconsumo energetico, ma anche che l’intelligenza non deveessere necessariamente centralizzata, in una visionetipicamente antropocentrica. Intelligenza non vuol direinsomma necessariamente «cervello», così come scambio diinformazioni e comunicazione non passano necessariamenteper il linguaggio.

Charles Darwin e suo figlio Francis sostengono, nellaparte conclusiva di Il potere di movimento nelle piante, chesia impossibile non rimanere colpiti dalla somiglianza tra imovimenti delle piante e molte delle azioni compiute daanimali inferiori. In particolare descrivono la punta dellaradice come la più affascinante delle strutture vegetali, ingrado di comportarsi come una sorta di cervello – senz’altroparagonabile a quello di uno degli animali più semplici –, dipercepire specifici parametri ambientali e di reagiredirigendo la crescita verso l’umidità o i nutrienti. Ogni apiceradicale può essere considerato un «centro di comando»demandato a «prendere decisioni» riguardanti areestrategiche per la sopravvivenza: il nutrimento, lacompetizione, la difesa. Il comportamento che ne risulta èdetto «emergente», ovvero non è pre-codificato marappresenta il risultato dell’interazione diretta tra pianta eambiente, ivi incluse altre piante o altri organismi.

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Intelligenza di sciame e comportamenti emergenti nellepiante

In generale si parla di comportamento emergente – ointelligenza collettiva – ogni qual volta un comportamento ouna configurazione di alto livello si origina a partire dallemigliaia di interazioni semplici che avvengono tra agentisingoli. Detto in altre parole, consideriamo una collettività diagenti elementari (che siano i neuroni del sistema nervosoumano o le particelle presenti in un bicchiere d’acqua).Quando il singolo membro del gruppo (neurone, particella diidrogeno o di ossigeno che sia) non possiede determinateproprietà complesse (nel caso del bicchiere, per esempio, lacaratteristica liquidità trasparente dell’acqua; nel caso deineuroni, l’autoconsapevolezza tipica degli esseri umani), cherisultano però proprie del gruppo di cui fa parte, alloraqueste proprietà sono dette comportamenti emergenti, e sigenerano soltanto grazie all’interazione dei diversi membridel gruppo, o di diverse parti del sistema.

La biologia ha lungamente studiato i comportamentiemergenti degli animali, che talora adottano queste strategieal fine di risolvere problemi considerati difficili o impossibilida affrontare per i singoli individui. A tale proposito sonomolto famosi gli studi sull’intelligenza collettiva deglianimali, ben rappresentata da stormi di uccelli, sciami di apio colonie di formiche, banchi di pesci.

Vi sarà capitato di vedere in cielo la formazione di strane eipnotiche geometrie create dall’avvicinamento eallontanamento di uccelli in volo, centinaia di esemplari chesi muovono a grande velocità, senza mai urtarsi. Questienormi stormi non seguono gli ordini di un capo: ogniindividuo ha la stessa importanza e ricopre lo stesso ruolonel gruppo, ma ciascun elemento dello stormo prende ariferimento l’uccello a lui più vicino, cercando di assumere lastessa direzione e riuscendo incredibilmente a evitare lacollisione. Il motivo? I singoli uccelli si sentono in questo

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modo più protetti da eventuali predatori, che rimangonodisorientati dai movimenti del gruppo. Lo stesso avviene neibanchi di pesci, dove il singolo si nasconde tra gli altridiminuendo la probabilità di essere mangiato dai grossipredatori. Altrettanto noti sono gli studi sugli sciami di api ele colonie di formiche.

Sulla base di intuizioni biologiche ricavate dallo studio deicomportamenti emergenti di insetti sociali e animali, neiprimi anni Novanta è nata una nuova branca della robotica edell’informatica chiamata «intelligenza di sciame» o swarmintelligence. Nel 199061 un interessante esperimentocondotto su una colonia di formiche portò a un risultatoinaspettato: poste nella possibilità di scegliere tra duepercorsi di lunghezza diversa per raggiungere una fonte dicibo, le formiche tendevano a utilizzare nella maggioranzadei casi il percorso più breve. Come ci riuscivano? Esistevauna forma di comunicazione attraverso cui gli individui dellacolonia riuscivano a trasmettersi informazioni relative acaratteristiche esterne? La spiegazione è un perfettoesempio di comportamento emergente, ovvero di intelligenzacollettiva all’opera. La maggior parte delle formichecomunica rilasciando nell’ambiente molecole di feromoneche funzionano come «messaggio» per gli individui chepasseranno successivamente sullo stesso percorso.62 Se uncerto passaggio risulterà più vantaggioso di un altro, adesempio perché più vicino alla fonte di cibo, attirerà piùformiche, ospiterà un numero sempre maggiore di molecoledi feromone, e il numero di formiche che sceglieranno quelpercorso continuerà ad aumentare. Siamo di fronte a un casodi ottimizzazione del problema: mentre, da solo, un individuodella colonia non sarebbe stato in grado di risolvereefficacemente il quesito proposto (quale delle due strade è lamigliore?), la colonia nel suo insieme riesce agevolmente aelaborare una soluzione. È una forma di organizzazionedecentralizzata.

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I meccanismi del comportamento di sciame sono statistudiati, in robotica o nell’ambito dell’Intelligenza Artificiale,per realizzare nuovi algoritmi basati sui concetti dicomportamento emergente e intelligenza distribuita, incontrapposizione agli approcci più classici basati su unacentralizzazione dell’intelligenza.63 L’aspetto piùaffascinante della swarm intelligence è la suamultidisciplinarietà: modelli ricavati da studi biologicisull’intelligenza emergente vengono applicati con successo aproblemi afferenti a settori totalmente diversi tra loro, adesempio per ottimizzare la distribuzione di prodotti in unsupermercato o agevolare la viabilità in un centro abitato, oper studiare i comportamenti sociali dei gruppi umani.

Possiamo dunque dire che il comportamento emergentedegli animali è stato oggetto di uno studio capillare, che si èapplicato trasversalmente a una grande varietà di organismiviventi – dalle cellule ai pedoni in una strada urbana – e suuna grande varietà di scale spaziali e temporali. Ancora unavolta, però, le piante sono rimaste per lungo tempototalmente escluse dall’attenzione di questa branca dellaricerca, che non le aveva mai considerate come possibilemodello di intelligenza di sciame o distribuita. I primi lavorisull’intelligenza di sciame nelle piante iniziano intorno al2010 a opera dell’italiano Stefano Mancuso, del tedescoFrantisek Baluska dell’Università di Bonn e dello scozzeseAnthony Trewavas dell’Università di Edimburgo, per citarnealcuni. Qualche anno dopo con il mio gruppo all’IIT abbiamotradotto alcuni aspetti di questi concetti di intelligenzadistribuita in modelli di comportamento del plantoide.

Pensiamo a una pianta: è evidente che non possiede uncervello, non avendo neuroni né assoni. Ma quali proveabbiamo per sostenere che la presenza di un cervelloavrebbe rappresentato per le piante una soluzioneevolutivamente superiore? Non sarebbe stato, piuttosto, unazona potenzialmente vulnerabile e più facilmente attaccabile

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da predatori? Un unico cervello come potrebbe controllare lecapacità di una pianta di adattarsi e plasmare il propriocorpo rispetto all’ambiente circostante, mutandocontinuamente il proprio aspetto?

Con i loro milioni di apici radicali e una parte aerea dotatadi rami e foglie, in realtà le piante rappresentano il casoestremo di intelligenza distribuita in natura. Nel progettareil nostro plantoide abbiamo applicato modelli dicomportamento emergente dedotti dallo studio dellacomunicazione che si realizza tra gli apici delle radici di unapianta. Le radici, anche se invisibili ai nostri occhi, svolgonoun gran numero di funzioni essenziali e complesse:raccolgono informazioni sulle proprietà fisiche e sullacomposizione chimica del suolo che stanno attraversando ele usano per decidere in quale direzione continuare acrescere; possono perforare il suolo utilizzando una frazionedell’energia che consumano vermi, talpe o trivelle artificiali;sono i sistemi più efficienti a noi noti per l’esplorazionesotterranea.

Nel robot ogni radice artificiale ha il suo microcontrollore– un dispositivo elettronico – deputato a prendere decisioni equindi a implementare il comportamento. Risultato: la radicerobotica cresce secondo direzioni non precedentementeprevedibili, sulla base di «scelte» compiute dalla specificaradice in seguito alla percezione dell’ambiente da parte deisensori che, integrati nel suo apice, misurano il gradiente diacqua e sostanze chimiche, e i tropismi a essi associati.64

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Le radici artificiali si muovono in risposta a stimoli ambientali(umidità, gravità, tatto, luce, sostanze chimiche). In biologia, questi

movimenti sono chiamati tropismi. (© Emanuela Del Dottore@CMBR IIT)

Oltre ai tropismi abbiamo integrato nel plantoide ancheun’altra strategia di controllo ispirata alle piante marispondente a un concetto fondamentale anche per noiumani: l’importanza delle priorità. Durante le prime fasidella sua crescita in natura ogni pianta segue le prioritàscritte a livello del proprio DNA, ad esempio non opporsi allagravità, evitare gli ostacoli, assecondare il bisogno di acqua,azoto o fosforo. Queste priorità cambiano dinamicamentesulla base delle situazioni ambientali circostanti o dei nuovibisogni della pianta. Partendo da questa analisi delcomportamento vegetale abbiamo sviluppato e implementatonel robot un nuovo algoritmo basato sul fenotipo della

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pianta. Semplificando un po’, possiamo dire che il fenotipo èil risultato dell’interazione tra il genotipo, ovvero l’insieme ditutti i geni che compongono il DNA, e l’ambiente.Implementando questo algoritmo nel nostro robot otteniamocome risultato che le radici artificiali si coordinano tra loroalla ricerca delle sostanze di interesse. Qual è il meccanismoche consente questo risultato? Come ho accennatoprecedentemente, ogni radice robotica può «sentire» alcunesostanze nel terreno tramite i sensori integrati nel suo apicee crescere verso lo stimolo di interesse o allontanarsi daesso, sulla base dei tropismi. Come quelle naturali, le radicirobotiche si indirizzeranno verso una sostanza con maggiorepreferenza rispetto a un’altra sulla base del fabbisogno dellapianta robotica. Ad esempio, la pianta – e quindi anche ilnostro plantoide – potrebbe trovarsi in stress idrico omancare di potassio, di conseguenza l’assunzione dellesostanze di cui ha bisogno diventerebbe prioritaria e leradici si muoverebbero nella loro direzione, se lepercepissero nell’ambiente circostante. A seguitodell’assorbimento della sostanza in questione, il suo livello dinecessità diminuirebbe e conseguentemente le radiciinizierebbero a indirizzarsi verso altri target a più altapriorità. Considerando un numero elevato di radici, ilcomportamento emergente deriva dal fatto che ogni singolaradice agisce individualmente, sulla base di informazioni cheha a disposizione, perché acquisite localmente, integrate conquelle ottenute interagendo con le altre radici, così daprocurarsi un buon livello delle sostanze necessarie amantenere il benessere dell’organismo-pianta (e del suocorrispettivo robotico).65

Imitando il modello di pianta, il plantoide decide quindi inautonomia la direzione in cui estendere le sue radici, infunzione del bisogno emergente, e può inviare in modalitàwireless i risultati della sua esplorazione a un operatoreumano. Insomma, il robot lavora e l’uomo sorveglia.

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Nel campo della swarm intelligence ispirata alle piantesiamo ancora agli albori. Nuovi algoritmi sarannoimplementati partendo dallo studio delle capacità dicomunicazione tra piante o tra le varie parti di una stessapianta, così come è accaduto con animali, batteri o funghi.La ricerca progredisce spedita e le nuove scoperte sonoall’ordine del giorno, adesso che finalmente gli scienziatihanno superato il «pregiudizio verde» che limitava gliorizzonti della ricerca.

