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LA MEDITAZIONE VIPASSANA Come insegnata da S.N. Goenka Un’arte di vivere Testi di William Hart Biblioteca Vipassana

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LA MEDITAZIONE VIPASSANA

Come insegnata da S.N. Goenka Un’arte di vivere

Testi di William Hart Biblioteca Vipassana

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«Per il suo carattere scientifico e pratico, la tecnica di meditazione Vipassana è perfettamente adeguata al mondo moderno, sia orientale che occidentale, pur essendo antica e originaria dell’India».

Satya Narayan Goenka

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Satya Narayan Goenka (30 gennaio 1924 – 29 settembre 2013)

Di origine indiana, S.N.Goenka è nato e cresciuto in Birmania. In questo paese egli ebbe la fortuna di incontrare il maestro U Ba Khin e di imparare da lui la tecnica di meditazione Vipassana. Dopo aver ricevuto l’insegnamento dal suo maestro per 14 anni, S.N. Goenka ritornò in India e qui, nel 1969, cominciò ad insegnare la meditazione Vipassana. In un paese ancora diviso da differenze di casta e di religione, i corsi offerti da S.N. Goenka attirarono persone provenienti da ogni strato sociale. Inoltre anche moltissimi stranieri, provenienti da paesi di tutto il mondo, vennero per partecipare ai corsi di Vipassana.

Fino ad oggi, S.N. Goenka ha insegnato a decine di migliaia di persone in centinaia di corsi organizzati sia in India che altrove, in Oriente e in Occidente. Nel 1982 egli iniziò a nominare insegnanti assistenti che lo aiutassero a venire incontro alla sempre crescente domanda di corsi. Oltre 130 centri di meditazione sono sorti sotto la sua guida in India, Nepal, Sri Lanka, Birmania, Tailandia, Cambogia, Taiwan, Mongolia, Giappone, Australia, Nuova Zelanda, Spagna, Francia, Italia, Belgio, Germania, Svizzera, Regno Unito, Canada e Stati Uniti, e corsi vengono tenuti regolarmente in molti altri paesi del mondo.

La tecnica che S.N.Goenka insegna rappresenta una tradizione che risale fino a Gautama il Buddha. Il Buddha non insegnò mai una religione settaria; egli insegnò il Dhamma - la via di liberazione - che è universale. Allo stesso modo, l’approccio di S.N. Goenka è totalmente non settario. Per questo motivo, il suo insegnamento esercita un profondo richiamo su persone provenienti da ogni ambiente, di qualsiasi religione o anche non religiose, di ogni parte del mondo.

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Cos'è la meditazione Vipassana? Vipassana, termine che significa "vedere le cose in profondità, come realmente sono", è una delle più antiche tecniche di meditazione dell'India. Essa fu riscoperta ed insegnata più di 2500 anni fa come metodo universale per uscire da ogni tipo di sofferenza, un'arte di vivere.

Come impararla? Vipassana viene insegnata in corsi residenziali di 10 giorni durante i quali i partecipanti imparano i fondamenti della tecnica e praticano per un tempo sufficiente a sperimentarne i benefici effetti. Un corso di dieci giorni fornisce un allenamento mentale di profondo valore pratico nella vita quotidiana. Tutti i corsi, in Italia e nel mondo, sono liberi da costi di partecipazione per evitare che gli aspetti commerciali interferiscano con la tecnica e per dare a tutti, indipendentemente dalla situazione economica, la possibilità di trarre beneficio da quest'arte di vivere. Secondo la tradizione di questo insegnamento i corsi vengono organizzati sulla base di libere offerte, accettate unicamente da parte di meditatori che hanno portato a termine almeno un corso.

Dove? In Italia i corsi vengono organizzati presso il centro di meditazione Dhamma Atala che si trova a Lutirano di Marradi (FI). Dopo aver letto il Codice di Disciplina è possibile fare una domanda di ammissione ad un corso . I corsi vengono tenuti anche in molti altri centri nel mondo. Per maggiori informazioni consultare il sito web internazionale:

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Ogni cosa esistente è impermanente.

