La repressione fa male a tutti

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LA REPRESSIONE FA MALE A TUTTI. Opuscolo informativo sulla repressione dentro e fuori gli stadi.

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Opuscolo informativo sulla repressione dentro e fuori gli stadi. Realizzato dagli Ultras dell'Atalanta nel luglio 2015.

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LA REPRESSIONEFA MALE A TUTTI.Opuscolo informativosulla repressionedentro e fuori gli stadi.

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LA REPRESSIONE FA MALE A TUTTI

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Vogliamo ricordarti così,

vogliamo ricordarti Ultras.

A Giorgio

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LA REPRESSIONE FA MALE A TUTTI

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SOMMARIO:

1. Introduzione

2. Bergamo come laboratorio: l’innalzamento della repressione

3. Leggi e provvedimenti nel mondo ultras

4. L’occhio di vetro del calcio mondiale

5. La creazione del consenso

6. Leggi speciali: oggi agli ultrà domani a tutta la città

7. Chi controlla il controllore?Tortura e numeri identificativi: le leggi impossibili

Ordine pubblico a Bergamo:il problema è il cesto, non le mele marce

8. Uno sguardo all’Europa

9. Consigli pratici

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INTRODUZIONE

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Questo lavoro nasce dall’esigenza di contestualizzare la fase che sta attraversando il tifo organizzato in Italia. Partendo dalla nostra esperienza diretta cercheremo quindi di fornire quella visione d’insieme indispensabile per una piena comprensione delle cause, dei fattori e delle finalità di una crescente repressione che mira senza mezzi termini ad eliminare gli ultras dagli stadi.

INTRODUZIONE

Un’accelerata repressiva che nel giro di 10 anni ha registrato diversi salti di qualità catalogabili essenzialmente in 3 categorie collegate e consequenziali tra loro: repressione sul “campo”, repressione giudiziaria e, come ultima fase di questo percorso la repressione ideologica, tesa a creare il male assoluto, l’entità da estirpare perché colpevole di tutti i mali del sistema calcio.

All’interno di questo processo, gli ultras e lo stadio sono diventati il terreno dove poter sperimentare tecniche di controllo e repressione con l’obiettivo sempre più esplicito di estenderle successivamente al resto della popolazione e alla società in generale: strumenti normativi (alcuni dei quali ai limiti della costituzionalità) come il Daspo di Gruppo, l’arresto in differita, l’introduzione del Taser o l’utilizzo politico e pretestuoso del reato di devastazione, rappresentano la prova pratica di come lo stadio sia a tutti gli effetti un terreno di prova per misure repressive da applicare successivamente al resto della società. Risulta quindi assolutamente fondamentale comprendere tale aspetto per non relegare ad un livello marginale, difficilmente comprensibile ai più, quelle battaglie portate avanti dal movimento ultras e spesso tenute in scarsa considerazione al dì fuori di esso: una valida dimostrazione in questo senso è stato il percorso intrapreso per la modifica dell’articolo 9 (interrotto solo dai tragici fatti della finale di Coppa Italia dello

scorso anno e dai conseguenti provvedimenti), avviato anche grazie all’interessamento di personalità estranee al mondo del calcio resesi conto di come esso potesse trovare successiva applicazione per limitare il diritto a manifestare (già c’era chi lo proponeva nel contesto delle dimostrazioni contro la TAV).

Un controllo sempre più stringente per tutti, o quasi, perché se da un lato la libertà delle persone viene sempre più limitata, dall’altro assistiamo sempre più ad episodi in cui se a macchiarsi di azioni gravissime e reati sono uomini delle forze dell’ordine ecco che l’omertà e l’impunità la fanno da padrone. In questo lavoro faremo il punto anche sulle mancanze legislative dello Stato italiano come ad esempio quella sul reato di tortura o ancora la mancanza di numeri identificativi sulle divise. Completeremo poi il quadro con una parte interamente dedicata ai tutori dell’ordine “nostrani”, non troppo ligi al dovere.

Altro discorso legato indissolubilmente alla repressione è la parte legata ai processi di valorizzazione economica, vale a dire quegli aspetti legati al business che con il mondo del calcio e la passione dei tifosi delle squadre hanno poco a che vedere. È innanzitutto necessario far notare come il tifoso da stadio abbia perso gran parte di quella centralità avuta almeno fino alla prima metà degli anni ’90, centralità derivante dal fatto

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che i biglietti venduti al botteghino ha costituito la gran parte dei ricavi delle società di calcio. Con l’avvento delle televisioni e del calcio moderno questo aspetto è venuto meno perché, come tutti sappiamo, ad oggi quasi tutte le squadre potrebbero andare avanti senza i profitti ricavati dalla vendita dei biglietti, ormai divenuti quasi irrilevanti

per la gestione finanziaria dei club. Le conseguenze pratiche di quanto appena detto sono molteplici: calcio “spezzatino” (ad esempio quest’anno la serie C ha giocato praticamente 5 giorni a settimana), spostamenti delle partite per esigenze televisive, in barba ai tifosi che programmano le loro giornate in base alla partita della propria squadra, proposte di giocare partite di serie A all’estero fino alle finali di Coppa giocate dall’altra parte del mondo in Cina o negli Emirati Arabi, dove a fronte di diritti pagati fior di milioni gli unici che ancora una volta ci

rimettono sono i tifosi delle squadre interessate, i soli che possono dare il giusto valore a partite del genere. Un discorso, quello della perdita di centralità del tifoso, che porta con se una non trascurabile contraddizione, in quanto è evidente che il pacchetto televisivo/mediatico italiano ed estero necessiti di una cornice di pubblico tale da giustificare e rendere attrattivo lo spropositato interesse per il calcio (in senso economico). Ecco allora

GLI ULTRAS E LO STADIO SONO DIVENTATI IL

TERRENO DOVE POTER SPERIMENTARE TECNICHE

DI CONTROLLO E REPRESSIONE

INTRODUZIONE

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che diventa necessario per chi governa il calcio eliminare progressivamente fette consistenti di tifo dagli stadi per poi sostituirlo con una tipologia di pubblico diverso, più adatto al prodotto che si vuole vendere. In questo senso trova giustificazione il progressivo aumento del costo dei biglietti e la conseguente esclusione delle fasce popolari dagli impianti sportivi, favorita dalla parallela diminuzione dei prezzi delle pay-tv. Elementi tutti che sbugiardano in maniera difficilmente contestabile l’odiosa retorica del voler riportare le famiglie allo stadio, in quanto diventa difficile pensare che una famiglia possa o voglia sostenere costi esorbitanti quando ha la possibilità di vedersi la partita per cifre nettamente inferiori sul divano (venendo di fatto esclusa dalla partita dal vivo). Altro strumento utilizzato è, appunto, quella repressione ideologica che vuole identificare nel tifo organizzato uno dei principali problemi del calcio (se non in assoluto quello più grave). Naturalmente il ruolo principale di questa partita spetta ai media, i quali sono determinanti nell’influenzare l’opinione pubblica.

Strumentalizzare avvenimenti, omettere fatti e creare contesti che legittimino gli errori degli organi di pubblica sicurezza ed enfatizzino i comportamenti dei tifosi sono solo alcune delle modalità con cui agiscono televisioni e giornali, necessari sia alla repressione in quanto tale, sia al business che ne deve conseguire. Cercheremo allora di approfondire questi e altri temi, consci più che mai del fatto che solo continuare a lottare paga, ma anche convinti che una lotta, se vuole avere speranze di vittoria, deve essere in primo luogo consapevole: da qui la necessità di comprendere il più possibile ciò che accade intorno a noi, forti e coscienti di quella centralità di tifosi e ultras a cui ci siamo più volte riferiti; una centralità che, sebbene minacciata e indebolita, non può che rimanere strutturalmente nelle mani degli stessi tifosi senza i quali il calcio, a certi livelli, sarebbe solamente un gioco in cui 22 persone corrono su un prato e tirano calci ad un pallone: non proprio l’idea di calcio che ha fatto appassionare milioni di persone.

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BERGAMO COME LABORATORIO

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Un processo repressivo, quello descritto nella premessa, che a Bergamo si è manifestato in maniera esemplare, rendendo così la lotta contro la Curva Nord una sorta di esperimento nell’esperimento per una serie di motivi.

Bergamo come laboratorio:L’INNALZAMENTO DELLA REPRESSIONE

Da una parte una città di medie dimensioni, senza quindi le problematiche di metropoli come Roma o Napoli, ha permesso alla questura, ai media locali e nazionali oltre che alla politica di concentrarsi a vario titolo contro quello che viene considerato l’ultimo ostacolo al totale snaturamento del sistema calcio, vale a dire il tifo organizzato. D’altra parte sono proprio le caratteristiche del tifo organizzato bergamasco ad essere il motivo di così tanto accanimento.

La Curva Nord, infatti, rappresenta il perfetto esempio di auto-organizzazione spontanea, legittimata e apprezzata da migliaia di atalantini in cui esiste una partecipazione totale e passionale da parte di tutti. In cui tutti sono importanti ma nessuno è indispensabile, come dimostrano, ad esempio, le centinaia di curvaioli che, in maniera del tutto volontaria e gratuita, lavorano ogni estate alla Festa della Dea o che si danno da fare a vario titolo per onorare la storia dell’Atalanta creando momenti di socialità e aggregazione importantissimi. Una legittimità, quella di cui gode la Curva Nord, dettata dai rapporti umani e dall’esperienza diretta di tantissimi bergamaschi e che per questo è ancor più difficile da sradicare. Di seguito approfondiremo sei casi di repressione recente che, oltre a testimoniare un affinamento delle tecniche repressive, chiariscono la reale natura prevenuta, nemica di ogni forma di partecipazione dei tifosi nel mondo del calcio.

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1. Maxi processo e “Associazione a delinquere” (repressione giudiziaria)

Un processo arrivato dopo anni di repressione asfissiante, frutto di un ingente dispiegamento di uomini e di mezzi a cui si aggiungono faldoni di intercettazioni, perquisizioni a qualsiasi ora del giorno o della notte, legittimati da quel capo di

imputazione, l’associazione a delinquere appunto, in seguito separata dal filone principale del processo: chiaro esempio di come l’obbiettivo della Procura non fosse tanto accertare le reali responsabilità su questo o quel fatto, di questa o quella persona, quanto piuttosto quello di voler colpire il corpo sociale che si sta giudicando quasi a prescindere dal singolo componente. Sullo scorporamento successivo del reato di associazione a delinquere torneremo dopo; per prima cosa invece, vogliamo

riflettere sulla sentenza di primo grado che, a fronte di una richiesta di 165 anni di carcere da parte della Procura, ha determinato pene per un totale di 47 anni. Un dato che fa ancor più riflettere se rapportiamo i 47 anni di reclusione con il totale dei condannati, 50! Vale a dire poco meno di un anno a testa! Una prima sconfitta per il Pm Carmen Pugliese e per

UN PROCESSO CHE NON AVREBBE NEANCHE DOVUTO

INIZIARE, PORTATO IN AULA DA UN PM PIÙ VOLTE

DIMOSTRATOSI PREVENUTO

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la Questura che durante il processo le hanno tentate tutte, tra cui ricordiamo lo squallido tentativo della digos di attribuire a Claudio Galimberti una frase in cui lo stesso avrebbe riferito, all’agente testimone dell’accusa, l’intenzione di scatenare l’inferno ad Alzano. Una testimonianza chiaramente falsa oltre che in mala fede, perché come ricordato dagli avvocati difensori durante il dibattimento “non si capisce come un’affermazione di così tanta importanza non sia stata subito messa a verbale e che tale frase sia magicamente emersa a distanza di anni dai fatti”. La sentenza di primo grado ha quindi visto 36 persone uscire completamente dal processo oltre a riportare l’assoluzione, con formula piena, per i partecipanti alla contestazione contro la società Atalanta a Zingonia, lasciando di fatto in piedi solamente le imputazioni per i fatti accaduti alla Berghem Fest di Alzano. In quest’ultimo caso, è bene ricordarlo, nessuno dei condannati è stato ritenuto realmente responsabile in quanto gli specifici fatti di Alzano sono ancora ascritti ad ignoti; quello che il giudice ha parzialmente accettato è l’ipotesi dell’accusa per la quale i condannati per il semplice fatto di trovarsi lì siano ugualmente responsabili degli episodi contestati. Tutti gli altri capi di imputazione sono praticamente divenuti irrilevanti, dall’adunata sediziosa, agli incidenti coi catanesi per i quali, questi ultimi, a fronte degli scenari apocalittici descritti in aula che lasciavano immaginare chissà quale scenario di guerra, ne sono usciti con qualche centinaio d’euro di multa. Un processo quindi che, al netto delle sentenze di primo grado, non avrebbe neanche dovuto iniziare ma che è stato portato in aula grazie alla ferma volontà di un Pm più volte dimostratosi prevenuto, come testimoniano le frequenti dichiarazioni rilasciate alla stampa, inusuali per la sua figura professionale. Una volontà “extra-giudiziaria” contro il tifo organizzato che il Pm Carmen Pugliese ha dimostrato anche nel caso del ricorso in Cassazione a fronte della decisione del Gup (che si è aggiunta a quella del Gip) di escludere dal processo il reato di associazione a delinquere. Un capo d’imputazione come detto pesante e strumentale in quanto rappresenta l’estremo tentativo di eliminare la Curva Nord in quanto realtà aggregativa; nel caso fosse quindi riconosciuta l’associazione per delinquere si creerebbe un pericolosissimo precedente non solo per i gruppi ultras di tutta Italia ma per qualsiasi organizzazione/movimento considerato avverso agli interessi del potere costituito.

2. Atalanta - Roma ed il reato di devastazione (repressione sul campo e giudiziaria)

Durante il dopo partita di Atalanta - Roma della scorsa stagione, la digos di Bergamo ferma otto ragazzi, confermando successivamente l’arresto per sei persone e denunciando a piede libero i due minorenni. L’accusa rivolta ai fermati da parte della questura è quella di aver partecipato agli incidenti di Via Baioni per i quali viene proposto, per la prima volta, il reato di devastazione (reato per il quale la pena massima prevista è di 15 anni di reclusione). Arresti arbitrari perché, come sostenuto dalla Nord e da oltre una trentina di testimoni, i ragazzi al momento degli incidenti non si trovavano in Via Baioni bensì da tutt’altra parte, al Baretto, in prossimità del quale sono stati infatti arrestati. Grazie all’asservimento dei media è stata creata una campagna di criminalizzazione senza precedenti, con il sindaco Gori in prima linea nel chiedere pene esemplari, tanto da recarsi direttamente a Roma. Una gogna durata settimane che ha causato 20 giorni di carcere per sei innocenti a cui sono seguite perquisizioni, domiciliari e obblighi di firma, ancora, la chiusura della Curva Nord ai non tesserati per ben tre mesi e la successiva chiusura del Baretto per diverse partite. Poco importa se poi tutte le accuse ai danni dei ragazzi fermati siano state smentite dai fatti: il Tribunale del Riesame ha smontato le accuse della questura semplicemente visionando le immagini delle telecamere di sicurezza che, “stranamente”, sono state rese disponibili solo dopo qualche settimana nonostante fossero state reclamate a gran voce sia dai familiari dei ragazzi, sia dalla Curva Nord. Se tutto questo non bastasse a far comprendere la chiara

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intenzione di criminalizzare la Nord basta rileggersi gli articoli di giornale in cui si riportava la testimonianza di un agente che avrebbe visto in faccia i fermati durante i disordini, peccato poi sia stato smentito dalle riprese delle telecamere; ci aspetteremmo come minimo l’inizio di un procedimento per falsa testimonianza, ma come sempre ciò non è accaduto.

L’elemento che qui ci interessa approfondire è però il reato di devastazione nonché il suo uso arbitrario; reato che, se richiesto in fattispecie come quella di Atalanta - Roma, rappresenta un abuso oltre che un’arma “politica” per sovrastimare la realtà dei fatti quando più fa comodo. Innanzitutto è bene premettere che il reato di devastazione è nato durante il ventennio fascista con Regio Decreto del 1930 e nonostante questo le sentenze in materia si contano sulle dita di una mano. Il primo requisito che deve essere presente perché si possa contestare la devastazione è la presenza di danneggiamento vasto e profondo, come ha più volte ricordato la Corte di Cassazione. Il concetto di danneggiamento “vasto” non può dunque essere ricondotto a quanto avvenuto in uno spazio tutto sommato circoscritto (il caso di Via Baioni) e per “profondo” ci si deve riferire ad una tipologia di danneggiamento radicale, condotto con mezzi adeguati che porti in pratica alla distruzione del bene (in via Baioni è stato danneggiato un solo automezzo).

Parafrasando l’avvocato Contucci “sulla differenza tra il reato di devastazione e quello di danneggiamento, altra autorevole voce ha chiosato che “è l’entità della distruzione (si noti l’utilizzo del termine “distruzione” e non danneggiamento, n.d.r.) che caratterizza il primo reato” rispetto al secondo (Cassazione 12.02.1962, ric. Amato). L’analisi da compiere, quindi, nei giudizi di merito non potrà non verificare se i beni siano stati danneggiati in numero limitato, con danni circoscritti e di lieve entità che comunque possono essere riparati facilmente….

Non si può quindi parlare semplicisticamente di devastazione quando in atti vi è segno, semmai, del semplice danneggiamento, ancorché aggravato, di beni, la cui pena edittale, ex art. 635 c.p., va da sei mesi a tre anni…. Nel caso in cui, quindi, vi sia la contrapposizione tra un limitato numero di persone e forze dell’ordine, in una zona comunque circoscritta e tenuta costantemente sotto controllo, con le ovvie difficoltà di chi è preposto a gestire l’ordine pubblico, si ritiene che di certo non possa parlarsi di lesione dell’ordine pubblico nel senso voluto da una norma così affittiva”.

