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ASSOCIAZIONE DI VOLONTARIATO - GUBBIO C/O SANTA MARIA AL CORSO
La lettera settimanale di Don A.M.Fanucci 11 novembre 2018 www.ilgibbo.it
CHIESA E POVERI, UN AMORE LUNGO E PROBLEMATICO
(A. M. FANUCCI, PRO MANUSCRIPTO. LEZIONI ALLA LUMSA-GUBBIO, ANNO 1999 )
Cap. 12
Nella chiesa della prima parte del SECOLO BREVE
(1914-1958)
TRE PAPI VENUTI DAL PASSATO (VI)
Don Angelo M. Fanucci, Canonico Penitenziere e Rettore di Santa Maria al
Corso.
Comunità di Capodarco dell’Umbria. Residenza per disabili “Pierfrancesco”,
Via Elba 47, 06024 Gubbio (Pg) 075 922 11 50
XXXII domenica del tempo ordinario 11.11.2018
Gubbio Chiesa S. Maria dei Servi – Sabato 10 novembre 2018 Lectio Divina alle ore 15.30
PIO XI: IL FUTURO È TUTTO NEL PASSATO
EXCURSUS ②: HITLeR SECONdO franco CARDINI:
UNA “RELIGIOSITà” (?) MOLTO … SUI GENERIS
Il grande medievista Franco Cardini 1985 ha scritto su Storia
illustrata un articolo quanto mai acuto e problematico, oltre che
brillante, sul tema delle religiosità di Hitler.
Credeva in Dio, Adolf Hitler?
E se sì, in quale? Intendiamoci, il giudizio sia etico sia storico sul Führer non muta,
qualunque sia la risposta che noi possiamo fornire a una domanda del genere. E tuttavia
sull’uomo Hitler gravano ancora tante incognite al punto che, forse, tale domanda non è
inutile anche al fine di chiarire qualcuno degli equivoci che sul nazionalsocialismo si sono
andati col tempo addensando.
A proposito di Dio, Hitler si esprime in modo differente a seconda che stia dando di
sé l’immagine che vuol presentare ufficialmente nel suo paese e all’estero, oppure che stia
parlando a ruota libera, con franchezza. Se ad esempio si scorrono il Mein Kampf, o i
suoi discorsi. e l’esternazioni sue ufficiali, si è colpiti dalla frequenza con la quale egli
chiama in causa a volte il «Creatore», a volte il «Signore del mondo», la «Provvidenza»:
tutte espressioni che, per quanto generiche, rimandano alla concezione di un Dio
creatore e personale. Insomma, il Dio cristiano. Nel Mein Kampf, Hitler rievoca con
parole commosse la sua infanzia, le sue visite all’abbazia di Lambach, il «signor abate».
Educato nella fede cattolica (al pari del resto di molti capi nazisti, come Joseph
Goebbels), Hitler era d’altronde consapevole di governare un paese a confessione mista,
dove per giunta sia la Chiesa cattolica sia quella evangelico-luterana erano molto forti.
Non aveva quindi nessuna voglia di scatenare un Kulturkampf religioso, e d’altro canto
non perdeva occasione per ribadire che, in materia di fede, egli era favorevole alla più
ampia tolleranza religiosa e che negli stessi ebrei non era certo la religione che egli
intendeva combattere. Concezione liberale, questa sua, del resto più apparente e
ostentata che reale: giacché in effetti lo stato nazionalsocialista mirava al controllo uno
stretto controllo anche sulle Chiese e sui gruppi religiosi. E, quanto agli ebrei,
l’indifferenza rispetto al loro credo non partiva affatto da un qualche riconoscimento del
Dio biblico, ma dal semplice fatto che il nazismo non perdonava agli ebrei di essere
«razzialmente» tali, e riteneva che anche un ebreo convertito restava comunque un ebreo,
quindi un soggetto di discriminazione.
La fede della sua infanzia
Nei confronti del cattolicesimo, Hitler nutriva del resto una sorta di odio-amore. Forse
una certa vaga nostalgia, in quanto si era trattato della fede della sua infanzia; ma
soprattutto un forte fascino, a più riprese confessato) per le cerimonie liturgiche e una
grande ammirazione per la disciplina, la saggezza politica, lo spirito gerarchico che
s‘irradiavano dal soglio pontificio.
Odi et amo
Ma da ciò alla simpatia, la distanza è immensa. Al contrario, Hitler avvertiva bene che
quegli stessi caratteri oggetto della sua ammirazione erano anche altrettanti ostacoli sulla
via del rapporto fra Chiesa romana e stato nazionalsocialista.