Quando si comincia a osservare ciò,

con comprensione profonda e diretta esperienza,

allora ci si mantiene distaccati dalla sofferenza:

questo è il cammino della purificazione.

Dhammapada, XX (277)

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Nell’antica lingua indiana pali, Vipassana significa «introspezione, visione penetrativa, osservazione e comprensione profonda della realtà, così com’è»: questa è l’essenza dell’insegnamento del Buddha.

Egli non insegnò né una religione, né una filosofia. Chiamò il suo insegnamento Dhamma, ovvero legge, legge di natura. Diceva inoltre che l’autorità più alta è la propria esperienza della Verità. Egli insegnava solo ciò che aveva sperimentato, e incoraggiava gli altri a sviluppare, da soli, tale conoscenza. Non ci può essere liberazione o salvezza senza l’esperienza diretta della Verità.

«proprio all’interno di questo corpo, che contiene la mente con le sue percezioni, ho potuto conoscere l’universo, la sua origine, la sua fine e la via che conduce alla sua fine».

Buddha

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Il sentiero mostrato dal Buddha è il sentiero dell’introspezione, dell’auto-osservazione.

Osservandoci diventiamo consapevoli, per la prima volta, delle nostre reazioni condizionate, dei pregiudizi che confondono la nostra visione mentale, che ci nascondono la realtà, e producono sofferenza. Ci accorgiamo delle tensioni accumulate, che ci turbano e ci rendono infelici, e comprendiamo che possono essere sciolte. Impariamo, allora, a lasciare che avvenga la loro graduale dissoluzione, e a far sì che la mente diventi pura, calma e felice.

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La materia

Il corpo, che a noi sembra solido, è in realtà composto di particelle subatomiche e di spazi vuoti. E persino queste particelle subatomiche non hanno solidità reale, perché il tempo di esistenza di ognuna è molto meno di un trilionesimo di secondo. Esse nascono e svaniscono in continuazione, come un flusso di vibrazioni.

Egli sperimentò che l’intero universo materiale è composto di particelle, chiamate in pali Kalapa, «unità indivisibili». Con infinite varianti, queste unità possiedono le qualità fondamentali della materia: massa, coesione, temperatura e movimento. Combinandosi tra loro, esse formano strutture che sembrano essere permanenti ma che, in realtà, sono impermanenti, essendo composte di particelle subatomiche che sorgono e svaniscono continuamente. Questa è la realtà ultima della materia: un flusso di onde o particelle che nascono e muoiono ininterrottamente. Questo è il corpo che ciascuno di noi chiama «me stesso».

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La mente Così come per il corpo, il Buddha esaminò anche la mente, e realizzò che essa è formata da quattro processi: coscienza, percezione, sensazione e reazione.

Vinnana, la coscienza: è la parte ricettiva della mente, l’atto di consapevolezza indifferenziata, o cognizione. Essa registra il verificarsi di ogni evento, recepisce ogni stimolo fisico e mentale, annota i dati grezzi dell’esperienza senza assegnare etichette o dare giudizi.

Sanna, la percezione, o l’atto del riconoscere: questa parte della mente identifica qualsiasi cosa sia stata registrata dalla coscienza; distingue, etichetta e divide i dati grezzi, li valuta ed emette giudizi positivi e negativi.

Vedana, la sensazione: appena si riceve uno stimolo, sorge una sensazione, segnale che qualcosa sta avvenendo. Fino a quando non si valuta lo stimolo, la sensazione rimane neutrale. Una volta che si attribuisce un giudizio ai dati in arrivo, la sensazione sorta viene ritenuta piacevole o spiacevole, secondo la valutazione data.

Sankhara, la reazione: se la sensazione è ritenuta piacevole, sorge il desiderio di prolungare e intensificare l’esperienza. Se è ritenuta spiacevole, quello di mettervi fine, di mandarla via.

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Ogni volta che i sensi ricevono uno stimolo, avviene questa sequenza: coscienza, percezione, sensazione, reazione; quattro funzioni mentali ancora più fluttuanti delle effimere particelle che compongono la realtà materiale.

Cosa scoprì allora il Buddha?