Recentemente sulla prestigiosa rivista Science66 è statopubblicato il lavoro di un gruppo di biologi giapponesi eamericani, i quali hanno scoperto che le foglie sotto attaccoinviano messaggi di allarme alle altre parti non ancoradanneggiate della pianta, attraverso un meccanismo diimpulsi chimici identico a quello usato dagli animali dotati diun sistema nervoso. Le cellule nervose dei vertebrati siparlano tra loro con l’aiuto di un amminoacido chiamatoglutammato, che agisce come un neurotrasmettitoreeccitatorio nel sistema nervoso centrale, facilitando loscambio di informazioni a lungo raggio tramite l’attivazionedei canali del recettore del glutammato. Una volta rilasciatoda una cellula nervosa eccitata, il glutammato aiuta ascatenare un’onda di ioni di calcio nelle cellule adiacenti.L’onda viaggia verso la cellula nervosa più prossima, che asua volta trasmette un segnale a quella successiva,consentendo la comunicazione a lunga distanza. Ebbene,secondo questo nuovo studio alle foglie accade la stessacosa, anche se a una velocità inferiore.

Le piante percepiscono i segnali locali, come l’attacco diun erbivoro, e trasmettono queste informazioni attraverso ilcorpo della pianta per attivare rapidamente le risposte didifesa nelle parti non danneggiate. Gli studiosi hannocondotto le loro ricerche sulle foglie di una piccola pianta dinome Arabidopsis thaliana,67 o arabetta comune, osservandoche, quando una foglia veniva tagliata, rilasciava

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glutammato, come fattore scatenante di una successiva ondadi ioni di calcio. In particolare si è potuto osservare comel’onda di ioni di calcio si generi inizialmente vicino allaferita, per poi propagarsi in modo da raggiungere le altrefoglie. Il glutammato, quindi, è un segnale della presenza diuna ferita nella pianta. I canali ionici della famiglia deirecettori del glutammato agiscono come sensori checonvertono questo segnale in un aumento dellaconcentrazione intracellulare di ioni di calcio, che si propagain organi lontani, dove vengono quindi indotte risposte didifesa.

I biologi sapevano già che i cambiamenti di una partedella pianta vengono percepiti da tutte le altre parti dellostesso organismo, ma non avevano idea di come avvenisse latrasmissione di queste informazioni: finalmente ilmeccanismo chimico all’origine della comunicazione è noto.

La Rete verde

Oltre a essere organismi le cui parti sono tutte incomunicazione l’una con l’altra, le piante parlano anche traloro e la canadese Suzanne Simard, esperta di scienza delleforeste e docente di ecologia forestale all’Università dellaBritish Columbia, lo ha dimostrato sperimentalmente.

La Simard voleva verificare direttamente sul campo lavalidità di una ricerca di laboratorio secondo cui la radice diuna plantula di pino poteva trasmettere carbonio alla radicedi un’altra plantula di pino. Questa trasmissione potevarealizzarsi anche in natura, nel sottosuolo? Per rispondere aquesta domanda la scienziata canadese si recò nel cuore diuna foresta, dove condusse un esperimento che coinvolgevaottanta esemplari di abete di Douglas e betulla da carta.Scoprì che le due specie si aiutano a vicenda e si scambianoinformazioni attraverso il terreno.68

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La Simard trattò la betulla con carbonio C14, un gasradioattivo, e l’abete con carbonio C13, una forma stabile enon radioattiva dello stesso gas. Lo scopo era capire se ledue specie avrebbero instaurato una comunicazionebidirezionale. L’esperimento consisteva nel misurare laradioattività nelle piante: attraverso la fotosintesi gli alberiavrebbero infatti assorbito l’anidride carbonica tracciata,trasformandola successivamente in zuccheri e inviandola alleproprie radici. L’ipotesi di Suzanne era che ciascuna piantanon si sarebbe limitata a trattenere il carbonio per sé, ma loavrebbe trasmesso al suo vicino attraverso il terreno.

Dopo poco più di un’ora dal trattamento, la radioattività siera diffusa a entrambe le specie, dimostrando che questestavano, per così dire, conversando!

L’aspetto più sorprendente della scoperta di SuzanneSimard è che la quantità di carbonio scambiata tra le duepiante non era stabile ma variava a seconda del periodostagionale e delle condizioni dei singoli alberi. In estate labetulla inviava più carbonio all’abete, soprattutto alle piantein ombra, di quanto quest’ultimo facesse nei confronti dellabetulla. Al contrario, in autunno e in inverno l’abete inviavapiù carbonio alla betulla che, essendo una piantacaducifoglia, ovvero che perde le foglie con il freddo, nonpoteva svolgere fotosintesi.

Gli alberi della foresta si aiutavano l’un l’altro,collaboravano, erano parte di un’unica rete.

Oggi sappiamo che queste due specie scambiano ancheazoto, fosforo, acqua, ormoni e segnali di difesa,aumentando la reciproca probabilità di sopravvivenza.

Questa comunicazione è resa possibile da simbiosimutualistiche sotterranee, dette micorrize (dal greco: mikos,«fungo», e rhiza, «radice») che avvengono tra radici efunghi.

Il fungo è un altro splendido organismo, catalogato in unregno a sé. Per molto tempo considerato una pianta, il fungoè in realtà eterotrofo, come gli animali, ovvero non è in

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grado di sintetizzare sostanza organica partendo damolecole inorganiche, come invece sono in grado di fare lepiante attraverso la fotosintesi.

Nella mia famiglia il fungo è sempre stato una presenzacostante. Mio padre è un micologo, uno studioso di funghi, eci ha insegnato sin da piccoli che il fungo ricopre un ruoloessenziale nel mantenere in salute l’ecosistema del bosco eper questo occorre sempre evitare di raccoglierne troppiesemplari tutti in una volta, o di distruggere quelli cheriteniamo, magari erroneamente, velenosi. Antiche norme dibuon senso, cui la straordinaria ricerca di Suzanne Simardha fornito un significato completamente nuovo.

La parte del fungo che vediamo emergere dal terreno èsolo il suo apparato riproduttivo, ma da essa partono ifilamenti fungini, o miceli, che affondano nel terreno estabiliscono connessioni con le radici delle piante: lemicorrize appunto. Si parla di simbiosi perché il fungo ricevedalle radici la sostanza organica che non è in grado dicreare, viceversa le radici ricevono dal fungo i sali minerali,come il fosforo, che sono necessari alla pianta per compierela fotosintesi.69

Le micorrize creano in pratica un’enorme retesotterranea, un vero e proprio «altro mondo» sotto i nostripiedi. Attraverso i miceli diverse piante, anche di speciedifferenti come nel caso dell’abete e della betulla, entrano inconnessione tra loro. La rete può estendersi per chilometri,coinvolgendo centinaia di esemplari. Suzanne Simard hainoltre scoperto che gli alberi più anziani si comportano da«albero madre» o hub, ovvero, attingendo al gergoinformatico, come un nodo di smistamento dati di una rete dicomunicazione. Gli alberi madre sono fondamentali per ilbenessere della foresta, perché nutrono gli esemplari piùgiovani, che crescono nel sottobosco e quindi non hannoaccesso alla luce, fondamentale per svolgere la fotosintesi esopravvivere. Un albero madre può essere insomma

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connesso a centinaia di altri alberi cui invia il carbonio ineccesso attraverso la rete micorrizica, aumentando di benquattro volte la possibilità di sopravvivenza delle piante piùpiccole.

Le sorprendenti scoperte di questa scienziata amantedelle foreste non si esauriscono qui. Sempre utilizzandoisotopi radioattivi, Suzanne ha condotto alcuni esperimentiper verificare se gli alberi madre fossero in grado diriconoscere la loro prole e ha dimostrato che effettivamentegli hub colonizzano la prole (ovvero i giovani esemplari dellaloro stessa specie) con micorrize più estese, inviando loropiù carbonio e riducendo la competizione radicale così dalasciare più spazio nel suolo per permettere alle radici dellaprole di accrescersi. Infine quando gli alberi madre sonoferiti o stanno per morire inviano segnali di difesa alleplantule, allo scopo di aumentare la loro resistenza aglistress futuri.

Altro che Avatar, verrebbe da dire!Sono stata totalmente rapita da questi studi, dai quali

emerge chiaramente che le deforestazioni massive alle qualistiamo assistendo negli ultimi decenni in molti continentiportano a una distruzione delle connessioni che gli albericreano tra loro e con gli altri abitanti del sottosuolo, daiquali dipende la salute delle nostre foreste e dei boschi.Troppo spesso ci dimentichiamo di come la nostra vita suquesto pianeta sia strettamente legata alla sopravvivenza delRegno verde e come da esso dipendano tutti gli ecosistemi,acquatici, aerei o terrestri.

I risultati dello studio della dottoressa Simard, e di moltialtri che hanno indagato le capacità di comunicazione trapiante e intrapianta, rappresentano per noi ingegneri dellabiorobotica la base sulla quale costruire algoritmi diottimizzazione, ovvero strategie per aumentare l’efficienzadel robot durante le attività esplorative, riducendo i tempi el’energia necessaria per il movimento.

In un futuro, spero prossimo, i plantoidi potrebbero

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rappresentare macchine al servizio dell’uomo, dotate di unapropria forma di intelligenza ispirata alle capacità diadattamento ed esplorazione delle affascinanti creatureverdi che da milioni di anni ci circondano in silenzio, e dallequali dipende la nostra vita.

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La forza dell’acqua

Abbiamo visto fin qui come, perfettamente adattate al lorohabitat, le piante mostrino funzioni molto simili alle nostre(si muovono, percepiscono l’ambiente, comunicano,esplorano, risolvono problemi, vivono in comunità e attuanosinergie), ma basate su fondamenti biologici totalmentediversi. Rappresentano un’alternativa evolutiva quasispeculare a quella del mondo animale: mentre uomini eanimali si sono evoluti privilegiando molto spessocaratteristiche legate alla velocità di movimento, il mondovegetale ha fatto della lentezza l’origine della propriaincredibile resilienza.

Lentezza, tuttavia, non vuol dire debolezza. Nonostante lasua struttura delicata ed esile, l’apice radicale riesce aesercitare elevate pressioni sul terreno circostante durantela sua crescita (ricordate il pino?), penetrando anche interreni molto compatti o addirittura rocciosi, impresa che aun uomo risulterebbe impossibile a meno di munirsi di unmartello pneumatico. Nel capitolo 9 abbiamo visto chequesto movimento è reso possibile da fenomeni di crescitacellulare e di assorbimento dell’acqua presente nel suolo daparte delle radici, che sfruttano un processo osmotico.70

Le piante si avvantaggiano dei meccanismi fisicidell’osmosi con risultati sbalorditivi. Nelle cellule vegetaliesiste la parete cellulare, assente nelle cellule animali, checostituisce il rivestimento esterno della cellula e rappresentauna sorta di involucro, relativamente rigido, formatoessenzialmente da cellulosa; la sua particolare robustezzaprotegge e sostiene la cellula vegetale. Al di sotto e in

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contatto con essa attraverso dei canali c’è la membranacellulare, o plasmalemma, che funziona da filtro selettivo:lascia passare l’acqua e solo alcune sostanze selezionatepresenti nel citoplasma cellulare. L’acqua svolge un ruolofondamentale perché la sua presenza o assenza regola ilturgore interno della cellula.

Le piante sono in grado di regolare il contenuto d’acquaall’interno dei loro tessuti, coordinando così il rigonfiamento-sgonfiamento delle cellule fino a ottenere un movimento (selibere di muoversi) e/o una forza (se confinate).Tecnicamente il meccanismo che genera il movimento e/o laforza si chiama attuazione, che negli animali dotati disistema muscolo-scheletrico è generata dalla contrazionemuscolare.

Nelle piante molti movimenti sono basati sul flusso diacqua generato da osmosi, ma accanto a questo agisconoaltri meccanismi coadiuvanti che producono i movimentiveloci, come ad esempio la chiusura delle foglie della Venereacchiappamosche, la piantina insettivora studiata da Darwin,che abbiamo conosciuto con il suo nome scientifico diDionaea muscipula (vedi capitolo 8). Quando una potenzialepreda stimola i peli tattili presenti sui lati interni delle suefoglie, queste si chiudono come se scattasse una molla, in untempo inferiore al secondo: è uno tra i movimenti più rapididel Regno vegetale. La velocità con cui scatta la trappoladipende da un meccanismo di cattura attivo che coinvolgeeventi elettrici, biochimici e meccanici. Oltre al processoosmotico, già citato, il movimento di chiusura veloce dellaDionaea dipende da una configurazione bistabile71 dellefoglie che cambiano velocemente la curvatura da convessa(aperta verso l’esterno) a concava (chiusa verso l’interno)quando i peli sono stimolati, ma anche dalla natura elasticadei tessuti delle foglie. Quando la pianta si trova nelle suecondizioni ambientali ottimali (temperature elevate, intornoai 35-40ºC, e piena irradiazione solare), i tessuti delle foglie

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di Dionaea sono gonfi d’acqua e dunque tesi, pronti ascattare al segnale convenuto facendo chiudere la trappola.