Una specie di odi et amo. Quando sentiva di potersi esprimere con libertà (come nelle
cosiddette «conversazioni a tavola» raccolte in testo stenografato nel ‘41-’42) non esitava
ad abbandonarsi a pesanti considerazioni, a viete battute ironiche (non bonarie però, ma
al contrario gonfie di livore) contro la Chiesa cattolica rea di coltivare nei tedeschi uno
spirito undeutsch (non-tedesco), di ostentare la propria eredità spirituale «semitica» che la
accostava agli ebrei e soprattutto di costituire per sua stessa natura una realtà
sovranazionale estremamente pericolosa per la concezione totalitaria dello stato
nazionalsocialista.
Filoprotestante
Hitler, fuori delle occasioni ufficiali, non perdeva occasione, ad esempio, di prendersi
gioco dello spirito religioso che sembrava animare la Spagna uscita dalla guerra civile e
detestava di cuore il generale Franco. Al contrario (e non solo perché luterana era gran
parte del popolo tedesco) egli mostrava maggior rispetto e comprensione per il
protestantesimo, ne sottolineava volentieri i caratteri «nazionali» germanici, osservava
con soddisfazione che le Chiese protestanti erano più malleabili di quella cattolica nei
confronti dello stato totalitario e considerava (l’avevano già fatto Richard Wagner e
prima di lui Thomas Carlyle) Martin Lutero come uno dei più grandi figli della patria
tedesca.
Laico in politica?
Sul piano delle formulazioni politiche, quindi, Hitler si rifugiava apparentemente dietro
una concezione «laica» (del resto condivisa da molti governi europei seguiti alla
rivoluzione francese) dei rapporti fra le Chiese e lo stato. Da una parte, riteneva giusto
accordare una libertà di culto limitata soltanto dal rispetto della legge, dall’altra esigeva
che le autorità ecclesiastiche si astenessero dall’influire in un qualunque modo sulla
politica e ribadiva con fermezza che la fede religiosa doveva restare un problema di
coscienza personale. Posizione coerente moderata solo in teoria: ché, per essere tradotta
in pratica, avrebbe preteso da parte di tute le Chiese il più acquiescente silenzio nei
confronti delle scelte radicalmente anticristiane del nazionalsocialismo (prima fra tutte la
legislazione razzistica) e da parte dei sudditi cristiani del Terzo Reich l’obbedienza a
norme che ferivano le loro coscienze in cambio della libertà di culto esteriore.
O si è cristiani oppure si è tedeschi.
Hitler sapeva bene che tutto ciò era impensabile. A Hermann Rauschning, con il quale
ebbe scambi di vedute di notevole franchezza, egli dichiarava senza ambiguità che non
poteva esservi coesistenza tra «una fede cristiano-giudaica con tutta la sua morale della
compassione» e «una fede energica ed eroica in Dio e nella Natura, nel Dio che esiste nel
suo popolo, nella sua sorte, nel suo sangue stesso». Per cui, «una Chiesa tedesca o un
cristianesimo tedesco sono utopie. O si è cristiani, o si è tedeschi».
Queste dichiarazioni sono molto gravi, se le si considera soltanto a livello politico:
significano che, tra due posizioni entrambe totalizzanti come l’essere fino in fondo
cristiani e l’essere fino in fondo tedeschi (il che per Hitler significava ovviamente essere
nazisti), non poteva esservi un accordo se non apparente e condizionato al cedimento di
uno dei due elementi all’altro.
Il tessuto concettuale che c’è dietro
Ma la gravità delle dichiarazioni di Hitler a Rauschning sta nel loro tessuto concettuale:
molto al di là quindi della politica. La fede cristiana era «semitica», la sua morale della
compassione spregevole. Siamo ben oltre Wagner, il quale alla «compassione» non
avrebbe mai rinunziato; e siamo in un ambito molto diverso anche da certe dottrine
religioso-filosofiche che per la loro origine «ariana» riscuotevano pur da parte di Hitler
una vaga simpatia, come il buddhismo, che sarebbe inimmaginabile senza la morale della
compassione. Potrebbe sembrare che la polemica anticristiana di Hitler si ispirasse a
Nietzsche, ed è senza dubbio così, nelle sue intenzioni: ma si trattava di un Nietzsche
letto frettolosamente e orecchiato.
Ed ecco quindi che, dalle conversazioni con Rauschning e dai «discorsi a tavola», emerge
pian piano il Dio di Hitler. Non era un Dio granché originale: ma certo non aveva nulla a
che fare con il Creatore trascendente che al Führer capitava talora d’invocare.
