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IL «CONVENTO ROSSO» VISTO DA OCCIDENTE”: FONTI DOCUMENTARIE E ICONOGRAFICHE DAL XVII SECOLO AD OGGI UTILI PER UNA STORIA CONSERVATIVA DEL MONUMENTO DI FRANCESCO MORI Il «Convento Rosso» certamente non è mai rientrato, come del resto le antichità copte, negli interessi dei grandi e numerosi viaggiatori che dall’inizio dell’era moderna in poi hanno cominciato ad esplorare avidamente il Mediterraneo e l’Oriente (vicino e lontano) e del resto la stessa sorte è toccata al suo “gemello”, il «Convento Bianco», così da sfavorire la produzione di testimonianze o studi in merito. Inoltre, proprio nella vicinanza del Bianco con il Rosso possiamo ravvisare un’ulteriore causa della “trascuratezza scientifica” nei confronti di quest’ultimo, in quanto la maggior parte dei pochi studi si è concentrata sul ben più importante e grandioso vicino, più noto in Occidente soprattutto a causa del suo Scriptorium e della sua fondazione da parte di uno dei grandi padri del monachesimo egiziano, San Scenute. Inoltre la maggiore monumentalità, il più ricco apparato scultoreo e architettonico e la miglior conservazione hanno indubbiamente spinto gli sporadici visitatori a soffermarsi più su questo monumento che non piuttosto sul suo più lontano e malridotto compagno. Altro grosso limite per la conoscenza delle vicissitudini del monastero (almeno prima del XVII secolo) è la mancata conoscenza di eventuali fonti arabe, che purtroppo sono difficilmente reperibili e consultabili 1 . Si è dunque costretti ad analizzare la storia “conservativa” di questo singolare monumento purtroppo solo a partire dal XVII secolo. La prima citazione in un testo dell’Occidente europeo ci viene dal frate domenicano Jean Michel Wansleben (naturalizzato Vansleb) 2 , inviato speciale del Re Sole nel 1672, per il tramite del suo ministro Colbert, in tutto il Vicino Oriente alla ricerca di monete, libri a antichità varie secondo il gusto antiquario dell’epoca, per 1 L’unico testo arabo in proposito è uno scritto dello storico Al Maqrizi (1360-1442) noto grazie ad una traduzione in francese, che però si limita soltanto a citare il «Convento Rosso» marginalmente dopo avere trattato del «Bianco». MAQRIZI 1895. 2 Per la vita di J. M. Wansleben vedere POUGEOIS 1869. arricchire le collezioni del re di Francia. In questo delicato compito Vansleb si spinge, dopo ad aver visitato vari paesi mediterranei, fino all’Alto Egitto, e sarà tra i primi a darci le descrizioni di molti luoghi oggi notissimi, ma soprattutto è il primo che ci tramanda una descrizione del nostro sito. Spinto dal desiderio (siamo in piena controriforma) di andare alle origini del cristianesimo così come facevano i suoi colleghi ecclesiastici in Europa, non resiste alla voglia di vedere i luoghi dove era sorto il monachesimo, e si reca a visitare i due monasteri, che descrive nei suoi appunti di viaggio 3 . Dopo aver descritto ed essersi soffermato, più copiosamente, sul Bianco, passa alla visita del Rosso, la cui fondazione fa risalire a Sant’Elena 4 . Nelle sue memorie appunta che ormai del complesso monasteriale non rimaneva che il corpo della chiesa principale, mentre il resto era tutto in rovina. La chiesa stessa funzionava solo parzialmente, essendo destinata al culto solo la parte absidale, mentre descrive con particolare ammirazione le colonne delle navate, evidentemente ancora in situ, riguardevoli a suo dire per la loro bellezza e omogeneità stilistica. Lo sfortunato prelato dopo aver dato alle stampe le sue memorie e i suoi scritti 5 , non verrà ricompensato per i suoi meriti: disconosciuto da Colbert, morirà in miseria. Solo un settantennio più tardi avremo di nuovo notizia del monastero per il tramite di un altro diretto visitatore: anche in questo caso un prelato, il vescovo Robert Pococke che nel 1743 pubblica la sua opera sulla base dei viaggi da lui compiuti 6 . È il primo visitatore occidentale a darci una piantina del «Convento Bianco», sul quale si sofferma assai più che sul Rosso. Tuttavia non tralascia di confermare la notizia di Vansleb circa 3 Vansleb ci ha lasciato diverse pubblicazioni sull’Egitto e sulla Chiesa Copta. Per quanto riguarda la descrizione del «Convento Rosso» vedere VANSLEB 1677, pp. 372-377. 4 All’interno dell’attuale edificio riservato ad abitazione del monaco, ancora oggi, ai visitatori mostrano una stanza detta di Sant’Elena. 5 Cfr. nota 3. 6 POCOCKE 1743, I, pp. 79-80. 1

