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VITTORIA CALABRÒ STORIA DI UN CONTRASTATO TRAMONTO: LA LEGGE ABROGATIVA DELLA CAUSA D’ONORE E DEL MATRIMONIO RIPARATORE SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. La ragazza «che rifiutò il matrimonio riparatore»: storia di una scelta niente affatto “normale” nella Sicilia degli anni Sessanta. — 3. Tra Otto e Novecento: la normativa italiana su delitto d’onore e matrimonio riparatore. — 4. Il codice penale Rocco e la “tutela” dell’onore. — 5. 1966-1968: le proposte del mini- stro Reale per la modifica dell’art. 587 c.p. — 6. 1977-1981: il lungo e complesso iter di approvazione della legge abrogativa della causa d’onore e del matrimonio riparato- re. — 7. Aprile-agosto 1981: l’epilogo. 1. Premessa. La cerimonia svoltasi al Quirinale l’8 marzo 2014 in occa- sione della Giornata Internazionale della Donna è stata dedica- ta a tutte le attività volte a contrastare le condizioni di oppres- sione femminile nel mondo, oltre che, come ha ribadito nel suo intervento il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, alle conquiste per «affermare diritti e libertà» ( 1 ). ____________ ( 1 ) È quanto si legge nell’Intervento del Presidente Napolitano alla Giornata Internazionale della Donna. All’indirizzo http://www.quirinale.it/elementi/Continua.aspx?tipo=Discorso &key=2842, il testo del discorso è consultabile on-line. Per un’analisi della condizione femmi- nile nel mondo si rinvia a Il libro nero della donna. Violenze, soprusi, diritti negati, a cura di C. O- CKRENT, con una Prefazione di B. POLLASTRINI, Milano, Cairo, 2007. Per un quadro d’insieme dei provvedimenti a favore delle donne adottati in Italia nel periodo compreso tra il 1950 ed il 2012 si veda, fra gli altri, il volume Le leggi delle donne che hanno cambiato l’Italia, a cura della

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VITTORIA CALABRÒ

STORIA DI UN CONTRASTATO TRAMONTO:

LA LEGGE ABROGATIVA DELLA CAUSA D’ONORE E DEL MATRIMONIO RIPARATORE

SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. La ragazza «che rifiutò il matrimonio riparatore»: storia di

una scelta niente affatto “normale” nella Sicilia degli anni Sessanta. — 3. Tra Otto e Novecento: la normativa italiana su delitto d’onore e matrimonio riparatore. — 4. Il codice penale Rocco e la “tutela” dell’onore. — 5. 1966-1968: le proposte del mini-stro Reale per la modifica dell’art. 587 c.p. — 6. 1977-1981: il lungo e complesso iter di approvazione della legge abrogativa della causa d’onore e del matrimonio riparato-re. — 7. Aprile-agosto 1981: l’epilogo.

1. Premessa.

La cerimonia svoltasi al Quirinale l’8 marzo 2014 in occa-sione della Giornata Internazionale della Donna è stata dedica-ta a tutte le attività volte a contrastare le condizioni di oppres-sione femminile nel mondo, oltre che, come ha ribadito nel suo intervento il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, alle conquiste per «affermare diritti e libertà» (1). ____________

(1) È quanto si legge nell’Intervento del Presidente Napolitano alla Giornata Internazionale della Donna. All’indirizzo http://www.quirinale.it/elementi/Continua.aspx?tipo=Discorso &key=2842, il testo del discorso è consultabile on-line. Per un’analisi della condizione femmi-nile nel mondo si rinvia a Il libro nero della donna. Violenze, soprusi, diritti negati, a cura di C. O-CKRENT, con una Prefazione di B. POLLASTRINI, Milano, Cairo, 2007. Per un quadro d’insieme dei provvedimenti a favore delle donne adottati in Italia nel periodo compreso tra il 1950 ed il 2012 si veda, fra gli altri, il volume Le leggi delle donne che hanno cambiato l’Italia, a cura della

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Alla presenza del Presidente del Senato Pietro Grasso, del-la Presidente della Camera Laura Boldrini e del Presidente della Corte Costituzionale Gaetano Silvestri, il Capo dello Stato ha consegnato le onorificenze dell’Ordine al Merito della Repub-blica Italiana: fra le donne insignite del titolo di Grande Ufficia-le anche la signora Franca Viola, la siciliana originaria di Alca-mo che, nel 1965, si era opposta alla celebrazione di un matri-monio “riparatore”. Il suo «coraggioso gesto di rifiuto», ben presto imitato anche da altre giovani, l’avrebbe resa, suo mal-grado, un’icona del femminismo, al punto da rappresentare, co-sì come si legge nella motivazione del prestigioso riconosci-mento, «una tappa fondamentale nella storia dell’emancipa-zione delle donne» italiane (2).

A partire da quella vicenda, infatti, avrebbe preso avvio un lento ma inesorabile processo di cambiamento che, scardinan-do un certo tipo di cultura e di costume radicati prevalentemen-te in alcune regioni dell’Italia meridionale (ma non solo), a-vrebbe favorito l’adozione di una serie di provvedimenti nor-mativi di particolare rilevanza politico-sociale. Tra questi, l’abolizione, nel 1981, del matrimonio riparatore e della causa d’onore, introdotti nell’ordinamento italiano dal codice penale approntato, nel 1930, dal regime fascista.

Nelle pagine che seguono tenteremo di ripercorrere le diffi-cili tappe di quel processo soffermandoci, in particolare, a rico-struire il complesso dibattito maturato all’interno del Paese e del Parlamento in occasione dell’iter di approvazione di quel prov-vedimento. ____________

fondazione Nilde Iotti, Roma, Ediesse, 2013. Sul punto si vedano anche M.A. COCCHIARA, Alla ricerca delle radici storiche della violenza di genere e dei modi per contrastarla, in Noi accadiamo dentro le storie. Donne, politica e istituzioni, a cura di A. Cammarota e T. Tarsia, Roma, Aracne, 2011, pp. 15-39; EAD., Il diritto e la violenza. Le tappe di una lentissima evoluzione, in «inGenere», 25 novembre 2013, in http://ingenere.it/articoli/il-diritto-e-la-violenza-le-tappe-di-una-lentissima-evoluzione; EAD., Le radici storico-giuridiche della violenza sulla donne e la pluralità delle forme di contrasto, in «AIF@Learning News», 12 (2013), pp. 1-5, che si legge in http://associazioneitalianaformatori.it/download/ LN1213 ViolenzaCocchiara.pdf.

(2) La citazione è tratta dal Comunicato ufficiale approntato dalla Presidenza della Re-pubblica in occasione della Giornata Internazionale della Donna, l’8 marzo 2014, in http://www.quirinale.it/elementi/Continua.aspx?tipo=Comunicato&key=16286.

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E per farlo non possiamo che prendere le mosse proprio dalla storia di Franca Viola.

2. La ragazza «che rifiutò il matrimonio riparatore»: storia di una scel-ta niente affatto “normale” nella Sicilia degli anni Sessanta.

La mattina del 26 dicembre 1965, due automobili si arre-stano di colpo davanti al civico n. 41 di via Arancio, ad Alcamo, grosso centro a poche decine di chilometri da Trapani: un gruppo di giovani scende dalle vetture e, dopo aver sparato in aria alcuni colpi di pistola e sfondato la porta d’ingresso, entra in casa. Nel volgere di pochi minuti il gruppo si allontana dall’appartamento trascinando a forza una ragazza che grida e si dimena: in una piovosa mattina di fine dicembre ha, così, inizio la storia della non ancora diciottenne Franca Viola, rapita dal suo ex fidanzato Filippo Melodia che, stando alle testimonianze del tempo, «apparteneva a una banda di giovani mafiosi che in-cominciavano allora la loro carriera» (3).

Una storia che si dipana nel contesto peculiare della Sicilia della metà degli anni Sessanta in cui, secondo quando sostiene Giuseppe Giarrizzo,

la politica e le sue istituzioni […] non interpretano più l’inquieta cre-scita della società isolana. L’egemonia della città, e l’attivo mercato e-dilizio attraggono dalla campagna in lento riordino strutturale […] forza lavoro “inferiore”; ma l’industrializzazione tarda, e la piena oc-

____________

(3) È quanto riporta L. MADEO, Franca Viola, la rivincita della «svergognata», in “La Stampa”, 15 agosto 1992, p. 15. Per una dettagliata ricostruzione di quella vicenda cfr. G. ROVERA, Delitto d’onore, con una Introduzione di F. BARBANO, Torino, ERI Edizioni RAI, 1984, pp. 35-38. Sul punto si vedano anche E. DONI-M. FUGENZI, Il secolo delle donne, Roma-Bari, Laterza, 2001, p. 84; M. BONESCHI, Di testa loro: dieci italiane che hanno fatto il Novecento, Milano, Mondadori, 2002, pp. 275-296; M.P. DI BELLA, Dire o tacere in Sicilia. Viaggio alle radici dell’omertà, Roma, Armando, 2011, pp. 167-186; B. MONROY, Niente ci fu, Molfetta, la Meridiana, 2012; P. BUSOLO, Franca Viola, in Enciclopedia delle donne, in http://www.enciclopediadelledonne.it/index.php?azione=pagina &id=961. Utili indicazioni si leggono anche nell’intervista concessa da Franca Viola a Riccardo Vescovo il 17 gennaio 2006; un riferimento in http://www.palermo24h.com/index.php?option=com_k2&view =item&id=4733:una-cosa-chiamata-ragazza-franca-viola&Itemid=32.

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cupazione – che rimane l’obiettivo di ogni piano di sviluppo – non ispira certo la politica della spesa pubblica che la struttura del potere regionale è fatta quasi apposta per disperdere verso punti di attrazio-ne creati dai mutevoli “accordi politici” (4). Una realtà assai singolare, dunque, quella siciliana, in cui il

modello dell’autonomia previsto dallo Statuto Regionale, entrato in vigore il 15 maggio 1946, sembra esser già naufragato a causa, principalmente, dell’incapacità della classe politica isolana di av-viare processi di sviluppo economico-sociale, e in cui si assiste, inoltre, alla crescente affermazione del fenomeno mafioso (5).

La polizia avvia subito le ricerche della giovane che viene liberata, non senza resistenze da parte dei rapitori, il 2 gennaio 1966. Mentre Franca fa ritorno a casa dai suoi genitori, Filippo viene tradotto in carcere con l’accusa di rapimento e violenza carnale. Non sembra, tuttavia, preoccupato più tanto, anzi è convinto del fatto suo: ha “disonorato” Franca (la convivenza forzata non lascia alcun dubbio in merito) ed è sicuro di uscire di prigione in poco tempo. I suoi parenti, infatti, hanno presen-tato alla famiglia Viola la “consueta” offerta di matrimonio “ri-paratore” che, ai sensi dell’art. 544 c.p., estinguerà i reati di cui è stato accusato (6). ____________

(4) Così G. GIARRIZZO, Sicilia oggi (1950-86), in La Sicilia, a cura di M. Aymard e G. Giarrizzo, Torino, Einaudi, 1987, pp. 601-696: la citazione è a p. 639. Per un quadro delle vicende siciliane del tempo si veda, da ultimo, anche L. CHIARA, La Sicilia e la modernizzazione incompiuta (1880-1960), in La Sicilia nel secolo breve. Modernità e sottosviluppo, a cura di L. Chiara, L. D’Andrea e M. Limosani, Milano, Giuffrè, 2013, pp. 5-127, in particolare pp. 79 ss.

