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LA MARINA INGLESE CONTRO GENOVA DURANTE LA GUERRA DI SUCCESSIONE AUSTRIACA CIRO PAOLETTI La successione austriaca Il XVIII secolo è considerato tutto sommato a torto un periodo di scarsa attività delle Marine italiane. In realtà la veneta, la napoletana, la pontificia e la sarda risultarono tutte più o meno impegnate, la prima in una guerra navale nella seconda decade del secolo e in tre operazioni contro i pirati tunisini negli anni ’80, le altre in una quotidiana attività contro i pirati , che vide la partecipazione dei Napoletani anche a spedizioni internazionali, come quella contro Algeri. Fra le molte operazioni di quegli anni dimenticati, vi sono quelle di un lungo e complesso ciclo operativo che coinvolse una Marina gloriosa, ma obliata e considerata ormai insussistente: quella genovese. La Serenissima Repubblica di Genova aveva da tempo risolto il problema della propria esistenza integrandosi nel sistema politico spagnolo. Dalla metà del XVI secolo aveva smesso di essere una potenza soprattutto commerciale, preferendo la finanza e diventando la banca dell’impero spagnolo: costava meno, rendeva più che restare una potenza commerciale e, a dispetto della bancarotta più d’una volta dichiarata da Madrid, era un buon affare. Non a caso, alcuni versi del “Siglo de oro” della letteratura spagnola dicevano che “don Dinero” – il denaro in America era nato, in Spagna era morto e “a Genova enterrado”, cioè era stato seppellito a Genova, a significare che l’oro americano

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LA MARINA INGLESE CONTRO GENOVA

DURANTE LA GUERRA DI SUCCESSIONE AUSTRIACA

CIRO PAOLETTI

La successione austriaca Il XVIII secolo è considerato – tutto sommato a torto – un periodo di scarsa attività delle Marine italiane. In realtà la veneta, la napoletana, la pontificia e la sarda risultarono tutte più o meno impegnate, la prima in una guerra navale nella seconda decade del secolo e in tre operazioni contro i pirati tunisini negli anni ’80, le altre in una quotidiana attività contro i pirati, che vide la partecipazione dei Napoletani anche a spedizioni internazionali, come quella contro Algeri.

Fra le molte operazioni di quegli anni dimenticati, vi sono quelle di un lungo e complesso ciclo operativo che coinvolse una Marina gloriosa, ma obliata e considerata ormai insussistente: quella genovese.

La Serenissima Repubblica di Genova aveva da tempo risolto il problema della propria esistenza integrandosi nel sistema politico spagnolo. Dalla metà del XVI secolo aveva smesso di essere una potenza soprattutto commerciale, preferendo la finanza e diventando la banca dell’impero spagnolo: costava meno, rendeva più che restare una potenza commerciale e, a dispetto della bancarotta più d’una volta dichiarata da Madrid, era un buon affare. Non a caso, alcuni versi del “Siglo de oro” della letteratura spagnola dicevano che “don Dinero” – il denaro – in America era nato, in Spagna era morto e “a Genova enterrado”, cioè era stato seppellito a Genova, a significare che l’oro americano

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della Spagna prima o poi finiva nelle capaci casse del Banco di San Giorgio.(1) Con questo la Repubblica aveva contratto un’assicurazione sulla propria vita, perché mai la Spagna avrebbe potuto accettare che qualcuno potesse danneggiarla, come si era già visto durante le due offensive franco-piemontesi contro Genova nel corso della Guerra dei Trent’Anni.

L’integrazione aveva portato ulteriori vantaggi quando nel novembre del 1700 era salito sul trono di Spagna un Borbone di Francia col nome di Filippo V, il che aveva allontanato ogni rischio di un conflitto tra la vicina Francia e la protettrice Spagna. Genova era passata tranquilla attraverso i turbini delle guerre di successione spagnola e polacca e delle tensioni da esse originate, che avevano visto l’Italia percorsa in tutti i sensi dalle armate francesi, spagnole, austriache e piemontesi, ma si trovò coinvolta suo malgrado quando si aprì la crisi della Successione Austriaca.

È del tutto inutile spiegare qui da cosa quest’ultima fu originata e come sfociò in guerra. Ciò che importa è che in breve tempo gli opposti schieramenti videro, da un lato la Prussia, la Baviera, la Sassonia, la Spagna, Napoli e la Francia, apparentemente neutrale, ma di fatto coinvolta al massimo grado spedendo “eserciti ausiliari” a destra e manca; dall’altro l’Austria, la Sardegna e l’Inghilterra.

Per quanto riguardava l’Italia, il problema era che la Spagna, visto che l’impresa contro l’Austria sembrava sicura, vi si era gettata rispolverando le sue mire su Parma, Mantova e Milano, da unire in un solo Stato destinato all’infante don Filippo di Borbone, figlio del re di Spagna e fratello minore del re di Napoli Carlo VII, meglio noto come Carlo III dall’ordinale con cui sarebbe salito al trono di Spagna nel 1759.

Se il piano madrileno avesse avuto successo, don Filippo una volta re, o che altro, dei tre ducati padani riuniti, avrebbe intrappolato i Savoia tra Francia, Genova filo-spagnola e il proprio nuovo Stato lombardo-emiliano, privandoli di qualsiasi autonomia decisionale e politica. La minaccia non era di poco conto, e Carlo Emanuele III di Savoia lo sapeva.

(1) La Letrilla satírica, cioè la breve composizione poetica in strofe simmetriche

dell’autore spagnolo Francisco de Quevedo, il quale fu pure segretario delle finanze del Regno di Napoli sotto il viceré duca d’Ossuna, venne scritta, pare, nel 1632, e dice: “… Poderoso caballero es don Dinero / Nace en las Indias honrado / donde el mundo le acompaña; viene a morir en España, y es en Génova enterrado”. La traduzione, per quanto superflua è: “Potente cavaliere è don Denaro, nasce nelle Indie onorato, da dove il mondo lo accompagna; viene a morir in Spagna e a Genova è interrato”. Secondo vari calcoli, Genova deve aver visto passare nelle sue casse un terzo circa di tutti i metalli e le pietre preziose provenienti dalle Americhe sotto il dominio spagnolo.

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Carlo Emanuele III.

Non amava la guer-

ra, pur sapendola fare be-ne, per cui all’inizio del conflitto, fra l’autunno del 1740 e quello del 1741, era restato neutrale. Quando però vide che gli Spagnoli insistevano nei loro piani e stavano passando a ese-guirli, capì di dover scen-dere in guerra. Tentò di ritardarla, o evitarla, facen-do comunicare a Madrid che, se le truppe spagnole avessero tentato d’entrare in Lombardia, l’Armata Sarda avrebbe sbarrato lo-ro la strada, ma gli Spa-gnoli non se ne curarono.

Sbarcarono nel dicembre 1741 nello Stato dei Presidii e nel febbraio 1742 alla Spezia un complesso di 12 000 fanti e 1300 cavalieri e, attraverso la neutrale Toscana, li spedirono in Emilia, per unirli alle truppe napoletane che, su loro richiesta, stavano risalendo lungo l’Adriatico verso la Romagna.

Dal momento che Madrid mostrava di non preoccuparsi dei suoi ammonimenti e minacciava d’impadronirsi del Milanese, Carlo Emanuele stipulò, il 1° febbraio 1742, un’alleanza provvisoria coll’Austria ed entrò in campagna.

Le operazioni in Emilia andarono benissimo, e l’esercito spagnolo fu messo in crisi e costretto a ripiegare fino al confine napoletano. Con-temporaneamente sulle Alpi occidentali si affacciò un altro esercito spagnolo, comandato da don Filippo di Borbone in persona, che fu respinto con gravi perdite, sia nel 1742, sia nel 1743, anno in cui, per iniziativa inglese, si arrivò a una vera alleanza tra Sardegna, Austria e Gran Bretagna, formalizzata il 13 settembre col trattato di Worms.