In particolare la trappola si chiude solo quando l’insettotocca due peli a distanza di circa venti secondi l’unodall’altro. A quel punto le foglie si stringono sempre piùintorno alla preda, senza lasciarle possibilità di fuga.L’intervallo di venti secondi è il tempo che è statoselezionato durante il percorso evolutivo come quello piùfavorevole all’intrappolamento della preda nel sistemafogliare. Per semplificare un po’, potremmo dire che laDionaea sa contare! Ed è anche per questo che CharlesDarwin definì questa piantina come «una delle piùmeravigliose del mondo».

Dopo aver intrappolato la preda, la pianta secerne enzimiche servono a degradare e digerire i tessuti animali: unadattamento straordinario che consente a queste piante, ead altre carnivore che vivono in terreni poveri di azoto, diacquisire questa sostanza fondamentale per il loro processodi crescita dagli animali di cui si nutrono. Una volta digeritala preda, la pianta inizia la fase di riapertura delle foglie, cheè basata invece solo sul processo osmotico e quindi moltopiù lenta. La pianta può impiegare ore, o addirittura qualchegiorno, per riaprirsi, e questa fase richiede un certodispendio energetico. Ecco perché è fondamentale che lapreda venga trattenuta, una volta chiusa la foglia: molteplicichiusure senza prede annienterebbero la pianta, checonsumerebbe più energia di quella guadagnata attraverso ilcibo.

Per realizzare il plantoide, con il mio gruppo di lavoroabbiamo cercato un modo di tradurre tecnologicamente ilsegreto del movimento delle piante: il risultato è un motoreartificiale denominato, appunto, attuatore osmotico.

Lo sviluppo dell’attuatore osmotico si è basato sullo studiodegli straordinari movimenti di una serie di piante come laDionaea, la Mimosa pudica, che chiude le sue foglie in pochiistanti non appena vengono toccate, la Drosera, dotata di

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trappole adesive per catturare le sue prede, o la Stylidiumdebile, altra carnivora dotata di una colonna con organimaschili e femminili fusi, che funziona come una specie digrilletto per rilasciare il polline. Quando un insetto sideposita sul fiore, il suo peso fa cambiare la pressioneosmotica e, conseguentemente, scattare il meccanismo incirca quindici millisecondi. L’insetto viene così ricoperto dipolline e può inconsapevolmente svolgere la sua funzione diimpollinatore.

Partendo da un’analisi approfondita dei fenomeni alla basedi questi movimenti, che ha attinto a nozioni di biologia,chimica, fisica e, ovviamente, ingegneria, abbiamoprogettato un attuatore che si basa sul flusso di acqua dauna «camera» a minore concentrazione di cloruro di sodio, aun altro compartimento a maggiore concentrazione dellostesso sale. Il processo richiede però anche l’uso diun’ulteriore membrana che, gonfiandosi per effetto delpassaggio d’acqua, traduce il fenomeno chimico-fisico in unprocesso meccanico, generando un movimento. Èinteressante notare come questa piccola membrana, con unasuperficie di soli venti millimetri quadrati, riesca aprotrudere e sollevare un peso di due chilogrammi.72

L’attuatore funziona grazie alla «carica» di sale inseritaall’inizio, senza la necessità di ulteriori forme dialimentazione: un grande vantaggio dal punto di vistaenergetico.

L’attuatore osmotico ci ha consentito inoltre di dimostrareempiricamente il ruolo degli osmoliti, cioè degli ionieffettivamente disciolti nel citoplasma cellulare (qualicloruro di potassio, glucosio, glutammina), la cuiconcentrazione regola la pressione osmotica. Storicamente ilcloruro di potassio è stato considerato il principale fattorenel generare il turgore cellulare nelle piante. Attraverso gliesperimenti realizzati con il nostro sistema artificiale,abbiamo capito che il ruolo di questo sale è importante solo

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nelle fasi iniziali del processo osmotico, che invece perduragrazie alla presenza di una miscela di più ingredienti, comeil glucosio e la glutammina.73 Abbiamo anche capito chel’acqua svolge un importante ruolo nelle piante, da un puntodi vista fisiologico, ma anche meccanico, nel creare un certoturgore tissutale che contribuisce a dare la rigidità chepermette alle piante di rimanere erette, e nel generaremovimenti attraverso il processo osmotico.

Questi movimenti a ridotto consumo energeticorappresentano una fonte inesauribile di idee nel mondoartificiale. Una versione ingegnerizzata e ottimizzata delnostro attuatore osmotico potrebbe essere utilizzata, adesempio, per il rilascio di farmaci da dispositivi posti sullapelle, senza necessità di utilizzare batterie o sistemi fluidiciaggiuntivi, come pompe o valvole. Un dispositivo di questotipo consentirebbe una notevole riduzione degli ingombri edell’energia necessaria al funzionamento del sistema, con unnetto miglioramento nella qualità della vita del paziente.

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E gira tutto intorno

Da bambina ero affascinata dalle piante di zucchine checrescevano copiose nell’orto di casa, curato da mio padrecon grande dedizione. Giorno dopo giorno invadevano lospazio e si arrampicavano attaccandosi a tutto ciò chetrovavano lungo il loro percorso, incluse le altre piante. Inquesta loro attività di free climbing si aiutavano attraversoquelle strutture apicali a forma di ricciolo dette viticci, cheusano per ancorarsi e supportare il peso dei rami.

Una volta, durante una prolungata assenza da casa deimiei genitori, dovetti occuparmi dell’orto, che finì pertrasformarsi in una selva disordinata. Durante unsopralluogo frettoloso mi accorsi che due piante di zucchine,non avendo più spazio per crescere in altezza, per aggirare ilrischio di entrare in competizione per la luce con pianteaffini si erano spostate sul vialetto e avevano puntato drittoverso il muro di casa. Erano cresciute perfettamenteparallele l’una all’altra: mantenendosi sempre equidistanti,erano salite sul muro e infine avevano trovato un tubodell’acqua sporgente a cui arrotolare i viticci.

Come avevano fatto a muoversi in maniera cosìsincronizzata e a trovare un nuovo supporto perfetto, senzaessere dotate della vista come noi o altri animali?

Nonostante la loro vita sessile, ovvero radicata nelterreno, ci è ormai chiaro come le piante siano in grado dimuoversi e reagire agli stimoli ambientali alla ricerca disostanze nutritive, evitando ostacoli e condizionipotenzialmente pericolose. Tra i vari movimenti attuati dallepiante e di cui abbiamo parlato nei capitoli precedenti, ve ne

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è uno che è stato osservato in tutte le specie vegetali ed èstrettamente dipendente dalla crescita: la circumnutazione.

Professioniste dell’arrampicata

Le circumnutazioni rappresentano una categoria dimovimento molto peculiare le cui origini e funzioni,osservate per la prima volta da Charles Darwin, sono tuttoraargomento di discussione. Si tratta di movimenti circolari oellittici intorno all’asse verticale sia delle radici che delleparti aeree delle piante. La causa è il processo di crescita eun allungamento delle cellule quantitativamente diverso suilati opposti della struttura: allungandosi di più o crescendopiù velocemente da un lato rispetto all’altro, la pianta sipiega nella direzione a minor crescita o allungamento. Ilrisultato di questo processo è un movimento oscillatorio alleestremità. Darwin sosteneva che in tutte le piante le partiche crescono compiono continuamente circumnutazioni,anche se spesso di piccola entità. In molte piante rampicantiquesti movimenti sono esagerati ed evidenti al fine dimassimizzare la possibilità di entrare in contatto con unsupporto che le sorregga. I movimenti variano in termini diangolo di curvatura e anche nel periodo necessario percompiere un’intera rotazione, che può richiedere dalle duealle quattro ore. Le circumnutazioni possono avvenire insenso sia orario sia antiorario ed è noto che le piantepossono anche invertire la direzione di moto.

Darwin credeva che le circumnutazioni guidassero tutti glialtri movimenti e fossero regolate da fattori interni. Studisuccessivi hanno dimostrato che la forma, l’ampiezza e ladirezione delle circumnutazioni sono influenzate anche dafattori esterni come luce, temperatura o sostanze chimiche.Un’altra teoria, supportata da esperimenti e da analisimatematiche, ha stabilito che le circumnutazioni sono

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movimenti originati in risposta allo stimolo della gravità.Tuttavia, altri esperimenti condotti nello spazio hannomostrato la presenza di circumnutazioni anche in assenza digravità,74 corroborando l’ipotesi di Darwin. A oggi la teoriapiù accreditata sostiene che le circumnutazioni siano indottesia da un meccanismo ritmico interno, generato da squilibrinella regolazione della crescita, sia dal gravitropismo,ovvero dalla crescita verso il basso in risposta alla gravità.

Non è ancora del tutto chiaro quale ruolo svolgano lecircumnutazioni rispetto alle radici delle piante, ma sembrache contribuiscano a ottimizzarne la penetrazione nel suolo.Per capire meglio questo concetto, possiamo aiutarci con unesempio molto semplice. Pensate a una bella giornata estiva,al mare. Per proteggerci dal sole decidiamo di portare connoi un ombrellone, e al momento di piantarlo nella sabbia ciaiutiamo istintivamente imprimendo un movimento rotatorio.Quella rotazione aiuta la penetrazione del bastone nelterreno e somiglia alle circumnutazioni delle piante, ma conuna differenza sostanziale: che la radice della pianta nonviene spinta dall’alto, ma esegue oscillazioni alle sueestremità.

Per validare tale ipotesi, io e la mia squadra abbiamocondotto esperimenti sulle nostre radici roboticheconfrontando l’efficienza del movimento di penetrazione cono senza capacità di circumnutare. Il risultato non ha lasciatomolti dubbi: a parità di velocità, la radice artificiale dotata dicircumnutazione ha bisogno dell’ottanta percento di forza inmeno.75

Le specie vegetali in cui risulta più evidente l’importanzastrategica di questa classe di movimenti sono senz’altro lepiante rampicanti, che non avendo un tronco possonoutilizzare gran parte della loro energia per muoversi verso laluce più in fretta degli altri organismi vegetali, e a tale scopohanno sviluppato strutture peculiari che consentono loro diattaccarsi ai sostegni in modo stabile.

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Le piante rampicanti utilizzano la maggior parte della loro energiaper crescere più in fretta delle altre piante e raggiungere la luce.

(© 2017 Luciano Socci)

Il primo a offrirci una classificazione delle pianterampicanti sulla base del meccanismo di attacco sfruttatoper aggrapparsi alle strutture ospiti fu proprio CharlesDarwin. Il naturalista inglese dedicò un intero libro a questo

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tema: I movimenti e le abitudini delle piante rampicanti,pubblicato nel 1875. Darwin classifica le rampicanti inquattro gruppi. Le volubili sono piante dal fusto debole cheriescono a sollevarsi da terra solo avvolgendosi con il corpointorno a sostegni; ne sono un esempio il fagiolo o il luppolo,che compiono grandi circumnutazioni con la parte giovanedel fusto. Ci sono poi le piante dotate di strutture adesive,quelle che si arrampicano utilizzando foglie, radici o uncinie, infine, le piante che utilizzano viticci per ancorarsi.Darwin era affascinato soprattutto da queste ultime duecategorie, per la loro capacità di identificare sostegni esternia cui attaccarsi, quasi fossero dotate di «occhi». Inoltre ilviticcio, dopo aver afferrato un supporto, lo stringe in unapresa che diventa più salda: caratteristica interessante,basata sulle sofisticate capacità tattili di piante come la viteo le zucche.

È ormai assodato che le piante sono estremamentesensibili al tatto, e questa assunzione è valida non soltantoper specie carnivore come la Venere acchiappamosche, laDionaea muscipula che abbiamo incontrato più volte neicapitoli precedenti e tanto cara a Darwin. Proviamo adaiutarci con un paragone vicino alla nostra esperienzaquotidiana: immaginate di percepire un filo che viene posatosul vostro avambraccio. Al di sotto di una certa grandezza,non sentirete alcunché. Questo perché la pelle umana puòpercepire un peso fino a due microgrammi, ovvero unmiliardesimo di chilogrammo. I tentacoli della Drosera,invece, arrivano a percepire un peso inferiore a unmicrogrammo e le piante rampicanti del genere Sicyos, unaspecie di zucca spinosa, possono sentire e rispondere a unpeso di appena 0,25 microgrammi. Quindi le pianteposseggono superfici esterne molto più sensibili al tatto diquelle umane!