Egli scoprì che ogni essere umano, al di là delle apparenze, è un aggregato di processi correlati tra loro e in profonda trasformazione. Ogni processo è il risultato del precedente, in una sequenza continua che si ripete per tutta la vita. La progressione ininterrotta di eventi, intimamente connessi, dà l’apparenza della continuità, dell’identità, ma si tratta di una realtà apparente e non della verità ultima.

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Possiamo dare un nome a un fiume, ma in realtà esso resta un flusso d’acqua che continuamente scorre.

Possiamo pensare alla luce di una candela come qualcosa di costante ma, se la osserviamo da vicino, vediamo che in realtà la fiamma nasce da uno stoppino che brucia per un istante ed è subito sostituita da una nuova fiamma, istante dopo istante.

Anche la luce di una lampadina elettrica consiste in un flusso costante, paragonabile a quello di un fiume: in questo caso si tratta di un flusso di energia, prodotta dalle oscillazioni ad altissima frequenza che si susseguono nel filamento.

Ad ogni attimo qualcosa di nuovo nasce, come prodotto del passato e, nell’attimo successivo, qualcos’altro sorge per prendere il suo posto.

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Il Buddha realizzò che anche l’individuo non è un’entità finita e immutabile: c’è solo un processo che fluisce, momento dopo momento. Non esiste un «essere» reale, ma un flusso che continuamente si trasforma e si rinnova, in un processo continuo di divenire.

Naturalmente, per poter interagire nella vita quotidiana, dobbiamo accettare le apparenze esterne, e considerare gli altri come individualità ben definite e non mutevoli. Ma la realtà esteriore esiste solo in superficie. A livello profondo, la verità è che l’intero universo, animato e inanimato, è in costante stato di divenire, di nascere e di svanire.

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DOMANDE E RISPOSTE A GOENKA

Lei parla dell’esperienza dell’io solo in termini negativi. Non c’è un lato positivo? Non c’è un’esperienza dell’io che riempia di gioia, di pace, di estasi?

-Con la meditazione si scopre che i piaceri sensoriali vanno e vengono. Se questo io realmente ne gioisse, se fossero «miei» piaceri, allora l’io dovrebbe avere qualche potere su di essi. Essi invece nascono e svaniscono al di fuori del mio controllo. In questo caso, cos’è l’io?

Io non sto parlando di piaceri sensoriali, ma di quelli a un livello molto profondo.

-A quel livello l’io non ha alcuna importanza. Quando si raggiunge quel livello, l’ego si dissolve. C’è solo gioia. La questione dell’io allora, non si pone neppure.

D’accordo. Invece di io, parliamo allora dell’esperienza della persona.

-E’ la sensazione stessa che sente, nessuno la sente (non c’è un qualcuno che la sperimenta). Le cose stanno solo avvenendo, ecco tutto. Sembra che ci debba essere un io che sente ma, con la pratica, capirete che non esiste alcun io. E, a quel punto, questa domanda non avrà più ragione di essere.

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La parola Kamma (o karma, in sanscrito), letteralmente significa «azione», e il Buddha la scelse per indicare che le nostre azioni sono la causa di tutto ciò che ci succede.

Tutti gli esseri sono responsabili delle loro azioni, sono eredi delle loro azioni, hanno origine dalle loro azioni, sono legati alle loro azioni; le loro azioni sono il loro rifugio. Così come le loro azioni sono vili o nobili, vili o nobili saranno le

loro esistenze.

Ciascuno è maestro di se stesso, ciascuno costruisce il proprio futuro.

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Ci sono tre tipi di azioni: fisica, mentale e verbale.

Azioni vocali, azioni fisiche, e i loro effetti, sono dirette conseguenze dell’azione mentale. L’azione mentale è il vero kamma, che darà i frutti in futuro. Comprendendo questa verità, il Buddha annunciò:

La mente precede tutti i fenomeni,

La mente è la cosa più importante,

Ogni cosa è prodotta dalla mente.

Se parlate o agite con una mente impura,

La sofferenza vi seguirà,

Come la ruota di un carro segue l’animale da tiro.

Se parlate e agite con una mente pura,

La felicità vi seguirà,

Come un’ombra che non svanisce mai.