(5) Cfr. sul punto le riflessioni di GIARRIZZO, Sicilia oggi, cit., pp. 637-642. Sullo Statuto della Regione Siciliana si vedano A. ROMANO, Influenze costituzionali spagnole sul costituzionalismo italiano: la genesi dello Statuto della Regione siciliana, in The Spanish Constitution in the European context, edited by F. Fernandez Segado, Madrid, Dykinson, 2003, pp. 2243-2267; D. NOVARESE, Per una storia della Regione Siciliana. La stagione separatista e il progetto autonomistico, in Donne, politica e istituzioni. Percorsi, esperienze e idee, a cura di M.A. Cocchiara, Roma, Aracne editrice, 2009, pp. 423-429; EAD., Alle origini della Regione Siciliana, in «Segno», 312 (2010), pp. 33-44; A. ROMANO, Lo Statuto Regionale Siciliano di autonomia speciale nel contesto dell’evoluzione politico-istituzionale dello Stato italiano, in «Iura Vasconiae», 7 (2010), pp. 387-404; L. D’ANDREA, Lo Statuto Siciliano tra Assemblea Costituente e processi di attuazione, alla luce del principio di sussidiarietà, in La Sicilia nel secolo breve, cit., pp. 195-271.

(6) «Art. 544 – Causa speciale di estinzione del reato – Per i delitti preveduti dal capo primo e dall’articolo 530, il matrimonio, che l’autore del reato contragga con la persona offesa, estingue il

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Ma le cose non vanno esattamente come Filippo e la sua famiglia hanno immaginato e la storia prende una piega diversa.

Il signor Bernardo, padre di Franca, si comporta, infatti, in modo decisamente insolito: dopo aver ricevuto la proposta dei Melodia, chiede alla figlia se intenda o meno sposare il suo rapi-tore per “riconquistare” la stima dei suoi compaesani, per riap-propriarsi, cioè, del suo “onore”, termine che, pur di non facile definizione sia sotto il profilo semantico che giuridico (7), ac-quisisce grande rilevanza per il riconoscimento sociale degli in-dividui all’interno di una comunità (8).

E, al rifiuto della ragazza («non sono proprietà di nessuno, nessuno può costringermi ad amare una persona che non ri-spetto, l’onore lo perde chi fa certe cose, non chi le subisce» (9), sosterrà nei giorni successivi al suo ritorno a casa), prende una decisione che, fino a quel momento, nessun padre siciliano ha mai preso: non darà sua figlia in sposa a chi, per averla, è ricor-so alla violenza e, soprattutto, non vendicherà, secondo un co-____________

reato, anche riguardo a coloro che sono concorsi nel reato medesimo; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali» (Codice penale del Regno d’Italia. Testo definitivo approvato con Regio Decreto 19 ottobre 1930, n. 1398, Napoli, Pietrocola, 1934 – Anno XII, p. 140).

(7) Cfr. sul punto quanto sostiene M. LIOTTA, voce Onore (diritto all’), in Enciclopedia del diritto, vol. XXX, Milano, Giuffrè, 1980, pp. 202-209, in particolare p. 203: «Secondo la prevalente dottrina il termine “onore” può essere adoperato in una triplice accezione: come intimo valore morale della persona; come coscienza dalla propria dignità; come stima dei terzi».

(8) Sul punto si vedano le riflessioni di C. POVOLO, Introduzione, in «Acta Histriae», 8.1 (2000), pp. XIX-XXXVI (Onore: identità e ambiguità di un codice informale (area mediterranea – secc. XII-XX). Atti del convegno internazionale. Capodistria, 11-13 novembre 1999): «La definizione del concetto d’onore è dunque strettamente collegata alla struttura sociale esistente, alle sue gerarchie e ai valori che queste ultime ritengono fondamentali per il mantenimento degli equilibri di potere […] L’ambiguità del codice d’onore si riflette innanzi tutto sul piano semantico. In quasi tutte le lingue europee infatti il termine onore esprime una sostanziale dualità di significati. Da un lato l’onore di un individuo è ricollegato alla sua condotta virtuosa, alla sua capacità di aderire a valori e comportamenti riassumibili in una sorta di codice non scritto che esprime la cultura ideale di una determinata società. Dall’altro, invece, il concetto d’onore di un individuo è strettamente associato al gruppo di appartenenza, alle gerarchie sociali che ne definiscono il ruolo e la funzione. Onore, in definitiva, riferibile sia a valori etici o morali, ma anche a criteri distintivi del gruppo di appartenenza. È evidente che tale dualità è molto spesso percepibile solo alla luce delle relazioni personali e familiari esistenti sia tra i diversi ceti sociali che all’interno di ciascun ceto». La citazione si trova alle pp. XIX-XX.

(9) La citazione è tratta da MADEO, Franca Viola, la rivincita della «svergognata», cit.

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stume largamente diffuso, l’onore “offeso” della sua famiglia con un omicidio.

Franca e Bernardo, dunque, dicono un doppio no: alla fa-miglia Melodia (e con loro ai potenti signori locali con cui gli stessi Melodia sono imparentati) e ad una secolare ma “barba-ra” tradizione in base alla quale, per riscattare l’onore perduto, giovani ma sfortunate ragazze sono costrette a sposare l’autore della violenza o, in casi estremi, obbligate al suicidio, all’infan-ticidio o all’uccisione del seduttore (10).

I Viola, invece, desiderano solo che la giustizia segua il suo corso. Nonostante le intimidazioni subite (un incendio distrug-ge l’orto e la casa colonica di loro proprietà) e l’isolamento in cui si ritrovano a vivere (sono in molti, in paese, a ritenere che Franca debba accettare la proposta di matrimonio per mante-nere «l’onorabilità delle ragazze della provincia» (11)), tengono fede alla loro decisione, costituendosi parte civile.

Il processo contro Filippo Melodia e i suoi complici si ce-lebra a Trapani e ha inizio il 9 dicembre 1966. Assistita da un pool di quattro avvocati (Ludovico Corrao (12), Alberto Dal-____________

(10) Alcuni di questi casi vengono dettagliatamente analizzati da ROVERA, Delitto d’onore, cit.

(11) «Franca Viola non tiene affatto alla “riparazione” tradizionale, non vuole in nessun modo legare la propria vita con quella del giovane boss di Alcamo. E la buona società del Trapanese si scandalizza: ma come, dicono, allora è una donna di strada! Si faccia sposare, mantenga l’onorabilità delle ragazze della provincia, o l’uccidiamo»: è quanto si legge nell’articolo P.M. all’attacco al processo Viola, in “l’Unità”, 14 dicembre 1966, p. 5.

(12) Avvocato e pubblicista, Ludovico Corrao (Alcamo, 26 giugno 1927-Gibellina, 7 agosto 2011) viene eletto alla Camera dei Deputati come indipendente nelle liste del PCI (IV Legislatura) e al Senato (V, VI, XII e XIII Legislatura) con la Sinistra Indipendente e con il PDS. Più volte sindaco del comune di Gibellina, si prodiga per la ricostruzione della città distrutta dal terremoto che nel 1968 colpisce la valle del Belice. Presidente della fondazione “Orestiadi” di Gibellina, viene assassinato nella sede della stessa fondazione da Saiful Islam, un bengalese suo dipendente. Sulla sua attività politica si vedano le schede approntate sul sito dell’archivio storico della Camera dei Deputati, in http://storia.camera.it, ad indicem. Per alcune indicazioni biografiche si vedano Gibellina, ucciso a coltellate l’ex parlamentare Corrao, in Giornale di Sicilia.it, 7 agosto 2011, in http://www.gds.it/gds/sezioni/cronache/dettaglio/articolo/gdsid/168112/; A Gibellina Ludo-vico Corrao ucciso a coltellate, in Giornale di Sicilia.it, 7 agosto 2011, in http://www.ilgiornale.it/ news/gibellina-ludovico-corrao-ucciso-coltellate-presopre sunto.html; Ucciso il sindaco del dopo-sisma, in la Repubblica Palermo.it, in http://palermo.repubblica.it/cronaca/2011/08/07/news/ ucciso_a_gibellina_ex_parlamentare_pci20134618/.

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l’Ora (13), Cristoforo Fileccia (14) e Antonino Varvaro (15)), la famiglia Viola, che viene anche minacciata di morte (16), sente, forse per la prima volta, di non essere da sola: i quotidiani locali e nazionali riservano, infatti, ampio spazio alla cronaca di quel-lo che viene definito «un “processo d’onore” alla rovescia» (17) e l’eco di quanto accade in tribunale colpisce fortemente l’opinione pubblica, che sembra percepire l’importante cam-biamento socio-culturale che si sta registrando nell’Isola, cam-biamento che vede contrapposte, secondo quanto scrive, ad e-sempio, il giorno prima dell’inizio del processo il corrisponden-te a Palermo del quotidiano torinese “La Stampa”, la «Sicilia

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(13) Su Dall’Ora (Verona, 1923-Milano, 1988), abile penalista, editorialista de “Il Corriere della Sera” e libero docente di Diritto penale presso l’Ateneo di Milano, si veda L. LUPÁRIA, Dall’Ora Alberto, in Dizionario biografico dei giuristi italiani (XII-XX secolo), diretto da I. Birocchi, E. Cortese, A. Mattone, M.N. Miletti, 2 voll., Bologna, il Mulino, 2013, vol. I, p. 658.

(14) Brevi note su Cristoforo “Nino” Fileccia (Alcamo, 1922-Palermo, 2012), decano dei penalisti palermitani, difensore del boss Totò Riina e di Carmela De Rosa, madre del “bandito” di Montelepre Salvatore Giuliano, si leggono sul sito della Camera Penale di Palermo “Girolamo Bellavista”, in http://www.camerapenaledipalermo.com/documentoTe sto.aspx?doc_id=226. Alcune notizie anche in http://livesicilia.it/2012/08/29/morto-nino-fileccia-decano-dei-penalisti-palermitani_180632/, oltre che su http://ricerca.repubbli- ca.it/repubblica/archivio/repubblica/2012/09/05/cristoforofileccia.html.