Un Dio vagamente hegeliano,
Weltgeist, «spirito del mondo». Era un Dio che si manifestava nella «natura», nella
«sorte», nel «sangue» del popolo. Da una parte esso ricordava certe concezioni
settecentesche di marca teistica come l’Ente Supremo di Robespierre (per quanto Hitler
detestasse la Rivoluzione francese); ma, per un altro verso, questo «Dio» era una forza
immanente e panteistica, fusa con la natura e con le sue leggi. E, per Hitler, le «leggi»
fondamentali della natura erano la lotta per la sopravvivenza, la selezione delle specie più
forti, l’organizzazione razziale del «genere umano».
Questa fede cieca nella natura e nelle sue leggi razzisticamente interpretate anima le
convinzioni più ferme di Hitler, ispirate a un darwinismo, sì, abbastanza rozzo ma che
aveva il gran pregio di apparire convincente e di collegarsi a quella continua esaltazione
della scienza che, nel nazismo, convive con il mitologismo nordico e con gli impulsi
atavici.
La propaganda anticlericale
Il movimento nazionalsocialista rifletteva le posizioni del suo capo: ma proiettandole
all’esterno sapeva presentarle con molta abilità, in modo che il braccio di ferro tra stato e
Chiese apparisse sempre come una contingenza politica. Se si ha la pazienza di leggere
gli opuscoli di propaganda diffusi nel e dal partito e diretti in special modo ai giovani, si
troveranno toni anticristiani e anticlericali estremamente grossolani, misti ad attacchi alla
fede, ai misteri, ai sacramenti, ai miracoli, d’uno sconcertante (e spesso ingenuo)
materialismo. Una propaganda che però non figurava mai come veramente appoggiata
dai vertici dello stato e del partito: e, all’interno della stessa Hitlerjugend e perfino delle
S.A., le disposizioni antireligiose venivano affidate a circolari riservatissime.
Quanto al suo programma ufficiale, i famosi «25 punti» della N.S.D.A.P., il partito
nazionalsocialista dichiarava che base per l’appartenere alla comunità popolare
germanica, per l’essere cioè Volksgenosse, era il «sangue tedesco», non la confessione
religiosa. Da parte loro, tutte le confessioni religiose avrebbero dovuto essere libere, a
meno che non mettessero in pericolo l’esistenza dello stato o non urtassero «i sentimenti
di moralità della razza germanica»: il che era una formulazione abbastanza ambigua, che
lasciava aperto il discorso sui «caratteri semitici» del cristianesimo ma non osava
apertamente denunziarli per tema di perdere adesioni e simpatie. Da parte sua, il partito
sosteneva di aderire all’«orientamento di un cristianesimo positivo, senza vincolo con
alcuna determinata confessione». Tale spirito combatteva quello «giudeo-materialistico».
Insomma, formulazioni molto più abili ma anche molto più ambigue di quanto non
possa oggi sembrare. L’espressione «cristianesimo positivo» in sé e per sé non significava
niente, ma faceva pensare a un atteggiamento di sostanziale adesione allo spirito cristiano
quale si era presentato nella storia e la morale del quale era divenuta da secoli la morale
corrente, al di là dei dogmi e delle confessioni. Che un partito laico in un paese a
confessione religiosa mista si dichiarasse al di sopra delle confessioni storiche, sembrava
logico. Che poi combattesse il «giudeo-materialismo» passava come dichiarazione
rassicurante nei confronti dei cristiani: non erano le radici ebraiche del cristianesimo a
venir contestate, bensì quelli che nell’ideologia nazionalsocialista erano gli esiti estremi
dell’ebraismo, vale a dire l’usura, il capitalismo internazionale, il comunismo.
Nella pratica della vita tedesca nel Terzo Reich, l’ambiguità continuava. Il partito e le S.A.
usavano volentieri figure e simboli cristiani nella loro propaganda, e davanti alla grande
croce nella cripta della Feldherrenhalle di Monaco, consacrata alla memoria dei caduti del
Putsch del ‘23, il Führer usava sostare ogni anno in raccoglimento, in una cerimonia
notturna rischiarata dal bagliore delle fiaccole. La stessa liturgia politica del partito, da un
lato ispirata (come ben ha dimostrato George Mosse) alle cerimonie giacobine e alle
celebrazioni delle leghe patriottiche della Germania dell’Ottocento, molto doveva anche
a un cristianesimo magari riletto attraverso il misticismo wagneriano. Ma ciò non
impediva né la propaganda antireligiosa, né le sia pur occasionali violenze nei confronti
di comunità di fedeli, né le persecuzioni contro quella parte del clero cattolico o
evangelico che si dimostrasse meno incline al compromesso.