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«qualsiasi sofferenza sorga, la sua causa è la reazione. Se non ci fossero più reazioni, allora non ci sarebbe più sofferenza».

Il vero kamma, la vera causa della sofferenza, è la reazione della mente.

Alcune reazioni, disse il Buddha, sono come linee tracciate sull’acqua: appena disegnate, svaniscono. Altre sono come linee tracciate sulla sabbia: se disegnate al mattino, spariranno durante la notte, cancellate dalla marea o dal vento. Altre sono come linee incise nella roccia con scalpello e martello. Anch’esse scompariranno a causa dell’erosione, ma ci vorrà moltissimo tempo.

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La radice del problema

«La verità della sofferenza deve essere esplorata fino alla radice».

«La causa della sofferenza è l’attaccamento ai cinque aggregati».

A livello profondo, la sofferenza nasce per l’attaccamento eccessivo che ognuno di noi sviluppa per il proprio corpo e per la propria mente, con le sue cognizioni, percezioni, sensazioni e reazioni. Ci attacchiamo con forza alla nostra identità, quando in realtà ci sono solo processi in evoluzione. La sofferenza nasce da questo attaccamento a un’immagine irreale di noi stessi, a qualcosa che è in costante mutamento.

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L’attaccamento

Si manifesta con la continua ricerca della gratificazione dei sensi. L’individuo sviluppa dipendenza verso i desideri: non appena ne viene soddisfatto uno, se ne ricerca un altro. (L’oggetto è secondario, in realtà si fa in modo di prolungare all’infinito la condizione del desiderare perché questo fa sorgere una sensazione piacevole che si vuole continuare a sentire).

Un altro grande attaccamento è quello verso l’io, l’ego, l’immagine che abbiamo di noi stessi, oltre che verso il «mio», i possedimenti, ma anche le opinioni, le credenze.

Che cosa causa l’attaccamento?

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L’attaccamento si sviluppa a causa di reazioni mentali momentanee di piacere e dispiacere.

Ogni più piccola, inconscia reazione della mente, si ripete e si intensifica, momento dopo momento, fino a trasformarsi in una potente attrazione o in una fortissima repulsione o in ogni sorta di attaccamento.

Che cosa causa le reazioni di piacere di dispiacere?

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La sensazione è la causa della reazione: proviamo una sensazione, che riteniamo piacevole, e iniziamo a desiderarla; ne proviamo una che riteniamo spiacevole e iniziamo a rifiutarla.

Perché sorgono le sensazioni? Che cosa le causa?

Buddha comprese che esse hanno origine da un contatto: contatto dell’occhio con un oggetto, dell’orecchio con un suono, del naso con un odore, della lingua con un sapore, del corpo con qualcosa di tangibile, della mente con un pensiero, un’emozione, un’idea, una fantasia o un ricordo.

Sperimentiamo il mondo con i cinque sensi e con la mente, e ogni volta che un fenomeno entra in contatto con queste sei basi dell’esperienza sensoriale sorge una sensazione, che valutiamo come piacevole o spiacevole.

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E perché avviene questo contatto?

Il futuro Buddha sperimentò che il contatto avviene perché esistono le sei basi sensoriali, cioè i cinque sensi fisici e la mente. I fenomeni nel mondo sono innumerevoli: visioni, suoni, odori, sapori, oggetti, pensieri ed emozioni.

Perché esistono le sei basi sensoriali?

Perché esse sono gli strumenti essenziali attraverso i quali fluiscono mente e materia.

E perché c’è questo flusso di mente e materia? Da cosa ha origine? Come hanno origine mente e materia?

Essi hanno origine dalla COSCIENZA, l’atto cognitivo che sorge a ogni contatto dei cinque sensi e della mente con un oggetto o un pensiero.

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Se avviene un contatto con il senso dell’olfatto, sorge la coscienza olfattiva, cioè la presa di coscienza che qualcosa sta avvenendo alla porta di questo senso. Da qui sorge l’errata convinzione che c’è un’identità che sta conoscendo, che quindi separa il mondo in conoscitore e conosciuto, soggetto e oggetto.