L’idea che le piante siano dotate del senso del tatto fudiscussa per la prima volta da Darwin in Il potere dimovimento nelle piante, nel quale lo scienziato riportava i

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risultati dei numerosi esperimenti da lui condotti su pianterampicanti, da cui si evinceva indiscutibilmente la lorosensibilità al tocco. Darwin dimostrò ad esempio che i viticcidella pianta di pisello se toccati da un lato rispondono entrotrenta minuti, ma che questa risposta può essere annullatase, poco dopo il primo tocco, vengono toccati sul latoopposto. Dimostrò inoltre che il viticcio non risponde setoccato da qualcosa di piatto o se una goccia d’acqua è postasulla sua superficie. Ma se a quella goccia viene aggiunto ungranello di sabbia, il viticcio risponde e si piega.

GrowBot, la nuova sfida

Le piante rampicanti, con le loro straordinarie capacitàpercettive, adattative e di movimento, sono il nuovo modellobiologico dal quale io e la mia squadra dell’Istituto Italianodi Tecnologia di Pontedera stiamo prendendo ispirazione percreare un nuovo robot che cresce e si arrampica. Lochiamiamo GrowBot,76 dove grow indica la capacità dellepiante di crescere indeterminatamente, per tutta la vita, ebot è un’abbreviazione di robot.

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GrowBot è la nuova generazione di robot sviluppata all'IIT cheprende ispirazione dalle piante rampicanti. (© Virgilio Mattoli e

Barbara Mazzolai @CMBR IIT)

Capacità percettive e di controllo distribuite, movimenti

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tramite la crescita e potere decisionale che si esprime senzaun cervello sono gli aspetti fondanti di questa nuova roboticaadattativa. Il GrowBot è un robot che crescendo si adattaall’ambiente circostante, mutando in modo dinamico lapropria morfologia. Come avviene con il plantoide, anche inquesto caso l’operatore umano non conosce in anticipo laforma del suo robot, perché questa cambia a seconda degliostacoli che la macchina si troverà a incontrare, o deipertugi dove dovrà inserirsi, per esempio per recuperarereperti, come nel caso di missioni archeologiche, o nel corsodi operazioni di salvataggio.

Come per i plantoidi, anche per la realizzazione deiGrowBot siamo partiti dallo studio dei principi alla base deimovimenti e dei comportamenti del nostro modello biologico.Il primo sistema artificiale che abbiamo sviluppato ha formadi viticcio, e in particolare imita la specie Passifloracaerulea, una pianta rampicante sempreverde, detta anchefiore della passione. Il nostro viticcio artificiale è formato daun corpo soffice a forma cilindrica, in grado di avvolgersiintorno a un supporto e poi ritornare alla sua configurazioneiniziale. Il sistema si muove grazie alla presenza di unattuatore osmotico integrato nella struttura e al flusso diacqua generato al suo interno,77 come già illustrato nelcapitolo precedente.

I prossimi step del progetto GrowBot prevedono losviluppo di un robot che non solo sia in grado di riconoscerele superfici a cui attaccarsi o i supporti a cui ancorarsi, mariesca a farlo mentre cresce e si adatta all’ambientecircostante. Proprio come fanno in natura le vere pianterampicanti.

Recentemente abbiamo sviluppato altri sistemi artificialiispirati alla specie Galium aparine e alle sue struttureadesive. La superficie inferiore e superiore delle foglie diquesta pianta presenta delle sorte di uncini, gancimicroscopici disposti con diverse inclinazioni, che creano un

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incastro fisico. Il risultato è che, tra le rampicanti, questapiantina mostra una capacità unica di adesione a una vastagamma di oggetti di diversa ruvidezza e rigidità, e perquesto viene anche chiamata «attaccamani» o«attaccaveste». Le proprietà di ancoraggio differiscono inmodo significativo tra la superficie superiore e inferioredella foglia, in ragione della diversa direzione dei peli ruvidipresenti su di essa e dalla forza che riescono ad applicare.

Osservazioni sul campo suggeriscono che le fogliedell’attaccamani si attaccano prevalentemente utilizzando gliuncini presenti sulla superficie inferiore, mentre la funzioneprincipale della peluria ruvida sulla parte superiore dellafoglia è facilitare il suo movimento durante la crescita.Grazie a questa struttura uncinata le foglie di Galiumaparine riescono spesso a posizionarsi in manieravantaggiosa rispetto alle foglie di altre specie vegetalicircostanti, che finiscono per sovrastare, guadagnandosi cosìuna migliore esposizione alla luce, fondamentale pergarantire un livello di fotosintesi sufficiente allasopravvivenza. Per questo l’attaccamani è considerata unapianta «parassita».

Partendo dall’osservazione delle superfici delle foglie diattaccamani, ma anche studiando con attenzione le proprietàmeccaniche dei materiali di cui sono fatte così come icomportamenti della pianta nel suo ambiente naturale,abbiamo sviluppato strutture dotate di uncini artificiali moltosimili a quelli naturali, in grado di attaccarsi a diversisubstrati micro-ruvidi come velcro, legno, o pelle.78 Comenel caso del nastro adesivo Geckskin (vedi pagina 61), lanostra ambizione è realizzare un materiale adesivo privo dicollanti, proponendolo come soluzione innovativa dautilizzare in robotica e nella scienza dei materiali.

Arrivata al termine di questa carrellata sul mondo vegetale esui robot che si sforzano di imitarlo, credo e spero di essere

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riuscita a trasmettervi un’idea delle piante molto diversa dalcomune pensare, che le considera inermi, immobili, insommadei veri e propri «vegetali» – una visione imbevuta dipregiudizi che, non a caso, ha conferito a questo terminel’accezione negativa che tutti conosciamo.

Eppure le più grandi menti di tutti i tempi hanno saputovedere oltre il radicato preconcetto sulla subalternità delRegno vegetale, riconoscendo nella parte verde del nostropianeta una fonte essenziale di ispirazione e insegnamento.Leonardo da Vinci sosteneva che l’occhio è la finestradell’anima, e la via attraverso cui possiamo ammirare leinfinite opere della Natura. Il suo metodo, a cui tantodobbiamo in termini di progresso delle conoscenze e delletecnologie, si basava prevalentemente sull’osservazione deifenomeni naturali, che studiava per comprenderne imeccanismi, anziché per dominarli. L’opera della Naturariempiva quel genio senza eguali di rispetto e reverenza:Leonardo credeva fermamente che l’ingegnosità del mondonaturale superasse quella umana e che fosse dunquenecessario rispettarla e trarne insegnamento.

Come Charles Darwin e molti altri maestri del passato edel presente, anche Leonardo studiò la botanica conpassione, in un’epoca in cui la disciplina era consideratasemplicemente un’attività descrittiva, accessoria alle artimediche. Dedicò lunghi anni allo studio dei misteri delmondo verde, stregato dall’enigma rappresentato da questiesseri alieni, tanto differenti da noi eppure perfettamenteambientati sulla Terra.

Ma è forse arrivato il momento di chiedersi: chi sono i verialieni, loro o noi?

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Conclusioni

Uniamo i puntini

Uomini come Leonardo da Vinci, Galileo Galilei e CharlesDarwin dovrebbero essere per noi, abitanti del ventunesimosecolo, una inesauribile fonte di riflessione e ispirazione.Ciascuno nella propria unicità e diversità, questi tre grandimaestri condividevano un’attitudine fondamentale: la setetrasversale di conoscenza che li spingeva a ricercare unsapere libero da schemi precostituiti.

Lungo i capitoli che ci hanno portato sin qui abbiamoincontrato bizzarri animali, piante dalle capacità misteriose,enigmi naturali su cui ancora oggi si arrovellano gliscienziati, e studiosi coraggiosi che non si sono tirati indietroquando si è trattato di confrontarsi con l’insostenibilegenialità della Natura. Oggi che la conoscenza scientifica èsegmentata dai rigidi steccati degli ordinamenti disciplinari,quello spaccato antico fatto di botteghe dove si imparavanol’arte e il mestiere, in un fecondo mix di multidisciplinarietà,ha un sapore per certi versi paradossalmente più modernodella modernità. Le sfide che il progresso scientifico etecnologico ci stanno ponendo puntano infatti con decisioneverso la necessità di liberarsi da schemi e separazioni. Laprogettazione di robot ispirati agli esseri viventi necessita dicompetenze multidisciplinari: dobbiamo abbattere lebarricate che ancora frammentano il sapere in settori noncomunicanti, per creare uno spazio di ricerca che vada oltrele attuali nozioni di «disciplina» e i confini della conoscenzaormai acquisita.

L’avvento dirompente della soft robotics a livello mondialesta accelerando la nascita di una nuova visione dei robot,

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sempre più considerati come strumenti di supporto perl’uomo nelle sue attività quotidiane, a domicilio, in fabbrica,in ambienti estremi. Se davvero vogliamo sviluppare robotbioispirati in grado di aiutarci nelle situazioni più disparate,di adattarsi alle mutevoli condizioni ambientali, di muoversiagevolmente in aree di potenziale pericolo – ad esempiogenerate da calamità naturali o da esplosioni – e difunzionare come una sorta di «fanteria» o «prima linea»robotica, in grado di precedere l’uomo valutando emonitorando autonomamente il grado di pericolosità di unadata situazione o l’eventuale presenza di esseri viventi dasoccorrere, non possiamo prescindere da un approccioscientifico interdisciplinare. La complessità dell’obiettivo ètale da richiedere un impiego totale e armonico dellaconoscenza scientifica e tecnologica cui la specie umana èpervenuta attraverso secoli di studio e ricerca.

La medicina, ad esempio, rappresenta sicuramente unasfida e un’area di naturale applicazione della nuova robotica.I nanorobot, ispirati ai microorganismi presenti nel nostrocorpo, stanno già rivoluzionando la ricerca in campo medico:in grado di muoversi all’interno del corpo umano in modonon invasivo, rappresentano un potente strumentodiagnostico e terapeutico. Per citare soltanto una dellegrandi sfide con le quali attualmente si stanno misurando iricercatori di tutto il mondo.

Anche il plantoide potrebbe avere utili applicazionimediche. Dotando di sensori l’estremità del robot sipotrebbe renderlo capace di riconoscere le cellule malate. Laradice robotica, il cui diametro misura circa dieci millimetri,potrebbe muoversi all’interno del corpo umano come unendoscopio, ma grazie alla sua flessibilità e alla capacità diadattarsi all’ambiente attraverso la crescita risulterebbeinfinitamente meno invasiva dello strumento tradizionale,che deve essere inserito dall’esterno, generando unadeformazione dei tessuti con conseguente insorgenza deldolore.

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Le numerose sfide che ancora ci attendono nel mondodella robotica e dell’Intelligenza Artificiale passano ancheattraverso lo sviluppo di sistemi energetici più efficienti,materiali ecocompatibili ed ecosostenibili, capacità diapprendimento e adattamento a habitat naturali eantropizzati. Ritengo tuttavia che la sfida più stimolante concui oggi dobbiamo misurarci sia di tipo cognitivo. Dobbiamoancora comprendere e interiorizzare le reali responsabilitàche ci vengono poste dallo sviluppo di queste tecnologie. Perfarlo dovremmo compiere uno sforzo di immaginazione,provare a prevederne gli impatti futuri sulla vita e sulbenessere delle persone, e sviluppare di conseguenza unavisione strategica globale sul lungo periodo.

Il plantoide mi ha insegnato, prima di tutto, che le buoneidee da sole non bastano. Analisi critica, perseveranza edeterminazione sono state sicuramente componentiimportanti nel nostro percorso di studio e ricerca, ma ancoradi più lo sono stati la valorizzazione della diversità e ilconnubio tra discipline. La forma più alta del progresso siottiene quando i vari campi di studio si intersecano perottenere risultati altrimenti irraggiungibili nell’ambito delsingolo settore.

Mi chiedono spesso come sia arrivata al mondodell’ingegneria robotica partendo da una laurea in biologia euna formazione in biofisica. Potrei rispondere che tutto erapianificato nella mia mente e che il mio sogno da bambinaera quello di costruire macchine dalle sembianze simili aquelle di un albero o di un riccio. Ma sarebbe falso.

