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La malattia di Alzheimer rappresenta la forma più frequente di demenza e, per l’andamento progressivamente ingravescente, una delle malattie più disabilitanti.

La patologia prende il nome da Alois Alzheimer, neuropatologo e psichiatra tedesco, che per primo descrisse la malattia nel 1906 in una donna osservata per la prima volta nel 1901 a 51 anni di età e seguita fino al decesso, avvenuto cinque anni dopo.

Nel periodo immediatamente successivo si moltiplicarono le segnalazioni di casi analoghi, fino a che si giunse alla prima descrizione della patologia come entità autonoma da parte di Emil Kraepelin, anch’egli psichiatra tedesco, il quale la inquadrò come sottotipo della demenza senile (una forma di decadimento cognitivo che, fin dalle origini della medicina, si riteneva associato all’invecchiamento).

In un primo tempo l’età era un elemento strettamente integrante la diagnosi, ma i criteri introdotti dopo il 1977 hanno sancito il superamento di tale vincolo.

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L’AD è una sindrome a decorso cronico e progressivo che colpisce il 5% della popolazione al di sopra dei 65 anni.

Costituisce la causa più comune di demenza nella popolazione anziana dei Paesi occidentali, comprendendo insieme sia le altre forme neurodegenerative sia quelle secondarie (tra le quali prevalgono quelle di natura vascolare).

Il rischio di manifestare la malattia aumenta con l’età: si stima infatti che circa il 20% della popolazione ultra85enne ne sia affetto.

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I dati più recenti riportano, per il 2005, una prevalenza stimata di 24,2 milioni di persone affette da demenza in tutto il mondo, con la comparsa ogni anno di 4,6 milioni di nuovi casi. Di questi, circa il 70% viene attribuito all’AD.

Più in dettaglio, tra le popolazioni di età ≥60 anni, quelle residenti nell’America del Nord o in Europa Occidentale hanno evidenziato i maggiori valori di prevalenza di malattia (6,4% e 5,4%, rispettivamente), seguite dall’America Latina (4,9%), dalla Cina e dall’area del Pacifico Occidentale (4,0%).

Per quanto riguarda l’Italia, il numero stimato di persone affette da demenza nel 2005 era compreso tra 820.462 e 905.713; di questi casi il 54% è attribuibile a demenza di Alzheimer (per un totale di circa 600.000 malati). Il tasso di incidenza dell’AD è stato calcolato, su tutte le età e in entrambi i sessi, intorno a 7,03 per 1000 anni-persona, mentre la prevalenza si attesta al 4,4% negli ultra65enni.

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Va sottolineato che il principale fattore di rischio per l’AD è costituito dall’età: l’incidenza della patologia raddoppia ogni 5 anni dopo i 65 anni. Un dato preoccupante se si considera che un italiano su 5 è ultra65enne.

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Il cervello del paziente affetto da AD è atrofico, con solchi ampi e circonvoluzioni appiattite. Tale atrofia è particolarmente evidente nei pazienti più giovani soprattutto quando confrontati con soggetti cognitivamente integri di pari età, mentre nei soggetti più anziani, in particolare dopo i 70 anni, vi è una notevole sovrapponibilità nel grado di atrofia tra soggetti malati e non.

In ogni caso, il cervello di soggetti con AD tende a essere dall’8% al 15% più piccolo rispetto ai controlli di pari età.

Le prime regioni a essere colpite dal processo neurodegenerativo sono quelle temporo-mediali, in particolare l’amigdala, il subiculum, la regione CA-1 dell’ippocampo, la corteccia entorinale e l’area transentorinale (a volte anche i bulbi olfattori). Segue poi l’interessamento del sistema limbico e della neocortex.

Gli elementi caratterizzanti sono le placche senili e i grovigli neurofibrillari.

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I peptidi Abeta, costituiti da un numero di aminoacidi variabile da 36 a 43, originano dalla proteolisi della proteina precursore dell’amiloide (amyloid precursor protein, APP) attraverso l’azione sequenziale di vari enzimi, tra i quali la alfa (o ADAM 10), la beta (o BACE) e la gamma-secretasi.