Gubbio, 6 novembre 2018
don Angelo M. Fanucci, Rettore della Chiesa di S. Maria de’ Servi
LA TEOLOGIA DI PAPA FRANCESCO, 20
LA DEBOLEZZA DI DIO PER L’UOMO
(AL: Amoris Laetitia. EG: Evangelii gaudium;; LS: Laudato si’; MeM: Misericordia et
Miseria; RS: Ratio studiorum)
(EN: Evangelii nuntiandi di S. Giovanni Paolo II. ES: Eserciti Spirituali di S. Ignazio di
Loyola.GS: Gaudium et spes, quarta Costituzione Conciliare del Vaticano II. LG: Lumen
gentium, seconda Costituzione Conciliare del Vaticano II^
Sintesi del pensiero di Papa Francesco riletto da
LUCIO CASULA
LA CRISTOLOGIA DI PAPA FRANCESCO
(Cap. 2: LA CARNE E LA CROCE)
Secondo Papa Francesco la carne e la croce rappresentano i due momenti
fondamentali del mistero di Cristo: l’Incarnazione e la Pasqua. I due poli entro i
quali si compie la missione del Figlio di Dio venuto nel mondo per la salvezza umana.
Tutta l’esistenza terrena di Cristo si è svolta tra l’Incarnazione e la Pasqua.
La carne e la croce sono le componenti necessarie per cogliere la realtà e l’autenticità
dell’incarnazione perché la fede cristiana è fondata sul “Figlio di Dio fatto carne”, sulla
divinità di Cristo e al tempo stesso sulla concretezza umana della sua persona e della sua
storia. Contro quelli che vorrebbero un Cristo puramente spirituale, senza carne e senza croce
{Evangelii gaudium, n. 88), la fede cristiana autentica è incentrata
sulla verità dell suo essere Dio,
sulla verità della sua carne e della sua croce.
“Carne” e “croce”, dunque, nella riflessione di papa Francesco assumono una forte
rilevanza
sul piano teologico,
sul piano spirituale,
sul piano pastorale.
“Carne” e “croce” costituiscono le coordinate che permettono di comprendere l’identità
della persona di Cristo e la sua missione, come anche la vocazione e la missione cristiana.
1. L’INCARNAZIONE
La carne. Una Persona della Trinità, quella Parola divina per mezzo della quale sono state
create tutte le cose, si è fatao CARNE (Gv 1,14): si è inserita come uomo tra gli uomini
nel cosmo creato, condividendone il destino fino alla croce. Dall’inizio mondo, ma
in modo particolare a partire dall’incarnazione, il mistero di Cristo opera
incessantemente, ma in modo nascosto, nell’insieme della realtà naturale, senza per
questo rinunciare alla sua trascendenza.
Dio ha davvero piantato la sua tenda in mezzo a noi (cfr. Gv 1,14): Gesù Cristo, nostro
Signore, del quale, per vocazione, siamo compagni di viaggio, per salvarci si è fatto
davvero “uno dei nostri”; e a convocarci non è soltanto la morte, come vorrebbe una
cristologia riduzionista, perché la morte ci convoca solo in penultima istanza, chi ci
convoca in ultima istanza è la persona stessa di Gesù: Lui che porta all’uomo la vita di
Dio, gliela ridona sempre, quando nasce, quando cresce, insegna, soffre, muore; e
risorge, resta sempre fra noi; e accoglie, ama, perdona..
Modello d’una vita ecclesiale, cioè alternativa
C’è chi la vita la vive chiuso in se stesso; sia nell’atteggiamento neopelagiano, autoreferenziale e
prometeico, facendo affidamento soltanto sulle proprie forze e sentendosi superiore agli altri, in nome di
presunte sicurezze dottrinali o disciplinari. Questo dà luogo ad un elitarismo narcisista e autoritario»
(EG, n. 94). E proprio questo è il pericolo della Chiesa elitaria, caratterizzata da
«funzionalismo manageriale», ma «priva del sigillo di Cristo incarnato, crocifisso e
risuscitato» (EG, n. 95).
S’è fatto uomo “sul serio”
Nel mistero dell’incarnazione il Papa contempla la venuta del Signore nel mondo e il
fatto che Egli “da Creatore è venuto a farsi uomo”:
Da vero figlio di Dio, facendosi uomo si è inserito totalmente nell’umanità, e con questo
non solo è diventato passibile di morte temporale,
ma del suo tempo ha assunto «la cultura, il modo di essere, le categorie del
pensiero, la lingua, i valori, la storia.
È così che “si è schierato dalla parte degli uomini” ”non in modo ideale o
idilliaco, ma in maniera radicale, una volta per tutte, nel mondo reale, anche se
segnato da divisioni, malvagità, povertà, prepotenze, violenze e guerre.