Tutto sembrava andare bene ai Piemontesi, ma alla fine del 1744 qualcosa si mosse. Don Filippo di Borbone, acquartieratosi a Nizza la vigilia di

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Natale, fece compiere alcune ricognizioni nel territorio di Genova senza incontrare opposizioni da parte della Repubblica, che pure era neutrale.

La cosa insospettì molto sia Carlo Emanuele, le cui truppe disturbarono quei movimenti, sia il re d’Inghilterra. Genova non mancò di fornire spiegazioni all’ammiraglio Mathews, comandante della squadra britannica in Mediterraneo, come anche, tramite l’ambasciatore a Londra Guastaldi, allo stesso Giorgio II, assicurandoli della propria neutralità.

In realtà, preoccupata dal trattato di Worms, in forza del cui articolo X avrebbe dovuto cedere al re di Sardegna il Marchesato di Finale da essa detenuto – atto per il quale si erano fatte garanti Austria e Inghilterra – la Serenissima stava considerando la possibilità d’unirsi alle forze borboniche per salvaguardare la propria integrità territoriale, ma prima d’impegnarsi giocò tutte le carte disponibili, ben guardandosi, però, dal minacciare o ventilare alcuna possibilità che l’obbligasse a schierarsi.

Per questo motivo il ministro genovese a Londra aveva presentato un memoriale in cui, elencati i titoli in base ai quali la Repubblica possedeva il Marchesato, indipendentemente dal contratto stipulato coll’imperatore nel 1713, chiedeva all’Inghilterra di recedere dalla garanzia data ai Savoia su di esso. Parecchi membri della Camera dei Lord sostennero la posizione genovese, dicendo che non solo era ingiusto spogliare uno Stato amico dei suoi possessi, anche se a favore di un alleato di guerra, ma che farlo era pericoloso perché poteva spingere la Repubblica nel campo opposto. Purtroppo il primo ministro, Lord Carteret, rispose che era troppo tardi: il trattato era già firmato e comunque la forza di Genova non era da temersi; a ogni modo avrebbe cercato di non privare Genova del Finale, ordinando a Mathews di recarsi a Torino a parlarne a Carlo Emanuele III. Non sarebbe servito a nulla e ne sarebbero nati enormi guai.

Gli Inglesi in Mediterraneo prima del giugno 1745 Mathews era in Mediterraneo con una trentina di navi per un complesso di motivi che andavano oltre la salvaguardia del secolare commercio britannico e l’ormai quarantennale presenza a Gibilterra. Per Londra la Successione Austriaca si era sovrapposta a un preesistente conflitto contro la Spagna, originato dall’impossibilità di aggirare le regole sul monopolio commerciale della stessa Spagna nelle proprie colonie dell’America Latina, cominciato da qualche anno, noto come “la Guerra dell’orecchio di Jenkins” e combattuto quasi solo per mare. Di conseguenza la Marina inglese era già operativamente

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attiva in Mediterraneo contro gli Spagnoli e non perdeva occasione di andare a cercare lo scontro, spesso eccedendo. Nel 1741, ad esempio, aveva per due volte assalito navi francesi, giustificandosi in seguito col dichiarare d’averle scambiate per spagnole. Il primo caso si era verificato nelle acque americane, il secondo in Mediterraneo, non lontano da Gibilterra.

Cominciate le operazioni in Italia nel 1742, la flotta britannica, in mancanza di ordini precisi, non aveva impedito il primo trasbordo delle truppe spagnole in Toscana; ma l’inattività era durata poco. Giunte le disposizioni, il contrammiraglio Haddock era uscito da Gibilterra per fermare il secondo convoglio. All’altezza di Cartagena aveva trovato la squadra spagnola destinata a scortarlo già unita a quella francese del Mediterraneo, e si era allontanato. Le due squadre borboniche avevano quindi protetto l’imbarco delle truppe a Barcellona e il loro sbarco a Genova, riparando poi a Tolone, perché avevano saputo che Haddock, rinforzata la sua squadra, era di nuovo alla loro ricerca. Ad Haddock, malato, era stato sostituito quasi subito il contrammiraglio Lestock, che prima aveva impedito qualsiasi traffico tra la Spagna e l’Italia, poi era stato dichiarato secondo del nuovo comandante, il viceammiraglio Thomas Mathews, nominato anche plenipotenziario inglese presso la corte di Torino. Mathews aveva per prima cosa mandato la squadra a fare un’incursione nel porto francese – dunque neutrale – di Saint-Tropez per distruggervi le cinque galere spagnole che nel dicembre dell’anno prima avevano sbarcato truppe nello Stato dei Presidii. L’impresa era riuscita e aveva provocato da parte della Francia le più dure proteste. Lord Carteret aveva risposto ordinando un’inchiesta, tanto obiettiva che alla fine il comandante del brulotto che aveva arso tutte e cinque le galere era stato promosso capitano di un vascello da 50 cannoni, poi aveva fatto finta di scusarsi, dichiarando che però simili “inconvenienti” sulle coste della Provenza non potevano essere evitati finché là ci fosse stata la squadra spagnola.

Contemporaneamente Mathews aveva sbarcato 1800 uomini per aiutare i Piemontesi a mettere la Contea di Nizza in condizioni di resistere all’imminente offensiva spagnola, e aveva imposto al re di Napoli di ritirare le sue truppe dall’esercito spagnolo in Emilia, facendo comparire una squadra di 5 vascelli e 4 galeotte da bombe nella rada di Napoli e minacciando di bombardare la città. Carlo III, già informato che la flotta inglese nel suo complesso aveva a bordo 5000 marine, che da soli sorpassavano numericamente la guarnigione della capitale, si era piegato all’ultimatum, ma se ne sarebbe ricordato. Contestualmente tre navi inglesi avevano bloccato Brindisi, intimando ai Napoletani la consegna – rifiutata – delle artiglierie appena imbarcate e destinate al corpo di spedizione napoletano in Emilia.

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Insomma, l’attività delle navi britanniche era tale da giustificare in pieno la dichiarazione del re d’Inghilterra al Parlamento ai primi del 1743 che la squadra in Mediterraneo “aveva fatto, e faceva, più male alla Spagna, di quel che avessero potuto recarle danno più squadre in America”,(2) per cui nessuno aveva avuto da obiettare quando si era deciso di aumentarla da 30 a 38 navi.

Dopo aver svernato a Hieres, le navi inglesi, sempre agli ordini del viceammiraglio Mathews, avevano bombardato in marzo la città spagnola di Viveiros e poi avevano affondato trenta imbarcazioni spagnole cariche di vettovaglie nel porto di Tolone. Il loro teatro operativo principale era restata comunque la costa tirrenica. Il 1743 però aveva visto gli Spagnoli abbandonare qualsiasi tentativo di trasbordare truppe in Italia, limitandosi agli invii di rifornimenti; e su quelli gli Inglesi si erano concentrati, toccando pure Genova.

Il primo caso era stato quello di cinque vascelli e un brulotto che il 2 marzo 1743 si erano presentati davanti al porto d’Ajaccio, dunque territorio genovese. Vi si trovava il vascello spagnolo San Isidro, da 70 cannoni, al quale avevano intimata la resa. Il comandante aveva risposto con una scarica di tutti i pezzi, poi, visto che il nemico si avvicinava, e da terra i Genovesi, neutrali, non lo coprivano, aveva ordinato d’abbandonare la nave e l’aveva fatta saltare.