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IL «CONVENTO ROSSO» VISTO DA “OCCIDENTE”: FONTI DOCUMENTARIE E ICONOGRAFICHE DAL XVII SECOLO AD OGGI

UTILI PER UNA STORIA CONSERVATIVA DEL MONUMENTO

DI FRANCESCO MORI

Il «Convento Rosso» certamente non è mai rientrato, come del resto le antichità copte, negli interessi dei grandi e numerosi viaggiatori che dall’inizio dell’era moderna in poi hanno cominciato ad esplorare avidamente il Mediterraneo e l’Oriente (vicino e lontano) e del resto la stessa sorte è toccata al suo “gemello”, il «Convento Bianco», così da sfavorire la produzione di testimonianze o studi in merito. Inoltre, proprio nella vicinanza del Bianco con il Rosso possiamo ravvisare un’ulteriore causa della “trascuratezza scientifica” nei confronti di quest’ultimo, in quanto la maggior parte dei pochi studi si è concentrata sul ben più importante e grandioso vicino, più noto in Occidente soprattutto a causa del suo Scriptorium e della sua fondazione da parte di uno dei grandi padri del monachesimo egiziano, San Scenute.

Inoltre la maggiore monumentalità, il più ricco apparato scultoreo e architettonico e la miglior conservazione hanno indubbiamente spinto gli sporadici visitatori a soffermarsi più su questo monumento che non piuttosto sul suo più lontano e malridotto compagno.

Altro grosso limite per la conoscenza delle vicissitudini del monastero (almeno prima del XVII secolo) è la mancata conoscenza di eventuali fonti arabe, che purtroppo sono difficilmente reperibili e consultabili1.

Si è dunque costretti ad analizzare la storia “conservativa” di questo singolare monumento purtroppo solo a partire dal XVII secolo.

La prima citazione in un testo dell’Occidente

europeo ci viene dal frate domenicano Jean Michel Wansleben (naturalizzato Vansleb)2, inviato speciale del Re Sole nel 1672, per il tramite del suo ministro Colbert, in tutto il Vicino Oriente alla ricerca di monete, libri a antichità varie secondo il gusto antiquario dell’epoca, per

1 L’unico testo arabo in proposito è uno scritto dello storico Al Maqrizi (1360-1442) noto grazie ad una traduzione in francese, che però si limita soltanto a citare il «Convento Rosso» marginalmente dopo avere trattato del «Bianco». MAQRIZI 1895. 2 Per la vita di J. M. Wansleben vedere POUGEOIS 1869.

arricchire le collezioni del re di Francia. In questo delicato compito Vansleb si spinge,

dopo ad aver visitato vari paesi mediterranei, fino all’Alto Egitto, e sarà tra i primi a darci le descrizioni di molti luoghi oggi notissimi, ma soprattutto è il primo che ci tramanda una descrizione del nostro sito. Spinto dal desiderio (siamo in piena controriforma) di andare alle origini del cristianesimo così come facevano i suoi colleghi ecclesiastici in Europa, non resiste alla voglia di vedere i luoghi dove era sorto il monachesimo, e si reca a visitare i due monasteri, che descrive nei suoi appunti di viaggio3.