Nel suo famoso discorso ai neolaureati dell’Università diStanford Steve Jobs parlò dell’importanza di unire i puntini:«Non è possibile», disse, «unire i puntini guardando avanti;potete solo unirli guardandovi all’indietro. Così, dovete averfiducia che, in qualche modo, nel futuro, i puntini si potrannounire». Per molto tempo, dopo aver ascoltato il suobellissimo discorso nel 2005, mi sono chiesta cosarappresentassero «i puntini» per me, quale fosse il confuso

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disegno che celavano. Ancora oggi non penso di avereottenuto una risposta certa e definitiva, ma so che alla basedi tutte le mie scelte c’è sempre stata una grande passione,quella che nutro per la Natura e la ricerca. Ogni cosa –l’incerto arabesco che prima o poi i miei puntini finirannoper rivelare – si è originata dal desiderio prima di studiare lacomplessità dell’ambiente e degli ecosistemi e, in seguito, direalizzare nuovi strumenti in grado di monitorarne epreservarne lo stato di salute.

Non riflettiamo mai abbastanza sul fatto che tutto ciò cheriversiamo nell’ambiente – così come le deturpazioni chearrechiamo agli ecosistemi, naturali o artificiali – produce unimpatto devastante sul cibo che mangiamo e quindi su di noi,sulla nostra salute e il nostro benessere. È compito dellascienza sensibilizzare l’umanità del nuovo millenniosull’importanza strategica che la tutela dell’ambienteriveste, per il nostro futuro e per la nostra stessasopravvivenza.

Viviamo in un’epoca in cui la tecnologia nasce con unaobsolescenza programmata, ovvero basata su una strategiaindustriale che prevede la «morte prematura» del prodottoper sostenere i consumi. Ormai sappiamo che questo utilizzodissennato delle risorse naturali non è più sostenibile sullungo periodo e che tecnologie e fonti energeticheecologiche, non inquinanti e rispettose dell’ambiente devonorappresentare una delle sfide chiave a livello mondiale per lasocietà futura. Le piante sono maestre anche in questo: sonoinfatti «progettate» per sfruttare le risorse disponibili nelloro habitat, in modo da ridurre al minimo lo sprecoenergetico. Ma c’è molto di più: di recente io e il mio gruppodi ricerca abbiamo fatto una scoperta dalla portatapotenzialmente rivoluzionaria. Abbiamo dimostratosperimentalmente che le piante sono in grado di produrreelettricità. L’umanità potrebbe avere dunque a disposizioneuna nuova fonte di energia letteralmente verde,perfettamente integrata negli ecosistemi naturali e

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accessibile in tutto il mondo, in grado di aiutarci a risolverela sfida energetica del pianeta.

Le foglie delle piante possono generare elettricità se propriamentestimolate con materiali artificiali. All'IIT abbiamo dimostrato che la

tensione generata da una singola foglia può superare i 150 Volt,abbastanza per alimentare simultaneamente 100 lampadine a ledogni volta che la foglia viene sfiorata. (© Virgilio Mattoli e Fabian

Meder @CMBR IIT)

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Da poco tempo è stato scoperto che il doppio strato ditessuto delle foglie di piante superiori, formato dallo stratopiù esterno, denominato cuticola, e dallo strato sottostantedi epidermide, funziona come un condensatore che generaelettricità quando viene ripetutamente toccato.79 In altreparole, la superficie della foglia crea elettricità quando vienetoccata da un dato materiale. Vi sarà capitato di assistere aun fenomeno simile quando si elettrizza un maglione di lanao quando prendete la scossa scendendo dall’auto e toccandola portiera, in quelle giornate fredde e asciutte di inverno.Nel caso delle foglie, questo avviene perché il doppio stratocuticola-epidermide consente di convogliare cariche sullasua superficie, con un processo chiamato «elettrificazione dacontatto». Con il mio gruppo abbiamo approfondito ilfenomeno naturale e scoperto che queste cariche sullasuperficie delle foglie vengono compensate da altrettantecariche di segno opposto all’interno della foglia, poitrasmesse nel tessuto vegetale interno che agisce come uncavo e trasporta l’elettricità ad altre parti della pianta.80

Quindi, collegando semplicemente una «spina» allo stelodella pianta, l’elettricità generata può essere raccolta eutilizzata ad esempio per alimentare i dispositivi elettronici.

Attraverso esperimenti di laboratorio abbiamo dimostratoche la tensione generata da una singola foglia puòraggiungere più di centocinquanta volt, abbastanza peraccendere simultaneamente cento lampadine a led! Inoltre,per la prima volta abbiamo mostrato come questo sistemapossa essere utilizzato per convertire il vento in elettricitàutilizzando le piante. Abbiamo posizionato delle striscerettangolari, realizzate in materiali artificiali simili aplastiche morbide, sopra le foglie di una pianta di Nerumoleander, il comune oleandro. Quando il vento smuove lachioma della pianta lo sfregamento tra foglie naturali emateriali artificiali produce elettricità, in quantitàproporzionale alla frequenza dello sfregamento e al numero

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di foglie coinvolte. Di conseguenza il voltaggio prodottopotrebbe aumentare sfruttando l’intera superficie delfogliame di un albero, o addirittura di una foresta.

Ovviamente siamo solo all’inizio di questa nuova sfida, masi aprono scenari fino a pochi anni fa semplicementeimpensabili. Non vengono i brividi a immaginare, in unfuturo magari neanche troppo lontano, di poter ricaricare ilproprio smartphone «attaccandolo» al vaso del ficusall’ingresso di casa?

E allora credo che la sola cosa davvero sensata da fare siaseguire l’esempio dei maestri: concediamoci di esserevisionari come Darwin, Leonardo, Galileo. Poniamociobiettivi che ci costringano a proiettarci oltre gli steccati, glischemi e gli orizzonti che vorrebbero imprigionare il nostrosguardo: la storia ci insegna che ciò che oggi appare unsogno, domani verrà discusso come una soluzione reale erealizzabile.

Tornando ai nostri alberi produttori di energia elettrica,per esempio, ci piace immaginarne un’applicazione aimpatto zero sui robot del futuro: macchine amichedell’ambiente, in grado di operare all’aperto, quando e dovenecessario, attingendo direttamente all’energia prodottadalle piante. Ma per essere davvero ecosostenibili i nuovirobot dovranno anche opporsi all’obsolescenza programmatatipica della tecnologia del ventesimo secolo, evitando ditrasformarsi in rifiuti da gestire e smaltire – o almeno,evitando di farlo troppo presto. Per ottenere questo risultatodovremo interrogarci sull’uso di materiali biodegradabili ofacilmente riciclabili, e magari immaginarne di nuovi, forsein grado di rigenerarsi.

Passione, curiosità, formazione continua, spirito disacrificio e un pizzico di visionarietà sono senz’altro irequisiti fondamentali per chi decide di dedicarsi allaricerca. Ma c’è di più. La ricerca non può porsi l’innovazionetecnologica e il progresso scientifico come unici obiettivi.Oggi più che mai sono convinta che chi fa ricerca debba

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assumersi anche la responsabilità di un altro ruolofondamentale per la società: quello di formare le nuovegenerazioni e aprire le loro menti, affinché nuovaconoscenza diventi sinonimo di rispetto dell’altro, deldiverso, di diverse forme di vita.

È un obiettivo visionario e troppo ambizioso? Forse. Equindi, proprio per questo, è l’obiettivo perfetto.

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Consigli di lettura

Quelli che seguono sono consigli bibliografici per chi,leggendo questo libro, si è incuriosito dei temi trattati omagari solo accennati, e vorrebbe approfondirli. Sono testidivulgativi per non specialisti, ma anche romanzi, fumetti,grandi classici, letture che mi hanno ispirata e divertita.Alcuni sono ormai fuori catalogo ma non potevo nonsegnalarli: potete sempre cercarli online, o in biblioteca.Altri li tengo sul comodino per averli sempre a portata dimano. Ho pensato di condividerli con voi, raggruppandoliper capitolo di riferimento in modo da rendereimmediatamente chiaro il tema a cui si riferiscono. Inoltresul canale YouTube del Centro di Micro-Biorobotica dell’IITdi Pontedera il mio team e io abbiamo caricato una serie dibrevi video che mostrano i nostri robot in azione. Se sietecuriosi di conoscerli meglio vi rimando alla nostra homepage YT: BSR Bioinspired Soft Robotics lab.

Buona lettura e buona visione,B.M.

Introduzione. L’inevitabile

Enrica Battifoglia, I robot sono tra noi. Dalla fantascienzaalla realtà, Hoepli, Milano, 2016.

Yuval Noah Harari, Sapiens. Da animali a dèi. Breve storiadell’umanità, Bompiani, Milano, 2014.

Nicola Nosengo, I robot ci guardano. Aerei senza pilota,chirurghi a distanza e automi solidali, Zanichelli, Bologna,

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2013.

1. Dove tutto è iniziato

Charles Darwin, L’origine delle specie, trad. it. di LucianaFratini, Bollati Boringhieri, Torino, 2011 (prima ed. 1996).

Charles Darwin, Viaggio di un naturalista intorno al mondo,trad. it. di Mario Magistretti, a cura di Luca Lamberti,Einaudi, Torino, 2012.

2. L’alba del terzo millennio

Isaac Asimov, Il sole nudo, Mondadori, Milano, 2015 (primaed. it. 1957).

Isaac Asimov, Io, Robot, Mondadori, Milano, 2018 (prima ed.it. 1963).

Daniel Chamovitz, Quel che una pianta sa. Guida ai sensi nelmondo vegetale, Raffaello Cortina, Milano, 2013.

Nick Bostrom, Superintelligenza. Tendenze, pericoli,strategie, Bollati Boringhieri, Torino, 2018.

Luciano Floridi, La quarta rivoluzione. Come l’infosfera statrasformando il mondo, Raffaello Cortina, Milano, 2017.

3. Scienziati in cerca d’ispirazione

Peter Godfrey-Smith, Altre menti. Il polpo, il mare e leremote origini della coscienza, Adelphi, Milano, 2018.

Walter Isaacson, Leonardo da Vinci, Mondadori, Milano,2017.

Carlo Pedretti, Paolo Galluzzi, Domenico Laurenza,Leonardo, Giunti, Milano, 2017.

Mario Taddei, Edoardo Zanon (a cura di), con testi diDomenico Laurenza, Le macchine di Leonardo. Segreti e

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invenzioni nei codici da Vinci, Giunti, Milano, 2005.

4. Nel laboratorio della Natura

Renato Bruni, Erba Volant. Imparare l’innovazione dallepiante, Codice, Torino, 2015.

Fritjof Capra, Leonardo e la botanica. Un discorso sullascienza delle qualità, Aboca, Arezzo, 2018.

Carlo Cerrano, Massimo Ponti, Stefano Silvestri, Guida allabiologia marina del Mediterraneo, Ananke, Torino, 2004.

Roberto Danovaro, Biologia marina. Biodiversità efunzionamento degli ecosistemi marini, CittàStudi, Torino,2013.

5. Di salamandre, plesiosauri e altri animali fantastici

Steve Brusatte, Ascesa e caduta dei dinosauri, Utet, Milano,2018.

Stephen Jay Gould, Quando i cavalli avevano le dita,Feltrinelli, Milano, 2016 (prima ed. it. 1984).

Karel F. Liem, William E. Bemis, Warren F. Walker,Anatomia comparata dei vertebrati. Una visione funzionaleed evolutiva, Edises, Napoli, 2012.

6. Le macchine che ci somigliano

Roberto Cingolani, Giorgio Metta, Umani e umanoidi. Viverecon i robot, Il Mulino, Bologna, 2015.

Illah Reza Nourbakhsh, Robot fra noi. Le creatureintelligenti che stiamo per costruire, Bollati Boringhieri,Torino, 2017 (prima ed. it. 2014).

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7. Gli alieni tra noi

Emanuele Coccia, La vita delle piante. Metafisica dellamescolanza, Il Mulino, Bologna, 2018.

Warren Ellis, Jason Howard, Trees: 1, SaldaPress, ReggioEmilia, 2017.

Warren Ellis, Jason Howard, Trees: 2, SaldaPress, ReggioEmilia, 2017.

