LA NATURA CI VIENE INCONTRO - Servizio di...

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Periodico di Ateneo Anno XIII, n. 3 - 2011 LA NATURA CI VIENE INCONTRO Costi e benefici L’inquinamento come diseconomia La casa che verrà Architettura biosostenibile Global warming La paleoclimatologia e gli attuali cambiamenti climatici Ateneo eriodico di P Ateneo Anno XIII, n. 3 - 2011 Anno XIII, n. 3 - 2011

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Periodico di AteneoU Anno XIII, n. 3 - 2011

LA NATURACI VIENE INCONTRO

Costi e beneficiL’inquinamento come diseconomia

La casa che verràArchitettura biosostenibile

Global warmingLa paleoclimatologia e gli attualicambiamenti climatici

Ateneoeriodico diP

Ateneo

Anno XIII, n. 3 - 2011

Anno XIII, n. 3 - 2011

SommarioEditoriale 3

Primo pianoCosti e benefici 5L’inquinamento come diseconomia di Giovanni Scarano

Architettura biosostenibile 7Efficienza energetica, architettonica e trasformabilitàdi Andrea Vidotto

Solar Decathlon 10La casa che verrà: nuovi possibili modelli abitatividi Chiara Tonelli

Global warming 12La paleoclimatologia come strumento per comprendere gli attualicambiamenti climaticidi Paola Molin

Fair trade 14Il consumatore responsabile: una sfida alla crisi? di Roberta Paltrinieri

La sfida per un mondo equo 16L’utilizzo delle nuove tecnologie per educare al consumo critico:il videogioco come strumento didatticodi Leticia Marrone

Inquinamento acustico 18Ovvero degli indesiderati effetti del rumoredi Roberto De Lieto Vollaro

L’atomo dopo Fukushima 20La fine del rinascimento nucleare in Italiadi Mario Signorino

Un’occasione perduta 23Il nucleare come risposta all’emergenza climaticadi Paolo Saraceno

Dopo, solo clave e pietre 26Le armi chimiche oggi, tra guerre e terrorismo di Michela Monferrini

Nuovi modelli di convivenza 27La difesa della biodiversità da parte dei popoli originari di Boliviaed Ecuadordi Gianni Tarquini

La guerra dell’acqua e del petrolio 30di Camilla Spinelli

Campanelli d’allarme 31Le tragiche ripercussioni delle negligenze umanedi Francesca Gisotti

Greenpeace: 40 anni dopo 34di Luca Passi

Gli occhi degli alberi 35Storie di chi ha scelto gli alberi, per difenderli (e per difenderci)di Michela Monferrini

«Quel che è più vivo, è più selvaggio» 37Henry David Thoreau e la vita nei boschidi Paolo Di Paolo

Vivere in armonia con la natura 38I popoli nativi difendono la Madre Terra contro l’aviditàdelle multinazionalidi Michele M. Ciricillo

Il diamante bianco 41Natura e immagine nel cinema di Werner Herzogdi Gabriele Anaclerio

L’uomo e la montagna 44Walter Bonatti: storia di una leggenda dell’alpinismodi Alessandro Coffaro

«La civiltà dell’empatia» 47Jeremy Rifkin e il futuro dell’uomo sul pianeta

IncontriFulco Pratesi e Luca Argentero. Cambia gioco: salva la natura! 50di Jacopo Bistacchia

Hernán Huarace Mamani. La Pachamama te habla 52di Alessandra Ciarletti

ReportageTerra e vita 55Il territorio architettato nella Palestinadi Maria Gabriella Gallo

Keep it wild 5911 settembre: New York, dieci anni dopodi Fabiana Iannilli

RubrichePopscene 62Ultim’ora da Laziodisu 63Non tutti sanno che… 63

RecensioniWhatami 64Architettura e ambiente: un arcipelago verde nella città di Romadi Laura Pujia

«The Tree of Life» 65L’affresco intimista dell’anima del mondodi Gaia Bottino

Risorgimento ed Ebraismo 66Carlo Cattaneo, Benedetto Musolino e Moses Hessdi Giovanna Grenga

Mente locale 67Antropologia dell’abitaredi Stefano Perelli

MotherlandDecima edizione di FotoGrafia al M.a.c.ro 69di Gianluca Alò

Periodico dell’Università degli Studi Roma TreAnno XIII, numero 3/2011

Direttore responsabileAnna Lisa Tota(professore straordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi)

CaporedattoreAlessandra Ciarletti

Vicecaporedattore e segreteria di redazioneFederica Martellini [email protected]

RedazioneUgo Attisani, Gaia Bottino, Valentina Cavalletti, Gessica Cuscunà, Paolo Di Paolo, IreneD’Intino, Indra Galbo, Francesca Gisotti, Elisabetta Garuccio Norrito, Michela Monferrini,Monica Pepe

Hanno collaborato a questo numeroGianluca Alò (studente di Scienze della comunicazione), Jacopo Bistacchia (studente delDAMS), Gabriele Anaclerio (ricercatore assegnista presso il Dipartimento Comunicazionee spettacolo), Michele M. Ciricillo (studente di Scienze storiche), Alessandro Coffaro (Uf-ficio cerimoniale), Roberto De Lieto Vollaro (docente di Acustica e illuminotecnica am-bientale), Sara Fuligni (studentessa di Scienze storiche), Maria Gabriella Gallo (Presiden-za Facoltà di Architettura), Gianpiero Gamaleri (Professore ordinario di Sociologia deiprocessi culturali e comunicativi), Giovanna Grenga (M.I.U.R. D.G. per gli Affari interna-zionali), Fabiana Iannilli (Segreteria del Rettore), Leticia Marrone (ASAL, AssociazioneStudi America Latina), Paola Molin (PhD, Dipartimento di Scienze geologiche), RobertaPaltrinieri (professore associato di Sociologia dei processi culturali e comunicativi, Uni-versità di Bologna), Luca Passi (studente di Ingegneria civile), Stefano Perelli (studenteFacoltà di Scienze politiche), Laura Pujia (dottoranda e tutor del master ASP, Facoltà diArchitettura Roma Tre), Paolo Saraceno (IFSI, Istituto di fisica dello spazio interplanetario– INAF, Istituto nazionale di astrofisica), Giovanni Scarano (Professore associato di Eco-nomia dell’ambiente), Mario Signorino (ISAT - Amici della Terra), Chiara Tonelli (docentedi Tecnologia dell’architettura), Gianni Tarquini (specializzato in Storia e in cooperazioneinternazionale), Andrea Vidotto (direttore del Dipartimento di Progettazione e studio del-l’architettura)

Immagini e fotoGianluca Alò, Nadia Angelucci, Archivio Terre madri, Giovanni B. Croce, Maria Gabriel-la Gallo, Fabiana Iannilli, F. Migliori, Laura Pujia, Gianni Tarquini, www.theinvisible-hand.it, www.hhmamani.com. Si ringrazia (ASAL Associazione Studi America Latina)per la gentile concessione della riproduzione della carta di Peters, riportata in terza dicopertina

Progetto graficoMagda PaolilloConmedia s.r.l. - Piazza San Calisto, 9 - Roma06 64561102 - www.conmedia.itIl progetto grafico della copertina è di Tommaso D’Errico.

Impaginazione e stampaTipografia Gimax di Medei MassimilianoVia Valdambrini, 22 - 00058 Santa Marinella (RM) - Tel. 0766 511644

Finito di stamparedicembre 2011

Registrazione Tribunale di Roma n. 51/98 del 17/02/1998

“Environment is likethe shadow, and life,the body. Without thebody there can be noshadow. Similarly,without life, environ-ment cannot exist,even though life issupported by its envi-ronment” (NichirenDaishonin, monacogiapponese del XIIIsecolo).Questo numero è de-dicato all’ambiente ealle varie forme di in-

quinamento che lo abitano. Tuttavia, desideriamo proporviuna prospettiva un po’ diversa da quella abituale con cui sia-mo soliti considerare queste questioni: vorremmo proporvidi partire da un antico insegnamento buddista, “Esho Funi” ,secondo il quale esiste un’unità di vita e ambiente. In altritermini, quello che c’è dentro di me, c’è anche fuori di me eviceversa. Nichiren Daishonin, un monaco giapponese delXIII secolo, affermava che il nostro ambiente, la nostra casa,il nostro paese non sono altro che l’espressione della nostravita interiore.

Secondo questo principio, esisterebbe una correlazione “so-lida” tra il nostro modo di sentire e percepire l’esterno e ilmodo in cui l’esterno si manifesta a noi. In sociologia que-sto principio spirituale è stato espresso, con alcune varianti,da una molteplicità di prospettive teoriche, fra cui ad esem-pio la fenomenologia sociale di Alfred Schütz oppure la teo-ria della costruzione sociale della realtà di Berger e Luck-mann. In epistemologia se ne è occupato Gregory Batesoncon il concetto di “ecologia della mente”, in psicologia lascuola di Palo Alto a partire dalla riflessione di Paul Watzla-wick. Per non parlare della filosofia, dove i contributi sonostati ancora più numerosi. Ci sarebbero poi numerose rifles-sioni sulle conseguenze della teoria dei quanti sulla nostravita quotidiana.Cosa succede se guardiamo all’ambiente e all’inquinamentoa partire dall’insegnamento di esho funi? Succede che al-l’improvviso il dentro e il fuori si sfumano, non c’è più unambiente là fuori in pericolo, inquinato da pochi “cattivi” epotenti, mentre dall’altra parte ci sarebbero i poveri cittadiniinermi e indifesi, costretti a subire passivamente le conse-guenze delle azioni degli inquinatori del mondo. Succedeche all’improvviso il dentro e il fuori si mescolano in un

continuum, in un’unità di forze ed intenti che spinge a porsinuovi interrogativi: io dove e come inquino nel mio quoti-diano? Quante e quali sono le scelte inquinanti che ognigiorno decido di fare? Sono io che inquino continuando adacquistare e a consumare prodotti ad alto impatto ambientaleoppure soltanto chi li produce? Se a colazione mi ostino aconsumare frutta che al posto di essere prodotta dagli alberisotto casa viene importata in aereo da un altro continente,qual è la mente che inquina di più: la mia che continua a col-tivare questa abitudine alimentare o quella di chi per profittome la propone e la rende possibile? E chi pagherà i costi del-l’inquinamento prodotto dal trasporto aereo? Perchè essipossono continuare ad essere esternalizzati? Li potrebberopagare l’importatore e il consumatore. Ma è poi vero che ba-sta pagare? E’ lecito acquistare sul mercato il diritto di inqui-nare? Non è forse questo un altro “monstrum” prodotto daun pensiero altamente inquinante?

E ancora: l’inquinamento è soltanto ambientale, acustico,elettromagnetico, visuale o ci sono forme di inquinamentomeno materiali, ma che forse possiamo iniziare a considera-re? Sappiamo dalla scuola di Palo Alto che ci sono paroleche inquinano (e che nel caso del doppio vincolo possonoaddirittura, a determinate condizioni, favorire l’insorgeredella schizofrenia). Sappiamo da alcune riflessioni sui mediache anche le immagini possono essere altamente inquinanti.Ma cosa ne è dei nostri pensieri? Esiste una mente che inqui-na e che produce serie di azioni che le corrispondono e chepertanto sono anch’esse di natura inquinante? Esistono, dun-que, anche forme di inquinamento cognitivo ed emotivo concui possiamo iniziare a confrontarci? E chi decide quando unpensiero o un’emozione inquina? Sono interrogativi senzafacili risposte, ma che certamente vanno nella direzione diuna riflessione ulteriore. Se iniziamo ad interrogarci sullacontiguità e permeabilità tra ambiente psichico-emotivo eambiente fisico esterno, l’unica strada percorribile è che siail soggetto stesso a divenire consapevole di quando e comela sua mente stia inquinando. In altri termini emerge la ne-cessità di un attivo dialogo con noi stessi in quanto cittadinidell’intero pianeta. Questo tipo di riflessioni comporta concretamente praticheambientali assai diverse da quelle tradizionali. Per esempio,il microbiologo giapponese Masanobu Fukuoka ne La rivo-

luzione del filo di paglia, un libro che ha trasformato i meto-di dell’agricoltura tradizionale, propone di uscire dalla mo-dalità del controllo sulla natura e propone di superare le

La mente che inquinadi Anna Lisa Tota

Nichiren Daishonin, un monacogiapponese del XIII secolo, affermava

che il nostro ambiente, la nostra casa, ilnostro paese non sono altro che

l’espressione della nostra vita interiore

Anna Lisa Tota

In sociologia questo principio spirituale èstato espresso, con alcune varianti, da unamolteplicità di prospettive teoriche, fra cui

ad esempio la fenomenologia sociale diAlfred Schütz oppure la teoria della

costruzione sociale della realtà di Berger eLuckmann

“monoculture della mente”, già teorizzate nelle guerre deisemi di cui parla Vandana Shiva, per attivare un dialogoattivo con le piante e con la terra. La sua filosofia si inspiraal principio taoista della non-azione, del lasciare fare allepiante invece di imporre al terreno un’idea predeterminatadi ciò che lì debba nascere e germogliare. In Europa, unapproccio in grande risonanza con quello del filosofo-mi-crobiologo giapponese si deve a Gilles Clement, noto pae-saggista francese, che in Manifesto del terzo paesaggio

parla delle aree incolte, di tutti quegli spazi verdi dove leerbe sembrano vagabondare, dove il controllo dell’uomosul territorio è sospeso e la natura riprende il sopravvento.Il terzo paesaggio (seguendo l’analogia con il Terzo Stato)è costituito dalle aiuole “in-colte” che troviamo vicino alleautostrade, da quei pezzi di prato lungo le vie che definia-mo erroneamente “erbacce” e che pertanto ci paiono privedi interesse. In realtà sono aree ambientali importanti per labiodiversità e per l’equilibrio ambientale complessivo. Gil-les Clement ha teorizzato il giardino in movimento, un’i-dea di giardino che si rifà a una diversa concezione del rap-porto con la terra. Egli elogia le piante “vagabonde”, abo-lendo la distinzione tra piante di serie A e piante di serie B.

Che cosa sono le “infestanti” se non piante che si sottrag-gono ad un’idea predeterminata che noi pretendiamo diavere su cosa debba crescere in un certo luogo? E perchè

mai dovremmo essere proprio noi a decidere cosa debbacrescere e nascere lì? Ancora una volta, l’idea di un am-biente totalmente colonizzato e ridotto alla volontà di con-trollo e dominio dell’uomo alimenta un’illusione collettivadestinata ad infrangersi contro il primo disastro naturaleche avrà luogo, quando il pianeta Terra ci ricorderà ancorauna volta che esso vive e, come tale, non può essere “colo-nizzato”, nè definitivamente ridotto alla nostra volontà. Ilpianeta Gaia appunto, teorizzato molti anni fa da JamesLovelock e che ancora continua a respirare …

In questo numero vi parleremo di Fukushima e dei pro econtro dell’energia nucleare, vi parleremo delle attività diGreenpeace e dei cambiamenti climatici, vi parleremo dellavoro di Jeremy Rifkin e della natura estrema dei film diWerner Herzog, del consumo etico e dell’esternalizzazionedei costi ambientali. Vi parleremo di architettura sostenibi-le e ancora della sacralità degli alberi. Vi parleremo diquelle guerre vere che si combattono con le armi chimichee degli effetti devastanti e perduranti nel tempo che hanno

sull’ambiente circostante. Insomma, un numero denso ericco di contributi che speriamo ancora una volta possa far-vi riflettere su un tema così rilevante.

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Quante e quali sono le scelte inquinantiche ogni giorno decido di fare? Sono io che

inquino continuando ad acquistare e aconsumare prodotti ad alto impatto

ambientale oppure soltanto chi li produce?

Sappiamo dalla scuola di Palo Alto che cisono parole che inquinano

Il microbiologo giapponese MasanobuFukuoka con il libro La rivoluzione del filo

di paglia ha trasformato i metodidell’agricoltura tradizionale

Gilles Clement, noto paesaggista francesein Manifesto del terzo paesaggio parla

delle aree incolte, di tutti quegli spazi verdidove le erbe sembrano vagabondare, dove

il controllo dell’uomo sul territorio èsospeso e la natura riprende il sopravvento

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L’inquinamento è normal-mente percepito dall’opi-nione pubblica come unpeggioramento della quali-tà ambientale conseguenteall’emissione, da parte del-l’uomo, di sostanze nonnaturali e dannose per gliecosistemi naturali. Mauna definizione di questotipo, per quanto colga al-cuni aspetti importanti delproblema dell’inquina-mento nelle moderne so-

cietà industriali e post-industriali, presenta una serie di ine-sattezze e, soprattutto, può discostarsi in modo rilevantedalla sua interpretazione come diseconomia.In primo luogo, il danno ambientale connesso ai processi

d’inquinamento non dipende, in generale, dal carattere “in-naturale” delle sostanze emesse nel corso dei processi pro-duttivi umani, per due ordini di ragioni. Innanzitutto per-ché, tranne forse per il caso delle materie plastiche, è estre-mamente improbabile che l’uomo riesca a produrre sostan-ze che non esistano tal quali in natura o che siano radical-mente diverse da quelle prodotte in natura, in quanto i pro-cessi di produzione umana non sono altro che il risultatodell’asservimento a fini umani di processi naturali che sisvolgono necessariamente secondo leggi naturali. Poi per-ché il danno ambientale, cioè la perdita di funzionalità e dicaratteristiche utili degli ecosistemi naturali è, in genere, laconseguenza della rottura di equilibri dinamici nei flussi disostanza e di energia che li caratterizza, e tale rottura puòessere generata da sostanze del tutto naturali, che vengonoperò a trovarsi in quantità eccessive nel posto e nel mo-mento sbagliati. È questo, ad esempio, il tipico caso dell’inquinamento pro-dotto dai reflui urbani, nei quali le deiezioni organiche dipopolazioni umane densamente concentrate in spazi limita-ti, pervenendo in bacini o corsi d’acqua dolce o lungo i li-torali marini, possono comportare alterazioni degli ecosi-stemi acquatici indipendentemente dalla presenza in essi dimetalli pesanti, sostanze tossiche o prodotti non biodegra-dabili. La sola elevata concentrazione di sostanza organica

biodegradabile, agendo da eccesso di risorsa alimentare perle flore microbiche presenti in tali corpi idrici, rompe i lorodelicati equilibri ecosistemici. La rapida proliferazione deimicrorganismi impoverisce le acque di ossigeno generandola morte degli stessi microrganismi degradatori, ma anchedi altre specie vegetali e animali fino a comportare il col-lasso dell’intero ecosistema, con conseguente riduzione odistruzione delle naturali capacità di assimilazione di rifiutiorganici del corpo idrico. Paradossi analoghi possono essere riscontrati nei processidi eutrofizzazione dei bacini idrici, dove sostanze larga-mente presenti in natura indipendentemente dall’attivitàdell’uomo, quali i fosfati, immessi in grande quantità comereflui delle attività di concimazione agricola o dell’uso do-mestico di detersivi industriali, favoriscono la proliferazio-ne di alghe fino a produrre, ancora una volta, una carenzadi ossigeno disciolto nelle acque che può generare gravidanni agli ecosistemi acquatici. Oppure nello stesso effettoserra, dove l’emissione eccessiva di un gas innocuo e tipi-co della respirazione animale e vegetale, quale l’anidridecarbonica, può giungere ad alterare gli equilibri climaticidel pianeta.Quindi, l’inquinamento non è un problema connesso allanatura dell’emissione, quanto piuttosto al rapporto quanti-tativo tra emissione antropica e capacità di assimilazioneecosistemica di una data sostanza. Le sostanze apparente-mente più tossiche possono trovare in natura capacità, sep-pur limitate, di assimilazione e neutralizzazione, così comele sostanze apparentemente più innocue, qualora venganoemesse in quantità eccedenti la propria capacità di assimi-lazione, possono produrre danni ambientali rilevanti.In secondo luogo, da un punto di vista economico, il danno

Costi e beneficiL’inquinamento come disecomia

di Giovanni Scarano

Giovanni Scarano

L’inquinamento non è un problemaconnesso alla natura dell’emissione,

quanto piuttosto al rapporto quantitativotra emissione antropica e capacità di

assimilazione ecosistemica di una datasostanza

ambientale, inteso come depauperamento del patrimonionaturale, non è sempre da evitare e può trovare le sue giu-stificazioni sociali. Questo apparente paradosso, rispetto alsenso comune, della prospettiva economica, dipende dalfatto che la scienza economica considera ogni processoproduttivo umano un processo di distruzione creatrice.Ogni processo produttivo, come del resto ogni processo na-turale, è, infatti, una trasformazione termodinamica, in cuialcune forme di materia ed energia sono trasformate in al-tre forme di materia ed energia. L’unica peculiarità, nel ca-so dei processi produttivi antropici, è che tale trasformazio-ne è effettuata per trasformare cose inutili o meno utili pergli esseri umani in cose più utili per gli stessi. Da questopunto di vista, la distruzione non è un problema in sé, mava valutata comparando i suoi effetti con quelli della crea-zione associata. Ogni processo produttivo consuma beniper crearne altri. La perdita di utilità associata ai primi èciò che l’economia moderna definisce costi, mentre l’utili-tà associata ai secondi rappresenta per essa i benefici. In

termini economici il problema diviene dunque quello dellacomparazione tra costi e benefici di ogni attività antropica.Sulla base di queste sole considerazioni utilitaristiche, checontraddistinguono il calcolo economico, la distruzione o ildegrado di componenti ambientali è la “candela” il cui va-lore deve essere sopravanzato da quello del “gioco”.Questo tipo di ragionamento può far individuare un livellod’inquinamento “socialmente ottimo” diverso da zero.L’inquinamento, o più in generale il danno ambientale, inquanto distruzione di beni ambientali è, infatti, un costo,che può essere economicamente giustificato da un’adegua-ta produzione di benefici su altri fronti. Il problema dell’in-quinamento si pone, quindi, solo quando il beneficio ad es-so associato è inferiore al costo da es-so derivante.L’inquinamento, quindi, si configuracome problema solo se è un costo in-giustificato. Ma tale situazione puòdiventare la norma quando la regola-zione delle attività produttive è rea-lizzata dai mercati. L’inquinamento,infatti, si configura spesso come uncosto esterno (esternalità negativa odiseconomia esterna), cioè come unaperdita di utilità riguardante soggettiterzi rispetto al processo produttivo edi scambio, che non traggono da essobenefici né sul fronte dei redditi né su

quello del consumo. In tali situazioni, imprese e consuma-tori, che determinano con le loro decisioni i livelli di pro-duzione e di inquinamento, possono ignorare i costi esterninel proprio calcolo economico, determinando situazionisubottimali dal punto di vista sociale. Il calcolo economico, come strumento di decisione sociale,comporta anche il rischio della “maledizione del tasso disconto”. Nei processi di valutazione intertemporale, infatti,nei sistemi economici capitalistici è inevitabile, data la na-tura stessa delle opportunità di investimento, ricorrere al-l’operazione di sconto, per rendere confrontabili valori chesi realizzano in differenti istanti temporali. Tale operazionepresenta l’inconveniente di rendere rapidamente irrilevantivalori enormi che si realizzeranno in un futuro non troppolontano. Ciò che accadrà dopo trenta anni diviene pratica-mente irrilevante dal punto di vista dell’analisi costi-bene-fici. Ciò fa sì che situazioni in cui si hanno piccoli beneficinel presente associati a gravi danni nel futuro siano preferi-bili a situazioni in cui si hanno piccoli costi nel presentema grandi benefici soltanto in un futuro remoto.Questi “fallimenti del mercato” giustificano, anche per glieconomisti più liberisti, un intervento correttivo dello Sta-to, che attraverso vari strumenti di politica economica, qua-li tasse e standard ambientali, regolazione dei diritti di pro-prietà, sussidi e permessi di emissione negoziabili, può teo-ricamente correggere le disfunzioni del mercato e ricondur-re il sistema economico al suo punto di ottimo sociale perquanto riguarda la comparazione tra costi e benefici.

Il livello ottimo d’inquinamento, visto come costo sociale,può tendere a ridursi notevolmente e a convergere conquanto assunto dal senso comune, qualora si prendano in

considerazione le dinamiche ecosiste-miche di lungo periodo e si mettano inconto gli effetti cumulativi del dannoambientale e della progressiva ridu-zione di capacità di assorbimento e difornitura di risorse rinnovabili da partedegli ecosistemi naturali. Può infinediventare pari a zero, e coincidere conuna percezione ambientalista, qualorasi mettano in gioco giudizi di carattereetico che superino i limiti dell’utilita-rismo egoistico, prendendo esplicita-mente in considerazione i diritti dellegenerazioni future o valori assoluti diesistenza per i beni ambientali.

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Da un punto di vista economico, il dannoambientale, inteso come depauperamentodel patrimonio naturale, non è sempre daevitare e può trovare le sue giustificazioni

sociali. Questo apparente paradosso,rispetto al senso comune, della prospettivaeconomica, dipende dal fatto che la scienza

economica considera ogni processoproduttivo umano un processo di

distruzione creatrice

Ogni processo produttivo, come del restoogni processo naturale, è, infatti, unatrasformazione termodinamica, in cui

alcune forme di materia ed energia sonotrasformate in altre forme di materia edenergia. L’unica peculiarità, nel caso deiprocessi produttivi antropici, è che tale

trasformazione è effettuata pertrasformare cose inutili o meno utili per gliesseri umani in cose più utili per gli stessi

Anche da una frettolosarassegna emerge il grandenumero di eventi di variogenere, locali, nazionali,internazionali, più o me-no circoscritti sui temidella sostenibilità cheravvivano le cronache ri-empiendo con il loro an-nuncio la nostra postaelettronica e quella di tut-ti coloro che di queste“faccende” si occupanocon differenti specialismi.

Dalle barche ecocompatibili nei saloni della nautica no-strani, alle gare folli di tricicli a energia solare nel deser-to di Atacama in Cile dove nell’autunno 2011 trenta teamdi sette paesi si sono sfidati per tre giorni: tutto è rigoro-samente ad impatto zero. I temi relativi all’edilizia e all’ambiente urbano sonoquelli che mi interessano ed è su questi che mi sento difare alcune considerazioni collegandomi a temi concreticon i quali mi sono confrontato e che sono pertinenti alleattività di ricerca del Dipartimento di progettazione dicui faccio parte.

Efficienza energeticaTra le notizie sull’innovazione e sulle tecnologie am-bientali sviluppate in una competizione europea eccopulsare un’iniziativa che coinvolgendo anche l’Universi-tà La Sapienza vede insieme un forte gruppo di docenti estudenti di Roma Tre in un progetto di durata biennaledenominato “MED in Italy” che ha tenuto banco nell’ot-tobre 2011 al SAIE di Bologna. Radicandola nella tradi-zione della domus romana e delle contemporaneità elle-niche, delle discendenze arabe e catalane, questo gruppodi giovani e di colleghi docenti delle Facoltà di Architet-tura, Economia e Ingegneria sta sviluppando il prototipodi una casa mediterranea bioclimatica da costruire 1:1 (alvero) nell’ambito del Solar Decathlon di Madrid nell’e-state del 2012. Si tratta di un tipo edilizio adatto ad esse-re realizzato nei contesti più vari dell’ampio territorioculturale e geografico (il Mediterraneo) nel quale l’archi-

tettura –edifici e tessuti edilizi – della storia antica e re-cente ci permette di riconoscere molte matrici comunicapaci di influenzare originali innovazioni nel combinarei materiali costruttivi e le tecnologie.

La selezione di cervelli e la generosa disponibilità dellepersone non sarebbe sufficiente in questa competizioneinternazionale sul tema della “casa solare” senza la spon-sorizzazione di diverse istituzioni nazionali ed europeecon le quali il team ha avviato il lavoro di continua mes-sa a punto della proposta progettuale e di controllo dellesue prestazioni.Si comprende facilmente che per raggiungere obiettivi disostenibilità ambientale nell’architettura ed ottenere risul-tati convincenti è indispensabile passare attraverso la spe-rimentazione – un prototipo da costruire – che rende pos-sibile la successiva verifica da parte di chi userà l’edificio.

Efficienza architettonica Appare evidente che l’efficienza energetica nell’architet-tura costruita debba essere considerata come una condi-zione sine qua non e paradossalmente non più come unobiettivo dichiarato essendone ormai scontata, a priori, lanecessità.Ciò significa che i dispositivi attivi o passivi più diffusiper l’uso delle risorse rinnovabili – pannelli solari e foto-voltaici più o meno integrati nell’involucro – i sistemi diventilazione naturale e gli ombreggiamenti, i diversi gra-di della domotica, il ricorso alla geotermia, il recuperodell’acqua piovana, la coesistente varietà delle soluzioniimpiantistiche più o meno complesse, configurano un si-stema di comportamento degli edifici contemporanei dimutua complicità – ben oltre il “favoreggiamento” – conle singolarità architettoniche che li caratterizzano.Se nel caso sperimentale di “MED in Italy” prima citatosi esprime il metodo della ricerca scientifica di punta, sa-rà altrettanto interessante valutare i risultati innovatividella costruzione dei nuovi edifici o la trasformazione diquelli esistenti – da destinare a didattica e ricerca – doveRoma Tre ha già investito energie organizzative e intel-lettuali notevoli oltre a cospicue risorse economiche.Tenendo sullo sfondo l’ambizioso piano edilizio proietta-to nei prossimi anni vale quindi la pena di soffermarsisugli aspetti non marginali degli esiti che le realizzazioniin corso determineranno, adottando il criterio di mettereda parte la valutazione tecnologica e di leggerne il valore

Architettura biosostenibileEfficienza energetica, architettonica e trasformabilità

di Andrea Vidotto

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Andrea Vidotto

Per raggiungere obiettivi di sostenibilitàambientale nell’architettura ed ottenere

risultati convincenti è indispensabilepassare attraverso la sperimentazione –

un prototipo da costruire – che rendepossibile la successiva verifica da parte di

chi userà l’edificio

“MED in Italy” è un progetto di duratabiennale, che coinvolge anche un fortegruppo di docenti e studenti di Roma

Tre e ha tenuto banco nell’ottobre 2011al SAIE di Bologna

in filigrana a favoredegli aspetti tipologi-ci e delle problemati-che dell’uso.Le nuove spazialità ele nuove concezionidistributive, sia alMattatoio di Testac-cio per Architetturache al Valco San Pao-lo per Ingegneria,non solo risolvono lenecessità funzionalicon accortezza mainventano un ambien-te sorprendentementericco di opportunitàper lo sviluppo dellerelazioni interperso-nali tra studenti, per-sonale e docenti, e nella proclamazione del nuovo favori-scono l’identificazione dei luoghi per una vita associata

fondendo unità edilizie separate in un tessuto di occasio-ni di studio, di lavoro, di incontro. Nel caso della ex “Va-sca Nazionale per leesperienze di Archi-tettura Navale” – cheben conosco – con lasua caratteristica li-nearità Est-Ovest laspecializzazione de-gli spazi interni si ap-poggia a condizionidi esposizione diffe-renziate, ma il Suddegli studi e il Norddei laboratori si sal-dano in ambiti cen-trali dove “piazze” dilavoro e di incontrogodono di luce zeni-tale pacata e rassere-nante. Ci si potrà

sentire raccolti nel-l’edificio ma allostesso tempo uscirnee distrarsi sui terrazziper l’intervallo dellechiacchiere informaliche poi si ricompon-gono là dove le riu-nioni si sono interrot-te. Come gli architet-ti di solida esperien-za e di grande visio-ne raccomandano, gliedifici destinati acollettività di utentinon devono essere –come giacche strette– troppo aderenti allefunzioni specifiche,ma in qualche misura

devono avere (ci dice il norvegese Kjetil Thorsen di Sno-hetta) caratteristiche di “generosità” e di “neutralità” per-ché molte cose possono succedere nel tempo in un edifi-cio pubblico. Gli edifici per l’università in particolaredevono poter soddisfare esigenze mutevoli e la flessibili-tà concepita nel progetto diventa importante connotato disostenibilità quando prevede margini di trasformazioninello spazio e nel tempo.

TrasformabilitàI progetti di recupero e trasformazione degli edifici di ar-cheologia industriale destinati a Roma Tre nelle aree del-l’Ostiense e sviluppati dai colleghi del Dipartimento diprogettazione (Dipsa) in questi anni configurano un re-pertorio di occasioni di ricerca applicata di notevole si-gnificato. Possiamo vederli inseriti nel tema ampio dellariqualificazione e del rinnovo urbano, di cui Roma Tre èattore protagonista, e riferire di altre iniziative come ilconcorso internazionale PASS (Progetto Alloggi SocialiSostenibili) che la ricerca svolta nel Dipsa ha promosso eavviato alla realizzazione, questa volta insieme con l’A-ter di Roma, nell’ambito della riqualificazione dell’edili-

zia residenziale pub-blica in un territoriodella periferia roma-na.Il patrimonio dellecase popolari, nonsolo a Roma, e nonsolo nel caso specifi-co del quartiere diSanta Maria del Soc-corso al Tiburtino danoi esaminato, soffredi malanni energeticicronici e come avvie-ne in molte città eu-ropee con migliaia diedifici con problemisimili, dovrà sotto-porsi ad anamnesi,

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Le nuove spazialità e le nuove concezionidistributive, sia al Mattatoio di Testaccioper Architettura che al Valco San Paolo

per Ingegneria, non solo risolvono lenecessità funzionali con accortezza ma

inventano un ambiente ricco diopportunità per lo sviluppo delle relazioni

interpersonali tra studenti, personale edocenti, e favoriscono l’identificazione dei

luoghi per una vita associata fondendounità edilizie separate in un tessuto di

occasioni di studio, di lavoro, di incontro

Ex Vasca Navale. Interno del corpo A con ambiente open-space per le unità di ricerca

Ex Vasca Navale, vista d’insieme lato Sud

diagnosi e cure nella prospettiva di un risanamento. Lacorrezione del comportamento energetico degli edificipuò andare di pari passo con il miglioramento della loroidentità architettonica che è valore aggiunto non solo sot-to il profilo economico ma anche per il significato socia-le che si riflette sulla vita degli abitanti. L’attacco degliedifici a terra, le soluzioni per l’accessibilità pedonale ecarrabile in sicurezza, l’eliminazione delle “terre di nes-suno” negli spazi comuni, la trasformazione dell’involu-cro di facciata intervenendo sugli infissi e le chiusure ri-solvendo deficit di isolamento termico e garantendocomfort acustici agli spazi dell’abitare, sono alcuni degliinterventi “normali” che si effettuano nei progetti di ri-qualificazione.A questi si aggiungono le trasformazioni del modellod’uso degli alloggi intervenendo sui tagli, adeguando, inaggiunta o in sottrazione, le dimensioni ai bisogni di nu-clei “familiari” con numero di abitanti molto variabile econ esigenze tra le più differenziate. Oltre alla tipologia

talvolta è la morfologia dell’intero edificio a essere tra-sformata con la possibilità di abitare al piano terra (satu-rando gli spazi porticati) con nuovi spazi di pertinenzaassegnati, o di costruire in copertura (ove possibile e conmateriali leggeri) aggiungendo metri quadrati per alloggispeciali destinati ad anziani o studenti.Si tratta di operazioni delicate, che devono essere con-certate con gli abitanti ed è con loro che gli interlocutoripubblici e i progettisti avviano trattative e accordi all’in-terno di un processo che ha forti motivazioni tecniche eparametri economici di valutazione da tenere sotto stret-to controllo per prefigurare gli esiti della trasformazionee visualizzarne i vantaggi. A Santa Maria del Soccorso il gruppo spagnolo che havinto il concorso sta sviluppando il progetto esecutivo edè gratificante pensare che un processo avviato nelle stan-ze della ricerca universitaria si stia traducendo in un mi-glioramento della qualità della vita associata negli edificidella nostra città.