Secondo l’ipotesi patogenetica della “cascata amiloidea”, nel momento in cui si viene a creare un disequilibrio tra produzione ed eliminazione si hanno aggregazione e accumulo di peptidi, soprattutto Abeta-42, forma prevalente nell’AD.

I peptidi Abeta si autoaggregano spontaneamente in oligomeri, con coalescenze progressive in forme intermedie fibrillari fino a formare le fibre insolubili delle placche amiloidi in fase avanzata.

Gli oligomeri e le forme intermedie di amiloide sono i componenti più tossici del processo patologico. In particolare, sono tossici per le sinapsi gli oligomeri (es. dimeri, tetrameri di Abeta). La gravità dei deficit cognitivi appare più correlata ai livelli degli oligomeri che al carico totale di Abeta nel cervello.

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I cosiddetti grovigli (o gomitoli) neurofibrillari, inclusioni filamentose nei neuroni piramidali, si riscontrano non solo nell’AD, ma anche in altre patologie neurodegenerative, definite come taupatie.

La numerosità di grovigli neurofibrillari è correlata alla gravità dell’AD. La componente principale dei grovigli è una forma iperfosforilata di proteina tau disposta in forma aggregata. In condizioni normali, la proteina tau si trova abbondantemente in forma solubile negli assoni, dove promuove l’assemblaggio e la stabilità dei microtubuli e delle vescicole di trasporto.

Nel momento in cui viene iperfosforilata, tau diviene insolubile, perde affinità per i microtubuli e si autoassembla in strutture filamentose a doppia elica. Allo stesso modo degli oligomeri Abeta, le molecole tau sono citotossiche e determinano un danno strutturale e funzionale dei neuroni.

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La deposizione di grovigli neurofibrillari dentro i corpi delle cellule nervose causa disintegrazione dei microtubuli, collasso dei sistemi di trasporto neuronale e malfunzionamento della comunicazione biochimica, fino alla morte cellulare, con particolare coinvolgimento, nelle fasi iniziali della malattia, dei neuroni colinergici corticali e sottocorticali.

Lo schema illustra il metabolismo della proteina precursore dell’amiloide (APP). Si nota come, a seconda dell’enzima prevalente (alfa-secretasi o ADAM10, beta-secretasi o BACE, gamma-secretasi), la produzione di frammenti amiloidogenici possa variare di tipo ed entità.

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Sono stati proposti ulteriori meccanismi patogenetici. L’AD può essere considerata innanzitutto come un disturbo di tipo sinaptico. Nell’AD lieve è stata osservata una riduzione di circa il 25% di sinaptofisina (proteina delle vescicole presinaptiche), responsabile della riduzione della capacità di trasmissione tra cellule nervose, primariamente nel sistema colinergico che controlla la memoria.

Un altro aspetto patogenetico riguarda la deplezione di neurotrofine, molecole atte a promuovere la proliferazione, la differenziazione e la sopravvivenza di neuroni e glia, mediando l’apprendimento, la memoria e il comportamento. I recettori per le neurotrofine, normalmente presenti a elevati livelli nei neuroni colinergici del proencefalo basale, sono gravemente diminuiti nell’AD in fase avanzata.

L’alterato utilizzo di ossigeno può portare alla formazione di radicali liberi in grado di danneggiare sia il DNA sia le strutture proteiche e lipidiche dei mitocondri, con ulteriore danneggiamento funzionale e incremento di formazione di radicali liberi, in un processo negativo che si autoalimenta.

Danni ischemici sono inoltre presenti dal 60% al 90% dei pazienti affetti da AD, e non deve essere sottovalutato il fatto che l’Abeta esplica un’azione citotossica sull’endotelio, predisponendo a lesioni di tipo emorragico.

Sono state infine identificate mutazioni geniche o varianti alleliche associate a un maggior rischio di insorgenza di AD, anche in età giovanile.

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Secondo la definizione di Geldmacher e Whitehouse del 1996, la demenza è una sindrome clinica caratterizzata dalla perdita di abilità cognitive precedentemente acquisite sufficientemente grave da interferire con le attività quotidiane e influire sulla qualità di vita.