Pier Luigi Gaspa, Giulio Giorello, Giardini del fantastico. Lemeraviglie della botanica dal mito alla scienza inletteratura, cinema e fumetto, ETS, Pisa, 2017.

Emmanuelle Pouydebat, L’intelligenza animale. Cervello digallina e memoria di elefante. Chi l’ha detto che gli uominisono gli animali più intelligenti?, Corbaccio, Milano, 2018.

8. Belle senz’anima

Charles Darwin, Le piante insettivore, traduzione italiana colconsenso dell’autore per cura di Giovanni Canestrini e P.A.Saccardo, Unione Tipografico Editrice, Torino, 1878.

Gustav Theodor Fechner, Nanna o l’anima delle piante,Adelphi, Milano, 2008.

Stefano Mancuso, Plant Revolution. Le piante hanno giàinventato il nostro futuro, Giunti, Milano, 2017.

9. Il movimento invisibile

Charles Darwin, L’azione dei vermi nella formazione delterriccio vegetale: con osservazioni sulle loro abitudini, acura di Giacomo Scarpelli, Mimesis, Udine, 2012.

Charles Darwin con Francis Darwin, Il potere di movimentonelle piante, traduzione italiana di Riccardo e GiovanniCanestrini, Unione Tipografico Editrice, Torino, 1884.

Oliver Sacks, Il fiume della coscienza, Adelphi, Milano, 2018.

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11. L’intelligenza delle piante

Bert Hölldobler, Edward O. Wilson, Formiche, Adelphi,Milano, 1997.

Bert Hölldobler, Edward O. Wilson, Il superorganismo.Bellezza, eleganza e stranezza delle società degli insetti,Adelphi, Milano, 2011.

Konrad Lorenz, L’anello di re Salomone, Adelphi, Milano,1967.

Stefano Mancuso, Alessandra Viola, Verde brillante.Sensibilità e intelligenza del mondo vegetale, Giunti,Firenze, Milano, 2013.

Peter Wohlleben, La vita segreta degli alberi, Macro,Cesena, 2016.

13. E gira tutto intorno

Charles Darwin, I movimenti e le abitudini delle pianterampicanti, traduzione italiana col consenso dell’autoreper cura di Giovanni Canestrini e di P.A. Saccardo, UnioneTipografico Editrice, Torino, 1878.

Conclusioni. Uniamo i puntini

Yuval Noah Harari, Homo deus. Breve storia del futuro,Bompiani, Milano, 2017.

Walter Isaacson, Steve Jobs, Mondadori, Milano, 2011.Federico Mello, Steve Jobs. Affamati e folli. L’epopea del

genio di Apple e il suo testamento alle generazioni future,Aliberti, Roma, 2011.

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Ringraziamenti

Molte sono le persone da ringraziare per questo libro.Ringrazio in primis Marianna Aquino, per avermi

affiancata con la sua professionalità e gentilezza in questopercorso di stesura, e per avermi avviata al mondo dellacomunicazione scientifica, così affascinante e ricco distimoli.

Voglio ringraziare il mio gruppo dell’Istituto Italiano diTecnologia, che con me condivide sogni e ambizioni, fatichee riconoscimenti. Sono molte le persone alle quali sonograta. Ne nomino solo alcune, in ordine alfabetico, i cuilavori sono riportati nel libro: Lucia Beccai, Emanuela DelDottore, Carlo Filippeschi, Isabella Fiorello, Virgilio Mattoli,Fabian Meder, Alessio Mondini, Ali Sadeghi, EdoardoSinibaldi, Silvia Taccola, Francesca Tramacere. Alcuni diloro hanno creduto in me anche quando parlare di piante inrobotica era ancora quasi un tabù e il rischio di fallimentomolto più elevato di adesso. Ringrazio Emma Cappelleri eLucia Francini per il loro supporto quotidiano che rendepossibile il lavoro dei ricercatori.

Ringrazio gli amici e tutte quelle persone che mi hannodato consigli e che hanno letto il libro quando ancora eraagli albori. Tra i tanti, ricordo Riccardo, Lorella, Luciano,Carlo, Francesca, Edoardo, Matteo, Virgilio, Emanuela,Daniele.

In ultimo, non in ordine di importanza, vorrei ringraziarela mia famiglia per essermi sempre vicina con amore ediscrezione. Ringrazio tutti loro di rendere migliore la miavita. Un ringraziamento speciale va a Riccardo, che mi ha

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aiutata e sostenuta in questo come in ogni altro percorso divita.

Penso che la ricerca sia una forma d’arte. Come l’artista,anche il ricercatore deve essere curioso e sperimentaresempre nuove idee, al di là di ciò che è già noto.

Vorrei per questo concludere e ringraziare i lettori conalcuni pensieri di Franco Paoli, staordinario artista e grandeamico, dei quali sua figlia Paola mi ha recentemente fattodono. Per questo la ringrazio.

«È piacevole per un pittore, o per chi fa arte in genere,stimolare l’interesse e suscitare l’emozione di chi guarda ocomunque finisce nella sua opera. Quando questo accade, ècome un piccolo miracolo che si compie fra spettatore eartista e che come un regalo inaspettato trova posto in unangolo della loro anima. Sarà facile poi ritrovare quel regaloe goderselo di nuovo quando ci sarà occasione per farlo.»Franco Paoli, 2002.

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Note

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Introduzione. L’inevitabile

Dawn of the Age of Bots, in Scientific American, luglio 2007.

Rise of the Robots, in The Economist, 25 marzo-4 aprile 2014.

La robotica bioispirata o biomimetica fa parte di un’area di ricerca piùampia, denominata biorobotica. Una chiara e esaustiva definizione dibiorobotica è stata coniata dal professor Paolo Dario della ScuolaSuperiore Sant’Anna di Pisa, un pioniere in questo settore, in occasionedel suo intervento a Biorob 2006,la prima conferenza internazionale dirobotica biomedica e di biomeccatronica, organizzata dall’IEEE(Institute of Electrical and Electronics Engineers). Il testo diquell’intervento è oggi integralmente pubblicato sul sitodell’Enciclopedia Treccani come approfondimento alla voce«biorobotica». Ne riporto di seguito uno stralcio:«La biorobotica è una nuova area scientifico-tecnologica che fonderobotica e bioingegneria, in particolare, è la scienza e tecnologia dellaprogettazione e della realizzazione di sistemi robotici di ispirazionebiologica e di applicazione biomedica. Caratterizzata da profondiconnotati interdisciplinari, allarga il proprio ambito culturale eapplicativo verso numerosi settori dell’ingegneria, verso le scienze dibase e applicate (in particolare la medicina, le neuroscienze,l’economia, le bio- e nanotecnologie) e anche verso le disciplineumanistiche (la filosofia, la psicologia, l’etica). Può essere intesa estudiata in due diverse prospettive, che sono la biorobotica comescienza, che serve a generare nuove scoperte e quindi nuovaconoscenza, contribuendo così al progresso scientifico, e la bioroboticacome ingegneria, utilizzata cioè per inventare e generare nuovatecnologia. L’obiettivo è approfondire le conoscenze sul funzionamentodei sistemi biologici da un punto di vista ingegneristico e [...] utilizzaretali migliori conoscenze al fine di sviluppare metodologie e tecnologieinnovative sia per la progettazione e la realizzazione di macchine esistemi bioispirati (di dimensioni macro, micro e nano) caratterizzati daprestazioni molto avanzate (per esempio robot ’animaloidi’ e’umanoidi’), sia per sviluppare dispositivi, anche realizzabiliindustrialmente, per applicazioni biomediche, in particolare perchirurgia e terapia mini-invasiva o per riabilitazione».

Nick Gravish, George V. Lauder, Robotics-inspired biology, in Journalof Experimental Biology, 2018, p. 221.

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1. Dove tutto è iniziato

Charles Darwin, On the Origin of Species by Means of NaturalSelection, or the Preservation of Favoured Races in the Struggle forLife, John Murray, London, 1859 (trad. it. di Luciana Fratini, L’originedelle specie, Bollati Boringhieri, Torino, 2011).

Robin Holliday, Epigenetics: A Historical Overview, in Epigenetics,2006, 1 (2), pp. 76-80.

Gerda Egger, Gangining Liang, Ana Aparicio, Peter A. Jones,Epigenetics in Human Disease and Prospects for Epigenetic Therapy, inNature, 2004, vol. 429.

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Effetto fionda e menti collaborative

John McCarthy, Marvin Minsky, Nathaniel Rochester, Claude Shannon,A Proposal for the Dartmouth Summer Research Project on ArtificialIntelligence (31 agosto 1955), in AI Magazine, 2006, XXVII (4),aaai.org.

Rodney Brooks, Cambrian Intelligence: The Early History of the NewAI, MIT Press, Cambridge, Massachusetts, 1999.

Alcune informazioni aggiuntive sul pensiero e sull’approccio allarobotica e all’IA di Rodney Brooks sono disponibili sul sito di Robohub,piattaforma di robotica online e no-profit che riunisce e rappresentaesperti appartenenti al mondo della ricerca, dell’industria e dellaformazione che lavorano in questo settore. A titolo di esempio rimandoalle pagine: https://robohub.org/tag/rodney-brooks/ ehttps://robohub.org/artificial-intelligence-is-a-tool-not-a-threat/.

Rodney Brooks, Cynthia Breazeal, Matthew Marjanovi, BrianScassellati, Matthew Williamson, The Cog Project: Building aHumanoid Robot, in Chrystopher L. Nehaniv (ed.), Computation forMetaphors, Analogy, and Agents, in LNCS, Springer-Verlag Heidelberg,Berlin, 1999, n. 1562, pp. 52-87.

La trattazione esaustiva di questo affascinante ambito della ricercaesula dagli obiettivi del libro. In questa sede sembra tuttavia opportunosegnalare alcune iniziative iconiche a livello internazionale, tra le qualiBlue Brain, il progetto svizzero condotto a partire dal 2005 incollaborazione tra EPFL e IBM, che si propone di ricostruire e simularedigitalmente il cervello di alcuni mammiferi, con l’obiettivo dicomprenderne i principi fondamentali, per la cura e prevenzione dellepatologie che affliggono il sistema nervoso centrale. Nel 2013 laCommissione Europea ha finanziato quella che è di fatto lacontinuazione di Blue Brain, Human Brain Project, e nell’aprile dellostesso anno l’amministrazione Obama ha lanciato il suo omologostatunitense, la BRAIN Initiative, un progetto di ricerca pubblico-privato.Non meno interessanti, ma certamente più futuribili rispetto ai progettiprecedenti – il cui scopo, come si è detto, è comprendere e simulare –sono gli studi inerenti alla mappatura e al conseguente trasferimento ocopia della mente, o mind uploading. Ma, da questo punto innanzi, ilpasso si fa incerto e il confine tra scienza, filosofia e... caos, molto più

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labile.

«1. Un robot non può recar danno a un essere umano né puòpermettere che, a causa del proprio mancato intervento, un essereumano riceva danno.2. Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani,purché tali ordini non contravvengano alla Prima Legge.3. Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché questaautodifesa non contrasti con la Prima o con la Seconda Legge.» Trattoda Isaac Asimov, Io, Robot, Bompiani, Milano, 1963, traduzione diRoberta Rambelli.

Vernor Vinge, autore statunitense di romanzi di fantascienza, coniò iltermine «singolarità tecnologica» nel 1993, intendendo il punto disvolta in cui il progresso tecnologico accelera oltre la capacità dicomprensione e previsione degli esseri umani, conducendo così allacreazione di una superintelligenza la cui capacità cognitivasupererebbe gli stessi limiti cognitivi dell’uomo. Vernor Vinge, TheComing Technological Singularity: How to Survive in the Post-HumanEra, in Vision-21: Interdisciplinary Science and Engineering in the Eraof Cyberspace, NASA Conference Publication 10129, NASA LewisResearch Center, 1993, pp. 11-22.

Dati Scopus.

Barbara Mazzolai, Pericle Salvini, On Robots and Plants: The Case ofthe Plantoid, a Robotic Artifact Inspired by Plants, in Plant Ethics,Routledge, London, New York, 2018, pp. 221-230.Barbara Mazzolai, Growth and Tropism, in Living Machines: AHandbook of Research in Biomimetics and Biohybrid Systems, OxfordUniversity Press, Oxford, 2018.