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Riqualificazione edilizia ed urbana al Tiburtino, case IACP a Santa Maria del Soccorso. Soluzione vincente al concorso PASS del gruppospagnolo “Espegel Fisac” (2010)

Riqualificazione edilizia ed urbana al Tiburtino, case IACP a Santa Maria del Soccorso. Soluzione vincente al concorso PASS del gruppospagnolo “Espegel Fisac”(2010). Una delle corti prima e dopo la trasformazione di progetto.

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Progettare e costruire lapropria casa rappresenta ilpiù grande investimentoeconomico della vita diuna persona. Le abitazionisono però costruite, quasiin tutto il mondo, più omeno nello stesso modo incui erano costruite almeno50 anni fa. Ciò significache la casa che dovrà ac-cogliere la nostra vita per

almeno 20, 30, 40 anni è concepita per i bisogni attuali, fa-cendo riferimento ad un’obsoleta implicita concezione cheil futuro sia solo una ripetizione del presente. Invece, poi-ché gli edifici sono responsabili per più della metà del tota-le delle emissioni di gas serra e del consumo globale dienergia, è ormai impellente che la nostra società aggiorni laconcezione e la teorizzazione delle pratiche architettonicheverso progetti responsabili di un nuovo rapporto tra naturae esseri umani. Una delle principali differenze con il passa-to è, per esempio, l’innalzamento delle temperature mon-diali a causa dell’effetto serra, che sta comportando un

sempre più diffuso bisogno di raffrescamento interno agliedifici. Ciò richiederà molta più energia di quanta non nesia stata finora necessaria per riscaldarle. Infatti, produrre1°C di freddo richiede tre volte l’energia necessaria a pro-durre 1°C di caldo. È quindi necessario studiare nuovi mo-delli di abitazioni, che possano difendersi anche dal caldoe non soltanto dal freddo come si è generalmente fatto inEuropa nell’ultimo secolo. Un possibile approccio è quellodi recuperare la tradizione costruttiva del passato, dacombinare con le attuali moderne tecnologie per garantire ilivelli di comfort abitativo ai quali siamo oramai abituati.Sino all’avvento dell’impiantistica, circa agli inizi del XXsecolo, l’architettura, tanto nei suoi aspetti tecnologiciquanto in quelli morfologici e formali, era stata infatti con-dizionata dalle specificità climatiche dei luoghi in cui sirealizzava. Successivamente è prevalsa la convinzione chegli edifici potessero essere costruiti con identiche caratteri-stiche per qualsiasi condizione climatica, poiché gli im-

pianti assolvevano il compito di realizzare le condizioni dibenessere all’interno degli ambienti. È vero infatti che gliimpianti tecnici applicati all’edilizia, grazie all’alto livellodi sofisticazione raggiunto, rendono possibile realizzare unqualsiasi tipo di edificio in qualunque condizione climati-ca, grazie all’uso di grandi quantità di energia per raggiun-gere soddisfacenti condizioni di comfort degli ambienti in-terni. Tale situazione sarebbe tuttavia compatibile solo inpresenza di una disponibilità praticamente inesauribile dirisorse energetiche a basso costo e tali da non provocaredanni all’ambiente. In assenza di tale disponibilità di risor-se è quindi doveroso un ripensamento globale sulla neces-sità di correlare i caratteri tipologici e tecnologici degli edi-fici con le caratteristiche climatiche del sito e con l’uso dirisorse energetiche rinnovabili. Su queste premesse si fon-da il progetto Med in Italy per una casa mediterranea soste-nibile in competizione a Solar Decathlon Europe 2012, unconcorso che si pone l’obiettivo di progettare e costruireabitazioni innovative, sostenibili ed autosufficienti, graziein particolare all’energia solare. La competizione Solar De-cathlon nasce nel 1999, promossa dal Dipartimento diEnergia del Governo degli Stati Uniti, e nel 2002 si svolgeil primo evento a Washington DC. Nel 2010 la competizio-ne si trasferisce anche in Europa, nella città di Madrid, conil nome di Solar Decathlon Europe. Dal 2013 la competi-zione si svolgerà anche in Cina a Pechino. Nel corso diogni edizione, che ha alternanza biennale, 20 selezionatiteam universitari provenienti da tutto il mondo si confron-tano nella costruzione di una casa alimentata ad energia so-lare e dotata di tecnologie atte a rendere almeno nullo il bi-lancio energetico tra produzione e consumi. Le case vengo-no sottoposte a dieci prove che mirano a testarne la qualitàarchitettonica, le soluzioni costruttive, l’efficienza energe-tica, il bilancio energetico, il comfort interno, il funziona-mento domestico, la comunicazione dei principi sostenibiliche sono alla base del progetto e della competizione, l’in-

Solar DecathlonLa casa che verrà: possibili modelli abitativi

di Chiara Tonelli

Chiara Tonelli

Poiché gli edifici sono responsabili per piùdella metà del totale delle emissioni di gasserra e del consumo globale di energia, è

ormai impellente che la nostra societàaggiorni la concezione e la teorizzazione

delle pratiche architettoniche versoprogetti responsabili di un nuovo rapporto

tra natura e esseri umani

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dustrializzazione e la rispondenza alle richieste del merca-to, l’innovazione e la sostenibilità. Pertanto, per fornireadeguata risposta a così diverse sollecitazioni, le universitàpartecipano in team multidisciplinari attraverso il contribu-to scientifico dei docenti e il lavoro degli studenti, promo-tori di tutto il processo progettuale e realizzativo. Dal mo-mento che la concezione di un edificio altamente innovati-vo comporta costi di ingegnerizzazione e prototipazionemolto alti, il supporto economico e tecnico delle industrie èrequisito basilare del progetto e occasione di scambioscientifico avanzato. Le Facoltà di Architettura, Economiaed Ingegneria dell’Università di Roma Tre, un team di Di-segno industriale della Sapienza Università di Roma e unteam per la consulenza energetica della Libera Universitàdi Bolzano, hanno creato un partenariato che, sotto la guidadell’Università di Roma Tre, è il primo team italiano cheriesce ad essere ammesso a partecipare alla competizione.La casa che verrà portata a Madrid si ispira alla tradizionecostruttiva mediterranea e alla sua cultura materiale, in unrapporto dialettico con la contemporaneità. Il clima di rife-rimento è quello caldo temperato della penisola italiana,dove la difesa dal caldo assume pari importanza rispetto al-

la difesa dal freddo, ed in molti casi maggiore. Le strategiedi base per la difesa dal caldo prevedono la protezionedall’irraggiamento solare, l’accumulo inerziale del calore ela sua dissipazione sfruttando l’alternanza di temperaturetra il giorno e la notte. Il regolamento della competizioneprevede che le abitazioni vengano trasportate ed assembla-te nel luogo di gara per poi essere disassemblate e portatevia una volta finita l’esposizione. Tale richiesta comportasoluzioni costruttive in grado di essere montate e smontate.Pertanto per ricreare il funzionamento massivo delle paretimurarie tradizionali è stata realizzata una struttura in legno,

che funge da “contenitore” per la massa inerziale, costituitada inerti quali sabbia, ghiaia, terra, da reperirsi possibil-mente nel luogo di costruzione. La massa, a diretto contat-to con l’ambiente interno, consente di accumulare caloredurante il giorno, funzionando come volano termico siad’inverno che d’estate. In estate, in particolare, preservan-do la temperatura media radiante, procura una vera sensa-zione di freschezza, diversa per qualità da quella che pro-duce il raffreddamento dell’aria prodotto con impianti dicondizionamento. All’esterno un forte spessore isolanteprotegge l’edificio dal freddo invernale e dall’irraggiamen-to estivo, eliminando i ponti termici. Anche nei climi caldi,infatti, la realizzazione di una efficiente barriera di isola-mento è il migliore sistema da utilizzare per garantire l’ef-ficienza dell’involucro. La scelta di quali materiali isolantie di quale inerte massivo siano da portare alla competizio-ne sta avvenendo attraverso la realizzazione di pacchetti diparete al vero le cui risposte prestazionali vengono misura-te con test fisici in camera climatica, simulazioni matema-tiche dinamiche del comportamento della costruzione inesercizio e monitoraggio del funzionamento attivo e passi-vo dell’involucro. Si sta inoltre mettendo a punto (aziendasponsor Italian Manufacturing) un innovativo sistema dicontrollo dei dispositivi di gestione del comfort (tempera-tura, umidità, qualità dell’aria, luce naturale/artificiale) e difunzionamento energetico semi-passivo. Tale sistema dicontrollo metterà infatti in correlazione qualità dell’ariaesterna e comportamenti umani, con gli impianti di tratta-mento dell’aria, i consumi degli elettrodomestici e i livellidi illuminazione naturale e artificiale, in maniera tale daazionare o disattivare le macchine in funzione delle neces-sità di ogni specifico momento. La “casa che verrà” non èpoi così lontana.

Produrre 1°C di freddo richiede tre voltel’energia necessaria a produrre 1°C di

caldo. È quindi necessario studiare nuovimodelli di abitazioni che possano

difendersi anche dal caldo e non soltantodal freddo come si è generalmente fatto in

Europa nell’ultimo secolo

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Un tema di grande interes-se e anche di preoccupa-zione per la nostra societàsono i cambiamenti clima-tici o meglio “il cambia-mento climatico”, indican-do con questo termine il“riscaldamento globale”,ben evidenziato da misurestrumentali negli ultimi

150 anni. Sull’argomento i mezzi di comunicazione, sem-pre a caccia di titoli che richiamino l’attenzione, annuncia-no spesso scenari catastrofici. Se il termometro sale soprai 40°C per una decina di giorni, si parla di desertificazionedilagante nel meridione. Se fa un po’ più freddo e nevica aRoma, allora una nuova glaciazione è alle porte. A partequesti titoli legati ad eventi contingenti, il tema delle va-riazioni climatiche in atto e delle proiezioni per il futuroviene trattato dai mezzi di comunicazione spesso in modopiù approfondito attingendo da comunicazioni scientifi-che, quindi da fonti più che autorevoli. Però, nel momentodi divulgare i risultati di ricerche scientifiche, i giornalistitrascurano un “dettaglio” importante. Quando viene intra-presa un’indagine scientifica esistono dei limiti: la sceltadelle metodologie utilizzate, le incertezze nella raccoltadei dati, l’interpretazione dei dati su cui infine viene for-mulato un modello di previsione e proposta una tesi finale.Queste conclusioni, con tutti i limiti di cui sono ben co-scienti gli scienziati, vengono proposte al grande pubblicocome certezze.

Altro motivo di confusione nell’opinione pubblica derivadal grande dibattito che anima l’ambiente scientifico circale cause del riscaldamento che riguarda gli ultimi 150 an-ni. Per una buona maggioranza di ricercatori le variazioniclimatiche recenti devono essere imputate non solo a cau-se naturali (attività solare, variazioni dell’orbita terrestre,attività vulcanica, composizione dell’atmosfera), ma an-che a cause antropiche, in primis l’aumento dei gas serra(diossido di carbonio, vapore acqueo, metano, ossido d’a-zoto, ozono, clorofluorocarburi) generato da attività uma-ne. Per un gruppo più limitato di ricercatori, il riscalda-mento registrato negli ultimi 150 anni rientra nella norma-le ciclicità millenaria delle variazioni climatiche e l’influs-so antropico, anche se non escluso, è ancora da provareed, eventualmente, da quantificare.

Un contributo alla corretta comprensione del dibattito, maanche dei modelli di previsione delle variazioni climatichefuture, è dato dalle Scienze geologiche. Queste, attraversodati di diversa natura, forniscono informazioni importantisui cambiamenti passati. Durante la storia della Terra sisono verificate continuamente variazioni climatiche, chehanno modificato l’ambiente e lasciato numerose tracce.Esistono studi che ricostruiscono il clima addirittura dalCambriano (circa 540 milioni di anni fa), mostrando nonsolo spiccate variazioni verso il caldo e verso freddo, maanche che in generale stiamo vivendo in un periodo fred-do. È ugualmente interessante analizzare gli ultimi 2 mi-

lioni di anni circa (il Quaternario) o addirittura gli ultimi11˙500 anni (vd. immagine in alto). Questo ultimo perio-do, denominato Olocene, si estende dalla fine dell’ultimaglaciazione, il cui massimo si è verificato intorno a 20˙000

Global warmingLa paleoclimatologia come strumento per comprendere gli attuali cambiamenti climatici

di Paola Molin

Paola Molin

Se il termometro sale sopra i 40°C per unadecina di giorni, si parla di desertificazionedilagante nel meridione. Se fa un po’ più

freddo e nevica a Roma, allora una nuovaglaciazione è alle porte

Per una buona maggioranza di ricercatorile variazioni climatiche recenti devono

essere imputate non solo a cause naturali,ma anche a cause antropiche, in primis

l’aumento dei gas serra generato daattività umane

Esempi della variabilità climatica su scale temporali diverse: a)temperature degli ultimi 400000 anni derivate da misure del conte-nuto in δD (rapporto tra isotopi stabili dell’Idrogeno) in carote dighiaccio estratte a Vostok (Antartide); b) temperature degli ultimi50000 anni derivate da misure del contenuto in δ18O (rapporto traisotopi stabili dell’Ossigeno) in carote di ghiaccio estratte inGroenlandia; c) temperature medie del secondo millennio derivateda diversi tipi di dati paleoclimatici e da misure strumentali (daAlverson, Bradley & Pederson (ED.), Paleoclimate, global changeand the future, modificato)

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anni fa, al presente. Sebbenele variazioni climatiche checaratterizzano l’Olocene sianopiù modeste in ampiezza ri-spetto a quelle relative all’ul-timo ciclo glaciale, la loro in-tensità e frequenza sono para-gonabili. Se vengono poi con-frontati i dati paleoclimaticicon le serie temporali del for-

cing climatico, è evidente co-me la variazione dell’insola-zione, legata sia alle variazio-ni dell’orbita terrestre sia al-l’attività solare, giochi un ruo-lo determinante nelle variazioni climatiche globali dell’O-locene. Questo forcing climatico continua ad agire ancheora e giocherà un suo ruolo anche nelle variazioni climati-che future, indipendentemente dall’influsso antropico. Perquesto motivo è importante studiare i record geologici ebiologici del passato: è necessario discernere tra forcing

naturale e forcing antropico per comprendere se le condi-zioni attuali siano eccezionali.L’Olocene ha sperimentato variazioni climatiche globaliche hanno avuto effetti notevolmente diversi sul globo inbase alla latitudine e all’altitudine. Ad esempio, le areedesertiche del Nord Africa hanno sperimentato condizionidecisamente più umide dall’inizio fino a circa la metàdell’Olocene. Successivamente, da circa 4000 anni fa, lecondizioni sono diventate progressivamente più aride.Sempre rimanendo in aree tropicali, segnali decisamenteopposti vengono da varie località dell’America meridio-nale (Perù, Cile, Bolivia), dove i record lacustri racconta-no di condizioni aride tra circa 8000 e 3700 anni fa, se-guite da condizioni progressivamente più umide nel tardoOlocene. Le variazioni climatiche oloceniche hanno si-gnificato cambiamenti ambientali di notevole entità nellearee tropicali. Alle alte latitudini, le caratteristiche geo-chimiche e di accumulo del ghiaccio nelle carote estrattedalla calotta in Groenlandia testimoniano una maggiorestabilità, sebbene indichino un generale decremento delletemperature attraverso tutto l’Olocene partendo da condi-zioni più calde solo nei primi millenni del periodo (il cosìdetto “Optimum climatico”). Infatti, questi dati registranoper l’inizio dell’Olocene temperature medie annuali piùcalde di 3°C rispetto agli ultimi 500 anni. Nell’emisferosettentrionale, alle medie latitudini, il generale raffredda-mento olocenico è documentato, ad esempio, dall’espan-sione dei ghiacciai rispetto al minimo raggiunto all’iniziodel periodo olocenico. Le oscillazioni dell’estensione deighiacciai orientate verso l’espansione raggiungono ilmassimo durante la così detta “Piccola Età Glaciale” (cir-ca 1250-1880 A.D.). In sintesi, i dati raccolti in varie partidel mondo indicano che l’Olocene è iniziato con condi-zioni climatiche relativamente calde, addirittura local-mente più calde dell’attuale. Successivamente, le tempe-rature sono diminuite, sebbene caratterizzate da episodipiù caldi e più freddi con scala temperale secolare. Que-sto declino generale delle temperature si è concluso conla fine della “Piccola Età Glaciale”, l’episodio probabil-mente più freddo di tutto l’Olocene.

Ma cosa è successo più indettaglio nel secondo millen-nio? Le varie ricostruzionimostrano un generale decre-mento delle temperaturedall’anno 1000 all’inizio delnovecento, quando le tempe-rature hanno iniziato a risalirebruscamente. All’interno diquesto trend generale si indi-viduano due episodi ben di-stinti: il periodo caldo medie-vale e la già citata “PiccolaEtà Glaciale”.Per quanto riguarda l’emisfe-

ro settentrionale, i dati più dettagliati riguardanti il periodocaldo medievale vengono da misure di temperatura fatte inpozzo nella calotta groenlandese: essi indicano per l’anno1000 condizioni circa 0.5-1°C al di sopra delle temperatu-re medie del 1970. Similmente, studi sugli anelli degli al-beri fatti in varie regioni dell’emisfero settentrionale mo-strano evidenze di temperature nel Medioevo al di sopra diquelle medie del XX secolo, almeno per i mesi estivi. Aquesti si vanno ad aggiungere anche evidenze archeologi-che (ad esempio, la colonizzazione della Groenlandia daparte dei Vichinghi) o documenti storici (riguardanti adesempio la produzione di vino in Inghilterra) che parlanodi inverni più miti in Europa occidentale durante il perio-do 750-1300 AD.

La “Piccola Età Glaciale” viene tradizionalmente riferita alperiodo tra 1550 e 1850 AD, sebbene ci siano notevoli va-riazioni regionali che rendono difficile definire esattamentele date di inizio e fine. Sicuramente, nel XVI secolo oramaitutti i ghiacciai erano in netta avanzata e queste condizionisono rimaste fino alla metà/fine del XIX secolo. A docu-mentare questo periodo freddo è disponibile un’ampia do-cumentazione figurativa di numerosi pittori. All’inizio delXX secolo la “Piccola Età Glaciale” finisce: i ghiacciai ini-ziano a ritirarsi e la riduzione della loro estensione è conti-nuata (e continua) fino ai nostri giorni.In sintesi, stiamo vivendo in un periodo relativamente cal-do, ma siamo ancora lontani dal riuscire a quantificare ilpeso dell’influsso antropico nell’aumento delle temperatu-re. Sicuramente, gli studi di paleoclimatologia possonoaiutarci a comprendere meglio il fenomeno, ma attualmen-te sono in grado di fornire dati quasi esclusivamente quali-tativi. I modelli climatici, sebbene forniscano risultatiquantitativi, spesso celano incertezze che rendono tali ri-sultati indicativi. Questi limiti della ricerca scientifica an-drebbero spiegati al grande pubblico al fine di fornire de-gli strumenti per una lettura più critica delle informazioni.

Per un gruppo più limitato di ricercatori,il riscaldamento registrato negli ultimi 150

anni rientra nella normale ciclicitàmillenaria delle variazioni climatiche e

l’influsso antropico, anche se non escluso,è ancora da provare ed, eventualmente, da

quantificare

Le rovine della chiesa di Hvalsey, costruita nel Medio Evo dai vi-chinghi presso Qaqortoq (Julianehåb), Groendalndia

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La crisi che ha colpito ilsistema globale, crisi siste-mica che riguarda tutti gliambiti del sociale dal poli-tico all’economico, dal-l’ambiente al welfare, dal-la cultura alla formazione,ha portato all’attenzione ditutti coloro che guardanoall’istituzione del mercatosecondo un approccio cul-turalista un nuovo agenteeconomico e sociale. Miriferisco ad una peculiareaccezione del consumato-

re: il consumatore responsabile. Ho preferito declinare quest’azione come responsabilepiuttosto che come critica o sostenibile, termini pressochèequivalenti anche se sottendono qualche sfumatura di con-testo, perché, come credo si chiarirà nel proseguire dellemie riflessioni, il tema della responsabilità è centrale nellaricollocazione di questa azione dotata di senso in un para-digma più ampio. È questa del consumatore responsabileuna figura piuttosto interessante per chi come me da tem-po si interroga sul significato che hanno le azioni di con-sumo nel sistema sociale. Il suo interesse si trova, a mioparere, nella capacità che essa ha di mettere in crisi quellerappresentazioni che hanno dominato lungamente la com-

prensione dell’agire di consumo. La figura del consumatore responsabile sembra, infatti,sfuggire sia dalle griglie strette del “consumatore sovrano”che dogmaticamente detta le leggi di aggiustamento tral’offerta e la domanda nel mercato, sia dalle larghe magliedi un agire in base a motivazioni squisitamente edonisti-che che nella società liquida ci vorrebbero tutti in preda acostanti tentazioni persuasorie secondo le logiche di uno

shopping compulsivo che ha via via colonizzato gli spazilasciati liberi da altri ambiti, come la famiglia, la religio-ne, il sistema formativo, la politica, la cultura, etc.. Per capire il portato del consumatore responsabile è op-portuno rifarsi a quella che da qualche tempo è entrata nellessico scientifico, cioè la definizione ossimorica del citta-dino consumatore. Ossimorica perché i due ambiti dellapolitica e del mercato dovrebbero avere confini ben defi-niti, non sovrapporsi, seguire codici e logiche differenti.Ed invece, non a caso, secondo un’accezione negativa,molto spesso i politologi utilizzano queste definizioni persottolineare la spettacolarizzazione e la personalizzazionedella politica, intese come distorsioni del sistema medesi-mo. Scomparse le ideologie il voto viene accordato al par-tito o al candidato capace di vendere al meglio la propriaimmagine, esattamente come un prodotto nel mercato, uti-lizzando le medesime tecniche della comunicazione pub-

blicitaria e del brand. Ma il cittadino consumatore può avere anche una valenzapositiva. Sto parlando del cittadino che utilizza le pratichedi boicottaggio e di buycottaggio per rivolgersi diretta-mente alle imprese affinché siano rispettati i diritti dei la-voratori, dell’ambiente e della comunità, provocando irri-tazioni nei rapporti tra Stato, mercato e società civile, ca-paci di indurre le imprese a comportamenti virtuosi e loStato ad un maggior controllo. Il political consumerism dicui parla la sociologa Michele Micheletti implica una par-tecipazione attiva nel mercato, traslando l’impegno dal si-stema della politica, verso cui appare evidente la crescentedisaffezione, a quello del mercato. Ancora legato ad unanicchia di consumatori in Italia, anche se, val la pena ri-cordare, è una nicchia che si allarga, dato che il commer-cio equo solidale ed il biologico sono settori che hannoconosciuto la crisi molto meno di altri e che scelte di re-sponsabilità sociale di impresa sembra abbiano premiatoalcune strutture di grande distribuzione rispetto ad altre,nel Nord Europa è un vero e proprio movimento. L’aspetto interessante di queste azioni deve ricercarsi nelfatto che quelle di buy-boicottaggio appaiono vere e pro-prie prassi di politicizzazione del mercato, le quali, secon-do il sociologo tedesco Nico Stehr, promuovono percorsidi moralizzazione del mercato. Vale la pena di soffermarcisu questo concetto di moralizzazione. Non stiamo parlan-

Roberta Paltrinieri

Fair tradeIl consumatore responsabile: una sfida alla crisi?

di Roberta Paltrinieri

La figura del consumatore responsabilesembra sfuggire sia dalle griglie strettedel “consumatore sovrano”, sia dallelarghe maglie di un agire in base a

motivazioni squisitamente edonisticheche nella società liquida ci vorrebbero

tutti in preda a costanti tentazionipersuasorie secondo le logiche di unoshopping compulsivo che ha via viacolonizzato gli spazi lasciati liberi da

altri ambiti come la famiglia, lareligione, il sistema formativo, la

politica, la cultura etc…

Scomparse le ideologie il voto vieneaccordato al partito o al candidato

capace di vendere al meglio la propriaimmagine, esattamente come un

prodotto nel mercato, utilizzando lemedesime tecniche della comunicazione

pubblicitaria e del brand

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do esclusivamente dell’azione eticamente orientata di sin-goli individui, che, attraverso il carrello della spesa, siesprimono secondo l’oramai famoso motto “un acquisto,un voto”, ma di un processo di ricostruzione di un’eticache paradossalmente passa dal sistema del consumo inve-ce che da quello della politica dove tradizionalmente do-vrebbe passare. La sobrietà, l’austerità, la morigeratezzanon sono unicamente l’espressione di una forma di neo-pauperismo, né solamente un segnale di crisi, che non vanegato, al contrario segnalano un mutamento di prospetti-va. Giampaolo Fabris qualche anno fa a proposito di que-sti processi parlava di serendipity. Il famoso sociologo deiconsumi sosteneva che la crisi economica del 2008 nonaveva generato solo disagio, ma aveva inciso sulla dimen-sione degli orizzonti di vita. L’essere responsabili non appare più una scelta ma un dove-re per dirla alla Beck. L’assunzione di responsabilità per sé,per gli altri, per l’ambienteda parte degli attori sociali,in questo caso consumatorie produttori, distributori ecomunicatori, sembra infattil’esito di un processo dipresa in carico a cui siamochiamati oggi. Nella societàglobale l’etica espressa dalconsumo (e dal sistema del-la produzione, della distri-buzione e della comunica-zione) genera una culturadella responsabilità che èentrata a pieno titolo nelleriflessioni che la ComunitàEuropea ha lanciato in temadi coesione sociale ed in ri-sposta alla crisi globale, ri-flessioni che si sussumononel paradigma della Shared

Social Responsibility (responsabilità sociale condivisa).Ma cosa è la responsabilità sociale condivisa? Con il ter-mine responsabilità sociale condivisa si intende un model-lo di sviluppo e di crescita che includa valori: quali la soli-darietà, l’equità, la giustizia sociale, l’inclusione sociale,la reciprocità. Dopo decenni di politiche economiche

orientate al neoliberismo, come unico sistema di valori le-gittimato, appare evidente che un’economia di mercatoche non garantisce piena occupazione, un’equa redistribu-zione delle ricchezze, del reddito e neppure delle risorsenon rappresenta una forma cristallizzata ineluttabile del si-

stema capitalistico, quanto più una sua degenerazione. Durante il summit del G8 svoltosi quest’anno il libro piùcitato, non a caso, è stato The Spirit Level, tradotto in ita-liano La misura dell’anima scritto dagli epidemiologi Pic-kett e Wilkinsons i quali sostengono che il benessere socia-le è correlato alla forbice della diseguaglianza sociale. Mi-nore è lo scarto esistente tra gli individui, maggiore la coe-

sione sociale, minori sonogli atti criminali, minorel’uso di droghe ed antide-pressivi, etc. etc.. Da ciò si può dedurre chequesta lunga crisi che ciaccompagna dal 2008 potràessere un’occasione solo sei nuovi modelli di svilup-po, accettando la moltepli-cità delle dimensioni delbenessere sociale, che nonè riconducibile alla solaricchezza da un punto divista collettivo ed al livellodi consumo privato dalpunto di vista individuale,sapranno farci transitareverso un una nuova formadi capitalismo, capitalismoetico lo definiscono gli

economisti di Harvard, nel quale la costruzione di una re-sponsabilità sociale condivisa rappresenta un’occasione perstabilire nuovi equilibri tra privato, pubblico e privato so-ciale nell’ottica di processi di sussidiarietà orizzontale chesono alla base di percorsi di cittadinanza attiva. La moralizzazione a cui partecipa attivamente la culturadella responsabilità che nasce dalle azioni di responsabili-tà sociale di consumatori e di produttori va di pari passocon un maggior senso del bene comune, della dimensioneintersoggettiva dei beni relazionali, della coesione socialee del senso della partecipazione. Per tutti questi motivi ilconsumatore responsabile entra a pieno titolo nei percorsidi cittadinanza responsabile, una forma di cittadinanza laquale, come asserisce Magatti va perseguita per tre buonimotivi: a) alimenta la proattività dei soggetti, che implicala disponibilità dei cittadini a ricreare le condizioni dellapropria convivenza; b) consente di radicare in profonditàla pratica della democrazia attraverso processi di sussidia-rietà, pluralizzando i centri di potere, rendendo possibileun’effettiva dispersione del potere che è la garanzia controtutte le forme di degenerazione totalitaristica; c) consentela ricomposizione di un effettivo equilibrio tra le sfere delvivere associato.

Ma il cittadino consumatore può avereanche una valenza positiva. Sto

parlando del cittadino che utilizza lepratiche di boicottaggio e di

buycottaggio per rivolgersi direttamentealle imprese affinché siano rispettati idiritti dei lavoratori, dell’ambiente e

della comunità

L’aspetto interessante di queste azionideve ricercarsi nel fatto che quelle di

buy-boicottaggio appaiono vere eproprie prassi di politicizzazione delmercato, le quali secondo il sociologo

tedesco Nico Stehr promuovono percorsidi moralizzazione del mercato

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Non sembra vero ma esisteun videogioco che introdu-ce i ragazzi ai temi del con-sumo critico e del commer-cio equo e solidale. Si chia-ma The invisible hand. Sfi-

da per un mondo equo, do-ve la “mano invisibile” èquella che regola le logichedel mercato internazionale.È il primo videogioco almondo su questa tematica;appartiene alla categoriadegli Ethics Resource Tech-

nology Games, i cosiddetti serius games. Questi videogiochi“seri” sono basati su temi reali e importanti e concepiti conun obiettivo educativo, di formazione o di sensibilizzazione.The invisible hand è un innovativo videogioco 3D ricco diazione, di indagine ed esplorazione, rivolto ai giovani e cheparla di diritti umani, commercio equo e solidale e consumocritico. Attraverso la simulazione di situazioni reali il gioca-tore si trova a combattere contro l’atteggiamento consumisti-co che domina la società globale e la pubblicità martellanteche porta a trasformarci in cittadini inerti e passivi. Quandolo scenario di gioco si sposta in Africa, in una piantagionesfruttata dalle multinazionali, prenderà coscienza dei mecca-nismi ingiusti che governano l’economia mondiale e dell’e-sistenza di un commercio equo e solidale che invece dà di-gnità ai produttori e rispetta i loro diritti.Questo videogioco è stato concepito per riuscire a divertire ecoinvolgere, in tempi rapidi, anche quegli utenti che non so-no assolutamente interessati al tema e sono disposti a con-centrarsi solo per un tempo molto ridotto. Sfruttando la con-centrazione derivante dal divertimento e rispettando le mec-caniche videoludiche il videogioco coinvolge i ragazzi nel-l’avventura rendendoli un po’ più coscienti dei meccanismiche governano l’economia mondiale, delle alternative dell’e-

conomia solidale e di uno stile di vita critico nei riguardi del-le violazioni dei diritti dell’uomo e dello sfruttamento del la-voro minorile.Il gioco segue la filiera di produzione del cacao attraverso lediverse missioni che il nostro “supereroe” deve portare a ter-mine. Ogni missione trasporta il giocatore in una fase diver-sa della produzione della cioccolata, dalle virtuali piantagio-ni di cacao in Africa, dove incontra i contadini che lo produ-cono, fino all’imbarco clandestino su una nave cargo dopoaver superato la centrale d’importazione e la dogana con ilfunzionario corrotto che lo ostacola. Infine l’arrivo alla fab-brica di cioccolato e ai supermercati. Il protagonista si recaanche alla sede del WTO – Organizzazione mondiale delcommercio – per capire come funziona e chi regola il com-mercio internazionale del cacao. È coinvolto insomma tuttoil ciclo di produzione, cosa che gli permetterà di capire ledifferenze tra le filiere del mercato convenzionale e quelledel commercio equo e solidale. Il contenuto del videogioco è stato sviluppato da quattroONG italiane RTM, ASAL, MLAL e OSVIC, impegnate inprogetti di solidarietà e cooperazione internazionale in variearee del mondo e in attività di sensibilizzazione ed educazio-ne alla mondialità in Italia, insieme alla Koala Games che haportato la propria esperienza nella creazione di videogiochididattici.Questo progetto ha previsto inoltre la realizzazione di per-corsi didattici in alcune scuole italiane che hanno coinvolto

Leticia Marrone

La sfida per un mondo equoL’utilizzo delle nuove tecnologie per educare al consumo critico:il videogioco come strumento didattico

di Leticia Marrone

Alcuni screenshot del videogioco

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ragazze e ragazzi dagli otto ai sedici anni e corsi di forma-zione per insegnanti ed educatori.Oggi è possibile scaricarlo dal sito www.theinvisiblehand.itcon una donazione libera che va a sostenere i progetti delleONG che lo hanno promosso. The invisible hand non è quin-di solo un videogioco ma un progetto innovativo che vuoleconiugare la sensibilizzazione e l’educazione ai temi dellacittadinanza globale con il sostegno concreto ad alcuni pro-getti di solidarietà nei paesi del Sud del mondo. Oltre al vi-deogioco, comprende anche schede di approfondimento ecentinaia di quiz, utilizzabili in ambito didattico come mo-menti di verifica collettiva o individuale. Queste schede in-sieme a un manuale di percorsi didattici sono stati realizzatipensando agli insegnanti, ai formatori e ai genitori per per-mettere loro di analizzare insieme ai ragazzi le tematichetrattate nel videogioco. Il testo suddiviso in delle schede di-dattiche segue l’andamento del videogioco ed è completatoda approfondimenti, dinamiche attive, giochi di ruolo da farein gruppo, suggerimenti e verifiche. Attività che permette-ranno ai ragazzi di confrontarsi e rielaborare insieme i vissu-ti dell’esperienza videogiocata. Il videogioco come strumento didatticoIl testo didattico che accompagna il videogioco si è avvalsodel contributo di Rosy Nardone, pedagoga e ricercatrice ingames studies. Nella presentazione del testo l’autrice ci in-troduce al mondo del videogioco in ambito educativo e for-mativo e ci rivela interessanti spunti su un tema così nuovo.Cercando di contrastare la diffidenza di genitori e insegnantisui videogiochi, spiega come questi in realtà hanno davantiuna grande sfida educativa. Sostiene che l’intelligenza crea-tiva, ovvero la capacità di porre nuovi problemi e non solosoluzioni, si sviluppa anche predisponendo esperienze simu-late, che permettono di prendere decisioni rapide; di saperpensare, agire e reagire nella simultaneità; di saper creare emodificare strategie; di percepire e agire sulle parti e sul glo-bale; il poter unire il sensoriale ad un’abilità manuale. È l’a-zione e non la violenza in sé ad attrarre i bambini davanti al-lo schermo. Viene più volte affermato in ricerche e pubblicazioni del set-tore che questi nuovi strumenti di esplorazione ludica riesco-no a stimolare diverse attività mentali nello stesso tempo, asollecitare quei percorsi cognitivi che permettono di “impa-rare a imparare”. Quindi, sostiene ancora Nardone, “abitare”scenari differenti, mettersi nei panni dell’altro, simulare si-tuazioni così lontane da sé, aiutano a comprendere le dina-miche nascoste, i meccanismi sociali, politici e relazionali

che difficilmente si avrebbe l’occasione di poter sperimenta-re. In un certo senso afferma l’autrice, provocatoriamente, ivideogiochi rappresentano lo strumento contemporaneo piùappropriato per ribaltare il punto di vista sulle realtà politi-che, economiche, sociali, per restituire un ruolo di “consu-matore consapevole” alle nuove generazioni.