Nell’incarnazione del Figlio, Dio ha voluto condividere la condizione umana fino a farsi
una cosa sola con gli uomini nella persona di Gesù: questo vuol dire l’affermazione che
“Gesù è vero uomo e vero Dio”. S’è fatto uomo “sul serio” e “sul serio” ha assunto la
missione affidatagli dal Padre, portandola a compimento con umiltà, fino ad
“annientarsi”.
S’è fatto uomo sprofondando nell’umanità
Nella cattedrale di Cagliari, parlando ai poveri e ai detenuti, papa Francesco ha detto:
Guardando Gesù noi vediamo che Lui ha scelto la via dell’umiltà e del servizio. Anzi, Lui stesso in
persona è questa via. Gesù non è stato indeciso, non è stato “qualunquista”: ha fatto una scelta e l’ha
portata avanti fino in fondo. Ha scelto di farsi uomo, e come uomo di farsi servo, fino alla morte di croce.
Questa è la via dell’amore: non ce n’è un’altra.
Il modo di essere e lo stile di vita di Gesù possono essere rappresentati pienamente
proprio con le categorie dell’umiltà e del servizio fino alla morte.
E affidandosi
Tutto questo vuol dire anche che la sua vicenda non è stata il compimento di un destino
subito passivamente; Gesù non vive questo amore che conduce al sacrificio in modo passivo o come un
destino fatale; certo non nasconde il suo profondo turbamento umano di fronte alla morte violenta, ma si
affida con piena fiducia al Padre. Gesù si è consegnato volontariamente alla morte per corrispondere
all’amore di Dio Padre, in perfetta unione con la sua volontà, per dimostrare il suo amore per noi: così
Papa Francesco nell’Udienza generale del 27 marzo 2013.
Il suo è un cammino di affidamento fiducioso e di consegna volontaria in risposta
all’amore del Padre. Cristo è venuto nel mondo per fare la volontà di Dio e il suo
sacrificio è diventato causa di giustificazione e di salvezza.
Percorrendo fino in fondo questa strada, il Figlio di Dio ha assunto la “condizione di
servo”, in quell’umiltà che vuol dire anche servizio, vuol dire lasciare spazio a Dio
spogliandosi di se stessi, “svuotandosi”, come dice la Scrittura. “Questo svuotarsi è
l’umiliazione più grande”, così nell’Omelia della Domenica delle Palme, 2015.
20.a continua
***
ALLA RICERCA DELLA TEOLOGIA
CHE MOTIVA E ARTICOLA LA RADICALITÀ
DELL’IMPEGNO CRISTIANO CONTRO L’EMARGINAZIONE
II – 1
di don Angelo M. Fanucci
(II, EMARGINAZIONE E CHIESA)
Se davvero nella nostra società il legame fra handicap ed emarginazione è strutturale, e
chi è portatore di un qualche pesante limite psicofisico è condannato ipso facto alla morte
precoce dell’insignificanza, se davvero l’emarginazione si colloca nel cuore della nostra
cultura moderna, se “emarginato” è e rimane participio passato del verbo emarginare, al
punto da rendere obbligatoria la domanda “Chi, o cosa, e perché qualcuno emargina un
essere umano come lui?”…: se tutto questo è vero, quale coscienza ne ha la Chiesa?
In negativo: esiste qualche Vescovo della Chiesa di Dio o qualche Sacerdote del Dio
Altissimo che venga una volta nella vita sfiorato dal dubbio che, a volte, un certa prassi
di Chiesa sia essa stessa emarginante?
In positivo: nella sensibilità e nella prassi ordinaria della Chiesa quale spazio viene
riservato agli emarginati? Come intende la Chiesa affrontare la lotta contro
l’emarginazione?
Primo passo: noi credenti, che dal Vangelo abbiamo imparato a chiamare i poveri con
nomi diversi (ultimi, deboli, oppressi) oggi dobbiamo imparare a chiamarli con il nome che
ha loro assegnato la storia dei nostri giorni: emarginati.
PRIMA DEL CONCILIO
Di fronte al regolare riproporsi dei tracciati emarginanti, come fa un Cristiano, che sa di
dover riconoscere una sua pienezza di umanità all’embrione appena fecondato, a tollerare
certi eventi.
Più dettagliatamente:
sul piano generale della povertà, come fa un Cristiano a sopportare anche solo
l’idea che l’anno prossimo ancora 30/35 milioni di bambini debbano morire di
fame, e che un miliardi a 100 milioni di persone potranno disporre solo di un
dollaro al giorno?
sul piano specifico dell’emarginazione da handicap, come fa un Cristiano ad
accettare anche solo l’ipotesi che l’esercizio della dignità umana di un ventenne
venga irrimediabilmente compromesso da un tuffo mal eseguito, che lo riduce in
carrozzella?