Un utilizzo distorto e strumentale delle norme, quindi, che vuol far ricadere sulla pelle delle persone progetti repressivi di più ampio respiro.

3. Chiusura Curva Nord La risposta del governo nazionale al tam - tam mediatico venutosi a creare dopo Atalanta - Roma ha portato alla

chiusura della Curva Nord, oltre che al divieto di trasferta per l’intera tifoseria atalantina (in barba alla tessera del tifoso!).

Un provvedimento figlio di quella logica emergenziale costruita ad hoc per criminalizzare interi segmenti della società (in questo caso dello stadio) attraverso l’uso di metodologie apertamente repressive legittimate soltanto grazie alla spasmodica attenzione mediatica e all’arresto arbitrario di sei innocenti, in seguito scarcerati. Un modus operandi chiaro a cui non importa tanto se poi il castello accusatorio verrà smontato o meno ma a cui piuttosto interessa creare le premesse per adottare provvedimenti che mai sarebbero accettati dall’opinione pubblica senza un adeguato lavoro in questo senso. Se però ragioniamo in maniera razionale osserviamo come al netto delle calunnie dei giornali è stato deciso arbitrariamente di non permettere di andare in trasferta ai tesserati e di non consentire l’ingresso in Curva ai possessori di voucher, vietando inoltre la possibilità di fare i biglietti. Perché quindi trattamenti differenti a fronte di modalità di accesso allo stadio che rispettano gli stessi requisiti di sicurezza e che presentano identiche autorizzazioni ad esistere? Perché si è dato privilegio ai possessori della tessera del tifoso? L’ipotesi formulata dal Ministro e dall’Osservatorio, senza però nessun documento concreto, come ricorda l’Avv. Contucci, è che, dai dati in loro possesso, i maggiori protagonisti di disordini sarebbero quelli che hanno il famoso voucher. “Un po’ come dire che siccome chi provoca disordini è maschio e ha una età compresa tra i 20 e i 30, si proibisce a tutti gli uomini di quella fascia di età di andare allo stadio” (Contucci).

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Un discorso a parte merita l’attuazione pratica del provvedimento che affida al Prefetto, di partita in partita, le valutazioni sui profili di rischio e di conseguenza la decisione se permettere a tutti o meno di andare allo stadio.

Ora, come si può spiegare la decisone di vietare tutte le partite, notoriamente non ad alto rischio (Chievo, Cagliari, Palermo, Avellino), se non con l’accanimento incondizionato e la malafede?

Un precedente pericoloso perché senza alcuna prova si è impedito indistintamente a delle persone l’ingresso allo stadio solo per il fatto di non avere la tessera del tifoso, solo per non essersi voluti omologare (famiglie comprese). Un vuoto di democrazia e giustizia tipico, senza esagerare, di uno Stato di polizia in cui chi è ritenuto avverso agli interessi di quest’ultimo non ha diritti ne tutele che anzi vengono represse con la forza o attraverso leggi e provvedimenti di questo tipo.

4. Chiusura del Baretto La vicenda della chiusura del Baretto chiarisce ancor di più il fatto che il reale

obbiettivo delle autorità fosse quello di criminalizzare e distruggere la Curva Nord a prescindere dalla determinazione delle responsabilità. Infatti a seguito di un’ingente

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presenza di curvaioli fuori dallo stadio prima, durante e dopo le partite oggetto del divieto imposto alla curva, il questore di Bergamo (lo stesso che in seguito verrà inquisito per truffa, corruzione e peculato) decide, servendosi di una legge del Ventennio, di chiudere il Baretto perché considerato un luogo frequentato da pregiudicati. La legge in oggetto consente al questore di emanare un’ordinanza di questo tipo a cui il gestore del locale in questione potrà contestare la legittimità, non ad un giudice ma al questore stesso, il che è ovviamente un controsenso. Non si comprende infatti il motivo per cui lo stesso organismo che esprime una tale decisione debba essere lo stesso che esamina il ricorso (?!). Viene meno quindi l’imparzialità di chi è chiamato a giudicare (sé stesso).

Una decisione quella della chiusura che però si tramuterà presto in un autogol, viste le proteste di tantissimi atalantini e abitanti del quartiere ma non solo, che porterà poi alla decisione comunque insensata di chiudere il baretto “solo” per 4 partite domenicali. Una vicenda che ha perlomeno messo in moto una mobilitazione trasversale con persone provenienti da diversi ambiti, tutti uniti nella protesta contro un ingiusto provvedimento che aveva quale finalità quella di spaccare il popolo atalantino eliminando un punto di riferimento domenicale oltre a voler colpire direttamente sotto un profilo economico le persone che lavorano al Baretto.

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5. Rifinitura Atalanta - SassuoloEnnesimo tassello di questa escalation repressiva, come detto nella premessa, è

costituito dalla repressione ideologica ovvero il tentativo di far apparire all’opinione pubblica l’ultras come il male assoluto, come la zavorra che non consente al calcio italiano di diventare “civile” e “moderno”. Diventa indispensabile quindi delegittimare a prescindere l’operato degli ultras, se è necessario anche falsificando gli eventi come nel caso della rifinitura mattutina precedente al match Atalanta - Sassuolo. Se non fosse stato per l’infame montatura realizzata dalla Gazzetta dello Sport, infatti, si sarebbe esclusivamente parlato della rifinitura e dello sconfinato amore dimostrato dalla tifoseria per l’Atalanta. Per i quasi 2.000 presenti, tra cui numerose famiglie (tanto care a parole ai nostri ben pensanti), la mattinata del sabato ha rappresentato il culmine di una settimana intensa, fatta di partecipazione e di confronto, in cui la rabbia per la sconfitta contro il Torino si è trasformata nella voglia di trasmettere con le giuste maniere quella grinta e quella determinazione che qualsiasi atalantino si aspetta da chi indossa la SUA maglia. E invece no, perché, ancora una volta, Gazzetta dello Sport e l’Eco di Bergamo decidono di aggiungere un altro tassello alla campagna diffamatoria contro gli ultras, trasformando un confronto stupendo in un’umiliazione subita dalla squadra con minacce ai giocatori e altre stronzate simili. Attraverso l’utilizzo di falsità unite ad una terminologia atta ad insinuare nella mente del lettore l’idea che gli ultras agiscano come la mafia, come un branco si mette in discussione la possibilità dei tifosi non solo di contestare la squadra, fatto che rientra nella normalità, ma persino di criminalizzare tutti gli episodi di attaccamento alla maglia solo per il fatto di essere “organizzati” dagli ultras. In questo senso vanno i recenti provvedimenti adottati dalla FIGC che vietano il contatto tra giocatori e tifosi. In sostanza si vuole relegare la partecipazione del tifoso ad un semplice ruolo di spettatore che paga l’abbonamento e la pay-tv costringendolo ad accettare supinamente qualsiasi decisione venga presa da chi gestisce le società o da chi governa il calcio. Vale a dire da buona parte delle persone coinvolte a vario titolo in scandali di scommesse, corruzione, abusi di potere e chi più ne ha più ne metta. Si tenta in pratica di creare le premesse per permettere a questo sistema di continuare a gestire il calcio secondo logiche di malaffare e opportunismo economico senza il rischio di dover rendere conto a nessuno, tanto meno ai tifosi.

6. Articolo 9: notizia ad orologeriaPer non farsi mancare davvero nulla, proprio mentre ci accingevamo a chiudere

questo lavoro (già abbastanza saturo di repressione), ecco che puntuale come un orologio svizzero arriva la notizia dell’ultimo tassello di questo “puzzle”, ovvero l’inserimento di una trentina di nominativi, di ragazzi appartenenti alla Curva Nord, nella black list del Ministero degli Interni. Sì, perché a dare la notizia il 13 giugno 2015 è, ancora una volta, il Corriere della Sera, che, imboccato direttamente dalla Questura di Bergamo (ad oggi non c’è infatti alcun atto o provvedimento che giustifichi la notizia), da ormai per certo un elenco di almeno trenta nominativi trasmesso al Ministero degli Interni e Lottomatica per l’applicazione dell’art. 9 della Legge 41/07. Come indicato nell’articolo infatti i nominativi sarebbero tra quelli dei condannati in primo grado lo scorso 20 aprile 2015 nel corso del maxi processo agli ultrà. Non ci soffermeremo molto sull’aspetto “superficiale” della vicenda, vale a dire l’ennesima dimostrazione pratica dell’assurdità di tale provvedimento (ne parleremo ampiamente

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in seguito) che impedisce a dei ragazzi di poter entrare allo stadio nonostante abbiano già scontato la diffida o che, peggio ancora, come nel caso della Berghem Fest di Alzano, cui si aggiunge anche la beffa di doversi veder applicato l’art. 9 per una condanna che in sostanza riconosce il fatto di non essere i veri responsabili di quanto accaduto (solo per il presunto concorso). Piuttosto vogliamo sottolineare quanto questo articolo (come tanti in passato su L’Eco e da tempo anche sul Corriere) non sia casuale ma, al contrario, figlio di una volontà ben precisa: destabilizzare l’ambiente della tifoseria organizzata al momento più opportuno. Non si spiegherebbe altrimenti questo articolo, in primis perché ci troviamo in un periodo di “pausa” fra la stagione calcistica appena conclusa e quella che verrà (si verrà realmente a conoscenza dell’applicazione dell’art. 9 solamente alla prima partita ufficiale), in secondo luogo perché arriva in un momento particolare per gli ultras, ovvero a ridosso dalla Festa della Dea, vale a dire uno dei momenti i cui la maggioranza del popolo atalantino ha la possibilità di tastare con mano cosa sia la Curva Nord, al netto degli attacchi mediatici e processuali, mediante la concreta partecipazione ad un evento di popolo che parte dal basso.

L’importanza di analizzare questo articolo sta anche nel fatto che si basa di fatto sulla totale assenza di riferimenti e atti ufficiali a suffragio della notizia stessa, evidentemente qualcuno si limita a riportare ciò che gli viene riferito da qualcuno all’interno della Questura (qualche gola profonda). Vi chiederete allora chi ha il diritto di “passare” informazioni di questo tenore senza rilasciare nemmeno il proprio nome? Il Questore è a conoscenza di questa “pratica” o è lui stesso ad avvallarla? È pertanto evidente che vi sia un rapporto stretto fra giornali e Questura che sempre più spesso va oltre la semplice notizia.

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LEGGI E PROVVEDIMENTI

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Ne è passata di acqua sotto ai ponti dall’introduzione, avvenuta con la legge n. 401/1989, del cosiddetto Daspo, ovvero quella misura che impedisce a chi vi è sottoposto di poter accedere agli impianti ove si svolgono manifestazioni sportive in considerazione della sua (supposta) pericolosità.

LEGGI E PROVVEDIMENTINEL MONDO ULTRAS

A tale introduzione legislativa hanno poi fatto seguito nei successivi 26 anni ulteriori inasprimenti di tale misura, accompagnati da diversi provvedimenti autoritari e liberticidi approvati sempre (com’è consuetudine in Italia) sull’onda emotiva suscitata dall’emergenza per questo o quel singolo episodio, i quali hanno progressivamente ed inesorabilmente contribuito allo svuotamento degli stadi italiani, che, a partire dalla fine degli anni ‘80, avevano invece costituito un modello per la passione ed il colore che si potevano ammirare sugli spalti. Il motivo di fondo per cui abbiamo assistito ad una proliferazione di tali provvedimenti legislativi va ricercato principalmente nella totale mancanza di volontà, da parte delle Istituzioni, di provare ad approfondire realmente il fenomeno Ultras ed i suoi risvolti sociali, a comprendere i valori profondi che ne sono alla base, a porsi domande circa la trasversalità con cui lo stesso si ripropone attraverso tempi, luoghi e classi sociali. Si è invece deciso di dare una risposta meramente repressiva, di applicare la tolleranza zero, di intraprendere una lotta senza quartiere nei confronti del mondo Ultras, e proprio questo mix fra scarsissima

conoscenza del fenomeno e dichiarata intenzione di annientarlo senza mezzi termini ha fatto sì che l’azione legislativa in materia di stadi si sia concretizzata in una miriade di leggi e decreti, scarsamente coordinati fra loro ed approvati unicamente sulla base di una logica emergenziale che ben si adatta al costume politico-giudiziario italiano, specie se in vista di elezioni.

La creazione di questo “stato di emergenza”, tale da consentire l’adozione di provvedimenti durissimi, ed in certi casi, ai limiti della costituzionalità, è stato sicuramente favorito dall’azione dei media, che hanno avuto ed hanno tuttora un peso enorme nella campagna di demonizzazione del mondo Ultras, e che hanno contribuito in maniera decisiva a creare la convinzione (totalmente falsa e sganciata dalla realtà ma, nostro malgrado, ampiamente diffusa) secondo la quale gli stadi italiani sarebbero delle specie di “zone franche”, nei quali sarebbe possibile commettere impunemente ogni sorta di reato. L’emanazione di disposizioni pesantissime, che comminano anni di carcere anche per comportamenti che fuori dagli stadi verrebbero

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puniti forse con una multa (ad esempio l’accensione di una torcia) nonché l’evidente militarizzazione degli impianti sportivi, con iter burocratici asfissianti per l’acquisto di un solo biglietto, sono situazioni figlie di questo clima da caccia alle streghe, che ha finito per far sì che la situazione, nella realtà dei fatti, sia capovolta, e veda l’Ultras trattato come un cittadino di serie B, per il quale le leggi e le garanzie che valgono per tutti non dovrebbero essere applicate in nome della “sicurezza” e del buon svolgimento dello “Spettacolo-Calcio”. Tanto per fare qualche esempio di questo trattamento penalizzante del Tifoso anche dal punto di vista meramente giuridico e normativo, si potrebbe parlare proprio del Daspo, il quale viene emesso direttamente dal Questore anziché da un giudice terzo ed imparziale (come avviene nel tanto declamato modello inglese), e ciò costituisce una stortura evidente in quanto è un provvedimento che limita la libertà personale rimesso alla decisione, anche senza reali elementi di prova, del Questore, con il rischio, non troppo remoto, che prevalgano elementi “personali” e arbitrari nella decisioni di infliggere un Daspo o meno, considerato il presupposto per cui il Daspo viene emesso in presenza di una “presunta pericolosità” del tifoso. A volte, nel tentativo di architettare soluzioni repressive sempre più incisive, si è arrivati a vere e proprie aberrazioni giuridiche che continuano ad essere perpetrate, quali il tanto sbandierato “Daspo di Gruppo” (voluto

fortemente dal Ministro Alfano) o le recenti chiusure di interi settori degli stadi in seguito all’esposizione di striscioni offensivi o comunque non allineati a quello che è il comune sentire.

Quella che segue vuole quindi essere una breve “cronistoria” dei diversi provvedimenti succedutisi dal 1989 ad oggi, con particolare riferimento all’escalation che si è avuta a partire dal 2003-2004 con l’introduzione dell’arresto in flagranza differita e del biglietto nominale, sino ad arrivare ai giorni nostri, nei quali (ma la cosa va avanti già da tempo) si parla sempre più di estendere tutti questi strumenti a contesti diversi rispetto agli stadi, quali ad esempio manifestazioni, cortei, discoteche e altri luoghi pubblici. Lo scopo è quello di mettere definitivamente davanti all’evidenza coloro che, per ignoranza della materia o per scarso interesse ad approfondire, quando non per malafede o colpevole “abboccamento” a ciò che viene propinato loro dai media, continuano a sostenere che gli stadi siano il regno dell’impunità. Ad essi ci sentiamo di dire di pensare con la propria testa, senza pregiudizi, ragionando sul peso e la mole di misure concretamente adottate nel corso degli anni e confrontando i risultati sperati con quelli realmente ottenuti. La conclusione a cui essi non potranno che giungere è che tali norme non hanno avuto altro effetto se non quello di svuotare gli stadi, senza peraltro eliminare la violenza.

LEGGI E PROVVEDIMENTI

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CRONOLOGIALegge n. 401 del 13 dicembre 1989

Introduzione del D.a.spo, che impedisce a chi vi è sottoposto di accedere ai luoghi ove si svolgono manifestazioni sportive.

Viene emesso dal Questore ed era inizialmente previsto per:

- chi si reca allo stadio con armi improprie;

- denunciati o condannati per atti di violenza commessi in occasione o a causa di

manifestazioni sportive;

- chi incita alla violenza con grida o scritte;

Possibilità di emettere il Daspo, anche in assenza di denuncia, nei confronti di coloro che, sulla base di elementi oggettivi (foto, filmati, etc.), risultano aver tenuto una condotta violenta o tale da mettere in pericolo la sicurezza delle persone.

È possibile inoltre per il Giudice emettere il c.d. Daspo “giudiziario” quale pena accessoria in caso di condanna per reati c.d. “da stadio”: le due tipologie (Daspo questorile e Daspo giudiziario) sono cumulative; di conseguenza è possibile scontarli entrambi, pur se riguardanti lo stesso fatto. Frequentemente però i motivi che hanno portato all’emissione del Daspo questorile non sono sufficienti per una condanna in sede penale (e spesso nemmeno per iniziare un processo).

Durata: sino a 3 anni.

Violazione del Daspo: è previsto l’arresto da 3 mesi ad 1 anno.

Turbativa di competizione agonistica (es. invasione di campo): sanzione amministrativa da 50 a 300 mila lire.