Il consumo critico Ma cosa significa essere un consumatore responsabile? Lospiega Francesco Gesualdi, esperto di questi temi, nella pre-fazione del testo che accompagna il videogioco. Il consumo,spiega, non è un fatto privato da affrontare badando solo alprezzo e alla qualità. Il nostro consumo riguarda tutta l’uma-nità, dietro a questo gesto quotidiano si nascondono problemidi portata planetaria di natura sociale, politica e ambientale.Gli svantaggiati del mondo, i lavoratori precari e mal pagatili incontriamo ogni giorno quando beviamo una tazza di caf-fè, quando mangiamo una banana o indossiamo un paio discarpe sportive. Continua Gesualdi, è ormai dimostrato checomprando alla cieca ci rendiamo complici di un sistemache pur di garantire profitto alle imprese non si fa scrupolo asfruttare, saccheggiare, distruggere, imprigionare, perfinouccidere. Ma noi possiamo trasformare il nostro consumo inuna tenaglia che spezza le catene della schiavitù. La soluzio-ne a questi mali si chiama consumo critico. Consiste nel ri-baltamento del modo di fare la spesa: comprare badando allastoria ambientale e sociale dei prodotti, scegliendo cosacomprare e cosa scartare. Così facendo non solo segnaliamoal sistema i metodi produttivi che approviamo e quelli checondanniamo, ma sosteniamo le forme produttive correttementre ostacoliamo le altre. Così il consumo si trasforma inscelta politica.Per poter scegliere, sostiene ancora Gesualdi, dobbiamo co-noscere, ecco il ruolo fondamentale dell’informazione. Dob-biamo organizzarci per conoscere le filiere produttive e com-merciali di ogni prodotto. È importante informare, ma ancheeducare perché senza motivazione non c’è stimolo per infor-marci e agire. Ecco l’importanza della scuola, della forma-zione e delle iniziative didattiche che coinvolgono giovani eadulti. Da qui si deve ripartire. Dobbiamo credere che un al-tro mondo sia possibile, ma dobbiamo volerlo con tutti noistessi. Noi che abbiamo lavorato al progetto che ha visto nascere ilvideogioco The invisible hand crediamo che un altro mondosia possibile e lavoriamo ogni giorno per costruirlo. Per que-sto vi invitiamo a condividere questo sogno iniziando da ungioco, da una sfida per un mondo equo!

The invisible hand è un innovativovideogioco 3D ricco di azione, di indagineed esplorazione, rivolto ai giovani e che

parla di diritti umani, commercio equo esolidale e consumo critico. Attraverso la

simulazione di situazioni reali il giocatoresi trova a combattere contro

l’atteggiamento consumistico che dominala società globale e la pubblicità

martellante che porta a trasformarci incittadini inerti e passivi

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Se si cerca su un diziona-rio il significato della pa-rola inquinamento, si tro-va che questa indica unasituazione di degenerazio-ne dell’ambiente che cicirconda cui viene spessoassociata la causa. In talsenso non può mancarel’eccesso di rumore cheoggi è considerato unadelle principali cause delpeggioramento della qua-lità della vita. Si stima che

l’inquinamento acustico, imputabile ai trasporti, all’attivi-tà edilizia, all’attività produttiva e ai pubblici esercizi, in-cida sulla salute di almeno il 25% della popolazione euro-pea.Lo studio delle problematiche connesse con l’inquinamen-to acustico è stato fatto oggetto di una legislazione ade-guata solo negli ultimi 20 anni ed oggi anche l’Europa si èimpegnata ad adottare ed attuare normative sull’inquina-mento acustico, imperniate attorno a due elementi princi-pali: - obbligo di presentare mappe del rumore e di fissare

obiettivi in materia di rumore nell’ambito delle decisionidi pianificazione su scala locale;- revisione o scelta di nuovi limiti al rumore per vari tipidi veicoli, macchine e altri prodotti.Gli obiettivi di tale programma di azione, fissati per il2010 e il 2020, sono rispettivamente la riduzione del 10%(i risultati son in fase di valutazione) e del 20% del nume-ro di persone esposte sistematicamente ad elevati livelli diinquinamento acustico, rispetto a quelle stimate per l’anno2000. Il perseguimento di tali obiettivi non può avvenirein assenza del coinvolgimento della popolazione in tutti isettori dove è importante l’uso dell’energia, dal settoredei trasporti, a quello dell’industria a quello del sistema ri-creativo etc. Generalmente si dice che il rumore esercita la sua azionenegativa sull’ambienteinteso come ambito incui l’uomo vive e svol-ge le sue attività. Inrealtà il rumore di persé non ha alcuna va-lenza negativa, mal’acquista quando ilsuo livello diventa ec-cessivo. A tale riguar-do bisogna precisareche se non ci fosse ilrumore non ci sarebbe

la comunicazione vocale fra individui, che costituisce co-me è noto, la base fondamentale di rapporti sociali. Co-munque, per semplicità, nel corso dell’articolo ci riferire-mo al rumore come causa dell’inquinamento acustico,scusandoci con gli esperti della materia. Ciò premessopossiamo dire che il rumore incide sulla salute dell’uomocioè sul suo stato di benessere fisico, mentale, sociale eche l’esposizione a livelli sonori elevati provoca sull’uo-mo effetti nocivi riconducibili a tre diverse categorie :- danni fisici;- disturbi nelle attività;- annoyance (fastidio generico).

L’insorgenza di tali effetti nei soggetti esposti al rumoredipende dalle caratteristiche fisiche del rumore prodotto(livello di rumore, tipo di sorgente sonora, periodo di fun-zionamento della sorgente, caratteristiche qualitative delrumore emesso), dalle condizioni di esposizione al rumore(tempo di esposizione, distanza dell’individuo esposto dal-la sorgente di rumore), dalle caratteristiche psicofisichedella persona esposta (abitudine e sensibilità al rumore, at-tività eseguita dall’individuo esposto).I danni specifici che il rumore può produrre nell’organi-smo umano possono interessare o l’organo dell’udito o al-tri organi e funzioni del corpo umano.Il danno uditivo può essere facilmente quantificabile attra-verso esami audiometrici, è irreversibile e non è evolutivouna volta interrotta l’esposizione allo stimolo sonoro.Esso è determinato esclusivamente dall’esposizione a ele-vati livelli di rumore (maggiori di 80 dBA) per parecchieore al giorno per un periodo di esposizione lungo (almeno

10 anni).Le manifestazioni a ca-rico dell’apparato udi-tivo possono distin-guersi in fatica uditiva,insensibilità, fastidioaccompagnato da ron-zio e vertigini.La stimolazione uditi-va determina una ri-sposta complessa daparte dell’organismoumano. Gli effetti

Roberto De Lieto Vollaro

Inquinamento acusticoOvvero, degli indesiderati effetti del rumore

di Roberto De Lieto Vollaro

Generalmente si dice che il rumoreesercita la sua azione negativa

sull’ambiente inteso come ambito in cuil’uomo vive e svolge le sue attività. In

realtà il rumore di per sé non ha alcunavalenza negativa, ma l’acquista quando

il suo livello diventa eccessivo

Classificazione dei problemi da rumore

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maggiormente diffusi sono per lo piùdi tipo psicofisiologico e si manifesta-no sotto forma di stress fisiologico ereazioni cardiovascolari a livelli piùelevati. L’esposizione al rumore è fon-te di stress in quanto può indurre varia-zioni accertabili della pressione san-guigna, del ritmo cardiaco, della vaso-costrizione, della secrezione endocri-na.La conseguenza più immediata indottadal rumore è la perturbazione dell’attività che si sta svol-gendo. L’azione disturbante del rumore si riscontra nellostudio, nei lavori particolarmente impegnativi dal punto divista mentale ma soprattutto nella comunicazione verbalee nel sonno.Quando un rumore è in grado di rendere difficoltosa o im-possibile la comprensione di un suono o di una parola in-nalzando la soglia auditiva per il segnale in arrivo, si è inpresenza del fenomeno del mascheramento. Tale effetto siriscontra all’interno degli edifici, ove il livello continuo dirumorosità esterna raggiunge i 65-70 dB(A).In linea di principio negli ambienti abitativi il rumore nondovrebbe eccedere 40-45 dB(A), valore che è spesso supe-rato a causa del rumore del traffico, anche a finestre chiu-se.Numerosi studi hanno evidenziato che, per garantire ilgiusto riposo, il livello sonoro massimo non deve superarei 45 dB(A). Le reazioni fisiologiche prodotte dal rumoredurante il sonno si riscontrano nella difficoltà o lentezzanell’addormentarsi e, nello stesso tempo, nelle alterazioniquantitative e qualitative nel ciclo del sonno non interrottoda risvegli.Effetto meno specifico ma pur sempre grave dell’inquina-mento acustico è il fatto che il rumore semplicemente dis-turba e infastidisce. Tale disturbo, noto come annoyance,può essere indicato come “un sentimento di scontentezzariferito al rumore che l’individuo sa o crede possa agire sudi lui in modo negativo” e trattandosi di sensazioni quindiestremamente soggettive, il rilevamento di tale effetto èottenibile tramite interrogazione diretta (questionari).Tra le strategie volte alla riduzione del rumore, la classifi-cazione acustica del territorio risulta essenziale come stru-mento di studio in quanto è la base per disciplinare l’uso e

le attività svolte nel territorio stesso.La zonizzazione acustica è finalizzatasia alla prevenzione del deterioramen-to delle zone non inquinate che al ri-sanamento di quelle inquinate attra-verso la regolamentazione dello svi-luppo urbanistico, commerciale, arti-gianale ed industriale, tenendo contodella pianificazione urbanistica.L’eventuale presenza sul territorio dilivelli di rumore superiori a quanto

fissato dalla normativa comporta l’obbligo della predispo-sizione e dell’adozione di un Piano di Risanamento Acu-stico da parte dell’Amministrazione Comunale. Poiché lazonizzazione rappresenta uno degli strumenti di pianifica-zione, di prevenzione e di risanamento dello sviluppo ur-banistico, commerciale, artigianale e industriale, esso devenecessariamente essere coordinato con il Piano RegolatoreGenerale (PRG), ad oggi strumento principe nella pianifi-cazione dello sviluppo territoriale.

Gli interventi di risanamento acustico rappresentano ilpasso immediatamente successivo verso la riduzione deilivelli di inquinamento da rumore nel territorio. Essi sonoconseguenti alla zonizzazione del territorio: il non rispettodei limiti di zona comporta la necessità di definire inter-venti di mitigazione che nel loro complesso costituisconoil “piano di risanamento acustico”, in coordinamento contutti gli altri strumenti di gestione del territorio (PRG eVarianti, Piani Particolareggiati, PUT, ecc.). Un piano dirisanamento comprenderà provvedimenti di varia natura:amministrativi (proposte ed indirizzi in sede di pianifica-zione territoriale), normativi e regolamentari (varianti alPRG, regolamenti comunali di diverso tipo), interventiconcreti di tipo tecnico (installazione di barriere, interven-ti sugli edifici etc.).In conclusione si può affermare che la vita moderna hapreteso di modificare in senso negativo anche la qualitàsonora dei luoghi che ci circondano. Del resto la secondalegge della termodinamica ci dice che se aumentiamo ladomanda di energia nella speranza di vivere “meglio”,facciamo aumentare immediatamente l’entropia irrever-sibile e quindi i fenomeni di degradazione associati, tracui la produzione di energia sonora. Questo è un fattoinevitabile, spetta a noi difenderci pretendendo che ac-canto a zone rumorose, comunque controllate, ci sianoaree silenziose dove si possa continuare a vivere senzaessere costretti a proteggerci dagli eccessi sonori comespesso accade soprattutto nelle città ove si tende a misti-ficare il problema vendendo per buono il pessimo dettoche: “il rumore è vita”.

Possiamo dire che il rumore incide sullasalute dell’uomo cioè sul suo stato di

benessere fisico, mentale, sociale e chel’esposizione a livelli sonori elevati

provoca sull’uomo effetti nociviriconducibili a tre diverse categorie :

danni fisici, disturbi nelle attività,annoyance

Zonizzazione e acustica

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Solo un miraggio Da 50 anni, in Italia, attor-no a ogni tavolo energeticoc’è una sedia vuota: è quel-la che dovrebbe essere ri-servata all’energia nuclearese riuscisse a mettere radi-ci sul territorio nazionale.Ma di questo protagonistamancato è rimasto solo unfantasma, un’ombra, in cuisi stenta a vedere la tecno-logia del futuro.Questo mezzo secolo ha

già espresso una sentenza: la gente non vuole reattori nu-cleari vicino casa, le imprese private non vogliono co-struirli, i ministri economici temono i costi che ne derive-rebbero, nel bilancio energetico mondiale il nucleare hauna quota modesta, tipica di una tecnologia residuale.Eppure resiste. Perché il nucleare non è materia di stra-tegia energetica: è piuttosto un miraggio ideologico,quasi una fede. Per i suoi fan neanche l’incidente aireattori di Fukushima conta. Come dicevano tanti annifa i volantini previsti per le emergenze a Caorso: “non èsuccesso nulla”. Un nucleare piccolo piccoloChe cosa rimane, in Italia, dell’ipotesi nucleare? Il gover-no ha annunciato una mini-moratoria e si è subito defilato.Quale sarà la sua scelta finale? Al di là delle ragioni tatti-che, quelle governative sono scelte difensive e in quantotali incompatibili con un progetto ambizioso di rilanciodel nucleare. In Italia non ci sarà dunque Rinascimento nucleare ma, almassimo, un programma minimo di studio, una cosa pic-cola piccola, per salvare la faccia. Talmente piccola da po-ter essere spazzata via dal primo colpo di vento.Quella lunga lista di guaiDopo Fukushima, tutti i termini della questione nuclearerisultano irrimediabilmente aggravati. È una lunga lista diguai che configura un arretramento grave, il crepuscolodrammatico di una tecnologia:● Il problema del “rischio residuo” si pone in maniera

molto più stringente che in passato: una sua valutazioneonesta va dunque posta esplicitamente alla base di ognidecisione in materia.

● Comincia a diffondersi nell’opinione pubblica il timoreche un grave incidente nucleare possa verificarsi in Eu-ropa, con il coinvolgimento di molte nazioni. E anchequesta è una novità rilevante.

● Cominciano ad emergere i costi economici finora trascura-ti degli incidenti nucleari gravi, della disattivazione degliimpianti, della messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi.

● È realistico pensare che le rivendicazioni in tema di si-

curezza raggiungeranno livelli proibitivi. Allo stessomodo, si aggraverà il dissenso in tema di localizzazionivecchie e nuove.

● Si bloccheranno, non solo in Occidente, gli ordini dinuovi reattori. E verrà accantonata l’opzione del prolun-gamento della vita dei vecchi reattori.

Il fallimento in vetrina I costi sanitari, ambientali ed economici dell’incidente diFukushima, la durata prolungata di esso, la possibile deci-sione di fermare i vecchi reattori e di rinunciare ai nuovi:tutto ciò potrà fare del Sol Levante la vetrina mondialedella crisi e del fallimento dell’atomo.Ma a questo ruolo rovinoso c’è un altro candidato, laFrancia. Perché lo stato che più ha investito in passato sulnucleare ora è quello più esposto alla minaccia di una gi-gantesca perdita economica.

È solo una parentesiL’incidente di Fukushima colpisce una tecnologia vecchiache non gode buona salute e che ha già fallito la prova delmercato.Dopo mezzo secolo, infatti, l’atomo copre appena il 6-7%dei consumi mondiali di energia primaria e il 14% di elet-tricità. Questi numeri dicono che non è riuscito ad affer-mare un proprio ruolo strategico. Eppure ha goduto dicondizioni molto favorevoli:● ha fatto il suo debutto nel mercato elettrico, negli anni

‘60, in una situazione non stabilizzata, di transizione:l’idroelettrica regrediva, incalzata dagli impianti ter-moelettrici a petrolio e a carbone, ma non c’era ancorauna fonte dominante;

● ha affrontato il mercato supportato da strutture tecno-scientifiche e da investimenti pubblici senza precedenti,tali da rendere credibili le promesse mirabolanti: l’ato-mo è la tecnologia del futuro, sostituirà tutte le altrefonti e assicurerà energia a go-go e a buon mercato.

È andata diversamente. E i recenti eventi giapponesi ipote-

Mario Signorino

L’atomo dopo FukushimaLa fine del rinascimento nucleare in Italia

di Mario Signorino

Questo mezzo secolo ha già espresso unasentenza: la gente non vuole reattori

nucleari vicino casa, le imprese privatenon vogliono costruirli, i ministrieconomici temono i costi che ne

deriverebbero, nel bilancio energeticomondiale il nucleare ha una quotamodesta, tipica di una tecnologia

residuale. Eppure resiste. Perché ilnucleare non è materia di strategiaenergetica: è piuttosto un miraggio

ideologico, quasi una fede

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cano il futuro: non cisarà un Rinascimentonucleare. L’atomo hagià avuto la sua alba eil suo tramonto, ha af-frontato il mercato ene è stato travolto.Quando si guarderàalla storia della produ-zione elettrica mon-diale, a partire dallaseconda metà del‘900, le statistiche di-mostreranno che il nu-cleare non ha inciso inmisura significativasui grandi trend ener-getici: è stato solo unaparentesi.Un protagonista mancatoL’atomo non è mai stato un protagonista della scena ener-getica mondiale, ma solo un comprimario, succube del pe-trolio. Il caso dello sfortunato Giappone offre una facileconferma.Questo paese ha fatto quello che l’Italia non ha voluto faree ha riempito il suo territorio di reattori nucleari (55, pri-ma dell’incidente), che producevano un terzo scarso del-l’elettricità.A parte l’incidente, ha almeno risolto la sua dipendenzadalle importazioni di combustibili fossili? No.● Il Giappone è il secondo importatore mondiale di petro-

lio (200 Mtep l’anno).● È il primo importatore mondiale di gas naturale.● È il primo importatore mondiale di carbone.● Il suo sistema energetico è gravemente squilibrato e

scarsamente efficiente: è al secondo posto nel mondodopo gli USA per consumo pro capite e consumo com-plessivo di energia.

L’atomo senza strategiaIn quale strategia energetica rientra il nucleare? In nessu-na. Non è una strategia limitarsi a dire “facciamo posto atutto”, anzi è la rinuncia a ragionare in termini di strategieenergetiche, a far di conto.Nel corso degli anni, la motivazione ufficiale del ricorsoal nucleare è cambiata varie volte. E oggi oscilla tra unatesi più modesta e neutra - l’atomo sarebbe una scelta ob-bligata perchè “ce l’hanno tutti” e l’Italia “non ne può farea meno” - e una tesi più aggressiva, che deriva dalla cam-pagna sul cambiamento climatico. Il “rinascimento nucleare” è frutto di Kyoto e della suaimpostazione emergenziale. Nell’ambito di questa campa-gna, si è creata un’alleanza tra filonucleari e ambientalistifondamentalisti, che si sostengono a vicenda sulla base diun teorema ideologico. Magari non tutti ci badano, ma ilsucco di questo teorema è la condanna di quello che vienepresentato come il distruttore del pianeta: il modello di vi-ta occidentale con le sue istituzioni economiche.Il complesso di CalimeroI fautori del nucleare, un pò arroganti e un pò piagnoni,hanno il complesso di Calimero (“tutti ce l’hanno con meperché sono piccolo e nero”): un vittimismo che ha il suo

mito fondante nellacongiura che neglianni Sessanta avreb-be tarpato le ali all’a-tomo italiano. C’èpoi il lamento ricor-rente che l’atomo siaingiustamente pena-lizzato dall’emotivitàe dalla paura dellagente.Ma questo fa partedel gioco, o almenodel gioco democrati-co. Né il nucleare ècostretto a subire untrattamento partico-larmente sfavorevolee severo: viene trat-

tato come tutte le attività industriali pericolose. Se c’è unproblema, è che non è competitivo.Qualche esempio? L’incidente di Seveso, nel 1976, ha da-to vita a una severissima normativa di sicurezza europea enazionale, fornendo anche il nome a monito perenne. L’in-dustria chimica in generale, sottoposta a contestazioni du-rissime, ha dovuto operare una radicale autoriforma, cheoggi le permette peraltro di competere brillantemente sulmercato mondiale.

La lista della protesta e del dissenso è molto lunga, nonsempre per preoccupazioni ragionevoli e oneste. Ma laquestione è chiara a tutti: dagli anni Settanta, dalla nascitacioè dell’ambientalismo politico, le tecnologie con rile-vante impatto ambientale non sono più accettate. È l’effet-to del benessere, l’effetto delle democrazie avanzate; e oraci sono fermenti anche nelle aree più arretrate. Il nucleareha avuto fortuna e sfortuna con i tempi: prima svantaggia-to dal basso prezzo del petrolio, è stato favorito dalle crisienergetiche degli anni ‘70, ma poi ha risentito della nasci-ta dell’opposizione ambientalista.Quanto all’emotività delle masse, che impedirebbe la so-luzione della questione energetica, quello che si criticanon è che il meccanismo base della democrazia. Tutti vi sidevono inchinare, anche i nuclearisti. Strano che non l’ab-biano ancora capito.È finita a secchiateL’incidente di Fukushima ha sorpreso anche me. Prima diesso, la mia posizione era questa (L’energia nella politica

italiana, relazione alla conferenza Petrolio e atomo, de-

mocrazie alla prova, Roma 12 luglio 2005):● il problema delle scorie può essere gestito in sicurezza e

non può quindi costituire ostacolo alla diffusione diquesta tecnologia;

Dopo Fukushima, tutti i termini dellaquestione nucleare risultano

irrimediabilmente aggravati. È unalunga lista di guai che configura unarretramento grave, il crepuscolo

drammatico di una tecnologia

Foto scattata dal satellite della centrale di Fukushima, dopo l’esplosione del reattore3, il 14 marzo 2011

22 ● gli standard di sicurezza so-no accettabili, in quanto inlinea con altri tipi di rischiindustriali;

● è inaccettabile invece laprospettiva teorica del “ri-schio residuo”, che potreb-be comportare perdite diterritorio. Un rischio inac-cettabile soprattutto in unpaese come l’Italia, ricco diaree con altissimi tassi disviluppo o di grande pregionaturalistico e culturale.

Non devo cambiare nulla do-po l’incidente in Giappone,salvo un elemento psicologi-co, un atteggiamento ottimi-stico: ero veramente convintoche un incidente severo fosseun’eventualità estremamente remota. Mi sbagliavo. Do-ver contare tre incidenti nucleari gravi nell’arco di unavita, mi sembra decisamente troppo.Tanto più dopo aver visto la performance del sistema dicontrollo della sicurezza, che ha rivelato una verità scon-volgente per i non addetti ai lavori: in caso di incidentesevero, non esistono procedure efficaci. Hic sunt leones,

si improvvisa, si tira a indovinare. E nel paese tecnologi-camente più avanzato, è finita a secchiate.

La sicurezza peggioreràLa sicurezza nucleare è il prodotto di un sistema comples-so, non si compra ma si costruisce, dipende certo dallatecnologia ma anche da fattori immateriali di contesto,quali una pubblica amministrazione efficiente, imprese re-sponsabili, spazi importanti per la libera informazione,apertura verso i movimenti di opinione. Dipende soprat-tutto dall’esistenza di autorità di controllo autorevoli e in-dipendenti.Perciò la sicurezza è condizionata dalla geopolitica, dallanatura dei regimi, addirittura dalla politica contingente deigoverni.Quando sento dire che il “nucleare è sicuro”, mi viene dachiedere: di che cosa, a nome di chi state parlando? Deireattori nucleari in Europa, negli Stati Uniti? Del Giappo-ne non più, ma della Cina e dell’India sì? Sono sicuri ireattori nucleari nel Medio Oriente, in Iran, in Africa?La domanda sulla sicurezza nucleare nel mondo è strategi-ca. Perché la sicurezza non migliorerà; è anzi destinata apeggiorare se i reattori si diffonderanno nelle aree oggi

escluse o secondarie: Asia,America Latina, Africa.Questo processo farebbe au-mentare a dismisura i rischi diproliferazione nucleare e terro-rismo, fino alla perdita totaledel controllo. Le stesse normedel trattato di non proliferazio-ne sono vecchie e inadatte afronteggiare i rischi odierni, an-zi controproducenti. Solo sel’incidente giapponese compor-terà un blocco dei nuovi ordini,il pericolo verrà scongiurato.L’atomo in soffittaNel corso della vecchia con-troversia nucleare degli anniSettanta e Ottanta ho cono-sciuto, in campo avversario,molte persone di qualità. Do-

po di allora c’è stata una bruttissima caduta, nell’etica deicomportamenti come nelle pratiche istituzionali, con lacancellazione di molte acquisizioni positive recenti e lon-tane.Un’involuzione irrecuperabile, che è culminata nella sop-pressione dell’autorità di controllo e nella sua sostituzionecon una scatola vuota da cui dovrebbe venir fuori un entesubordinato al governo. Sono stati così colpiti un patrimo-nio di competenze pluridecennali e una politica di control-lo equilibrata ed efficace.Questo atto indecente macchia definitivamente la causadel nucleare italiano e impone di dire un no assoluto, sen-za subordinate, a qualsiasi investimento in materia. Nessu-na apertura a un governo che, dopo aver deciso un pro-gramma nucleare, come primo atto toglie di mezzo i con-

trollori indipendenti e capaci.In Italia no, ma in Europa sì?No al nucleare in Italia, ma sì a quello in Europa? Fino adoggi è stato così, la critica è giusta; ma non è stata unascelta, bensì un’incapacità, o meglio, una sconfitta.Un incidente nucleare in un singolo paese europeo potreb-be causare effetti disastrosi in una pluralità di nazioni. Per-ciò, anche alla luce delle norme internazionali sull’inqui-namento transfrontaliero, la materia dev’essere sottrattaalla sovranità degli stati e ricondotta all’interno di una po-litica comune. Primo passo dovrebbe essere la creazione di un’agenziaeuropea di controllo della sicurezza nucleare, con sezioninazionali. Ma il nodo politico da porre all’ordine del gior-no è quello, estremo ma non utopico, della fuoruscita

L'atomo non è mai stato un protagonistadella scena energetica mondiale, ma soloun comprimario, succube del petrolio. Il

caso dello sfortunato Giappone offreuna facile conferma. Questo ha riempitoil suo territorio di reattori nucleari, che

producevano un terzo scarsodell'elettricità

Dopo l'incidente di Fukushima il sistemadi controllo della sicurezza ha rivelato

una verità sconvolgente per i non addettiai lavori: in caso di incidente severo, non

esistono procedure efficaci. Hic sunt

leones, si improvvisa, si tira a indovinare.E nel paese tecnologicamente più

avanzato, è finita a secchiate

Elicotteri militari giapponesi raccolgono acqua di mare dalla co-sta nord est del Giappone per poi fare rotta a riversarla sui reat-tori di Fukushima

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L’umanità deve oggi af-frontare due grandi emer-genze, quella energeticaper soddisfare la domandadei paesi emergenti e quel-la climatica. Le due emer-genze sono legate tra di lo-ro perché l’81% dell’ener-gia consumata nel mondo èottenuta bruciando combu-stibili fossili ed emettendogas serra. Il nucleare contribuisce adaffrontarle entrambe, per-

ché produce energia a bassi costi, senza emettere gas serra,come dimostrano Francia e Svizzera che producono, con ilnucleare, tutta l’energia che non riescono ad ottenere dallerinnovabili. I loro cittadini pagano l’energia il 40% circameno di noi, vivono in ambienti più puliti e, a differenza dinoi, riescono a soddisfare i parametri di Kyoto. All’urgenzadi dare una risposta a queste emergenze dedicheremo iprossimi paragrafi.

L’emergenza energeticaIn figura 1 è riportato, sull’asse verticale, in scala logaritmi-ca (ogni intervallo corrisponde ad un fattore 10) il consumod’energia per abitante delle nazioni del mondo; i diversi co-lori identificano i continenti. Sull’asse orizzontale è inveceriportata la vita media dei rispettivi abitanti. È immediatoconstatare che vita media e consumo d’energia sono corre-lati. I paesi che consumano meno energia sono quelli delleregioni povere dell’Africa e dell’Asia dove la popolazionevive in media 40 anni. Mentre i paesi ricchi di Europa,America e Giappone, consumano 100 volte di più e vivonopiù di 80 anni. Consumare più energia significa avere buoniospedali, buone scuole, cibo in abbondanza, avere una vitapiù confortevole e più lunga. Consumare poca energia si-gnifica privarsi di queste cose, vivere male e meno. La figu-ra mostra che non è possibile ridurre in modo sostanziale il

consumo energetico di una popolazione senza ridurne la

qualità e l’aspettativa di vita.

Chi vive nei paesi poveri cerca di raggiungere le condizionidi vita dei paesi ricchi e quindi tende a consumare come lo-ro. Questo spiega perché i consumi d’energia negli ultimi50 anni sono cresciuti due volte più rapidamente della po-

polazione, mentre quelli elettrici tre volte di più (più le so-cietà si “modernizzano” e più usano elettricità). Il Keyworld Energy Statistics 2011, reperibile sul web, mostrache in 39 anni dal 1971 (da quando si è cominciato a pro-durre energia elettrica con il nucleare) sino al 2009 c’è statauna crescita della popolazione mondiale del 36% (da 5 a6.82 miliardi), i consumi totali di energia sono raddoppiati(da 7.1 a 14.1 x 104 TWh) quelli elettrici più che triplicati(da 6.1 a 20.0 x 103 TWh, figura 2).La figura 2 mostra che in 39 anni c’è stata una crescita ditutte le sorgenti d’energia usate per produrre elettricità. Se siguardano le variazioni percentuali, si nota che le rinnovabili(idroelettrico, vento, biomasse, solare etc.) sono scese dal21,6% al 19,5%, per il progressivo esaurimento dei siti mi-gliori per costruire centrali idroelettriche. È anche diminuitol’uso dei combustibili fossili passato dal 75,1 % al 67,1%,per la diminuzione dell’uso del petrolio divenuto troppo ca-ro. L’energia che in percentuale è cresciuta più di ogni altra èil nucleare, che ha riempito gli spazi lasciati da rinnovabili ecombustibili fossili. Se non ci fosse stato il nucleare la partegialla dei grafici sarebbe stata riempita da carbone e gas arri-vando all’88% circa del totale. Questo conferma che, alme-no per il passato, il nucleare è stata la sola energia che hacontrastato la crescita dei combustibili fossili. Il prossimo raddoppio dei consumi d’energia è previsto fratrent’anni circa (per la crescita dei consumi dei paesi emer-genti), quello dei consumi elettrici avverrà prima. Non c’èragione per pensare che l’andamento dei consumi si distac-cherà significativamente da quello di figura 2. Ci sarà unacrescita delle rinnovabili che resteranno marginali a menoche non si scopra un fotovoltaico più efficiente dell’attuale(non basato sulla tecnologia del silicio) e si risolva il pro-blema dell’accumulo d’energia per i momenti in cui non c’èil sole, problemi che difficilmente troveranno una soluzionenel prossimo decennio. La scelta tra le fonti da usare per produrre energia elettrica

È immediato constatare che vita media econsumo d’energia sono correlati. I

paesi che consumano meno energia sonoquelli delle regioni povere dell’Africa e

dell’Asia dove la popolazione vive inmedia 40 anni

Paolo Saraceno

Consumo energetico e aspettativa di vita (da Saraceno, Il caso

Terra, Mursia, 2007)

Un’occasione perdutaIl nucleare come risposta all’emergenza climatica

di Paolo Saraceno

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resterà quindi per molti anni, tra nucleare e combustibili fos-sili (carbone); lo si vede chiaramente dagli investimenti chesi stanno facendo nei paesi emergenti dove si stanno co-struendo le centrali che produrranno l’energia di domani: laCina, con consumi che crescono di quasi il 10% all’anno,inaugura una centrale a carbone da 1 GW ogni 10 giorni euna nucleare al mese; lo stesso fa l’India che, da quest’anno,cresce con ritmi cinesi; l’Indonesia ha invece puntato sulcarbone mettendo in cantiere trentacinque centrali; solo ilSudamerica non investirà nei combustibili fossili perché inquel continente c’è ancora molto idroelettrico da sfruttare. Se l’emergenza climatica c’è ed è grave, come mostreremodi seguito, la scelta dell’Italia di non sviluppare il nucleare econtinuare ad investire sui combustibili fossili si dimostre-rà sempre di più un grosso errore per l’ambiente e per il no-stro sviluppo.L’emergenza climaticaPer capire quanto grave sia l’emergenza climatica e quanto

noi ne siamo responsabili, basta riflettere sui fatti che elen-cherò di seguito.L’energia che consumiamo. Nel 2009 abbiamo consuma-to 1.4 105 TWh (di cui 1/7 di energia elettrica fig.2). Perconfronto l’energia generata all’interno della Terra quellache alimenta i vulcani e i terremoti, muove i continenti ecostruisce le montagne è 3.8 105 TWh (H.N. Pollack et al.,

1993 Rev. of Geoph 31, 267-280), 2.7 volte maggiore diquella che consumiamo. Se non ci saranno catastrofi, primadella fine de secolo, a causa della crescita della popolazio-ne e dello sviluppo dei paesi poveri, l’energia consumatasarà tre volte quella che consumiamo oggi, quindi maggioredi quella prodotta all’interno della Terra. Quest’energia oggiè prodotta per l’81% con i combustibili fossili. Se siamoconvinti dell’esistenza di un problema climatico dovremmoprodurre questa energia senza combustibili fossili. Una cosaoggi impossibile.I combustibili fossili. Ogni anno consumiamo circa 5 km3

di petrolio, 6 km3 di carbone e 1000 km3 di metano.Quanto siamo sostenibili? Si stima che i combustibili fos-sili consumati ogni anno siano stati immagazzinati nel sot-tosuolo in 1000 anni (secolo più o secolo meno). Per esseresostenibili dovremmo ridurre i consumi di un fattore 1000;li stiamo invece raddoppiando. Il ciclo della CO2. La CO2 atmosferica è assorbita, attra-verso la fotosintesi, dai vegetali e dal plancton e si diffondecon la catena alimentare a tutti i viventi. Alla fine dei ciclibiologici il carbonio finisce sul fondo degli oceani (portatodai fiumi per le specie terrestri), dove resterebbe per semprese i movimenti tettonici non portassero i fondi marini sotto icontinenti dove si trovano i vulcani (ad esempio: la cinturadi fuoco del Pacifico) che la riemettono nell’atmosfera e nelciclo biologico. Assieme alla CO2 i vulcani emettono il me-tano e tutti gli altri gas intrappolati nei fondi marini, con cuisi regola la temperatura della Terra, che altrimenti sarebbedi – 18°C (la temperatura della Luna che non ha atmosferaed è alla stessa distanza dal sole della Terra). Noi abbiamo sconvolto questo ciclo perché, mentre le emis-sioni geologiche di CO2 sono circa 300 milioni di tonnellatel’anno, quelle antropiche sono oggi di 30 miliardi di tonnel-late, 100 volte più alte. Per gli altri gas serra (CH4 NO2 etc.)la crescita è ancora maggiore. Non servono gli allarmidell’IPCC per capire che quello che stiamo facendo potreb-be presto rivelarsi molto pericoloso.Esempi dal passato. Negli ultimi 100 milioni di anni il so-lo caso che si avvicina a quello che sta succedendo adessoè avvenuto 54 milioni di anni fa durante il PETM (Paleoce-ne-Eocene Thermal Maximum, si veda Le Scienze, settem-bre 2011) quando, per 1000 anni circa ci sono state emis-sioni di CO2 di 1.5 miliardi di tonnellate l’anno (20 volteinferiori alle attuali) e questo fece crescere la temperaturadella Terra di 6 gradi.Cosa ci insegna il passatoLo studio degli strati geologici, dei sedimenti marini, deifossili, dei pollini mostra che noi stiamo vivendo in uno deiperiodi più freddi della storia del pianeta e che raramente sisono avute masse ghiacciate così imponenti ai poli e livellidegli oceani e della CO2 così bassi.Settanta milioni di anni fa, ai tempi dei dinosauri, la tempe-ratura della terra era di circa 8 gradi più alta dell’attuale, illivello degli oceani 70 metri più alto e l’abbondanza diCO2 in atmosfera era di circa 1200 ppm (parti per milione),quattro volte più alta dei 280 ppm che c’erano prima dellarivoluzione industriale. I dinosauri vivevano benissimo inquel mondo e anche noi vi avremmo vissuto bene, ci sarem-mo solo stabiliti in zone diverse da quelle che occupiamooggi, a latitudini più settentrionali e a 70 metri più in altoper non finire sott’acqua.