Thorunn Helgason, Tim J. Daniell, Rebecca Husband, Alastair H. Fitter,J. Peter W. Young, Ploughing up the Wood-Wide Web?, in Nature, 1998,vol. 394, p. 431.

Con il termine allelopatia, anche detta competizione chimica o radicale,si intende il fenomeno per cui alcune specie di piante liberano nel suolodei composti chimici tossici per impedire o scoraggiare l’attecchimentonelle vicinanze di esemplari di specie vegetali antagoniste.

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28.

3. Scienziati in cerca d’ispirazione

Jiulian F.V. Vincent, Olga A. Bogatyreva, Nikolaj R. Bogatyrev, AdrianBowyer, Anja-Karina Pahl, Biomimetics: its Practice and Theory, inJournal of the Real Society Interface, 2006, 3, pp. 471-482.

Otto Schmitt, Some Interesting and Useful Biomimetic Transforms, inThird International Biophysics Congress, 1969, p. 297.

Mia traduzione.

Daniel C. Wahl, Bionics vs. Biomimicry: from Control of Nature toSustainable Participation in Nature, in WIT Transactions on Ecologyand the Environment, WIT Press, 2006, vol. 87.

Francesca Tramacere, Nicola Pugno, Michael Kuba, Barbara Mazzolai,Unveiling the Morphology of the Acetabulum in Octopus Suckers andIts Role in Attachment, in Interface focus, 2015, 5 (1), 20140050.

Francesca Tramacere, Lucia Beccai, Michael Kuba, Alessandro Gozzi,Angelo Bifone, Barbara Mazzolai, The Morphology and AdhesionMechanism of Octopus Vulgaris Suckers, in PLoS One, 2013, 8 (6),e65074.

Nir Nesher, Guy Levy, Frank W. Grasso, Binyamin Hochner, Self-Recognition Mechanism between Skin and Suckers Prevents OctopusArms from Interfering with Each Other, in Current Biology, 2014, Jun2; 24 (11), pp. 1271-1275.

Chris Larson, Bryan Peele, Song Li, Sanlin Robinson, Massimo Totaro,Lucia Beccai, Barbara Mazzolai, Robert Shepherd, Highly StretchableElectroluminescent Skin for Optical Signaling and Tactile Sensing, inScience, 2016, 351 (6277), pp. 1071-1074.

Kellar Autumn, S. Tonia Hsieh, Daniel M. Dudek, J. P. Chen, ChanigaChitaphan, Robert J. Full, Dynamics of Geckos Running Vertically, inJournal of Experimental Biology, 2006, 209, pp. 260-272.

Kellar Autumn, Yiching A. Liang, Tonia Hsieh, Wolfgang Zesch, WaiPang Chan, Thomas W. Kenny, Ronald Fearing, Robert J. Full, AdhesiveForce of a Single Gecko Foot-Hair, in Nature, 2000, 405 (6787), pp.681-685.Kellar Autumn, Metin Sitti, Yiching A. Liang, Anne M. Peattie, Wendy

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30.

R. Hansen, Simon Sponberg, Thomas W. Kenny, Ronald Fearing, JacobN. Israelachvili, Robert J. Full, Evidence for van der Waals Adhesion inGecko Setae, in PNAS, 2002, 99 (19), pp. 12252-12256.

J.A.D. Ackroyd, Sir George Cayley: The Invention of the Aeroplane nearScarborough at the Time of Trafalgar, in Journal of AeronauticalHistory, 2011, p. 6.

Pablo Picasso, Scritti. Tesi e documenti, a cura di Mario De Micheli,SE, Milano, 1998, pp. 18-19.

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33.

34.

4. Nel laboratorio della Natura

Jonathan E. Clark, Mark Cutkosky, The Effect of Leg Specialization in aBiomimetic Hexapedal Running Robot, inTransactions of the ASME,2006, vol. 128.

Robert K. Katzschmann, Joseph DelPreto, Robert MacCurdy, DanielaRus, Exploration of Underwater Life with an Acoustically ControlledSoft Robotic Fish, in Science Robotics, 2018, 3 (16), eaar3449.

Cecilia Laschi, Matteo Cianchetti, Barbara Mazzolai, Laura Margheri,Maurizio Follador, Paolo Dario, Soft Robot Arm Inspired by theOctopus, in Advanced Robotics, 2012, 26 (7).

Laura Margheri, Cecilia Laschi, Barbara Mazzolai, Soft Robotic ArmInspired by the Octopus: I. From biological functions to artificialrequirements, in Bioinspiration & Biomimetics, 2012, 7 (2), 025004.

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5. Di salamandre, plesiosauri e altri animalifantastici

John H. Long, Joseph Schumacher, Nicholas Livingston, Mathieu Kemp,Four Flippers or Two? Tetrapodal Swimming with an Aquatic Robot, inBioinspiration & Biomimetics, 2006, 1 (1), pp. 20-29.

Fabio M. Petti, Massimo Bernardi, Miriam A. Ashley-Ross, FabrizioBerra, Andrea Tessarollo, Marco Avanzini, Transition betweenTerrestrial-Submerged Walking and Swimming Revealed by EarlyPermian Amphibian Trackways and a New Proposal for theNomenclature of Compound Trace Fossils, in Palaeogeography,Palaeoclimatology, Palaeoecology, 2014, vol. 410, pp. 278-289.

Thomas Buschmann, Alexander Ewald, Arndt von Twickel, AnsgarBüschges, Controlling Legs for Locomotion – Insights from Roboticsand Neurobiology, in Bioinspiration & Biomimetics, 2015, 10, 041001.

Auke Jan Ijspeert, Alessandro Crespi, Dimitri Ryczko, Jean-MarieCabelguen, From Swimming to Walking with a Salamander RobotDriven by a Spinal Cord Model, in Science, 2007, 315, pp. 1416-1420.Auke Jan Ijspeert, Central Pattern Generators for Locomotion Controlin Animals and Robots: A Review, in Neural Networks, 2008, 21 (4), pp.642-653.

Ardian Jusufi, Daniel I. Goldman, Shai Revzen, Robert J. Full, ActiveTails Enhance Arboreal Acrobatics in Geckos, in PNAS, 18 marzo 2008,105 (11), pp. 4215-4219; https://doi.org/10.1073/pnas.0711944105.

Jorge G. Cham, Sean Bailey, Jonathan Clark, Robert J. Full, MarkCutkosky, Fast and Robust: Hexapedal Robots via Shape DepositionManufacturing, in The International Journal of Robotics Research,2002, 21 (10-11), pp. 869-882.

Sangbae Kim, Cecilia Laschi, Barry Trimmer, Soft Robotics: ABioinspired Evolution in Robotics, in Trends in Biotechnology, maggio2013, 31 (5).

Cecilia Laschi, Barbara Mazzolai, Matteo Cianchetti, Soft Robotics:Technologies and Systems Pushing the Boundaries of Robot Abilities, inScience Robotics, 2016, 1 (1), eaah3690.

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44.

Attraverso le articolazioni e la presenza di strutture cedevoli, tutti glianimali, incluso l’uomo, si adattano all’ambiente senza un controllonervoso. Quando camminiamo, infatti, ci adattiamo alle asperità delterreno senza «pensare», ovvero senza che intervenga un controlloconsapevole di natura cerebrale. Solo quando incontriamo delledifficoltà (per esempio se inciampiamo e stiamo per cadere), il nostrocervello pone attenzione al problema. La stessa cosa accade a unoscarafaggio o a un elefante.

Guang-Zhong Yang et al., The Grand Challenges of Science Robotics, inScience Robotics, 2018, 3 (14), eaar7650.

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6. Le macchine che ci somigliano

Jamie D’Alessandro, Hiroshi Ishiguro: «Vi racconto il mio gemelloandroide», la Repubblica, 21 novembre 2016.

Leonardo Giusti, Patrizia Marti, Interpretative Dynamics in HumanRobot Interaction, ROMAN 2006 – The 15th IEEE InternationalSymposium on Robot and Human Interactive Communication.Iolanda Iacono, Patrizia Marti, Narratives and Emotions in SeniorsAffected by Dementia: A Comparative Study Using a Robot and a Toy,ROMAN 2016 – The 25th IEEE International Symposium on Robot andHuman Interactive Communication.

Margherita Fronte, Robot che curano giocando, in Corriere della Sera /Salute, 13 ottobre 2010.

Giorgio Metta, Giulio Sandini, David Vernon, Lorenzo Natale,Francesco Nori, The iCub humanoid robot: an open platform forresearch in embodied cognition, in Proceedings of the 8th workshop onperformance metrics for intelligent systems, 2008.Giorgio Metta, Lorenzo Natale, Francesco Nori, Giulio Sandini, DavidVernon, Luciano Fadiga, Claesvon Hofsten, Kerstin Rosander, ManuelLopes, José Santos-Victor, Alexandre Bernardino, Luis Montesano, TheiCub humanoid robot: an open-systems platform for research incognitive development, in Neural Networks, 2010, 23 (8-9), pp. 1125-1134.

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7. Gli alieni tra noi

Una curiosità a margine: l’albero che ha ispirato James Cameron esistedavvero e si trova in Giappone, nell’Ashikaga Flower Park, non lontanoda Tokyo. È un glicine del genere Wisteria, ha oltre 140 anni e fiorisceda metà aprile a metà maggio producendo una formidabile cascata dipetali violetti.

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8. Belle senz’anima

Charles Darwin, Insectivorous plants, John Murray, London, 1875. Laseconda edizione dell’opera uscì postuma nel 1888, data alle stampedal figlio Francis sulla base di correzioni, aggiunte e note autografepresenti sulla copia annotata del padre.

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9. Il movimento invisibile

Con il termine «mitosi» si intende un processo che comporta ladivisione nucleare di cellule eucariotiche. La mitosi è seguita dallacitodieresi, una fase che implica la divisione del citoplasma cellulare. Altermine dell’intero processo, da una cellula si formano due cellule figlieidentiche.

Il modo in cui la radice modifica la propria morfologia in funzione dellaconsistenza del suolo è stato descritto in maniera chiara ed esaustivada Charles Darwin in Il potere di movimento nelle piante.

Per chi fosse curioso di sapere di più di questo dispositivo, vi rimandoal breve video dimostrativo dal titolo First Artificial Root Prototype chetrovate sul canale Youtube del nostro Centro dell’IIT: BSR BioinspiredSoft Robotics lab.

Esistono analogie interessanti, che stiamo studiando anche nei nostrilaboratori, tra il movimento di una radice nel suolo e quello di unlombrico. Il lombrico è un animale – per l’esattezza, un invertebrato –che appartiene agli anellidi terrestri della sottoclasse Oligochaeta.Semplificando la descrizione della sua anatomia, potremmo dire che ilcorpo del lombrico è morbido, formato da segmenti detti metameri, eattraversato da una cavità, detta celoma, piena di liquido, a formare loscheletro idraulico. Ogni metamero è munito di quattro paia di setoleorientate normalmente all’indietro, che penetrano tra i granelli delsuolo, proprio come fanno i peli della radice vegetale. Come la radice, illombrico non è munito di zampe e si muove in un ambiente eterogeneo.Per superare le pressioni del suolo l’animale sfrutta la presenza diliquido, come tale incomprimibile, nel suo corpo per muoversi: siaccorcia per contrazione di muscoli longitudinali che corrono dallatesta alla coda, aumentando di conseguenza il diametro dei metameri eancorandosi inserendo le setole nel terreno; dopo di che, contraendo imuscoli circolari del metamero, si allunga e avanza nel suolo. Nel 1881,un anno prima della sua morte, Charles Darwin pubblicò TheFormation of Vegetable Mould through the Action of Worms, withObservation on Their Habits (trad. it. di Milli Graffi, L’azione dei verminella formazione del terriccio vegetale: con osservazioni sulle loroabitudini, a cura di Giacomo Scarpelli, Mimesis, Udine, 2012), un testoscientifico interamente dedicato allo studio e all’osservazione deilombrichi nei suoli e al loro ruolo fondamentale nel renderli più fertili.Da un punto di vista artificiale, per noi il lombrico rappresenta uno dei

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modelli per lo sviluppo futuro di robot soft più adatti a muoversi nelsuolo per applicazioni di tipo geotecnico. Dal lato più prettamentescientifico, ci interessa come la fisica dell’ambiente, in questo caso ilsuolo, influenzi le strategie di adattamento di esseri viventi, anchemolto lontani biologicamente tra loro, nello specifico la radice e illombrico.