Quattro mesi dopo, il 12 luglio 1743, era toccato invece a Genova stessa. Mathews in persona vi si era presentato con sette navi, due brulotti e alcuni trasporti. Il governo aveva capito al volo: era colpa dei 17 legni maiorchini e catalani carichi di artiglierie e munizioni che erano riusciti a svicolare attraverso la sorveglianza inglese fin dal principio di giugno, “onde, dopo aver fatto passare i dovuti complimenti, e salutato con una salva di cannoni l’Ammiraglio, il quale non rispose al saluto, e si mostrò indifferente alle offerte che gli furono fatte, temendo che non fosse incaricato di qualche commissione poco gradevole alla Repubblica, stimò a proposito, per calmare l’inquietudine del popolo, che si aspettava un bombardamento, di far chiudere le porte della Città, e nella notte stabilire le batterie, metter i cannoni sopra i fortini, e provvedere di truppe i luoghi esposti”.(3)

Il governo della Repubblica aveva poi messo il marchese Agostino Grimaldi a capo di una deputazione di sei nobili, spedita non a chiedere all’ammiraglio che volesse, ma a complimentarlo a nome del Senato “e a testificargli la stima, che aveva la Repubblica di S.M. Britannica, e la considerazione particolare per esso. Furono ricevuti con gran cortesia, assicurandoli l’Ammiraglio, che si compiacerebbe di dar segni della sua stima alla Repubblica, allorché questa accettasse gli

(2)Anonimo, Storia dell’anno 1743, Venezia, Pitteri, 1744, libro III, p. 226. (3)Ibidem, p. 228.

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ordini e le intenzioni del Re suo Signore”.(4) Ma, finiti i complimenti, Mathews non aveva aggiunto una parola nemmeno all’ambasciatore inglese presso il re di Sardegna, Villettes, e al console inglese saliti a bordo per chiedergli spiegazioni.

Il gioco si era aperto l’indomani. Ai due nobili recatisi da lui, l’ammiraglio aveva detto “che il Re suo Padrone era malcontento, perché la Repubblica, invece d’osservare un’esatta neutralità, favoriva apertamente il Re di Spagna, sofferendo nel Porto di Genova 17 Bastimenti carichi d’artiglieria e munizioni, destinate ad essere impiegate contro gli Alleati di S.M. Britannica. Che egli dimandava che i prefati Bastimenti fossero a lui rimessi, con tutto ciò che avevano a bordo, per esser abbruciati e distrutti”.(5)

A rigore non aveva del tutto torto, perché se era vero che Genova era un porto neutrale, era pure vero che quelli erano legni nemici e stazionanti da più d’un mese. Il problema, semmai, era che a quell’epoca non esisteva un vero codice di comportamento dei neutrali, per cui neanche Genova poteva essere considerata in torto.

I due nobili si erano presi due giorni di tempo per consentire al Senato di esaminare la questione e deliberare; ma i giorni erano trascorsi senza risultato. “Finalmente, minacciando l’Ammiraglio che se non gli fosse accordato ciò che chiedeva, avrebbe saputo impadronirsi dei Bastimenti Spagnuoli, interpose la sua mediazione il sopraddetto Signor di Villettes, e la mattina del 17 Luglio i Deputati del Senato segnarono con l’Ammiraglio Matthews una Convenzione in sette Articoli, in virtù della quale l’artiglieria e munizioni, ch’erano nei Bastimenti, e la polvere sbarcata nei magazzini di Genova, furono trasportate sopra i Bastimenti medesimi a San Bonifazio, nell’Isola di Corsica, convogliate dai vascelli Inglesi. Quivi furono depositate in presenza di Uffiziali, nominati dall’ammiraglio e dal Console Spagnuolo residente in Genova; con impegno della Repubblica di mantenere una sufficiente guarnigione in S. Bonifazio e di difender contro chi intraprendesse qualche violenza detto Deposito, fin tanto che sia finita la guerra in Italia”.(6) Dopodiché i legni spagnoli erano stati lasciati liberi di tornare a casa, e Mathews si era volto contro lo Stato Pontificio. In agosto infatti erano arrivati a Civitavecchia 14 bastimenti spagnoli carichi di polvere e munizioni. Il governatore della città ne aveva avvisato il papa che, dotato di una flotta di sole cinque galere, aveva convocato una congregazione particolare(7) per decidere il

(4) Ibidem. (5)Ibidem, p. 229. (6) Ibidem. (7) La congregazione particolare era un organismo creato ad hoc e composto da un

gruppo di cardinali, di numero variabile, ma di solito mai inferiore a tre, nominati di volta in volta dal papa per discutere un problema e proporne la soluzione. Aveva parere consultivo e non vincolante, si riuniva di solito nel palazzo di uno dei membri e non discuteva più di un giorno. Al termine dei lavori faceva redigere un verbale, in cui erano

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da farsi e poi aveva risposto che le navi spagnole uscissero dal porto senza sbarcare nulla, per evitare guai cogli Inglesi. I vascelli erano usciti, ma “stette poco a comparire una piccola squadra di navi Inglesi all’altura del porto, e non trovati i Bastimenti, ch’erano già partiti, dopo aver sbarcato l’artiglieria e le munizioni in una spiaggia distante tre leghe dal Porto, dimandarono soddisfazione del ripiego ritrovato dalla Corte, di lasciar fare lo sbarco sulla spiaggia, e non nel porto, dichiarando che se non fosse loro data, tratterebbero da nemica la bandiera Pontifizia. Il primo ordine della Corte in tal circostanza, fu di disarmare le Galee del Porto, stendere la catena acciocché non v’entrasse qualche Brulotto, e prendere altre precauzioni per la sicurezza della Città. I Consoli Inglese ed Austriaco poi s’interposero ad istanza del Ministro Austriaco, ch’è a Roma, in quell’affare, e riuscì loro di prevenire gl’inconvenienti, che si potevano temere, e di far partire la squadra Inglese, giacché le munizioni e le artiglierie sbarcate, essendo già a quell’ora arrivate a Civita-castellana, dove il general di Gages aveva spedito ad incontrarle un distaccamento delle sue truppe, non v’era più speranza di sequestrarle”.(8)

Subito dopo, entrato in vigore il trattato di Worms, la flotta inglese si mise agli ordini di Carlo Emanuele III. Prescriveva infatti l’articolo VII parlando delle operazioni terrestri in Italia: “Tanto quanto ve ne sarà bisogno, per favorire e secondare queste operazioni e per quanto il pericolo degli Alleati e dell’Italia lo richiederà, Sua Maestà il Re della Gran Bretagna s’impegna a tenere nel Mar Mediterraneo una forte squadra di vascelli da guerra e da bombe, e di brulotti, l’Ammiraglio e i Comandanti della quale avranno ordine di concertarsi costantemente con Sua Maestà il Re di Sardegna, o coi suoi Generali e quelli di Sua Maestà la Regina d’Ungheria che saranno più a portata, le misure più convenienti per il servizio della causa comune”.(9)

L’anno seguente gli Inglesi ebbero però una notevole riduzione dell’operatività per i danni avuti nello sfortunato scontro con la flotta franco-spagnola nelle acque di Tolone il 22 febbraio 1744, per cui nel resto dell’anno poterono fare poco più che sbarcare e imbarcare uomini e materiali a Fiumicino, alla foce del Tevere, attività che li occupò fino a novembre, per rifornire il corpo di spedizione austriaco, che dal neutrale Lazio meridionale – territorio pontificio – tentava d’invadere il Regno di Napoli.

indicate le proposte avanzate e i voti ad esse date dai membri, verbale che poi era rimesso al papa, il quale anche sulla base di esso decideva il da farsi.

(8) Anonimo, op. cit., p. 230. (9) “Trattato d’alleanza fra Carlo Emanuele III Re di Sardegna, Maria Teresa

Regina d’Ungheria e la Corona d’Inghilterra, con degli Articoli separati e segreti, fatto a Worms il 13 settembre 1743”, articolo VII, in Solaro della Margarita (a cura di), Traités publics de la Royale Maison de Savoie avec les puissances étrangères depuis la paix de Chateau Cambresis jusqu’à nos jours, vol. III, Torino, Stamperia Reale, 1836, p. 12.

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L’entrata in guerra e il problema corso In quello stesso 1744 in cui protestava a Londra contro il trattato di Worms, Genova aveva un grosso problema che non riusciva a risolvere: la rivolta della Corsica. Suo dominio dal Medioevo, come tutti i possedimenti delle repubbliche italiane, non godeva della minima libertà, perché i suoi abitanti erano considerati sudditi ma non cittadini, e di conseguenza, dall’ultimo quarto del XVI secolo, erano esclusi da qualsiasi atto di governo. I Corsi erano quindi scontenti, anzi, “Malcontenti”, del governo della Serenissima Repubblica, rappresentata a Bastia da un commissario generale. A lui toccava vegliare sugli affari dell’Isola, divisa amministrativamente in 38 Pievi, o Distretti, 30 dei quali “di qua da’ Monti” e i rimanenti “di là da’ Monti”. La capitale era Corte, anche se Bastia era considerata tale in quanto residenza del commissario generale.