La scelta tra le fonti da usare perprodurre energia elettrica resterà quindi

per molti anni, tra nucleare e combustibilifossili; lo si vede chiaramente dagli

investimenti che si stanno facendo neipaesi emergenti dove si stanno costruendo

centrali che produrranno l’energia didomani: la Cina inaugura una centrale a

carbone da 1 GW ogni 10 giorni e unanucleare al mese

Sopra: sorgenti di energia in TWh utilizzate per produrre elettrici-tà nel periodo 1971-2009; la flessione finale corrisponde alla crisidel 2008. Sotto: il contributo percentuale (tra 1973 e 2009) del-le sorgenti d’energia. (da Key world Energy Statistics 2011)

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Qualche milione d’an-ni dopo l’impatto delmeteorite che portò idinosauri all’estinzio-ne, ci fu il PETM dicui abbiamo parlatosopra, la temperaturaarrivò a essere 14-16°C più alta di quella dioggi. Vi furono estin-zioni, ma non grandiestinzioni di massaperché il riscaldamen-to fu abbastanza gra-duale e avvenne su diun pianeta già caldo esenza ghiacci ai poli,per cui gli oceani noncrebbero di livello.

Oggi, con le grandimasse di ghiaccio inAntartide e Groenlan-dia ed emissioni 20 volte superiori, la situazione è certa-mente più rischiosa. La Terra cominciò a raffreddarsi 35 mi-lioni di anni fa quando l’Antartide si staccò dall’Americadel Sud formando lo stretto di Drake (largo oggi 800 km) ecreando la sola zona del pianeta dove è possibile muoversilungo un parallelo senza incontrare terre emerse. A causadei venti dominanti, s’instaurò subito una corrente circum-Antartica che isolò termicamente quel continente dalle cor-renti calde tropicali e da allora le nevi cominciarono ad ac-cumularsi sull’Antartide. Gli oceani scesero subito di 40metri; dopo un periodo di parziale riscaldamento, con il sus-seguirsi delle glaciazioni, si formò la coltre glaciale dellaGroenlandia, si ghiacciò il Polo Nord e si raggiunse il livel-lo attuale degli oceani. La CO2 è scesa dai 1200ppm dell’e-poca dei dinosauri ai 280 ppm dell’era preindustriale ed èrisalita oggi a 400 ppm. La storia del clima mostra che tem-peratura, abbondanza di CO2 e livello degli oceani hannoavuto grandi variazioni in passato. Questo ha talvolta causa-to estinzioni, non tanto per il valore assoluto di questi para-metri, quanto per la velocità con cui essi cambiavano e la ra-pidità delle variazioni climatiche che causavano per cui, lespecie che non riuscivano ad adattarsi in tempo ai cambia-menti o a spostarsi verso climi più adatti scomparivano. Undiscorso vero anche per la nostra specie. S’immagini, adesempio, che grazie alle emissioni antropiche, ci si avvicinial tiepido mondo dei dinosauri, con lo scioglimento di partedei ghiacci della Groenlandia e dell’Artico. Il livello dei ma-ri crescerebbe di qualche decina di metri; si perderebberodelle terre, quelle sommerse dalle acque e quelle divenutetroppo calde e aride per essere vivibili. Si avrebbero però adisposizione altre terre, quelle che si trovano alle alte latitu-dini, (magari la stessa Groenlandia), che potrebbero essereabitate e coltivate (già oggi è in corso il disgelo di Alaska eSiberia, figura 3). Per risolvere il problema basterebbe che lepopolazioni si spostassero dalle zone divenute inabitabili aquelle che non erano abitabili e lo sono divenute. Le zone chediventeranno inabitabili per la crescita della temperatura e dellivello dei mari sono quelle dove oggi vive più di metà dellapopolazione mondiale, dove si trovano le principali città della

Terra, molte delle terrecoltivate e le maggioriattività produttive. Sequesto cambiamentodovesse avvenire indue o tre secoli, comeforse succederà, i dan-ni sarebbero enormi ela nostra fragile socie-tà potrebbe collassare.Se invece il cambia-mento dovesse avve-nire in migliaia di annio addirittura in decinedi migliaia di anni(tempi brevi rispetto aitempi geologici) i no-stri discendenti avreb-bero tutto il tempo diadattarsi alle nuovecondizioni, di spostar-si da una zona all’altra

del pianeta; i danni sarebbero limitati, se non trascurabili.Con emissioni 100 volte più alte di quelle geologiche il futu-ro che stiamo costruendo non è però questo. Il breve spazio di questo articolo ha solo permesso di elen-care i problemi verso cui stiamo andando. Per affrontarliserviranno molti cambiamenti, come un’agricoltura più ri-spettosa del territorio, una riduzione dei consumi della partericca del mondo, il cambiamento delle abitudini alimentari(i bovini emettono più gas serra di tutte le auto in circola-zione), trasporti meno inquinanti e molte altre cose. Per l’e-nergia, con emissioni 100 volte superiori a quelle geologi-che, non appare sensato rinunciare al nucleare che, in qua-ranta anni d’utilizzo, ha mostrato di essere l’energia che haucciso meno persone. Si deve ricordare che oggi l’energiaelettrica è responsabile del 30% delle emissioni di gas serra;se cercassimo di produrre con il nucleare l’energia elettricache non si riesce a produrre con le rinnovabili (come fannoFrancia e Svizzera) potremmo risolvere in parte il proble-ma. Bisogna infine puntare sulle rinnovabili che sono il no-stro futuro, investendo soprattutto in ricerca, perché le solu-zioni, soprattutto per il solare, mancano. Se nel leggere queste righe sono riuscito a convincerequalcuno dell’emergenza climatica verso cui stiamo an-dando, vorrei allora invitarlo ad esaminare il nucleare conpiù attenzione; potrebbe così scoprire che le centrali nu-cleari in caso di terremoto sono più sicure delle dighe, chele scorie sono un problema risolvibile, mentre per i gasimmessi nell’atmosfera non c’è soluzione (non si sa comeeliminarli), che a tutt’oggi non è morta una sola persona aFukushima per le radiazioni, mentre ne sono morte 5000per una diga che non ha resistito al terremoto. Si rendereb-be poi conto che la radioattività se la si conosce è menoterribile di quel che appare; che nel nostro corpo si disin-tegrano 8000 atomi ogni secondo, a cui si aggiungono iraggi cosmici e la radioattività naturale. Alla fine, se avràla pazienza di procurarsi tutte queste informazioni, potreb-be scoprire che rinunciando al nucleare noi abbiamo ri-nunciato a un’energia economica, pulita, utile per l’am-biente e per lo sviluppo del nostro paese.

Il ghiacciaio Muir Riggs in Alaska che dal 1941 al 2004 si è ritirato di 20 km e haridotto il proprio spessore di 800 metri. La comparsa della vegetazione ai lati del la-go mostra che quel territorio comincia ad essere “abitabile”

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«Non so con quali armiverrà combattuta la Terzaguerra mondiale ma laQuarta verrà combattutacon clave e pietre»: AlbertEinstein pronunciò la cele-bre frase al termine dellaseconda guerra mondiale,mentre si intensificava ilsuo impegno in favore deldisarmo nucleare e del pro-getto di un governo mon-diale. In realtà, le armi chi-miche si distinguono da

quelle nucleari poiché, a differenza di queste ultime, il loroeffetto non è necessariamente dovuto a un’esplosione, ma difatto, per potenza e conseguenze sul corpo umano, armi chi-miche e nucleari possono essere accomunate (ed entrambesono state definite dall’Onu “armi di distruzione di massa”).La frase di Einstein, che viene spesso catalogata come una“battuta”, è tornata nel ventunesimo secolo a spaventare, co-me si trattasse di un presagio: il timore è che per le misurerestrittive che tutti i paesi hanno adottato in materia di sicu-rezza dopo l‘11 settembre e gli attacchi terroristici che sonoseguiti anche in Europa, in futuro la strategia del terrore pos-sa esser perseguita attraverso la strada, apparentemente “si-lente”, ma allo stesso modo distruttiva, delle armi chimiche:basti pensare che sull’uomo gli agenti chimici possono averedanni gravissimi anche se usati in dosi molto basse; che levittime possono non accorgersi di esservi entrate in contatto,e che in diverso modo sia l’inalazione che l’ingestione chel’assorbimento cutaneo sono potenzialmente letali. Ciò che spesso viene tralasciato è che per ora le armi chimi-che sono state utilizzate in modo massiccio soprattutto dallecosiddette potenze occidentali, non per fini terroristici, mamascherate dietro la giustificazione inesistente di rappresen-tare armi di guerra. Se il fosforo bianco viene consideratoun’arma chimica (tesi accolta da più parti, ma non condivisadalla Convenzione sulle armi chimiche del 1993), non si puònon ricordare l’uso che ne è stato fatto dagli Stati Uniti du-rante la guerra in Iraq: nel novem-bre 2004 fu diffuso un documenta-rio girato da Sigfrido Ranucci perRaiNews24 che testimoniava l’uti-lizzo di bombe al fosforo su obiet-tivi civili. Gli americani avevanosganciato il Willy Pete (così, ingergo, definivano il WP, White

Phosphorus) su interi villaggi, col-pendo indistintamente militari e ci-vili, donne e bambini in gran nu-mero. Gli effetti del fosforo biancosono devastanti sul corpo umano:

causa ustioni che raggiungono in breve tempo le ossa, lique-facendole a poco a poco, in un’agonia lenta e dai dolori atro-ci. Il fosforo continua a bruciare finché incontra ossigeno:alla fine, dei tessuti del corpo umano non resta più nulla. Nonostante le denunce arrivate da istituzioni e associazioniinternazionali, e lo sdegno da parte dei civili sollevatisi intutto il mondo, nel 2006 Israele ha utilizzato bombe al fosfo-ro contro obiettivi militari in Libano, nell’Operazione piom-bo fuso portata avanti contro Hamas per il controllo dellaStriscia di Gaza, e ancora a Gaza nel 2008 e nel 2009. Dinuovo per merito dei giornalisti (in quell’occasione, delGuardian e della CNN), si è scoperto che in realtà le bombeavevano colpito anche le popolazioni civili, compresa la se-de Onu per i rifugiati e l’ospedale al-Quds, entrambi a GazaCity. Negli ultimi tre anni, non ci sono stati nuovi casi di uti-lizzo di tali ordigni, e ciò nonostante, queste armi continua-no a far parte della potenziale strumentazione di guerra neglieserciti delle nazioni.

Intanto, il nome dell’Italia resta tristemente legato a questastoria per aver fatto abbondantemente uso di armi chimi-che in Libia e in Eritrea negli anni Venti e Trenta del seco-lo scorso. Anche in quelle occasioni, la maggior parte del-le vittime fu registrata tra i civili. All’epoca, e proprio percolpire gli obiettivi africani, gli italiani svolsero numero-sissimi test, diventando dei veri e propri esperti in materiadi armi chimiche. Ciò che da allora non è cambiato moltoè la difficoltà di colpire obiettivi ben determinati senzacausare vittime in ambito non militare, poiché nell’utilizzodi queste armi dalla velocissima diffusione, molto dipendedalle condizioni ambientali, per la volatilità delle sostanze

e per la facilità alla dispersioneche è una loro caratteristica. Ciòche, piuttosto, ci si dovrebbechiedere – come comincia ad av-venire per i missili definiti “intel-ligenti” – è se davvero la guerrapossa arrivare a giustificare anchequesto; se non sarebbe invece unpasso importante verso un mag-gior livello di civiltà non usarepiù l’etichetta “obiettivo milita-re”, che in genere, e in ogni caso,sta a significare “vite umane”.

Dopo, solo clave e pietreLe armi chimiche oggi, tra guerra e terrorismo

di Michela Monferrini

Michela Monferrini

Le armi chimiche si distinguono da quellenucleari poiché a differenza di queste

ultime il loro effetto non è necessariamentedovuto a un'esplosione, ma di fatto, perpotenza e conseguenze sul corpo umano,armi chimiche e nucleari possono essere

accomunate

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La prima volta che abbia-mo visto la Terra nella suainterezza, nella foto scatta-ta nel 1969 da Neil Arm-strong nel corso della stori-ca missione sulla Luna, ci èapparsa chiaramente, per laprima volta, la fragilità delnostro pianeta e del suoecosistema. Come ha scrit-to Wolfgang Sachs: «di unblu brillante contro lo sfon-do cupo dello spazio circo-stante, delicatamente co-

perta da nubi, oceani, vegetazione e terre». Erano gli anni del boom economico, prevaleva l’ottimismoper essersi lasciati dietro morti, violenza e distruzioni dellaseconda guerra mondiale. La decolonizzazione e la finedell’oppressione dei paesi più forti verso i più deboli sem-brava realizzata; la difesa dei diritti umani per tutti gli uomi-ni del pianeta, senza distinzioni, una realtà vicina. La stessaesplorazione della Luna pareva dimostrare che l’umanità eraentrata in un’era di benessere che avrebbe finalmente supe-rato la povertà e l’ignoranza dei secoli precedenti, in tutti gliangoli più nascosti del pianeta.Nasceva il mito che, ponendo l’espansione economica glo-

bale come motore e risposta ad ogni esigenza umana, avreb-be posto le basi dell’attuale organizzazione del pianeta: quel-lo dello sviluppo legato alla crescita.L’Unione sovietica e gli Stati Uniti, che guidavano i processimondiali, pur partendo da due presupposti ideologici diversi,furono i principali costruttori e propagatori del mito dellosviluppo. La prima cercò di bruciare le tappe del progresso,per uscire dalla sua secolare “povertà contadina”, attraversol’industrializzazione forzata e i piani quinquennali. Ma furo-no l’Occidente e gli Stati Uniti, che dopo qualche decenniodiventeranno il luogo simbolico unico della civiltà “avanza-ta”, a proporre ed estendere l’idea dello sviluppo possibileper tutti, basato sulle conquiste scientifiche e il progresso in-dustriale, sostenuto dall’allargamento dei beni di consumosenza limiti e diffuso a tutte le classi sociali. Nel 1949, nelsuo celebre discorso di insediamento alla Presidenza, HarryS. Truman utilizzò i termini sviluppo e crescita con una con-notazione “liberatrice” e “messianica” che negli anni Ses-santa raggiunse il suo culmine e che è arrivata fino ad oggi.In questo contesto si rafforzò l’ambivalenza verso lo sfrutta-mento intensivo delle risorse naturali del nostro pianeta enacque l’esigenza di proteggerne la fragilità e l’ecosistema,il suo ambiente naturale.L’imposizione di un modello basato sullo sviluppo e sull’e-spansione dei beni di consumo, in particolare quelli non pri-mari, ha portato all’accentuazione della suddivisione del

Nuovi modelli di convivenzaLa difesa della biodiversità da parte dei popoli originari di Bolivia ed Ecuador

di Gianni Tarquini

Gianni Tarquini

Piscina di acqua di trasformazione petrolifera. Lago Agrio, Ecuador

28 mondo in aree di specializzazione e alcune di esse sono statedestinate allo sfruttamento delle risorse naturali da immette-re nel mercato globale per la produzione. Tale suddivisione,nonostante le intenzioni esplicitate di rendere il mondo piùdemocratico, è frutto essenzialmente dei rapporti di forza trale nazioni e, di conseguenza, le zone destinate allo sfrutta-mento delle risorse sono risultate essere quelle politicamentepiù fragili o storicamente utilizzate come serbatoio dagli sta-ti “egemoni” e dalle loro industrie.L’America latina è, dalla conquista europea in poi, una diqueste macroregioni mondiali destinate principalmente arifornire di materie prime le nazioni produttrici. Da sem-pre area coloniale e immenso patrimonio di risorse natura-li, fonti energetiche, cibo inesistente nel resto del mondo(come la patata e il pomodoro), ricchezze vecchie e nuove(dall’argento al litio), grandi estensioni di terre coltivabilie bacini di acqua dolce. È il subcontinente più ricco dibiodiversità e di varietà di ecosistemi ma, allo stesso tem-po, è anche uno dei più a rischio, proprio per il suo ruolostorico di fornitore di risorse.Ma è anche il luogo in cui i popoli originari hanno saputo re-sistere, per secoli, alle tante ondate predatorie, annientatricio assimilatrici e sono oggi capaci di proporre alcuni cambia-menti di modello nella convivenza sociale e nello sfrutta-mento delle tante ricchezze naturali, più rispettosi versoquella che loro chiamano la Pachamama, la Madre Terra, everso le generazioni future che rischiano di essere rese pove-re proprio a causa della cecità e della cupidigia nate dal sen-so di potere legato alla mitizzazione, alla cattiva interpreta-zione e all’esasperazione dei concetti di crescita e di svilup-po che tanta ricchezza avrebbero dovuto portare a tutti gliuomini e le donne che abitano la nostra Terra.Il subcontinente latinoamericano comprende 47 Stati, il 7%

della popolazione mondiale, il 14% delle terre totali e il26% della copertura forestale mondiale, inclusa l’area bo-schiva tropicale più vasta del mondo: il bacino del Rio del-le Amazzoni. Ma è allo stesso tempo il subcontinente dove,tra il 1990 e il 2005, si sono persi circa 65 milioni di ettaridi foreste (più di due Italie), più di un terzo della perditamondiale per ogni anno tra il 2000 e il 2005 e dove, granparte del tasso positivo di recupero di piantagioni è dovutoalla crescita di coltivazioni industriali su larga scala (comeaccade in Cile e Uruguay), incapaci di compensare le per-dite a livello ecologico.

Dal Tropico al Polo, passando per le Ande, ancor oggi tro-viamo flora e fauna unici al mondo: giaguari, condor, igua-ne, vigogne, elefanti marini, pinguini; lembi di terra dove unettaro può contenere diversità di alberi più dell’intera Euro-pa; isole con ecosistemi unici e irripetibili: Juan Fernandez ePasqua (che appartengono al Cile), Galapagos (Ecuador),Cocos (Costa Rica). Vi troviamo immense riserve d’acquacome quelle dell’Orinoco, del Rio de La Plata, del Rio delleAmazzoni o del bacino del Guaranì.

L’imposizione di un modello basato sullosviluppo e sull’espansione dei beni di

consumo, in particolare quelli nonprimari, ha portato all’accentuazione

della suddivisione del mondo in aree dispecializzazione e alcune di esse sonostate destinate allo sfruttamento delle

risorse naturali da immettere nelmercato globale per la produzione

Indigene Aymara

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Ma tutta questa ricchezza può erodersi con rapidità, e già staavvenendo, se la domanda mondiale di alimenti, di acquadolce, di combustibili prodotti da piantagioni, di fibre, di mi-nerali necessari all’industria tecnologica seguiterà a crescerecon i ritmi attuali e se i paesi latinoamericani continuerannoa ricoprire il ruolo di fornitori principali di agricoltura indu-striale e di allevamento su grande scala. A farne le spese perprime continueranno ad essere le foreste, i polmoni del mon-do, regolatrici dell’equilibrio climatico mondiale e locale e iluoghi dell’evoluzione biosferica e biologica, di fotosintesi,di trasferimento di energia e di creazione di humus e fertilità. Fanno gola proprio per le loro ricchezze. Ma non sono solole piante a morire, scomparire ed essere oltraggiate; con loroconvivono da secoli, e vengono umiliati e annientati, tantipopoli che dalle foreste e dalle altre forze della natura hannosaputo trarre le risorse necessarie per la vita e la loro cosmo-visione e che, all’interno di questa relazione di rispetto e ar-monia, le hanno sapute preservare. Nonostante le difficoltà acensire il numero degli appartenenti alle popolazioni “origi-narie” che hanno resistito all’etnocidio, e nonostante il me-ticciato percepito da gran parte degli abitanti del centro e sud

America e i tentativi di assimilazione del XX secolo, possia-mo stimare oggi tra i 400 e i 500 gruppi etnici ancora esi-stenti e una popolazione di almeno 35/40 milioni, prendendoin considerazione solo coloro che si riconoscono come pie-namente appartenenti alle popolazioni preesistenti all’irru-zione europea in America. Molti di essi vivono in zone ruralie a contatto con l’ambiente naturale. Ma il fatto storicamenterilevante è che negli ultimi decenni queste popolazioni han-no saputo riorganizzarsi ed entrare nella scena politica. InMessico, con il noto movimento zapatista, poi soprattuttonegli stati andini e, con forme di resistenza, in Cile, con gliagguerriti mapuche. In particolare bisogna mettere in rilievole conquiste ottenute dai movimenti indigeni in Bolivia e inEcuador dove, a partire dalle sollevazioni (levantamientos)degli anni Novanta in Ecuador e dalle guerre dell’acqua, aCochabamba, e del gas in Bolivia, all’inizio del nuovo mil-lennio, sono arrivati a mettere in discussione il modellopreesistente e a influenzare la riscrittura di nuovi patti fonda-tivi nazionali, attraverso due nuove Costituzioni: di fine2008, in Ecuador, e del 2009 in Bolivia. Queste Carte con-tengono il riconoscimento di alcuni dei principali obiettividei movimenti indigeni, come quelli dell’autonomia all’in-terno di stati plurinazionali, delle lingue, culture, giurisdizio-ni e territori ancestrali e si fondano sui principi del Sumak

Kawsay, Suma Qamaña, il Buon Vivere. Principi che nasco-no dall’esperienza di vita comunitaria delle nazionalità indi-gene e nelle relazioni basate sull’armonia tra gli esseri uma-ni e tra essi e la Natura, che nelle Costituzioni diventa sog-getto di diritto. Il 2010 è stato l’anno internazionale della biodiversità, cosìcome il 2011 è quello delle foreste, ma, piuttosto che dallaConferenza di Cancùn delle Nazioni Unite sul clima o daquella di Copenaghen del 2009, le novità più rilevanti perun cambio di rotta a favore della salvaguardia dell’ambientesono venute proprio dalle spinte della cultura dei popoli ori-ginari. Ad aprile, nel corso della “Conferenza mondiale deipopoli sul cambio climatico e i diritti della Madre Terra”,tenutasi a Cochabamba, a dieci anni e nella stessa città dellastorica battaglia dell’acqua, sono stati chiesti un Tribunaleinternazionale per la giustizia climatica e ambientale e unreferendum mondiale sui tagli delle emissioni C02; il 28 lu-glio, su proposta del Presidente boliviano, l’indigeno ayma-

ra Evo Morales, l’Assemblea generale delle Nazioni Uniteha votato a gran maggioranza il riconoscimento dell’acces-so all’acqua come diritto umano universale fondamentale,seppur solo come principio; il 3 agosto, sempre del 2010,l’Ecuador ha firmato un accordo con UNDP per rinunciaread estrarre uno dei suoi più importanti giacimenti petroliferinel parco dello Yasunì, in Amazzonia - una delle aree dimaggior biodiversità al mondo e dove vivono comunità inisolamento volontario - in cambio di un risarcimento inter-nazionale di una parte del guadagno ricavabile.Nell’attuale mondo globalizzato, con la necessità di control-lo e appropriazione delle risorse naturali strategiche, le po-polazioni indigene, capaci di recuperare e porre a modello illoro rapporto armonioso con la natura, rappresentano, altempo stesso, un elemento disfunzionale al sistema e unapossibile alternativa ai guasti che lo stesso ha prodotto e alledomande alle quali è stato incapace di dare risposta.Questo nuovo approccio rappresenta una sfida in quantocapovolge il modello dominante di sfruttamento delle ric-chezze della natura e simboleggia un tentativo di rotturaepistemologica del linguaggio e della struttura coloniale epostcoloniale ancora molto presente in questi paesi. Allostesso modo ci interroga, all’interno del sistema globalizza-to incentrato sul mito dello sviluppo e della crescita, oggiin crisi, e ci dà l’opportunità di aprire una discussione sullarelazione tra conoscenza e potere, e sul modo di esercitarequest’ultimo e di ripensare la realtà, rinominandola, per po-terla trasformare.

Indigeni Quechua

L’esplorazione della Luna parevadimostrare che l’umanità era entrata in

un’era di benessere che avrebbefinalmente superato la povertà e

l’ignoranza dei secoli precedenti, in tuttigli angoli più nascosti del pianeta.

Nasceva il mito che, ponendol’espansione economica globale come

motore e risposta ad ogni esigenzaumana, avrebbe posto le basi

dell’attuale organizzazione del pianeta:quello dello sviluppo legato alla crescita

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Questo è un libro cheracconta la voglia diemergere di due paesiche fino a questo mo-mento si sono ritrovatia osservare le vicendedel mondo da semplicispettatori. La Bolivia el’Ecuador, territori ric-chi di storia ma anchedi risorse naturali, cheoggi più di sempre

stanno vivendo un vero e proprio “risveglio”. Le po-polazioni di questi paesi infatti, lottano ormai da an-ni per diventare i soggetti di riferimento nell’orga-nizzazione e nella gestione dei propri beni più im-portanti: l’acqua e il petrolio. Tra le pagine si scopre però anche un altro elementodi discussione. È rivolto a noi lettori occidentali cheper troppi anni quando abbiamo parlato di AmericaLatina – tanto quanto di Africa – ce ne siamo interes-sati come se i cittadini di questi paesi non fosseronostri diretti interlocutori ma dei veri e propri fanta-smi ai quali abbiamo semplicemente mostrato, inmolte occasioni, la nostra sfacciataggine. Ed eccoche ci siamo impossessati delle bellezze nascoste diquesti posti senza prima bussare alla porta dei loroproprietari. Entrando con inso-lenza in questi luoghi, non neabbiamo capito – o non ne ab-biamo voluto capire – le poten-zialità e le grandezze; ci siamosemplicemente assicurati dimigliorare i nostri stili di vitacavalcando l’onda del profittoe della cieca sottomissione del-l’altro.Il libro è ricco delle storie diquanti hanno creduto nell’im-portanza delle popolazioni lo-cali come interlocutrici princi-pali per quanto riguarda la re-golamentazione nell’utilizzodelle ricchezze dei propri pae-si. In Bolivia per esempio vie-ne raccontata, tra le altre cose,la nascita di una organizzazio-ne di tipo orizzontale, la Coor-

dinadora de Defensa del Agua

y de la Vida, basata su una for-te alleanza urbano-rurale incontrapposizione a quella go-verno-multinazionale che, dalla

fine degli anni Novanta, aveva varato leggi favore-voli alla gestione dell’acqua da parte dei consorzinazionali, a loro volta controllati, nell’ombra, da al-cuni colossi industriali statunitensi. L’organizzazioneboliviana nasceva dalla richiesta del popolo al pro-prio governo di trattare l’acqua come un bene pub-blico. Dopo mesi di trattative e guerriglie urbane, ilgoverno boliviano decideva così di rescindere il con-tratto con le multinazionali, promulgando una nuovalegge che sanciva la fine del monopolio sul bene,portando avanti anche un progetto di gestione parte-cipata, lontana dalle logiche della corruzione e del-l’arbitrarietà presenti invece con le multinazionali.Studenti e attivisti, ma anche giornalisti e semplicicontadini invasero nel 2003 le strade di Puyo, picco-la cittadina ecuadoriana, per manifestare contro lefinte promesse di ricchezza della multinazionale pe-trolifera argentina CGC. La cosa che sorprende è chequesta manifestazione fu indetta da un gruppo di in-digeni amazzonici, i quali diventarono di lì a pocouno dei movimenti di protesta più rispettati di tuttal’America Latina. La storia petrolifera nella regioneè così uno dei vergognosi esempi di etnocidio e in-quinamento ambientale. Nel libro infatti, vengono ri-percorse le tristi vicende dell’Amazzonia, dai primiconquistadores all’inizio dell’estrazione petrolifera,iniziata nel 1920. Storie di abusi e diritti mancati, ma

anche di risvegli, che final-mente, dopo decenni di soffe-renza, portano in piazza la po-polazione ecuadoriana alla ri-cerca di una propria identitànella società mondiale.Oggi grazie anche alla globa-lizzazione, intesa in questo ca-so come moto incessante e sen-za confini di idee in tutto ilmondo, possiamo renderci con-to degli errori dei nostri paesiricchi e cercare di rimediarvi,osservando con occhio vigile lerivoluzioni di coloro che sonosempre arrivati secondi nellagara dell’approvvigionamentodelle risorse. Popolazioni che,in alcuni casi, sono riuscite an-che a sconfiggere il diavolo del“profitto ad ogni costo”, mache vorrebbero soprattutto es-sere capite da noi, cittadini ric-chi, spesso poco disposti a oc-cuparci degli eventi che acca-dono lontano dai nostri lidi.

Camilla Spinelli

La guerra dell’acqua e del petroliodi Camilla Spinelli

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Nel febbraio del 2008,l’Assemblea delle NazioniUnite ha indetto l’AnnoInternazionale del PianetaTerra. Durante la presenta-zione dell’evento, volto asottolineare l’importanzadella salvaguardia del no-stro territorio, l’Italia è sta-ta menzionata per un tragi-co evento, definito «un ca-so esemplare di disastroevitabile, causato dal falli-mento di geologi ed inge-

gneri nel comprendere la natura del problema che stavanocercando di affrontare»: il disastro del Vajont. A distanza diquasi cinquanta anni, il ricordo di quella catastrofe è ancoravivo nella mente di tutti gli italiani, rappresentando una fe-rita sempre aperta nella nostra storia nazionale. Per chi, co-me me, non era ancora nato, restano i racconti di chi l’havissuta e i documentari che sono stati realizzati; ma a “par-lare” è soprattutto il numero impressionante delle vittimeche sono rimaste uccise in quella terribile notte del 9 otto-bre 1963: più di millenovecento persone fra i comuni diLongarone, Codissago, Erto, Casso e altre località limitrofe.