Andrea Russino, Antonio Ascrizzi, Liyana Popova, Alice Tonazzini,Stefano Mancuso, Barbara Mazzolai, A Novel Tracking Tool for theAnalysis of Plant-root Tip Movements, in Bioinspiration & Biomimetics,giugno 2013, 8 (2), 025004.

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10. Plantoide: storia di una rivoluzione

Ali Sadeghi, Alessio Mondini, Barbara Mazzolai, Toward Self-GrowingSoft Robots Inspired by Plant Roots and Based on AdditiveManufacturing Technologies, in Soft Robotics, 2017, 4 (3), pp. 211-223.

Osservando una spiga di farro selvatico (Triticum turgidum),progenitore del grano e di quasi tutti i frumenti coltivati, possiamonotare la sua peculiare conformazione a squame pronunciate. Tra leloro funzioni c’è anche quella di aiutare la penetrazione dei semi (ocariossidi) nel terreno. Questa spinta non è alimentata da unmetabolismo (quindi da un consumo attivo di energia), ma piuttostodall’organizzazione dei tessuti morti di cui è composta la squama. Ladisposizione delle microfibrille di cellulosa all’interno della paretecellulare dei tessuti provoca la flessione delle squame con il variaredell’umidità ambientale. Inoltre le squame sono coperte da peli, la cuiangolazione consente al seme di avanzare solo in direzione del suolo,impedendone la fuoriuscita dal terreno. Il movimento è quindialimentato dal ciclo giornaliero di umidità e le squame inducono lamotilità richiesta per la dispersione dei semi. L’apertura e la chiusuradi una squama di un cono femminile di pino, detto pigna, per il rilasciodel seme al suo interno, funziona in maniera molto simile e il suomovimento dipende dall’interazione dei materiali di questa strutturamorta con le variazioni di umidità esterna.

Silvia Taccola, Francesco Greco, Edoardo Sinibaldi, Alessio Mondini,Barbara Mazzolai, Virgilio Mattoli, Toward a New Generation ofElectrically Controllable Hygromorphic Soft Actuators. AdvancedMaterials, 2015, 27 (10), pp. 1668-1675.

Per utilizzare il plantoide a scopi agricoli, il nostro gruppo harecentemente ottenuto un finanziamento dalla Regione Toscana, per unprogetto chiamato SMASH e finalizzato alla creazione di una rete dirobot per l’agricoltura di precisione. La nostra sfida è quella direalizzare un plantoide ottimizzato, capace di muoversi in suoli reali,soprattutto in vigna.

Ali Sadeghi, Alice Tonazzini, Liyana Popova, Barbara Mazzolai, A NovelGrowing Device Inspired by Plant Root Soil Penetration Behaviors, inPloS One, 2014, 9 (2), e90139.

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11. L’intelligenza delle piante

Jean-Louis Deneubourg, Serge Aron, Simon Goss, Jacques Pasteels, TheSelf-organizing Exploratory Pattern of the Argentine Ant, in Journal ofInsect Behavior, 1990, 3 (2), pp. 159-168.

Gli scienziati sostengono che, nonostante le piccole dimensioni, ilcervello delle formiche sia straordinariamente sofisticato. Ciò che ledistingue, nel mondo degli insetti, è senz’altro l’abilità di navigazione.Vivendo in grandi colonie, le formiche hanno bisogno di procurarsi ilcibo e riportarlo al nido, il che spesso significa trascinarlo per lunghedistanze: la capacità di orientamento è dunque una dote indispensabilealla sopravvivenza della specie. Le formiche che vivono in ambientimolto caldi, tuttavia, non utilizzano feromoni per orientarsi, dalmomento che le molecole rilasciate evaporano velocemente. Studiosidell’Università di Edimburgo e del CNRS di Parigi hanno scoperto chele formiche si mantengono sul giusto sentiero e sono in grado dirientrare al nido dopo lunghe escursioni alla ricerca di cibo tracciandola posizione del sole nel cielo, che combinano con le informazioni visivesull’ambiente circostante (Schwarz et al., How Ants Use Vision WhenHoming Backward, in Current Biology, 6 febbraio 2017, 27, pp. 401-407).

Marco Dorigo, Thomas Stützle, Ant Colony Optimization, MIT Press,Cambridge, Massachusetts, 2004.Eric Bonabeau, Marco Dorigo, Guy Theraulaz, Swarm Intelligence.From Natural to Artificial Systems, Oxford University Press, Oxford,1999.

Ali Sadeghi, Alessio Mondini, Emanuela Del Dottore, Virgilio Mattoli,Lucia Beccai, Silvia Taccola, Chiara Lucarotti, Massimo Totaro,Barbara Mazzolai, A Plant-inspired Robot with Soft DifferentialBending Capabilities, in Bioinspiration & Biomimetics, 2016, 12 (1), pp.015001.

Emanuela Del Dottore, Alessio Mondini, Ali Sadeghi, Barbara Mazzolai,Swarming Behavior Emerging from the Uptake-Kinetics FeedbackControl in a Plant-Root-Inspired Robot, in Applied Sciences, 2018, 8 (1),p. 4.

Masatsugu Toyota, Dirk Spencer, Satoe Sawai-Toyota, Wang Jiaqi,Tong Zhang, Abraham J. Koo, Gregg A. Howe, Simon Gilroy, Glutamate

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Triggers Long-Distance, Calcium-Based Plant Defense Signaling, inScience, 2018, 361 (6407), pp. 1112-1115.

L’Arabidopsis thaliana rappresenta un organismo modello nello studiodella biologia delle piante. Questa pianta ha dimensioni molto piccole,con un’altezza compresa tra i dieci e i cinquanta centimetri, e un ciclodi vita breve, per il quale riesce a germinare e produrre semi in sole seisettimane. Queste caratteristiche, unite alle dimensioni contenute e alridotto numero di cromosomi – soltanto cinque –, l’hanno resa unmodello ideale, tanto che il suo genoma è stato il primo a esseretotalmente sequenziato nel 2000.

Brian J. Pickles, Roland Wilhelm, Amanda K. Asay, Aria S. Hahn,Suzanne W. Simard, William W. Mohn, Transfer of 13C between PairedDouglas-fir Seedlings Reveals Plant Kinship Effects and Uptake ofExudates by Ectomycorrhizas, in New Phytologist, 2017, 214 (1), pp.400-411.

Alessandra Pepe, Manuela Giovannetti, Cristiana Sbrana, Lifespan andFunctionality of Mycorrhizal Fungal Mycelium are Uncoupled fromHost Plant Lifespan, in Scientific Reports, 2018, 8, p. 10235.

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12. La forza dell’acqua

L’osmosi consiste nel passaggio spontaneo di fluidi attraverso unamembrana semipermeabile. Per semplificare, consideriamo del clorurodi sodio (il comune sale da cucina) disciolto in acqua. Tecnicamente,parliamo di una soluzione in cui l’acqua è il solvente e il sale è il soluto(più precisamente, sono gli ioni di sodio e cloro che si produconoquando esso è immerso in acqua a costituire il soluto). Prendiamo poidue soluzioni a diversa concentrazione (che differiscono, cioè, per ladensità degli ioni in acqua) e fra loro interponiamo una membrana chepermette il passaggio dell’acqua ma non degli ioni. L’acqua passeràdalla soluzione meno concentrata a quella più concentrata per effettodella pressione osmotica (causata, per l’appunto, dalla differenza diconcentrazione). Dopo un certo periodo di tempo si raggiungerà unequilibrio tra le due soluzioni, ma fino a quel momento sarà possibilesfruttare il passaggio dell’acqua, ad esempio per spostare un oggetto, oper gonfiare un contenitore elastico che il flusso andrà a riempire,aumentandone contestualmente la rigidità come accade con unpalloncino.

Un meccanismo bistabile presenta due stadi di equilibrio stabile abassa energia, separati da uno stadio intermedio a energia elevata. Nelcaso della Dionaea muscipula, lo stadio che va dalla fase di chiusura aquella di apertura è quello che richiede maggiore dispendio energetico.Ecco perché questa pianta carnivora mette in atto una serie distrategie per massimare la certezza di chiudersi solo quando èpresente una preda. Chiusure accidentali ripetute senza la presenza diuna preda causano la morte della pianta.

Edoardo Sinibaldi, Alfredo Argiolas, Gian Luigi Puleo, BarbaraMazzolai, Another Lesson from Plants: the Forward Osmosis-BasedActuator, in PloS One, 2014, 9 (7), e102461.

Alfredo Argiolas, Gian Luigi Puleo, Edoardo Sinibaldi, BarbaraMazzolai, Osmolyte Cooperation Affects Turgor Dynamics in Plants, inScientific Reports, 2016, n. 6, 30139.

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13. E gira tutto intorno

Alan H Brown, David K. Chapman, Circumnutation Observed WithoutSignificant Gravitational Force in Spaceflight, in Science, 1984, n. 225,pp. 230-232.

Emanuela Del Dottore, Alessio Mondini, Ali Sadeghi, Virgilio Mattoli,Barbara Mazzolai, An Efficient Soil Penetration Strategy forExplorative Robots Inspired by Plant Root CircumnutationsMovements, in Bioinspiration & Biomimetics, 2018, 13 (1), 015003.

GrowBot deriva dallo studio Towards a new generation of plant-inspired growing artefacts ed è un progetto europeo finanziatonell’ambito del programma di ricerca FETPROACT-01-2018 – FETProactive: emerging paradigms and communities. Il progetto è partitoil 1o gennaio 2019.

Indrek Must, Edoardo Sinibaldi, Barbara Mazzolai, A Variable-StiffnessTendril-like Soft Robot Based on Reversible Osmotic Actuation, inNature Communications, 10, 2019.

Isabella Fiorello, Omar Tricinci, Anand K Mishra, FrancescaTramacere, Carlo Filippeschi, Barbara Mazzolai, Artificial SystemInspired by Climbing Mechanism of Galium Aparine Fabricated via 3DLaser Lithography, in Conference on Biomimetic and BiohybridSystems, 2018, pp. 168-178.

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Conclusioni. Uniamo i puntini

Yang Jie, Xueting Jia, Jingdian Zou, Yandong Chen, Ning Wang, ZhongLin Wang, Xia Cao, Natural Leaf Made Triboelectric Nanogenerator forHarvesting Environmental Mechanical Energy, in Advanced EnergyMaterials, 2018, 8, 1703133.

Fabian Meder, Indrek Must, Ali Sadeghi, Alessio Mondini, CarloFilippeschi, Lucia Beccai, Virgilio Mattoli, Pasqualantonio Pingue,Barbara Mazzolai, Energy Conversion at the Cuticle of Living Plants, inAdvanced Functional Materials, 2018, 1806689.

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Indice

L’autrice

Frontespizio

Pagina di copyright

Introduzione. L’inevitabile

1. Dove tutto è iniziato

2. L’alba del terzo millennio

Effetto fionda e menti collaborative

La Natura rivoluzionaria delle cose

3. Scienziati in cerca d’ispirazione

L’imitazione della Natura

Il sonno beato del koala

Il Regno animale

Il Regno vegetale

4. Nel laboratorio della Natura

5. Di salamandre, plesiosauri e altri animali fantastici

La tartaruga marina e il giallo evolutivo

Salamandre alla conquista delle terre emerse

Discese ardite e risalite

6. Le macchine che ci somigliano

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7. Gli alieni tra noi

8. Belle senz’anima

9. Il movimento invisibile

10. Plantoide: storia di una rivoluzione

11. L’intelligenza delle piante

Intelligenza di sciame e comportamenti emergenti nelle piante

La Rete verde

12. La forza dell’acqua

13. E gira tutto intorno

Professioniste dell’arrampicata

GrowBot, la nuova sfida

Conclusioni. Uniamo i puntini

Consigli di lettura

Ringraziamenti

Note

Introduzione. L’inevitabile

1. Dove tutto è iniziato

Effetto fionda e menti collaborative

3. Scienziati in cerca d’ispirazione

4. Nel laboratorio della Natura

5. Di salamandre, plesiosauri e altri animali fantastici

6. Le macchine che ci somigliano

7. Gli alieni tra noi

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8. Belle senz’anima

9. Il movimento invisibile

10. Plantoide: storia di una rivoluzione

11. L’intelligenza delle piante

12. La forza dell’acqua

13. E gira tutto intorno

Conclusioni. Uniamo i puntini

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