La coscienza fluisce e muta attraverso tutta l’esistenza. Alla fine arriva la morte, ma la coscienza non si ferma: senza alcun intervallo, assume ancora una forma nuova.

Qual è la causa di questo fluire della coscienza? Buddha sperimentò che essa ha origine dalla REAZIONE. La mente è costantemente reattiva, ed ogni reazione crea un momento di coscienza che si perpetua nel momento successivo. Più una reazione è forte, più intenso è l’impulso che suscita. Una leggera reazione di un istante, sostiene il fluire della coscienza solo per un istante. Se, poi, quella reazione momentanea di piacere o dispiacere si intensifica in bramosia o avversione, allora acquista forza e sostiene il fluire della coscienza per molti istanti, per minuti, per ore. Se la reazione di bramosia o avversione si intensifica ancora, ne sostiene il flusso per giorni, mesi e anni. Se, durante la vita, una persona tende a ripetere e intensificare alcune reazioni, esse sviluppano una forza sufficiente per sostenere il fluire della coscienza non solo da un istante all’altro, da un giorno all’altro, da un anno all’altro, ma da una vita all’altra.

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Che cosa causa la reazione?

Le reazioni avvengono a causa dell’ignoranza: siamo inconsapevoli del fatto che reagiamo. Siamo all’oscuro della natura impermanente e senza io della nostra esistenza e ignoriamo che l’attaccamento a essa ci procura sofferenza. Non conoscendo la nostra vera natura, reagiamo alla cieca. Non sapendo neppure di avere reagito, persistiamo nelle nostre reazioni e permettiamo loro di intensificarsi.

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Quando c’è ignoranza, nasce una reazione;

Se nasce una reazione, si manifesta la coscienza;

Se c’è la coscienza, si manifestano mente e materia;

Dove ci sono mente e materia, sorgono i sei sensi;

I sei sensi danno luogo al contatto;

Se c’è contatto, c’è una sensazione;

La sensazione produce desiderio e avversione;

Desiderio e avversione producono l’attaccamento;

Se c’è l’attaccamento, inizia il processo del divenire;

E se c’è il processo del divenire, avviene la nascita;

La nascita causa l’invecchiamento e la morte,

Oltre al dolore, al pianto, a sofferenze fisiche e mentali,

A tribolazioni di ogni genere.

E’ così che si crea il cumulo di tutte le nostre sofferenze.

Ignoranza (della nostra vera natura), bramosia ed avversione sono le tre radici da cui nascono tutte le sofferenze della nostra vita.

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La via d’uscita dalla sofferenza

Dopo aver realizzato cos’è la sofferenza e qual è la sua origine, il futuro Buddha si domandò come poterla eliminare. Riflettè sulla legge di causa ed effetto o kamma:

Se questa causa c’è, ci sarà questo effetto.

Se questa causa non c’è, questo effetto non ci sarà.

Se una causa sorge, l’effetto è destinato a sorgere.

Se la causa viene totalmente eliminata,

L’effetto viene totalmente eliminato.

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E capì che il processo del sorgere della sofferenza può essere rovesciato:

Se l’ignoranza viene sradicata, viene meno la reazione;

Se non c’è più reazione, viene meno la coscienza;

Se viene meno la coscienza, mente e corpo non si manifestano più;

In assenza di mente e corpo, i sei sensi non ci sono più;

Mancando i sei sensi, manca il contatto;

Se non c’è più il contatto, non c’è più sensazione;

Se non c’è più la sensazione, finiscono desiderio e avversione;

Finiti il desiderio e l’avversione, non c’è più attaccamento;

Senza attaccamento, non c’è più processo del divenire;

Venendo meno il processo del divenire, non avviene più la nascita;

Se non c’è più nascita, non ci sono neppure invecchiamento e morte,

Né dolore, pianto, sofferenze fisiche e mentali e tribolazioni.

Si smette così di accumulare sofferenze.

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Questo è ciò che Siddharta Gautama, il Buddha, fece per conseguire l’illuminazione.

Questo è ciò che insegnò:

«compiendo azioni negative vi contaminate.

Non compiendo azioni negative vi purificate».