Il Vangelo ha inoculato nel DNA dei Cristiani la convinzione che la vita è di tutti. Un
sistema di vita che strutturalmente emargina qualcuno è dunque la negazione del
Cristianesimo. Lo scandalo dell’emarginazione avrebbe dovuto diventare provocazione e
stimolo al ripensamento radicale della propria condizione cristiana, come singoli credenti
in Cristo ma soprattutto come comunità, su tutti i piani: sul piano pastorale, sul piano
culturale e sul piano propriamente teologico.
S’è verificato qualcosa del genere?
1 Prima del Concilio: attrezzati e spiazzati
Teoricamente noi Cattolici già prima del Concilio eravamo più che attrezzati per fare
della lotta contro l’emarginazione in ogni sua forma una delle modalità caratteristiche del
nostro essere nel mondo.
Indubbiamente Gesù di Nazareth non è stato l’unico tra i grandi Maestri dell’umanità a
teorizzare la condivisione della vita come antidoto all’emarginazione; a titolo di esempio,
Siddharta Gautama, detto il Buddha, una volta raggiunta l’Illuminazione, e con essa il
diritto di accedere al Nirvana, cioè all’assoluta pienezza dell’Essere1, rinunciò a far valere
questo diritto e restò in terra, perché preso da com-passione2 per lo sterminato mare di
sofferenza e di dolore che colpisce tutti gli esseri senzienti, umani ed extraumani3.
Ma Gesù di Nazareth di questa legge della vita, secondo la quale essa cresce solo a patto
che ci si dimentichi di essa e la si metta a disposizione degli altri, ha fatto il perno della
sua antropologia4.
I seguaci di Cristo erano dunque ben attrezzati per dare il posto che merita alla lotta
contro l’emarginazione, sia sul spiano culturale, sia sul piano teologico (metodo e
contenuti).
1.1 Attrezzati sul piano culturale
Sul piano culturale, per un Cristiano, e tanto più per un Cattolico, non è nemmeno
pensabile una qualche coltivazione del proprio essere seguaci di Cristo (questo vuol dire “cultura
cristiana”, o - meglio - “cultura d’ispirazione cristiana”), senza un preciso, esplicito e
cogente riferimento ai portatori di disagio sociale come referenti privilegiati.
È il riferimento che gioiosamente annuncia il Cantico di Maria, noto come “il
Magnificat”5: dovette essere un inno che veniva cantato nelle piccole comunità ebraiche,
discrete e minoritarie, degli Anawìm, quei “poveri di Israele” che mantenevano intatta la
purezza del Messaggio, mentre Farisei, Sadducei e Zeloti lo violentavano fino a
falsificarlo; giustamente Luca l’ha messo in bocca a Maria, grazie anche alla personale
conoscenza che aveva di Lei.
Nel Magnificat Dio è colui che guarda all’umiltà dei suoi servi, e Colui che spiega la
potenza del suo braccio, disperde i superbi nei pensieri del loro cuore, rovescia i potenti
dai troni, esalta gli umili, ricolma di beni gli affamati: un Dio che non fa tutto questo non
è il Dio di Gesù.
È il riferimento che s’impose nei primissimi tempi, nella Chiesa di Gerusalemme, come
cura delle vedove e degli orfani, o come servizio delle mense6, o come distribuzione dei viveri7, o
1 e non l’annichilimento del nulla, come a volte ci hanno insegnato certi nostri fasulli apologeti 2 non per nulla il suo secondo nome è Il Compassionevole 3 cfr. H. DE LUBAC, Buddismo, in Opera omnia, 1980, VI, vol.21-22, Jaka book 1987 4 È la famosa autopresentazione di Mc 10, 45:Il Figlio dell’uomo non è venuto per mettersi dalla parte di coloro che
sono destinati ad essere sempre e comunque serviti, ma dalla parte di coloro che sono destinati sempre comunque a
servire, e a mettere la sua vita a disposizione di tutti, che sono una moltitudine. Questo versetto identifica uno degli
snodi più fecondi dell’autentico dialogo ecumenico; cfr. E BALDUCCI, L’uomo planetario, ECP, S. Domenico di
Fiesole 1990; R. PANIKKAR, La torre di Babele, ECP....1990 5 Lc 1, 46 - 56 6 At. 6, 1-7 7 così traduce l'edizione della Bibbia in lingua corrente, Nuovo Testamento, LDC-ABU, Torino 1994, 194
anche come amministrazione delle offerte per i poveri8: le forme variarono, ma l’impegno per i
poveri quei primi Cristiani l’intesero come un’istanza primaria, come un tratto
definitorio del proprio essere nel mondo; e quando i primi “sette diaconi” vennero
deputati a questa specifica incombenza, in realtà essi assunsero un ministero che nella
Chiesa strutturata non differisce dal servizio della parola.