La rivolta era cominciata nel 1730. Aveva richiesto un ingente e crescente impegno militare a terra a partire dal 1731, ma entro il 1733 aveva obbligato Genova a impiegare a fondo pure la Marina, sia nel pattugliamento costiero, per interdire il contrabbando d’armi, sia nella spola con la Liguria per i rifornimenti e i complementi, sia, infine, in operazioni anfibie.(10)

Al principio della Guerra di Successione Austriaca la situazione era ormai statica. Genova controllava le coste, gli insorti l’interno e, nonostante avessero organizzato una loro Marina,(11) non erano riusciti a prendere il controllo del mare.

Il problema era grave, e mettere i Piemontesi in possesso del Finale – per di più da tramutare in porto franco – avrebbe indebolito la Repubblica, danneggiandone il commercio e inficiandone la sicurezza. Per questi motivi la propensione ad ascoltare le offerte dei Borboni andava crescendo e divenne irresistibile quando si vide che stavano vincendo, o almeno così sembrava. Battuti gli Austriaci a Velletri nel novembre del 1744 e inseguitili fino in Umbria in dicembre, gli Ispano-Napoletani si erano fermati per l’inverno, ma

(10) Cfr. C. Paoletti, “Operazioni navali durante l’insurrezione corsa contro

Genova”, Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina, luglio-settembre 2004. (11) Inizialmente avevano barche e lancioni, poi avevano preso a Portovecchio una

tartana genovese da 10 cannoni, carica di materiale, denaro e rifornimenti, che riutilizzarono subito contro le forze della Repubblica. Poco tempo dopo ricevettero rifornimenti portati da una fregata da 18 pezzi con 120 marinai, che entrò a far parte della piccola squadra. Parallelamente cominciarono la guerra di corsa contro i Genovesi, con un prelievo del 10% sulle prede fatte dai navigli insorti per istituire un ospedale militare e navale. A quel punto la Marina corsa era un’entità non trascurabile; e Genova fu obbligata a far passare nell’Isola i rifornimenti mediante convogli scortati.

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tra febbraio e marzo del 1745, uniti a rinforzi giunti a Civitavecchia dalla Spagna, si erano rimessi in moto passando da Perugia a Fano e a Pesaro. Gli Austriaci si erano ulteriormente ritirati e gli Ispano-Napoletani, con una lunga e lenta marcia attraverso l’Appennino e la Repubblica di Lucca, erano passati dal Panaro alla costa tirrenica. Poi, in primavera, grazie alla ormai più che benevola neutralità di Genova, si unirono sul territorio ligure all’esercito franco-spagnolo di don Filippo di Borbone proveniente da ovest e costituirono una formidabile massa di manovra.

Gli Austro-Sardi non se l’aspettavano, perché in quel momento Genova era ancora formalmente neutrale. C’erano state voci, ipotesi e discussioni quando nell’inverno precedente si erano viste le truppe spagnole entrare a svernare nel territorio della Repubblica, ma voci erano rimaste. Poi Genova aveva cominciato ad armare. Aveva assoldato truppe, rimesso a nuovo le fortificazioni e aumentato la guarnigione del Finale. L’ammiraglio Rowley, nuovo comandante in Mediterraneo, si era ancor più insospettito e aveva chiesto al console inglese di informarsi. Questi, ricevuto dal segretario di stato per la Marina, Giambattista Piccaluga, si era sentito rispondere, d’ordine del Senato, “che il Governo aveva incaricato il signor Guastaldi, suo Ministro a Londra, d’esporre al re d’Inghilterra i veri sentimenti della Repubblica, e che per ciò S.M. Britannica doveva esserne a quell’ora informata”.(12) Come accennato, era vero che Guastaldi aveva presentato giustificazioni, ma dicendo che la Repubblica era risoluta a restare neutrale, che si armava solo per proteggersi da eventuali attacchi austriaci o sardi e che era pronta a disarmare non appena l’Inghilterra e i suoi alleati le avessero solennemente confermato sia il possesso del Finale, a dispetto delle mire del re di Sardegna, sia la garanzia di neutralità nei confronti delle truppe spagnole. Intanto però gli armamenti continuavano.

La guarnigione di Finale aumentò ancora, si cominciò a organizzare un corpo di truppe a Gavi, vennero erette tre batterie costiere a Vado per tener lontani gli Inglesi e fu creato un dittatore, con potere assoluto sul bene e per il bene della Repubblica.

Vista la situazione, i Piemontesi si affacciarono a Ventimiglia, e gli Inglesi arrivarono davanti a Genova con dodici vascelli e quattro barche da fuoco. Ai primi non fu fatta opposizione, ai secondi il governo della Repubblica fece sapere che potevano entrare in porto con le navi, ma non con le barche da fuoco, le quali dovevano inoltre restare fuori dalla portata dei pezzi costieri. Il comandante inglese rispose che non aveva chiesto nulla e quindi non voleva alcun permesso e si allontanò. Ma le carte furono scoperte quando si seppe che

(12)Anonimo, Storia dell’anno 1745, cit., libro II, p. 153.

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il 16 giugno 1745 Genova aveva firmato il trattato di Aranjuez, con cui si impegnava a fornire a don Filippo di Borbone un corpo di 10 000 uomini con un treno d’artiglieria, da utilizzarsi però, in qualità di ausiliari, contro il solo re di Sardegna, come risposta alle sue mire sul Finale.

Il 29 giugno l’ambasciatore della Repubblica a Torino consegnò la dichiarazione di guerra. “Sua Maestà non è rimasta punto meravigliata”,(13) fu la laconica risposta.

Quindici giorni dopo, l’esercito delle Tre Corone di Napoli, Spagna e Francia, rinforzato in retroguardia dai Genovesi al comando di Gian Francesco Brignole Sale, avanzò verso nord per entrare in Piemonte. Manovrando

abilmente riuscì a dividere gli Austriaci dai Sardi e poté prendere, fra il 2 agosto e la metà di no-vembre, tutte le città del Piemonte meridionale e i ducati di Parma, Piacenza e Guastalla senza neanche una battaglia di grandi pro-porzioni.

Per quanto riguar-dava le operazioni navali, le conseguenze furono relativamente pesanti, ma solo per Genova. La flotta della Repubblica, appena sufficiente alle operazioni per la guerra in Corsica, non poteva fronteggiare in mare le squadre britan-niche. Fu dunque disposta a difesa della sola capitale; e fu un bene. Il doge di Genova Gian Francesco Brignole Sale.

(13) Anonimo, op. cit., libro III, p. 224.

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La flotta dell’ammiraglio Rowley si presentò davanti a Genova alla fine di settembre del 1745. Non era certo un caso, ma l’acme di un’operazione rapida, ragionata e, tutto sommato, attesa dalla Repubblica.

Quando l’ambasciatore a Londra gli aveva comunicato che Genova entrava in guerra contro il solo re di Sardegna, Giorgio II d’Inghilterra aveva dato una risposta che, nei termini più dannunziani che settecenteschi dei cronisti coevi, era stata “secca e minaccevole”, dicendo che avrebbe dato “i suoi ordini ai comandanti delle sue squadre”.(14) Il bello era che questa non era una dichiarazione di guerra, né significava molto altro che l’assunzione di una totale libertà d’azione da parte inglese, ma considerando che Genova non stava dichiarando guerra all’Inghilterra, solo informandola d’essere in guerra contro la Sardegna, era la risposta diplomaticamente migliore che Giorgio II potesse dare. Certo, era ingenuo pensare che l’entrata in guerra contro uno dei tre alleati di Worms non avrebbe implicato l’esserlo pure cogli altri due, ma proprio questo la Repubblica avrebbe sostenuto di lì a sedici mesi, quando le cose si fossero volte al peggio.