L’evento fu causato da una frana originata dal versante set-tentrionale del monte Toc che si era staccata in conseguenzadell’innalzamento a oltre 700 metri del lago artificiale crea-to dalla diga del Vajont. Nonostante numerosi geologi aves-sero sottolineato la pericolosità di una tale scelta edilizia, aprevalere furono invece le posizioni di chi affermava che laroccia del monte fosse abbastanza solida per sostenere l’in-vasività della diga fino a quell’altezza. L’idea della costru-zione di una diga, che sfruttasse come bacino idroelettricola valle del fiume Vajont, era stata formulata dalla SocietàIdroelettrica Veneta, poi assorbita dalla SADE, già agli inizidegli anni Venti. Il progetto del grande Vajont, completatoda Carlo Semenza nel 1939, mirava a creare, fra le Dolomi-ti, una riserva idrica originata dall’accumulo delle acque delPiave che, sfruttando la forza gravitazionale, erogasse ener-gia elettrica in tutto il Triveneto. I lavori di costruzione ini-ziarono soltanto nel 1957 per terminare nel 1959. Manife-stazioni di instabilità geologica non tardarono ad arrivare edil 22 marzo di quello stesso anno una massa di 3 milioni di

metri cubi si staccò dalle falde del monte Castellin e delloSpiz, precipitando in uno dei bacini artificiali e provocandoun’onda che sovrastò la diga di oltre 7 metri. Il corpo delguardiano, rimasto travolto, non fu più ritrovato. Un annodopo, un’altra frana determinò la caduta di oltre 800.000metri cubi di roccia dal monte Toc, con un innalzamento delbacino d’acqua sottostante di oltre 10 metri. Ciò provocòuna fessura di oltre 2500 metri sulle pendici settentrionalidel massiccio. Questi segnali sarebbero stati più che suffi-cienti a rendere evidente quanto la diga avesse già destabi-lizzato l’assetto geologico del territorio, esponendo ad unaltissimo rischio gli abitati vicini. Nel frattempo, a seguitodella nazionalizzazione dell’energia elettrica, la SADE ave-va venduto i suoi impianti, mantenendo tuttavia il controllodel Vajont in attesa che subentrasse l’ENEL. Nonostante ilpassaggio societario, il 4 settembre del 1963, come prece-dentemente stabilito, iniziarono i lavori d’innalzamento del-la diga fino a quota 710 metri. Nelle giornate che seguirono,gli abitanti denunciarono la presenza di frequenti scosse tel-luriche e boati provenienti dalla montagna che determinaro-no la decisione di abbassare al più presto l’altezza dell’inva-so, ma le misure d’intervento erano destinate ad arrivaretroppo tardi. Il 9 ottobre, anche in conseguenza delle abbon-danti precipitazioni di quei giorni, una frana lunga ben 2 kme della portata di 270 milioni di metri cubi di rocce e terraconfluì nel bacino artificiale, determinando l’innalzarsi ditre grandi onde che distrussero i comuni limitrofi. Studi sul-la potenza della frana hanno rilevato che l’onda d’urto, de-terminata dallo spostamento d’aria, fu pari a quella generatadalla bomba atomica ad Hiroshima. A seguito della trage-dia, si svolsero numerosi processi volti a stabilire le respon-sabilità del caso. La battuta definitiva arrivò nel 2000 ,quando gli oneri per il risarcimento dei danni furono egual-mente ripartiti fra Enel, Montedison (che aveva acquistatola SADE) e Stato italiano. Non ci sono parole per commen-tare una pagina così dolorosa della nostra Storia, né per tra-

durre l’indignazione dell’intera nazione verso l’incuria di-mostrata. A restituire il dolore per quanto successo c’è unafrase pronunciata da Tina Merlin, una giornalista che tanto

Francesca Gisotti

Campanelli d’allarmeLe tragiche ripercussioni delle negligenze umane

di Francesca Gisotti

A distanza di quasi cinquanta anni ildisastro del Vajont è ancora vivo nella

mente di tutti gli italiani,rappresentando una ferita sempreaperta nella nostra storia nazionale

Per chi, come me, non era ancora nato,restano i racconti di chi l’ha vissuta e idocumentari che sono stati realizzati;

ma a “parlare” è soprattutto il numeroimpressionante delle vittime che sonorimaste uccise in quella terribile notte

del 9 ottobre 1963: più dimillenovecento persone fra i comuni diLongarone, Codissago, Erto, Casso e

altre località limitrofe

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si era battuta affinché i lavori della diga fossero bloccati: «Ilcaso del Vajont resterà un monumento a vergogna perennedella scienza e della politica». Purtroppo questo non è stato l’unico disastro italiano impu-tabile all’azione irresponsabile dell’uomo e diversi altri casirichiedono di essere menzionati. Fra questi, c’è la dramma-tica vicenda di Seveso, un paesino della Lombardia dove il10 luglio del 1976, poco dopo mezzogiorno, l’esplosione diuna valvola di sicurezza del reattore A-101 dello stabili-mento chimico ICMESA, provocò una dispersione di dios-sina velenosissima sul territorio della Brianza. Nonostantesin da subito la popolazione vicina all’impianto fosse statacolpita da gravi forme di dermatosi, fu avvertita della peri-colosità dell’evento solo 8 giorni dopo l’accaduto. La nubetossica determinò, anche a distanza di anni, l’insorgere digravi disfunzioni ormonali fra gli abitanti e la nascita dibambini con gravi malformazioni fisiche. Per questo, nono-stante in Italia fosse ancora vietato l’aborto, furono autoriz-zati aborti terapeutici per le donne di quella zona. Fra leanomalie determinate dall’esposizione alla diossina c’è sta-ta, negli anni Novanta, la nascita di molte più bambine fem-mine che bambini maschi. Studi medici hanno stabilito chei loro genitori, essendo adolescenti all’epoca dei fatti, ab-biano subito un’alterazione dell’apparato riproduttivo cheha colpito soprattutto gli uomini. Un episodio analogo an-

che se con conseguenze meno gravi si verificò nel 1998 aMassa Carrara. Il 18 luglio di quell’anno infatti, nell’indu-stria chimica Farmoplant, di proprietà della Montedison, ascoppiare fu una cisterna contenente un pesticida ed un sol-vente tossico. L’incendio successivo determinò il diffonder-si di una nube scura e di un acre odore di bruciato nei centriabitati adiacenti, con conseguenti intossicazioni degli abi-

tanti e la morte di moltissimi pesci del torrente. Per giornifu vietato usarne l’acqua ed il consumo di frutta e verduralocale. Accanto a questi tragici episodi, in questi anni sono emerse

Seveso, un paesino della Lombardiadove il 10 luglio del 1976, l’esplosione diuna valvola di sicurezza del reattore A-

101 dello stabilimento chimicoICMESA, provocò una dispersione didiossina velenosissima sul territoriodella Brianza, determinando anche a

distanza di anni gravi disfunzioni fra gliabitanti

Panoramica della Valle del Vajont poco dopo il disastro del 9 ottobre 1963. È ben visibile la frana di 260 milioni di metri cubi staccatasi dalMonte Toc e precipitata nel bacino artificiale

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notizie altrettanto inquietanti sulle malattie che hanno colpi-to moltissimi operai di alcune industrie chimiche. Il casopiù noto è quello del petrolchimico Montedison di PortoMarghera, uno stabilimento destinato alla lavorazione delCVM, un composto cancerogeno che nel tempo ha provo-cato decine di morti per tumore. Dopo il processo di primogrado del 2001, che aveva assolto i dirigenti alternatisi ne-

gli anni Settanta e Ottanta, nel 2004 la sentenza d’appelloha invece condannato a un anno e mezzo di carcere cinquedi loro, ritenuti però responsabili solo della morte per an-giosarcoma al fegato dell’operaio Tullio Fagin. È invece

del 2001 lo scandalo legato al petrolchimico dell’Enichemdi Priolo, emerso in seguito al riversamento nelle vicineacque marine di considerevoli quantità di mercurio. Le in-dagini aperte in seguito all’evento hanno infatti rilevato ilmancato rispetto delle norme per la salvaguardia dell’am-biente e della salute pubblica e, oltre al versamento conti-nuo di sostanze inquinanti nel mare, anche l’interramentodi prodotti e scarti di varia natura. Tali pratiche hanno de-terminato, nel tempo, una contaminazione estremamenteinvasiva dei territori di Priolo-Augusta-Melilli, che sonopoi stati in maniera emblematica definiti come “il triango-lo della morte”. Approfonditi studi medici, condotti dalprofessor Salvatore Sciacca e Anselmo Madeddu del Regi-stro Territoriale di Patologia e da Sebastiano Bianca dell’I-smac hanno fatto emergere in questa zona un’incidenza dimalformazioni neonatali di tre volte superiore alla medianazionale e un tasso di mortalità altrettanto elevato. Daquesti resoconti emerge quanta poca attenzione continui aessere posta nei confronti della salute e sicurezza pubbli-ca. In questo scenario, ci si può solo augurare che nuovepolitiche ambientali e controlli più severi mettano al ripa-ro dal ripetersi di eventi così catastrofici; ma ciò sarà pos-sibile solamente quando la salvaguardia della vita umana edell’equilibrio ecologico risulteranno prioritari rispetto adimmediati interessi economici.

Il petrolchimico Montedison di PortoMarghera era destinato alla lavorazionedel CVM, un composto cancerogeno chenel tempo ha provocato decine di morti.È invece del 2001 lo scandalo legato alpetrolchimico dell’Enichem di Priolo,

emerso in seguito al riversamento nellevicine acque marine di considerevoli

quantità di mercurio

Il petrolchimico di Porto Marghera

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L’associazione Green-peace nasce nel 1971a Vancouver per manodi Bob Hunter, DavidMc Taggart, DorothyStowe e Irving Stowe.Primo atto è quello didenunciare i test se-greti che gli Stati Uni-ti d’America stavanoeffettuando ad Am-chitka, una piccolaisola dell’Alaska su-doccidentale. Semprenel 1971, parte la pri-

ma campagna di Greenpeace contro i test francesipresso l’atollo di Mururora . Nel 1975 nasce la campa-gna forse più conosciuta, sulla difesa delle balene. Iprimi problemi per l’associazione hanno inizio conl’affondamento della Rainbow Warrior, un pescherec-cio europeo acquistato da Greenpeace nel 1977 conl’aiuto del WWF; l’imbarcazione, ormeggiata nel por-to di Auckland, era pronta per salpare alla volta dell’a-tollo di Mururoa dove però non riuscirà ad arrivare;per di più nell’affondamento della nave viene coinvol-to il fotografo freelance Fernando Pereira, che perde lavita. L’inchiesta aperta in seguito a questo avvenimen-to non ha attribuito colpe al governo francese che inquel periodo effettuava esperimenti nucleari nei pressi

dell’atollo, ma il caso ha voluto che due mesi dopo ilministro della difesa rassegnasse le dimissioni. Durante questi anni di attività Greenpeace ha convintole multinazionali a non distruggere più le foreste, è riu-scita a far eliminare le sostanze tossiche presenti neiprodotti che alcune aziende hi-tech commercializzanoed è stata capace, inoltre, di sancire la fine della cacciacommerciale alle balene.Una delle campagne del 2011 chiamata in maniera di-vertente ed efficace “Barbie ti mollo”, ha fatto si che300.000 persone in tutto il mondo chiedessero allaMattel, storica casa produttrice delle famose bamboleBarbie, di creare un packaging sostenibile per i suoigiocattoli. Tale campagna, ha convinto la Mattel ad in-terrompere i rapporti commerciali con le aziende chedistruggono la foresta indonesiana col fine di utilizzaregli alberi abbattuti come materiale per il packaging.Poco tempo fa, infine, Greenpeace ha stilato l’ultimis-sima eco-guida, una guida appunto che, giunta alla di-ciassettesima edizione quest’anno, classifica le aziendedi elettronica più verdi del pianeta. Le aziende produt-trici vengono valutate in base a parametri quali politicaenergetica, eco-compatibilità dei prodotti e sostenibili-tà delle filiere. Ai primi posti di questa speciale hit pa-rade quest’anno si sono trovate: Hp, Dell e Nokia.Grazie a questa campagna molte società hanno accet-tato di mettere al bando le sostanze chimiche più peri-colose utilizzate per la produzione di apparecchi elet-tronici.

Rainbow Warrior III, la nave di Greenpeace

Luca Passi

Greenpeace: 40 anni dopodi Luca Passi

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Hanno un loro modo di re-spirare, inverso a quellodegli uomini: inspiranoanidride carbonica edespirano ossigeno; cresco-no; hanno bisogno di bere;spesso non dimostrano iloro anni, e però invec-chiano: quando – semprepiù spesso – li si tagliavia, si scopre al loro inter-no una memoria anagrafi-ca registrata in cerchi con-centrici. Alberi. Con un

loro carattere: tenace, ospitale. Persino con gli occhi, co-me ricorda il titolo di un recente libro di Chicca Gagliardo(Gli occhi degli alberi, appunto) illustrato dalle fotografie– più che una testimonianza, una “prova” – di Massimilia-no Tappari.

Tiziano Terzani li aveva messi davvero, gli occhi a un al-bero: non perché credesse che senza quelle due palline divetro incastonate nel tronco, l’albero fosse meno “uma-no”, ma per insegnare a suo nipote a rispettare la natura,ché anche le piante fanno parte dellacategoria degli “esseri viventi”. Anco-ra oggi, appena sopra il borgo di Orsi-gna, è possibile ripercorrere il sentierodi Terzani e arrivare a quell’albero chesi può guardare, che sicuramente ciguarda. Ricordarli, gli alberi, credereall’esistenza di una loro “anima”, ècerto più facile se si ha l’età del nipoti-no di Terzani. Sono i bambini, che sirivolgono più spesso a rami e foglie, epossono arrampicarsi fin dove non ètroppo pericoloso; legarvi le corde perun’altalena; usare due tronchi vicinicome pali di una porta per una partitadi pallone. Poi, diventando adulti? Senon si è poeti, crescendo è altrettantofacile dimenticarsene; del resto, li si

vede poco, li si incontra di rado. Eppure.Eppure, un popolo degli alberi esiste, e resiste. Dall’In-ghilterra arriva la storia di un gruppo di persone che noveanni fa hanno deciso di piantare le tende (bisognerebbeproprio dire “mettere radici”) in un bosco del Devon mi-nacciato dalle ruspe: le istituzioni locali avevano stabilitoche lì sarebbe passata una nuova arteria stradale. Le lorotende hanno fermato il progetto, quelle stesse tende chenel tempo sono diventate capanne e poi vere e proprie ca-se ecosostenibili, tutta una cittadina cresciuta come l’erbatra l’erba, intorno agli alberi e persino sospesa tra i rami.Hanno deciso di definirsi così, con l’espressione che parepiù adatta, più giusta: “popolo degli alberi”, subito decli-nato in “albericoli” da chi non ne ha compreso le intenzio-ni, e l’impegno. Dall’esperimento partito nel Devon sonopresto nate, a macchia d’olio, prima in Inghilterra e poinel resto d’Europa, comunità simili, di persone – anche fa-miglie con bambini – che la mattina si svegliano, si prepa-rano, raggiungono la macchina ferma ai margini del boscoe vanno al lavoro in città. Solo che poi tornano. E tornanosempre.

Sembra una favola, e infatti, forse, all’inizio vengono inmente soltanto favole, o storie, paginedi libri: il finale di Fahrenheit 451 diBradbury, per esempio, con gli uomi-ni che si rifugiano nel bosco per sfug-gire a una dittatura che li vuole instu-piditi e ignoranti, e tra gli alberi si ri-petono a memoria le frasi dei libriperché così, anche se tutti i volumivenissero bruciati, le opere sarebberosalve almeno nella loro testa. Poi ven-gono anche in mente, così alla rinfusae come se abitassero tutti nello stessoalbero-condominio – magari grandecome un baobab –, ma in rami diver-si, l’Huckleberry Finn di Mark Twain;il bambino, la zia matta e il vecchiogiudice dell’Arpa d’erba di TrumanCapote; il rampante barone di Italo

Gli occhi degli alberiStorie di chi ha scelto gli alberi, per difenderli (e per difenderci)

di Michela Monferrini

Michela Monferrini

Alberi: quando li si taglia via, si scopreal loro interno una memoria anagraficaregistrata in cerchi concentrici. Alberi:con un loro carattere, tenace, ospitale.Persino con gli occhi, come ricorda il

titolo di un recente libro di ChiccaGagliardo, Gli occhi degli alberi

Tiziano Terzani li aveva messi davvero,gli occhi a un albero: non perché

credesse che senza quelle due palline divetro incastonate nel tronco, l'albero

fosse meno “umano”, ma per insegnarea suo nipote a rispettare la natura, ché

anche le piante fanno parte dellacategoria degli “esseri viventi”

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Calvino. All’inizio, si pensa a tutto questo, ma solo all’ini-zio, perché poi la realtà non offre meno favole della fanta-sia e allora occorre ricordare – soprattutto in questo 2011che è Anno internazionale delle foreste – la storia di chi,nella società attuale, ha comunque scelto gli alberi: per di-fenderli, per difendere tutti.

Julia Hill è salita su una sequoia, all’altezza di sessantametri, nel dicembre del 1997, e ne è scesa esattamentedue anni dopo. Ha raccontato la sua esperienza nel libroLa ragazza sull’albero, ed è la storia di una giovane don-na che dopo un gravissimo incidente automobilistico de-cide di compiere un viaggio nel ventre della sua America,restando incantata dalla magnificenza di un bosco – quel-lo di Humboldt County –, che però già viene deturpato incontinuazione dalle ruspe di una multinazionale addettaalla lavorazione del legname. Julia – visibilmente provatanel fisico, dopo due anni di vita “sospesa” – è scesa dallasequoia (che nel frattempo era stata da lei soprannomina-ta Luna) soltanto dopo aver raggiunto un accordo chemetteva in salvo gran parte del bosco, e a quel punto hafondato un’associazione ambientalista, la Circle of LifeFoundation. La storia di simili fondazioni e associazioni,presenti in ogni luogo del mondo e spesso impegnate sen-za alcun aiuto da parte delle istituzioni, è spesso una sto-ria da favola. La Plant for the Planet ha, se possibile, un

percorso ancor più incredibile e quasi “magico”. I venti-tre dipendenti – per parlare della sua principale caratteri-stica – hanno tutti un’età che si aggira intorno ai dodicianni. Il fondatore, Felix Finkbeiner, aveva nove anniquando, ascoltando dalle parole della maestra la storia delpremio Nobel per la pace Wangari Maathai, ambientalistache ha piantato nel mondo circa trenta milioni di alberi,ha deciso di imitarne le gesta a partire dal giardino dellasua scuola, per poi estendere l’attività di “seminatore” aicampi dell’intero suolo della Germania. Oggi Felix hatredici anni, e nel 2010 è arrivato al suo primo milione dialberi. La sua fondazione è formata da piccoli ambascia-tori che vanno in giro per il mondo a diffondere lo sloganStop talking, start planting. Basta parlare, iniziamo apiantare. Ma il loro non è soltanto uno slogan, è un pro-getto ben preciso: non si tratta di predicatori, ma di unasorta di nuova generazione di architetti ambientali, che hanel suo programma punti concreti da perseguire comeobiettivi. In primo luogo, l’eliminazione di qualsiasi mac-china che produca anidride carbonica, mediante una dif-fusione più ampia possibile di utilizzo delle energie rin-novabili. Quindi, un’opera di riforestazione di cui ognibambino si è fatto primo responsabile, su una mappaideale che già tocca centotrentuno nazioni. Se si pensache tutto è partito da un seme piantato nel cortile di unascuola di Monaco, pare davvero una favola.

Come non pensare al libro illustrato L’orso che non lo era,scritto nel 1946 dal regista e scrittore Frank Tashlin, e ap-pena ripubblicato? È la storia di un orso che si risvegliadal letargo e scopre che attorno a lui non c’è più il bosco,ma una fabbrica piena di ingranaggi e operai. Tashlin loaveva scritto per i bambini, ma anche per gli adulti, i soliche potessero davvero capire quale denuncia si celassedietro allo stupore dell’orso incredulo. Senza essere anco-ra adulto, Felix Finkbeiner e decine di bambini come lui,stanno lavorando affinché nelle primavere future gli orsitornino a svegliarsi nei boschi, tra gli alberi.

Eppure, un popolo degli alberi esiste, eresiste. Dall'Inghilterra arriva la storia

di un gruppo di persone che nove anni fahanno deciso di piantare le tende in unbosco del Devon minacciato dalle ruspe

Julia Hill è salita su una sequoia nel1997 e ne è scesa due anni dopo. Ha

raccontato la sua esperienza nel libro La

ragazza sull'albero, ed è la storia di unagiovane donna che dopo un gravissimo

incidente automobilistico decide dicompiere un viaggio nel ventre della sua

America, restando incantata dallamagnificenza di un bosco, quello di

Humboldt County

«Ho portato dall’India questi occhi e li ho messi a quest’albero.Li ho messi per mio nipote, così che gli potevo spiegare chequest’albero ha vita, ha gli occhi come noi, e non è che lo si puòtagliare così impunemente, che lui ha una sua logica di esserequi, che tutto ha diritto a vivere, anche quest’albero, e se pro-prio un giorno andrà tagliato, allora bisognerà almeno parlargli,chiedergli scusa» Tiziano Terzani

Julia Hill in vetta alla sequoia sulla quale è vissuta per due anni

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Molto prima di Into the wild,Henry David Thoreau avevascelto l’eremitismo nel «sel-vaggio». Ventiquattro mesi neiboschi. Da quell’esperienza de-rivò Walden, uno dei pochi libriche riuscì a pubblicare in vita.Mentre è appena tornato in li-breria Cape Cod, «meditazionesull’umanità e manifesto, ironi-co e profondo, della tradizioneyankee», come l’ha definitoGianni Riotta, vale la pena ri-

leggere il Thoreau pioniere dell’ambientalismo. Eccentrico,ruvido, battagliero, evasore fiscale per protesta contro laschiavitù, discepolo del filosofo Ralph Waldo Emerson,Thoreau – nato nel Massachussets nel 1817 – risolse, o pro-vò a risolvere, l’inquietudine che lo tormentava più ancorache con la «disobbedienza civile», con la via del rifiuto dellaciviltà. Atteggiamento romantico? Non solo. C’è qualcosache lo spinge a cercare costantemente una soluzione radica-le: un’utopista affascinato dalla storia naturale, dall’«inno-cenza vegetale», poteva convivere con l’industrializzazione,con ciò che ai suoi occhi «contaminava» lo stato di natura,trasformava terreni vergini in colonie umane se non in nuovecittà? La crescita demografica, il trionfo dell’urbanizzazionee perfino la costruzione di strade e ferrovie lo atterrivano co-me un tradimento personale. Il ribelle e visionario Thoreauprotesta, con l’unico mezzo di cui dispone: le parole. Manon gli basta. Avverte la necessità di mettere in gioco qual-cos’altro, qualcosa di più decisivo. Mette in gioco il propriostesso corpo. Il 4 luglio (non a caso data legata all’indipen-denza), anno 1845, Thoreau si lascia alle spalle Concord, illuogo natale, in direzione della foresta che circonda il lagoWalden. Non utilizza mezzi di trasporto. Indossa un buonpaio di scarpe e si mette incammino. Camminare sarà lasua forma di protesta e di resi-stenza. Per due anni Thoreauvivrà nel totale isolamento, co-struendo una piccola capannaper dormire e difendersi dalleintemperie. Avrebbe dedicatoogni singola giornata al cam-minare. Come ha scritto Mas-simo Jevolella nell’introduzio-ne al piccolo e prezioso librodi Thoreau Camminare (Mon-dadori), questa scelta «equiva-le a svegliarsi, aprire gli occhi,rendersi conto del pericolomortale a cui il genere umanosta andando incontro nel nome

dello sviluppo economico, del profitto e del cosiddetto pro-gresso». Certo, Thoreau è un estremista (finì in prigione perle proteste anti-governative), ma il fascino della sua lezioneesistenziale sta in un vero e proprio risveglio dei sensi. Sot-toposti alla sollecitazione di questo contatto, anche faticoso eviolento, con la natura, i sensi agiscono e reagiscono incredi-bilmente potenziati. Si tratta, sostiene Thoreau, di un autenti-co ritorno a sé stessi, alle proprie radici prime e ultime:«ogni cosa buona è libera e selvaggia».

«Vorrei spendere – scrive Thoreau – una parola in favoredella Natura, dell’assoluta libertà e dello stato selvaggio,contrapposti a una libertà e a una cultura puramente civili;vorrei considerare l’uomo come abitatore della Natura, co-me sua parte integrante». Convinto che la civiltà avesse giàfin troppi paladini, Thoreau istituisce una mistica del vaga-bondaggio che è l’antitesi della civiltà. Essere senza casaper sentirsi a casa ovunque. «I cuori imbalsamati nei nostridesolati regni» possono tornare a battere di audacia e distupore: ogni passeggiata è un’avventura della mente e deimuscoli. Non restate seduti e al chiuso, esclama Thoreau, einvita a farsi investire dalla potenza degli alberi o di un tra-monto, dal vento, dalla bellezza elettrica di una bibliotecafatta di foglie e tronchi. «La parte migliore della terra non èproprietà privata»: è dalla natura ancora incontaminata chedipende il destino del mondo, dice Thoreau. Il suo deside-rio di armonia ha qualcosa di astratto e impraticabile, vistoda qui, ma conserva il fascino di chi, meravigliandosi, in-tuisce una verità fondamentale. Di chi, passo per passo, di-fende l’origine di quella stessa meraviglia. «Potremmo al-

meno arrampicarci su un albe-ro. Una volta lo feci e mi fuutile». Almeno a cambiareprospettiva, a orientare in mo-do diverso lo sguardo. «Ah, sel’uomo fosse simile all’antilo-pe selvatica, a tal punto parteintegrante della natura da po-ter segnalare la propria presen-za ai nostri sensi in manieraaltrettanto dolce!». E ancora:«La vita è stato selvaggio.Quel che è più vivo è più sel-vaggio, e quel che non è anco-ra soggetto all’uomo lo rinvi-gorisce». Firmato Thoreau:non nell’apocalittico 2012 macentocinquanta anni prima.

Paolo Di Paolo

«Quel che è più vivo, è più selvaggio»Henry David Thoreau e la vita nei boschi

di Paolo Di Paolo

«La parte migliore della terra non èproprietà privata»: è dalla natura

incontaminata che dipendeil destino del mondo

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L’armonia con la natura,la cura e l’amore per lapreservazione del territo-rio e delle sue risorse -corsi d’acqua, foreste,animali, luoghi sacri - èl’ insegnamento che ciproviene dall’AmericaLatina. Brevemente quiracconterò della distru-zione di popoli nativi edelle loro civiltà perpe-trata dagli europei quan-do conquistarono l’Ame-

rica, dei misfatti delle multinazionali sui loro territori,quindi delle esperienze di alcuni popoli indigeni in di-fesa della propria vita e della Madre Terra. Infine ac-cennerò a quello che possiamo fare qui da noi per con-correre a ristabilire un equilibrio tra gli uomini e con laTerra.Quando per la prima volta gli spagnoli giunsero sullecoste dell’America del Sud alla ricerca di ricchezze, re-starono storditi dalla bellezza di quella natura. Cristofo-ro Colombo nella Lettera ai sovrani del 31 agosto 1498,a commento del territorio del delta dell’Orinoco, scrive:

«Sono convinto che quel luogo è il paradiso terrestre».Dopo pochi anni arrivarono i conquistatori spagnoli chedecimarono le popolazioni native e devastarono il terri-torio alla ricerca di facili ricchezze, imponendo attivitàestrattive, allevamenti e monocolture. Nel XIX secolo ilnascente capitalismo industriale europeo - con le nuovecapacità tecnologiche messe a disposizione dalla rivolu-zione industriale - ha implementato considerevolmentelo sfruttamento delle risorse minerarie e ambientali. Fi-no ad arrivare ai giorni nostri dove spesso i mega pro-

getti, che le multinazionali realizzano in America Lati-na, determinano la contaminazione delle falde acquiferee dei suoli, la deforestazione, la perdita della ricchissi-ma biodiversità, l’erosione di terre e spesso la violazio-

Michele M. Ciricillo

Vivere in armonia con la naturaI popoli nativi difendono la Madre Terra contro l’avidità delle multinazionali

di Michele M. Ciricillo

Spesso i mega progetti, che lemultinazionali realizzano in America

Latina, determinano la contaminazionedelle falde acquifere e dei suoli, la

deforestazione, la perdita della ricchissimabiodiversità, l’erosione di terre e spesso la

violazione dei diritti umani

Incontro di allevatori di Llama. Riobamba, Ecuador

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ne dei diritti umani. Un centinaio di multinazionali europee sono state og-getto di indagine da parte di un gruppo di esperti e diassociazioni internazionali dal 2006 al 2010 per le loroattività in America Latina e sono state condannate dalTribunale permanente dei popoli per crimini control’ambiente e per la violazione dei diritti umani. Fra que-ste imprese ce ne sono anche alcune italiane:

• la Benetton, divenuta proprietaria dal 1991 di 900 mi-la ettari di terre in Argentina, ha costretto allo sfolla-mento dal loro territorio ancestrale gli indigeni Mapu-ches;

• l’Eni per la partecipazione alla costruzione dell’Oleo-

ducto de Crudos Pesados, che taglia longitudinalmen-te l’Ecuador dalla Selva Amazzonica al Pacifico, ècorresponsabile di enormi e devastanti impatti ambien-tali;

• l’Enel - attraverso la sua controllata HidroAysén - haun programma di costruzione di 5 grandi centraliidroelettriche sui fiumi della Patagonia cilena checomporterà l’inondazione di 6.000 ettari. Ne consegui-rà la distruzione irreversibile di un territorio di enormevalore ecologico e naturale, della terza riserva di ac-qua dolce del mondo con effetti sul clima globale.

Questi sono alcuni esempi di come l’ attuale sistemaeconomico e consumistico, imposto dai potenti dellaterra per il profitto di pochi, determini un processo didevastazione del pianeta stesso derubando e sfruttandorisorse e emarginando popoli ingannati e dimenticati. Per comprendere l’importanza della preservazione delnostro pianeta è utile aprire un dialogo con chi vive elotta quotidianamente per mantenere un equilibrio fral’uomo e la natura, continuamente minacciato dalla ri-cerca del profitto.Proprio nell’Uni-versità Roma Tre,nel maggio 2011,rappresentanti deipopoli U’wa e Na-sa ci hanno narratonon solo la condi-zione in cui sonocostretti a vivere eil degrado dei loroterri tori sotto lapressione del mo-derno coloniali-smo, ma anche laloro visione delmondo e le espe-

rienze per la sua salvaguardia. Il territorio, per i popoli nativi, è la grande madre chedà tutto - cibo, acqua, aria, piante medicinali, frutti,amore, libertà, pace - garantendo armonia ed equilibrio,e coloro che la abitano sentono il diritto-dovere di pre-servarla, di proteggerla e di prendersene cura. Berito Cobaria, sciamano del popolo U’wa, racconta lalunga resistenza pacifica e nonviolenta praticata controla Occidental Petroleum - OXY - che effettuava esplora-zioni petrolifere in Colombia sul loro territorio ance-strale. La loro lotta era sorretta dalla convinzione chequel che si voleva estrarre dal sottosuolo non era altroche il sangue che scorre nelle vene della Madre Terra;togliendo quel sangue la terra avrebbe perso il suo equi-librio e la sua vitalità, come succede al corpo umano. Leloro manifestazioni, represse violentemente, hanno co-stretto la multinazionale ad abbandonare l’impresa.I rappresentanti del popolo Nasa descrivono la grandemarcia realizzata dai popoli indigeni del Cauca fino alpalazzo del governo per far «caminar la palabra». Lun-go il percorso hanno coinvolto la società civile colom-biana per rivendicare insieme il rispetto degli accordigovernativi contro l’espropriazione delle terre, per co-struire la convivenza tra i popoli, per respingere i tratta-ti commerciali favorevoli alle multinazionali.

Nei periodi trascorsi in America Latina ho avuto mododi conoscere numerosi e innovativi progetti di sviluppoeconomico che si basano sul rispetto della natura, sullapartecipazione comunitaria e non riconducibili al mer-cato e al profitto. A titolo di esempio ricordo quello chele Comunità andine stanno praticando in Perú, Colom-bia, Argentina, Bolivia, Ecuador e Cile: la reintroduzio-

ne dell’allevamen-to di animali origi-nari come il lama,l’alpaca e la vigo-gna nelle zone delparamo in sostitu-zione dell’alleva-mento dei bovini.In effetti l’alleva-mento dei bovini -praticato dai gran-di lat ifondist i edestinato preva-lentemente all’e-sportazione - ren-de inutilizzabili lezone di pascolo, a

Per comprendere l’importanza dellapreservazione del nostro pianeta è utile

aprire un dialogo con chi vive e lottaquotidianamente per mantenere un

equilibrio fra l’uomo e la naturacontinuamente minacciato dalla ricerca

del profitto

Il territorio, per i popoli nativi, è lagrande madre che dà tutto – cibo, acqua,

aria, piante medicinali, frutti, amore,libertà, pace - garantendo armonia ed

equilibrio, e coloro che la abitanosentono il diritto-dovere di preservarla,

di proteggerla e di prendersene cura

Minga, marcia dei nativi. Cauca, Colombia

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causa del calpestio dei loro zoccoli, e sottrae grandiestensioni di terra alle coltivazioni.L’impegno, la passione e la lotta dei popoli nativi sonostati determinanti nella definizione delle recenti leggicostituzionali che riconoscono anche la natura comesoggetto di diritti e il carattere plurinazionale e pluricul-turale dei loro Stati. I popoli della Bolivia, dell’Ecuadore dell’Uruguay recentemente hanno approvato nuove einnovative costituzioni. Nel preambolo di quella boliviana si legge: «In tempiimmemorabili si innalzarono montagne, si formaronofiumi e laghi (…). Abbiamo popolato questa sacra Ma-dre Terra con volti differenti, comprendendo la pluralitàdelle cose e la nostra diversità in quanto esseri umani(…) e mai abbiamo compreso il razzismo che abbiamosofferto sin dai tempi luttuosi della colonizzazione némai lo comprenderemo».La costituzione ecuadoriana, oltre a definire il proprioStato come plurinazionale, sancisce, per la prima voltaal mondo, la Natura come titolare di diritto. Dopo lapremessa che il popolo fa parte della Pacha Mama, -fonte di vita per la loro esistenza - l’articolo 10 recita«(…) la natura sarà titolare dei diritti che le sono rico-nosciuti dalla costituzione». Quella uruguayana all’articolo 47 recita: «(…) l’acqua èuna risorsa naturale essenziale per la vita. L’accessoall’acqua potabile e l’accesso ai servizi, costituisconodiritti umani fondamentali». L’azione dei movimenti indigeni attraverso l’intercultu-ralità ha sviluppato relazioni con società diverse dallaloro, indicando un cammino per una nuova democrazia- partecipativa e non solo rappresentativa - inclusivadella natura e di tutti gli abitanti del pianeta.

La protezione del pianeta non è un capriccio dei popoliindigeni, fenomeni come inondazioni, deforestazioni, ri-scaldamento globale riguardano tutta l’umanità.

Anche noi in Occidente, immersi nel mondo consumisti-co, abbiamo una responsabilità; certamente possiamooperare delle scelte per mettere in atto azioni economi-che, sociali e politiche coerenti con la giustizia sociale eambientale. Possiamo adottare buone pratiche volte all’a-dozione di comportamenti quotidiani, individuali e col-lettivi, orientati ad un uso sostenibile delle risorse; rivol-gerci per i nostri acquisti a una produzione locale rispet-tosa della terra e dei diritti di chi la lavora; partecipare aiproblemi territoriali e tentare di risolverli nello spiritodell’inclusione e del diritto di tutti a una vita dignitosa.L’ impegno per la salvaguardia del pianeta non può pre-scindere dal cambiamento dello stile di vita della nostrasocietà e dalla consapevolezza che la lotta, dei popolidel nord e del sud del mondo, è una sola.

L’impegno, la passione e la lotta deipopoli nativi sono stati determinantinella definizione delle recenti leggi

costituzionali che riconoscono anche lanatura come soggetto di diritti e il

carattere plurinazionale e pluriculturaledei loro Stati. I popoli della Bolivia,

dell’Ecuador e dell’Uruguayrecentemente hanno approvato nuove e

innovative costituzioni.

Scorcio della Patagonia cilena

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Nel cinema di WernerHerzog la Natura presen-ta una dimensione nelcontempo mitica e mate-rica, prodotto di raccontitradizionali e polo dialet-tico che impregna di sé imovimenti della cinepre-sa e gli snodi narratividelle vicende, ispirazioneancestrale ed elementocentrale di assoluta liber-tà di improvvisazione. Daquesto punto di vista, la

presenza filmica della Natura non si differenzia nel pas-saggio tra opere di finzione e documentari: da entrambipreleveremo alcuni esempi. La Natura è dunque inseparabile dall’immagine herzo-ghiana, un’immagine che sfida costantemente la visionespettatoriale nella sua sospensione dell’incredulità de-nunciando metalinguisticamente la propria irrealtà. Fitz-

carraldo (1981) è, a tal proposito, emblematico. In questo film il paesaggio sembra corrispondere al rac-conto mitico degli indios del paese “lasciato incompiutodagli dei”. Per questo è un paesaggio sospeso tra reale eimmaginario, che richiede l’apporto di uno sguardo perraggiungere una formalizzazione. E lo sguardo della ci-nepresa realizza una formalizzazione di tipo estetico. Co-sì l’avventura di Fitzcarraldo-Kinski, l’utopia di costrui-re un teatro dell’Opera nel cuore dell’Amazzonia, si

identifica con l’avventura del cinema di Herzog traspor-tato nella foresta con uno spirito conquistador esclusiva-mente ispirato dalla ricerca della bellezza.