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Legge n. 377 del 19 ottobre 2001

Introduzione dell’obbligo di firma per i soggetti sottoposti a Daspo, che devono obbligatoriamente presentarsi in questura prima, durante e dopo le partite della propria squadra.

Aumento di pena per la violazione del Daspo: reclusione da 3 a 18 mesi oltre multa sino a 3 milioni di lire.

Aumento di pena per le invasioni di campo: arresto fino a 6 mesi oltre ammenda da 300 mila a 2 milioni di lire.

Legge n. 88 del 24 aprile 2003

Introduzione della c.d. “Flagranza Differita”, che consente di procedere all’arresto in flagranza di reato in seguito alla violazione delle norme sulla sicurezza negli stadi entro le 36 ore successive ai fatti, anche attraverso l’ausilio di riprese video-fotografiche. In tal modo, oltre alla denuncia, scatta la possibilità di essere arrestati e processati per direttissima. È una misura molto pesante, che costituisce una forzatura che non è prevista dalla legge in nessun altro caso.

Introduzione di una serie di norme in materia di videosorveglianza degli stadi, che obbligano le società a dotarsi di sistemi che possano consentire l’identificazione dei soggetti che vi accedono.

Legge n. 210 del 17 ottobre 2005

Adozione di una serie di disposizioni relative alla sicurezza degli impianti sportivi, con previsione di limiti minimi di capienza, e soprattutto con l’introduzione dei biglietti nominali e dei tornelli, che rendono ancora più difficoltoso l’ingresso.

Istituzione dell’Osservatorio Nazionale sulle Manifestazioni Sportive, formato da membri delle istituzioni calcistiche (FIGC, Lega Serie A, Lega Pro, Lega Nazionale Dilettanti…) e da componenti del Governo e delle Forze dell’Ordine (Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza); ad esso è affidato il compito di effettuare nuove proposte normative in tema di sicurezza negli stadi, oltre ad attività di studio e monitoraggio dei fenomeni di violenza.

Legge n. 41 del 4 aprile 2007 - (legge di conversione con modifiche del c.d. “Decreto Amato”)

La legge “Amato” segna senza dubbio un punto di svolta importante: le pene previste per i c.d. “reati da stadio” vengono ulteriormente inasprite e la durata per estendere la flagranza differita aumentata. Viene poi introdotta la figura dello Steward, che dovrebbe sostituire il personale di polizia all’interno degli stadi.

Aumento di pena: la durata del Daspo viene nuovamente innalzata, potendo ora variare da 1 a 5 anni.

Aumento di pena: per la violazione del Daspo la pena è stata innalzata: è prevista la reclusione da 1 a 3 anni e la multa da 10.000 a 40.000 euro.

Aumento di pena: rilevante per l’utilizzo o il lancio di artifizi pirotecnici (torce / fumogeni): viene ora prevista la reclusione da 1 a 4 anni.

Sempre in materia di pirotecnica, va segnalata l’introduzione del Daspo anche per il solo POSSESSO di artifizi pirotecnici (mentre prima era possibile solo in caso di lancio di artifizi pirotecnici tale da creare pericolo per le persone). Di conseguenza, pur trattandosi di articoli, come torce e fumogeni, che si trovano liberamente in vendita nei negozi,

LEGGI E PROVVEDIMENTI

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il loro possesso nelle zone limitrofe agli stadi dalle 24 ore precedenti alle 24 ore successive alla partita comporta l’irrogazione del Daspo. È il tipico caso in cui la legge che vale per tutti i cittadini si dimostra invece molto più severa nei confronti dei tifosi. Tale disposizione ha avuto un impatto enorme sulla libertà di tifo all’interno degli stadi, dove l’uso di torce e fumogeni era sempre stato concesso a fini coreografici; da questo momento anche accendere un fumogeno senza alcuna finalità violenta, ma con il solo scopo di sostenere in maniera più colorata e coreografica la propria squadra, viene considerato un reato, oltre che un motivo in più per essere “daspati”.

Flagranza Differita: viene aumentato da 36 a 48 ore dai fatti di reato il periodo in cui è possibile essere arrestati in flagranza per una serie di reati c.d. “da stadio”, fra cui il lancio di oggetti pericolosi o artifici pirotecnici e la violazione del Daspo (tale prerogativa è esclusiva dei “reati da stadio”).

Introduzione della possibilità di ricevere un Daspo anche per la violazione del regolamento d’uso degli impianti sportivi (come ad esempio sedersi in un posto non corrispondente a quello indicato sul biglietto, sedersi sulle scale gialle di passaggio, introdurre striscioni non autorizzati o tamburi, etc.).

Introduzione della figura degli Steward, sostanzialmente equiparati a pubblici ufficiali ed aventi compiti di controllo dell’ordine pubblico nelle fasi di pre-filtraggio degli stadi, oltre che all’interno di essi e durante le fasi di deflusso.

Articolo 9: esso impone alle società calcistiche il divieto di vendita di titoli di accesso allo stadio a persone che, negli ultimi 5 anni, siano state destinatarie di Daspo o siano state condannate, anche con sentenza non definitiva, per reati “da stadio”. Tale articolo, che introduce una punizione che va ad aggiungersi alla sentenza di condanna penale ed all’eventuale Daspo giudiziario disposto dal Giudice come pena accessoria, costituisce una misura pesantissima ed inutilmente vessatoria, che rischia di trasformarsi in una diffida “a vita”.

Inizialmente non applicata dalle istituzioni (forse per scelta “politica”, vista la natura vessatoria ed limite della costituzionalità e forse anche per la materiale impossibilità di effettuare i controlli necessari) tale norma è prepotentemente ritornata alla ribalta con l’introduzione, negli anni 2009-2010, della Tessera del Tifoso voluta da Maroni.

Circolare del Ministero dell’Interno n. 555 del 14 agosto 2009

Con questa comunicazione inviata a tutte le Prefetture e le Questure d’Italia l’allora Ministro Maroni ha varato il c.d. “programma Tessera del Tifoso”, reso poi obbligatorio (con un successivo decreto ministeriale) a partire dalla stagione calcistica 2010-2011. La Tessera diviene indispensabile per potersi recare in trasferta nonché per sottoscrivere l’abbonamento alle partite casalinghe. Gli aspetti più controversi riguardano la gestione ed il trattamento dei dati personali, il legame con circuiti bancari, ma per il mondo Ultras il punto più critico è costituito dal sostanziale “blocco delle trasferte” per i non tesserati e soprattutto nel fatto che, con l’introduzione della Tessera, è stata data esecuzione all’articolo 9 della Legge 41/07.

Decreto Ministeriale 15 Agosto 2009

Emanato dal Ministro dell’Interno Maroni, è il provvedimento che ha disciplinato la creazione del sistema telematico con cui è stata resa possibile la verifica in tempo reale dei motivi ostativi all’acquisto di biglietti e abbonamenti. Le società calcistiche vengono obbligate a fornire alle Questure - in tempo reale - i nominativi ed i dati anagrafici dei soggetti che intendono acquistare un biglietto. Tali dati vengono trasmessi in via telematica ad un database ed elaborati per verificare chi, sulla base dell’articolo 9 della Legge 41/07 non ha diritto ad entrare allo stadio.

Da questo momento in poi l’articolo 9 ha avuto la possibilità di essere realmente applicato; ciò non è tuttavia avvenuto in maniera omogenea, sul territorio nazionale; solo poche Questure infatti hanno deciso di applicarlo (e fra queste, in prima linea, quella di Bergamo).

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Decreto Ministeriale 16 Dicembre 2009

Introduce l’obbligo di adottare il programma Tessera del Tifoso a partire dalle stagioni 2010/2011 (con riguardo alla vendita dei biglietti del settore ospiti) e 2011/2012 (con riguardo invece agli abbonamenti per le partite in casa).

Legge n. 146 del 17 ottobre 2014 (che ha convertito, con modifiche, il D.L. 119 del 22 agosto 2014)

Viene ampliata la platea dei soggetti destinatari del Daspo: esso va applicato infatti anche ai condannati (anche in 1° grado, è sempre bene ricordarlo) o denunciati per reati ulteriori (fra cui, ad esempio, Istigazione a disobbedire alle leggi, Istigazione a delinquere,...) rispetto ai moltissimi già previsti dalla normativa previgente.

Ulteriore stretta repressiva: se finora, per emettere un Daspo senza denuncia era necessaria almeno la presenza di elementi oggettivi (foto o filmati) tali da comprovare una condotta violenta, ora è sufficiente la presenza di elementi “di fatto” dai quali emerga una condotta “evidentemente” violenta. È facile intuire come la formulazione letterale più generica rispetto alla precedente comporti inevitabilmente un aumento della discrezionalità degli organi di polizia.

Previsione del Daspo per l’esposizione, allo stadio, di cartelli o striscioni ingiuriosi.

Ennesimo aumento della durata del Daspo: per i recidivi la durata deve essere non inferiore a 5 anni e non superiore a 8 anni, e deve sempre essere disposto l’obbligo di presentazione in Questura.

Introduzione del “Daspo di Gruppo”, con durata da 3 a 8 anni (non meno di 3 per chi “assume la direzione del gruppo”).

Possibilità di disporre il blocco totale delle trasferte per 1 - 2 anni nei confronti delle tifoserie che si sono rese responsabili di comportamenti violenti.

Introduzione, in via sperimentale, di ulteriori strumenti di difesa per le FFOO, quali ad esempio il c.d. “Taser”.

LEGGI E PROVVEDIMENTI

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PROSPETTIVE FUTUREPer quanto si possa essere ottimisti l’aria che tira non è sicuramente delle migliori ed

i segnali non paiono incoraggianti.

Al momento in cui scriviamo è in discussione in Parlamento un disegno di legge presentato dai senatori Matteoli (FI) ed Esposito (PD), che nelle parole dei promotori, si propone di intervenire nuovamente in materia di stadi (e sarebbe la settima volta in 25 anni!!) al fine di “togliere questo splendido spettacolo dalle mani di autentici delinquenti”, nonché di “tutelare la partecipazione delle famiglie alle manifestazioni sportive, e a quelle calcistiche in particolare”.

Ma con che strumenti ? Direte voi. Forse ponendo finalmente un tetto al continuo aumento del costo dei biglietti, specialmente nei settori popolari? Oppure imponendo alla Lega Calcio l’obbligo di stabilire già all’inizio del campionato giorni ed orari in cui si svolgeranno le partite, senza stravolgimenti dell’ultima ora (o dell’ultimo minuto)? O magari limitando l’asfissiante iter burocratico attualmente previsto per l’acquisto dei biglietti? No, niente di tutto questo purtroppo; le nuove norme che si vorrebbero introdurre

(ricordiamo che si parla comunque di un disegno di legge) prevedono solamente ulteriori e pesanti inasprimenti delle pene. Staremo a vedere, certo è che la linea del Governo e del Parlamento appare ancora una volta chiara: repressione, repressione e ancora repressione.

Un ulteriore motivo di preoccupazione deve poi ricercarsi in un provvedimento che la Lega Calcio ha approvato nel mese di maggio, e che prevede squalifiche e punizioni per i giocatori che avranno “interlocuzioni con i sostenitori durante l’attività sportiva” e che “intratterranno rapporti con associazioni di tifosi che non siano convenzionate con la società”. Questa nuova norma rappresenta perfettamente il punto d’arrivo di un procedimento teso a trasformare il tifoso in un vero e proprio “fan” all’americana, seduto sul suo bel seggiolino ed impossibilitato a far sentire la propria voce anche quando la sua squadra perde 5-0 ed è in zona retrocessione da due mesi. Il dissenso, la contestazione, la richiesta di spiegazioni e la pretesa di maggior rispetto (come quella verificatasi allo stadio di Bergamo prima della partita col Sassuolo) costituiscono manifestazioni che nel calcio moderno non hanno più diritto di cittadinanza e che si vorrebbero estirpare per

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sempre. Lo stesso si può dire a proposito dell’assurda norma che punisce cori e grida di “discriminazione razziale e territoriale” alla stregua dei peggiori crimini, fingendo in maniera ipocrita di non sapere che le rivalità campanilistiche costituiscono il retroterra di questo paese ancor prima che il sale del calcio, e pretendendo di annullare con un colpo di spugna rivalità che affondano le loro origini nella notte dei tempi. Inoltre, andrebbe spiegato a chi gestisce il calcio che quelle espressioni costituiscono semplicemente un modo per intimidire

l’avversario mentre la vera discriminazione è invece quella portata avanti da Prefetti e Questori, che vietano la vendita dei biglietti a coloro che non provengono dalla regione della squadra che gioca in casa.

Questo è sostanzialmente il clima con il quale ci apprestiamo a vivere una nuova stagione calcistica di quello che era “il campionato più bello del mondo”. Non sicuramente un bel clima, anche se alcune notizie positive ci sono e meritano di essere evidenziate, come per esempio il fatto che le prime sentenze dei vari Tribunali Amministrativi Regionali (TAR) abbiano

completamente stravolto l’impianto del c.d. “Daspo di Gruppo”, che nelle intenzioni del ministro Alfano avrebbe dovuto essere il caposaldo del nuovo sistema introdotto per garantire la sicurezza all’interno degli stadi. Ebbene, le prime “diffide collettive” irrogate nei confronti di gruppi di tifosi sono state annullate in sede giudiziaria in quanto “non v’è prova che il soggetto in questione abbia preso parte ad episodi di violenza”; come dire che non è possibile diffidare un pullman intero perché qualcuno degli occupanti ha tenuto

compor tament i violenti. Ovvio, direte voi, eppure questa è la norma che il Governo ha introdotto a furor di popolo con il Decreto legge dell’agosto 2014 (convertito poi in legge nell’ottobre dello stesso anno). Fiduciosi circa il fatto che tali sentenze possano costituire dei precedenti per mandare definitivamente in soffitta questa misura iniqua ed illiberale.

Siamo quindi convinti che per un miglioramento delle normative esistenti sia

necessario in primis una maggiore conoscenza delle modalità (pesantissime e spesso assurde) con le quali da anni vengono gestiti l’ordine pubblico e la sicurezza in occasione di manifestazioni sportive; rendere l’opinione pubblica maggiormente consapevole circa il clima fortemente repressivo che continua ad aleggiare intorno agli stadi italiani, e spingerla a porsi domande senza accettare supinamente quanto viene proposto dai media, costituisce infatti il primo passo per evitare quel processo di demonizzazione del “Mondo Ultras” che da troppi anni sembra essere diventato lo sport nazionale in Italia.

LEGGI E PROVVEDIMENTI

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L’OCCHIO DI VETRO

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1. Ma voi non siete veramente ultrà perché c’è un sacco di voi che pagano il biglietto del treno io quando porto i miei

ragazzi io parlo subito col controllore e nessuno di loro fa il biglietto e quando siamo nello stadio dico fate quello che

volete ma se succede che uno muore o è ferito grave io voglio un colpevole chiunque sia ha fatto l’esempio di Bergamo

lì si odiano di brutto coi romani Lega Lombarda e tutte queste cose qua non si possono vedere sono venuti lì i miei

ragazzi e mi hanno detto dài commissa’ facce usci’ in 20 so’ tornati e io gli chiedo ahò ragazzi com’è andata è andata

bene commissa’ uno l’avemo steso eh ma che l’avete ammazzato no commissa’ morto nun è morto eh ma guardate

che se viene da me il commissario di Bergamo e quello è morto o è grave io almeno uno di voi glielo devo dare è chiaro

eh nun ce sta problema commissa’ e noi je damo er tossico je damo.

Le parole riportate qui sopra sono la trascrizione che Balestrini ha fatto di un dialogo avvenuto fuori da un tribunale tra un funzionario della Digos di Roma e alcuni ultras del Milan. Con una posa canzonatoria e compiaciuta, il poliziotto romano racconta ai milanisti le sue strategie operative. Gli ultras sono descritti come «i miei ragazzi» e la complicità che si istaura tra sorveglianti e sorvegliati è valutata come una garanzia di prevenzione di rischi maggiori. L’episodio ci offre una testimonianza del rapporto, a volte paternalistico e a volte di reciproca indifferenza, tra ultras e forze dell’ordine in essere negli anni Ottanta. Questo ricordo, raccolto nella curva Fiesole di Firenze, conferma che per molti ultras la percezione era la medesima:

[A., ultras fiorentino]: Ho iniziato a frequentare la curva nella seconda metà degli anni Ottanta. Mi ricordo le

sensazioni che avevo nell’essere lì e le confronto a come negli ultimi anni ho sentito parlare dentro l’ambiente ultras,

per quel poco che lo frequento ancora. I discorsi di certi ragazzi di oggi li capisco poco. Ho una profonda diffidenza

verso chi vuole tradurre in termini politici l’esperienza dello stadio. Per la mia vita in curva Fiesole, non ho mai colto

L’OCCHIO DI VETRODEL CALCIO MONDIALE

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la minima venatura politica in ciò che lì avveniva. In curva ci interessavano cose molto

semplici. A noi interessava entrare allo stadio, mezz’ora prima dell’inizio della partita,

e poter portare come trofeo, dopo qualche scazzottata e qualche agguato, le sciarpe

della squadra avversaria.

[…] L’odio rispetto al celerino, una figura che incarnerebbe lo Stato, è emerso

negli ultimi anni, prima era molto meno accentuato. Noi ci s’aveva con quegl’altri,

per noi il nemico era il drugo [gruppo ultras della

Juventus], era il pezzo di merda della Roma che

puntualmente ogni anno tirava il freno in piazza

delle Cure e infilava da Alfio. […] Nella mia

esperienza di dieci anni di curva, non potrei mai

declinare in termini politici quello che là dentro si

respirava.