Secondo i criteri del Manuale Diagnostico e Statistico delle Malattie Mentali dell’American Psychiatric Association (DSM-IV) la demenza si caratterizza per lo sviluppo di alterazioni della memoria (deficit delle abilità ad apprendere nuove informazioni o a richiamare informazioni precedentemente apprese) associate a una o più alterazioni di altre aree cognitive (quali afasia, aprassia, agnosia e deficit del pensiero astratto e delle capacità di giudizio). Questi deficit sono di gravità sufficiente a determinare un impatto significativo sullo stato funzionale del soggetto.

L’introduzione di tecniche neuroradiologiche e biochimiche in grado di supportare la diagnosi ha consentito di formulare nuove classificazioni utili nel settore della ricerca e di identificare forme precliniche.

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L’AD ha modalità di presentazione ed espressione estremamente variabili da soggetto a soggetto, anche per le caratteristiche soggettive in termini di capacità di compenso e strategia che possono ritardare l’individuazione di deficit cognitivi da parte del medico o dei familiari, e in termini di personalità e tratti caratteriali che possono dar luogo a particolari e specifici disturbi del comportamento non solo nelle fasi avanzate ma anche in quelle iniziali di malattia.L’AD si caratterizza per la compromissione della memoria, con incapacità di apprendere nuove informazioni o di richiamare quelle già apprese; i disturbi del linguaggio, sia dell’espressione sia della comprensione; l’aprassia, ovvero l’incapacità di eseguire attività finalizzate, malgrado una funzione motoria integra; l’agnosia, ossia l’incapacità di riconoscere oggetti o volti, nonostante una funzione sensoriale integra; la presenza di deficit delle funzioni esecutive, dell’attenzione, del ragionamento e dell’astrazione e pianificazione, della capacità di giudizio.

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Tra i disturbi comportamentali si annoverano modificazioni della personalità quali apatia, disinibizione e irritabilità, sintomi affettivi come depressione, disforia, euforia, ansia e labilità emotiva, agitazione, aggressività verbale o fisica, vocalizzazione persistente, affaccendamento e vagabondaggio, disturbi psicotici come convinzioni errate o deliri e allucinazioni visive o uditive e, infine, disturbi del sonno, dell’appetito o del comportamento sessuale.

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Oltre a quello cognitivo e a quello comportamentale, un terzo dominio fondamentale da valutare nel paziente affetto da demenza è quello funzionale, che sostanzialmente offre informazioni sul grado di autonomia del soggetto.

Esistono varie scale utilizzabili per valutare il livello di autosufficienza, ma fondamentalmente sono indagate le attività di base (ADL) e quelle strumentali (IADL) della vita quotidiana.

Nelle scale più comunemente utilizzate a questo scopo si definiscono attività di base fare il bagno, vestirsi, pulirsi, spostarsi, essere continente o alimentarsi e attività strumentali usare il telefono, fare acquisti, preparare il cibo, governare la casa, fare il bucato, usare i mezzi di trasporto, essere responsabile nell’uso dei farmaci o essere in grado di gestire il denaro.

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Le demenze possono essere distinte in due grandi categorie: quelle degenerative primarie (tra le quali rientrano l’AD, la malattia con corpi di Lewy, la demenza fronto-temporale e la demenza in corso di altre patologie neurologiche come la malattia di Parkinson o la corea di Huntington) e quelle secondarie ad altri processi patologici (di origine vascolare, endocrino-metabolica, nutrizionale, tossica, tumorale o infettiva), in alcuni casi potenzialmente trattabili e reversibili (depressione, ipotiroidismo e deficit di vitamina B12).

In questo quadro generale, si possono delineare le caratteristiche cliniche principali delle più importanti forme di demenza.

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Le forme neurodegenerative sono caratterizzate da un esordio insidioso, con evoluzione progressiva. L’AD si presenta all’esordio con disturbi prevalentemente mnesici, successiva compromissione di altre funzioni corticali (afasia, aprassia, agnosia) e comparsa di disturbi comportamentali più gravi in fase tardiva, laddove la demenza fronto-temporale si manifesta con precoci disturbi del comportamento e/o del linguaggio e la demenza con corpi di Lewy con frequenti allucinazioni visive, fluttuazioni della vigilanza e sviluppo di extrapiramidalismo.

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La demenza vascolare è caratterizzata da un esordio acuto/subacuto con progressione “a gradini” e sintomatologia variabile a seconda dell’area cerebrale colpita dalla patologia vascolare. Sono però abbastanza comuni quadri clinici in cui la patogenesi, e quindi il quadro clinico, si sovrappongono all’AD.