Intanto l’ostilità genovese aveva interrotto le comunicazioni di Rowley col re di Sardegna e con tutti i reparti terrestri austro-sardi, per cui l’ammiraglio si era consultato coi tre ministri inglese, sardo e austriaco, che erano riparati a Livorno da Genova all’atto dell’entrata in guerra e che lo incoraggiarono a infliggerle quanti più danni potesse. Le conseguenze si videro subito. Per prima cose le navi britanniche fermarono e spedirono indietro tutti i legni, anche neutrali, diretti a Genova, ottenendo come primo risultato “una carestia di viveri più che mezzana”, cioè una riduzione di viveri in Liguria di oltre il 50%, aggravata dalla presenza delle decine di migliaia di soldati spagnoli, francesi e napoletani da nutrire con le risorse del territorio. Il passo seguente fu, il 25 luglio 1745, la comparsa di cinque navi inglesi davanti a Savona. Aprirono il fuoco, ma il tiro delle batterie costiere, costringendole a star lontane, lo rese inefficace e limitò i danni al minimo. Poi Rowley eseguì di persona un’azione contro Genova.

Istruita dal bombardamento francese sofferto nel 1684 e dalla recente incursione inglese contro Napoli nel 1741, la Repubblica, pur disponendo solo di una mezza dozzina di galere, assai poco utili contro vascelli a vele quadre, aveva preso ottime misure. Quando gli Inglesi si avvicinarono, scoprirono davanti a sé le galere, disposte abbastanza a largo da impedire al loro tiro di danneggiare la città, ma sufficientemente vicine a riva da poter essere coperte dal fuoco delle batterie costiere.

(14) Ibidem, p. 225.

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San Remo.

Ne derivò uno scontro brevissimo, perché la squadra britannica si ritirò

subito dopo aver constatato l’efficacia della difesa e aver tirato una quarantina di cannonate, che non colpirono nulla. Si rifece sugli altri centri costieri. Bombardò Finale, raggiunta da oltre cento colpi che fecero parecchi danni, e passò a San Remo. Nonostante il Senato l’avesse dotata di 18 cannoni, quando ai primi d’ottobre le navi inglesi arrivarono, la cittadina si difese poco, incassò 600 bombe e 2000 cannonate e vide sequestrare parecchie barche cariche ferme in porto. Tutto sommato l’azione di Rowley contro la Liguria era stata un fallimento, per cui egli decise una manovra contro la Corsica. I quattro vascelli, quattro trasporti e le quattro galeotte da bombe componenti la squadra del commodoro Cooper si staccarono dal grosso e la mattina del 18 novembre 1745 si presentarono davanti a Bastia, intimandole la resa. Il governatore rifiutò, e le artiglierie genovesi aprirono il fuoco. Non avendo vento sufficiente,

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Cooper dové far rimorchiare i vascelli verso il porto dalle scialuppe sotto un diluvio di cannonate. L’ammiraglia incassò nelle fiancate sei colpi incendiari, uno dei quali l’attraversò da parte a parte, e perse gli alberi maestro e di mezzana senza poter rispondere finché, giunti a distanza utile, gli Inglesi aprirono il fuoco a loro volta contro il castello. In poco tempo fecero franare completamente gran parte della prima cerchia di mura; poi bombardarono la città con palle infuocate.

Nello stesso momento i Bastiesi, da tempo in contatto coi Malcontenti, minacciarono di sollevarsi e, giovandosi dell’arrivo davanti alla città di un corpo comandato dal colonnello conte Domenico Rivarola, Corso al servizio del re di Sardegna e sbarcato nell’Isola già da ottobre,(15) convinsero il governatore a prendere gli archivi, radunare le truppe ed evacuare la città spostandosi a Calvi e trasmettendo provvisoriamente i propri poteri alla magistratura. Questa accettò la protezione di Carlo Emanuele III che Rivarola offriva alla città e a tutta la Corsica e partirono subito i corrieri diretti a Genova e a Torino coll’importante notizia.

Per Genova era un disastro: nel momento in cui pensava d’aver risolto gran parte dei propri guai grazie alla fortunata campagna sostenuta in Italia insieme a tre potenti alleati, il Piemonte la colpiva nel punto in cui era meno difesa e, con 16 navi inglesi e un colonnello, rimetteva in discussione quindici anni di sforzi per mantenere la Corsica. Il Minor Consiglio si radunò d’urgenza – di Domenica, cosa inaudita – e stabilì di spedire immediatamente convogli di rifornimenti a San Bonifacio, Calvi e Ajaccio per prevenire eventuali attacchi inglesi, nominò commissario generale il marchese Mari e diede istruzione ai propri agenti di far l’impossibile per convincere i vecchi capi dei Malcontenti a non unirsi a Rivarola. Ma il peggio doveva ancora venire. Ai primi di dicembre le navi inglesi bloccarono dal mare San Fiorenzo, mentre Rivarola l’assediava da terra e minacciava d’avanzare contro le altre piazze genovesi. Mari le rinforzò spostando truppe da Calvi, ma non c’era nemmeno da pensare a riprendere il controllo dell’Isola. Rivarola, infatti, vi aveva diffuso la Patente con cui Carlo Emanuele III concedeva la sua protezione ai Corsi e prometteva di aiutarli contro Genova.(16)

(15) Rivarola era stato viceconsole di Spagna a Bastia; nel 1744 aveva ottenuto dalla

Repubblica il permesso di arruolare un reggimento di Corsi – Reggimento Corsica – per il re di Sardegna, poi era fuggito perché accusato di malversazione, peculato e appro-priazione indebita come amministratore fiscale.

(16) Ad essa seguirono una Patente analoga rilasciata da Maria Teresa, un Decreto del Doge di Genova per proibirne la diffusione e confutarne i contenuti, una seconda confutazione apparsa anonima e sotto forma di “Osservazioni di uno dei Nobili del Regno

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Legno genovese davanti a Calvi, in Corsica.

Gli agenti genovesi cominciarono allora a darsi da fare, e con tanto

successo che, ai primi di febbraio del 1746, i Bastiesi presero contatto con Mari e, il 15, reinnalzarono la bandiera della Repubblica sulle mura, si proclamarono fedeli sudditi e arrestarono quelli di loro che sembravano sfavorevoli a tale decisione.(17) Immediatamente arrivò una colonna di truppe genovesi, comandate dal marchese Spinola, nominato da Mari vicereggente, mentre Rivarola infuriato lasciava San Fiorenzo e tornava verso Bastia per assediarla. Ma sia per essere stato preceduto dalla colonna di Spinola, sia perché l’assenza delle navi inglesi consentiva alla città d’essere rifornita dal mare, il giorno di Pasqua del 1746 dové abbandonare l’assedio, che aveva incominciato ai primi di marzo.

Contemporaneamente, la campagna del 1745 nell’Italia settentrionale si era conclusa assai bene per le Tre Corone e per Genova, che avevano occupato

di Corsica, sopra le Lettere Patenti, attribuite alla Corte di Torino”, e infine una dichiarazione della corte di Francia.

(17) Furono mandati a Genova e, il 7 maggio, nonostante la promessa di lasciar loro la vita, si seppe che erano stati fatti morire segretamente nel Palazzetto Criminale.

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la Lombardia e ridotto il Piemonte così a mal partito da piegarlo a un armistizio. I nobili genovesi erano tornati a casa per l’inverno, e la Repubblica, assai ottimisticamente, aveva considerato allontanata ogni minaccia.