Il servizio della parola non è un servizio di serie A, talmente essenziale che gli Apostoli
lo riservano a se stessi, rispetto al servizio della carità che sarebbe un servizio di serie B,
talmente accessorio da poterlo demandare ad altri.
Una distinzione del genere può venire in mente solo a chi deve giustificare la propria
latitanza nei confronti del comando di Gesù, di essere vicini a quei poveri che abbiamo
sempre con noi.
Una distinzione del genere è del tutto assente nella forma mentis degli Apostoli, che
percepiscono come proprio compito solo il servizio9. Servizio della carità, servizio della
parola? Non fa nessuna differenza. L’importanza è quella della centralità del servizio
nell’autocoltivazione
1.2 Attrezzati sul piano del metodo teologico
Sul piano del metodo, i luoghi teologici, cioè i punti di riferimento per chi già alla vigilia
del Concilio voleva fare teologia, si erano moltiplicati, e tutti in direzione di un progetto
di umanità solidale, un disegno di “famiglia umana come casa di tutti”.
La teologia ha i suoi referenti non solo in Cristo e nel suo Vangelo, ma in tutto quanto
nel mondo fermenta di positivo, sia in campo religioso che in campo ampiamente
umano. Non è più possibile fare teologia concentrandosi esclusivamente su Cristo, chiave
e soluzione di tutti i problemi. Pur mantenendo ben fisso l’obiettivo che la giustifica, cioè
quello di motivare il totale affidamento di una persona libera e responsabile a Gesù di Nazareth, dalla
fede creduto Dio-uomo crocifisso e risorto10, la teologia sa che, più che partire da Lui, occorre
arrivare a Lui.
Questo perché oggi chi si avvicina alla teologia - e non si tratta soltanto di coloro che
si preparano al ministero sacerdotale - non è più radicato in una fede che, sorretta da una
ambiente religioso omogeneo, ossia comune a tutti ed evidente per tutti; oggi anche il più giovane
teologo possiede una fede già messa in discussione, niente affatto evidente, che va continuamente
riacquistata e ricostruita, e non deve vergognarsi di questo. Egli può soltanto riconoscere questa
situazione come a lui preesistente, perché egli oggi vive, o addirittura viene da, una situazione
esistenziale che non permette più al Cristianesimo di apparire come cosa ovvia e indiscutibile.
8 R .J. DILLON - J. A. FITZMEIER, in Grande Commentario Biblico, Queriniana 1974, 1098 9 ibid. 10 ibid. 31
Gesù di Nazareth per il Cristiano è pur sempre colui che rivela il vero volto di Dio, ma
oggi il modello teologico, con una gran parte delle filosofia moderna (fenomenologia, esistenzialismo,
personalismo)… deve possedere un’acuta sensibilità dell’unità intrinseca del processo umano vitale
globale, individuale e sociale…; in specie deve avere il senso che la stessa fase “scientifica” della ricerca
(teologica)… è parte intrinseca di un processo più ampio che la precede, l’accompagna e la segue, e in un
cui è conglobata, preorientata e (in parte, anche se non certo totalmente) determinata11
Come dire che alcuni dei tratti essenziali del volto di Cristo vanno attinti altrove, e cioè
o emergono da altre religioni che pur segnate in varia misura da errori…, non
raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini12;
O emergono dai contributi di discipline umane extrateologiche, come la storia,
l’ermeneutica, la filosofia del linguaggio, la psicologia, la filosofia delle religioni,
l’antropologia del sacro13, ecc.
Ebbene, in tutti questi contributi s’impone il progetto ispirato al “volto di Dio nel volto
di ogni uomo”, il progetto di un mondo che appartenga a tutti e dal quale nessuno venga
escluso. Di fronte a questo progetto l’emarginazione appare come una vera e propria
bestemmia.
1.3 Attrezzati sul piano dei contenuti teologici
Sul piano dei contenuti teologici, l’emarginazione da sempre poteva e doveva essere
adottata come una categoria centrale per rileggere l’intera storia della salvezza.