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La pratica della condotta morale

Il nostro compito è quello di eliminare la sofferenza, sradicandone le cause: ignoranza, bramosia e avversione. Per raggiungere questo scopo il Buddha cercò, scoprì, seguì ed insegnò un metodo che chiamò Nobile Ottuplice Sentiero.

Quando gli fu chiesto di descriverlo in poche parole il Buddha rispose:

Astenersi da azioni malvagie,

compiere solo azioni buone,

Purificare la mente:

Questo è l’insegnamento

Delle persone illuminate.

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Il Nobile Ottuplice Sentiero (retta visione, retta intenzione, retta parola, retta azione, retta sussistenza, retto sforzo, retta presenza mentale, retta concentrazione)

Il Nobile Ottuplice Sentiero è diviso in tre parti: la prima è la condotta morale – chiamata in pali Sila – e cioè l’astensione da tutte le azioni fisiche e vocali che possono arrecare danno agli altri; la seconda è la pratica della concentrazione, samadhi, attraverso la quale si sviluppa la capacità di controllare e dirigere coscientemente i processi mentali; la terza è la saggezza, panna, che si acquisisce attraverso lo sviluppo di un’osservazione e di una comprensione profonda e purificatrice della propria natura.

Non è necessario aspettare dopo la morte per sperimentare il paradiso o l’inferno, perché li sperimentiamo ogni giorno, già in questa vita, dentro di noi. Quando commettiamo un’azione negativa, sperimentiamo il fuoco infernale della bramosia e dell’avversione. Quando compiamo un’azione positiva, sperimentiamo il paradiso della pace interiore.

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La giusta parola

Giusta parola: parlare in modo limpido e benefico. Evitare di mentire, suscitare discordia, calunniare, diffamare, pronunciare parole dure che possono turbare, fare pettegolezzi, chiacchierare senza motivo, perdendo tempo e facendolo perdere agli altri. (…) «E’ colui che dice la verità ed è fermo nella sua sincerità, degno di fede, sicuro e leale con gli altri. Riconcilia i litiganti e incoraggia l’unità. Ama l’armonia, ricerca l’armonia, gioisce dell’armonia e crea armonia con le sue parole. Il suo dire è garbato, piacevole per l’orecchio, gentile, scalda il cuore, è cortese, gradevole a molti. Egli parla al momento opportuno, secondo i fatti, secondo ciò che è utile, secondo il Dhamma e il codice di condotta morale. Le sue parole meritano di essere ricordate, sono tempestive, ben ragionate, ben scelte e costruttive»

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La giusta azione

«avendo deposto il bastone e la spada, egli è attento a non recare danno a nessuno, pieno di gentilezza, alla ricerca del bene per tutte le creature viventi. Libero da ogni ambiguità, la sua condotta è quella di un essere puro».

Per praticare la giusta azione dobbiamo astenerci da azioni immorali. Esse sono: uccidere qualsiasi essere, rubare, compiere atti sessuali che danneggiano gli altri (come l’adulterio o la violenza), intossicarsi.

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La pratica della concentrazione

L’esercizio della concentrazione è definito «sviluppo della tranquillità» (samatha-bhavana), e quello della saggezza «sviluppo della comprensione o visione profonda» (vipassana-bhavana).

La pratica meditativa inizia con la concentrazione, che comprende: il giusto sforzo, la giusta consapevolezza e la giusta concentrazione.

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Il giusto sforzo Il Buddha insegnò varie tecniche per concentrare la mente, indicando il metodo più adatto per ciascun discepolo ma la tecnica più appropriata per esplorare la realtà interiore, quella che lui stesso praticò, è la consapevolezza della respirazione: anapana-sati. Il respiro è un oggetto di concentrazione alla portata di tutti. Per iniziare, i meditatori, dopo aver scelto un luogo tranquillo e privo di distrazioni, si siedono, assumono una posizione comoda e confortevole, con la colonna vertebrale ben diritta, chiudono gli occhi e dirigono tutta la loro attenzione al respiro che entra ed esce dalle narici. Non si tratta di un esercizio di respirazione, bensì di consapevolezza. Lo sforzo non è quello di controllare il respiro, ma quello di prendere coscienza di come il respiro si manifesta: se è lungo o corto, pesante o leggero, forte o delicato.