Dopo aver descritto ed essersi soffermato, più copiosamente, sul Bianco, passa alla visita del Rosso, la cui fondazione fa risalire a Sant’Elena4. Nelle sue memorie appunta che ormai del complesso monasteriale non rimaneva che il corpo della chiesa principale, mentre il resto era tutto in rovina. La chiesa stessa funzionava solo parzialmente, essendo destinata al culto solo la parte absidale, mentre descrive con particolare ammirazione le colonne delle navate, evidentemente ancora in situ, riguardevoli a suo dire per la loro bellezza e omogeneità stilistica.

Lo sfortunato prelato dopo aver dato alle stampe le sue memorie e i suoi scritti5, non verrà ricompensato per i suoi meriti: disconosciuto da Colbert, morirà in miseria.

Solo un settantennio più tardi avremo di

nuovo notizia del monastero per il tramite di un altro diretto visitatore: anche in questo caso un prelato, il vescovo Robert Pococke che nel 1743 pubblica la sua opera sulla base dei viaggi da lui compiuti6. È il primo visitatore occidentale a darci una piantina del «Convento Bianco», sul quale si sofferma assai più che sul Rosso. Tuttavia non tralascia di confermare la notizia di Vansleb circa

3 Vansleb ci ha lasciato diverse pubblicazioni sull’Egitto e sulla Chiesa Copta. Per quanto riguarda la descrizione del «Convento Rosso» vedere VANSLEB 1677, pp. 372-377. 4 All’interno dell’attuale edificio riservato ad abitazione del monaco, ancora oggi, ai visitatori mostrano una stanza detta di Sant’Elena. 5 Cfr. nota 3. 6 POCOCKE 1743, I, pp. 79-80.

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Fig. 1 – Veduta con il «Convento Bianco» in primo piano e sullo sfondo il «Convento Rosso» (da DENON 1802, vol. II tav. X).

l’utilizzo della sola parte absidale per la liturgia, precisando che “the greater part of the church is fallen down”, e aggiunge che era chiusa dal resto della chiesa da un muro. Si sofferma a descrivere i fregi della porta del muro nord, e conferma che le colonne della navata erano ancora in situ.

Alla fine del secolo, durante la campagna napoleonica, il più illustre dei savant, D. V. Denon, passando il 28 dicembre 1798 per la zona di Sohag si sofferma a visitare il luogo1, ma può solo constatare il fatto che il giorno prima i mamelucchi erano passati saccheggiando il sito, tanto che non può visitare il «Convento Rosso» perché ancora bruciava: limiterà la sua visita al solo «Convento Bianco», del quale disegna anche una pianta.

Se Denon per il Rosso non ha lasciato che la triste notizia del saccheggio, ci ha tuttavia regalato la prima “veduta” paesaggistica del luogo, pubblicata nel secondo volume della sua opera dedicato alle tavole2: un’incisione con in primo piano la mole del “Convento Bianco”, qualche personaggio (mamelucchi?) e, sullo sfondo, assai più piccolo, il «Convento Rosso» (fig. 1).

Si susseguono cronologicamente a questo

punto una serie di autori3, che però nulla di nuovo aggiungono a quanto sappiamo sul Rosso. Interessante fra tutte per il suo carattere tipicamente romantico la figura e l’opera di Robert Curzon, viaggiatore e avventuriero che nel

1 DENON 1802, I, p. 240. 2 Vedi nota precedente. 3 In ordine cronologico si riportano i testi in cui viene citato il «Convento Rosso»: WILKINSON 1835; BUTLER 1886; FERGUSSON 1893.

1833 visita i monasteri, regalandoci un’ampia e pittoresca descrizione del Bianco, mentre accenna assai brevemente al Rosso4.

Finalmente con l’aprirsi del XX secolo, e

precisamente nel 1901, in pieno sviluppo ed “emancipazione” delle discipline archeologiche, sulla scia del rinnovato interesse verso le antichità cristiane, il russo Vladimir Bok, francesizzato in De Bock, documenta per la prima volta e in modo esauriente il Monastero, con un fondamentale studio storico, archeologico e architettonico e soprattutto con la prima, fondamentale campagna fotografica, assai utile per poter determinare le successive fasi conservative del monumento5.

De Bock vide e documentò una situazione assai diversa da quella attuale.