Amore viscerale per la squadra, campanilismo esasperato, odio per l’ultras avversario, scarsa politicizzazione, una visione del poliziotto

come «una sorta di arbitro che con energici break! evita che lo scontro si protragga eccessivamente», sono in effetti i principali tratti che caratterizzano la cultura ultras per tutti gli anni Ottanta e una primissima parte degli anni Novanta.

Circa vent’anni dopo, nei giorni seguenti l’omicidio dell’ultras laziale Gabriele Sandri da parte di un poliziotto della stradale, nelle parole di un importante funzionario di polizia non troviamo più niente del tono divertito e paternalistico del commissario romano che arringava i milanisti:

L’APPASSIONATO DI CALCIO, IL TIFOSO DA STADIO, HA UN

INCOMPARABILE AFFETTO PER IL PROPRIO OCCHIO, QUELLO NATURALE, CON

CUI GUARDA IL CALCIO.

L’OCCHIO DI VETRO

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Addio amico caro ucciso sull´autostrada, il dolore della tua famiglia è il dolore di tutti noi, poliziotti e compagni

di un altro poliziotto cui la perversa logica della violenza ha ottenebrato la mente, i sentimenti, il cuore. Addio, caro

Raciti, anche tu logicamente e perversamente vittima della violenza. […] Sinistre figure anonime, ficcate nei loro

passamontagna, figure prive di ideali, di rispetto verso il prossimo, e di onore. Figure che nel loro vuoto di valori

divengono squallidi burattini nelle mani di non si sa chi. Figure che trasmettono una tale carica di odio che ti lascia

interdetto e che a volte ti fa sentire solo, anche se sei ben stretto ai tuoi colleghi. Figure che sembrano uscire ogni

volta dal plexiglas della visiera del tuo casco come incubi che sei costretto a subire ed esorcizzare. [Lettera di Vincenzo

Canterini]

Allo stesso modo, una trasformazione analoga emerge nel vissuto degli ultras:

[V., ultras doriano] Credo si possa tranquillamente dire che, negli stadi, quando è arrivata la notizia della morte

di Sandri per mano di un poliziotto tutti hanno pensato la stessa cosa: adesso basta. Bisogna tenere presente che,

indipendentemente dalla fede calcistica e da tutti gli scazzi, a volte anche piuttosto pesanti che ci sono tra le varie

tifoserie, vi è una sostanziale convergenza di vedute sul fatto che la polizia è il primo e unico nemico. Cioè la polizia è il

nemico vero, reale. Quello contro il quale tutti si sentono in dovere di unirsi e coalizzarsi. D’altra parte ci sono almeno

un paio di ritornelli che, in tutti gli stadi, senti ripetere in continuazione senza distinzioni di sorta e che chiariscono

molto bene il comune sentire delle tifoserie verso gli sbirri. Quali sono? Uno è: «Nella mia città/ c’è una malattia/

che non va più via/ è la polizia». L’altro, ancora più esplicito recita: «Delle divise blu/ non ne possiamo più/ mandali a

Nassiriya/ che se li portan via: bum bum/ e non ci sono più/ e dieci, cento, mille Nassiriya».

Che cosa sia successo in questi venti anni per giustificare una tale differenza nelle parole sia delle forze dell’ordine che degli ultras italiani? Per rispondere a questa domanda è necessario affrontare «l’invenzione» del calcio moderno in Italia. L’ipotesi che abbiamo è che, dagli anni Novanta in poi, la stratificazione di interessi pubblici e privati concentratisi attorno al calcio abbia profondamente inciso sul gioco e sullo spazio dello stadio, provocando trasformazioni tali da lasciare tracce consistenti anche sull’identità ultras. L’intento di questo breve scritto è così riflettere sull’origine economica delle trasformazioni del calcio italiano. E non è possibile fare un simile percorso senza mettere la televisione al centro dell’analisi.

2.L’appassionato di calcio, il tifoso da stadio, ha un incomparabile affetto per il proprio occhio, quello naturale,

con cui guarda il calcio. Magari dalla prospettiva scomoda e distante di quell’angolo di curva che gli ha permesso di vivere, in quel modo appassionato, una partita indimenticabile. Inutile girarci attorno: il calcio a occhio nudo è la vita sul campo del tifoso, emozione, ricordo, bagliore della partita e delle relazioni che gli si affollano attorno. Poi, dopo, subito a casa o a distanza di anni arriva il confronto con l’occhio di vetro, quello della telecamera. Anche qui inutile girarci attorno, l’occhio di vetro ha una grande caratteristica: la telecamera, diffondendo il calcio in modo uniforme, istantaneo e planetario, è un’ottica del potere. Un’ottica che tende a far scomparire dalla propria rappresentazione tutto ciò che non le è conforme. In televisione non passa dunque una semplice registrazione della partita, ma si svolge il processo di istituzione di un ordine.

Due grandi eventi calcistici, a distanza di pochi anni tra loro, chiariscono molto bene il ruolo della televisione nel calcio. La finale dei campionati mondiali di calcio, in Uruguay nel 1930, si svolse in condizioni molto diverse da quelle a cui siamo abituati nelle ultra-spettacolari finali di oggi. Quella finale fu giocata senza telecamere. E, lontano dall’occhio di vetro, si svolsero cose che altrimenti non sarebbero potute accadere. Nell’intervallo della partita, con l’Argentina in vantaggio 2-1 sull’Uruguay, l’arbitro per far iniziare il secondo tempo pretese dagli uruguagi l’assicurazione scritta che sarebbe uscito incolume dallo stadio. Il tempo di durata dell’intervallo fu allargato per

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esigenze della nazionale uruguaiana e persino il pallone fu cambiato secondo le esigenze della squadra che doveva rimontare. Che poi vinse: 4-2. Era il calore dei tifosi a comandare sui tempi del gioco, senza che niente di quanto accaduto diventasse materia di dibattiti, processi e inchieste.

Pochi anni dopo, abbiamo il primo esempio di manifestazione sportiva ripresa integralmente, con i mezzi dell’epoca, dalla macchina da presa: le olimpiadi di Berlino del 1936. La prima impressione che si ha osservando le immagini della disposizione della folla e degli atleti è che negli impianti sportivi dominasse un ordine totale. Uno stadio quindi totalmente diverso da quello, selvaggio, di sei anni prima. È arrivata la macchina da presa, e negli stadi non deve muoversi una foglia senza autorizzazione delle autorità costituite.

A partire dal dopoguerra abbiamo un continuo conflitto tra l’ordine dalle telecamere e le pratiche di tifo dei tifosi negli stadi. Per quel che interessa al nostro discorso, il picco di questo conflitto si verifica a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, in Inghilterra, e poi, circa 10 anni dopo, in Italia. Una delle prime frasi che la signora Thatcher, per cominciare la sua battaglia contro le tifoserie inglesi, rivolse alla propria polizia fu: “Non voglio più vedere le immagini di tifosi che invadono il campo, così sembriamo una nazione vicina alla disfatta”. Che cos’è allora questo conflitto? Che rapporto ha con le trasformazioni nelle parole di ultras e poliziotti che abbiamo visto poco sopra?

3.La nostra ipotesi è che questo conflitto non è sia altro che l’impatto sociale della nuova economia politica del calcio.

L’introduzione di ingenti capitali, provenienti da fonti differenziate e inedite, ha donato nuovi impulsi al processo di messa a valore del calcio a partire dalla fine degli anni Ottanta, prima in Gran Bretagna e poi, progressivamente, nel resto d’Europa. La variazione finanziaria seguita allo straordinario afflusso di risorse, l’allargamento delle relazioni su scala globale ed il massiccio utilizzo delle nuove piattaforme mediatiche introducono il football in una fase economica che ha pesanti conseguenze per il pubblico degli stadi.

L’aziendalizzazione del calcio necessitava di un nuovo pubblico, più ricettivo nei confronti della rinnovata offerta. «I vecchi tifosi» di estrazione popolare caratterizzati per la loro «coscienza di calcio» incentrata sul legame con il club locale, sulla mascolinità, sulla partecipazione attiva e sulla vittoria, perdevano progressivamente quindi la possibilità di accedere all’evento, o comunque di esprimere i propri contenuti, a vantaggio di un pubblico di classe media, interessato allo spettacolo, alla tecnica e all’efficienza nella prestazione, maggiormente disciplinato e di riflesso orientato al consumo. Il nuovo tifoso il suo rapporto con le emozioni sportive in spazi solo superficialmente tangenti al campo di calcio, dal momento che la sua adesione viaggia su relazioni spesso virtuali, condizionata dal glamour e dalla momentanea attrazione indotta dai media.

In Inghilterra il Taylor Report del 1989 ha ridisegnato le norme di sicurezza per le partite di calcio affrontando ambiti distinti: architettonico-spaziale (nuovi filtri di ingresso, trasformazione delle barriere architettoniche, abolizione delle terraces e l’ammodernamento degli stadi con posti esclusivamente a sedere); economico (la «clientelizzazione» e «fidelizzazione» degli spettatori, l’aumento dei prezzi dei biglietti); disciplinare (schedature e registrazioni filmate dei tifosi); emozionale (la spettacolarizzazione intorno e oltre l’evento-partita). Norme che limiteranno considerevolmente le attività dei tifosi caldi di estrazione popolare, stretti in un ridimensionamento che ha codificato comportamenti e culture «di gradinata» al volere di un nuovo ordine disciplinare ed economico.

Gli stadi delle più importanti squadre inglesi e europee vengono interamente riprogettati attraverso politiche urbane di indubbia rilevanza, le cui ricadute sui territori possono essere estremamente ampie. L’imperativo di rigenerazione dell’economia locale modella la nuova «forma» dello stadio. Attraverso le immagini che celebrano le gesta della squadra locale, imprenditori e gruppi economici cercano di proiettarsi nello spazio delle relazioni globali mediante operazioni di marketing territoriale, di promozione del marchio urbano, di invenzione di immagini attraenti per richiamare capitali, infondere negli attori politici locali una mentalità competitiva e collaborativa e catturare i flussi globali di visitatori. Investendo nel calcio si investe così nel «governo delle immagini», in «narrazioni selettive» e simboli incarnati. Lo stadio diventa prima di tutto uno straordinario oggetto di attenzione su cui insistono complesse

L’OCCHIO DI VETRO

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ed eterogenee piattaforme mediali, pronte a usare il potere sociale del calcio per rafforzare il potere sociale delle rappresentazioni prodotte.

A seguito di queste ristrutturazioni, non è stato più possibile tollerare lo stadio come luogo di «sfogo» di una working class per il resto del tempo ben disciplinata sul luogo di lavoro. Le strategie di branding inscritte nel codice di valorizzazione del calcio contemporaneo, ossia il suo principale fattore di sviluppo, di accumulazione finanziaria e di funzionamento, dovevano essere difese dalla carica conflittuale portata dai tifosi più caldi dentro il rito calcistico, per non turbare ed esporre a rischio gli investimenti.

Cambia di conseguenza anche il modello di gestione dell’ordine pubblico. Tradizionalmente, la polizia operava secondo un uso «disciplinare» dello spazio, cercando il contenimento e la ghettizzazione della tifoseria in trasferta (ricevendo i tifosi fin dalla stazione, scortando il corteo allo stadio, ingabbiando gli ultras nel settore ospiti e sottoponendoli alle telecamere di sorveglianza per posteriori sanzioni). Questa razionalità funzionale alla limitazione dei danni viene meno quando l’interesse diviene la promozione di un nuovo stile di comportamento e di consumo del calcio, che coltivi nuove pratiche di massa dei brand e che generi nuovi fatturati.

Lo stadio diviene così un modello di «panottico rovesciato»: tecnologie urbanistiche e della comunicazione, del controllo e del consumo, convergono sul campo per perimetrare e regolare un terreno dove, al contrario del panottico tradizionale in cui un unico occhio sorveglia i molti (come nel modello della prigione), lo sguardo di molti si fa unico e si concentra sull’evento, secondo i ritmi dettati dalle forme di governamentalità ad alta complessità e dalle strategie di branding promosse dalle piattaforme mediali. Negli impianti sportivi di nuova generazione si esaspera il movimento che porta i molti a osservare i pochi: il «disciplinamento» avviene tramite il consumo e lo spettacolo di un evento privato quanto più possibile degli originari significati rituali e riconvertito a merce.

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In Italia, il processo di valorizzazione si muove su direttive simili al modello inglese ma non riesce a bissarne gli esiti, causando differenti effetti dal punto di vista economico e sociale. Ricostruendo brevemente la vicenda, il calcio italiano ha tenuto a lungo un punto di equilibrio tra business e passione popolare. Ma le nascenti regole del calcio globale si fanno sentire e nella metà degli anni Ottanta Berlusconi acquista il Milan, imponendo alcune innovazioni che mutano un equilibrio durato decenni.

Il calcio diviene un grande vettore di audience per le televisioni private e per le politiche di marketing, amplificando il potere comunicativo del gioco. La propaganda politica esasperò poi l’uso strumentale del calcio. Forza Italia, partito guidato dallo stesso Berlusconi, vinse le elezioni mutuando dal calcio gran parte dei linguaggi. Salirono alla ribalta presidenti facoltosi, impegnati in operazioni commerciali e finanziarie di ampio respiro e desiderosi di visibilità come Cragnotti (Cirio) e Tanzi (Parmalat), Sensi e Cecchi Gori (con il suo «terzo polo» televisivo); alcune società furono quotate in borsa; arrivarono i Mondiali di Usa ‘94 con la diretta satellitare di tutte le partite in ogni angolo del mondo; le pay-tv (Tele +, Stream e infine Sky) stravolsero i calendari dei campionati e la fruizione stessa del gioco, affidata ora prevalentemente al consumo domestico. Il gioco medesimo, anche nelle sue componenti tecniche, subì una radicale trasformazione, dovuta all’invadenza del mercato televisivo. La moltiplicazione degli eventi agonistici, l’allargamento degli organici in rosa, l’aumento esponenziale dell’ingaggio dei calciatori e l’indebitamento conseguente di molte società sono state alcune tra le conseguenze di quello che è stato definito calcio moderno.

Parallelamente, la repressione nei confronti del movimento ultras si è esponenzialmente moltiplicata. Valerio Marchi, in quello che forse è il più convincente contributo sul movimento ultras, “Il derby del bambino morto”, ha mostrato lo scarto tra le strategie di ordine pubblico, discriminatorie e violente, che vengono a imporsi negli stadi e le pratiche di polizia abitualmente esercitate nella fase di soft policing che ha caratterizzato il ventennio 1980-2000 nelle piazze, in cui il consolidarsi di forme d’azione politica che rifuggono la violenza avevano provocato uno stile di controllo della protesta più morbido e selettivo.

I provvedimenti per la regolazione dei conflitti da stadio hanno infatti preso il via nel 1989 (pochi mesi prima dei mondiali italiani) con la prima norma sul divieto d’accesso alle manifestazioni sportive (Daspo) e si sono susseguiti, inasprendosi, per il decennio successivo, fino a riceve una decisiva svolta nel 2005, quando il ministro dell’Interno Giuseppe Pisanu ha varato una legge con l’obiettivo di allineare le norme vigenti in Italia agli standard europei

L’OCCHIO DI VETRO

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di sicurezza e di produttività. Dopo la morte del commissario Raciti, avvenuta il 2 febbraio 2007 durante una partita tra Catania e Palermo, la legge Amato ha poi definitivamente mutato la fisionomia dell’evento calcistico. Vengono allestite misure tecniche, come la «messa a norma» immediata degli impianti (tornelli e aree di prefiltraggio), l’appalto alle società di calcio della sicurezza interna agli stadi (dove gli steward progressivamente sostituiscono le forze dell’ordine), la proibizione di rapporti economici tra società e gruppi organizzati di tifosi, e misure repressive, come il divieto preventivo di accesso allo stadio, arbitrariamente valutato dalla questura, in base alla «pericolosità sociale» del soggetto (adolescenti compresi), l’estensione della flagranza di reato a 48 ore, la delega alle autorità di polizia del territorio, in accordo con le società sportive, del controllo dei materiali coreografici e degli striscioni, il cui ingresso negli impianti, salvo espressa autorizzazione, è bandito insieme a tamburi e megafoni.

Infine, a partire dalla stagione 2010/11, una normativa del ministro dell’Interno Maroni rende obbligatorio, per il tifoso che intende sottoscrivere un abbonamento o seguire la propria squadra in trasferta, il possesso della Tessera del tifoso. Il progetto appare come una fidelizzazione del tifoso in ottica commerciale, legata però al fine statale della pubblica sicurezza. La creazione di una tifoseria di consumatori passa strategicamente dal controllo e dalla selezione dei tifosi. La spiegazione che l’Osservatorio Nazionale sulle Manifestazioni Sportive riporta nel documento approvato il 23 aprile del 2008 recita:

L’esigenza che le Società calcistiche possano, in futuro, contare su una tifoseria/

clientela, sempre più numerosa, della quale potersi rendere garante, passa, anche,

attraverso l’introduzione della «tessera del tifoso». Si incentiva la formazione di una

«comunità privilegiata» di sostenitori. Risulterà in tal modo accresciuta la fidelizzazione

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dei sostenitori delle Società, mediante: la creazione di un nuovo profilo di «tifoso», quale «rappresentante» della

propria Società; il rafforzamento del senso di appartenenza ad una «comunità privilegiata» di «sostenitori ufficiali».