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La suddivisione del decorso della malattia in fasi ha lo scopo di orientare il medico, il paziente e il caregiver sulle caratteristiche evolutive della malattia al fine di consentire un’adeguata pianificazione dell’assistenza e una maggiore consapevolezza di quanto potrà accadere e come affrontarlo.

Nella fase preclinica, durante la quale ha inizio e si sviluppa in maniera lentamente progressiva la perdita di neuroni, i sintomi non sono ancora manifesti, ma possono già essere presenti alterazioni rilevabili con tecniche diagnostiche (neuroradiologiche e biologiche), la cui utilità clinica necessita, allo stato attuale delle conoscenze, di ulteriore validazione. In questa fase potrebbe essere possibile effettuare interventi terapeutici precoci.

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Con il progredire delle lesioni cerebrali e della patologia iniziano a manifestarsi i sintomi del decadimento cognitivo lieve (mild cognitive impairment, MCI). Si osserva una modesta riduzione delle prestazioni in diverse funzioni cognitive, tipicamente correlate alla memoria, all’orientamento spazio-temporale e alle capacità verbali.

È una situazione frequente nell’anziano e non necessariamente indica la progressione verso la malattia conclamata. In ogni caso è una condizione importante da riconoscere tempestivamente, perché una prevenzione secondaria o un trattamento precoce potrebbe prevenire o rallentare la progressione della malattia.

Se ne distinguono una forma amnesica (aMCI), quando il deficit più evidente è a carico della sola memoria, una non amnesica (naMCI), in cui c’è un deficit selettivo di una funzione cognitiva che non sia la memoria, e una che coinvolge più funzioni cognitive, cioè un multi domain MCI (mdMCI). Questa condizione rappresenta uno stato di rischio, considerando che in presenza di MCI si osserva un tasso di conversione verso la demenza del 5-15%.

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Lo stadio clinicamente manifesto dell’AD è caratterizzato da una sintomatologia di grado lieve, moderato o grave, corrispondente a stati via via più gravi di deficit della memoria prospettica, episodica, semantica e procedurale.

Nella fase intermedia diventano maggiori i disturbi del linguaggio, fino alla completa afasia, e le difficoltà nella gestione di compiti complessi. In fase avanzata si possono manifestare problematiche comportamentali e psichiatriche gravi (confusione, depressione, ansia, a volte allucinazione e deliri).

La sempre maggiore compromissione funzionale può condurre alla necessità di istituzionalizzazione. Il soggetto è completamente dipendente dai caregiver, il linguaggio si riduce a brevi frasi o parole. Spesso predomina l’apatia e si nota una perdita di massa muscolare. La morte di frequente sopraggiunge per stati infettivi o di malnutrizione.

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Le demenze in genere, e l’AD in particolare, sono tra le patologie con i maggiori costi socio-sanitari non solo nei Paesi occidentali, ma ormai in tutto il mondo.

I costi determinati dall’AD sono sia diretti, legati alle cure medico-infermieristiche, ai farmaci, all’ospedalizzazione o all’istituzionalizzazione, sia indiretti, dovuti alla perdita della capacità lavorativa e del ruolo sociale del paziente e del caregiver.

Gli elevati costi per la società sono correlati alla necessità di assistenza a lungo termine, che può aumentare il carico assistenziale del caregiver, esporre ai costi di un’assistenza domiciliare sia privata sia a carico del sistema sanitario o portare all’istituzionalizzazione. Per questo motivo ogni trattamento farmacologico e non farmacologico che determini un rallentamento del declino cognitivo e funzionale può avere rilevanti ricadute economiche.

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Al di là degli aspetti economici, resta l’importante impatto emotivo della patologia sul caregiver principale, solitamente il coniuge o i figli, che spesso patisce problematiche sia fisiche sia psicologiche legate allo stress derivante da questo ruolo.

Un particolare stato di sofferenza del caregiver può inoltre indurre o aggravare i disturbi comportamentali nel paziente a causa di una cattiva relazione interpersonale. Pertanto la terapia della demenza deve sempre prevedere il trattamento e la gestione del possibile burn-out del caregiver.

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