(15) L’avvocato Antonino Varvaro (Partinico, 25 ottobre 1892 – Palermo, 9 agosto 1972) è tra i fondatori del Movimento Indipendentista Siciliano (di cui sarà, fino al febbraio del 1947, anche segretario generale), all’interno del quale rappresenta, insieme ad Antonio Canepa, l’area di sinistra. Deputato costituente nelle fila del MIS, nel 1951 (II Legislatura) viene eletto all’Assemblea Regionale Siciliana con il Blocco del Popolo e, successivamente, dal 1955 al 1959 (per la III, IV e V Legislatura), con il PCI. Sul punto si vedano la schede approntate sul portale storico della Camera dei Deputati, in http://storia.camera.it/deputa- to/antonino-varvaro-18921025/gruppi#nav, e sul sito dell’Assemblea Regionale Siciliana, in http://www.ars.sicilia.it/deputati/default.jsp, ad indicem.

(16) Si veda, a questo proposito, la dichiarazione resa da Bernardo Viola al Comandante della Compagnia dei Carabinieri di Alcamo due giorni prima dell’inizio del processo e riportata nell’articolo intitolato Minacciata di morte la ragazza che rifiutò il matrimonio riparatore, in “l’Unità”, 12 dicembre 1966, p. 2: «mi hanno fatto sapere che se gli attuali imputati saranno condannati, vi andrà di mezzo la testa mia o quella di mia figlia».

(17) «Potrebbe essere considerato, questo, un “processo d’onore” alla rovescia, rispetto a quelli celebrati per giudicare chi l’onore crede di poterlo vendicare da sé. Franca Viola […] rifiutato il “matrimonio riparatore”, esclusa la “vendetta d’onore” – le strade che si era abituati a considerare, nell’ambiente siciliano, le più seguite – ha chiesto giustizia secondo la legge»: così La cittadinanza di Alcamo solidale con Franca Viola, in “l’Unità”, 16 dicembre 1966, p. 5.

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“profonda” e quella nuova e vitale capace di smontare i più vec-chi e rispettati tabù» (18).

Un cambiamento di cui sono anche espressione, così come emerge da un’inchiesta condotta nei giorni dell’udienza, le gio-vani siciliane intervistate a Palermo, tutte concordi nel dire di no alla violenza, all’antica concezione dell’onore e al matrimo-nio riparatore, tutte decise, «malgrado dubbi e incertezze [...] a camminare coi tempi» (19).

E gli attestati di solidarietà a Franca non tardano ad arriva-re. Tra questi anche quello di un gruppo di parlamentari: Maria Lisa Cinciari Rodano e Nives Gessi, a nome delle deputate e delle senatrici del Partito Comunista Italiano, inviano un tele-gramma in cui esprimono ammirazione per la battaglia civile in-trapresa dalla ragazza e dalla sua famiglia a difesa della dignità, dei diritti e delle libertà delle donne (20).

Intanto, l’attesa per la sentenza, che dovrebbe portare alla «giusta condanna» (21) di quanti sono implicati nella vicenda, cresce sia a Trapani che nel resto del Paese.

Il 17 dicembre 1966 Filippo Melodia, riconosciuto colpe-vole di violenza carnale, ratto a fine di matrimonio, violazione

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(18) F.D., Violentò una ragazza per sposarla dopo averla rapita con 12 complici, in “La Stampa”, 9 dicembre 1966, p. 13. Molto simili anche le riflessioni di G. GUIDI, Chiesti 23 anni per il giovane che rapì e violentò la ragazza: domani la sentenza, in “La Stampa”, 16 dicembre 1966, p. 15, che scrive: «In tribunale […] si sono trovate di fronte due Sicilie: quella antica e tradizionalista di chi sostiene e giustifica in un certo senso il Melodia (per il quale il P.M. ha chiesto mercoledì la pena di 22 anni e 10 mesi); quella nuova e moderna, pronta ad accettare le critiche e a sbarazzarsi di ogni bardatura medioevale di chi, invece, si è schierato dalla parte della bruna, timida ma decisa ragazza di Alcamo e di suo padre Bernardo, un sanguigno contadino che si è rivolto ai carabinieri per non soggiacere a una sopraffazione». Sul punto si veda anche l’articolata analisi di M.A. COCCHIARA, Violenza sessuale: storia di un crimine, storia di una legge, in questo stesso volume, p. ***.

(19) Si veda, a questo proposito l’inchiesta di G. FRASCA POLARA, Palermo: come le ragazze giudicano il “caso Viola”. La forza di dire no, in “l’Unità”, 18 dicembre 1966, p. 13.

(20) «Deputate e senatrici comuniste con ammirazione solidarizzano vivamente sua grande e coraggiosa battaglia civile per affermazione dignità e libertà della donna et nuovo costume Sicilia democratica»: il testo del telegramma è riportato in Le parlamentari del PCI solidali con la Viola, in “l’Unità”, 17 dicembre 1966, p. 5.

(21) Così G. GUIDI, La Parte Civile chiede una “giusta condanna” del giovane che rapì e violentò la diciottenne. Cominciate le arringhe al processo di Trapani, in “La Stampa”, 14 dicembre 1966, p. 15.

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di domicilio pluriaggravata, lesioni pluriaggravate, danneggia-mento, pascolo abusivo e tentativo di violenza privata, viene condannato a undici anni di carcere. Mentre sette dei suoi com-plici dovranno scontare quattro anni e otto mesi di reclusione per averlo coadiuvato durante il rapimento, gli altri sei, invece, ven-gono assolti per insufficienza di prove (22). Nel luglio dell’anno successivo, negando le attenuanti generiche agli imputati, la Corte d’Appello di Palermo inasprisce tutte le condanne (23).

La sentenza non spegne, però, i riflettori sulla vicenda che continua a rimanere al centro dell’attenzione, suscitando, nel-l’opinione pubblica, reazioni contrapposte. A quanti ritengono che la pena inflitta al Melodia ed ai suoi complici sia sostan-zialmente equa e mite, si affianca chi la ritiene (sono in pochi in verità) troppo severa.

A commentare la sentenza anche lo scrittore Leonardo Scia-scia che non esita ad individuare nello Stato italiano e nella legi-slazione vigente gli altri imputati della vicenda, quelli che, però, a dispetto di tutto e tutti, sono riusciti a farla franca: sotto accusa, in particolare, l’art. 544 c.p. che, a suo modo di vedere, ha rap-presentato, per il Melodia ed i suoi complici, un sorta di “istiga-zione a delinquere”. Il giudizio di Sciascia nei confronti di un Paese che continua a mantenere in vigore «leggi ipocrite e assur-de» è, pertanto, un giudizio senza appello: «La correità morale dello Stato in ogni reato di questo tipo è evidente e continua» – avrebbe affermato lo scrittore racalmutese in un’intervista pub-blicata sul quotidiano “l’Unità” qualche giorno dopo la pronun-cia della sentenza – aggiungendo di seguito «per cui la solidarietà che i rappresentanti dello Stato elargiscono alle vittime, è qualche cosa di grottesco, oltre che di ipocrita e mistificatore» (24).

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(22) Il resoconto della sentenza si legge in Undici anni al rapitore di Franca Viola, in “l’Unità”, 18 dicembre 1966, pp. 1-2.

(23) Sul punto si veda F.D., Aumentata da 11 a 13 anni la pena per il siciliano che rapì Franca Viola, in “La Stampa”, 11 luglio 1967, p. 5.

(24) La citazione è tratta da G.F.P., Leggi assurde: un “sì” farebbe liberi i rapitori di Franca Viola, in “l’Unità”, 20 dicembre 1966, p. 5.

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Per contro, l’ambiente ecclesiastico locale mantiene un at-teggiamento evasivo, invitando i sacerdoti a non rilasciare di-chiarazioni e commenti sull’argomento (25). Un atteggiamento che sembra avallato, a livello nazionale, dal disinteresse della stampa cattolica.

Intanto Franca e i suoi familiari, che per decisione del que-store di Trapani vengono sottoposti, per motivi precauzionali, ad una stretta sorveglianza da parte di agenti di P.S. e carabinieri (26), cercano di continuare la loro vita di sempre. Ma non sanno ancora che il loro esempio sarà presto imitato.

Qualche giorno dopo la fine del processo, infatti, un’altra ra-gazza siciliana, Mattea Ceravolo, rapita e segregata per cinque giorni in uno sperduto casolare, fa arrestare l’ex fidanzato Andrea Virtuoso con l’accusa di ratto, violenza e sequestro di persona: anche in questo caso, sarà la famiglia a sostenere la ragazza nella sua non facile scelta: «mia figlia è libera di decidere. In ogni caso l’aiuteremo», dirà il padre di Mattea dopo il suo ritorno a casa (27).

Ben presto Franca e Mattea diventano due «eroine», sim-bolo di quella che viene definita la «moderna Sicilia» in cui si registra, dopo quelle vicende, il progressivo sgretolamento di alcuni tabù e modelli di comportamento profondamente radica-ti, fino a quel momento, soprattutto nelle classi meno abbienti, da sempre abituate al lavoro e alla fatica e a piegarsi, loro mal-grado, alla volontà di potenti e prepotenti (28). Un importante cambiamento di mentalità testimoniato dal numero sempre ____________

(25) Ibidem. (26) Sul punto si veda G.F.P., Stretta vigilanza per Franca Viola, in “l’Unità”, 28

dicembre 1966, p. 5. (27) Per un quadro dettagliato della vicenda, si rinvia a Rapita dall’ex fidanzato una

ragazza di Salemi, in “l’Unità”, 21 dicembre 1966, p. 5; “Meglio morta che sposata a lui” dice la ragazza. Un altro “caso Viola” a Salemi, ivi, 24 dicembre 1966, pp. 1-2; G.F.P. La ragazza di Salemi ha firmato le denuncia, ivi, 27 dicembre 1966, p. 5. Sul punto si sofferma anche ROVERA, Delitto d’onore, cit., p. 38.

(28) Sul punto si rinvia, in particolare, a G. GHIROTTI, Franca Viola e la ragazza di Salemi nuovi simboli della moderna Sicilia, in “La Stampa”, 28 dicembre 1966, p. 7. L’articolo riporta parte dell’intervista con il prof. Francesco Corrao, psicanalista, al tempo direttore del gabinetto medico psico-pedagogico del Centro di rieducazione per minorenni di Palermo.

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maggiore di ragazze che, con il passare del tempo, decidono di resistere ad ogni tipo di sopraffazione e di esercitare il proprio diritto di scegliere in piena autonomia la persona da sposare (29). Un cambiamento che suscita l’interesse e l’attenzione an-che del mondo del cinema: nel 1970, infatti, il regista Damiano Damiani si ispirerà alla vicenda di Franca girando il film La mo-glie più bella, interpretato da una giovanissima Ornella Muti.