Ma in Italia, nonostante i tentativi, non vi è stata ancora alcuna sostituzione di tifosi e ciò a cui si è assistito è stato un graduale svuotamento degli stadi. La peculiarità di quanto avvenuto in Italia, rispetto al modello inglese, ma anche rispetto a quanto accaduto in Spagna o in Germania, è che gran parte del fatturato di una società sportiva si è adagiato sui diritti televisivi senza riuscire né a sviluppare efficienti politiche di marketing né, a parte pochi casi, a porsi come un rilevante attore nelle trasformazioni urbane. Si sono così aggravate la fatiscenza e l’inadeguatezza logistica delle strutture, come la gravosità delle procedure per l’acquisto dei biglietti e per l’ingresso nello stadio. La penalizzazione dei tifosi di estrazione popolare non si è accompagnata, a differenza di quanto avvenuto in Inghilterra, con il massiccio afflusso di ceti più abbienti, determinando una vistosa crisi di presenze. La peculiare apertura del calcio italiano ai nuovi processi di mercato ha, per ora, determinato dunque una progressiva disaffezione e l’abbandono degli stadi da parte di una cospicua parte dei tifosi italiani, mentre ha aumentato a dismisura il consumo televisivo privato di calcio.

La televisione, l’occhio di vetro, è oggi il palcoscenico, la fonte di guadagno e il primo strumento di coercizione del calcio.

Silvano Cacciari e Lorenzo Giudici

L’OCCHIO DI VETRO

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1. Nella notte tra il 4 e il 5 dicembre 2014, il giovane Davide Bifolco perde la vita a soli 16 anni per un colpo d’arma da fuoco esploso dalla pistola di un carabiniere nel Rione Traiano di Napoli. Le ricostruzioni appaiono fin da subito vaghe e discordanti, si parla di tre ragazzi in sella ad uno scooter, tra cui un presunto latitante, che non si sarebbero fermati ad un posto di blocco dei carabinieri (in seguito si scoprirà che non vi era alcun posto di blocco). Nell’ inseguimento che ne è conseguito, il motorino su cui viaggiavano i tre ragazzi cade, un “giovane” carabiniere esce dall’auto di servizio, pistola alla mano, e accidentalmente parte un colpo. Nonostante le troppe ombre e le accuse degli abitanti del quartiere

nei confronti dei carabinieri e dello Stato, presenti in quei quartieri solo a scopo repressivo, i giornali e le televisioni si affrettano a creare un contesto attorno all’accaduto che possa in qualche modo giustificare e legittimare quello che in questo caso risulta essere un vero e proprio omicidio (parola attentamente mai pronunciata

Nel precedente contributo Cacciari e Giudici hanno definito la telecamera come l’ottica del potere: vale a dire come strumento che tende a far scomparire dalla visuale tutto ciò che non è conforme al tipo di spettacolo che ci vogliono mostrare.

Una definizione che potremmo allargare alla stragrande maggioranza dei media i quali sono indispensabili alleati, come detto nella premessa, sia del business che della repressione, in quanto svolgono quel lavoro d’opinione necessario ad insinuare nelle menti delle persone determinati tipi di ragionamento attraverso la strumentalizzazione di fatti, la creazione artificiale di contesti (in senso negativo quando si parla di ultras e di senso opposto quando si parla degli errori di Stato) e via via discorrendo. Un modo di operare che, ovviamente, non riguarda solo il calcio ma che tocca l’intera società. L’intento di questo breve paragrafo vuole quindi essere quello di mostrare, ancora una volta, come i media alterino la realtà dei fatti a proprio interesse; cercheremo di farlo attraverso l’analisi di due esempi di cronaca recente.

LA CREAZIONEDEL CONSENSO

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dai giornali). In prima pagina i giornali si affrettano a mostrare i presunti “profili legali” che erano con Davide quella sera: “pregiudicati”, “latitanti”, e più in generale delinquenti che “si aggiravano con fare sospetto”, ciò al fine di diffamarne l’immagine ed assolvere così l’assassino, solo perché in divisa, creando al contempo comprensione nei confronti del “giovane carabiniere” (non poi così giovane dato che si scoprirà in seguito non essere un 22enne bensì un 32enne con alle spalle 11 anni di servizio). La colpa della morte di Davide viene praticamente addossata a Napoli, al suo quartiere, ai suoi amici e quindi a Davide stesso, tramite l’utilizzo di concetti di legalità e criminalità estremamente vaghi e contraddittori. Infatti pur seguendo, per assurdo, questo modo di porre le cose, viene da chiedersi come mai nessuno, tra questi giornalisti perbenisti, che tanto si sono appellati alla legalità, dica che il non fermarsi all’alt di un posto di blocco, come girare in tre senza casco in moto, non preveda altro che una sanzione amministrativa e non, come hanno implicitamente

sostenuto, la pena di morte. La domanda che ne consegue è: a quali leggi precisamente ci si appella e, soprattutto, per chi valgono queste leggi? Naturalmente la risposta è presto data: lo Stato si assolve sistematicamente quando le necessità repressive superano le sue stesse leggi, ai media spetta il compito di far accettare il tutto all’opinione pubblica.

2. Il secondo esempio riguarda la tristemente nota finale di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina disputatasi a Roma il 3 maggio 2014 in cui trovò poi la morte Ciro Esposito. Dopo quant’accaduto a Tor di Quinto la situazione dentro lo stadio Olimpico diviene surreale; si rincorrono voci di un ragazzo morto ed il pericolo è quello di perdere il controllo della situazione all’interno dello stadio. In questo contesto le autorità di pubblica sicurezza cercano immediatamente il contatto con dei rappresentanti del tifo partenopeo al fine di convincerli

CREARE IL CONSENSO

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a non abbandonare gli spalti. La verità proposta dai media è ben diversa, nei giorni seguenti riappaiono il derby del bambino morto, Raciti, l’esaltazione dell’ ”assassino” Speziale - quando come tutti hanno potuto constatare coi propri occhi la maglietta, indossata da un noto esponente della Curva A e per la quale è stato messo alla gogna mediatica e non solo, riportava una cosa ben diversa, vale a dire “Speziale innocente”.

Ecco che come sempre riparte calderone mediatico in cui le istituzioni vengono accusate di essere in balia degli ultras, accuse avvallate dalla vedova Raciti che dichiara di aver visto “la debolezza dello Stato” di fronte agli Ultras. Non importa dunque se quella mediazione, necessaria per veicolare in maniera “sicura” le informazioni utili a rassicurare l’ambiente dei tifosi, sia stata decisiva per il regolare svolgimento della partita. Non conta nemmeno il fatto che, grazie a quella mediazione, si siano evitati prevedibili incidenti legati alla sospensione della gara, per non parlare

dei costi economici di una tale sospensione. Ebbene una volta riconosciuto il momentaneo stato di salute di Ciro Esposito, la stessa tifoseria napoletana ha, di fatto, contribuito allo svolgimento dell’evento ed a un sostanziale tranquillo deflusso nel dopo-partita.

Due casi diversi ma che hanno molto in comune. In entrambi i media hanno giocato un ruolo fondamentale per formare consenso nell’opinione pubblica. Nel primo caso coprendo l’abuso di un carabiniere attraverso infami supposizioni e distorsioni sull’accaduto, creando appunto un contesto che rendesse il tutto digeribile, tollerabile, ed infine giustificabile. Nel secondo caso hanno trasformato una intelligente gestione dell’ordine pubblico (una delle poche) in una gogna mediatica contro gli Ultras che come ben sappiamo abbiamo ha comportato l’ennesimo innalzamento del livello repressivo negli stadi.

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Il titolo di questo articolo, è tratto da uno striscione che la tifoseria Atalantina espose durante una partita contro il Lecce di una decina di anni fa (stagione 2001/02). Non fu la visione di una singola tifoseria, ma un’azione congiunta all’interno di tutti quei gruppi organizzati che all’epoca facevano parte del movimento Ultras.

LEGGI SPECIALI:OGGI AGLI ULTRÀDOMANI A TUTTALA CITTÀ

LEGGI SPECIALI

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All’interno di questo movimento c’erano quelle tifoserie, che divise dai colori sociali della propria squadra, avevano comunque deciso di schierarsi insieme contro la repressione e il calcio-business.

Diverse furono le lotte portate avanti negli anni: la lotta contro la serie B al Sabato, la lotta contro i diritti televisivi, quella contro il calcio spezzatino, quella contro le diffide preventive ed in generale contro le tecniche repressive dello Stato. Eloquente era una delle frasi del movimento che recitava: A VOI I SOLDI A NOI LA REPRESSIONE!

Nessuno all’interno del movimento aveva la sfera di cristallo per prevedere il futuro, eppure non sbagliammo un colpo. Serie B al Sabato? Azzeccata! Diritti televisivi ceduti a peso d’oro? Azzeccati! Calcio spezzatino? Azzeccato! Diffide preventive? Azzeccate!

In questo articolo vogliamo, per quanto brevemente, analizzare tutti quei metodi repressivi che testati all’interno degli stadi sono poi divenuti (o lo diverranno) negli anni a seguire modelli repressivi da estendere ad altri contesti sociali.

Vuoi vedere quindi che non sbagliavamo sui “laboratori” di repressione all’interno degli stadi? Vuoi

vedere che quello striscione esposto anni fa, oggi è più attuale che mai?

Un piccolo e banale esempio di controllo da stadio impiegato poi nella resto della società è stato costituito dall’introduzione delle prime telecamere a 360 gradi installate negli stadi per identificare gli autori di eventuali reati o anche solo di comportamenti ritenuti per così dire “inadeguati”; inizialmente erano una rarità’ circoscritta al mondo calcistico, mentre oggi invece le possiamo vedere ad ogni angolo delle strade. Le troviamo in ogni città’ e nessuno si lamenta del fatto di essere filmato e che la privacy di ognuno possa essere violata ed invasa costantemente in nome della solita litania della “sicurezza sociale”.

Passando al Daspo, negli ultimi anni è stato proposto, dai vari ministri degli Interni che si sono succeduti (Maroni, Cancellieri ed Alfano) come

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strumento repressivo da applicare ai manifestanti in contesti di piazza; ciò significa che se la Questura della singola città suppone che qualcuno possa esser protagonista di azioni violente, o che possa essere una persona, anche solo potenzialmente, pericolosa per l’ordine pubblico, potrebbe emanare un provvedimento di divieto di partecipare a qualsiasi manifestazione, dunque un Daspo preventivo di carattere “politico o “sociale”. Pochi mesi fa inoltre il Questore di Bergamo ha proposto addirittura un Daspo per chi si rende protagonista di ripetuti schiamazzi nelle vie principali della movida Bergamasca; ecco quindi che il Daspo come detto in precedenza, potrebbe passare facilmente dagli stadi, a chi manifesta le proprie idee in piazza sino ad arrivare a toccare quei cittadini che non hanno una buona condotta nei luoghi pubblici. Daspo a tutto campo, ecco dunque la parola d’ordine. Ad oggi non si è ancora arrivati a introdurre concretamente questi provvedimenti, probabilmente è solo questione di tempo, i prossimi incidenti di piazza potrebbero essere il pretesto buono per spezzare le ultime resistenze politiche e creare il “giusto” contesto mediatico per implementare il Daspo di piazza e chissà cos’altro.

Come già detto nelle precedenti pagine, nella lotta al mondo ultras è stata inoltre introdotta una sorta di black list dove vengono annotati i nomi di quelle persone soggette all’articolo 9, Legge 41/07 (soggetti “indesiderati” in quanto condannati anche solo in primo grado per reati da stadio).

Penserete che un provvedimento di questo tipo non possa essere applicato a persone al di fuori dello stadio; ne siete veramente convinti?

È notizia di poco tempo fa, che a circa 600 persone, selezionate per lavorare all’interno dell’ormai famosa e tanto elogiata Esposizione Universale milanese, siano stati negati gli accessi proprio all’Expo. Volete sapere il perché?

Perché le autorità di pubblica sicurezza hanno fatto segnalazioni, sulla base del SDI (servizio d’indagine - ovvero gli archivi di polizia e carabinieri), su queste persone dichiarandole di conseguenza, diciamo noi, “non idonee” ad accedere al sito di Expo 2015, condannandole di fatto a non avere un lavoro. Ovviamente non é concesso conoscere nei dettagli i motivi di questi “divieti”, e questo fatto non é accaduto ad una sola persona ma a centinaia; il loro pass per entrare al lavoro è stato così bloccato su indicazione della Questura. Non ci meraviglieremmo, dunque, se

il nostro illustre Stato a breve introdurrà la tessera del cittadino modello o la tessera del buon lavoratore!

A confermare come lo stadio sia fonte di ispirazione è lo stesso Ministro degli Interni Alfano, fiero sostenitore del D.L. 119 del 22 agosto 2014 che parla appunto di “SPERIMENTAZIONE NEGLI STADI” prima di un adeguato uso nelle città. Nel decreto quindi trovano spazio, oltre alle citate novità relative al Daspo, anche alcuni strumenti da impiegare nell’atto pratico della tutela dell’ordine pubblico. Eccoli.

TASER O PISTOLA ELETTRICA. È un’arma (di questo si tratta) di cui le forze dell’ordine verranno dotate, già tristemente famosa per le notizie che provengo da altri Stati. I media nazionali hanno da subito etichettato questo strumento come “un dissuasore”, la realtà è ben diversa molte ricerche scientifiche hanno messo in luce i rischi dell’uso del Taser, quest’arma può infatti provocare un danno muscolare e può quindi, teoricamente, causare un danno anche al muscolo cardiaco, inoltre potrebbe interferire con alcuni dispositivi medici, tipo il pacemaker. Negli Stati Uniti, dove il Taser è impiegato da diversi anni, si contano centinaia di decessi di persone colpite da questa pistola elettrica; Amnesty International ha portato a conoscenza l’esistenza di ben 334 casi accertati di morte per l’utilizzo del Taser. Ancora Amnesty International ha classificato il Taser come strumento di tortura, stessa conclusione a cui è giunta una commissione ONU, la quale considera il Taser “una forma di tortura, che in certi casi può condurre alla morte com’è dimostrato da numerosi studi e da episodi accaduti in seguito all’uso pratico di questi strumenti”.

La domanda viene spontanea quando si parla di forze dell’ordine italiane: in che modo e con quali regole di ingaggio verrà utilizzata quest’arma? L’ovvio timore, vedendo i soliti e tristi casi di malapolizia, è quello di un uso dettato dall’emotività e personalità del singolo agente. Il Taser, mediaticamente meno dirompente di un colpo di pistola, impiegato con disinvoltura e superficialità dalle forze di polizia, potrà di fatto causare con i suoi 50.000 volt di potenza lo stesso effetto mortale di una Beretta.

SPRAY AL PEPERONCINO. Dai primi mesi dell’anno anche i Reparti Mobili della Polizia sono dotati dello spray al peperoncino con una getto di 5 metri, nel kit in dotazione è compreso anche un

LEGGI SPECIALI

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decongestionante per limitare l’effetto urticante (non si sa mai, come nelle migliori barzellette, che capiti di spruzzarselo addosso!).

Soddisfazione dei sindacati di polizia soprattutto per la “non pericolosità” di questo strumento. Hanno infatti dichiarato, grazie ad un LORO studio, che il danno causato sarebbe guaribile in un solo giorno di prognosi, meno quindi di una manganellata (!?). La realtà ancora una volta è ben diversa: questo strumento agisce come potente infiammatore e irritante, aumentando la trasmissione nervosa degli stimoli del dolore sulla pelle; ha una durata minima di due ore. I rischi reali li corre soprattutto chi è affetto da asma o malattie cardiovascolari. Come per il Taser, anche in questo caso ci sorgono gli stessi dubbi su come potranno essere utilizzati e sulla discrezionalità degli agenti nel farne uso.

BODYCAM. La questione sulla privacy è sempre molto accesa in questo paese e abilmente utilizzata da media e politici per difendere posizioni di potere. Ci piacerebbe invece che la privacy fosse garantita a tutti, e per tutti rispettata, ma quando si parla di soggetti “pericolosi” al sistema e non malleabili agli interessi economici, ecco che la privacy viene calpestata (con regole d’eccezione) se non ancor peggio cancellata. In una certa misura è il caso della “Bodycam”, una piccola telecamera inserita nella divisa degli agenti in servizio. Dopo un primo stop segnato dalla questione “Privacy” appunto, l’ostacolo è stato superato agilmente ad una velocità che questo paese dimostra raramente. A gioire però sono solo le imprese che producono questa microcamera come la Bodycam, Vievu e WachtGuard

che hanno visto il loro fatturato aumentare senza freni. In barba a tutto e tutti riprenderà qualsiasi cosa vuole l’agente che la indossa; logicamente però si può tranquillamente spegnere in caso di “necessità” da parte delle stesse forze dell’ordine, lasciando nuovamente spazio a quel famoso “buco nero” di immagini che tanto va di moda nell’ambiente delle caserme e questure italiane.

Per chiudere, la cosa più preoccupante oggi come ieri è il fatto che lo Stato emani leggi sull’onda dell’emotività. Qualsiasi sia stato il partito al potere eletto, o meno, tutti i vari decreti sono sempre arrivati a monte di un fatto grave e comunque mediatico, come ad esempio i casi Raciti, Sandri e Ciro Esposito insegnano; tutte queste disgrazie sono sempre state il pretesto dietro cui mascherare inasprimenti delle pene e/o l’introduzione di nuovi strumenti repressivi che, in circostanze normali, non avrebbe avuto spazio di manovra. Questo significa che lo Stato in cui viviamo non è in grado di prevenire i fatti con logica e in maniera razionale, ma che sia solamente in grado di reprimere dopo che il danno è stato commesso. Lo Stato continua a chiamare emergenza, una continua ridefinizione strumentale del nemico pubblico da parte dei poteri costituiti.