In primo luogo nota che, da quanto appreso da Porphyre Uspensky che visita il monastero prima del 18566, le colonne già apprezzate due secoli prima dal Vansleb sono state portate a Sohag per la costruzione di una moschea (all’incirca nel XVIII secolo), e che sul posto ne è rimasta una sola (la stessa che si può ammirare ancora oggi) inglobata in un muro, senza il suo capitello.

Ma soprattutto documenta la situazione interna della navata: un piccolo villaggio si è completamente impossessato dello spazio interno, come una piccola cittadella all’interno delle possenti mura perimetrali della chiesa (fig. 2).

È probabile che il villaggio (le cui costruzioni

sono definite “masures modernes”) si sia insediato

4 CURZON 1849. 5 DE BOCK 1901. 6 USPENSKY1895, p 426 ss.

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Fig. 2 - Veduta della “navata” interna della chiesa con il villaggio nel 1901 (da DE BOCK 1901).

all’interno del recinto dopo le scorrerie mamelucche di fine ‘700 ricordate dal Denon1, dal momento che né un osservatore attento come Vansleb nel ‘600, né tantomeno Pockoke nel ‘700, il quale, anzi, parla ancora di una “chiesa”, seppur in rovina, ne danno notizia. Il carattere difensivo di tale insediamento è suggerito anche dalla chiusura con materiale di reimpiego (rocchi di colonne, conci) della porta del muro nord, come testimoniato dal De Bock e ben visibile in una foto.

Per quanto riguarda la parte del triconco absidale, fondamentali sono le fotografie di questo studioso, in quanto mostrano una situazione completamente differente da quella odierna: al posto del muro attuale ne troviamo un altro in mattoni crudi più basso dell’odierno, dal quale, nella parte centrale sopra la porta d’ingresso, parte una piccola calotta a copertura dello spazio fra il muro e le colonne dell’arco trionfale (fig. 3).

Dalla stessa fotografia e da altre scattate all’interno si intuisce, inoltre, che la cupola del triconco in quel periodo doveva essere costruita con la stessa tecnica del muro di facciata, intonacata e raccordata al “tamburo” quadrangolare, nel quale si aprivano le finestre (alcune murate), tramite delle trombe (fig. 4).

Lo stesso arco trionfale, poggiante sulle due monolitiche colonne di granito, non era in conci di pietra come oggi, ma in mattoni.

1 DENON 1802, I, p. 240.

In ultimo è da notare che le pareti interne delle tre absidi, scandite in due registri da cornici e ornate con nicchie e colonne, erano state “foderate” fino all’altezza della calotta con mattoni (fig. 5), evidentemente per sostenere le cornici stesse assai deteriorate (quelle che oggi vediamo in legno): il che ha contribuito non poco a proteggere le decorazioni pittoriche e architettoniche.

Appena pochi anni dopo il De Bock, nel 1905, l’egittologo e disegnatore Jean Clédat si trova sul luogo nell’ambito delle sue campagne svolte in Egitto fra il 1901 e il 1905 per documentare fotograficamente e ad acquerello il monastero e le sue decorazioni2. Di questo materiale, almeno per quanto concerne il «Convento Rosso», risultano a tutt’oggi pubblicati a chi scrive, solo i due acquerelli e forse parte delle foto presenti nelle tavole della monografia di Monneret de Villard3 (figg. 6 e 7).

Proprio la monografia di quest’ultimo autore è

da considerarsi ancora oggi il caposaldo per chi

2 Sia i negativi che gli acquerelli stessi sono custoditi negli archivi del Museo del Louvre; alcuni degli acquarelli di Clédat sono riportati fra le tavole del testo di Monneret de Villard (MONNERET DE VILLARD 1925). I negativi della campagna fotografica sono invece stati donati al Louvre dell’erede di Clédat. Cfr. GALLIARD 1988, con relativa bibliografia. 3 MONNERET DE VILLARD 1925.

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Fig. 3 - La facciata della parte absidale della chiesa nel 1901

(da DE BOCK 1901).

voglia approcciarsi allo studio del monumento. Il testo vede la luce nel 1925, e affronta in maniera completa tutte le problematiche relative ai due monasteri, conducendo uno studio comparato tra fonti e testimonianze archeologiche e architet- toniche. Ma soprattutto per noi risultano fondamentali le fotografie pubblicate in appendice alla fine dei due volumi, che rimangono più di ogni altra cosa oggettive testimonianze del passato.