Il 4 dicembre 1968 Franca sposa Giuseppe Ruisi, un gio-vane ragioniere che le è vicino fin dai tempi del processo e che, come lei o, per alcuni, addirittura meglio di lei, incarna l’immagine della “nuova” Sicilia: non solo per aver deciso di sposare la ragazza “disonorata” ma, soprattutto, per aver scelto di continuare a vivere ad Alcamo, nonostante le numerose pro-poste per lavorare in altre città della Penisola.

Per evitare curiosi e cronisti (anche in questo caso, infatti, la stampa nazionale ritorna ad occuparsi della vicenda), il ma-trimonio viene celebrato all’alba: una cerimonia semplice cui partecipano solamente i parenti e gli amici più stretti (30).

Un breve trafiletto sulle nozze appare anche sulle pagine de “L’Osservatore Romano” che, ai tempi del rapimento e del pro-cesso, non aveva dedicato alcun rigo a quella storia così partico-lare. In occasione del matrimonio, invece, Franca viene ricordata come la ragazza che «ha osato sfidare la forza di una tradizione inumana e purtroppo largamente condivisa» (31). Pur salutando con «ammirazione e con soddisfazione» la fine di quelli che ven-gono definiti i «tempi oscuri di una larvata schiavitù della don-na», il cronista appare, tuttavia, ancora saldamente ancorato a posizioni conservatrici: la «ragazza che ha rifiutato le nozze vio-____________

(29) Cfr., a titolo esemplificativo, i casi della diciassettenne Franca Salleo di Montalbano Elicona e della tredicenne Vita Pirrone di Alcamo rispettivamente in Accusa il rapitore e respinge le nozze riparatrici, in “l’Unità”, 27 febbraio 1974, p. 5, e Tredicenne rifiuta le “nozze riparatrici”, ivi, 19 aprile 1974, p. 5.

(30) Sul punto si vedano, a titolo esemplificativo, A. LIPARODI, Franca Viola si sposa all’alba eludendo giornalisti e curiosi, in “l’Unità”, 5 dicembre 1968, p. 5 e F. ROSSO, Più di Franca Viola, il marito ha sfidato la “vecchia Sicilia”, in “La Stampa”, 10 dicembre 1968, p. 3.

(31) Cfr. V.L., Nozze in Sicilia, in “L’Osservatore Romano”, 5 dicembre 1968, p. 3.

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lente [...] incomincia la sua vita di sposa, da persona civile», sot-tolinea nelle battute iniziali del suo articolo. Un’affermazione con cui sembra, quasi, riconoscere al matrimonio, pur celebrato per «scelta libera», una sorta di funzione catartica, comunque ne-cessaria per la “riabilitazione” sociale della giovane.

La storia di Franca ritorna, indirettamente, agli onori della cronaca nell’aprile del 1978, quando i quotidiani nazionali riser-vano ampio spazio alla morte di Filippo Melodia che, dopo a-ver scontato dieci anni di reclusione, viene ucciso in un agguato mafioso alla periferia di Modena, dove risiedeva con obbligo di soggiorno disposto con provvedimento restrittivo dell’autorità giudiziaria (32).

Rintracciata telefonicamente, Franca sceglie di non rilascia-re alcuna dichiarazione, mantenendo, anche in questa occasio-ne, la condotta schiva e riservata che l’ha contraddistinta subito dopo il rapimento e durante tutta la durata del processo, prefe-rendo continuare a vivere, allora come oggi, lontana dai rifletto-ri e nel più assoluto anonimato.

3. Tra Otto e Novecento: la normativa italiana su delitto d’onore e ma-

trimonio riparatore.

Il disonore ci sconvolge, ci devasta, ci annienta: ci rende folli ed ir-responsabili [...] C’è da noi [...] come un imperativo categorico più forte di noi: “Se sei tradito, uccidi!”. Te lo gridano i tuoi avi da tutti i millenni; te lo gridano i tuoi morti da tutte le fosse; te lo grida la tua gente da tutte le case prossime e lontane. – Uccidi, ché se no, sei di-sonorato due volte! (33).

Con queste parole Giuseppe Casalinuovo, avvocato del fo-

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(32) F.F., Assassinato il rapitore di Franca Viola, la ragazza che rifiutò nozze riparatrici, in “La Stampa”, 14 aprile 1978, p. 9; V. VA., Ucciso il boss che rapì Franca Viola, in “l’Unità”, 14 aprile 1978, p. 5.

(33) Così G. CASALINUOVO, In difesa di Annibale Mazzone, estratto da «L’Eloquenza», Anno XX, fasc. 11-12, vol. II, Roma, Biblioteca de «L’Eloquenza», 1930, pp. 8-9.

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ro di Catanzaro, si rivolgeva ai giudici della Corte di Gerace nell’arringa conclusiva in difesa di Annibale Mazzone, proces-sato per aver ucciso con tre colpi di rivoltella, il 18 maggio 1928, la moglie Carmela Cimarosa, colpevole, a suo giudizio, di averlo tradito con un maestro di musica durante la sua perma-nenza in America per motivi di lavoro.

Non è questa la sede per ricostruire le diverse fasi di uno dei tanti processi per “causa d’onore” celebrati in Italia e con-clusisi con la pronuncia di una sentenza che, tenendo conto di svariati aspetti, condannava gli imputati a pochi anni di carcere o, addirittura, li assolveva, come sarebbe successo a Mazzone, peraltro reo confesso.

La lettura di alcuni brevi passaggi dell’appassionata arringa dell’avvocato/poeta Casalinuovo (34) può, invece, rivelarsi in-teressante al fine di individuare le strategie difensive dallo stesso utilizzate durante il dibattimento per far crollare le accuse rivolte contro il suo assistito e per cercare di comprendere le motiva-zioni che avrebbero indotto i giudici ad assolvere l’imputato.

L’intero impianto difensivo messo in piedi dal brillante pe-nalista calabrese si basava, principalmente, sulla peculiare con-cezione dell’onore avvertita dalle popolazioni del sud Italia.

Senza dare alcuna definizione del termine, egli sosteneva che l’onore veniva percepito

da noi meridionali in genere e da noi calabresi in ispecie, un po’ diver-samente di come lo sentono gli altri [...] Altrove il disonore può lasciare indifferenti o può tranquillamente risolversi con una partita cavalleresca o più tranquillamente con la carta bollata. Da noi no. Noi siamo – e la colpa non è nostra – un po’ diversi anche degli altri italiani (35).

Questa diversa percezione dell’onore, e quindi anche del

disonore, determinata, come scrive Giovanna Fiume, dal «ri-

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(34) Sul poeta e penalista calabrese si veda D. SCAFOGLIO, Casalinuovo, Giuseppe, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 21, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1978, pp. 125-127.

(35) CASALINUOVO, In difesa di Annibale Mazzone, cit., p. 8.

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spetto di un insieme di valori, divenuto sistema morale» (36), poteva portare, secondo Casalinuovo, addirittura a dei compor-tamenti estremi, conseguenza dell’incapacità dell’individuo ad essere presente a se stesso. Ecco perché in quel caso, come in altri analoghi casi che, a ragione, venivano definiti «di onore, di amore e di morte» (37), egli riteneva che non si dovesse far rife-rimento ad un generico «diritto di uccidere» riconosciuto all’im-putato e da questi invocato a sua totale o parziale discolpa quanto, piuttosto, al preciso «dovere di assolvere» (38) che in-combeva su quanti si trovavano a giudicare le sue azioni. Rivol-gendosi ai giurati, dunque, egli non chiedeva loro di

assolvere per una ragione d’onore o di assolvere perché dovete crede-re al disonore. Assolvete, noi vi diciamo, come assolvereste dei pazzi! Il dolore attinge sempre i più alti vertici. In Leopardi, quelli dell’arte: in Amleto quelli del delitto. Ma quando Amleto ha ucciso, non si dirà che Amleto ha ucciso. Si dirà che ad uccidere è stata la follia d’Amleto (39).

Perché ci fosse un colpevole – era questa, infatti, la sua tesi

– era necessario

avere un uomo, non lo straccio, non l’ombra, non la follia di un uo-mo.

E, per aver l’uomo che agisca volontariamente, è necessario trova-re in lui libertà e padronanza di volontà: nervi che agiscono, poteri i-nibitori che funzionano, cuore a posto, cervello a posto, energie fisi-che che conservino le loro forze pulsanti.

Chi è tutto pieno di veleno, ha dentro di sé il tossico che l’uccide, non la volontà che lo dirige. E chi è senza volontà, è senza colpa (40).

Mazzone aveva agito, dunque, in uno stato di alterazione

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(36) Così G. FIUME, Introduzione a Onore e storia nelle società mediterranee, a cura di G. Fiume, Palermo, La Luna, 1989, pp. 5-22, in particolare p. 7.

(37) CASALINUOVO, In difesa di Annibale Mazzone, cit., p. 3. (38) Ivi, p. 8. (39) Ivi, p. 10. (40) Ivi, p. 23.

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fisica e mentale e, come tale, al pari di un bambino, non poteva essere giudicato colpevole.

L’accorato appello dell’avvocato sarebbe stato accolto con favore dai giurati che, alla fine, ritenendo plausibile l’intera stra-tegia difensiva, avrebbero deciso, anche sulla scorta del diritto vigente, di assolvere l’imputato.

Ma a questo punto possiamo legittimamente chiederci: qual era la legislazione vigente in materia al tempo in cui era stato commesso il reato?

La normativa penale in vigore era quella contenuta nel co-dice approntato nel giugno del 1889 su impulso di Giuseppe Zanardelli, ministro di Grazia e giustizia e dei culti del II go-verno guidato da Francesco Crispi. Si tratta, com’è noto, del primo codice penale del Regno d’Italia, codice che non aveva visto la luce insieme a quello civile, di procedura civile, di commercio, di procedura penale e della marina mercantile (vi-genti a partire dal 1° gennaio 1866) perché il legislatore unitario non era riuscito a risolvere la delicata questione della pena di morte, abolita nel Granducato di Toscana già dal 1853, ma vi-gente in tutti gli altri ex Stati progressivamente annessi al Regno sabaudo (41).

E, nelle more, nei territori del centro-nord veniva esteso il codice penale sardo-piemontese emanato nel 1859, in Toscana veniva mantenuto quello approntato dai Lorena nel 1853, men-tre nelle province meridionali e in Sicilia si applicava una ver-sione emendata (contenente alcune integrazioni tratte dalla normativa introdotta dai Borbone nel 1819) dello stesso codice sardo.

Articolato in tre libri (Dei reati e delle pene in generale, Dei delit-

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(41) Sul punto si veda M. DA PASSANO, La pena di morte nel Regno d’Italia, 1859-1889, in «Materiali per una storia della cultura giuridica», XXII (1992), pp. 341-397 che, con alcune varianti, si legge anche in Diritto penale dell’Ottocento. I codici preunitari e il codice Zanardelli, a cura di S. Vinciguerra, Padova, Cedam, 1993, pp. 579-651. Sul lungo processo che avrebbe portato alla redazione del codice Zanardelli si veda, fra tutti, C. GHISALBERTI, La codificazione del diritto in Italia 1865-1942, Roma-Bari, Laterza, 2000, pp. 167-175.