Grazie ad un clima di perenne “emergenza” costruito dai media di qualsiasi tipo e forma, che siano televisioni, radio, quotidiani oppure la rete istituzionale; vengono resi accettabili, agli occhi della fantomatica opinione pubblica, provvedimenti che troppo spesso violano diritti umani e sospendo libertà fondamentali formalmente sancite dalla Costituzione e dalle Carte internazionali.

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IL CONTROLLORE

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Abbiamo cercato sin qui di evidenziare come il livello repressivo nei confronti degli ultras (e non solo) si sia nel tempo inasprito. Al contrario ci viene oltremodo facile pensare a quanto poco venga fatto nei confronti del “controllore” del sistema: le forze dell’ordine.

CHI CONTROLLAIL CONTROLLORE ?

Sì perché i casi di abusi in divisa sono molti, quelli conosciuti, e non osiamo pensare a quelli sconosciuti; noi stessi nella nostra storia ne abbiamo avuto riprova. Per meglio evidenziare le contraddizioni insite a questo sistema normativo e giudiziario basta ricordarsi come in Italia ancora oggi non esista il reato di tortura benché l’Italia abbia ratificato la convenzione ONU che lo prevede nell’anno 1988. Così come non esiste ad oggi una modalità di identificazione degli uomini e donne in divisa.

Abbiamo chiesto a chi più di noi segue tali questioni di raccontarci lo stato dell’arte su queste tematiche.

TORTURA E CODICI IDENTIFICATIVI:LE LEGGI IMPOSSIBILI

Stiamo assistendo ad una sostanziale regressione delle garanzie dei diritti umani in Italia.

Molte sono le vicende e i fatti, al di là di contesti ed epiloghi diversi, che ruotano attorno ad atti di violenze da parte delle forze dell’ordine.

Questi fatti, unitamente alla sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani, che ha condannato l’Italia per l’irruzione alla scuola Diaz di Genova il 21 luglio 2001 qualificando gli atti compiuti dalle forze dell’ordine italiane come “tortura”, hanno permesso l’apertura di un dibattito, anche istituzionale, su un tema che in Italia sembrava essere un tabù: gli abusi delle forze di polizia e le pratiche di tortura. In parlamento, attualmente, sono in discussione due proposte di legge: l’introduzione del reato di tortura ed i codici di identificazione per le forze di polizia in servizio di ordine pubblico.

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I giudici della Corte Europea dei Diritti Umani hanno deciso all’unanimità che lo Stato Italiano ha violato l’articolo 3 della Convenzione sui diritti dell’uomo, che recita: “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. La Corte di Strasburgo ha stabilito che se i responsabili non sono mai stati puniti, è soprattutto a causa dell’inadeguatezza delle leggi italiane. L’Italia, nonostante, abbia ratifi cato la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura nel 1988, non ha mai introdotto il reato di tortura nel codice penale e tutto questo ha indotto la Corte Europea a ritenere che la mancanza di determinati reati non abbia permesso, e non permette tutt’oggi, allo Stato Italiano di prevenire effi cacemente il ripetersi di possibili violenze da parte delle forze dell’ordine.

Della tortura, è importante parlarne perché esiste un’interazione profonda tra il dibattito pubblico e la formazione del senso comune e ancor prima fra la costruzione istituzionale dell’edifi cio giuridico e quella dell’immaginario collettivo.

La tortura è la manifestazione più vile: una persona che sta nelle mani delle istituzioni dovrebbe essere

considerata sacra.

Bisogna essere consapevoli del fatto che l’impunità della tortura è comunque un fattore di legittimazione, di normalizzazione di quei fenomeni che si svolgono accompagnati da un’altissima cinta nera d’impunità, all’insaputa non solo dell’opinione pubblica ma anche delle autorità inquirenti.

Il meccanismo processuale, infatti, purtroppo è tale che, svolgendosi la tortura nel tète â tète tra inquirente e inquisito, tra poliziotto e arrestato, non ci sono prove e la denuncia, oggi, può tradursi in incriminazione per calunnia. E allora questo vuol dire che non basta solo introdurre il reato di tortura per realizzare gli obblighi internazionali, ma anche per adempiere ad uno specifi co obbligo costituzionale. L’art. 13 della Costituzione al comma 4 dice che è punita qualunque forma di trattamento disumano nei confronti di chi è sottoposto ad una detenzione da parte delle autorità di polizia e delle autorità inquirenti.

Ma a questo obbligo costituzionale non si è mai adempiuto. Su questo il silenzio è un fattore non solo

IL CONTROLLORE

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di oscurità, di riduzione della percezione, ma è anche un elemento costitutivo della tortura, perché il torturato si trova in una condizione di assoluta solitudine e di incomunicabilità con l’esterno. Per questo riteniamo che non basti introdurre il reato di tortura, ma servono anche delle garanzie processuali: il divieto di un contatto diretto ed esclusivo tra inquirente e inquisito. Questa è una garanzia elementare e tuttavia essenziale non solo a tutela della difesa ma anche a tutela dell’integrità personale.

Ma purtroppo dobbiamo costatare che la legge in discussione oggi in parlamento è una “legge beffa”. Infatti il testo di legge si discosta profondamente dai punti chiave dagli standard internazionali e dalle stesse indicazioni della Corte di Strasburgo. Il rischio è quello di avere una legge che qualifi ca la tortura come reato generico, che prevede la prescrizione del reato ed in cui il risarcimento per la vittima è diffi cilmente applicabile.

Che la tortura sia un reato specifi co del pubblico uffi ciale è una nozione di senso comune ed è anche il motivo per il quale è oggi necessario introdurre una legge ad hoc: l’Italia è un paese dove la tortura è stata

praticata e si pratica in troppe occasioni (basta leggere i Rapporti di Amnesty International) ed è quindi necessario che arrivi alle forze dell’ordine un messaggio molto forte, in grado di avviare un cambiamento di rotta nei comportamenti e un aggiornamento dei parametri culturali di riferimento.

Quanto alla prescrizione del reato, la Corte di Strasburgo si è espressa più volte negli anni scorsi sulla necessità di escluderla in materia di violazione dei diritti umani e lo ha ribadito nella sentenza di condanna, richiamando precise indicazioni venute sia dal Comitato europeo di prevenzione della tortura, sia dal presidente della nostra Corte di Cassazione. Ma il parlamento fa fi nta di non sentire e di non vedere.

Il testo di legge, inoltre, prevede che per aversi tortura, debbano essere commesse “violenze”. E non “violenza”. La differenza tra l’uso accorto del singolare invece del plurale è palese per cui, si può ipotizzare che lo spegnimento di una sola sigaretta nell’occhio della vittima, ad esempio, non sarebbe da considerarsi come tortura! Ma il legislatore ha pure pensato che non basti una serie di violenze per integrare il reato, ma

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pure che la vittima debba trovarsi sotto la tutela, cioè sotto il potere del P.U. (tipico il caso dell’arrestato). Così sorgono dubbi interpretativi: che succede in un caso analogo alla “Macelleria messicana” commessa alla scuola DIAZ nella notte tra il 21 e il 22 luglio 2001 a Genova? Gli agenti entrarono e massacrarono le vittime, che però non erano ancora state arrestate. Non fu tortura quella? La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo ha delirato allora con la sentenza di condanna dell’Italia del 7 aprile 2015?

Approvare una legge che non qualifica la tortura come reato specifico delle forze dell’ordine significa rinunciare a quell’effetto deterrente che una legge del genere dovrebbe avere. Significa fingere di vivere in un altro paese. Nella pratica è un cedimento della politica ai vertici delle forze dell’ordine, che altrimenti potrebbero considerarsi messi sotto accusa.

Non c’è dubbio quindi, che l’attuale testo di legge è una mediazione al ribasso fra il parlamento (con schieramento bi o tripartisan) e le forze di sicurezza, ostili e ancorate ad una tradizione corporativa che affonda le proprie radici in epoche storiche prerepubblicane. Una “sudditanza psicologica” della politica verso le forze dell’ordine. Potremmo aggiungere che siamo di fronte a due debolezze. Quella di forze di polizia a disagio con gli standard di trasparenza e responsabilità tipici delle democrazie avanzate; e quella di forze politiche incapaci di esercitare fino in fondo il proprio ruolo di indirizzo e più propense a blandire, adulare, proteggere ad ogni costo e in ogni caso i corpi di polizia e i loro vertici.

Altra legge in discussione in Parlamento è quella per introdurre l’identificazione delle forze dell’ordine.

Anche su questo l’Unione Europea ha approvato una specifica risoluzione il 12 dicembre 2012, la n.192 in cui si afferma che «è preoccupante che i servizi di polizia nell’Unione utilizzino una forza sproporzionata in occasioni di avvenimenti o di manifestazioni pubbliche; esorta gli Stati membri a fare in modo che il controllo democratico e giudiziario dei servizi incaricati di far applicare la legge e del loro personale sia rinforzato, che l’obbligo di rendere conto sia assicurato e che l’impunità non abbia alcuno spazio in Europa, particolarmente in occasione di un uso sproporzionato della forza o di atti di tortura o di trattamenti inumani o degradanti; invita gli Stati membri ad assicurarsi che i propri agenti di polizia portino un numero di identificazione».

In diversi Paesi europei esistono già provvedimenti per l’identificazione individuale degli agenti di polizia in servizio. Nel Regno Unito La “Dress Code Policy” per la polizia metropolitana di Londra stabilisce l’obbligo per tutti gli agenti in servizio di esporre il codice identificativo nella spallina dell’uniforme, in modo che sia “visibile in ogni momento”. In Francia è in vigore dal dicembre 2013 l’obbligo per gli agenti in servizio, sia in uniforme che in borghese, di esporre un codice identificativo individuale di sette cifre, il “référentiel des identités et de l’organisation”. In Germania non esiste l’obbligo di identificazione per la polizia federale, ma è invece adottato in diversi Länder per i corpi di polizia regionali, dove nella gran parte dei casi la polizia è libera di scegliere se riportare un’etichetta identificativa o meno. In Spagna, ad eccezione delle unità incaricate di mantenere l’ordine pubblico, esiste sulla carta un obbligo di identificazione pubblica per gli agenti, anche se non sono previste misure per garantirne l’effettivo rispetto. In Grecia, dal gennaio 2010 è fatto obbligo per tutti gli agenti di rendere visibile sulle proprie spalline un codice di riconoscimento individuale; per gli agenti in tenuta anti-sommossa, un codice relativo alla propria unità di riferimento e all’identificazione del singolo è riportato inoltre sul casco protettivo. In Belgio vi è una norma che obbliga gli agenti a portare una targhetta con nome, grado e forza di polizia. In Olanda per gli agenti vi è l’obbligo di portare sull’uniforme una targhetta con il nome, ma contestualmente le forze di polizia che agiscono in situazioni di ordine pubblico portano un numero sul casco. In Turchia, esiste l’obbligo di avere dei codici identificativi sui caschi. Quindi come si può constatare in Europa non mancano molti esempi di cui fare tesoro a maggior tutela dei cittadini da eventuali abusi nella gestione dell’ordine pubblico.

La legge, in discussione in parlamento oggi prevede di introdurre delle modalità di individuazione degli agenti in servizio di ordine pubblico. Nessun nome e cognome sui caschi, ma un identificativo alfanumerico che ha un duplice effetto di trasparenza: verso l’opinione pubblica, che sa chi ha di fronte, ed a garanzia di tutti i poliziotti che svolgono il loro servizio.

Ma cosa prevede la proposta di legge? «Lo scopo - si legge nel testo - è di introdurre delle modalità di individuazione che, ove fosse richiesto dalle circostanze, tutelino quanti tengono, e sono naturalmente la maggioranza, comportamenti conformi alle norme e alle circostanze». Un’accortezza necessaria per risalire ai colpevoli in caso di abusi. La norma prevede quindi

IL CONTROLLORE

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Nel corso di una conferenza stampa, sul disegno

di legge di istituzione del reato di tortura,

tenutasi a Montecitorio l’8 aprile 2015, l’avv.

Fabio Anselmo, legale dei tanti casi di malapolizia

italiana, da Rasman ad Aldrovandi, Cucchi, Uva,

Ferrulli, Magherini, Bifolco, e tanti altri, ha

spiegato i motivi per i quali i ‘cavilli’ della norma

rischiano di stravolgerne lo spirito e di rendere

quasi impossibile, nella pratica, provare il reato

di tortura in un aula di tribunale. L’avvocato

definisce il testo come troppo specifico nel

descrivere la ‘fattispeciÈ della tortura, al punto

che i casi di Cucchi, Mastrogiovanni o Aldrovandi

difficilmente potrebbero rientrarvi.

«Questa legge sulla tortura così come è non si applicherebbe a nessuno dei casi che ho seguito in questi anni come legale, da Federico Aldrovandi a Stefano Cucchi e tutti gli altri. Soprattutto a quello di Federico. Così come è scritta la nuova legge, di fatto, rende impossibile l’applicazione del reato di tortura che andrà in discussione alla Camera dei deputati».

Il testo di legge in discussione «di fatto rende impossibile l’applicazione del reato di tortura nei casi che si presenteranno».

«Nel caso Aldrovandi furono causate 54 lesioni sul corpo di Federico e vi furono due manganelli rotti ma così come è oggi la legge che verrà discussa sarebbe stata inapplicabile, perché occorre dimostrare che il motivo scatenante possa esser stato quello di infliggere sofferenze alla vittima, di avere avuto una sorta di compiacimento, non solo fermarla per motivi di ordine pubblico: questo è il limite della legge, per un reato che diventa davvero impossibile e che rischia di essere di nessuna applicazione».

Sul sito Youtube.com è possibile vedere il video

integrale della conferenza stampa tenutasi a

Montecitorio l’8 aprile 2015.

www.acaditalia.it

AcadOnlus @ACADitalia

[email protected]

l’obbligatorietà di identificare gli agenti che indossano un casco di protezione «mediante l’applicazione di contrassegni univoci sullo stesso». Si tratta di una “sigla univoca” impressa sui due lati e la parte posteriore del casco, in grado di identificare l’operatore che lo indossa.

Niente nomi, ovviamente. Come precisa l’articolo 4 del disegno di legge in discussione, sarà l’amministrazione di appartenenza a tenere «un registro aggiornato degli agenti, funzionari, sottufficiali e ufficiali ai quali è stato assegnato il casco». Il provvedimento impone, anche, agli operatori delle forze di polizia impiegati in servizi di ordine pubblico - qualora non indossino l’uniforme prescritta - di portare indumenti che li identifichino «univocamente e a distanza come appartenenti delle Forze dell’Ordine». Pettorine, ad esempio. Oppure la «sciarpa tricolore» per i funzionari responsabili. Il motivo è presto detto. Come si legge nel ddl, la norma nasce per «evitare che si generino equivoci o confusioni che, nella tensione inevitabile di talune manifestazioni di piazza, potrebbero degenerare o acuire le tensioni».

Quindi, nessuna caccia alle streghe come invece grida il “Partito della Polizia” che ha giurato battaglia affinché la legge non venga mai approvata.

L’identificabilità degli agenti non basta da sola a risolvere il problema, ma è un passo necessario per rendere più trasparente l’operato della polizia, combattendo l’impunità e prevenendo la formazione di nuclei ideologizzati al suo interno.

In Italia si apre adesso la concreta possibilità di recuperare anni di ritardo e chiusura su un tema che tocca direttamente la qualità della democrazia e la libertà di espressione. Un’occasione che non deve andare sprecata, altrimenti lo stato di diritto democratico non è altro che un coacervo di qualche piccolo spiraglio di giustizia e soprattutto di tante ingiustizie, tanto più quando gli attori forti condizionano l’esercizio di ogni potere e quindi del potere giudiziario.

Osservatorio sulla repressione - ACAD

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La repressione fa male a tutti.

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IL CESTO

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Associazione a delinquere, truffa, omicidio colposo, abuso d’ufficio, peculato, induzione indebita, falsa testimonianza, corruzione, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina: non si tratta di capi d’accusa rivolti contro un’organizzazione criminale, bensì solo di una parte dei reati imputati ad appartenenti alle forze dell’ordine a Bergamo negli ultimi anni.

Ordine pubblico a Bergamo: IL PROBLEMA ÈIL CESTO, NONLE MELE MARCE

L’entità delle inchieste che continuano a coinvolgere agenti sul nostro territorio è inquietante: il dato quantitativo delle condotte criminali all’interno di polizia e carabinieri desta allarme e attenzione.

Nessuno è tanto ingenuo da pensare che un poliziotto debba essere necessariamente più onesto di un qualsiasi altro lavoratore. Ma la serie di crimini in cui sono coinvolte le forze dell’ordine è impressionante. Pensare che questi individui eseguano controlli, appostamenti, intercettazioni telefoniche, posti di blocco, schedature, arresti, non può permetterci di dormire sonni tranquilli.

Se gli imputati fossero solo elementi di second’ordine, potremmo forse parlare di eccezioni, di condotte personali che screditano l’onore di chi porta la divisa. Ma la favola delle mele marce diviene poco credibile, soprattutto alla luce del coinvolgimento dei più alti dirigenti che hanno gestito l’ordine pubblico in questa provincia.

A differenza di altri paesi, dove vengono divulgati in maniera trasparente, in Italia i dati sulla corruzione all’interno degli organi di sicurezza rimangono segreti; per cercare di mettere a fuoco il fenomeno bisogna quindi affidarsi alle notizie che appaiono sui quotidiani, spesso relegate in un riquadretto a fondo pagina, poco visibili e accompagnate da titoli fuorvianti. Esiste infatti un legame molto stretto tra forze dell’ordine e media locali, che hanno necessità di avere un buon rapporto con chi è cruciale per il reperimento delle informazioni. Questa esigenza spiega l’occhio di riguardo riservato dai giornali a Questura e militari.