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Quando ci dedichiamo alla concentrazione sul respiro, comprendiamo che la mente è al di fuori di ogni nostro controllo. Essa corre da un pensiero a un altro, da un oggetto di attenzione a un altro, incapace di rimanere nel momento presente.

Questa è un’abitudine profondamente radicata nella mente, è il modo in cui si è sempre comportata; eppure, quando iniziamo ad indagare la vera essenza della nostra natura, ci accorgiamo che queste distrazioni poco per volta diminuiscono. Sforzandoci di fissare l’attenzione sul respiro, cominciamo a cambiare gli schemi mentali abituali, e impariamo così a rimanere nella realtà del momento presente.

Quando notiamo che la mente divaga, con calma e pazienza la riportiamo alla consapevolezza del respiro. Se non ci riusciamo, riproviamo ancora e ancora, sorridendo, senza tensione; senza scoraggiarci, continuiamo a ripetere l’esercizio; se sorge un pensiero, non lo seguiamo e rimaniamo con il respiro.

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La giusta consapevolezza

Osservare la respirazione è anche un mezzo per sviluppare la giusta consapevolezza.

Per la maggior parte del tempo, la nostra mente si perde in fantasie e illusioni, ricorda esperienze piacevoli e spiacevoli, e pensa al futuro con desiderio e con paura. Persi in bramosie e avversioni, non siamo consapevoli di ciò che sta realmente avvenendo, e di ciò che stiamo facendo nell’istante presente. Eppure questo istante, il presente, è proprio il più importante. Non possiamo vivere nel passato, perché se ne è andato. Non possiamo vivere nel futuro, perché ancora non esiste. Possiamo solo vivere nel presente.

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Il respiro è un oggetto di concentrazione molto idoneo alla pratica perché nei suoi confronti non possiamo sviluppare bramosia e avversione. E, poiché il nostro scopo è quello di liberare la mente da qualsiasi negatività, dobbiamo fare attenzione che ogni attimo della pratica sia puro e benefico.

Ogni momento in cui noi non reagiamo, è un momento di purezza della mente, un momento molto importante perché comincia ad indebolire i nostri condizionamenti.

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Le difficoltà necessarie

Durante la pratica della consapevolezza, le reazioni che abbiamo accumulato sono stimolate e iniziano ad emergere, manifestandosi sotto forma di difficoltà, sia fisiche che mentali, che ostacolano i nostri sforzi. Possiamo sperimentare l’impazienza di progredire, che è una forma di bramosia, o la collera, che è una forma di avversione, o lo scoramento, perché i progressi ci sembrano lenti. A volte siamo sopraffatti dalla sonnolenza appena ci sediamo per meditare, oppure siamo agitati, tanto da non riuscire a stare fermi, oppure cerchiamo scuse per evitare di meditare. Talvolta lo scetticismo può minare la volontà di proseguire, causando dubbi, a volte ingiustificati e irrazionali: sul nostro insegnante, sull’insegnamento stesso, o sulla nostra capacità di meditare. Quando sorgono queste difficoltà, ci viene persino in mente di abbandonare la pratica.

Dobbiamo comprendere che lo scopo della meditazione è la purificazione della mente. La purificazione avviene attraverso un processo che fa emergere i nostri condizionamenti, strato dopo strato. Questo processo è già in corso anche in questa fase iniziale di consapevolezza della respirazione e, se questi ostacoli sorgono, è perché stiamo avendo successo. Ogni difficoltà che incontriamo è un segnale positivo, perché significa che il processo di purificazione è iniziato. Alcuni condizionamenti se ne andranno e poco per volta le difficoltà nella pratica diminuiranno.