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ti in ispecie, Delle contravvenzioni in ispecie), il codice Zanardelli, en-trato in vigore il 1° gennaio 1890, presentava una struttura che potremmo definire moderna soprattutto, come sostiene Carlo Ghisalberti, per «le soluzioni che prospettava ai più discussi problemi del diritto penale» (42).

Particolarmente interessante, ai nostri fini, il contenuto del titolo IX (Dei delitti contro la persona) del libro II.

Dopo aver trattato dell’omicidio (artt. 364-371) e delle lesioni personali (artt. 372-375), il codice rubricava, nel capo III dedicato alle disposizioni comuni «ai capi precedenti» (artt. 376-380), le cause attenuanti speciali previste per i delitti. Nello spe-cifico, l’art. 377 prescriveva una sensibile riduzione della pena (meno di un sesto) per il coniuge, l’ascendente, il fratello o la sorella rei dell’omicidio di un congiunto (coniuge, discendente, sorella o correo) sorpreso in flagrante adulterio o in amplesso illegittimo (43).

Non di rado, all’attenuante in questione si sommava anche una di quelle generali (alterazione totale o parziale dello stato di mente, ubriachezza accidentale, giovane età o impeto d’ira in se-guito ad ingiusta provocazione) previste per escludere o limitare l’imputabilità del reo dal titolo IV (Della imputabilità, e delle cause che la escludono o la diminuiscono) del libro I (artt. 44-58): e proprio dalla giusta combinazione di attenuanti generali e speciali era sca-turita, come abbiamo visto, l’assoluzione di Mazzone.

Largamente applicata nella prassi, l’attenuante di cui all’art. 377 c.p. era, peraltro, prevista dalla gran parte della legislazione penale pre-unitaria (44): analoghe disposizioni si leggono, infatti,

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(42) Così GHISALBERTI, La codificazione del diritto in Italia, cit., p. 171. (43) «377. Per i delitti preveduti nei capi precedenti, se il fatto sia commesso dal

conjuge, ovvero da un ascendente, o dal fratello o dalla sorella, sopra la persona del conjuge, della discendente, della sorella o del correo o di entrambi, nell’atto in cui li sorprenda in flagrante adulterio o illegittimo concubito, la pena è ridotta a meno di un sesto, sostituita alla reclusione la detenzione, e all’ergastolo è sostituita la detenzione da uno a cinque anni» (Il codice penale per il Regno d’Italia ... corredato di brevi Avvertenze e Note ... per l’avvocato Giulio Crivellari, Torino, Unione tipografico-editrice, 1889, pp. 246-247).

(44) Sul punto si sofferma M. CAVINA, Nozze di sangue. Storia delle violenza coniugale, Roma-Bari, Laterza, 2011, pp. 195-199.

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nelle Leggi penali del Regno delle Due Sicilie emanate nel 1819 (45), nel codice parmense del 1820 (46), in quello criminale estense del 1855 (47), nel codice sardo piemontese del 1859 esteso con modifiche alle province meridionali (48), oltre che nel codice “modello” di quelli ora citati, il code pénal francese del 1810 (49).

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(45) «Se il marito sorprende in adulterio la moglie e l’adultero, ed uccida, ferisca o percuota uno di essi o entrambi nell’atto della flagranza del delitto; in caso di omicidio sarà punito col secondo al terzo grado di prigionia; e nel caso di percossa o ferita, se contiene un misfatto, sarà punito col primo grado di prigionia o confino, se contiene un delitto sarà soggetto a pene di polizia. Le stesse pene soltanto colpiranno i genitori che, sorprendendo nella loro casa in flagranza di stupro o di adulterio la figlia ed il complice, uccidano, feriscano o percuotano l’uno di essi o entrambi. La disposizione del presente articolo non sarà applicabile a’ mariti ed a’ genitori, quante volte essi fossero stati i lenoni delle loro mogli o figlie, o ne avessero favorito, eccitato o facilitato la prostituzione»: così l’art. 388 del Codice per lo Regno delle Due Sicilie. Parte seconda. Leggi penali, Napoli, dalla Real Tipografia del Ministero di Stato della Cancelleria Generale, 1819, p. 95.

(46) «Per qualunque omicidio volontario, e non premeditato sarà minorata la pena ordinaria, quando in esso si verifichi alcuna delle circostanze seguenti: […] 4° Se è stato commesso dal conjuge sulla persona dell’altro, e del complice nell’atto che li coglie entrambi sul fatto di adulterio. In tutte queste circostanze l’omicidio di cui sopra sarà punito colla reclusione, non essendo tolto a’ tribunali o di ridurre la pena ad un solo anno di reclusione, od a commutare ezian-dio la reclusione in prigionia non mai minore di sei mesi, quando la situazione del colpevole all’atto dell’omicidio meritar potesse un giusto particolare riguardo, il che verrà motivato nella sentenza di condanna»: è quanto disposto dall’art. 351 del Codice penale per gli Stati di Parma, Piacenza, ecc., ecc. Ristampato con Note e con un Indice per Materie, Parma, Dalla Reale Tipografia, 1850, pp. 153-154.

(47) Si vedano, a questo proposito, l’art. 366 («L’omicidio volontario commesso dal conjuge nella persona dell’altro conjuge o del correo, o d’ambedue, nell’istante in cui li sorprende in flagrante adulterio, sarà punito col carcere, che non sarà minore di un anno») e l’art. 367 («Colla medesima pena sarà punito l’omicidio commesso dai genitori, nella loro casa, su la persona della figlia, o dell’altro delinquente, o di ambidue, nell’atto che li sorpren-dono in istupro o adulterio») del Codice criminale e di procedura criminale per gli Stati Estensi, Modena, per gli Eredi Soliani Tipografi Reali, 1855, p. 84.

(48) «L’omicidio volontario sarà punito col carcere nei seguenti casi: 1° Se è stato commesso dal marito sulla persona della moglie, o del complice, o di entrambi nell’istante in cui li sorprende in flagrante adulterio; 2° Se è stato commesso dai genitori e nella loro casa sulla persona della figlia, o del complice o di entrambi, nello istante che li sorprendono in stupro od adulterio flagrante. La disposizione del presente articolo non sarà applicabile ai mariti ed ai genitori quante volte essi fossero stati i lenoni delle loro mogli o figlie, o ne avessero favorito eccitato o facilitato la prostituzione»: così l’art. 561 del Codice penale per le provincie napoletane, Napoli, Stabilimento Tipografico di Giannini e C., 1861, pp. V-VI.

(49) «L’omicidio commesso da un marito sopra la moglie, o da questa sopra di quello, non è scusabile, se la vita del marito o della moglie che ha commesso l’omicidio non è stata messa in pericolo nel momento stesso in cui l’omicidio è stato effettuato. Nondimeno nel caso di adulterio previsto dall’art. 336 l’omicidio commesso dal marito sopra la sua moglie, non che sopra il di lei complice, nel momento istesso in cui li sorprenda in flagrante delitto nella casa conjugale, è scusabile»: così l’art. 324 del Codice penale per

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Un ulteriore aspetto merita, ancora, di essere approfondito e riguarda uno dei crimini previsti dal titolo VIII del libro II intito-lato Dei delitti contro il buon costume e l’ordine delle famiglie (artt. 331-363). L’individuazione delle diverse figure criminose elencate nel titolo in questione (la violenza carnale, la corruzione di mino-renni e l’oltraggio al pudore, il ratto, il lenocinio, l’adulterio, la bigamia, la supposizione e la soppressione di un infante) era stata voluta, così come si legge nella relazione al progetto presentata dallo stesso Zanardelli, al fine di «reprimere severamente i fatti dai quali può derivare alla famiglia un danno evidente ed apprez-zabile o che sono contrari alla pubblica decenza» senza, tuttavia, invadere il «campo della moralità» (50).

Nello specifico, è sul ratto (artt. 340-344 c.p.) che vogliamo richiamare, brevemente, l’attenzione.

Il codice, è bene ricordarlo, prevedeva quattro diverse ipotesi di rapimento (di donna maggiorenne od emancipata, di minoren-ne, di minorenne consenziente e di persona minore di dodici an-ni) per le quali erano previste delle pene che variavano sì a se-conda dei casi ma indipendentemente dalla circostanza che il reo avesse o meno raggiunto il suo scopo (libidine o matrimonio).

A questi, tuttavia, se ne aggiungevano due in cui era previ-sta, per il rapitore, una pena quantitativamente o qualitativamen-te più lieve: l’ipotesi in cui egli avesse volontariamente rimesso in libertà la donna rapita senza aver commesso alcun atto di libidi-ne (art. 342) (51) e quella in cui il ratto fosse stato commesso per solo fine di matrimonio (art. 343) (52). Mentre nel primo caso il legislatore disponeva una consistente riduzione della pena previ-____________

l’impero francese. Traduzione italiana scrupolosamente eseguita sull’edizione officiale del corpo legislativo, Milano, Dalla Tipografia di Francesco Sonzogno, 1810, p. 90.

(50) La citazione è tratta da Il codice penale per il Regno d’Italia, cit., p. 214. (51) «342. Quando il colpevole di alcuno dei delitti preveduti negli articoli precedenti,

senza aver commesso alcun atto di libidine, restituisca volontariamente in libertà la persona rapita, riconducendola alla casa onde la tolse o a quella della famiglia di lei, o collocandola in altro luogo sicuro a disposizione della famiglia stessa, la reclusione è da un mese ad un anno nel caso dell’articolo 340, e, rispettivamente, da sei mesi a tre anni, e da uno a cinque anni, nei casi dell’articolo 341» (Il codice penale per il Regno d’Italia, cit., p. 224).

(52) «343. Se alcuno dei delitti preveduti negli articoli precedenti sia commesso a solo fine di matrimonio, alla reclusione può essere sostituita la detenzione» (ibidem).

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sta (la reclusione presso uno degli «stabilimenti a ciò destinati, con l’obbligo del lavoro e secondo le norme seguenti», specifica-te dai commi 2 e 3 dell’art. 13 (53)), nella seconda ipotesi, invece, stabiliva che alla reclusione potesse essere sostituita la detenzio-ne disciplinata dall’art. 15 (54). Pur parallela, nella durata, alla re-clusione, la detenzione era regolata da una disciplina diversa e più mite che evitava, ad esempio, al condannato la segregazione cellulare continua, consentendogli anche di poter scegliere il la-voro cui doveva essere addetto (55).