Non va sottovalutato nemmeno l’impatto dello spirito di corpo,che ha portato spesso alla copertura di agenti criminali da parte di chi, anche se non coinvolto direttamente, ha preferito far finta di nulla: in molti casi il cameratismo diventa la scelta più semplice tra colleghi.

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Ad aggravare il quadro, poi, un’ovvia constatazione: chi subisce abusi si trova di fronte al dilemma di tentare di far valere i propri diritti o rinunciare a qualsiasi speranza di giustizia per il timore di mettersi in guai ancor peggiori. Questo atteggiamento vale a maggior ragione per chi ha meno diritti o poche risorse economiche per sostenere battaglie legali: evidentemente il figlio di un avvocato, di fronte a un abuso, avrà più possibilità di far valere i propri diritti rispetto ad un migrante clandestino.

Questi fattori ci fanno intuire quanto il fenomeno sia sottovalutato rispetto alle reali dimensioni.

Ai tutori della legge che finiscono comunque imputati in un’aula di tribunale, spesso viene riservato un trattamento di favore rispetto ai normali cittadini. La giustizia, che si accanisce sui comuni mortali, riconosce una speciale credibilità agli agenti. Di conseguenza, le vicende giudiziarie che coinvolgono le forze dell’ordine finiscono, il più delle volte, in un nulla di fatto.

Questo sintetico elenco di inchieste bergamasche restituisce un’immagine dei difensori della legge un po’ diversa da quella che ci forniscono le fiction in prima serata. Per non scadere in un inutile giustizialismo, abbiamo omesso i nomi delle persone indagate o condannate, eccezion fatta per i vertici della Questura.

L’obiettivo infatti non è individuare le mele marce: è il cesto a rappresentare il problema.

MAGGIO 2015: Il G.u.p. Bianca Maria Bianchi nega il patteggiamento al carabiniere della stazione di Seriate (imputato per furto e indebito utilizzo di carta di credito) che rubò la borsa a una barista romena, ferita dopo essersi fermata per soccorrere Eleonora Cantamessa e Baldev Kumar, morti a Chiuduno.

MARZO 2015: Il Questore di Bergamo Finolli viene indagato per induzione indebita, peculato, accesso abusivo al sistema informatico del Viminale e divulgazione del segreto d’ufficio ed è stato rimosso dall’incarico. L’accusa è di aver favorito un amico nei

confronti dell’INPS, a cui non sono stati versati 15 milioni di euro di contributi di lavoro dipendente.

DICEMBRE 2014: su 21 indagati nelle indagini preliminari, sei carabinieri vengono rinviati a giudizio per corruzione, truffa, rivelazione di segreti d’ufficio, omessa denuncia e peculato nell’ambito delle indagini sulla vendita di dati di vittime di incidenti a società di consulenza per il recupero indennizzi. L’ex comandante della compagnia di Zogno viene assolto da ogni accusa, mentre il maresciallo rinviato a giudizio per 15 capi d’imputazione (a fronte dei 33 iniziali), 3 agenti vengono condannati in rito abbreviato e 5 assolti.

DICEMBRE 2014: i familiari di Jimmy, il ventisettenne ucciso dai carabinieri a Bolgare, si oppongono all’archiviazione nei confronti dei 3 carabinieri del comando di Bergamo, indagati per omicidio colposo ed eccesso colposo di legittima difesa.

NOVEMBRE 2014: cade in prescrizione il processo all’ex questore Colucci, condannato nel 2013 in appello a due anni e otto mesi per falsa testimonianza relativa al massacro nella scuola Diaz durante il G8 di Genova. Colucci avrebbe mentito per coprire De Gennaro, l’ex capo della Polizia chiaramente assolto ed ora ai vertici di Finmeccanica.

LUGLIO 2014: condannati sei carabinieri della Caserma di via delle Valli, che costituivano il ROS bergamasco, sotto il comando del generale Ganzer, anch’egli condannato. I militari sono stati coinvolti nell’inchiesta sulle irregolari operazioni anti-droga finalizzate al traffico di stupefacenti.

NOVEMBRE 2013: l’ex Questore di Bergamo Vincenzo Ricciardi viene chiamato a giudizio per calunnia aggravata nell’ambito delle inchieste sulle stragi di Falcone e Borsellino.

LUGLIO 2013: nessun rinvio a giudizio per il militare della Caserma delle Valli che spara al diciottenne disarmato Aziz Amiri. La procura di Bergamo archivia il caso.

NOVEMBRE 2012: indagati per abbandono di servizio e truffa aggravata ai danni dello Stato otto poliziotti e tre militari, accusati di giocare alle slot machine durante il turno di servizio.

IL CESTO

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NOVEMBRE 2012: rinvio a giudizio di un maresciallo della caserma di Fiorano per peculato, truffa, falso ideologico e abuso d’ufficio.

GIUGNO 2012: vengono condannati i militari della stazione di Calcio e gli agenti della polizia locale di Cortenuova, imputati nel caso della “panda nera”. Al centro dell’indagine, decine di raid punitivi contro migranti, compiuti dalla banda di carabinieri e vigili tra Novembre 2005 e Giugno 2007.

GIUGNO 2012: condannato a 1 anno e 10 mesi un carabiniere della Bassa per maltrattamenti e percosse alla compagna, a cui ha rotto un timpano.

MARZO 2011: la Corte europea condanna l’Italia per l’uccisione di un diciannovenne a Seriate. Condannato l’agente della polizia stradale per omicidio colposo; il reato si prescrive e vengono sollevati dubbi sulle indagini svolte dai colleghi del poliziotto imputato.

NOVEMBRE 2010: in appello vengono condannati 13 dei 17 imputati, appartenenti alle varie forze dell’ordine, per il rilascio di permessi di soggiorno irregolari in cambio di favori sessuali.

GENNAIO 2010: vengono arrestati il sovrintendente e l’assistente dell’ufficio Volanti con le accuse di violenza privata e peculato ai danni di un senegalese, a cui avevano rubato merce e denaro.

L’ex Questore di Bergamo Finolli viene indagato per induzione indebita, peculato, accesso abusivo al sistema informatico del Viminale e divulgazione del segreto d’ufficio.

L’ex questore Colucci condannato a 2 anni e 8 mesi per falsa testimonianza per il massacro alla scuola Diaz durante il G8 di Genova. La condanna si è prescritta.

www.bgreport.org

è un portale d’informazione indipendente. Trattiamo di ingiustizie, diritti negati, repressione

e sfruttamento a Bergamo e in provincia. Bgreport è frutto di impegno volontario e funziona

soprattutto grazie alle segnalazioni che giungono da persone che sul territorio vengono a conoscenza di episodi da

raccontare. Il tuo aiuto può essere prezioso, collabora con la redazione scrivendo a [email protected]

BGREPORT

La repressione fa male a tutti.

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UNO SGUARDO ALL’EUROPA

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Quante volte abbiamo sentito parlare di modello inglese e modello tedesco nel mondo del calcio? Troppe… senza mai però renderci effettivamente conto di cosa realmente prevedano questi modelli e di come funzionino.

UNO SGUARDO ALL’EUROPA

Sarebbe troppo complicato fare un paragone con il Regno Unito, in poche pagine, semplicemente per un discorso di cultura calcistica: in Inghilterra lo stadio rappresenta un vero e proprio monumento nazionale e gli stadi sono un po’ come delle sculture cittadine,

così come i pub, anch’essi di fatto costituiscono un elemento primario ed imprescindibile della cultura suburbana inglese.

Una nazione intera, in cui ogni sabato alle 16.00 la città si trasferisce allo stadio; il football qui è tradizione.

Chelsea Pitch Owners plc (it. Possessori del Campo del Chelsea) è un’organizzazione no-profit fondata dai tifosi,

che comprende anche gran parte dei giocatori, nata per preservare la tradizione storica del proprio club. In

particolare questa organizzazione ha deciso di acquistare a tutti gli effetti il campo da gioco ed il marchio del

Chelsea, questo per evitare che cambiamenti degli assetti proprietari e strategie puramente imprenditoriali

possano in futuro alterare o radicalmente sconvolgere le tradizioni del club.

Fa parte di questa cultura il non identificarsi come

curva, non muoversi in massa a differenza di ciò che

avviene in Italia (tifo all’inglese) e di conseguenza

essere costituiti in tanti piccoli gruppetti.

La favola che in Inghilterra non succedano più

incidenti ormai è vecchia, basti pensare al morto nel

derby londinese tra West-ham e Millwall (agosto 2009 incontro di FA Cup) o agli incidenti in campo nella stracittadina di Bristol (settembre 2013 incontro fra Bristol City e Bristol Rovers), per non parlare delle tante scazzottate in metropolitane, stazioni di servizio e treni, eppure gli inglesi gli stadi li riempiono ancora oggi.

La repressione fa male a tutti.

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La repressione fa male a tutti. Opuscolo informativo sulla repressione dentro e fuori gli stadi

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I detrattori del modello ThatcherIl “modello Thatcheriano” ritenuto in passato panacea di tutti i mali del calcio

ha da sempre, e oggi ancor di più, i suoi detrattori. Sono in molti a sostenere che la “vittoria” della “Lady di ferro” contro gli hooligans sia soltanto un “falso mito”; al contrario le misure repressive da lei adottate siano state in realtà insufficienti: «La signora Thatcher non ha avuto nulla a che fare con la sconfitta degli hooligans

in Inghilterra. Odiava il calcio (come rivelò poi il suo ministro Clarke, ndr) e non ne capiva granché. Lei era parte del problema, non della sua soluzione», così spiegò su “Il Manifesto” il 17 novembre 2007 il professor John Foot (pochi giorni dopo l’uccisione di Gabriele Sandri). Non senza bocciare le misure repressive adottate e ricordando come, per seguire l’esempio inglese,

il nostro Paese dovrebbe prima capire di cosa si tratta: «Inutile introdurre gli steward se non si cambiano le curve e non si eliminano le recinzioni. C’è bisogno di stadi dove il pubblico possa vedere e sentire la partita come esseri umani, non animali. Ci vuole tempo. Ricordandosi che la signora Thatcher non c’entra nulla» (ancora John Foot, opera citata). E’ stato da più parti sottolineato come le misure adottate dalla Thatcher siano servite soltanto per togliere dai riflettori degli stadi, e quindi dalle televisioni, la violenza, spostando il problema altrove nei quartieri popolari per relegarlo a mero teppismo e delinquenza. Ancora la “Lady di Ferro” è

UNO SGUARDO ALL’EUROPA

“ODIAVA IL CALCIO E NON NE CAPIVA GRANCHÉ. LEI ERA

PARTE DEL PROBLEMA, NON DELLA SUA SOLUZIONE”

Page 59: La repressione fa male a tutti

stata accusata, a ragion veduta, di aver privatizzato il football inglese, rendendolo uno sport elitario con il fine di allontanare dagli stadi la “working class”, in particolare attraverso un costante e spropositato aumento del costo dei biglietti. Non più uno sport espressione delle classi popolari, bensì della borghesia in ascesa negli anni ’90. Non senza attaccare le misure repressive della Thatcher, considerate a loro volta causa della rabbia degli stessi hooligans negli stadi. In occasione della morte dell’ex primo ministro britannico, la Football Federation decise di non prevedere il minuto di silenzio per onorarne la memoria, in occasione delle partite della Premier League, ciò probabilmente per il timore di subire pesanti contestazioni da parte dei tifosi ed il rischio di subire conseguenti critiche da ampie fasce della società civile inglese che ritiene l’esperienza thatcheriana ultraconservatrice, per non dire altro.

Molto più simili a noi, soprattutto calcisticamente parlando, sono i tedeschi.

Ecco allora l’importanza di gettare uno sguardo oltralpe; rimaniamo impressionati da numerosi aspetti ad esempio il fatto che ci siano stadi follemente pieni ogni giornata di campionato, che nell’ultimo anno tra Bundesliga, 2’ Bundesliga e 3’Liga non ci sia stata nemmeno una trasferta vietata ai sostenitori delle squadre ospiti, che non ci siano state partite a porte chiuse, eppure anche in Germania girano bombe-carta, torce, fumogeni e striscioni offensivi.

Ci sorprendiamo del fatto che le società di calcio tedesche vedano gli ultras come interlocutori naturali quando devono vendere i biglietti, in casa ed in trasferta mentre qui, nel bel paese, si penalizzeranno le società ed i calciatori che hanno contatti con uno o più elementi ritenuti “Ultras”.

Quando poi mettiamo piede in una curva di uno stadio tedesco - sì perché purtroppo qui chi emana leggi speciali e ci parla di questo o quel modello da imitare, in realtà in uno stadio tedesco non ha mai messo piede se non in tribuna “v.i.p.” per la finale del mondiale 2006 - notiamo subito tre cose: megafoni, tamburi e biglietti non nominali.

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La repressione fa male a tutti.

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Al contrario della tesi dei media italiani secondo la quale gli stadi sarebbero vuoti per colpa dei problemi di ordine

pubblico facciamo notare che visionando alcuni dati riferiti dalla polizia tedesca, in questa stagione, emerge che

a causa degli scontri fra tifoserie, ci sarebbe stato un incremento del 63% circa di feriti rispetto alla precedente

stagione 2013-14 a fronte dell’89% di affluenza negli stadi.

Addirittura in alcuni stadi è previsto un impianto audio, esclusivamente per la curva di casa con tanto di microfono per la balconata o lancia-cori, come meglio preferite chiamarli.

I tamburi non sono altro che la scansione ritmata dei cori vocali, nulla di più creando un effetto molto particolare, ovviamente col fine di coinvolgere lo stadio intero e spingere la squadra in campo, e pensare che qui in Italia vengono emessi Daspo e comminate multe salatissime per l’utilizzo di tali strumenti di tifo che nulla hanno a che fare con la violenza.

Perché avete la Tessera del tifoso? Cos’è il voucher? Come mai quando finite un Daspo non potete, in molti casi, rientrare allo stadio? (cfr. art. 9). Sono solo alcune delle domande che di frequente ci vengono poste dagli amici tedeschi, e credeteci, è veramente difficile spiegare come funzionino in Italia queste cose, semplicemente perché non funzionano.

Il più delle volte le norme non sono chiare nemmeno a chi le approva, con il risultato che gli stadi italiani si stanno desolatamente svuotando. Stadi che sono in molti casi catapecchie eredita di Italia ’90 (anche in quella occasione furono privilegiati gli interessi economici di pochi) con servizi igienici senza acqua, gradinate di cemento fredde senza un tetto sopra la testa, filo spinato ad ogni entrata, visuali orride e settori da prigionieri.

UNO SGUARDO ALL’EUROPA

Page 61: La repressione fa male a tutti

La libertà con la quale vengono esposti striscioni in Germania e preparate coreografie non può che lasciarci a

bocca aperta.

A Francoforte nella stagione appena terminata hanno fatto entrare in curva una coreografia con strutture in

legno di circa 2 metri di altezza per creare la scritta “Frankfurt” in tre dimensioni, in Italia manco una bottiglietta

col tappo si può far entrare allo stadio.

In Germania non esiste una legge nazionale in materia di sicurezza negli stadi. Il Governo ha optato per un progetto

volto a incoraggiare l’autodisciplina dei tifosi stessi. Sono le autorità regionali a richiedere la presenza della polizia

per le partite ritenute a rischio.

Un articolo del quotidiano “Der Spiegel” del 2013 ricordava come per mesi la squadra dell’Eintracht Braunschweig,

nota per esser stata la prima di sempre a presentare uno sponsor sulle maglie, sia rimasta di fatto osteggia per mesi

della sua tifoseria, gli Ultras Braunschweig 01. La più forte esplosione di violenza, però, si è registrata a Dortmund il

20 ottobre 2012, con i 180 arresti prima di Borussia Dortmund - Schalke 04. Lo scorso gennaio, proprio in seguito a

quell’episodio, lo Schalke ha impedito l’ingresso allo stadio a 498 tifosi del Borussia Dortmund.

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La repressione fa male a tutti.

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Riflettendo c’è da chiedersi se veramente sia ancora la nazione del pallone la nostra; guardando ogni week-end il modo in cui vivono lo stadio i ragazzi a nord dell’Italia la risposta è presto data. E’, nostro malgrado, triste guardare ovunque in Europa e rendersi conto che gli unici con questi assurdi divieti e restrizioni siamo noi, a maggior ragione se si confrontano i dati sui disordini negli stadi: L’Italia, al contrario di ciò che molti pensano, è uno dei paesi con le più basse incidenze di scontri in rapporto al numero di tifosi, nonostante ciò permane l’Ultras come principale problema del calcio.

L’utilizzo degli strumenti di tifo (tamburi, megafoni, coreografie), l’accesso agli impianti in libertà, il rispetto dei tifosi, sono tutti aspetti che nel resto d’Europa sono stati cavalcati per cercare di invogliare la gente ad andare allo stadio e non per allontanarla come, all’opposto, accade in Italia. Ci chiediamo come mai da Stoccolma si muovono in 7.000 per una trasferta a Malmo? E ancora come mai in Norvegia hanno legalizzato l’utilizzo di materiale pirotecnico all’interno degli stadi? Certo forse nessuno sa degli incidenti che ogni week-end accadono in Danimarca, in Polonia, in Croazia, in Grecia, è sufficiente non strumentalizzarli e il gioco è fatto (basta curiosare in internet su qualche sito specifico per avere idea di quello che succede fuori e dentro gli stadi del vecchio continente).