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La giusta concentrazione La giusta concentrazione, chiamata samadhi, è quella focalizzata su un oggetto libero da bramosia, avversione e ignoranza. All’inizio sarà molto difficile non distrarsi ma, quando la concentrazione si rafforza, cominciamo a sentirci rilassati, felici e pieni di energia. A poco a poco, mentre meditiamo, ci accorgiamo che il respiro cambia, diviene più lieve, regolare. A volte può sembrare che la respirazione sia del tutto cessata; questo avviene perché, appena la mente si tranquillizza, il corpo si rilassa e il metabolismo rallenta, per cui ha bisogno di meno ossigeno. Quindi, può accadere che alcuni abbiano esperienze inusuali, per esempio vedere delle luci o avere visioni o udire suoni fuori dall’ordinario. Tutte queste cosiddette «esperienze extrasensoriali» sono solo segnali, indicano che la mente ha conseguito un più alto livello di concentrazione ma, per se stesse, non hanno nessuna importanza, e non bisogna prestar loro attenzione. Segnano semplicemente un progresso sul sentiero. Se, quando le notiamo, le scambiamo per la meta finale e sviluppiamo attaccamento verso di esse, ci areniamo e smettiamo di fare progressi. Le esperienze inusuali che si possono avere sono innumerevoli. Coloro che praticano la meditazione Vipassana non le cercano, perché l’obiettivo è la comprensione profonda della realtà, al fine di giungere alla liberazione dalla sofferenza.

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La pratica della saggezza

La condotta morale e la concentrazione (sila e samadhi) non sono insegnamenti esclusivi del Buddha: ancora oggi sono consigliate da molte tradizioni spirituali.

Quando l’attenzione è mantenuta intenzionalmente su un oggetto, la mente si calma e si pacifica. La calma acquisita in tal modo, però, non è vera liberazione perché, anche se molto utile, la pratica della concentrazione opera solo a livello della mente conscia. Il Buddha realizzò l’esistenza dell’inconscio, che chiamò anusaya. Egli convenne che un metodo efficace per affrrontare bramosia e avversione è quello di distrarre la mente, ma si rese anche conto che in questo modo le impurità non vengono eliminate del tutto, perché sono spinte nelle profondità dell’inconscio, dove restano assopite e sempre pericolose. Ad un livello superficiale della mente può esserci uno stato di pace e armonia, mentre, nelle sue profondità, vi è un vulcano addormentato di negatività che prima o poi esploderà.

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Il Buddha disse:

Se le radici rimangono intatte e salde nel terreno,

Una pianta tagliata butterà ancora nuovi getti.

Se l’abitudine latente alla bramosia e all’avversione

Non viene estirpata alle radici,

La sofferenza sorgerà continuamente rinnovata.

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Il Buddha vide che c’erano due strade: una era quella di seguire il sentiero dell’indulgenza, che permette il soddisfacimento di tutti i desideri. Gli fu chiaro però che questa strada non portava alla felicità. E’ inevitabile soffrire per le delusioni, e provare insoddisfazione quando i desideri restano inappagati; e si soffre anche quando si ottiene ciò che si desidera, per paura che l’oggetto conquistato svanisca o che il senso di gratificazione si esaurisca, com’è naturale che accada. Nel cercare, ottenere e perdere ciò che si desidera, si è sempre agitati. Il futuro Buddha, essendo figlio di re, sapeva che questo modo di vivere non porta alla pace.

L’altra possibilità era il sentiero dell’autocontrollo, la scelta deliberata di astenersi dal soddisfare i propri desideri. Nell’India di 2500 anni fa questa determinazione era portata all’eccesso, fino al punto di evitare tutte le esperienze piacevoli e infliggersi quelle spiacevoli: si credeva che questo comportamento avrebbe purificato la mente, guarendola dal suo continuo oscillare tra bramosie e avversioni. Queste austere pratiche sono comuni a tutte le tradizioni spirituali, e il futuro Buddha le sperimentò per anni, fino a ridursi a uno stato di estrema magrezza, senza per questo liberarsi. Punire il corpo non purifica la mente.

Il Buddha si rese conto di tutto questo e capì che era necessario trovare il modo per penetrare nelle profondità della mente, raggiungere le impurità proprio dove esse si annidano, ed estirparne le radici. Attraverso la pratica di Vipassana, parola pali che significa «sviluppo della comprensione o visione profonda della propria natura», potè sviluppare la saggezza necessaria per penetrare la verità ultima e raggiungere l’Illuminazione.