Il codice Zanardelli, in conclusione, non faceva alcun rife-rimento espresso al concetto “di onore” e di “matrimonio ripa-ratore”, ma le attenuanti previste dagli artt. 377 e 343 potevano essere considerate una sorta di legittima giustificazione al com-pimento di alcuni reati che, con il passare del tempo, come per il caso Mazzone, si sarebbero sempre più connotati come “delitti d’onore” e avrebbero finito anche con l’incentivare i cosiddetti “matrimoni riparatori”.

4. Il codice penale Rocco e la “tutela” dell’onore.

La normativa ora analizzata sarebbe rimasta in vigore fino al 1°

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(53) «13. La pena della reclusione si estende da tre giorni a ventiquattro anni. Si sconta negli stabilimenti a ciò destinati, con l’obbligo del lavoro e secondo le norme seguenti. Se non superi i sei mesi, si sconta con segregazione cellulare continua per tutta la sua durata: e può essere fatta scontare in un carcere giudiziario. Se superi i sei mesi, si sconta con segregazione cellulare continua per un primo periodo uguale al sesto dell’intera durata della pena, e che non può essere inferiore ai sei mesi, né superiore ai tre anni; con segregazione notturna e silenzio durante il giorno per il periodo successivo» (Il codice penale per il Regno d’Italia, cit., pp. 25-26).

(54) «15. La pena della detenzione si estende da tre a giorni a ventiquattro anni. Si sconta negli stabilimenti a ciò destinati, con l’obbligo del lavoro e con segregazione notturna. Il condannato può scegliere, tra le specie di lavoro ammesse nello stabilimento al quale è assegnato, quella che è più confacente alle sue attitudini e precedenti occupazioni; e può essergli anche permessa una specie diversa di lavoro. Se la pena non superi i sei mesi, può essere fatta scontare in una sezione speciale del carcere giudiziario» (Il codice penale per il Regno d’Italia, cit., pp. 26-27).

(55) Cfr., sul punto, T. PEDIO, voce Detenzione (diritto penale), in Enciclopedia del diritto, vol. XII, Milano, Giuffrè, 1964, pp. 334-335.

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luglio 1931, quando veniva sostituita da quella contenuta nel nuovo codice penale varato su impulso del ministro di Grazia e Giustizia Alfredo Rocco (56). Si trattava di un testo che, nelle intenzioni di Mussolini, avrebbe dovuto rispondere pienamente alle finalità poli-tiche del fascismo-regime ma che in realtà si presentava più come il frutto dell’evoluzione della tradizionale esperienza giuridica italiana che non come il mero prodotto della stessa ideologia fascista (57).

Era proprio con il codice penale Rocco che il concetto di “onore” e la sua tutela entravano a tutti gli effetti nell’ordina-mento giuridico italiano.

Nella sua Relazione, il Guardasigilli definiva l’onore come «un bene individuale immateriale, protetto dalla legge per con-sentire all’individuo la esplicazione della propria personalità morale». Egli proseguiva sostenendo che quella peculiare no-zione racchiudesse in sé una duplice accezione:

Inteso in senso soggettivo, esso si identifica col sentimento che

ciascuno ha della propria dignità morale, e designa quella somma di valori morali che l’individuo attribuisce a se stesso; è precisamente questo che comunemente viene denominato onore in senso stretto. Inteso, invece, in senso oggettivo, è la stima o l’opinione che gli altri hanno di noi; rappresenta cioè il patrimonio morale che deriva dall’altrui considerazione e che, con termine chiaramente comprensivo, si definisce reputazione.

In tal guisa è agevole stabilire che il sentimento personale del-l’onore viene leso con fatti immediatamente sensibili alla persona, in-dipendentemente dal loro riflesso sulla opinione altrui, e cioè con of-fese pronunciate alla presenza del soggetto passivo; mentre la reputa-zione può solo esser lesa con la divulgazione presso gli altri di offese che comunque la sminuiscano (58).

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(56) Sul punto cfr. GHISALBERTI, La codificazione del diritto in Italia, cit., pp. 218-227. (57) Si vedano, a questo proposito, le riflessioni di GHISALBERTI, La codificazione del

diritto in Italia, cit., pp. 219-220. (58) Così la Relazione del Guardasigilli. Lavori preparatori del Codice Penale – vol. V, Parte II

– Relazione sui Libri II e III, p. 401, riportata in nota al Codice penale illustrato con i lavori preparatori, a cura dei dott. R. Mangini e F. P. Gabrieli e dell’Avv. U. Cosentino segretari delle commissioni ministeriale e parlamentare, Roma, Tipografia della Camera dei deputati, 1930, pp. 478-479. La citazione è tratta da p. 478.

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Alla luce di questa definizione, dunque, ben si comprende

la scelta del legislatore di qualificare l’ingiuria e la diffamazione, previste rispettivamente dagli artt. 594 (59) e 595 (60) del capo II del titolo XII (Dei delitti contro la persona) del libro II (Dei delitti in particolare), come delitti contro l’onore.

Analogamente si giustifica anche l’espresso riferimento all’offesa all’onore del re (e con lui del reggente, della regina, del principe ereditario e dei componenti della famiglia reale), del capo del governo e dei capi di stati esteri contenuto negli artt. 278 (61), 282 (62) e 297 (63) del titolo I (Dei delitti contro la personalità dello Stato) del libro II, che sancivano, per i trasgressori, pene che variavano da un minimo di uno ad un massimo di sette anni di reclusione. ____________

(59) «Art. 594 – Ingiuria – Chiunque offende l’onore o il decoro di una persona presente è punito con la reclusione fino a sei mesi o con la multa fino a lire cinquemila. Alla stessa pena soggiace chi commette il fatto mediante comunicazione telegrafica o telefonica, o con scritti o disegni, diretti alla persona offesa. La pena è della reclusione fino a un anno o della multa fino a lire diecimila, se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato. Le pene sono aumentate qualora l’offesa sia commessa in presenza di più persone» (Codice penale del Regno d’Italia, cit., pp. 152-153).

(60) «Art. 595 – Diffamazione – Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a lire diecimila. Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a lire ventimila. Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a lire cinquemila. Se l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad una Autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate» (Codice penale del Regno d’Italia, cit., p. 153).

(61) «Art. 278 – Offesa all’onore del Re, del Reggente, della Regina, del Principe Ereditario e dei Principi della Famiglia Reale – Chiunque offende l’onore o il prestigio del Re o del Reggente è punito con la reclusione da due a sette anni. Se il fatto è commesso contro la Regina o il Principe Ereditario, il colpevole è punito con la reclusione da uno a cinque anni. Se il fatto è commesso contro un’altra persona della Famiglia Reale, ovvero è offesa la memoria di un ascendente o di un discendente o di un altro prossimo congiunto del Re, del Reggente o della Regina, il colpevole è punito con la reclusione da uno a tre anni» (Codice penale del Regno d’Italia, cit., p. 79).

(62) «Art. 282 – Offesa all’onore del Capo del Governo – Chiunque offende l’onore e il prestigio del Capo del Governo è punito con la reclusione da uno a cinque anni» (Codice penale del Regno d’Italia, cit., p. 80).

(63) «Art. 297 – Offesa all’onore dei Capi di Stati esteri – Chiunque nel territorio dello Stato offende l’onore o il prestigio del Capo di uno Stato estero è punito con la reclusione da uno a tre anni» (Codice penale del Regno d’Italia, cit., p. 83).

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È solo il caso di ricordare che la tutela penale prevista per il capo del governo («dopo il Re, e come il Re, esso è un organo costituzionale individuale», sosteneva Rocco nella sua Relazione) era organizzata analogamente a quella approntata per il sovra-no, senza, cioè, distinguere l’individuo dalle funzioni pubbliche dallo stesso esercitate (64).

Ma veniamo ora all’analisi degli altri articoli del codice che riguardano l’onore e la sua tutela, rubricati prevalentemente nei titoli X (Dei delitti conto la integrità e la sanità della stirpe) e XII (Dei delitti contro la persona) del libro II.

Procediamo con ordine. Gli artt. 545-550 del titolo X disciplinavano alcuni reati

connessi con l’interruzione volontaria della gravidanza: l’aborto di donna consenziente e non consenziente o l’istigazione all’aborto, ad esempio, prevedevano, per i contravventori, la re-clusione da un minimo di sei mesi ad un massimo di venti anni, pena, quest’ultima comminata a chi avesse causato la morte del-la donna costretta ad abortire. La ragione principale della previ-sione di questi delitti (che insieme alla procurata impotenza alla procreazione, all’incitamento a pratiche contro la procreazione o al contagio da sifilide e/o blenorragia, di cui agli artt. 552-554, completavano il quadro di quelli definiti contro la integrità e la sanità della stirpe) era da ricercarsi, così come si legge nella Re-lazione al Re che accompagnava il codice, «nella offesa all’inte-resse che ha la Nazione, come unità etnica, di difendere la con-tinuità e la integrità della stirpe» (65).

Pur affermando che le pratiche «così dette abortive» erano lesive degli interessi «della vita del nascituro, che è sempre una spes vitae se non ancora una vita […] della vita e della incolumità individuale della madre […] della moralità e del buon costume

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(64) Sul punto si veda la Relazione del Guardasigilli, cit:, p. 59, riportata in nota al Codice penale illustrato, cit., pp. 243-246. La citazione è tratta da p. 247.

(65) Così la Relazione al Re, n. 177, in «Gazzetta Ufficiale» del 26 ottobre 1930, n. 251 – VIII. La citazione è tratta dal Codice penale illustrato, cit., p. 426.

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famigliari e sociali» (66), il legislatore non esitava a prevedere, all’art. 551, una consistente riduzione delle pene (dalla metà ai due terzi) nel caso in cui i reati di cui agli artt. 545-550 fossero stati commessi «per salvare l’onore proprio o quello di un pros-simo congiunto» (67).

La tutela dell’onore finiva, dunque, per risultare più forte di qualunque altro, pur dichiarato, “alto” interesse.

Ma non solo. Secondo quanto stabilito dall’art. 575, chiunque si fosse

macchiato di omicidio veniva condannato alla reclusione per un periodo non inferiore ai ventuno anni. La pena, nel caso in cui si verificassero le circostanze aggravanti indicate negli artt. 576 e 577 (rapporto di parentela vittima-assassino, premeditazione, uso di sostanze venefiche, ad esempio), poteva essere inasprita fino a prevedere l’ergastolo o, addirittura, la morte che, abolita dal codice Zanardelli veniva, così, reintrodotta nell’ordinamen-to italiano proprio dal codice Rocco.

Alle aggravanti, tuttavia, sembrava far da contraltare il di-sposto dell’art. 587, rubricato come Omicidio e lesione personale a causa di onore, che recitava:

Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della

sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni.

Alle stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona, che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella.

Se il colpevole cagiona, nelle stesse circostanze, alle dette persone, una lesione personale, le pene stabilite negli articoli 582 e 583 sono ridotte a un terzo; se dalla lesione personale de-riva la morte, la pena è della reclusione da due a cinque anni.