Fra le foto del De Bock (1901) e quelle pubblicate da Monneret de Villard, che come abbiamo detto in parte forse riprende alcuni negativi di Clédat, al monastero deve essere accaduto qualcosa di assai importante, dal momento che nel giro di pochi anni il villaggio costruito all’interno della navata viene smantellato (fig. 8), il muro in mattoni di chiusura della parte absidale sparisce (e con lui chiaramente anche la calotta soprastante) (fig. 9) e viene ricostruito come oggi lo vediamo (fig. 10) e la porta del muro nord viene riaperta. Si interviene pesantemente anche all’interno della chiesa, con la ricostruzione in pietra dell’arco trionfale, del muro alla destra dello stesso con la porta che immette nel vano laterale, e probabilmente viene rifatta anche la cupola: in pratica tutto quello che noi vediamo oggi in pietra bianca, e che ancora nettamente si distingue dal resto delle murature, è un restauro intervenuto fra i primi del novecento e gli anni venti.

Fig. 4 - L’interno della cupola con la tromba (da DE BOCK 1901).

Fig. 5 - La colonna destra dell’arco trionfale. Si noti l’arco stesso in mattoni e la cortina sul fondo che ricopre l’abside

meridionale (da DE BOCK 1901).

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Fig. 6 - Acquerello di Jean Clédat ritraente le pitture del monastero (da MONNERET DE VILLARD 1927).

Quale può essere stato l’evento scatenante una

tale attività edilizia? Da una foto pubblicata da Monneret de Villard si vede chiaramente l’abside nord del triconco in condizioni assai disastrate, con detriti sparsi sul pavimento e un attonito personaggio che guarda verso la macchina fotografica: si intuisce chiaramente che nel complesso sono avvenuti dei crolli, forse dovuti a un terremoto, fenomeno non raro nella zona, e che, come vedremo, si ripeterà in seguito.

Da testimonianze raccolte sul luogo da chi scrive, apprese dall’attuale monaco del convento, Abuna Antonius, è stato confermato che la chiesa riprese la sua attività nel 1910, e che la costruzione del muro attuale risale a quel periodo: si può dunque ipotizzare che in seguito ad un terremoto avvenuto fra il 1901 e il 1910, si sia colta l’occasione per una renovatio rerum e si sia messo mano all’intero complesso.

Fino a questo momento della cronologia si può dunque ipotizzare che: • già all’epoca di Vansleb (1672) è possibile che la parte del triconco fosse chiusa da un muro delimitante lo spazio cultuale, forse lo stesso rimasto in piedi fino al 1910, e la decorazione del triconco doveva essere già stata occultata dal “rivestimento” di mattoni, tanto che il domenicano si sofferma sulle colonne, ancora in situ, ma tace completamente sulla ricca decorazione absidale (invero di interesse assai maggiore rispetto al «Bianco»); • nella prima metà del Settecento la situazione doveva essere perlopiù invariata, allorché Pockoke nel 1743 visita il luogo e conferma la presenza del muro divisorio, ma tace sulla decorazione absidale; • nella seconda metà dello stesso secolo, così come riferito dal viaggiatore Uspensky che visita il monastero nel 1856, le colonne vengono portate

Fig. 7 - Acquerello di Jean Clédat ritraente le pitture del monastero (da MONNERET DE VILLARD 1927).

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Fig. 8 – Il muro nord e, sulla destra, la facciata del triconco in fase di ricostruzione (da MONNERET DE VILLARD 1927).

Fig. 9 – La facciata “assente” (da MONNERET DE VILLARD 1927).

Fig. 10 – La nuova e attuale facciata (da MONNERET DE VILLARD 1927).

a Sohag per edificare una moschea1; • alla fine dello stesso secolo Denon arriva esattamente il giorno dopo il saccheggio mamelucco, e trova il monastero in fiamme. Forse in conseguenza di tali scorrerie si insedia all’interno delle mura perimetrali della chiesa un villaggio semi-fortificato e maggiormente difendibile a protezione della popolazione locale. Questa situazione rimane invariata almeno fino al

1 Nell’ultima missione dell’ottobre 2003 si è tentato di rintracciare questa moschea, che però risulta sconosciuta agli stessi abitanti di Sohag. È purtroppo probabile che sia in rovina o sia stata distrutta.