La logica geografica guida lo sviluppo della sceneggiatu-ra, oltre a influenzare tutte le decisioni inerenti le riprese.Il set quasi si identifica con l’ambientazione del film, nelsenso che la spedizione di Fitzcarraldo è mostrata neglistessi aspetti organizzativi relativi alla ricerca del territo-rio corrispondente al progetto del protagonista (fino alcuore peruviano dell’Amazzonia), alla normalizzazionedella montagna per permettere l’ascesa del battello (indi-spensabile fu il lavoro degli indios, ingaggiati comecomparse e operai, mostrato documentaristicamente), fi-no allo scivolamento impetuoso della nave nelle rapidedel Pongo das Mortes, dove Herzog, Kinski e una partedella troupe rischiarono la vita. La pre-produzione duròtre anni e mezzo, furono costruiti un ampio accampa-mento nella foresta e due enormi navi a vapore: quellamostrata nel film nelle navigazioni del fiume, e un’altraspeculare, destinata a veicolare i travelling corrisponden-ti. I due movimenti si intersecano con un rapporto quasi

Il diamante biancoNatura e immagine nel cinema di Werner Herzog

di Gabriele Anaclerio

Gabriele Anaclerio

La Natura è dunque inseparabiledall’immagine herzoghiana,

un’immagine che sfida costantemente lavisione spettatoriale nella sua

sospensione dell’incredulità denunciandometalinguisticamente la propria irrealtà

Da Fitzcarraldo, «L’immensa barca Molly Aida inghiottita nel paesaggio dell’inquadratura herzoghiana, sempre mirabilmente formalizzatanei suoi contrasti interni, in modo tale che il movimento associato alla macchina da presa […] è intensificato dai conflitti di direzione inter-ni al piano, a creare un’immagine sensualmente illeggibile»

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fisico, che mima l’avventura filmica parallela alla diege-si: i travelling “fuori bordo” creano un’atmosfera avvol-gente e minacciante che asseconda la favolosa discesaagli inferi nella foresta.

Le note del canto di Caruso che si librano nel paesaggiosospeso - nel duplice senso, ossimorico, della suspensenarrativa e della sospensione della narrazione - dei terri-tori degli indiani Jivaros si amalgamano con la visioneestatica che accompagna il film, visione costruita intor-no a lentissime panoramiche o travelling che fanno bale-nare l’irrealtà dei luoghi rappresentati e della stessa spe-dizione: si pensi all’immensa barca Molly Aida inghiotti-ta nel paesaggio dell’inquadratura herzoghiana, sempremirabilmente formalizzata nei suoi contrasti interni, inmodo tale che il movimento associato alla macchina dapresa, come nei frequenti “camera-nave”, è intensificatodai conflitti di direzione interni al piano, a creare un’im-magine sensualmente illeggibile. La stessa motivazione narrativa risulta così assorbita neldispositivo estetico-estatico, che fa sì che l’azione non siamai dissociata dalla contemplazione, che la Natura nonsia un materiale grezzo da piegare attraverso una qualche

civilizzazione, bensì una zona d’ombra destinata ad acco-gliere una bellezza indifferente alla Storia. Il canto di Ca-ruso e la mole del battello sono una penetrazione in unaNatura che non attendeva altro per raggiungere una suapienezza, quella creazione lasciata in sospeso dagli dei.Così gli indios accettano di essere adiuvanti della spedi-zione, mettendo alla prova il “dio bianco” Fitzcarraldonell’ascesa della montagna amazzonica con il battello enell’impossibile superamento delle rapide Pongo dasMortes. È qui che la relazione dialettica Arte/Natura si ri-solve in un’impresa sovrumana, che sarebbe metafisica senon fosse estetica. In definitiva, la “conquista dell’inuti-le” (titolo dei diari di Herzog scritti durante la lavorazio-ne) si identifica con la realizzazione dell’immagine au-diovisiva - fu l’immagine potente del magnetofono nellaforesta a generare l’intera operazione del film - che vedecomposte al suo interno l’armonia delle arie di Caruso ela selvaggia e inaccessibile bellezza dell’Amazzonia.In White Diamond, documentario del 2004, l’immagine

naturale raggiunge la sua purezza, una tonalità diafanariflessa attraverso il prisma del “diamante bianco”, il pic-colo dirigibile che attraversa la foresta pluviale della Gu-yana, il sogno di volare sopra i luoghi di un’altra leggen-da indigena, “le cascate dietro le quali vive il paese deirondoni”. Il riferimento ancestrale non ha nulla di una ri-cognizione sui luoghi del mito (che non farebbe altro chedissolverlo per sempre), ma solo un’analogia di ispira-zione: il volo come topos di conoscenza. Per Herzog, il

Il set quasi si identifica conl’ambientazione del film, nel senso che la

spedizione di Fitzcarraldo è mostratanegli stessi aspetti organizzativi relativi

alla ricerca del territorio corrispondenteal progetto del protagonista, alla

normalizzazione della montagna perpermettere l’ascesa del battello, fino alloscivolamento impetuoso della nave nelle

rapide del Pongo das Mortes, doveHerzog, Kinski e parte della troupe

rischiarono la vita

La Natura è selvaggia perché i suoi finidivergono da quelli umani, e perché una

sua possibile estetica riguarda solo lavisione dell’uomo e del cinema; forse più

la seconda della prima, dato chel’immagine sopravanza (e sopravvive a)le intenzioni dell’uomo-operatore-regista

Da The White Diamond «Il cinema di Herzog estetizza una natura rispettata nei suoi connotati fenomenici come un’immensa visione dellamacchina riproduttiva del cinema»

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volo associato alla possibilità di filmare cose mai viste. La foresta è di nuovo un ambiente estetico nel quale sisitua la temeraria impresa di Graham Dorrington di in-ventare una macchina volante, un dirigibile ultraleggero;come se le visioni di Aguirre o di Fitzcarraldo si fosserorealizzate in un’utopia che riguarda la stessa presenzadella macchina da presa (e del regista che accetta il folle

volo): non più la nave sull’albero intravista in una rêve-

rie, bensì la stessa cinepresa che vola su una foresta, lanatura selvaggia quale territorio da esplorare come lefrontiere della visione. Ecco, il cinema di Herzog estetiz-

za una natura rispettata nei suoi connotati fenomenici co-

me un’immensa visione della macchina riproduttiva del

cinema. E laddove la macchinalità sembra più estremaemerge un linguaggio sconosciuto che “parla” gli uominiche sfuggono alle regole (naturali ?) del vivere civile. In Grizzly Man (2005) l’immagine herzoghiana si conta-mina letteralmente con l’oggetto del suo racconto, il su-peramento della barriera tra l’umano e il selvaggio: uti-lizzando i materiali filmati da Timothy Treadwell, speri-colato esploratore della vita selvaggia dei grizzly d’Ala-ska, perlopiù piani fissi in cui il giovane racconta la suamissione di salvaguardia della specie in una profondità

di campo che mostra la compagnia enigmatica e oscura-mente minacciosa degli animali, Herzog conduce al limi-te il potenziale di sospensione dell’immagine filmica, lasoglia della morte, le frontiere dell’umano. Il documen-tario viene infatti montato poco dopo la terribile morte diTimothy (e della sua compagna) divorato da un orso sco-nosciuto nel “labirinto dei grizzly”, dove conduceva lesue estati di studio e di riprese. Il limite varcato è quello dell’immagine girata da unmorto, morto per quell’immagine. Il documentario rivelainfatti il duplice e unitario amore per la vita selvaggiadella Natura e per la ricerca ostinata di un’immagine cheriveli qualcosa dei recessi della personalità umana neisuoi aspetti indescrivibili, affidati per l’appunto alla mo-strazione dell’altro da sé più radicale, con il quale non èpossibile comunicare. L’uomo e l’orso, mostrati nellamedesima inquadratura ognuno con il proprio linguag-gio, il ragazzo californiano che rifiuta violentemente lebarriere opposte dalla civiltà alla sua comunione e igrizzly che perseverano nella loro esistenza brutale, rive-stiti della sola grazia dell’amore riproduttivo della picco-la cinepresa. La possibilità di una metamorfosi, della tra-sformazione in un “grizzly-man”, è tutta in questa attivitàamorosa dell’immagine che tentando di familiarizzarecon il selvaggio, penetrando into the wild, non fa che ri-velare la sua irrecuperabilità, la sua differenza radicale edistruttiva, ancorché affascinante. La Natura è selvaggiaperché i suoi fini divergono da quelli umani, e perchéuna sua possibile estetica riguarda solo la visione del-l’uomo e del cinema; forse più la seconda della prima,dato che l’immagine sopravanza (e sopravvive a) le in-tenzioni dell’uomo-operatore-regista, nei momenti di ve-rità che si manifestano quando tace il racconto della dia-lettica amorosa tra Timothy e gli orsi. Rimane a questopunto solo una Natura incomprensibile, con il suo rac-conto privo di affabulazione, e un’immagine aperta al-l’imprevisto fatale, che potrebbe essere l’uomo stesso.

La stessa motivazione narrativa risultaassorbita nel dispositivo estetico-estatico,

che fa sì che l’azione non sia maidissociata dalla contemplazione, che laNatura non sia un materiale grezzo da

piegare attraverso una qualchecivilizzazione, bensì una zona d’ombra

destinata ad accogliere una bellezzaindifferente alla Storia

Un’immagine tratta dall’incipit di Grizzly Man

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Per la comunità alpinisti-ca, nazionale e interna-zionale, il 13 settembre2011 resterà una data in-delebile nel la s toriadell’esplorazione a tuttotondo degli ultimi 60 an-ni. Viene infatti a manca-re, a causa di una malat-tia, Walter Bonatti scrit-tore, fotografo, viaggia-tore, ma soprattutto alpi-nista.È difficile scrivere e de-

scrivere il valore e l’essenza delle imprese da lui com-piute; con Bonatti scompare un tipo di alpinismo dai trat-ti epici nel quale la tecnologia e a volte la pianificazionenon erano aspetti particolarmente contemplati e scientifi-camente gestiti; si parla di un alpinismo dove a impor-tanti risultati facevano da contraltare grandi tragedie.

Questo tipo di alpinismo fu rappresentato per circaquindici anni da Walter Bonatti.È un periodo, questo, in cui la spasmodica ricerca deirisultati sfociava potenzialmente in due interpretazioniopposte dell’esperienza alpinistica: la conquista del tra-guardo visto come affermazione epica dell’uomo sullanatura; il raggiungimento di un risultato che permettes-se la fusione dell’essere con l’ambiente naturale attra-verso sfide sempre più estreme, ma all’insegna del ri-spetto e della correttezza.Bonatti si è fatto interprete della seconda via, mante-nendo sempre rettitudine etica e morale nei confrontidella montagna.Alpinista di riferimento per la sua generazione e per legenerazioni successive, fu esempio di lealtà e correttez-za anche nello stile, pulito ed elegante.Le sue imprese alpinistiche, nell’arco di quindici anni,lo spinsero a osare dove nessuno aveva immaginato, sa-lite estreme, invernali, in solitaria, dove il massimo del-l’ausilio tecnologico poteva essere rappresentato da unpiccolo barometro tascabile; imprese pervase da uno

spirito di ricerca del limite mai incosciente, dove la vo-lontà di ricercare sensazioni profonde attraverso la viadella montagna, superava la paura, il freddo, il pericolo,l’imprevisto.Nato a Bergamo il 22 giugno del 1930, Bonatti compiele sue prime ascensioni intorno ai diciotto anni sullePrealpi lombarde. Gli anni che lo consacrano al grandealpinismo sono quelli che vanno dal 1951 al 1965.Il suo nome resterà per sempre legato a due montagnein particolare, ricche di storia, fascino, successi e trage-die: il Monte Bianco e il K2. Nel 1951 sale il Gran Ca-pucin in cinque giorni di cui tre sotto la bufera; nel ’52è la volta dell’Aiguille Noire De Peuterey. L’anno se-guente svolge il servizio militare presso il sesto reggi-mento alpini dove avrà modo di incrementare la suapreparazione e le sue conoscenze in ambito alpino. Nel1953 effettua la prima salita invernale alla parete norddella Cima Grande di Lavaredo e la prima invernalesulla cima Ovest. Nel 1954 sale in solitaria, in sei gior-ni, il pilastro sud-ovest del Petit Dru, impresa indelebi-le nella storia dell’alpinismo.Il 1961 segna un anno tragico per l’alpinismo: Bonattiinsieme a due compagni tenta la scalata del pilone cen-trale del Freney sempre sul gruppo del Bianco, cima fi-no ad allora inviolata. Durante l’avvicinamento si uniscea loro una cordata francese composta da quattro scalato-ri; la salita viene compromessa da un mal tempo di ec-cezionale portata e durata che obbliga l’intero gruppo aritirarsi a soli cento metri dalla vetta, ne segue una di-scesa drammatica, dalla quale fanno ritorno solo in tre.Inverno 1963, Bonatti sale la parete nord del Grand Jo-rasses, impresa che sarà ripetuta da un’altra cordata so-lo dodici anni dopo. Nel 1965 chiude la sua carriera al-pinistica aprendo, in inverno e in solitaria, una spetta-colare nuova via sulla parete nord del Cervino.Ma il nome di Bonatti è strettamente legato anche al-

L’uomo e la montagnaWalter Bonatti: storia di una leggenda dell’alpinismo

di Alessandro Coffaro

Alessandro Coffaro

Con Bonatti scompare un tipo dialpinismo dai tratti epici nel quale la

tecnologia e la pianificazione non eranoaspetti particolarmente contemplati e

scientificamente gestiti; dove aimportanti risultati facevano da

contraltare grandi tragedie

Walter Bonatti

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l’intrigata e lunghissima polemica relativa alla conqui-sta del K2, seconda montagna più alta della terra, collo-cata all’interno della catena montuosa del Karakorum,al confine tra Pakistan e Cina.

La vicenda portò alla conquista, il 31 luglio 1954, diquesto gigante di roccia e ghiaccio di 8611 metri, salitodalla cresta sud-est del versante pakistano, una viachiamata Sperone Abruzzi, (dal nome di Luigi Amedeodi Savoia Duca degli Abruzzi che nel 1909 effettuò laprima esplorazione del massiccio), ad opera di AchilleCompagnoni e Lino Lacedelli, due dei tredici alpinistiche formavano la squadra di scalatori italiani capitanata

dal professor Ardito Desio. Il giorno precedente l’assal-to alla vetta, Bonatti è incaricato di portare le bomboledi ossigeno dal penultimo campo all’ultimo per conse-gnarle ai due alpinisti, ma giunto sul posto, a circa 8200metri di altezza, Bonatti scopre che l’ultimo campo èstato allestito più in alto del punto convenuto. Compa-gnoni e Lacedelli da lontano gli suggeriscono di lascia-re l’ossigeno e fare rientro al campo più in basso, maormai è tardi e Bonatti e il portatore Madhi sono co-stretti a passare una notte all’aperto a oltre ottomila me-tri di quota con temperature che arrivarono a -40°.Da questa vicenda è scaturita una polemica che è arri-vata ai giorni nostri quando, nel 2008, il Club alpinoitaliano (CAI) ha riconosciuto corretta la versione diBonatti. In tale circostanza, queste sono state le sue pa-role: «a cinquantatre anni dalla conquista del K2 sonostate finalmente ripudiate le falsità e le scorrettezzecontenute nei punti cruciali della versione ufficiale delcapo spedizione Ardito Desio. Si è cosi ristabilita, intutta la sua totalità, la vera storia dell’accaduto in quel-la impresa nei giorni della vittoria».La sua attività alpinistica oltre al Monte Bianco e al K2ha investito anche molte altre vette, sparse per il piane-ta: nel 1958 è in Patagonia dove oltre alla conquista dinumerosi picchi inviolati tenta l’ascesa al Cerro Torre,una bellissima struttura di granito di 3102 metri.Nello stesso anno partecipa alla spedizione di RiccardoCassin e raggiunge la vetta del Gasherbrun IV a quota

Le sue imprese alpinistiche, nell’arco diquindici anni, lo spinsero a osare dove

nessuno aveva immaginato, saliteestreme, invernali, in solitaria, dove il

massimo dell’ausilio tecnologico potevaessere rappresentato da un piccolo

barometro tascabile; imprese dove lavolontà di ricercare sensazioni profonde

attraverso la via della montagna,superava la paura, il freddo,

il pericolo, l’imprevisto

K2, versante sud

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di 7925 metri senza l’ausilio dell’ossigeno. Anche le Ande peruviane lo vedono protagonista nel1961 con l’ascesa di vette mai salite prima.

Ma l’attività di Bonatti, terminata quella alpinistica, con-tinua traslando dal mondo verticale a quello orizzontale:è straordinario esploratore dei grandi territori dell’Afri-ca, dell’America del Sud, dell’Australia. È inviato diEpoca e per questa rivista realizza numerosi reportagefotografici durante i suoi viaggi: esplora l’isola di Suma-tra per lo studio della tigre; visita le isole Marchesi; nel1970 raggiunge in solitaria Capo Horn e nel ’71 attraver-sa l’Australia; l’anno seguente è su alcuni vulcani delCongo e nel ’76 raggiunge l’Antartide.Dunque la sua voglia di conoscenza, avventura, esplora-

zione lo ha portato ad attraversare terre estreme e lonta-ne, permettendo, in questo modo, a chi non avrebbe maipotuto visitare questi luoghi di conoscere, attraverso isuoi reportage fotografici e la fluida capacità descrittiva,non solo la bellezza di zone remote, ma soprattutto il fa-scino dell’avventura e dell’ignoto.

Quando Bonatti decide di modificare il terreno di “gio-co” spostandosi dalla dimensione verticale a quella oriz-zontale, mantiene però sempre saldi due aspetti fonda-mentali della sua personale interpretazione della cono-scenza e della scoperta: l’aspetto di estremo, che non perforza coincide con l’esposizione e l’altitudine delle vette,e l’aspetto relativo al confronto uomo-natura elementofondamentale e principio sotteso ad ogni sua esperienza.Intraprendente, determinato, resistente, sensibile, genia-le. In questi tratti era racchiuso uno degli uomini chemaggiormente ha incarnato lo spirito di avventuradell’ultimo secolo e che ha contribuito con la suastraordinaria attività a spostare in avanti il limite dellepossibilità umane in termini di conquista e scoperta.

Il suo nome resterà per sempre legato adue montagne in particolare, ricche distoria, fascino, successi e tragedie: il

Monte Bianco e il K2

Intraprendente, determinato, resistente,sensibile, geniale. Il confronto uomo-

natura è stato il principio sotteso ad ogniesperienza di uno degli uomini che

maggiormente ha incarnato lo spirito diavventura dell’ultimo secolo e che ha

contribuito a spostare in avanti il limitedelle possibilità umane in termini di

conquista e scoperta

Monte Bianco

«La civiltà dell’empatia» Jeremy Rifkin e il futuro dell’uomo sul pianeta

Jeremy Rifkin è il presidente della Foundation on Economic Trends e autore di numerosi libri che affrontano il problema dell'impatto che i cambiamenti scientifici e tecnologici hanno su economia, lavoro, società e ambiente. Le sue pubblicazioni sono state tradotte in più di trenta lingue e utilizzate in moltissime università e agenzie governative di tutto il mondo. Nei suoi lavori ha affrontato tematiche importanti, come le biotecnologie, senza trascurare le numerose criticità di carattere etico legate alla genetica. Nel 1992 pubblica il saggio Ecocidio, che diventa il testo di riferimento del pensiero vegetariano e animalista. Nel 1995 scrive La fine del lavoro, attenta analisi sul declino della forza lavoro nell’era della globalizzazione. Nel 2010 esce in Italia il libro La civiltà dell'empatia, in cui Rifkin considera lo sviluppo della società in relazione allo sviluppo della capacità di empatizzare tra gli individui. Tale sviluppo è favorito dalla globalizzazione e dalle tecnologie ICT, ma al tempo stesso richiede un maggiore sfruttamento

delle risorse: e su questo nodo l’autore si chiede se l'umanità sarà in grado di sfruttare le risorse della globalizzazione per migliorare il modello di società grazie ad un "salto empatico" oppure se l'entropia derivante dal maggiore consumo di risorse raggiungerà un punto di non ritorno che provochi una regressione della capacità di empatizzare degli individui. Rifkin interviene periodicamente come opinionista pubblicando i propri interventi su numerosi quotidiani e periodici europei tra i quali il britannico The Guardian, lo spagnolo El Pais, L'Espresso e la Suddeutsche Zeitung in Germania.

«Oggi ci troviamo di fronte alla catastrofica prospettiva di raggiungere finalmente uno stato di empatia globale in un mondo interconnesso, ad alta intensità di energia, mentre il sempre più oneroso conto entropico minaccia di provocare un cataclisma climatico e mette in discussione la nostra stessa sopravvivenza. La risoluzione del paradosso empatia-entropia sarà molto probabilmente il banco di prova definitivo della capacità della specie umana di sopravvivere e prosperare in futuro sulla terra. Ma, per riuscire a vincere la sfida, sarà necessario un radicale ripensamento dei nostri modelli economici, filosofici e sociali…»

«Forse la domanda cruciale alla quale l’umanità deve dare una risposta è: possiamo raggiungere l’empatia globale in tempo utile per evitare il crollo della civiltà e salvare la terra?»

«La nostra memoria collettiva si misura in termini di crisi e calamità, di feroci ingiustizie e terrificanti episodi di brutalità che infliggiamo ai nostri simili e alle altre

creature. Ma se fossero questi gli elementi cardine dell’esperienza umana, l’uomo sarebbe già estinto da tempo.»

«C’è un’altra ragione per cui l’empatia attende ancora di essere esaminata seriamente in tutti i suoi aspetti antropologici e storici. Il problema è da identificare nello stesso processo evolutivo. La coscienza empatica si è sviluppata lentamente lungo il corso dei 175.000 anni di storia dell’umanità: a volte è fiorita, per poi regredire per lunghi periodi. Lo sviluppo dell’empatia e lo sviluppo del sé vanno di pari passo, e accompagnano la crescente complessità e sete di risorse delle strutture sociali che caratterizzano l’esistenza umana»

«Dato che lo sviluppo dell’idea del sé è assolutamente vincolato allo sviluppo della coscienza empatica, lo stesso termine “empatia” non è entrato nel vocabolario dell’uomo fino al 1909, più o meno nel periodo in cui la psicologia moderna ha cominciato a esplorare le dinamiche dell’inconscio e della coscienza. In altre parole, solo quando l’uomo ha raggiunto uno stadio di evoluzione della percezione del sé tale da cominciare a riflettere sulla natura dei suoi sentimenti e pensieri più riposti in rapporto a quelli degli altri, è stato in grado di riconoscere l’esistenza dell’empatia, trovare le metafore per discuterne e sondare i profondi recessi dei suoi molteplici significati.»

����

«Ritengo che ci troviamo al punto di svolta verso una transizione epocale a un’economia “climacica” globale e a un radicale riposizionamento della presenza dell’uomo sul pianeta. L’era della ragione sta per essere sostituita dall’era dell’empatia.»

«Il risveglio del senso di sé, innescato dal processo di differenziazione, è cruciale per lo sviluppo e l’estensione dell’empatia. Più è sviluppato e individualizzato il sé, più è grande la nostra percezione dell’unicità e caducità dell’esistenza, della nostra solitudine esistenziale e dell’infinità di sfide che dobbiamo affrontare per esistere e prosperare. Sono questi nostri sentimenti che ci permettono di provare empatia per sentimenti simili negli altri. Un sentimento

empatico più solido permette anche a una popolazione sempre più individualizzata di creare legami di affiliazione anche nell’ambito di organismi sociali sempre più interdipendenti, estesi e integrati. È questo il processo che caratterizza ciò che chiamiamo “civiltà”: il superamento dei legami di sangue tribali e la risocializzazione di individui distinti sulla base di legami associativi. L’estensione empatica è il meccanismo psicologico che rende possibili la conversione e la transizione. Quando diciamo “civilizzareì”, in realtà è come se dicessimo “empatizzare”.»

«Il nostro viaggio comincia nel punto in cui le leggi dell’energia che governano l’universo si frappongono alla predisposizione umana a valicare continuamente l’isolamento, cercando la compagnia dell’altro per mezzo di organizzazioni sociali sempre più complesse e affamate di energia. La dialettica implicita nella storia dell’uomo è il continuo anello di feedback fra espansione empatica e aumento dell’entropia.»

�«Il riconoscimento dell’esistenza finita dell’altro è ciò che collega la coscienza empatica alla consapevolezza entropica. Se possiamo identificarci con la sofferenza dell’altro, ciò che cerchiamo di sostenere e con cui empatizziamo è la sua volontà di vivere. Le leggi della termodinamica, e soprattutto la legge dell’entropia, ci dicono che ogni istante della vita è unico, irripetibile e irreversibile – invecchiamo, invece di ringiovanire -, e per questa ragione dobbiamo la nostra esistenza all’energia disponibile che sottraiamo alla terra, che costituisce il nostro essere fisico e ci tiene lontani dallo stato di equilibrio rappresentato dalla morte e dalla decomposizione. Quando empatizziamo con un altro essere, comprendiamo inconsciamente che la sua esistenza, proprio come la nostra, è fragile e finita, ed è resa possibile da un continuo flusso di energia.»��«Solo recentemente, però, siamo diventati consapevoli del fatto che dobbiamo il nostro benessere, almeno in parte, all’accumularsi del nostro personale debito entropico nell’ambiente che ci circonda.» da Jeremy Rifkin, La civiltà dell’empatia. La corsa verso la coscienza globale nel mondo in crisi, Milano, Mondadori, 2009

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Decisamente particolare, fuori dal comune rispetto aglistandard festivalieri, la giornata dedicata al WWF in occa-sione della VI edizione del Festival internazionale del filmdi Roma. Di certo non può passare inosservato il vivacissi-mo red carpet, invaso letteralmente da piccoli panda di car-tapesta e da quaranta bambini, nel ruolo di giovanissimisceneggiatori, truccati da animali a rischio di estinzione.Ma tra i piccoli panda e i piccoli sceneggiatori, si aggiun-gono al colorato cast di questo evento l’attore Luca Argen-tero e lo storico presidente onorario Fulco Pratesi.Per cominciare, presidente Pratesi, come valutaquest’incursione del WWF al Festival del film di Roma?Per me è un onore e un privilegio, in veste di presidenteonorario del WWF, presentare in anteprima questi bellissi-mi filmati insieme agli attori, ai giovanissimi sceneggiatorie a tutti i partner che li hanno resi concreti e realizzabilicon enorme generosità, regalando all’ambiente la propriaarte e la propria fantasia.Un red carpet giovane il vostro, che connessione c’è sec-ondo lei tra i ragazzi, il cinema e l’ambiente? Comepossono collaborare l’uno con l’altro?I ragazzi di oggi hanno nelle loro mani grandissime re-sponsabilità, da loro dipende il futuro del nostro pianeta eil cinema con il suo linguaggio emozionante è un grandealleato che può coinvolgere milioni di spettatori di tutte leetà nel comprendere l’importanza di proteggere il nostromeraviglioso pianeta.

Ma, parlando di un futuro immediato, i ragazzi comepotrebbero contribuire concretamente a salvaguardarela natura?I ragazzi per salvaguardare completamente la natura de-vono comportarsi in maniera più sensibile, evitando ad es-empio, acquisti inutili, evitando di sporcare con i rifiuti edi danneggiare piante e animali ma soprattutto aiutando leassociazioni, come il WWF, che si battono da sempre persalvaguardare la natura, l’ambiente e gli animali, in via diestinzione. Cominciando per esempio dall’acquisto di alcu-ni peluche rappresentanti diversi animali in via di es-tinzione, da noi direttamente prodotti.Vorrebbe parlarci allora del vostro progetto d’ani-mazione Il paradiso può attendere?Sì certamente, Il Paradiso può attendere è un progetto checi consentirà di tutelare alcune specie animali a serio ris-chio di estinzione e salvaguardare gli ambienti in cuivivono e, parlando dell’Italia, i due boschi da noi acquisitiche sono il bosco della foce dell’Arrone, vicino Roma, sullitorale e il bosco della Val Predina sulle Alpi del bergam-asco.Luca Argentero, ci vuoi parlare di questa tua miniopera prima? Si tratta di un videogioco surreale. Per-ché questa scelta così originale per trattare un tema,mai come oggi, di primaria importanza?I ragazzi devono avere la voglia di uscire dai giochi virtualie imparare a vivere, condividendo il quotidiano insieme

Cambia gioco: salva la natura!Fulco Pratesi e Luca Argentero al Festival internazionale del film di Roma

di Jacopo Bistacchia

Fulco Pratesi ha fondato ilWWF Italia nel 1966. Ol-tre al suo impegno nell’as-sociazione, dal 1975 al1980 è stato presidentedella LIPU (Lega italianaprotezione uccelli), dal1992 al 1994 deputato delParlamento italiano nelgruppo dei Verdi e dal1995 al 2005 presidente

del Parco nazionale d’Abruzzo. Ha progettato nume-rosi parchi nazionali e riserve naturali in Italia e al-l’estero. È stato membro della Consulta per la difesadel mare e del Consiglio nazionale dell’ambiente.Collabora con il Corriere della Sera e L’Espresso econ altre riviste specializzate. È autore, curatore e il-lustratore di numerosi libri. Al Festival internaziona-le del film di Roma ha presentato il film d’animazio-ne prodotto dal WWF Il paradiso può attendere.

Luca Argentero ha debutta-to nel 2005 nella serie tvCarabinieri. Nel 2006 è perla prima volta sul grandeschermo con il film A casa

nostra, di Francesca Co-mencini. Fra le pellicolenelle quali ha recitato ricor-diamo Lezioni di Cioccola-

to di Claudio Cupellini(2007), Saturno contro di

Ferzan Ozpetek (2007), Solo un padre di Luca Lucini(2008), Il grande sogno di Michele Placido (2009), Di-

verso da chi? di Umberto Carteni (2009), che gli è val-so la candidatura al David di Donatello come Migliorattore protagonista. Nel 2010 debutta in teatro con lospettacolo Shakespeare in Love, per la regia di NicolaScorza. Attualmente conduce, con Enrico Brignano eIlary Blasi, il programma televisivo Le Iene. È al Festi-val internazionale del film di Roma per presentare ilcortometraggio da lui prodotto Ora tocca a te: cambia

gioco, salva la natura e come doppiatore di un simpati-co dodo nel cartoon Il paradiso può attendere.

inco

ntri

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agli amici e allafamiglia, cercando ilcontatto diretto con lanatura, per capirne ilvalore e l’importanza.Dunque è questo ilmessaggio fondamen-tale del tuo lavoro:abbandonate le re-altà virtuali e risco-prite il contatto conla natura?Esattamente. È proprioquesto il messaggioche con il primo cortoprodotto da me e Myri-am (Catania N.d.R.) econ Il paradiso può at-

tendere vogliamo far passare. Tutti noi dobbiamo seriamenteimpegnarci per una battaglia concreta, tangibile, perchébisogna rendersi seriamente conto che a rischio c’è la so-pravvivenza di tutte le specie viventi, compresa la nostra.Come è nata la collaborazione con il WWF? Hai avutoda sempre questo interesse nei confronti delle tematicheambientali?Non è affatto una novità per noi, io e Myriam abbiamosempre riservato un’attenzione particolare a tutto ciò che dinaturale ci circonda. Possediamo anche una nostra piccolapersonalissima “oasi”, ovvero un piccolo casale che abbi-amo costruito in Umbria che ad oggi rimane, forse, la nos-tra più grande soddisfazione e sono molto orgoglioso di es-sere riuscito a ritagliarmi uno spazio, con della terra, dovenon è il cemento a regnare sovrano!Un interesse che ha radici profonde mi sembra dicapire…Sì, ho avuto la fortuna di crescere in campagna e di averedei genitori e dei nonni che, portandomi nell’orto con loro,sin da quando ero molto piccolo, hanno contribuito forte-mente a far sì che mi innamorassi della natura. “In-namorassi” nel vero senso del termine, dato che quest’annoil mio primo piccolo orto l’ho fatto da solo, ho 200 ulivi eogni tanto prendo la macchina, vado in campagna, me liguardo, me li abbraccio e ritorno indietro.Il tuo cortometraggio sembra rivolgersi soprattutto ai

più giovani, non soloadolescenti, ma an-che bambini.Proprio così, l’argo-mento “nuove gener-azioni” infatti è quelloa cui sono più sensi-bile ed è il motivo percui mi trovo qui oggi eper cui, oltre al cartoneper il quale presto lamia voce, presento an-che questo piccolovideo prodotto diretta-mente da noi. Questa èla direzione in cui miinteressa andare, unadirezione in cui sia

possibile sensibilizzare quelli a cui lasceremo questo “mis-ero mondo”, che sono coloro che avranno l’onere, il com-pito, di fare quello che in parte, ora più che mai, non sti-amo facendo noi.Oggi è sempre più facile, soprattutto per i più giovani,crearsi un mondo virtuale a casa, probabilmente molti diloro non sono mai andati in un bosco, probabilmente nonsanno come sia fatta la pianta di una melanzana. Ho per-sonale esperienza di ragazzi che veramente non hanno maitoccato con mano più di qualcuna di tutte le cose che pas-sano sulla loro tavola, non sanno da dove arrivano, nonsanno come crescono, non sanno come sono fatte le piantee non hanno mai provato il piacere di tornare stanchi estremati dopo una passeggiata in mezzo ai boschi.E che consiglio ti sentiresti di dare a queste nuovegenerazioni?Non è facile ascoltare veramente consigli di questogenere in un mondo in cui tutto sembra remare contro: ivideogiochi, la città che cresce, che si mangia letteral-mente gli spazi intorno a noi. Ma io sono più convintoche mai di poter garantire una cosa, provateci almeno unavolta, prendetevi un sabato pomeriggio per fare qualcosaall’aperto, andate a perdervi su qualche sentiero, su unaspiaggia, in un parco, in un’oasi WWF appunto e sono si-curo che passerete una bella giornata. Poi quando tornatemi racconterete.

Il paradiso può attendereIl cartone si apre con una curiosa riunione nel paradiso de-gli animali estinti, dove la leonessa berbera, il dodo, il moa,l’uro e molti altri si chiedono come salvare dall’estinzionele specie animali minacciate dall’inquinamento e dalle atti-vità dell’uomo, definito il “Sapiens Sapiens che non Sa-

piens niente”. La salvaguardia della biodiversità è affidata ad un coraggioso Dodo e al simpatico Orso bianco, che in-segneranno all’uomo a rispettare la natura e il mondo animale.I piccoli autori che hanno realizzato la sceneggiatura sono ragazzi dalla Scuola primaria S. Marone di Civitanova Mar-che. Il cartone animato è contenuto in un dvd, in vendita a partire dal 23 novembre. Parte del ricavato del dvd andrà alla tu-tela dei boschi italiani. Molti personaggi dello spettacolo e amici del WWF hanno prestato la propria voce per rendere il cartoon ancora piùunico: Luca Argentero, Francesco Facchinetti, Gabriella Pession, Francesco Venditti, Ezio Greggio, Enzo Iacchetti e ilpiccolo Andrea Di Maggio, che saranno anche i protagonisti dei contenuti speciali del dvd.