Ma ai primi del 1746 gli Austriaci poterono spedire rinforzi in Italia, il Piemonte rientrò in campagna con tutte le sue forze, e in brevissimo tempo il dispositivo delle Tre Corone crollò. Aggredite e sconfitte da ogni parte, in marzo tutte le loro forze erano in piena ritirata. Milano fu abbandonata il 19 marzo, quando le avanguardie austriache erano letteralmente alle porte. Il Parmigiano era perso; e anche Parma lo fu, perché gli Austriaci, vincitori il 28 a Sorbolo, giunsero là il 3 aprile, intimando la resa, il 4, alla guarnigione spagnola. Il comandante riuscì a riparare a Sarzana con 8000 dei suoi uomini dopo una durissima marcia attraverso le montagne, giungendo a Spezia il 7 maggio con perdite del 20% e l’esercito così male in arnese che, quando arrivò il nuovo comandante, marchese di Las Minas, fatta la rassegna, brontolò: “Questo è un esercito molto più proprio da ritornarsene a Barcellona che a far fronte ai nemici”(18) e ordinò d’abbandonare la Lombardia e la Liguria, rastrellando tutti i militari delle Tre Corone in grado di muoversi.

Attraversata rapidamente la Riviera, sorda ai lamenti di Genova, che si vedeva lasciata inerme in balia del nemico avanzante, l’armata delle Tre Corone, ridotta da malattie, diserzioni, morti e catture da 90 000 a soli 25 000 uomini, riparò oltre il Varo. Gli Austro-Sardi, giunti insieme al confine della Liguria, si divisero, puntando rispettivamente alla Bocchetta e poi a Genova i primi; a Finale e a Savona i secondi.

La situazione dei Genovesi era adesso a dir poco tragica. Erano soli davanti a un nemico agguerrito e potente; non sarebbero mai stati in grado di fronteggiarlo senza aiuti, e le loro risorse bastavano a malapena a imbastire una difesa. L’unica cosa che avevano fatto fino a quel momento era stata la predisposizione difensiva di San Pier d’Arena(19) quando avevano saputo che il contrammiraglio Midley aveva lasciato Port Mahon con una squadra di 20 navi e si era diretto verso il Mar Ligure. Però poi gli Inglesi si erano tenuti sulla Riviera di Ponente, limitandosi a intercettare i convogli francesi e spagnoli, e non avevano tentato nulla contro la capitale. Ma la minaccia più pericolosa adesso non era quella. Il 4 settembre 1746 a San Pier d’Arena arrivarono non gli Inglesi dal mare, ma gli Austriaci da terra.

Il Senato mandò una delegazione a ossequiare il loro comandante, il maresciallo marchese Antoniotto Botta Adorno, di famiglia genovese, e gli

(18)Anonimo, op. cit., libro III, p. 269. (19) Denominazione coeva.

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presentò un elenco di atti di buona volontà, che andavano dall’evacuazione di Tortona, passando per la riduzione e neutralizzazione del presidio di Gavi, fino al ritorno delle truppe genovesi sul piede di pace e alla restituzione di prigionieri e disertori. Stranamente, tutti gli atti riguardavano solo le truppe di terra; ma gli Austriaci, potenza terrestre, non se ne curarono, avevano altro in mente e, quando Genova s’appellò allo stato di non-belligeranza che ancora vigeva con Vienna, la loro risposta fu secca: poiché grazie al suo aiuto i Franco-Spagnoli erano potuti entrare in Italia, unendosi ai Napoletani e occupando la Lombardia, la Serenissima non aveva altro da fare che sottomettersi alla dura capitolazione che ora le sarebbe stata presentata. Il 6 settembre Botta Adorno intimò al Senato le condizioni provvisorie a cui la sua sovrana avrebbe forse graziosamente accettato di prendere Genova sotto la sua protezione: erano una resa incondizionata. Si ordinava la cessione delle armi e dei magazzini, la

consegna dei disertori, dei prigionieri e di tutti i mili-tari francesi, spagnoli e na-poletani presenti in città, il trasferimento agli Austriaci di ogni materiale o effetto appartenente alle truppe delle Tre Corone, il libero pas-saggio alle truppe imperiali, l’obbligo per il doge di an-dare a chiedere scusa fino a Vienna insieme a sei sena-tori, e il pagamento di 50 000 genoine subito. L’unica cosa che, di nuovo, sfuggì a tutti, fu la sorte della Marina, che, per quanto piccola, non era poi da buttar via. Era vero che l’articolo V recitava: “Sarà subito accordato il libero ingresso del porto di Genova, e la

Il maresciallo genovese al servizio imperiale Antoniotto Botta Adorno.

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libertà d’uscirne alle navi da guerra Inglesi, non altrimenti che a quelle delle Nazioni alleate di S.M. Imp.”,(20) ma era pure vero che per la seconda volta in tre giorni le truppe di Sua Maestà Imperiale non si curavano della Marina, e la Repubblica si guardava bene dal menzionarla. L’8 settembre gli Austriaci calarono la mazzata ordinando il pagamento di un milione di genoine entro 48 ore, di un secondo entro otto giorni e di un terzo entro quindici, pena il saccheggio della città. Il primo importo richiesto era già altissimo, perché obbligava a pagare in due giorni una cifra corrispondente a circa trenta volte l’importo annuo di tutte le entrate genovesi di pedaggio e di carato.(21) Ci si arrivò; ma occorsero cinque giorni anziché due. Si poté liquidare anche la seconda rata, ma certo Genova non sarebbe mai stata in grado di versare pure la terza.(22) Così si versarono i primi due milioni, utilizzando fino all’ultimo soldino presente nelle casse del Banco di San Giorgio, senza guardare a chi appartenevano i depositi e dando a completamento della cifra anche i gioielli che la Casa d’Austria e il granduca di Toscana avevano impegnato a Genova per 450 000 fiorini. Poi si chiese fiduciosamente grazia per l’ultimo versamento. Data la distanza tra Vienna e la Riviera, almeno si era guadagnato il tempo necessario ai corrieri per andare e tornare e al consiglio della corona asburgica per decidere.

A metà ottobre intanto le truppe sarde avevano terminato di ricacciare gli avversari oltre il Varo. Pochi giorni dopo l’oltrepassarono con 43 battaglioni austriaci, 20 sardi e 45 squadroni di cavalleria, e bloccarono Antibes, in attesa dell’artiglieria pesante per assediarla, obbligando i nemici in rotta a riparare sotto le fortificazioni di Tolone.

Nel frattempo, il 30 novembre, giunse a Genova la decisione austriaca in merito al condono del terzo milione; e fu ancora peggio della peggiore previsione: non solo era respinta la grazia, ma dopo il terzo milione se ne doveva versare ancora un altro per il mantenimento dei 16 reggimenti asburgici accantonati a San Pier d’Arena, Bisagno e nei villaggi circostanti la Dominante.

Era il disastro. Occorreva reagire in qualche modo e, senza entrare nei dettagli della politica del tempo, basterà dire che ai primi di dicembre occorreva solo trovare un pretesto.

(20) Condizioni con le quali Sua Maestà Imperiale potrebbe ricevere provvisionalmente la

Serenissima Repubblica di Genova sotto la Sua protezione, art. V, Genova, s.i., 1746. (21) Il carato era l’imposta che si pagava sulle merci trasportate per mare; il

pedaggio su quelle per terra. (22) Gli Austriaci avevano calcolato che i nobili genovesi, disponendo di beni

privati per 70 milioni in Liguria e all’estero, sarebbero stati in grado di sborsare la cifra. Ma non se ne parlò nemmeno; e il Senato – composto da nobili – fece conto solo sulle risorse pubbliche.

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Genova assediata dagli Austriaci e con i vascelli della squadra inglese davanti al porto.

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Genova. Veduta con le galere dello stuolo della Repubblica.

Quello migliore capitò, quasi inavvertitamente, per la disorganizzazione asburgica. Secondo le decisioni prese nel consiglio di guerra austro-anglo-sardo tenuto a Savona in settembre e relativo all’attacco contro le frontiere meridionali della Francia, il viceammiraglio Townsend, comandante della squadra britannica, doveva provvedere al trasporto dei rifornimenti e dei rinforzi destinati alle operazioni in Provenza. I vascelli inglesi si presentarono dunque a Genova per caricare le artiglierie pesanti destinate all’assedio di Antibes, e gli Austriaci, ai quali toccava fornirle e che non ne avevano di proprie, stabilirono di prelevare quelle che guarnivano le mura della città per inviarle al teatro d’operazioni.

