La moda che fa male a chi la fa

4
68 La moda che fa male a chi la fa S e gli abiti possono contenere residui pericolosi per chi li indossa, fanno sicuramente male a chi li produce, specie quando si tratta di operai che lavorano, in nero, sottopagati e senza nessuna tutela, nelle fabbriche di Paesi asiatici o africani, dove la tutela del lavoro è completamente ignorata così come le misure di prevenzione e sicurezza. Anzi, per essere più precisi dovremmo dire “le operaie”, dato che è femminile l’80 per cento della forza lavoro della produzione mondiale di prodotti tessili. Donne pagate ancora meno dei colleghi maschi, disposte a sobbarcarsi orari di lavoro estenuanti e vessazioni di ogni tipo pur di guadagnare qual- cosa per sfamare la famiglia. Da quando, nel 2005, l’Organizzazione mondiale del commer- cio (Wto) ha liberalizzato definitivamente il mercato mondiale de- gli scambi, è finito anche l’Accordo Multifibre che fino ad allora aveva regolamentato il settore del tessile-abbigliamento grazie a un sistema di quote assegnate a ciascun Paese. Si è così instaurato un regime di competizione globale, dove vince chi offre i prezzi più bassi; e pazienza se sono ottenuti tagliando i salari, aumentando gli orari di lavoro, ignorando i più elementari diritti umani prima ancora che sindacali e provocando danni irreversibili all’ambiente. Ad accaparrarsi le prime posizioni nella nuova classifica dei com- petitori globali sono Cina, Macedonia e India che hanno aumenta- to le loro esportazioni verso i mercati occidentali, rispettivamente del 73 per cento, del 56 per cento e del 43 per cento, seguiti da

description

Capitolo del libro "Vestiti che fanno male" di Rita Dalla Rosa (Terre di mezzo Editore)

Transcript of La moda che fa male a chi la fa

Page 1: La moda che fa male a chi la fa

68

La moda che fa male a chi la fa

Se gli abiti possono contenere residui pericolosi per chi li indossa, fanno sicuramente male a chi li produce, specie

quando si tratta di operai che lavorano, in nero, sottopagati e senza nessuna tutela, nelle fabbriche di Paesi asiatici o africani, dove la tutela del lavoro è completamente ignorata così come le misure di prevenzione e sicurezza. Anzi, per essere più precisi dovremmo dire “le operaie”, dato che è femminile l’80 per cento della forza lavoro della produzione mondiale di prodotti tessili. Donne pagate ancora meno dei colleghi maschi, disposte a sobbarcarsi orari di lavoro estenuanti e vessazioni di ogni tipo pur di guadagnare qual-cosa per sfamare la famiglia.

Da quando, nel 2005, l’Organizzazione mondiale del commer-cio (Wto) ha liberalizzato definitivamente il mercato mondiale de-gli scambi, è finito anche l’Accordo Multifibre che fino ad allora aveva regolamentato il settore del tessile-abbigliamento grazie a un sistema di quote assegnate a ciascun Paese. Si è così instaurato un regime di competizione globale, dove vince chi offre i prezzi più bassi; e pazienza se sono ottenuti tagliando i salari, aumentando gli orari di lavoro, ignorando i più elementari diritti umani prima ancora che sindacali e provocando danni irreversibili all’ambiente. Ad accaparrarsi le prime posizioni nella nuova classifica dei com-petitori globali sono Cina, Macedonia e India che hanno aumenta-to le loro esportazioni verso i mercati occidentali, rispettivamente del 73 per cento, del 56 per cento e del 43 per cento, seguiti da

Page 2: La moda che fa male a chi la fa

69la moda che fa male a chi la fa

Cambogia, Indonesia e Bangladesh. È dunque l’Asia a dominare il commercio globale di abbigliamento, con una concentrazione im-pressionante di fabbriche tessili, favorita dai salari più competitivi al mondo.