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(66) Ivi, p. 427. (67) «Art. 551 – Causa di onore – Se alcuno dei fatti preveduti negli articoli 545, 546, 547,

548, 549 e 550 è commesso per salvare l’onore proprio o quello di un prossimo congiunto, le pene ivi stabilite sono diminuite dalla metà ai due terzi» (Codice penale del Regno d’Italia, cit., p. 141).

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Non è punibile chi, nelle stesse circostanze, commette con-tro le dette persone il fatto preveduto dall’art. 581 (68). A leggere con attenzione, in realtà, ci si rende conto che

non si trattava “solo” di circostanze attenuanti rispetto al di-sposto degli artt. 575 e 582 che disciplinavano l’omicidio e le lesioni personali: l’art. 587, infatti, prevedendo pene sensibil-mente ridotte (da un minimo di tre ad un massimo di sette an-ni) per quanti si fossero resi colpevoli di quei crimini, commessi per causa d’onore e/o in uno stato di ira a seguito dalla scoper-ta di una illegittima relazione del coniuge, della figlia o della so-rella, finiva per configurare una sorta di reato speciale ed auto-nomo, un’ipotesi delittuosa che potremo definire “minore”, di cui la stessa causa d’onore e lo stato d’ira potevano configurarsi come «elementi costitutivi» (69).

E proprio all’analisi di questi ultimi si sarebbe dedicato, qualche anno più tardi, Aldo Casalinuovo (70), un giovanissimo avvocato, figlio di quel Giuseppe che aveva difeso e fatto as-solvere Annibale Mazzone. Nel suo puntuale ed approfondito lavoro dal titolo La causa d’onore nella struttura del reato, egli soste-neva, tuttavia, che gli elementi costitutivi di quel particolare ti-po di delitto non fossero solo due ma addirittura quattro:

a) la esistenza di un onore tutelabile; b) un attentato all’onore; c) uno stato di perturbamento psichico conseguente a tale attentato ed il fine, nell’agente, di salvar l’onore; d) un rapporto temporale d’immediatezza fra l’attentato e la reazione (71).

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(68) Codice penale del Regno d’Italia, cit., pp. 150-151. (69) È quanto si legge nella Relazione del Guardasigilli, cit,. p. 386. La citazione è tratta

da Codice penale illustrato, cit., p. 472. (70) Sul penalista calabrese (1914-2000), strenuo oppositore della pena di morte e

deputato nella I e nella III Legislatura repubblicana, si veda F. TACCHI, Casalinuovo, Aldo, in Dizionario biografico dei giuristi italiani, cit., vol. I, pp. 473-474.

(71) Così A. CASALINUOVO, La causa d’onore nella struttura del reato, Napoli, Jovene, 1939 – XVII, p. 22.

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In assenza, però, dello stato d’ira e dell’immediatezza dell’azione, la «disposizione dell’art. 587», secondo Casalinuo-vo, non sarebbe stata applicabile (72).

Erano, dunque, la scoperta in flagranza, o con altre inequi-vocabili prove, di un rapporto carnale illegittimo, la presa di co-scienza, da parte dell’agente, di aver subito un’offesa alla propria dignità personale e al proprio senso dell’onore ed il conseguente ed immeditato stato d’ira a configurare quel particolare e peculia-re tipo di reato che, normalmente, avveniva in pieno giorno e al-la presenza di testimoni e che, contrariamente a qualsiasi altro tipo di delitto, portava il colpevole a non sottrarsi all’arresto e a costituirsi (anche Mazzone lo aveva fatto consegnandosi sponta-neamente ai Carabinieri, «confessando il delitto e confermando di averlo premeditato» (73)): una forma di “pubblicità” che non doveva lasciar dubbio alcuno sulla natura del movente (74).

La “causa d’onore”, tuttavia, non doveva e non poteva es-sere considerata, così come si legge nella Relazione del Guardasi-gilli, una «possibilità di una vendetta, come una forma di soddi-sfazione che sia concessa al coniuge, padre o fratello oltraggia-to»: essa doveva, piuttosto, riferirsi allo stato d’animo del reo, valutato in relazione «al turbamento del senso personale del-l’onore, e a un conseguente stato d’ira, il quale deve trovare la sua causa determinante nell’offesa al sentimento della dignità personale» dello stesso colpevole (75).

Utilizzando l’espressione coniuge, infine, così come si premurava di sottolineare ancora il ministro Rocco, il legislato-re aveva esteso l’applicabilità della disposizione anche alla mo-glie che avesse accertato il tradimento del marito, scoprendolo in flagrante adulterio. L’offesa all’onore del marito e della mo-glie, almeno teoricamente, dunque, veniva messa sullo stesso piano. ____________

(72) Ivi, p. 20. (73) Così CASALINUOVO, In difesa di Annibale Mazzone, cit., p. 3. (74) Si vedano, a questo proposito, le riflessioni di ROVERA, Delitto d’onore, cit., p. 51. (75) Così la Relazione del Guardasigilli, cit., p. 386, riportata in Codice penale illustrato, cit., p. 473.

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In realtà, a prescindere dalla circostanza che mogli, mariti, padri, fratelli o sorelle potessero farsi giustizia da sé invocando la causa d’onore, il testo dell’art. 587 sembrava delineare un senso dell’onore di tipo prevalentemente “sessuale”, frutto della cul-tura prettamente patriarcale del tempo, che presupponeva la soggezione della donna all’uomo e attribuiva la proprietà del suo corpo ai componenti maschi della famiglia (76). Una conce-zione che avrebbe ispirato, qualche anno più tardi, anche il nuovo codice civile che, promulgato il 21 aprile 1942 (77), nega-va il principio di uguaglianza fra uomo e donna e poneva il ma-rito a capo della famiglia, riconoscendogli, in via esclusiva, se-condo quanto sancito dall’art. 316, la potestà genitoriale (78).

Una disposizione, quella dell’art. 587, voluta dal legislatore, presumibilmente, per evitare che i colpevoli dei delitti passiona-li restassero, il più delle volte, impuniti o giudicati con estrema mitezza (la pena minima di tre anni era pur sempre da preferirsi ad un’assoluzione piena, frutto della giusta combinazione di at-tenuanti generiche e speciali, così come era avvenuto per Maz-zone) ma che, invece, avrebbe finito, paradossalmente, per es-sere invocata comunque, anche non in presenza di tutti gli ele-menti che costituivano l’essenza stessa di quel peculiare tipo di reato.

Vi erano ancora altre due circostanze in base alle quali, se-condo il codice, poteva essere invocata la causa d’onore: l’in-fanticidio e l’abbandono di neonato. Anche in tali casi, previsti ri-spettivamente dagli artt. 578 e 592 (79), le pene inflitte a chi si fos-____________

(76) Cfr., sul punto, quanto sostengono, ad esempio, ROVERA, Delitto d’onore, cit., pp. 21-22, 30-31 e CAVINA, Nozze di sangue, cit., p. 204.

(77) Sul lungo iter che avrebbe portato alla redazione del codice civile del 1942 si veda, fra tutti, GHISALBERTI, La codificazione del diritto in Italia, cit., pp. 213 ss.

(78) Interessanti approfondimenti sul tema si leggono in D. NOVARESE, Donne e diritti: un lungo, difficile percorso, in Donne, politica e istituzioni, cit., pp. 128-149, in particolare pp. 141-143; EAD., Dalla disuguaglianza alle pari opportunità. Donne e diritti nell’esperienza europea, in Orientarsi nella parità. Materiali didattici e riflessioni su un’esperienza formativa di “orientamento di genere e pari opportunità”, a cura di M.A. Cocchiara, Messina, Magika, 2010, pp. 43-58, in particolare pp. 53-54.

(79) «Art. 578 – Infanticidio per causa di onore – Chiunque cagiona la morte di un neonato

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se macchiato di quei reati, e a quanti li avessero coadiuvati, non solo sarebbero state sensibilmente ridotte ma, per la loro determi-nazione, non sarebbero state nemmeno applicate le circostanze aggravanti comuni (futili motivi, abuso di autorità, aver agito con crudeltà o provocato sevizie, fra le tante) elencate nell’art. 61 (80).

La nostra analisi non può considerarsi conclusa senza aver prima esaminato il disposto dell’art. 522 che disciplinava il co-siddetto ratto a fine di matrimonio, reato dal quale potevano, peral-tro, scaturire alcuni dei crimini già presi in esame (l’infanticidio e l’abbandono di neonato per causa d’onore, ad esempio). La pena prevista per questo tipo di delitto poteva variare da un minino di uno ad un massimo di cinque anni a seconda che la donna rapita fosse non coniugata o maggiore di quattordici ma minore di di-ciotto anni (81). Ma, al pari di quanto previsto dal codice Zanar-delli, il successivo art. 525 individuava nella restituzione volonta-ria della rapita e nell’assenza di atti di libidine, le circostanze at-tenuanti che avrebbero comportato una sensibile riduzione della pena per il colpevole (82). La più importante novità rispetto alla

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immediatamente dopo il parto, ovvero di un feto durante il parto, per salvare l’onore proprio o di un prossimo congiunto, è punito con la reclusione da tre a dieci anni. Alla stessa pena soggiacciono coloro che concorrono nel fatto al solo scopo di favorire taluna delle persone indicate nella disposizione precedente. In ogni altro caso, a coloro che concorrono nel fatto si applica la reclusione non inferiore a dieci anni. Non si applicano le aggravanti stabilite nell’articolo 61». – «Art. 592 – Abbandono di un neonato per causa di onore – Chiunque abbandona un neonato, subito dopo la nascita, per salvare l’onore proprio o di un prossimo congiunto, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena è della reclusione da sei mesi a due anni se dal fatto deriva una lesione personale, ed è da due a cinque anni se ne deriva la morte del neonato. Non si applicano le aggravanti stabilite nell’articolo 61» (Codice penale del Regno d’Italia, cit., pp. 148 e 152).

(80) Il testo dell’art. 61 si legge in Codice penale del Regno d’Italia, cit., p. 21. (81) «Art. 522 – Ratto a fine di matrimonio – Chiunque, con violenza, minaccia o

inganno, sottrae o ritiene, per fine di matrimonio, una donna non coniugata, è punito con la reclusione da uno a tre anni. Se il fatto è commesso in danno di una persona dell’uno o dell’altro sesso, non coniugata, maggiore degli anni quattordici e minore degli anni diciotto, la pena è della reclusione da due a cinque anni» (Codice penale del Regno d’Italia, cit., p. 135).

(82) «Art. 525 – Circostanze attenuanti – Le pene stabilite nei tre articoli precedenti sono diminuite se il colpevole, prima della condanna, senza aver commesso alcun atto di libidine in danno della persona rapita, la restituisce spontaneamente in libertà, riconducendola alla casa donde la tolse o a quella della famiglia di lei, o collocandola in un altro luogo sicuro, a disposizione della famiglia stessa» (Codice penale del Regno d’Italia, cit., p. 136).