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In questo numero parliamo di ambiente. Il complessorapporto tra l’uomo e la natura è molto cambiato negliultimi secoli. Nelle società industriali il rapporto con lanatura è valutato in base al costo e al profitto. Cosa si èperso e quali saranno secondo lei le conseguenze?Innanzitutto va detto che in quest’ultimo secolo si èsfruttato troppo le risorse naturali e che avremo seri pro-blemi per il futuro. Prima di arrivare al problema dell’in-quinamento dovremo affrontare il problema delle risorse,dal momento che quest’ultime risultano già oggi insuffi-cienti al sostentamento della crescente popolazione mon-diale. Dovremo affrontare un problema di natura econo-mica e sociale. D’altronde da decenni assistiamo alla mi-grazione più o meno pacifica di popoli poveri verso lezone economicamente più sviluppate e naturalmente que-

sta migrazione può comportare uno sbilanciamento pla-netario. Dal punto di vista pratico bisognerebbe comin-ciare a pensare a un nuovo sistema educativo, che traggaforza da nuovi valori sociali, che tenga conto dell’am-biente, del rispetto del territorio, del contributo degli ani-mali. La nuova educazione dovrebbe insegnare all’uomocome utilizzare saggiamente tutte le risorse del pianeta inmodo responsabile e razionale.

In molte tradizioni/cosmogonie orali ma non solo, laNatura, la Terra è chiamata madre. Sono tradizioni lo-cali, spesso considerate pagane, che testimoniano tutta-via una radice forte, una necessità dell’uomo di viverein sintonia con la natura. Qual è la differenza sostan-ziale tra una società che vive in armonia con l’ambien-te e una società che sfrutta l’ambiente? In queste società, considerate erroneamente primitive,c’è un bilancio ecologico tale che le persone ricevono damadre natura una parte del dono, restituendone altrettan-to; sono società che per esempio riciclano tutto. Il pro-blema dell’inquinamento si riflette non solo nell’aria, maanche nell’acqua, due elementi che già da soli possonoincidere sulla produzione agricola: potrebbe voler diremeno cibo per tutti. Quindi quando parliamo di inquina-mento dovremmo innanzitutto capire che parliamo di unacosa molto seria con effetti immediati sul sistema mon-do. E poi bisogna pensare al domani, al mondo che la-sciamo ai nostri figli. Basta lo spostamento di un corsod’acqua verso un altro versante perché cambi un ecosi-stema, e non soltanto per mancanza di acqua ma per ilfatto che quell’acqua portava elettroni che arricchivano ilterritorio durante il suo passaggio. Ecco, le cultura anti-che avevano ben presente questo aspetto, erano consape-voli del valore intrinseco dell’ambiente e questo valore siriscontra ancora oggi nelle società la cui economia è abase agricola…

La Pachamama te hablaIntervista a Hernán Huarace Mamani

di Alessandra Ciarletti

Dal punto di vista pratico bisognerebbecominciare a pensare a un nuovo sistema

educativo, che tragga forza da nuovivalori sociali, che tenga conto

dell’ambiente, del rispetto del territorio,del contributo degli animali. La nuova

educazione dovrebbe insegnare all’uomocome utilizzare saggiamente tutte le

risorse del pianeta in modo responsabilee razionale

Già da tempo la biologia ha messo inevidenza che una donna da un punto di

vista energetico ha più risorse dell’uomo.E queste maggiori risorse sono un vero e

proprio dono di madre natura pergarantire la sopravvivenza del genere

umano

Indio Quechua, nato a Chivay, un villaggio situato nel Gran Cañón delColca, Hernán Huarache Mamani si è laureato all’Università UNSA diArequipa ed è un docente universitario di fama internazionale, esperto dicultura andina, infaticabile studioso dell’antico Perù. In quanto speciali-sta delle antichità locali, scrittore e saggista, è uno dei pochi intellettualiin grado di decifrare i misteri insiti nelle costruzioni e iscrizioni del mon-do peruviano. Grazie all’ampia conoscenza delle lingue indigene, è riu-scito a porsi in contatto con sapienti che vivono nell’anonimato, sulle An-de. Il risultato di queste esperienze si è tradotto in libri dallo straordinariosuccesso: La Pachamama te habla, El poder de la mujer – che gli valse ilpremio Olbia Multietnica, nel 2005, in Sardegna – La mujer de la cola de

plata, La inmortalidad perdida, Inkariy 2012 Al umbral de una nueva era, opere tradotte in svariate lingue econsiderate dei bestseller.

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Lei è un indio Quechua e secondo la tradizione andi-na le donne possiedono un’energia straordinaria, lasola capace di riportare pace ed equilibrio nel mon-do. Nel lavoro che porta avanti da anni, lei ha messoa fuoco due figure fondamentali nella costruzione diuna società “sana”: la donna e il bambino. Perché? Allora prima ancora di affrontare questo tema da unpunto di vista sociologico, vorrei precisare che già datempo la biologia ha messo in evidenza che una donnada un punto di vista energetico ha più risorse dell’uomo.E queste maggiori risorse sono un vero e proprio donodi madre natura per garantire la sopravvivenza del gene-re umano. Anche in questo ambito, come dicevo pocofa, abbiamo bisogno di un nuovo tipo di educazione,perché la maggior parte dei sistemi formativi di oggimettono in risalto la parte materialistica, mentre è ne-cessario aggiungere la parte spirituale e la donna, cheper sua natura è molto in contatto con la terra, può svol-gere un ruolo fondamentale per il sano sviluppo del pia-neta. È per questa ragione che da anni sono impegnatoin un progetto educativo che si chiama La scuola della

vita e della pace: qui i bambini imparano a usare la pro-pria energia facendo tanti lavori creativi, manuali, e dalmomento che riteniamo che il gioco abbia un ruolo fon-damentale nella crescita, i nostri studenti giocano molto.Questa attenzione al gioco deriva dal fatto che ritengoche la dimensione giocosa nella società evoluta sia statamolto penalizzata, a vantaggio di un’applicazione co-stante del pensiero nella sua forma lineare. In questonuovo percorso educativo grande rilievo è dato allacreatività, assolutamente innata nei bambini, che va sti-molata e non va bloccata, cosa che avviene nei più co-muni sistemi formativi. Basta pensare a quanti divieti

immotivati sottoponiamo un bambino: non saltare, nonfare così, non sporcarti etc. Questi divieti inibiscono losviluppo creativo del bambino e non favoriscono l’equi-librio energetico. A trentacinque anni un essere umanoutilizza il 2% della creatività che aveva durante l’infan-

zia: il pensiero deve essere mobile, fluido. La mente habisogno di creatività e la creatività, come ci insegna an-che la storia, è in grado di apportare grandi cambiamentinelle società. Quando parliamo dei bambini, usiamospesso senza dargli peso l’espressione “sono un vulcanodi energia”… penso che dovremmo riappropriarci delsenso più complesso di questa frase, aiutando i bambinia canalizzare questa energia verso la creatività, ristabi-lendo un percorso di continuità con la storia degli ante-nati, presso i quali la creatività era maggiormente asse-condata. Bisogna lavorare affinché ciascun uomo risco-pra le proprie radici, lì l’essere trova nutrimento. Il se-condo aspetto importante è che all’interno di questonuovo contesto educativo, basato sulla creatività, si pun-ta molto sulla donna, perché è lì che comincia la vita, lacreazione. Nella cultura andina la donna è il fulcro dellavita e portatrice di amore, e l’amore che la donna libera

Pachamama significa Madre cosmica,Madre celeste, Madre natura, colei checomprende ogni cosa. Grazie a lei gli

esseri viventi entrano a far parte di uningranaggio cosmico, di un piano

universale che comprende tutto ciò che èstato creato

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mentre fa una qualsiasi azione è una forza enorme attra-verso la quale si nutre lo stesso pianeta. E questa ener-gia liberata dalla donna è settantacinque volte più eleva-ta di quella che libera un uomo. Infine c’è un dato biolo-gico che non può essere ignorato: ciascuno di noi vieneda una donna, dobbiamo onorare la nostra origine!E questo ci porta a parlare della Pachamama.Il rito della Pachamama appartiene alla religione andina.Pachamama significa Madre cosmica, Madre celeste,Madre natura, colei che comprende ogni cosa. Grazie alei gli esseri viventi entrano a far parte di un ingranag-gio cosmico, di un piano universale che comprende tuttociò che è stato creato. Pachamama è una sorta di ricono-scimento che l’uomo fa alla natura e certamente il cultodella Pachamama è un riconoscimento del ruolo che ladonna svolge nei confronti dell’universo, rispetto alquale il ruolo maschile è più circostanziale. Anticamentesulle Ande esisteva una religione di tipo femminile, eraappunto la religione della Madre natura. Per millenni gliandini abbracciarono questa religione facendosi guidaredai suoi principi. Più in generale in base a questa tradi-zione ogni elemento è in relazione con il cosmo, è partedel tutto: così la terra è in relazione col sole e con la lu-na e attraverso la loro straordinaria quantità di elettroni,che arrivano sulla terra come una sorta di pioggia, èpossibile la vita.Che ruolo hanno gli animali?Gli animali hanno soprattutto un ruolodi insegnamento: osservando con atten-zione ciascun animale possiamo impa-rare molte cose. Questo ruolo la culturaandina lo riconosce completamente e sabene quanto l’equilibrio dell’intero eco-sistema dipenda anche da loro.Lei nei suoi lavori parla dei grossisconvolgimenti climatici che subirà laTerra e parla di Sesta umanità, unanuova fase di crescita spirituale in cuiil ruolo fondamentale è svolto dalladonna. Quando si fa una profezia o ci si basasulla teoria o sulla conoscenza: in que-sto caso la profezia che noi facciamo èbasata sui principi matematici, perchétramite la matematica si fa il calcolo

astronomico che ci aiuta a comprendere meglio i cam-biamenti cui va incontro il pianeta. Lo schermo protetti-vo del pianeta sta cambiando e questo schermo crea ed ègarante di un ecosistema che, come tutti sappiamo, stacambiando. Questo cambiamento creerà problemi al no-stro pianeta perché, anche se l’uomo è piccolissimo inconfronto a esso, il lavoro che fa può danneggiarlo mol-tissimo ed è proprio quello a cui stiamo andando incon-tro. Basta pensare alla corrente calda del Golfo: sappia-mo che sta cambiando e il suo cambiamento produrràinevitabilmente catastrofi naturali. A seguito di questocambiamento muterà la consistenza dell’aria, dell’ac-qua, delle nuvole… la terra è un sistema unitario, bastache qualcuno schiacci un tasto sbagliato e tutto può an-dare in frantumi. Anche qui, a mio avviso, torna il ruolo

della donna: proprio per questa sua innata capacità di ra-dicarsi alla terra, la donna può contribuire direttamentealla sua salvezza. È un dato di fatto che fintanto che allaguida delle società antiche ci sono state le donne, questeabbiano conosciuto, a diverse latitudini, la cosiddetta etàdell’oro. Al contrario, quando gli uomini hanno capo-volto questo sistema abbiamo conosciuto violenza, mor-te, sofferenza. Avendo la donna amore, la donna ha po-tere; l’uomo ricerca il potere e fa di tutto pur di ottener-lo. Se il rapporto donna–uomo è in equilibrio, è armo-

nioso, l’umanità potrà fare un grandepasso verso il proprio benessere com-plessivo. Ma per arrivare a questo è in-nanzitutto necessario che la donna si ri-appropri della propria forza, energia, di-mensione. «Il giorno che amerai, cono-scerai e rispetterai te stessa, scopriraiche la terra comunica con te, che la Pa-chamama possiede un linguaggio attra-verso il quale le montagne ti parlano, ifiumi ti mormorano e le sorgenti ti con-sigliano. Allora saprai che sei un tutt’u-no con l’universo, che sei come l’acquache si espande. Il giorno che ti accette-rai davvero, orizzonti sconosciuti ti sischiuderanno». La donna è il ponte tesoverso l’eternità, è il senso morale, intel-lettuale, spirituale. La donna è uno statodi coscienza attivo.

«Il giorno che amerai, conoscerai erispetterai te stessa, scoprirai che la terra

comunica con te, che la Pachamamapossiede un linguaggio attraverso il

quale le montagne ti parlano, i fiumi timormorano e le sorgenti ti consigliano.

Allora saprai che sei un tutt’uno conl’universo, che sei come l’acqua che si

espande. Il giorno che ti accetteraidavvero, orizzonti sconosciuti ti si

schiuderanno»

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Come tutt i anch’io hosempre sentito parlare diPalestina e di conflitto inMedio Oriente. Ma unacosa è parlarne, un’altra èvedere con i propri occhi.E chi vede racconta. Co-me ci è stato richiestofare, a gran voce, da tuttii rappresentanti delle am-ministrazioni locali cheabbiamo incontrato nel

viaggio fatto in Palestina nel luglio scorso.Entrando in Palestina il primo forte impatto è con il mu-

ro. Realizzato in pannelli di cemento alti otto metri contanto di filo spinato, telecamere, torrette d’osservazionee strade di pattugliamento. La sua costruzione è iniziatanel 2002 ed è stato dichiarato illegale già ai primi tre-centosessanta chilometri dal Tribunale Internazionaledell’Aja. Ora ne sono stati realizzati settecentosettantadi chilometri, molto più del doppio di tutto il confinedella Cisgiordania, e non è ancora finito. Per piùdell’80% va oltre la Linea Verde di confine, entrandoper ventidue km nei territori palestinesi. Qui la frontieranon è un punto fisso, stabilito, ma un qualcosa in co-stante movimento, rimodellata in base alle nuove “sicu-

rezze”. Il muro è un serpentone mostruoso di cementoche, a guardarlo, blocca il respiro. Circonda città e vil-laggi, quasi entra nelle case, divide le campagne e persi-no i cimiteri, isolando tutto e tutti. Un esempio è la cittàdi Qalqilya che ha una sola strada di accesso con tantodi check-point. Subito dopo la realizzazione del muronon si poteva entrare né uscire dalla città, quindi la dis-occupazione aveva superato il 70% e i contadini, nonpotendo più raggiungere i propri campi per lavorarli, so-no stati costretti ad abbandonarli. Qualcuno ancora resi-

ste ma deve richiedere un permesso giornaliero per po-tersi recare ai campi; nel periodo della raccolta delle oli-ve possono ottenere un permesso per un massimo di 30giorni, ma da rinnovare giornalmente. All’ingresso dellacittà lo scorso anno, è stato trapiantato un ulivo di 2000anni, sradicato durante la costruzione del muro, ora vivo

Terra e vitaIl territorio architettato nella Palestina

di Maria Gabriella Gallo

Maria Gabriella Gallo

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Entrando in Palestina il primo forteimpatto è con il muro. Realizzato in

pannelli di cemento alti otto metri contanto di filo spinato, telecamere, torrette

d’osservazione e strade dipattugliamento

56 e vegeto, ribattezzato «simbolo della resistenza». Il mu-

ro ha rubato alla città oltre il 40% del territorio. Le flut-tuazioni in tutto il suo tracciato indicano ciò che devepassare da una parte, ovvero, porzioni di territorio, ri-sorse idriche, archeologia, storia, economia, colonie eciò che deve rimanere dall’altra, persone intrappolate.Questo si è ripetuto in tante altre città e villaggi e un po’ovunque la popolazione è stata costretta ad abbandonarecampi e case.

È la legge degli assenti: «secondo la normativa, in vigo-re a tutt’oggi, il proprietario di una terra o di una casaperde ogni diritto se non utilizza o vive in quella terra oin quella casa. La proprietà passa allo Stato». Attraversol’interpretazione di una legge risalente al periodo otto-mano (1858), sulla terra, circa il 40% del territorio dellaCisgiordania è stato dichiarato terra di stato. Compresa

la cosiddetta terra morta, quella fascia di protezione in-torno agli insediamenti che deve rimanere deserta e inu-tilizzata.

È su questi terreni che sono nate le colonie, nonostantefossero state proibite dalla quarta Convenzione di Ginevrae dai regolamenti del Tribunale dell’Aja ed è per questoche i confini non possono essere stabiliti.Le colonie, situate su colline strategicamente importanti,sono vere e proprie lottizzazioni complete di tutti i servizi,compresa una fitta rete stradale, realizzata negli ultimi de-cenni, che ha sottratto un’ulteriore porzione di terra. Lenuove arterie sono state realizzate a uso esclusivo dell’e-sercito e dei coloni. Sono strade larghe, a più corsie, illu-minate e anche arredate con sculture, ovviamente interdet-te ai veicoli con targhe palestinesi, ai quali sono riservatealtre strade, strette e tortuose. Questo uso improprio delleterre ha notevolmente limitato lo sviluppo sia urbano cheagricolo, oltre che economico, dei palestinesi. Nei nostrispostamenti abbiamo percorso sia le une che le altre stra-de, avevamo voglia di sentire e vedere più cose e voci

Qui la frontiera non è un punto fisso,stabilito, ma un qualcosa in costantemovimento, rimodellata in base alle

nuove “sicurezze”. Il muro è unserpentone mostruoso di cemento che aguardarlo blocca il respiro. Circondacittà e villaggi, quasi entra nelle case,

divide le campagne e persino i cimiteri,isolando tutto e tutti

All’ingresso della città di Qalqilya loscorso anno è stato trapiantato un ulivo

di 2000 anni, sradicato durante lacostruzione del muro, ora vivo e vegeto,

ribattezzato «simbolo dellaresistenza»

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possibili: come quella del governatore di Gerico, la cittàpiù antica al mondo, le cui prime testimonianze risalgonoa dodicimila anni fa. È anche la città più bassa, si trova a250 metri sotto il livello del mare: la più ricca della zonadi risorse idriche, soddisfa il fabbisogno di un terzo di tut-ta la Cisgiordania.L’acqua e l’aria di Gerico, come tutta la valle del Giorda-no, sono particolarmente ricche di minerali preziosi e l’a-ria contiene almeno il 7% in più di ossigeno.Le risorse del fiume Giordano e di tutta la valle sono con-trollate e gestite dalle autorità occupanti: e ai palestinesi èdestinato solo l’8,2% delle risorse disponibili.La valle del Giordano era considerata il tappeto verde del-la Palestina est. Oggi il deserto avanza ma è facile vederedelle rigogliose macchie verdi: sono le colonie che capta-no l’acqua anche a 400 metri di profondità e questo raffor-za il luogo comune che gli israeliani sanno coltivare i ter-reni e i palestinesi no. Con l’acqua tutto è più semplice. Quindi l’acqua del fiume Giordano è sempre più scarsa einquinata, vi scaricano i collettori degli insediamenti, lefabbriche, i prodotti chimici dell’agricoltura e una granquantità è prelevata alla sorgente. Arriva sempre meno ac-qua nel Mar Morto, situato a 450 metri sotto il livello delmare, che si alimenta del fiume Giordano, e che, di conse-guenza, si abbassa di un metro ogni anno.Ma non è solo la valle del Giordano a soffrire la mancanzad’acqua. Questo diritto è negato in tutta la Palestina: è im-pedita la costruzione di reti idriche, di pozzi ma anche l’u-so di quelli esistenti, oltre allo sviluppo di impianti di rici-

clo e trattamento delle acque reflue. Gran parte della po-polazione vive di agricoltura e pastorizia; dalla coltivazio-ne di grano e cereali alla produzione di formaggi e lana. Ilpiù delle volte sono resi impossibili i lavori agricoli comel’aratura dei campi, perché vengono sequestrati i mezziper il lavoro, vengono chiuse le strade di accesso, negati ipermessi per la raccolta delle olive, potati drasticamentegli alberi. Nei primi otto mesi del 2011 sono stati sradica-

ti, , tagliati o dati alle fiamme oltre 6680 alberi.Alcuni gruppi di beduini sono costretti a vendere parti digregge per comprare acqua e cibo (anche per gli animali)e non possono più spostarsi come prima ma devono renderconto ai coloni. Succede anche che i loro pozzi e i loro pa-scoli vengano avvelenati con sostanze tossiche: il bestia-me muore o si ammala e in questo caso non possono nean-che comprare i vaccini.

La valle del Giordano era considerata iltappeto verde della Palestina est. Oggi ildeserto avanza ma è facile vedere delle

rigogliose macchie verdi: sono le colonieche captano l’acqua anche a 400 metri di

profondità e questo rafforza il luogocomune che gli israeliani sanno coltivarei terreni e i palestinesi no. Con l’acqua

tutto è più semplice

Vivere con pochi litri d’acqua al giorno è molto difficile emortificante. Come è mortificante quando si passa per lestrade dei suq, da Hebron a Gerusalemme, come da Gericoa Nablus, vedere sopra la propria testa tutta una estensionedi reti volte a trattenere i rifiuti che arrivano dai piani su-periori, buttati giù dai coloni che vi abitano.In tutta la Cisgiordania non esiste un piano di smaltimentodei rifiuti solidi urbani, né si riesce a pensare a un ambien-

te come bene comune. Non posseggono terreni da adibirea siti per lo smaltimento dei rifiuti. Questi sono raccolti ingrossi contenitori di ferro e di notte bruciati, con un graveinquinamento dell’ambiente e a scapito di un equilibrionaturale. È l’esempio più eclatante dell’interrelazione fraconflitti politici e degrado ambientale.L’occupazione è umiliante ma l’aspetto più umiliante è lamancanza di libertà. Questo è ciò che si può vedere in Pale-stina, questo è anche la Palestina. Una terra che seppur can-cellata dalle carte geografiche continua a vivere nel suo po-polo, che dalla nakba del 1948 ha iniziato a perdere quelliche sono i beni primari della vita. La natura è stata flagella-ta dalla deviazione dei corsi d’acqua, dalla mancanza dipossibilità di coltivazione dei terreni, dal fuoco, dalla realiz-zazione del muro dell’apartheid, dalle innumerevoli nuovestrade realizzate per separare gli uni dagli altri, dalla costru-zione di vere e proprie oasi abitate da pochi eletti, contro ildeserto che avanza dove vivono i palestinesi e i beduini.«Su questa terra c’è qualcosa che merita la vita» MahmudDarwish

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Per approfondimenti:Amnesty Internationalhttp://www.amnesty.it/Rapporto-Annuale-2010/Israele-Territori-palestinesi-occupati

http://www.amnesty.it/israele-accellera-piani-espansione-dopo-voto-unesco

http://www.amnesty.it/Gaza-il-blocco-israeliano-soffoca-la-vita-quotidiana.html

http://www.amnesty.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/2725

Carovane dell’acquahttp://www.contrattoacqua.it/public/journal/index.php?v=219&argm=219&c=22

Associazione Colombahttp://www.operazionecolomba.com/index.php

http://www.forumpalestina.org/

Eyal Weizman, Architettura dell’occupazione, Milano Mondadori 2009

This is my land... Hebron, di Giulia Amati e Stephen Natansow, Italia (2010)

Governatore della Provincia di Gerico e sindaco del Comune

Governatore della Provincia di Qalqilya

Sindaco del Comune di Betlemme

«Il cielo sopra di me era ilpiù azzurro degli azzurriintensi. [...] Erano le ottoin punto quando uscii instrada, le otto di quel mat-tino dell’11 settembre2001 - solo quarantacin-que minuti prima che ilprimo aereo si schiantassecontro la Torre NordWorld Trade Center. Sol-tanto due ore dopo, il fu-mo di tremila corpi carbo-nizzati sarebbe stato por-

tato dal vento verso Brooklyn e si sarebbe posato su di noiin una bianca nube di ceneri e morte. Ma per il momentoerano ancora le otto e, mentre camminavo lungo il vialesotto quello splendido cielo azzurro, ero felice, amici miei,l’uomo più felice che sia mai vissuto». (Paul Auster Follie

di Brooklyn).

Viaggio estivo 2011: uno sguardo più approfondito a NewYork.Prima della partenza decido di leggere qualcosa per co-minciare a prendere confidenza con l’ambiente newyorke-se, possibilmente fuori dai confini dell’isola di Manhat-tan. E allora cos’è meglio di un libro di Paul Auster? Fol-

lie di Brooklyn si conclude con quanto citato e solo dopoaver letto queste frasi ho realizzato che stavo tornando aNew York alla vigilia del decimo anniversario del 9/11.Immancabilmente la memoria è corsa alle immagini cheper giorni hanno riempito gli schermi del mondo intero. Inuna splendida mattina di settembre il cuore finanziario diManhattan viene sconvolto da un attentato: due aerei di li-nea centrano in pieno entrambe le Twin Towers. La se-quenza è quasi cinematografica, la freddezza dell’impatto,gli incendi e il collasso delle torri sono terribilmentescioccanti. New York, l’America, il mondo intero riman-gono attoniti. Dopo la compulsiva attività dei soccorsi,subentrano l’amara e straziante consapevolezza del doloreprivato di chi ha perso i propri cari nell’attentato e il terro-re collettivo di una vita non più libera, ma costantementeesposta a minacce di follia omicida. Il luogo dove sorge-

vano le Torri Gemelle comincia a essere identificato conl’espressione Ground Zero, nome tristemente adatto a de-scrivere quanto rimasto: nulla. Tutto è volato via in un fu-mo denso e grigio che per giorni ha oscurato gran parte diNew York, tutto si è fermato. Improvvisamente la metro-poli della finanza mondiale, della vita frenetica e dellemille luci si blocca. Per mesi interi la città ha rischiato latotale paralisi: bloccati i trasporti – quello del World TradeCenter era uno degli snodi fondamentali della fitta retemetropolitana – bloccata la finanza, la politica, la popola-zione. Molti residenti scelgono di abbandonare l’isola de-gli eccessi, non c’è più spazio per loro a New York. Lower Manhattan – la zona degli uffici e di Wall Street –diventa sempre più spettrale, molte società cambiano indi-rizzo e abbandonano anche le zone limitrofe a Ground Ze-

ro. Lo sguardo sulla città è irrimediabilmente cambiato ela profonda ferita sembra difficile da rimarginare. A di-stanza di dieci anni però New York appare diversa da queigiorni; la zona dove sorgevano le due torri è al centro diun vasto piano di ricostruzione che porterà alla realizza-zione del New World Trade Center – un complesso archi-tettonico con cinque nuovi grattacieli, compresa la cosid-detta Freedom Tower, una nuova stazione e il National

September 11 Memorial & Museum. Questa rinnovata vi-talità sta coinvolgendo la città intera con progetti dalla di-versa finalità, ma quasi tutti rivolti in un’unica direzione:

Keep it wild11 settembre: New York, dieci anni dopo

di Fabiana Iannilli

Fabiana Iannilli

Il luogo dove sorgevano le Torri Gemellecomincia a essere identificato conl’espressione Ground Zero, nome

tristemente adatto a descrivere quantorimasto: nulla. Tutto è volato via in unfumo denso e grigio che per giorni ha

oscurato gran parte di New York”

Uno scatto di Brooklyn Heights: panoramica sul luogo dove sor-gevano le torri 59

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l’attenzione al verde. Tra gli ambiziosi obiettivi che il sin-daco Michael Bloomberg si è posto, c’è quello di trasfor-mare New York in una delle più influenti metropoli verdi.La corsa all’ecologico e alla riduzione delle emissioni deigas è diventata uno dei trend delle amministrazioni cittadi-ne di mezzo mondo. Nel caso specifico New York si è do-tata del PLANYC 2030, una fitta agenda che racchiudetutti i progetti per costruire una nuova città, migliore e piùverde, e le iniziative in questo senso sono tantissime. Già

dal 2009 un tratto della Broadway, all’altezza di TimesSquare è stata trasformata in isola pedonale. Dopo un ini-ziale scetticismo, cittadini, commercianti e turisti hannoaccolto con entusiasmo questa novità. Stanno aumentandoa vista d’occhio le piste ciclabili, circa 400 km negli ultimiquattro anni; sono in fase di lancio programmi di bike sha-ring che porteranno alla Grande Mela un cospicuo numerodi due ruote a nolo per residenti e turisti. Tanti i ristorantibiologici o con prodotti a km zero per non parlare della

Panoramica di Manhattan da Ellis Island, il grattacielo in costruzione è la Freedom Tower

Highline: installazione artistica. A sinistra un tratto del percorso della passeggiata elevata con le piante

proliferazione di mercati e supermercati dove non propriotutto è biologico ma comunque naturale. Opzione ecologi-ca anche per la ristrutturazione dell’Empire State Buil-ding: obiettivo dei nuovi proprietari del grattacielo simbo-lo di New York è quello di ridurre i costi del consumoenergetico, migliorando l’isolamento termico delle fine-stre dell’edificio, impedendo così la dispersione del caloreinvernale e del condizionamento estivo oltre a realizzareun nuovo sistema di aerazione a ridotto impatto ambienta-le. Altro splendido esempio di svolta verde è stata la riqua-lificazione della High Line, la ferrovia sopraelevata che

abbraccia il Meatpacking District e West Chelsea, fermadal 1980 e prossima alla demolizione. Un gruppo no profitdi privati cittadini con il supporto dell’amministrazionecomunale, ha realizzato l’ambizioso progetto di recuperareil percorso della ferrovia e restituirlo alla città come parco.Il primo tratto di questa passeggiata, sospesa a nove metridi altezza dal traffico cittadino, è stato inaugurato a giu-gno del 2009 e nell’estate del 2011 è seguita l’inaugura-zione della seconda sezione.Si tratta di un percorso di circa quattro km, inserito nel-l’ambiente fortemente post industriale di Manhattan, ca-ratterizzato da piante e fiori che sembrano crescere selvag-gi al motto di keep it wild tra edifici di design, galleried’arte, ex magazzini, binari e banchine recuperate dalla

ferrovia originaria degli anni trenta.Nonostante questi esempi di slancio ecologico, New Yorkha ancora tanti problemi di sovraccarico elettrico dovutoall’eccessivo consumo energetico che produce frequentiblack out in tutta la città, per non parlare dell’ingombranteproblema della raccolta dei rifiuti. Ma si sta lavorando an-che in questa direzione: molte infatti le campagne di sensi-bilizzazione per migliorare i consumi dei cittadini, daquelli energetici a quelli alimentari. In dieci anni New York ne ha fatti di progressi rispetto aquelle giornate di settembre, ora lo sguardo sulla città ècambiato sì, ma con una nuova consapevolezza che èquella di credere che «il futuro appartiene a chi vuole co-struire e non distruggere» (Barack Obama). 61

Opzione ecologica anche per laristrutturazione dell’Empire State

Building: obiettivo dei nuovi proprietaridel grattacielo simbolo di New York èquello di ridurre i costi del consumoenergetico, migliorando l’isolamento

termico dell’edificio

Highline

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Nel 2006 è uscito nei ci-nema il documentarioUna scomoda verità, nelquale il regista DavisGuggenheim ha seguito lacampagna mondiale del-l’ex vicepresidente degliU.S.A. Al Gore per sensi-bilizzare l’opinione pub-blica sul problema del ri-scaldamento globale edelle sue conseguenze sulpianeta. Il documentario,sull’onda della rinnovata

attenzione anche del grande pubblico per questo tipo diopere suscitata dai film di Moore, ha goduto di una pro-mozione degna delle produzioni hollywoodiane con slo-gan come: «di gran lunga il più terrificante film che ve-drai». Il riscontro che ne è seguito è stato sicuramenteall’altezza delle aspettative, dato che nel marzo successi-vo è stato insignito dell’Oscar, ma soprattutto ha rappre-sentato un punto di arrivo per il dibattito sui problemi cli-matici. È quindi da notare come il successo di film diquesto tipo indichi in modo deciso che la tematica am-bientale rappresenta un argomento dal forte appeal per legrandi masse, anche quando affrontato in termini nonspettacolari come in questo caso. Ed in effetti, basta dareun’occhiata alle classifiche cinematografiche degli ultimianni per notare come il filone catastrofico, genere esisten-te da decenni non solo nella cinematografia americana maanche nella letteratura fantascientifica, nella sua nuovadeclinazione ecologista abbia inflazionato gli schermi ditutto il mondo. In realtà, le istanze ecologiste sono ormaida parecchi anni entrate al centro delle discussioni dell’o-pinione pubblica,spinte dall’azionedi associazioni eforze politiche chedi queste istanze sisono fatte portavo-ce, e quindi nonrappresenta un’a-nomalia il loro es-sere diventate par-te dell’immagina-rio collettivo cine-matografico, inparticolar modoamericano. Del re-sto, che il generefantastico sia sem-pre stato un validoed efficace stru-

mento narrativo per esorcizzare le paure della società èampiamente testimoniato dalle tantissime opere che neglianni Cinquanta metaforizzavano il pericolo della GuerraFredda nella possibilità di un’invasione aliena, così comeil Giappone traumatizzato dallo scoppio delle bombe ato-miche di Hiroshima e Nagasaki aveva personificato il ter-rore di un nuovo disastro atomico nelle sembianze diGodzilla, rettile gigante figlio di una mutazione geneticadovuta appunto ad esperimenti nucleari. Non sorprendequindi, che negli ultimi anni siano stati prodotti moltissi-mi film che prefigurano catastrofi più o meno globali, fi-glie della scarsa sensibilità delle politiche mondiali neiconfronti delle problematiche ambientali. Basta pensareal film del 2004 di Roland Emmerich, L’Alba del giorno

dopo, dove un massiccio uso di effetti speciali serve a im-maginare proprio i risultati devastanti del riscaldamentoglobale su di un Nord America vittima di una nuova eraglaciale e dove, nel finale in cui la popolazione soprav-vissuta trova rifugio in Messico, è possibile leggere so-prattutto una critica alla mancata adesione al protocollo diKyoto dell’amministrazione Bush. Allo stesso modo nelfinale di 2012, dello stesso Emmerich, la civiltà trova unnuovo punto d’inizio, dopo il cataclisma ambientale pre-visto dalla profezia dei Maya, proprio nel continente afri-cano, anche qui a voler in qualche modo fustigare la catti-va coscienza occidentale nei confronti dello sfruttamentodel Terzo Mondo. Non è poi possibile dimenticare Avatar,

di James Cameron, dove la catastrofe è quella che gli uo-mini, costretti dall’impoverimento delle risorse della Ter-ra a un disperato tentativo di colonizzazione, vorrebberoprovocare al pianeta Pandora, dove, invece, vive una raz-za aliena che coesiste con il suo ecosistema in modo qua-si religioso. Per concludere, se è vero, quindi, che lapenetrazione nel mercato cinematografico di massa

dell’ecologia puòessere principal-mente rintraccia-ta in motivazioniprettamente com-merciali, questostesso fatto tutta-via non può esse-re visto che comepositivo, poichéin grado di fararrivare un mes-saggio di impor-tanza fondamen-tale anche a unapla tea d i suoscarsamente sen-s ib i le a l l ’argo-mento.