Non è per la bravura di un giocatore, per la classe della squadra o per l’eccellenza nel colpo di tacco che in Germania e non solo, la gente riempie ancora gli stadi, ma è per quel senso di vita che sprigiona l’atmosfera da stadio: i gruppi ultras, con i loro cori, i battimani, le coreografie, di questo s’innamorano i bambini, indipendentemente dalla categoria, perché il calcio giocato in Germania, a parte un Bayern strepitoso ed un Borussia Dortmund mediocre, è forse paragonabile alla nostra serie B (in Austria manco arriva al livello della nostra Eccellenza, eppure gli stadi sono letteralmente pieni pure lì).

UNO SGUARDO ALL’EUROPA

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Abbiamo intervistato Jens, 35 anni e cofondatore degli Ultras Frankfurt 1997 (UF ’97).

Ciao Jens.

Ciao.

Da quanto tempo vai allo stadio?

Circa 20 anni.

Vai anche in trasferta?

Regolarmente.

In Germani avete i biglietti nominali?

No, il biglietto non riporta alcun nominativo come un qualsiasi biglietto di ingresso per un cinema, una fiera o altro evento pubblico.

Voi dell’Eintracht di Francoforte avete mai subito provvedimenti come il divieto di andare in trasferta?

No, mai. In Germania non è in generale possibile vietare ad uno o più soggetti di viaggiare e vedere una partita di calcio.

Come funziona il vostro abbonamento per le partite casalinghe?

Viene ritirato nel periodo di tempo nel quale un ragazzo è sottoposto a restrizione (una sorta di daspo)

Com’è organizzato il tifo nella vostra curva?

Abbiamo un ‘impianto audio con un microfono gestito direttamente da noi ultras, altri 6 megafoni di supporto, più 5 - 6 tamburi, in trasferta siamo più comodi con qualche tamburo in meno, per le coreografie abbiamo una stanza all’interno dello stadio, sotto la tribuna laterale, dove possiamo avere libero accesso per realizzare striscioni e bandieroni, depositare materiale a fine match ed avere tutto a portata di mano.

È sempre pieno lo stadio?

Si, praticamente sempre!

Solo a Francoforte o in tutta la Germania gli stadi sono pieni?

Sono sempre pieni, da est a ovest e da nord a sud.

Accadono incidenti con tifoserie avversarie?

Si, soprattutto in Germania dell’est o nei derby con le squadre vicine. Il più delle volte gli incidenti vengono stigmatizzati dalle stesse autorità e dai media.

Cosa pensi dell’Italia a livello di stadio?

Se gli italiani sono famosi per essere confusionali un motivo ci sarà, l’unico paese dove compri un biglietto in internet e il giorno prima ti chiudono la curva, l’unico paese dove devo fornire i dati del mio documento per acquistare un biglietto, e poi ogni volta che vengo in Italia per vedere una partita qualcosa cambia sempre, non si capisce nulla, anzi addirittura cambia di città in città! Avete troppe “figure” che con il calcio non centrano nulla: Viminale, questura, osservatorio, ministri ognuno vuole dire la sua, in Italia va semplificata la cosa non continuamente fomentata.

Cosa pensi quando leggi articoli che parlano di noi ultras bergamaschi?

Mi interesso delle vostre vicende anche se faccio difficoltà a tradurre a pieno gli articoli che mi girate da Bergamo, non vorrei essere banale ma in fondo penso che in Italia la mafia sia un cartone animato sbandierato a seconda della circostanza, la politica un optional o meglio un lavoro da cui trarre profitto ed il problema più grande per i giornalisti, per lo spazio ed i toni usati, sono troppo spesso 500 ragazzi con troppa passione per il calcio.

Una battuta finale?

Vi auguro tanto di ritrovare la libertà di tifare senza restrizioni, ve lo meritate per tutta la fatica che state facendo. In Italia sono sempre forti i calciatori ma sempre più vuoti e tristi gli stadi. Non arrendetevi!

Grazie per l’intervista!

Grazie a voi e Ultras Liberi sempre!

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La repressione fa male a tutti.

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I dati si riferiscono all’anno 2014.

NUMERO DEI FERITI IN INCIDENTI DENTRO E FUORI GLI STADI:

Italia: 1 ogni 137 mila spettatori

Inghilterra: 1 ogni 37 mila spettatori

Germania: 1 ogni 26 mila spettatori

PERCENTUALI DI AFFLUENZA NEGLI STADI (serie A ed eguali in Europa)

92% Stadi inglesi

89% Stadi tedeschi

71% Stadi spagnoli

66% Stadi francesi

52% Stadi italiani

AFFLUENZA MEDIA PER PARTITA (serie A ed eguali in Europa)

42.634 Stadi tedeschi

35.921 Stadi inglesi

28.237 Stadi spagnoli

22.591 Stadi Italiani

UNO SGUARDO ALL’EUROPA

Page 65: La repressione fa male a tutti

Il sito spagnolo elgoldigital.com ha pubblicato una

classifica relativa alle presenze medie negli stadi

europei nel 2015. Delle prime 15 squadre nessuna

è italiana. Nell’immagine sono indicate le presenze

medie e percentuale di riempimento degli stadi in

funzione della capienza.(tratto da: www.stopandgoal.net)

1.Signal Iduna Park(Borussia Dortmund);

2.Cam Nou(Barcellona);

3.Old Trafford(Manchester United);

4.Santiago Bernabeu(Real Madrid);

5.Allianz Arena(Bayern Monaco);

6.Veltins-Arena(Schalke 04);

7.Emirates Stadium(Arsenal);

8.Volksparkstadion/ Imtech Arena (Amburgo);

9.Velodrome(Marsiglia);

10.Mercedes-Benz Arena(Stoccarda);

11.Stadion im Borussia-

Park(Borussia Moenchengladbach);

12.Saint James’ Park (Newcastle);

13.Olympiastadion(Herta Berlino);

14.Amsterdam Arena(Ajax);

15. RheineEnergie Stadion(Colonia)

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La repressione fa male a tutti.

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Nel corso del 2004 all’interno della Curva Nord era stato dato alle stampe un “Manualetto di sopravvivenza del tifoso”, all’interno del quale si prendeva posizione contro le ultime norme emanate in tema di sicurezza negli stadi. All’interno di esso ampio spazio era dato ad una serie di consigli su come comportarsi in “determinate situazioni” e su come approntare la propria difesa in caso di Daspo.

CONSIGLI PRATICI

CONSIGLI PRATICI

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Oggi, nostro malgrado, traendo spunto dai fatti accaduti nel post-partita di Atalanta-Roma dello scorso novembre 2014, che hanno portato all’arresto di alcuni nostri amici per oltre 20 giorni con accuse pesantissime, ci sentiamo in dovere di continuare quell’opera di informazione, cercando in tal modo di essere d’aiuto in contesti nei quali la libertà personale è messa a repentaglio in maniera sempre più arbitraria.

Cautele e buone abitudiniBisogna innanzitutto considerare che le forze

dell’ordine, in seguito ad incidenti o comunque in contesti di tensione che possono verificarsi, allo stadio come altrove, tendono sempre a prendere persone isolate e lontane dal gruppo, spesso al termine della giornata, quando la maggior parte della gente è già andata a casa. È proprio in questi frangenti che è più

alto il rischio di coinvolgere anche chi non ha avuto niente a che fare con episodi di violenza; v’è infatti una legge non scritta in base alla quale più gravi sono stati gli incidenti, più numerosi devono essere gli arresti effettuati nelle ore immediatamente successive, indipendentemente dall’effettiva partecipazione ai fatti, in modo tale da trovare subito il capro espiatorio e tranquillizzare così l’opinione pubblica, facendo invece sentire a tutti il peso della risposta repressiva. Di conseguenza la necessità impellente di sbattere qualche mostro (non importa se reale o immaginario) in prima pagina ha spesso la meglio sulla lucidità (?) di chi invece - avendo il potere di disporre della libertà altrui - dovrebbe svolgere con estrema cautela il proprio lavoro di investigatore. Proprio per questo motivo quindi le dovute cautele abbiamo deciso di adottarle noi redigendo questo “prontuario” che, oggi come dieci anni fa, spera di fornire un minimo aiuto pratico a chi malauguratamente dovesse trovarsi in situazioni “spiacevoli”.

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In stradaCome detto, è proprio nei momenti in cui la tensione

scende e la situazione sembra essersi calmata che avvengono la maggior parte degli arresti. Ciò si verifica anche perché le forze dell’ordine preferiscono non avere testimoni nel momento in cui arrestano qualcuno. Pertanto nel caso in cui dovessi essere fermato dalla polizia cerca sempre di far sì che qualcuno dei presenti o dei tuoi amici se ne accorga e capisca che cosa sta succedendo.

Luoghi rischiosi, oltre naturalmente alle strade dove si sono verificati gli incidenti, sono anche gli snodi del trasporto pubblico, come stazioni e caselli autostradali, i quali vengono pattugliati sino a molte ore dopo le partite in cerca di possibili partecipanti ai disordini.

Se sei rimasto in qualche modo ferito (ad esempio per il lancio di un lacrimogeno od una caduta per sfuggire ad una carica) evita, per quanto possibile, di rivolgerti al Pronto Soccorso. Se ciò non è possibile, cerca quantomeno di trovarne uno distante, avendo cura di ricostruire una spiegazione plausibile che non faccia alcun riferimento agli incidenti appena verificatisi. È infatti prassi comune per le forze dell’ordine quella di fare il giro dei vari ospedali della zona al fine di “rastrellare” i tifosi che vi si sono recati per farsi medicare, sulla base dell’equazione “ti sei ferito allo stadio uguale soggetto violento da arrestare”.

Nei momenti più “caldi” guarda sempre chi hai intorno a te, e ricordati che nelle partite a rischio è possibile la presenza di un discreto numero di agenti in borghese.

PerquisizioniSe in occasione della partita si sono verificati scontri

con la polizia o la tifoseria avversaria è possibile che chi indaga decida di perquisire la tua abitazione in cerca di materiale che possa consentire di identificarti come partecipante ai tafferugli. Ciò può avvenire sulla base di riprese video-fotografiche effettuate dalla polizia o dai giornalisti presenti, oppure semplicemente perché le forze dell’ordine ti hanno (o dicono di averti) riconosciuto. Spesso accade che la polizia si presenti senza la direttiva giudiziaria del magistrato; tuttavia tale intoppo viene sempre superato affermando che sussiste un pericolo immediato, e che pertanto è

comunque possibile procedere alla perquisizione. Essa avviene quasi sempre la mattina presto, ed in realtà, oltre all’intenzione di trovare qualcosa, ha anche il fine di demoralizzarti e umiliarti, facendo sentire su di te tutto il peso del potere. Di conseguenza la migliore risposta possibile è: mantieni la calma!

Una volta entrati, la perquisizione non può più essere evitata; è tuttavia importante ricordare, ad esempio, che è tuo diritto farti mostrare l’ordine di perquisizione e chiederne una copia. Devono consentirti di poter contattare un avvocato, il quale può assistere alle operazioni. Anche tu hai diritto ad essere presente in ogni singola stanza, pertanto chiedi che si proceda a perquisirne una dopo l’altra, e non tutte insieme contemporaneamente.

Se sequestrano qualcosa chiedi l’elenco delle cose sequestrate ma non firmarlo! Se invece non portano via niente fatti attestare anche quello.

Dopo che se ne sono andati, informa immediatamente l’avvocato (se non l’hai già fatto prima) e poi scrivi degli appunti riguardanti tutto quello che è successo dal momento in cui la polizia è entrata in casa.

Convocazioni in QuesturaOltre alle perquisizioni è possibile anche che

decidano di convocarti in Questura per assumere informazioni o sentire la tua versione dei fatti. In realtà l’intenzione principale è quella di minare la tua sicurezza, tentando di indurti a raccontare anche ciò che non hai visto o che nemmeno si è verificato nella realtà. Qui possono tenerti fino a 12 ore, fotografarti e prenderti le impronte digitali.

Solitamente la convocazione arriva con una telefonata o un biglietto con cui la Questura o il Commissariato ti invita a presentarsi per un certo giorno, spesso senza alcuna specificazione riguardante i motivi oppure con frasi di circostanza come “per motivi che vi riguardano”. Tale prassi non è tuttavia legittima: è tuo diritto conoscere i motivi per cui hanno deciso di convocarti, ed in caso contrario puoi anche rifiutarti di presenziare. Qualora invece i motivi siano stati indicati hai l’obbligo di presentarti, ed in caso contrario commetteresti una contravvenzione che viene attualmente punita con un’ammenda, ed in certi casi con l’arresto (oltre naturalmente all’accompagnamento

CONSIGLI PRATICI

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forzato). In questo caso prendi contatto con un avvocato (esperto in materia), e fatti accompagnare da lui se possibile; non potrà assistere all’assunzione delle informazioni, ma la sua presenza garantirà il rispetto della procedura e delle garanzie prevista dalla legge.

Il fermo(art. 384 del Codice di Procedura Penale)

Qualora vengano ravvisati nei tuoi confronti gravi indizi di colpevolezza unitamente al pericolo di fuga (due requisiti che devono essere presenti contemporaneamente), il P.M. (ma anche la Polizia giudiziaria) può disporre il Fermo. Trattasi di una misura limitativa della libertà personale che comporta l’accompagnamento forzato presso una Caserma o un Commissariato per accertamenti in ordine ai delitti per i quali sono stati ravvisati gli indizi di cui sopra. La Polizia giudiziaria pone il fermato a disposizione del P.M. al più presto, comunque non oltre le 24 ore dal fermo, termine per il quale deve trasmettergli il verbale di fermo. Il fermato è messo a disposizione del P.M. con l’accompagnamento nel carcere del luogo dove è avvenuto il fermo. Il P.M. però può anche disporre che il fermato venga custodito agli arresti domiciliari.

Entro 48 ore dal fermo il P.M. chiede la convalida al G.I.P. competente per territorio; il G.I.P. fissa l’udienza di convalida entro le 48 ore successive, avvisando senza ritardo P.M. e difensore. In sede di convalida il G.I.P. interroga il fermato e sente il suo difensore.

Il fermo viene convalidato con ordinanza se il G.I.P. ritiene sussistenti tutti i presupposti. Dopodiché il G.I.P., a sua discrezione dispone o per l’immediata liberazione del fermato oppure per l’applicazione di una misura coercitiva (custodia in carcere, arresti domiciliari, divieto di dimora, etc.).

Contro l’ordinanza che dispone una misura coercitiva l’indagato può sempre ricorrere al Tribunale della Libertà.

In caso di Fermo è importante chiedere di conoscere le accuse che ti vengono mosse ed i reati che ti vengono contestati, nonché gli indizi presenti a tuo carico. Hai diritto di rifiutarti di rispondere finché non arriva l’avvocato, anche se il P.M. può iniziare ad interrogarti sin dal momento in cui l’avvocato è stato avvisato.

L’arresto(art. 380 e ss. del Codice di Procedura Penale)

A norma del codice di procedura penale l’arresto è una temporanea privazione della libertà personale, che la polizia dispone a carico:

di chi è colto nell’atto di commettere un reato (c.d. Flagranza propria);

di chi, subito dopo il reato, è inseguito dalla polizia oppure è sorpreso con tracce o cose dalle quali appaia che abbia commesso il reato immediatamente prima (c.d. Flagranza impropria).

Come per il Fermo, anche l’arresto avviene su iniziativa della Polizia giudiziaria, la quale deve poi informare tempestivamente il magistrato di turno affinché esso possa fissare l’udienza di convalida entro il termine di 48 ore.

I comportamenti da tenere in caso di arresto sono sostanzialmente gli stessi previsti per il Fermo e per le convocazioni in Questura: è innanzitutto essenziale mantenere la calma, onde evitare azioni o dichiarazioni dettate da scarsa lucidità, che possano mettere a repentaglio la propria situazione processuale, oppure comunicare una situazione di insicurezza agli agenti.

È anche opportuno valutare attentamente la possibilità utilizzare il proprio diritto di rimanere in silenzio, al fine di non compromettere una situazione già molto delicata con dichiarazioni dettate magari dalla rabbia o dalla scarsa lucidità. In tali casi meglio tacere del tutto che decidere di rispondere solo ad alcune domande. Ogni cosa che viene detta può essere utilizzata come prova contro di te; di conseguenza, prima di aver incontrato l’avvocato parla il meno possibile, limitati a fornire le tue generalità e soprattutto non firmare mai niente.

Evita altresì di cadere nei tranelli che frequentemente vengono tesi, con frasi come “i tuoi amici hanno già confessato” oppure “è nel tuo interesse”: non devi farti intimidire dal poliziotto “cattivo” così come non devi nemmeno ammorbidirti di fronte al poliziotto “buono”.

In seguito all’arresto hai diritto di fare due telefonate: chiedi con insistenza che te le facciano fare e minaccia denunce in caso contrario. Se sei ferito chiedi di essere visitato da un medico, e poi chiedi a quest’ultimo di certificarti le ferite.

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Continuare a lottare per mantenere questo nostro

“mondo” significa lottare per un sistema di valori e di

comportamenti non omologabile alla massa ma per questo

non meno meritevoli di rispetto, significa non abbassare

la testa, significa anche e soprattutto non lasciare questo

sport in mano a quei poteri che ci vogliono ammaestrati

sul divano e nei centri commerciali da buoni consumatori

del prodotto calcio.

Lunga vita agli Ultras!

Ultras Atalanta

La repressione fa male a tutti.

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Stampato in proprio - Luglio 2015Opera autoprodotta - non commerciabile a fini di lucro.

“Tutti a dire della rabbia del fiume in piena e nessuno della violenza degli argini che lo contengono”

Bertolt Brecht