Il dì 5 dicembre gli Alemanni strascinavano un Mortaro da bombe, e passando per il gran quartiere di Portoria, si sfondò la strada sotto il di lui peso: cosa facilissima ad accadere in Genova, dove le strade di sotto sono vote. Incagliato così il trasporto, i Tedeschi vollero sforzare il minuto volgo a dar loro ajuto per sollevarlo. Questo resisté alquanto; ma poi obbligati dalle minacce, vi si accostarono molti, sebbene di mal animo, onde non davano verun ajuto. Ciò vedendo uno dei Tedeschi alzò il bastone e lasciò correre alcuni colpi. Tanto bastò per dar fuoco a tutto l’incendio. Un ragazzo, veduto questo tratto, diè di piglio ad un sasso, e rivolto ai compagni, disse: La rompo: accordando gli altri, lanciò una sassata al Soldato percussore. Fu il lampo quello, a cui seguì incontanente una grandine di sassate così furiosa che mise in fuga i Tedeschi.(23)

(23) Anonimo, op. cit., libro IV, p. 351.

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L’indomani la tensione salì e finalmente esplose nell’insurrezione armata, che in pochi giorni mise tanto a malpartito gli Austriaci da obbligarli a porsi fortunosamente in salvo alla Bocchetta. Là si riorganizzarono per tornare indietro e assediare la città, mentre i Genovesi tentavano di sbloccare il castello di Savona, assediato dai Piemontesi. La loro squadra navale uscì in mare, di conserva con un corpo avanzante via terra; ma i Sardi del conte della Rocca avanzarono da Savona e lo fecero indietreggiare, mentre il convoglio, scortato da tre galere, dové tornare indietro per la presenza della flotta inglese; così il castello capitolò il 19, lasciando 1100 prigionieri in mano ai Sardi. La difesa di Genova: 1747-1748. La città di Genova, cinta da lunghissime fortificazioni che coronavano le montagne circostanti, non era facile da prendere. Lo si poteva fare solo per esaurimento delle difese; ma nel febbraio del 1747 le corti di Francia e Spagna, che avevano ricevuto rapporti favorevoli dai loro osservatori mandati a Genova, cominciarono a inviare rinforzi. Il 2 febbraio arrivò in città la missione militare franco-spagnola, che precedeva lo sbarco dei 6000 uomini concentrati appositamente a Tolone e Antibes. A metà marzo il convoglio partì e, nonostante la flotta inglese avesse intercettato 20 delle 70 tartane che lo componevano, riuscì ad arrivare a scaglioni a Genova entro la fine del mese, mettendo a terra più di 4000 soldati col cui aiuto vennero rimodernate le fortificazioni.

Gli Austriaci giunsero sotto la città più o meno negli stessi giorni; ma con una difficoltà notevole: non riuscivano a far arrivare l’artiglieria. Dai passi montani, troppo stretti, non ci si riusciva; dal mare la si sarebbe dovuta imbarcare a levante, navigare fino a ponente, dove nel frattempo occorreva prendere Voltri e Sestri, e scaricarla, evitando l’artiglieria costiera genovese: in quel momento era impossibile. Il 3 aprile gli Austriaci riuscirono a ottenere l’aiuto dei Sardi, che arrivarono il 15, e Genova rimase assediata da terra; non dal mare, però, perché la squadra britannica, basata ora a Savona, presidiata dai Sardi, non riusciva a bloccarla del tutto. Allora le galere della Repubblica ripresero il mare e fecero incessantemente la spola fra la Corsica e la capitale riportando in Patria tutti i rifornimenti e i viveri che erano stati in precedenza ammassati nelle piazze corse per contrastare la rivolta. Grazie a loro Genova sarebbe riuscita a superare l’assedio e giungere alla fine del conflitto nel 1748 senza perdere la propria indipendenza. Però nel frattempo la situazione non era delle più rosee. Secondo alcuni, c’era a Genova “penuria delle cose più necessarie,

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La Corsica in una carta cin-quecentesca.

cagionata dalla disolazione del suo territorio, e dal’infestazione delle Navi Inglesi, che con-tinuando a scorrere a Levante, Ponente, e all’altura della me-desima, non vi lasciavano pas-sare o entrare i convogli”.(24) Secondo altri, invece, c’e-rano “tutta la tranquillità, l’armonia, il credito, l’ab-bondanza”(25) che si pote-vano desiderare. La verità stava nel mezzo, come al solito. La guerra al traffico fatta dagli Inglesi era dura, ma il blocco non era né poteva essere completo. I legni impiegati dai Geno-vesi erano di poco pe-scaggio. Le galere, conce-pite per operare in fun-zione anticontrabbando e antipirateria, dunque su bas-si fondali, potevano navi-

gare tanto sotto costa da impedire alle navi britanniche di raggiungerle, e lo dimostrano tre fatti.

Il più rilevante è che a fine estate del 1747 gli Inglesi non riuscirono a impedire l’arrivo per mare a Genova del nuovo comandante francese, il duca di Richelieu, che così ne parlò nelle sue memorie: “Mi imbarco a Monaco coi miei ufficiali, e, senza attendere i miei equipaggi, passo con un tempo assai pericoloso pressoché in mezzo alla flotta inglese. Ricevo parecchie bordate di cannone, e fu sfidando tutti i pericoli che

(24)Ibidem, p. 281. (25) Ibidem.

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arrivai a Genova”, (26) aggiungendo che “tutti i miei equipaggi erano arrivati a Genova per mezzo di diverse feluche”, (27) segno che il blocco non era poi così inviolabile. Il secondo è che la Repubblica di Genova si irritò con quella di Lucca e pretese soddisfazione “per alcune barche di munizioni, che inseguite in mare dalle Navi Inglesi, erano state predate nel porto di Viareggio, dove si erano ricovrate come in luogo sicuro”,(28) il che significava che durante la navigazione i vascelli inglesi non erano riusciti a prenderle e avevano al massimo potuto seguirle fino a destinazione. Questo fa venire il dubbio che la navigazione fosse stata sotto costa, dunque su fondali troppo bassi e pericolosi per i vascelli, ed è confermato indirettamente dal terzo fatto, che si riscontra negli accordi stipulati fra gli Alleati nel gennaio 1748, quando l’Inghilterra si impegnò a fornire anche “… dei piccoli bastimenti, più adatti ad avvicinarsi alle coste per secondare le operazioni delle truppe Alleate sulle coste di Francia e d’Italia, facilitare il loro trasporto, ed impedire quelli del nemico”,(29) segno che la necessità di imbarcazioni di ridotto pescaggio si era fatta sentire molto e che gli Alleati ne difettavano.

L’anno seguente si aprì coll’unica operazione anfibia fatta dalla squadra genovese in Italia in tutto il secolo. Il duca di Richelieu aveva fatto compiere ricognizioni a Varaggio, cioè Varazze, “grosso borgo cinto di buone mura, 25 miglia lungi da Genova, e 5 da Savona”, presidiata da poco più di 400 piemontesi. “Sulla relazione, che i nemici non tenevano guardata una piccola spiaggia, comodissima allo sbarco … Ai 4 di Gennajo fece imbarcare 1000 uomini di truppa delle tre Nazioni sopra 18 grandi barche Capraiesi, scortate e rimorchiate da 3 Galee della Repubblica”.(30) L’operazione, eseguita di conserva con un corpo giunto da Genova per via di terra che prese Varazze dalle alture, ebbe successo e fruttò 412 prigionieri. Dopodiché la cittadina fu abbandonata perché troppo vicina al nemico. Visto il buon risultato, Richelieu riadoperò le imbarcazioni – stavolta semplici tartane, senza l’appoggio delle galere – per inviare rinforzi a Voltri, assalita dagli Austriaci il 18 febbraio.

(26) L.F.A. de Vignerot du Plessis, duca di Richelieu, Mémoires, Paris, Barba, s.d., ma

1890 circa, cap. XCVIII, p. 218. Stando alle cronache dell’epoca, Richelieu arrivò a Genova il 26 settembre del 1747.