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Fig. 11 – Plastico ricostruttivo della chiesa secondo le ipotesi di H. G. Evers e di K. Romero (da EVERS-ROMERO 1964)

1910, ed è documentata da De Bock (1901) e da Clédat (1905); • prima del 1910 la chiesa viene pesantemente danneggiata, forse da un sisma, il che costringe a metter mano alle strutture absidali (arco, cupola, muri) con la sostituzione delle strutture in mattone crudo con altre di pietra, allo “scoprimento” della decorazione delle tre absidi con la rimozione della cortina di mattoni, allo smantellamento del villaggio e infine al ripristino dell’accesso nel cortile dal muro nord e alla riapertura al culto del monastero.

Purtroppo dopo il fiorire di studi e di campagne fotografiche nei primi due decenni del XX secolo, contrariamente alla facilità sempre maggiore di produrre immagini e testimonianze grafiche varie, non abbiamo un’esauriente documentazione iconografica del monastero dagli anni trenta in poi.

Nel 1962 una missione tedesca di architetti, guidata da Hans Gerard Evers e Kolf Romero, si reca sul posto, e nel resoconto pubblicato, incentrato per lo più su problemi di storia dell’architettura, ci lascia la pubblicazione di un modellino in scala della chiesa monasteriale (fig. 11) senza purtroppo interessarsi degli spazi interni

del monastero (pitture e decori architettonici)1. Solo nel 1973 una missione francese riprende

lo studio del sito, che s’interrompe nel 1980, senza alcuna pubblicazione di materiale utile2.

Per la conoscenza delle ultime fasi della chiesa bisogna purtroppo rifarsi ad una tradizione “orale”, prassi che in noi occidentali abituati alla “fedeltà” del testo scritto e dell’immagine lascia alquanto perplessi, mentre in queste zone è ancora uno dei modi del comunicare più diffusi: bisogna dunque apprendere direttamente dalle persone che vivono sul luogo o da quelle che vi hanno lavorato quanto è accaduto, cercando di superare le notevoli difficoltà comportate dalla nostra ignoranza della lingua araba.

Nelle nostre due missioni, quella del febbraio 2002 e l’ultima dell’ottobre 2003, essendo venuti a contatto non solo con il già citato Abuna Antonius, che da più di dieci anni è monaco in quel monastero, ma anche con diverse persone che in prima persona hanno lavorato sul monumento, si può tentare di dare una successione cronologica di eventi ed interventi che hanno interessato il 1 EVERS-ROMERO 1964, pp. 175-194. 2 MOORSEL-INNEMÉE 1997, pp. 70-71.

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luogo. La prima e più importante notizia raccolta è

che nel 1992 un terremoto ha provocato gravi danni al monastero (apertura e riapertura di crepe, dissesti vari), in conseguenza del quale nel 1993-1994 sono stati effettuati alcuni interventi di consolidamento e di restauro da parte delle autorità egiziane, fra i quali il rifacimento della pavimentazione della chiesa e la sostituzione delle assi di legno fra i conci delle pareti3.

Nel 1996 si è intervenuti, sempre da parte egiziana, ad una serie di interventi sulle pitture, e

3 A quanto pare in seguito a tale terremoto fu addirittura chiesto l’intervento dell’UNESCO, che non sembra esser mai arrivato.

sempre nello stesso si è provveduto alla sostituzione di alcune parti mancanti della decorazione lapidea, in particolare alcune lesene sovrastanti le piccole porte della absidi nord e sud, con dei calchi eseguiti su parti simili ancora integre.

Concludo questa breve relazione confidando che con l’aiuto della sinergia fra la nostra missione e i locali studiosi egiziani, possano emergere nuove testimonianze che illustrino la fortuna e le vicissitudini conservative di questo monumento, la cui conoscenza è primaria per affrontare un qualsiasi progetto di restauro.

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