PopsceneUltimatum alla Terra: l’ecologia al cinema, tra spettacolo e scomode verità

di Ugo Attisani

Ugo Attisani

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L’attività di promozione esostegno delle iniziativeculturali e sportive svoltada Laziodisu attraverso ilcorrispondente bando diconcorso, riscuote, ormaida anni, un vivo interesseda parte degli studenti.Lo scopo primario di con-tribuire economicamentealle spese sostenute daglistudenti per la realizzazio-ne di progetti culturali, hacollateralmente incentivato

la creazione di momenti di incontro e di discussione, la for-mazione culturale e la maturazione personale, concorrendoanche a facilitare il dialogo e la partecipazione tra il mondostudentesco e quello accademico.Tra le iniziative vincitrici dell’ultimo bando di concorso se-gnaliamo le seguenti: - il festival cameristico sinfonico della Roma Tre Orchestra,

una delle prime e delle poche iniziative di questo tipo co-stituite negli atenei italiani. Con i suoi concerti, che sisvolgono sia all’interno dell’Ateneo sia in prestigiose sediesterne, divulga e trasmette ai giovani una cultura musica-le, avvalendosi di giovani musicisti che sono o sono statistudenti dell’Ateneo Roma Tre e i cui ambiziosi obbietti-vi, in termini di qualità esecutiva, hanno concretizzato lacollaborazione con musicisti di alto profilo e con impor-tanti orchestre nazionali e internazionali, ma con un oc-chio sempre attento ai nuovi artisti promettenti;

- il progetto Choraliter dello studente del DAMS, Fabio Se-rani, promettente tenore del Coro Polifonico Roma Tre,

magistralmente diretto dalla professoressa Maria IsabellaAmbrosini, la cui attività è aperta, gratuitamente, a tutticoloro che si vogliono cimentare nella pratica della musi-ca corale, imparando a usare meglio la propria voce e ve-nendo a contatto con i capolavori della musica sacra eprofana di tutti tempi, partendo dal gregoriano fino aglispirituals e al musical. A fare da cornice alle rappresenta-zioni gli splendidi ambienti della Galleria Nazionale d’Ar-te Moderna;

- la seconda edizione dell’iniziativa Real Book della DAMSJazz Band, formazione musicale studentesca che, ispiran-dosi al mondo del jazz e al patrimonio librario, ha orga-nizzato letture-concerto, tenutesi nelle sedi di alcune bi-blioteche dell’Ateneo Roma Tre e del Comune di Roma,utilizzando tutte le possibilità di integrazione lettura/musi-ca attraverso un’attenta ricerca di interazione tra i confinimusicali ed altre dimensioni e contesti culturali quali laletteratura, la poesia, il teatro;

- i Seminari tra Roma e l’Europa organizzati dall’associa-zione studentesca ISHA Roma, composta da studentidell’Università degli Studi Roma Tre, con lo scopo diconsentire il confronto tra studenti di storia e di disciplineaffini provenienti da diversi paesi europei e, quindi, porta-tori di differenti approcci e prospettive;

- la prima giornata universitaria del dialogo culturale 2011,un convegno giovanile, svoltosi presso il Teatro Palla-dium, sul dialogo culturale ed interreligioso e che ha af-frontato il tema dei luoghi della fede nella società moder-na. A conclusione dell’interessante evento, l’esibizione ar-tistica di danza contemporanea Tutti vogliono Abramo,personaggio ricorrente nelle principali religioni monotei-ste, simbolo della fede, come divino elemento pacificatoree medium di unione tra le genti.

Ultim’ora da Laziodisudi Gianpiero Gamaleri

London CallingLondon Calling è il nuovo libro scritto a quattro mani da Massimiliano Troianie Luca Manes, con la prefazione di Massimo Marianella, telecronista e noto ti-foso dell’Arsenal. Edito dalla Bradipolibri, il libro parla della storia dell’Arse-nal e di un secolo e mezzo di football all’ombra del Big Ben.Monarchia, ma anche mode e sottoculture giovanili. Democrazia parlamentare egruppi musicali. E ancora finanza e musical. Londra è sinonimo di queste e diun’infinità di altre cose. Non poteva allora non essere sinonimo di football. Nel-la capitale inglese sono state codificate le regole poi adottate in giro per il glo-bo, sono nate la prima federazione nazionale, la prima lega e la prima competi-zione a squadre. Nessuna città al mondo può vantare così tante squadre profes-sionistiche, così tanti derby, così tanti stadi. L’Arsenal, la squadra più amata aLondra, vanta in Italia un nutrito numero di fan club. Inoltre, sono decine di mi-gliaia gli italiani appassionati del calcio inglese.Per informazioni: http://londoncallingbook.blogspot.com/.

Non tutti sanno che...

Gianpiero Gamaleri

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L’architettura assume unruolo importante nel fis-sare e creare un luogo; laforza del progettare in undato contesto sta neltenere assieme dei fram-menti dati che determine-ranno un carattere proprio,ossia un ambiente com-posto dal dialogo e dal-l’interazione tra diversioggetti. Il termine ambiente con-tiene in sé la radice latina

amb, ovvero la presenza di due elementi diversi, ad esem-pio natura e artificio; infatti, può essere tradotto in sensofigurativo come luogo e insieme di persone in mezzo alle

quali si vive.

Questa premessa ricalca sommariamente la poetica del-l’architetto Isamu Noguchi ed il suo concetto di play-

ground: «...uno spazio vuoto non ha dimensione o signifi-cato di per sé. La scala e il significato appaiono, invece,solo quando un oggetto o una linea sono introdotti inquesto spazio… la scala e la forma di ogni elemento de-vono essere poste allora in relazione con tutti gli altri ele-menti che insistono nello spazio dato». Oggi l’ambientescaturisce spesso da occasioni di breve durata, quali instal-lazioni, architettura effimera e a zero cubatura.In questo contesto rientra il progetto vincitore del Young

Architects Program che nei mesi scorsi è stato possibilevisitare nel piazzale esterno del Maxxi, a Roma. La proposta e la realizzazione del progetto vincitore èWHATAMI dello studio stARTT di Roma, un team nato nel-la Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi RomaTre (Simone Capra e Claudio Castaldo con FrancescoColangeli e Andrea Valentini). Si tratta di una grande isolaprincipale fissa ealtre minori mobiliche, a secondadell’uso, si sposta-no per mezzo diruote occupando li-beramente il piaz-zale. Uno specchiodi acqua correnteassieme a grandifiori rossi comple-tano questo nuovopaesaggio, confe-rendo ombra digiorno e luce di se-ra e creando unluogo di sosta poe-

tico e affascinante. Come descritto dagli stessi progettisti:«un arcipelago di isole verdi in un mare immaginario».Con molta sorpresa, lo spazio antistante il Museo è statovissuto da tutti, bambini, anziani, cittadini del quartiere. Inun mondo di grigi, entrando da via Guido Reni, è statopossibile intravedere, tra i tondi pilastri, una grande colli-na verde che, per contrasto, adagiandosi sul suolo cemen-tizio del Museo, dialoga con l’opera architettonica del-l’archistar iraniana Zaha Hadid. Avvicinandosi, pezzi dipiccole isole verdi disseminate nel piazzale hanno offertosedute e lo scenario collinare assieme ai grandi fiori rossirimanda a un paesaggio dal carattere ludico, quasi dellemeraviglie, nel cuore culturale di Roma.Un progetto di indiscutibile e meritato successo dal sis-tema compositivo vincente che, senza mutare la sua logicainterna, è riescito ad offrire diversi momenti di relax dive-nendo uno degli spazi pubblici più vissuti di Roma.WHATAMI diviene allora uno scenario mobile, ma ancordi più è un paesaggio fiabesco ed insieme onirico pog-giato magicamente sul suolo di cemento del Museo. Ac-canto a tale aspetto, ad essere interessante è anche la po-tenzialità che possono contenere, in qualità di spaziopubblico, le tracce di “aree verdi” in città. Sostando sottol’ombra dei grandi fiori rossi, il visitatore è estraniato inuna dimensione naturale che ormai non appartiene piùalla città. Obiettivo dell’iniziativa è anche quello di promuovere pro-getti innovativi e sensibili ai temi della salvaguardia del-l’ambiente. WHATAMI risponde pienamente alla sfida lanci-ata dal concorso: al termine dell’estate, tutti i materiali na-turali sono stati restituiti ai loro luoghi d’origine mentre iludici lampioni rossi a forma di fiore sono ricollocati in al-tri luoghi della città, in parchi e nelle aree gioco delle scuo-le. Come hanno spiegato i progettisti, l’allestimento ha pre-visto un doppio processo di riciclo: gli elementi naturalitorneranno alle loro sedi d’origine (paglia, acqua, prato);

gli elementi ad altocontenuto tecnolo-gico, invece, sonopensati per esserericollocati comestrutture di arredofisso in altri luoghidella città che neabbiano bisogno,come i parchi limi-trofi o le disagiateperiferie romane;non una dispendio-sa soluzione tem-poranea, ma un im-pegno verso l’inte-ro spazio urbano.

WhatamiArchitettura e ambiente: un arcipelago verde nella città di Roma

di Laura Pujia

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Laura Pujia

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Esistono due modi per af-frontare la vita: vivere se-condo natura o secondo lagrazia. È ciò che speri-menta sin dalla tenera etàJack, primogenito dellafamiglia O’Brien: il padrelo educa alla lotta controtutti pur di arrivare al suc-cesso e riuscire così a do-minare il proprio destino;la madre invece, gli inse-gna silenziosamente adaiutare gli altri e a perdo-

nare. Al di là di tutte le conquiste raggiunte nel corsodell’esistenza, l’unico modo per essere felici e per donareun senso diverso alla vita è imparare ad amare. Le figuredel padre e della madre saranno sempre in lotta dentro l’a-nima del ragazzo e lo accompagneranno fino all’età adul-ta, un periodo in cui le domande sull’esistenza non cesse-ranno di occupare la mente e il cuore, soprattutto dopo laperdita prematura dell’amato fratello minore. A momentiintermittenti, Jack cerca un dialogo con Dio che risultaall’orecchio dello spettatore quasi come un sussurro im-percettibile e che si può riassumere in una domanda pro-nunciata da ognuno di noi nei momenti di disperazione:«Se sei buono, perché permetti tanto male?» Il regista Ter-rence Malick, ha voluto evidenziare l’illusione dell’uomonel voler controllare gli eventi della vita, cercando in ognimomento una spiegazione razionale al dolore. In realtà, èproprio la sofferenza che ci rende consapevoli del cammi-no intrapreso il giorno in cui siamo venuti al mondo. Se-condo Malick, alla base delle nostre esistenze vi è la gra-zia dello spirito e l’istinto brutale, due componenti che ciaccompagneranno per tutta la vita, ma saremo noi a sce-gliere quale delle due prevarrà sull’altra. Nel film assistia-mo a un confronto fatto di immagini e silenzi tra il destinodell’universo e quello dell’uomo: Malick ci prende permano e ci conduce all’inizio di un viaggio che attraversa ilmomento della creazione e dell’evoluzione del Creato, fi-no ad arrivare all’annientamento dei dinosauri per un cata-clisma di immense proporzioni, che allo spettatore vienemostrato come qualcosa di impercettibile, perfino armo-nioso: l’onda d’urto dell’asteroide che impatta sulla super-ficie terrestre appare di una bellezza indescrivibile che la-scia senza fiato. Malick desidera evocare la precarietà del-la vita che ci colpisce nella sua fragilità come essenza chepuò esistere ma anche venire distrutta. La fragilità dellavita deriva dal fatto di essere unica e irripetibile: è propriola sua irripetibilità a renderla preziosa e bella. La scompar-sa dei dinosauri viene allacciata alla nascita della famigliaO’Brien, l’unione tra il macrocosmo e il microcosmo, le-gati tra loro da una fiamma viva, l’immagine dell’anima di

Dio, una spiritualità universale che unisce tutte le religionie che per questo motivo può essere compresa da tutti. Tut-to ciò che vale nella vita è sapersi meravigliare di frontealla bellezza. Malick ci invita a osservare una farfalla chesi posa sulla mano, una goccia di pioggia che si tuffa nelmare, il sorriso di una persona amata, il desiderio di unbambino di abbracciare un padre che riesce alla fine amettersi in discussione e a bocciare i metodi educativi cheaveva utilizzato con i figli. Jack da adulto appare come undisilluso, un’anima persa nel mondo contemporaneo dovegli uomini cercano di dominare altri uomini. I suoi innu-merevoli dubbi fanno vacillare la sua fede ed inizia cosìun percorso onirico alla scoperta di sé, che lo porterà arincontrare su una spiaggia i suoi genitori e i suoi fratelli,riuscendo così a esaudire il desiderio infantile di rivedereriunite tutte le persone amate, in un tempo che unisca pre-sente e passato e a riconciliarsi con suo padre e con séstesso. Tra i temi dominanti del film vi è anche la possibi-lità di purificazione evocata dalla presenza continua del-l’acqua, uno degli elementi che più si ripete: l’acqua èprotagonista anche nel momento della nascita di Jack dovesi vede un bambino già cresciuto che nuota dentro unastanza invasa dall’acqua e scorgendo la luce, nuota versodi essa emergendo per la prima volta nel mondo. Per Ma-lick la vita scorre come l’acqua e per questo l’individuodeve amarla in ogni suo istante, immergersi al suo internoe lasciarsi condurre fiducioso dalla corrente.

«The Tree of Life» L’affresco intimista dell’anima del mondo

di Gaia Bottino

Gaia Bottino

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Nell’ambito delle celebra-zioni dei centocinquantaanni dell’Unità d’Italia,l’Ateneo Roma Tre, Dip.di Scienze dell’educazio-ne, Master internazionaledi II livello in Didatticadella Shoah, la Fondazio-ne Europa Ricerca Onlus,in collaborazione con laComunità ebraica di Ro-ma, hanno promosso l’e-vento Tra Occidente e

Oriente sul tema Risorgi-

mento, emancipazione ebraica e Sionismo: Carlo Catta-

neo, Benedetto Musolino e Moses Hess, ospitato dalla Ca-mera dei Deputati presso il complesso romano di vicoloValdina. Il colloquium (formula di lavoro scelta dagli orga-nizzatori) si è svolto in una gremita Sala del Cenacolo il 26settembre 2011. Shlomo Avineri, politologo e già direttoredel Ministero degli esteri israeliano, docente della HebrewUniversity, studioso dell’opera di Marx, Hegel e delle teo-rie sioniste di Moses Hess e di Theodor Herzl, il rabbinocapo della comunità ebraica di Roma, Riccardo ShmuelDisegni, insieme al Prof. David Meghnagi, già vicepresi-dente dell’UCEI e direttore del Master in Didattica dellaShoah, sono intervenuti con molteplici riferimenti al lega-me tra il Risorgimento italiano e l’Ebraismo. Dal Nabuccodi Verdi che evoca l’esilio ebraico in Babilonia alla meta-fora di Roma capitale negata, come Gerusalemme, capitaledella nazione ebraica allora dispersa e parimenti irredenta.In questo contesto si inserisce l’anomala e autentica vicen-da del calabrese Benedetto Musolino, senatore del Regno,sostenitore del ritorno degli ebrei in Palestina come nazio-ne ben prima dei fautori del sionismo storico. Musolino ap-profondisce non solo le Scritture ma anche la lingua ebrai-ca; nel contesto internazionale la sua ipotesi politica di unapresenza ebraica in Palestina è concepita e accolta anchecome antagonistica alle grandi potenze coloniali. La direzione del Master ha ritenuto, quindi, di coniugare lavicenda personale di Musolino, un protagonista del Risor-gimento, e l’ambito degli studi del Master in prospettivadiacronica ed europea. Figure di riferimento: Moses Hess,Heinrich Heine, Karl Marx, Sigmund Freud, Carlo Catta-neo… L’insegnamento che gli organizzatori del Master in-tendono condividere è di ridare vita alle speranze del pas-sato che non si sono compiute. Rispetto alla questioneebraica Carlo Cattaneo trova i suoi riferimenti nel mondobritannico. Pragmaticamente sostiene l’assioma secondocui se si permette alle persone di circolare, esse possono,dunque, anche lavorare dove vogliono arrivando a toccarecosì i temi della libertà del cittadino. Karl Marx invece de-ve tener conto del contesto culturale della Sinistra hegelia-

na. Per i suoi fautori, tutti formali anticlericali, gli ebreinon erano ancora umani; dovevano passare prima per ilCristianesimo: come a sostenere che lo stato di ominazionepasserebbe per il Cristianesimo. L’argomentazione di Marxdeve, quindi, scardinare dall’interno lo schema della Sini-stra hegeliana, sua interlocutrice, per cui arriva a scrivere«tutti si devono emancipare dal giudaismo», ben diversa-mente da Freud che considera la rivoluzione di Mosè co-me la più alta astrazione legata alla nascita del monotei-smo. Moses Hess (Bonn 1812), scrisse, nel 1862, forse il suo te-sto più famoso Roma e Gerusalemme. Vi si affronta la que-stione degli ultimi nazionalismi: «Dopo la liberazione dellacittà santa aldilà del Tevere è ora di liberare Gerusalemme»Heinrich Heine, Karl Marx e Moses Hess erano renani, natirispettivamente a Bonn, Trier ( Treviri) e Düsseldorf. Dal1790 al 1815, per 25 anni, gli ebrei renani furono emanci-pati grazie all’inclusione di questa vasta regione nella sferadi influenza della Repubblica francese. Dopo il congressodi Vienna gli ebrei renani furono “de-emancipati” con l’an-nessione della Renania alla Prussia. Solo in Olanda e in In-ghilterra gli ebrei ebbero ancora piena cittadinanza dopo il1815. Gli ebrei di ispirazione antinazionalista, socialisti erivoluzionari pertanto, dal 1815 al 1870, videro nella Fran-cia il luogo cui aspirare per la piena cittadinanza. Prima del1848, Moses Hess in una riflessione sul nazionalismo scri-veva che i movimenti di liberazione concepivano il pro-gresso come nazioni e popoli. Non diversamente scriveràMazzini nel suo testo sui diritti e doveri dell’uomo. La sta-gione del 1848 rappresenta per gli ebrei la “grande assimi-lazione” (Marx/Hess); ma chi auspicava una rivoluzioneproletaria subì una rivoluzione nazionalista. Al nazionali-smo si aggiunse presto l’antisemitismo. Già nel 1859 M.Hesse era consapevole che, nella visione dei tedeschi, nep-pure la conversione avrebbe allontanato dagli ebrei l’ostili-tà per la loro identità razziale. Precocemente egli discernel’antigiudaismo razziale nel liberalismo dei nazionalismieuropei che non avevano carattere religioso ma più autenti-

camente razzista. Per Hess, Roma è la Terza Roma, quelladi Mazzini, e in tal modo passa a concepire un Risorgimen-to ebraico. Hess, che aveva previsto rapporti stretti tra lapolitica europea e gli ideali napoleonici, nel 1886 passa adiffondere l’idea di una nuova Giudea tra gli antichi e nuo-vi regni di Siria ed Egitto. Nel 1862 non esisteva ancora ilnazionalismo arabo ma Hess previde la liberazione di Siriaed Egitto dagli Ottomani, anzi, fu in assoluto il primo aparlare della resurrezione di Siria ed Egitto. Sarebbe auspi-cabile che questa informazione si trovasse nei libri di storiadei bambini arabi. Benedetto Musolino, antesignano nelsostenere il ritorno degli ebrei in Palestina come nazione,ben prima dei fautori del sionismo storico, incrociava stra-de e ideali con Moses Hess, il primo a parlare di una resur-rezione dei popoli arabi.

Risorgimento ed EbraismoCarlo Cattaneo, Benedetto Musolino e Moses Hess

di Giovanna Grenga

Giovanna Grenga

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Abitare è un’azione checompiamo quotidianamen-te, senza renderci contodella complessità che unasimile azione presuppone.A pensarci meglio, l’abita-re è un meccanismo chel’uomo ripete da millenni,così come il parlare, ilmangiare, il vestirsi, mal’abitare un luogo presup-pone una relazione funzio-nale e molto complessa tralo spazio, la sua struttura,e le dinamiche sociali del-

la comunità che vive quello spazio. Abitare è il prodotto diuna comunità che vive e interagisce, ed è qualcosa di estre-mamente complesso.Nel suo Mente Locale (Elèuthera – nuova edizione 2011)l’antropologo e urbanista Franco La Cecla ci offre un inte-ressante spunto di riflessione al riguardo. Il mondo occi-dentale, con l’evoluzione tecnologica e la specializzazionedel lavoro, ha da sempre regolato le relazioni sociali e la-vorative, ha scientificamente diviso e proporzionato lo spa-zio in metri quadrati, aree, vie, strade, quartieri, città, dan-do vita a un modo di abitare spesso meccanico, anonimo enon sempre funzionale.Ma è proprio al contesto tradizionale, in molte parti delmondo, dall’Amazzonia al Benin, dalla Sicilia all’Irlandarurale, che è necessario guardare: lì vive una concezionediversa dell’abitare e delle dinamiche sociali. Spesso lacittà moderna non conosce la tradizione, perde la memo-ria, la quotidianità delle relazioni del gruppo, diventa ungrande luogo anonimo dove avvengono scambi e presta-zioni.Nella cultura primitiva, lo spazio è un’entità fluttuante,mutevole: lo spazio è agito da alcuni soggetti, come lostregone o il sacerdote, che possono modificarlo, purifi-carlo, renderlo magico. La città moderna ha dimenticatoquesta dimensione ancestrale: lo spazio dev’essere edifi-cabile, geometrico e misurabile. Il limite della città è l’au-tostrada, la fine del cemento, il limite del villaggio è la sa-vana, la foresta, la prateria intorno o il buio che avanza alcalare del sole.Questo anelito della modernità a controllare tutto porta, dicontro, all’inevitabile perdita dell’orientamento e al sensodi alienazione. Solo gli abitanti possono dare un’identitàpropria al posto in cui vivono, ma la realtà economica im-pone con forza la mobilità geografica, sradicando l’uomodalla sua terra, dalle sue radici. Lo sradicamento avvieneovunque e in ogni parte del mondo, per un motivo o per unaltro: provvedimenti della legge, guerre, disastri ecologici.Condizioni simili costringono ad andare altrove, senza al-

ternative. Il migrante lascia la sua casa portando con sé unavisione del mondo, una forma mentis, un modo di com-prendere la realtà che in quel posto si era sviluppata dachissà quanto tempo. Il legame con il proprio territorio,nonostante la lontananza, è comunque qualcosa di strettoma inspiegabile al contempo: è qualcosa che permea lapropria dimensione culturale, sociale, e cognitiva. Ambien-tarsi è a tutti gli effetti un processo cognitivo continuo: unascoperta che parte dalla primissima infanzia e permette alsoggetto di creare una mappa mentale per leggere la realtàin cui vive.Già Calvino ne Le città invisibili aveva colto il problema:le città diventano invisibili agli stessi abitanti, perché cre-scono a dismisura e selvaggiamente fin quando il cementoe i palazzi soffocano la vita. Ci si perde spesso nella grandecittà, ed ecco qui un’altra lampante differenza tra “noi” e ilmondo primitivo: perdersi per noi è spaesamento, fallimen-to, ansia, e non un’occasione per conoscere, per andare ol-tre il limite del villaggio ed esplorare uno spazio scono-sciuto.Per troppo tempo abbiamo ritenuto di dover “fare piazzapulita” degli orpelli del passato, del mito, della tradizione,pensando che fossero esotici, o che fossero rozzi, incivili,stupidi… ma per divenire parte integrante di una realtà chevive serve tempo, e tanto. Ogni popolo ha una propria«mente locale», un proprio modo di conoscere il mondo,recepire ed elaborare le informazioni che arrivano dall’e-sterno. È una costruzione del sapere che nasce e si lega vi-sceralmente a quei luoghi, a quel territorio, a quell’habitat,a quel clima. Ciò che ci appare incomprensibile deve, inrealtà, essere calato nelle categorie mentali di quella popo-lazione, in quel determinato contesto. È un’immersione chenoi occidentali spesso non siamo disposti a fare. Fare mente locale significa «poggiare la propria mente sulluogo»: il soggetto mette a fuoco la propria mente, comeun obiettivo, per guardarsi dall’esterno, cercando di ricom-prendere un luogo o un contesto. È la nostra mente che habisogno di orientarsi, ritrovare qualcosa in un posto diver-so, oppure tornare in un posto e ritrovare un particolare cheaveva momentaneamente tralasciato.Nel celebre passo di Wallace Stevens da Aneddoto di uomi-

ni a migliaia, «il vestito di una donna di Lhasa, nel suo luo-go, è un elemento invisibile di quel luogo reso visibile»,possiamo cogliere che è proprio l’azione dell’abitare unluogo a rendere visibile la cultura, i cibi, le case, i vestiti diquel posto. Sono gli abitanti che interiorizzano quei luoghie ne diventano parte integrante. L’abitare altro non è che la nostra presenza diacronica, pro-lungata nel tempo, è il nostro far parte di quello spazio. Mase nel villaggio si ha un’idea di (ri)vivere una storia peren-ne che appartiene a dei, miti ed eroi, nella città, invece,abitare è qualcosa di profondamente complicato: lo scorre-re del tempo, la percezione del passato e del presente, spes-

Stefano Perelli

Mente localeAntropologia dell’abitare

di Stefano Perelli

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so si confondono e ci confondono, portandoci a quel sensodi alienazione di cui la letteratura e la psicologia fornisco-no moltissimi esempi. Vi sarà capitato, ad esempio, di tor-nare in un posto dopo tanti anni e di non riconoscerlo piùcome prima: la nostra mente cercherà di “ricostruire” quelposto, e di trovare conferma con il ricordo che ne era rima-sto, sovrapponendo il passato con il presente.Nel suo Mente Locale, il professor Franco La Cecla vuoleportarci per un attimo anche nella sua Sicilia, raccontando-ci dell’universo abitativo (solo in apparenza semplice) del-le genti di Terrasini e Favarotta, e dei grandi cambiamenti

che l’Unità ha portato nell’isola. Si tratta di cambiamentiradicali imposti, calati dall’alto, per regolare nel modo divivere e di abitare i palermitani in virtù di norme igienico-sanitarie e di ordine pubblico, norme che hanno cancellatocon un colpo di spugna un vivere quotidiano consolidatoda secoli, mettendo al bando la vita nello spazio comunedel cortile.Rimane però da chiarire un punto. Gli abitanti del mondooccidentale oggi si trovano davanti a radicali cambiamentinel modus vivendi, la tecnologia ha rivoluzionato il mododi comunicare, l’interconnessione permette di spostarsi daun posto all’altro del globo in poche ore; attraverso la ve-locità stiamo comprimendo il tempo, come se fosse unmateriale malleabile a nostro piacimento. Potremmo diredi vivere in un mondo che all’apparenza sembra grande,ma poi è solo un villaggio, su scala globale. Eppure, citroviamo davanti ad un bivio tra mondialismo e localismo,molto più di quanto si possa pensare. Possiamo essere quie ovunque allo stesso tempo? Possiamo controllare il tem-po? Possiamo innalzare l’“ubiquità” come un mito deitempi moderni? Avere il mondo a portata di mano non è affatto qualcosa dinegativo, ma senza sconfinare nell’utopia. Possiamo usci-re da questa alienazione, solo se facciamo tesoro della no-stra antropologia: siamo esseri umani, in un mondo globa-le, quindi apparteniamo inevitabilmente a più luoghi, a piùmondi, a più esperienze. La realtà in cui abitiamo non èautoreferenziale. Dobbiamo riuscire ad aprire la nostramente a questa nuova condizione, dobbiamo diventaresempre più aperti al contatto con il mondo, e solo così po-tremo innamorarci di luoghi diversi e lontani tra loro, pro-prio come fanno i migranti quando lasciano il proprio pae-se per quello nuovo, portando dentro una storia. Dobbia-mo fare mente locale.

«Fare mente locale» è quella facoltà di vivere lo spazio che tutte le culture e tutti gli individuipossiedono, quella capacità di creare mappe mentali che ci consentono di abitare i luoghi.Una facoltà che, al pari della parola o del movimento, si acquisisce e permette di immaginare,costruire e trasformare gli spazi, di usarli. Oggi questa interazione ininterrotta fra noi e il no-stro ambiente è non solo spesso ridotta all’ultima risorsa, il consumo, ma oltretutto espropria-ta dagli «esperti dello spazio», architetti, politici, amministratori. La «mente locale» è peròsempre latente e approfitta di ogni crepa del sistema burocratico per venire fuori. Come ciraccontano le rivolte dei cortili di Palermo, o le vicende dei pescatori siciliani di Terrasini chetrascinano il proprio spazio al di là dell’Atlantico, «in altro mare», o la Buenos Aires descrittada Borges. E come ci racconta quel sogno di ubiquità in cui un po’ tutti siamo oggi immersi.(dalla quarta di copertina)

A fianco: alcuni fotogrammi del documentario In altro mare diFranco la Cecla, primo premio del Best Coastal Culture Film alSan Francisco Ocean Film Festival (2010) In altro mare è il rac-conto di un'epopea attuale: quella dell'emigrazione italiana, checontinua nonostante il razzismo che prevale in Italia nei confrontidei migranti che giungono da noi. Il documentario propone un'i-nedita ricostruzione della pesca in alto mare, attività eroica e peri-colosa, che ancora oggi vede una comunità di ventitremila pesca-tori siciliani di Terrasini vivere da cinque generazioni sul bordodell'Atlantico per pescare nei freddissimi e nebbiosi banchi diSaint Georges. È una storia di forti identità, di capitani coraggiosie delle loro mogli, che hanno fondato un sindacato forte e ostina-to, e della grande festa di San Pietro, dove una volta all'anno l'e-popea si rinnova con il rito del greasy pole, l'antenna a mare cherimane il simbolo della difficile arte della pesca.

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La decima edizione delFotoGrafia Festival Inter-nazionale di Roma, curatada Marco Delogu, ha aper-to i suoi battenti il 23 set-tembre 2011 al MACROin Piazza Orazio Giustia-niani, 4. All’inaugurazionehanno partecipato un foltonumero di ospiti, tra cui il-lustri fotografi, critici, cu-ratori e galleristi prove-

nienti da ogni parte del mondo, tutti protagonisti di incon-tri, lectures e workshop che si sono susseguiti durante ilcorso del primo weekend. La mostra, nei primi sette giorni,è stata caratterizzata da circa ventimila presenze: un suc-cesso consolidato da nove edizioni, con un pubblico sem-pre più vasto e variegato. L’argomento scelto per inaugura-re i dieci anni di vita del FotoGrafia Festival 2011 è statoMotherland, la madreterra, un tema adattoper indurre anche il vi-sitatore a soffermarsisul rapporto tra il terri-torio e i valori che loidentificano, quasi unconfronto tra le radici

del passato e le dinamiche del vivere contemporaneo, conriferimenti storici ai 150 anni dell’Unità d’Italia. La mostraha accolto opere inedite per il MACRO di Testaccio, tracui quelle di Alec Soth, Mathieu Bernard-Reymond, TimDavis, David Spero, Leonie Purchas, David Farrell, PaoloVentura, Antonio Biasiucci e Guy Tillim. Ma accanto ai“big” c’erano anche molti fotografi emergenti che hannoesposto i propri lavori, con introspezioni psicologiche esociologiche estratte dalla vita quotidiana, raccontate nel-le immagini esposte. Tra le opere più interessanti spiccasenza dubbio quella di Mathieu Bernard-Reymond che,attraverso i suoi costrutti architettonici ha creato una lineanuova di comunicazione, riuscendo a cogliere il sensoprofondo del rapporto tra terra e uomo. Nel lungo corri-doio, illuminato da squarci di led bianchi e blu con inse-rimenti di luce naturale, le immagini si sono susseguitedominando le pareti allestite. L’incipit della mostra ha ca-ratterizzato i vari collettivi che, nonostante fossero lonta-ni da sensazioni da “primo impatto” hanno risposto posi-

tivamente al significa-to recondito del temaMotherland, ma so-prattutto hanno lascia-to al pubblico la rifles-sione finale sul rap-porto che ci lega allanostra Madre Terra.

Gianluca Alò

MotherlandDecima edizione di FotoGrafia al M.a.c.ro

di Gianluca Alò

«Da cinquemila anni esistono le carte geografiche e da tremila anni queste carte hanno contribuito a for-mare l'immagine che l'uomo ha del mondo. Scienziati, storici, papi, ricercatori, e navigatori hanno dise-gnato delle carte, ma solo da 400 anni esiste il mestiere di cartografo. Come storico con interessi geografi-ci ho studiato la storia della cartografia con particolare interesse. Mi resi conto dell’inadeguatezza dellecarte terrestri esistenti che non favorivano, tra l'altro, la migliore soluzione che sempre sorge quando sitrasporta la superficie terrestre su un foglio piano. La nuova carta, la mia carta, rappresenta in modo egua-litario tutti i paesi della Terra…» Arno Peters

Dal 1988 l'ASAL cura l'edizione italiana del «Planisfero ad aree equivalenti» dello storico tedesco ArnoPeters e lo distribuisce in Italia. Peters, interprete di una diversa coscienza della collocazione dell’Europarispetto al resto del mondo, propone un planisfero che restituisce alle superfici della terra la loro correttadimensione e proporzione. Gli angoli e quanto ne consegue risultano alterati, ma offre la trasposizione gra-fica, scientificamente esatta, di quel rapporto equo tra Nord e Sud che vorremmo realizzato anche oltre iconfini della geografia.La Carta di Peters è uno strumento indispensabile per una corretta visione del mondo, sulla linea del ri-spetto fondamentale dei diritti di ogni popolo, per educare alla mondialità e all’intercultura.Le carte geografiche oggi più diffuse sono state costruite su una proiezione disegnata da un cartografofiammingo che, a partire dalle linee delle rotte sul mappamondo, nel 1569 riuscì a disegnare un planisfero:la Carta di Mercatore. Questa proiezione ha avuto grande diffusione anche in quanto strumento insostitui-bile nella navigazione. Nella Carta di Mercatore, la posizione dell’Europa è esattamente al centro del mon-do. La linea dell’equatore non taglia a metà la carta, ma è spostata più in basso, con l’inevitabile conse-guenza che tutte le aree dell’emisfero nord risultano ingrandite e tutte le aree dell’emisfero sud rimpiccio-lite.Lo storico tedesco Arno Peters supera la tradizionale immagine eurocentrica del mondo e propone un pla-nisfero ad aree equivalenti che restituisce a tutte le superfici della Terra la loro corretta proporzione.

ARNO PETERS (1916-2002), storico tedesco, pubblicò la sua proiezione della mappa terrestre nel 1973.La sua concezione cartografica è esposta nell’opera La nuova cartografia (ASAL, 1995). La carta di Pe-ters è stata pubblicata in centinaia di edizioni in moltissime lingue. Ha realizzato anche un Atlante edito inItalia da Rizzoli (1990).In terza di copertina proponiamo una mappa dell’impronta ecologica delle varie aree del mondo, realizzatada ASAL utilizzando la proiezione di Peters, sulla base dei dati del Living Planet Report 2008 del WWF.

La Proiezione Petersa cura di ASAL – Associazione studi America Latina

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