(27) Ibidem. (28) Anonimo, op. cit., libro IV, p. 285. (29) “Convenzione per la campagna del 1748 contro la Francia, conclusa fra S.M. il

Re di Sardegna e i suoi Alleati, fatta all’Aja il 26 gennaio 1748”, articolo XI, in Solaro della Margarita (a cura di), Traités publics de la Royale Maison de Savoie avec les puissances étrangères depuis la paix de Chateau Cambresis jusqu’à nos jours, vol. III, Torino, Stamperia Reale, 1836 p. 28.

(30) Ibidem.

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Essendo inverno, la flotta inglese fu considerata non pericolosa dai Francesi, perché, come d’abitudine, era andata a svernare a Port Mahon, perciò, prima che riprendesse il mare, Richelieu progettò un enorme attacco anfibio a Savona, presidiata dai Sardi, i quali vi avevano rischierato la loro piccola flotta, composta dalle galere spostate da Villafranca di Nizza, occupata dai Franco-Spagnoli, e che poi riferirono:

Eransi da qualche tempo ricevute varie notizie private, confermate dalle relazioni dei Disertori, che il Duca di Richelieu meditava un’impresa, per impadronirsi dei Magazzini, spedali, ed equipaggi, ch’erano nella Città di Savona, non meno che dell’artiglieria e delle munizioni, che v’erano state poc’anzi spedite, e per ardere o rovinare, se fosse possibile, le Galee e tutti i navigli, che si trovavano nel Porto. Prendendo tutte le misure ch’ei giudicava opportune all’esecuzione della sua impresa, il Generale Francese, per ingannarci, affettò di spargere voci, che i preparamenti, che faceva, erano destinati per la Riviera di Levante, o per il Golfo delle Spezie. In fatti il Convoglio uscì dal Porto di Genova li 25 Marzo, facendo vela verso Levante, ma in qualche distanza, il Duca d’Agenois, nipote del Duca di Richelieu, che ne aveva il comando, fece girar bordo e volgersi verso Ponente. Questo Convoglio consisteva in 160 bastimenti di diversa grandezza, carichi di truppe e munizioni da guerra e da bocca, e tra l’altre cose di molte scale da corda per una scalata. Era l’ordine di sbarcare durante la notte.(31)

Le truppe inviate per mare assommavano a 2000 uomini, e al loro sbarco doveva, come a Varazze in gennaio, far eco l’attacco di altri 3000, giunti per terra e agli ordini di Richelieu. L’operazione andò male, perché i Sardi, ammaestrati dai precedenti, avevano disseminato la zona fra Savona e Genova di piccoli presidii di allarme di primo tempo, ma, soprattutto, perché il maltempo ostacolò la navigazione. Il vento contrario fece arrivare in ritardo il convoglio e ne rallentò lo sbarco, reso ulteriormente difficile da una forte pioggia, sicché l’appuntamento saltò. Dal canto loro i Piemontesi non restarono con le mani in mano: “Il Signor della Rocca, Governator di Savona, avvisato di ciò che accadeva, provvide alla prima sicurezza dei Magazzini, facendoli trasportar nel castello, e fece ogni possibile diligenza per difesa della Città, secondato dall’Ammiraglio Bing,(32) e dal Signor Peterson, Generale delle Galee Regie”.(33) La reazione piemontese fu dura, e i Francesi, sconfitti, si ritirarono.

(31) Relazione ufficiale sarda dell’attacco e della tentata incursione francese su Savona del 25

marzo 1748, Torino, s.i., 1748, p. 1. (32) Si tratta del viceammiraglio John Byng, nato nel 1704 e da non confondere

coll’ammiraglio sir George Byng, visconte Torrington, che nel 1718 aveva distrutto la

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Nel frattempo le diplomazie erano all’opera. Prima, il 26 gennaio 1748, gli Alleati conclusero una nuova convenzione per il proseguimento della guerra, che all’articolo XI prevedeva: “Sua Maestà il Re della Gran Bretagna, fornirà come l’anno passato trenta vascelli da guerra, dei quali se ne cambierà qualcuno con dei piccoli bastimenti, più adatti ad avvicinarsi alle coste per secondare le operazioni delle truppe Alleate sulle coste di Francia e d’Italia, facilitare il loro trasporto, ed impedire quelli del nemico, ed il Re di Sardegna si impegna ad impiegare le sue galere per favorire i medesimi obiettivi ”,(34) nominando per la prima volta esplicitamente la flotta sarda. Poi, iniziarono le trattative fra gli opposti schieramenti, e a fine primavera si arrivò all’armistizio, che, prima provvisorio, fu reso definitivo e, per il fronte italiano, fu firmato a San Pietro Vara il 18 giugno 1748 e pubblicato, a seconda dei luoghi, fra il 20 e il 30 giugno, dicendo, all’articolo II:

Quest’Armistizio si estenderà a tutti i Bastimenti con bandiera Spagnuola, Francese, Napolitana, e Genovese che arriveranno nei porti di S.M. Sarda, eccettuate però le Navi da guerra, e scambievolmente a quelli con bandiera di Sardegna, che porteransi nei Porti e Mari di Spagna, Francia , del Regno di Napoli, e del Dominio Genovese, e ad essi sarà scambievolmente permesso di frequentare i detti Porti e Mari, dove saranno loro accordati i consueti aiuti e assistenza.(35)

La cosa non toccò subito gli Inglesi.

Siccome erano cessate nella forma, e nei tempi sopradetti le ostilità in Italia, e negli Stati del Re di Sardegna, per terra, ed anche in mare tra il Re di Sardegna e le tre Potenze Alleate nemiche, credevasi parimente sentire da un giorno all’altro, che finissero ancora in mare per parte degli Inglesi contro le suddette tre Potenze: ma essendosi giudicato bene in Annover di farle durare sei settimane dopo l’Armistizio di S. Piero di Vara, per aspettare, che fosse seguita l’accessione del Re di Spagna e della Repubblica di Genova ai Preliminari, solamente agli undici di Luglio fu spedito dal Duca di Neucastle un Ordine Regio all’Ammiraglio Bing di sospenderle. Relativamente a quest’Ordine, esso Ammiraglio, che si tratteneva con la sua squadra a Vado, spedì una Nave da guerra ad avvisare i comandanti delle Navi Inglesi, ch’erano sparse lungo le Coste di Genova, come anche al Governo di quella Città, che

flotta spagnola a Capo Passero, in Sicilia, e del quale questo era il quarto figlio. John Byng è noto per aver perso il 20 maggio 1756 la battaglia navale di Minorca contro i Francesi durante la Guerra dei Sette Anni, ed essere stato per questo processato e fucilato nel 1757.

(33) Relazione ufficiale sarda ..., cit., p. 2. (34) “Convenzione per la campagna del 1748 …”, cit., p. 28. (35) Armistizio che di già osservasi provvisionalmente tra le truppe Gallispane e Piemontesi,

fatto in San Pietro di Vara il 18 giugno 1748, articolo II di VII.

C. Paoletti - La Marina inglese contro Genova durante la Guerra di Successione Austriaca

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ai 24 cesserebbero senza fallo tutte le ostilità in mare per parte delle predette Navi, siccome in fatti successe: e in progresso, avendo ricevuto ordine dall’Ammiralità di Londra di tornarsene a casa, lasciò alcune Navi a proteggere il commerzio della sua Nazione nel Mediterraneo, e fece vela col rimanente, che aveva richiamato a Vado, per l’Inghilterra. Riapertosi così il commerzio libero di Genova per mare, e quasi nel medesimo tempo anche per terra col Milanese, e col Piemonte, per via di passaporti, fu provveduta quella Capitale in breve di tante cose, delle quali abbisognava o scarseggiava, con indicibile giubilo, e notabile sollievo dei Popoli.(36)

L’ultima guerra navale di Genova era finita.

(36) Anonimo, op. cit., libro III, p. 285 sg.