Secondo i dati raccolti da fonti sindacali operanti nei diversi Paesi, oggi il salario medio di un lavoratore asiatico si aggira sui due dollari al giorno per una giornata di otto ore. Questa condizio-ne coinvolge decine di milioni di lavoratori e li obbliga a lavorare molte ore in più (naturalmente non pagate come straordinario) per racimolare quanto basta per sbarcare il lunario. Sono i working poors, la nuova classe di lavoratori globali che si trova in una si-tuazione di povertà endemica pur sgobbando 12-14 ore al giorno. Infatti, mentre i salari sono congelati o addirittura scendono, la vita diventa sempre più cara. La denuncia viene da Clean Clothes Campaign, una rete di azione e solidarietà internazionale nata ne-gli anni Novanta e impegnata a svelare i meccanismi iniqui che re-golano la produzione di capi d’abbigliamento nelle filiere interna-zionali, con l’obiettivo ambizioso di porre fine all’oppressione, allo sfruttamento e agli abusi che subiscono milioni di lavoratori, per la maggioranza donne e molto spesso bambini, impiegati nell’in-dustria tessile mondiale. “Facciamo l’esempio di una famiglia in-diana di quattro persone, collocata nei gradini inferiori della scala sociale”, dice Deborah Lucchetti, esperta di fair trade e portavoce di Abiti Puliti, la sezione italiana di Clean Clothes Campaign. “Per poter semplicemente sopravvivere deve affrontare una spesa gior-naliera di quattro dollari, ossia il doppio del salario medio di un la-voratore tessile. Questo significa che per arrivare ai quattro dollari, le famiglie sono costrette a ricorrere a tutti i mezzi, come mandare i figli in fabbrica anziché a scuola.” Spesso, poi, al danno si aggiun-ge la beffa di vedersi negato il pagamento anche dei salari minimi, come è successo qualche anno fa in Cina, dove in un solo distretto sono stati registrati ben 36.408 reclami per mancati pagamenti di

Page 3: La moda che fa male a chi la fa

70

salari. “Una corsa al ribasso”, sottolinea Deborah Lucchetti, “che finisce col punire l’intero sistema produttivo mondiale, per cui milioni di persone non saranno mai in grado di indossare ciò che producono e altri sono messi alla porta perché non competitivi.” Ma si sbaglierebbe a pensare che queste storie di supersfruttamen-to siano legate solo alla produzione della cosiddetta fast fashion, l’abbigliamento usa-e-getta a poco prezzo che ha fatto salire la feb-bre del consumo. Gli episodi di violazione dei diritti portati alla luce da Clean Clothes Campaign fanno spesso parte della filiera di grandi marchi occidentali e anche di griffe del lusso, che hanno esternalizzato la propria produzione spezzettandola qua e là per il mondo per meglio sfruttare le occasioni di risparmiare sui co-sti e fingendo di non sapere in quale modo quel risparmio viene ottenuto. A volte, per sentirsi a posto, è sufficiente ripararsi dietro la foglia di fico di una qualche certificazione fasulla rilasciata da funzionari di Paesi ad alto tasso di corruttibilità. Oppure si può approfittare delle “zone economiche speciali” sbandierate come occasione per favorire lo sviluppo democratico, in realtà vere e proprie deroghe alle convenzioni internazionali che permettono di ignorare il rispetto dell’ambiente e dei diritti umani. In Gior-dania, ad esempio, si chiamano Qiz, che sta per Zone industriali qualificate, create anche in Egitto in collaborazione con Israele per trarre vantaggio dagli accordi di libero scambio israelo-americani. “Il gioco è semplice”, spiega ancora Deborah. “Basta creare delle aree produttive esentate dal rispetto delle regole in ambito sociale, ambientale e fiscale, promuovere attraverso gli accordi di libero scambio rapporti preferenziali tra determinati Paesi, che vengono favoriti dall’abbattimento di barriere tariffarie, e utilizzare tali aree per comprimere al minimo i costi aumentando così il beneficio economico degli investitori che possono raccogliere utili a piene mani. Secondo le statistiche del ministro del Lavoro giordano, nel 2006 la forza-lavoro totale impiegata nelle zone speciali ammonta-

Page 4: La moda che fa male a chi la fa

71la moda che fa male a chi la fa

va a più di 54mila persone, delle quali solo il 33 per cento era gior-dano. Gli altri erano migranti provenienti da Paesi asiatici come Bangladesh, Cina, Sri Lanka, Vietnam e India, spesso costretti a versare tangenti a chi li fa lavorare illegalmente in condizioni di schiavitù.” Secondo il Dipartimento di Stato americano, dal punto di vista commerciale le cose vanno a gonfie a vele, visto che dal 1999 le 13 Qiz, costituite “in sostegno al processo di pace nel Me-dio Oriente”, hanno attirato 450 milioni di dollari di investimenti che hanno generato qualcosa come 4 miliardi di dollari di export verso gli Usa, per la maggior parte nel settore tessile. Peccato che dietro i lusinghieri dati commerciali si celino tante storie di sfrut-tamento e sistematica sopraffazione.