Due sono le categorie di fondo con le quali il Cristiano legge le contraddizioni della
storia:
o la categoria peccato d’origine come rinuncia al protagonismo umano: nel progetto di
Dio l’uomo era destinato ad essere protagonista, non secondo le assurde modalità
che il serpente aveva insinuato con le sue sibilanti calunnie, ma nell’unico modo
che la sua condizione creaturale gli consentiva: non nella falsità di chi si erige a
creatore e autore delle regole del giuoco, ma nella verità di chi il suo esclusivo,
centralissimo ruolo lo trova come interlocutore privilegiato di Dio e come
interprete unico del piano che Dio ha sulla vita e sulla storia; se l’universo è come
un grandioso organo a canne, l’uomo non ne è il costruttore, ma l’organista,
l’unica creatura che sia in grado di suonarlo;
o la categoria peccato d’origine come perdita del centro, che di volta in volta si
ripropone come smarrimento, o come nausea, o come incoerenza, o come
nichilismo, e s’incarna nei fenomeni più apparentemente diversi (alcoolismo,
gregarismo, droga, anticonformismo acritico, piccola e grande delinquenza,...), che
invece sono facce diverse di uno stesso fenomeno: la “perdita del centro”, la
11 C. VAGAGGINI, Teologia, in Nuovo dizionario di teologia a cura di G Barbaglio e S. Dianich, EP 1985, 1670 12 CEI, La verità vi farà liberi, Roma 1995 n. 24; la citazione è dal Decreto Conciliare Nostra aetate n.2 13 cfr. Scienziati e nuove immagini del mondo, a cura di G. Gembillo e M. Calzigna; Marzorati 1994, passim; La
nuova fisica, a cura di Paul Davies, Bollati Boringhieri 1992, passim
sensazione che ha chi sa di avere tutto quello che occorre per essere al centro di
un piano che lo trascende e lo esalta, ma angosciamene è stato espulso dalla sua
originaria, centralissima posizione.
Sul piano teologico, dunque, quella che S. Paolo identifica come “condizione di peccato”
è in realtà al tempo stesso perdita del centro e radicale marginalizzazione dell’uomo.
Quella marginalizzazione dell’uomo all’inizio della storia diventa il typos, la radice e la
fonte prima di tutti gli variegati altri processi emarginanti che gremiscono la sua storia.
Rovesciamo la prospettiva, da negativa a positiva: se la perdita della giustizia originale è il
paradigma di tutte le emarginazioni, il processo grazie al quale l’uomo diventa in Cristo
creatura nuova, e può con pieno diritto affermare che le cose vecchie sono passate, e ne sono nate
delle nuove14, diventa il paradigma di tutte le liberazioni15, delle quali la Lettera ai Romani
descrive la traiettoria essenziale16, quel recupero della giustizia originale che reimmette
di nuovo l’uomo al centro della storia.
Sono le “parole di Dio, vive, eterne” ed efficaci. Cinque parole, che innervano la Lettera
ai Romani:
1. il riconoscimento del primato dell’amore di Dio17,
2. il riconoscimento dell’universale situazione di peccato nella quale versiamo
noi come tutti gli uomini18,
3. la volontà di appropriarsi della “giustizia di Cristo19,
4. la lotta interiore per mantenersi alla sua altezza20,
5. un personale, fiducioso, adorante atteggiamento filiale nei confronti del
Padre tramite lo Spirito21.
Questa è la spina dorsale di un cammino di liberazione realizzato in tutta la sua pienezza.
Certo, esiste il pericolo che quelle cinque parole vengano lette in chiave spiritualista
ispirata alla grecità ellenizzante, come se esse riguardassero esclusivamente la
maturazione della coscienza, ma questo sarebbe del tutto arbitrario se si pensa alla
cultura ebraico/farisaica del loro autore.
Per Paolo di Tarso, ebreo fino in fondo e orgoglioso di esserlo, quelle parole mantengono
intatto l’orizzonte della salvezza come orizzonte concreto, visibile e tangibile, riferito alle creature,
14 2Cor. 5, 17 15 E sul come superare la “condizione di peccato” si snoda tutta intera la Lettera ai Romani, che l’Apostolo scrive
non a beneficio di un congresso internazionale di teologia, ma per un piccolo gruppo di persone di condizione sociale
medio/ bassa, quando non infima, semplici e illetterate: per Paolo sono proprio essi il “popolo dei santi e amati da Dio
che è in Roma” , ad essi egli intende offrire “un qualche dono spirituale, perché ne fossero rinfrancati nella comune
fede. 16 R. CANTALAMESSA, La vita nella Signoria di Cristo, Ancora 1994, passim 17 Rm 1, 16-17 18 Rm 3, 9-18 19 Rm 3, 21-26 20 Rm.7, 14-25 21 Rm.8, 1-28
all’esistenza, alla corporeità22. Certamente il cammino di liberazione fa perno sulla
coscienza, ma riguarda tutta la vita, tutta intera la condizione umana, la “carne” intesa in
tutta la sua concretezza e pesantezza.
Grazie a quelle cinque parole l’uomo esce dai mille possibili condizionamenti che lo
minacciano e si libera dalle mille emarginazioni che ne umiliano l’umanità vera
22 S. QUINZIO, La sconfitta di Dio, Adelphi 1992, 28