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legislazione ottocentesca era, tuttavia, rappresentata dalla già ci-tata causa speciale di estinzione del reato rubricata all’art. 544 (83): il matrimonio civile, o avente effetti civili, tra rapita e rapitore, in-fatti, estingueva il reato (anche dopo la condanna dell’imputato), scagionando pienamente non solo l’autore materiale del crimine ma anche chi lo avesse coadiuvato (84).

E in tanti, nel corso degli anni, avrebbero usufruito degli effetti benefici del cosiddetto “matrimonio riparatore”. Almeno fino al “no” pronunciato da Franca Viola.

5. 1966-1968: le proposte del ministro Reale per la modifica dell’art. 587 c.p.

In una intervista pubblicata sul quotidiano “La Stampa” il 4 gennaio 1966, due giorni dopo la liberazione di Franca Viola, il deputato repubblicano Oronzo Reale, ministro di Grazia e Giustizia del II governo presieduto da Aldo Moro, dichiarava che era sua intenzione presentare al Consiglio dei ministri, in tempi brevi, un disegno di legge volto alla revisione dell’art. 587 c.p. (85).

È solo il caso di ricordare in questa sede che, alla disconti-nuità istituzionale avviatasi il 2 giugno 1946, quando gli italiani avevano scelto la Repubblica ed eletto l’Assemblea Costituente che avrebbe redatto il nuovo testo costituzionale vigente dal 1°

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(83) Il testo dell’art. è già stato citato supra, nt. 6. (84) Cfr., sul punto le riflessioni di M. PETRONE, voce Moralità (diritto penale), in

Enciclopedia del diritto, vol. XXVII, Milano, Giuffrè, 1977, pp. 60-81, in particolare p. 79: «In ordine alla disciplina positiva, occorre anzitutto osservare che il matrimonio che estingue il reato deve essere quello civile o avente effetti civili, onde non sarebbe sufficiente un semplice matrimonio religioso non trascritto. Esso, poi, ovviamente, deve avere esistenza giuridica, oltre che di fatto: è appena il caso di notare, quindi, che il subsequens matrimonium vale solo come causa estintiva di reati in cui i soggetti attivo e passivo siano di sesso diverso».

(85) Cfr. F. DE LUCA, L’art. 587 sul “delitto d’onore” sarà modificato entro febbraio, in “La Stampa”, 4 gennaio 1966, p. 1. Sul punto si sofferma anche ROVERA, Delitto d’onore, cit., p. 95. La stessa autrice, alle pp. 95-100, svolge un’analisi sommaria dell’iter legislativo che avrebbe portato all’abolizione della causa d’onore.

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gennaio 1948 (86), corrispondeva, invece, una sostanziale conti-nuità legislativa, dal momento che i codici elaborati durante il ventennio fascista sarebbero rimasti in vigore (e in parte lo so-no ancora oggi) anche se aggiornati ed emendati per rispondere alle «esigenze dei tempi nuovi» (87).

L’intervento del ministro si era reso necessario a seguito di un clamoroso fatto giudiziario svoltosi a Catania: il processo a Gaetano Furnari che, il 20 ottobre 1964, in un’aula dell’Uni-versità della città etnea, aveva ucciso a colpi di pistola il profes-sore Francesco Speranza con cui la figlia Mariella aveva da tem-po una relazione. Processato per omicidio volontario, il 23 di-cembre 1965 Furnari era stato riconosciuto colpevole di omici-dio per causa d’onore ed era stato condannato, tra i calorosi ap-plausi del pubblico presente alla lettura della sentenza, a scontare solo due anni, undici mesi e dieci giorni di reclusione (88).

L’estrema mitezza della pena aveva finito per alimentare un’accesa disputa sull’opportunità di riformare il disposto dell’art. 587, sollecitando, così, il proposito del Guardasigilli.

Non bisogna, tuttavia, dimenticare che qualche anno prima, nel 1961, due senatori socialisti, Luigi Renato Sansone e Giorgio Fenoaltea, avevano già avanzato una proposta volta all’abolizione proprio dell’art. 587, che non avrebbe, tuttavia, avuto seguito (89).

Due le strade che, dal punto di vista legislativo, secondo il ministro Reale, potevano essere intraprese:

a) l’abolizione dell’art. 587, con il conseguente inserimento della causa d’onore tra le circostanze attenuanti comuni previste dall’art. 62 c.p.: in questo caso l’omicidio per causa d’onore sa-

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(86) Su queste vicende cfr. C. GHISALBERTI, Storia costituzionale d’Italia 1848/1994. Roma-Bari, Laterza, 2002, pp. 408-427; R. MARTUCCI, Storia costituzionale italiana. Dallo Statuto Albertino alla Repubblica (1848-2001), Roma, Carocci, 2002, pp. 256-269.

(87) Così GHISALBERTI, La codificazione del diritto in Italia, cit., p. 292. (88) Sul punto si veda Delitto d’onore in Sicilia, in “La Stampa”, 11 gennaio 1966, p. 4.

Approfondimenti sul tema anche in La Corte di Catania difende i princìpi del delitto d’onore, ivi, 18 giugno 1966, p. 13 e S. DI PAOLA, Art. 587, licenza di uccidere, in “l’Unità”, 16 luglio 1967, p. 11.

(89) Cfr. SENATO DELLA REPUBBLICA, III legislatura, 366a seduta pubblica, Reso-conto stenografico, 11 aprile 1961, p. 17280.

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rebbe stato giudicato al pari degli altri omicidi ma, grazie all’effetto benefico delle attenuanti, la pena inflitta ai colpevoli non sarebbe stata complessivamente superiore ai dieci anni;

b) il mantenimento dell’art. 587 con inasprimento della pe-na comminabile (minimo nove, massimo quindici anni) rispetto a quella prevista dalla normativa in vigore (minino tre, massimo sette anni): in questa seconda ipotesi, la causa d’onore sarebbe stata, però, riconosciuta solo per l’omicidio commesso dal co-niuge o dal genitore e non più dal fratello.

Se è vero che le due soluzioni avrebbero portato ad un ri-sultato analogo, l’effettivo aggravio della pena prevista, è altret-tanto vero che, dal punto di vista sostanziale, esse divergevano profondamente. Pur rinviando al Consiglio dei ministri la deci-sione in materia, il Guardasigilli non esitava a dichiararsi favo-revole all’abrogazione.

La proposta di Reale suscitava grande attenzione nell’opi-nione pubblica e in Parlamento, evidenziando la spaccatura tra quanti reclamavano il mantenimento del delitto d’onore come fattispecie giuridica autonoma e chi, invece, auspicava la sua abolizione per allineare la legislazione italiana a quella degli altri paesi europei.

Particolarmente interessanti, nello specifico, le posizioni espresse sull’argomento da molti giuristi, concordi sì nel ritene-re troppo miti le pene previste per i delitti d’onore ma in disac-cordo sulla soluzione da adottare rispetto alla proposta del mi-nistro: alle loro diverse posizioni il quotidiano “La Stampa” ri-servava ampio spazio, così come si evince da due corposi arti-coli pubblicati, rispettivamente, il 5 e il 6 gennaio 1966 (90).

Favorevoli all’abrogazione dell’art. 587 si dichiaravano, ad esempio, sia il presidente dell’Ordine degli Avvocati di Roma, Filippo Ungaro, che Giuseppe Sabatini, docente di Procedura

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(90) Si vedano, a questo proposito, F. DE LUCA, I giuristi sono concordi: troppo miti le pene per il “delitto d’onore”, in “La Stampa”, 5 gennaio 1966, p. 7, e G. GUIDI, Discordi i giuristi sul delitto d’onore, ivi, 6 gennaio 1966, p. 6.

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penale all’Università di Napoli: entrambi, però, sostenevano che la strada da seguire dovesse essere quella di una riforma globale del codice penale. Contrario era, invece, Giuseppe So-tgiu, docente di Diritto penale presso l’Ateneo di Roma, il quale riteneva che l’eventuale applicazione troppo mite delle pene non doveva essere considerata un difetto della legge, ma un er-rore di valutazione del giudice.

Opposte posizioni si registravano anche in Parlamento do-ve l’appartenenza partitica non sembrava rappresentare un va-lore assoluto.

Il democristiano Giovanni Leone, ad esempio, già Presi-dente del Consiglio di un breve governo (21 giugno 1963 – 4 dicembre 1963) e futuro Presidente della Repubblica (1971-1978), oltre che illustre penalista e ordinario di Procedura pena-le all’Università di Roma, definiva «incivile» il disposto dell’art. 587, auspicandone la sollecita soppressione perché «non onora il nostro sistema penale» (91). Al contrario, invece, il suo collega di partito, Giuseppe Maria Bettiol, docente di Diritto penale presso l’Ateneo patavino, riteneva che l’omicidio per causa d’onore non potesse essere parificato all’omicidio comune: di conseguenza, l’articolo in questione doveva rimanere in vigore anche se, a suo giudizio, era necessario prevedere alcune modi-fiche e inasprire le pene da questo previste.

Discordanti erano anche le posizioni dei componenti della IV Commissione Giustizia della Camera: tra i favorevoli all’abolizione il socialista Mario Berlinguer («È un articolo ini-quo, assurdo e contraddittorio nei suoi stessi termini, anacroni-stico e di estrazione feudale, un incoraggiamento a delinquere» (92), dichiarava al cronista de “La Stampa”) e il democristiano Roberto Lucifredi, docente di Diritto amministrativo presso l’Università di Genova (a suo parere non vi era più «alcuna va-lida ragione per fare di questa fattispecie delittuosa un reato a ____________

(91) La citazione è tratta da DE LUCA., I giuristi sono concordi, cit. (92) Ibidem.

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sé stante […] Mi auguro che il proposito del ministro si possa realizzare, ma mi sembra facile prevedere che non mancheran-no resistenze fortissime» (93)). Contrario, invece, il deputato DC Giovanni Battista Migliori, che temeva che la fretta «con cui può essere fatta la riforma» potesse addirittura «sconvolgere o travolgere l’istituto familiare» (94).

L’importante ma divisivo progetto del ministro Reale subi-va, però, lo stop forzato determinato dalla crisi interna alla coa-lizione di governo che, il 21 gennaio 1966, dopo essere stato battuto alla Camera in occasione della votazione finale, a scru-tinio segreto, sulla legge istitutiva della scuola materna statale, decideva di rassegnare le dimissioni (95).

Il 15 febbraio 1966, qualche giorno prima della formazione del nuovo esecutivo, il III guidato da Aldo Moro (23 febbraio 1966 – 5 giugno 1968), in un altro articolo pubblicato su “La Stampa”, Arnaldo Geraldini scriveva che la riforma relativa alla cancellazione della causa d’onore, «urgente, indilazionabile, par-ticolarmente attesa dal popolo italiano», avrebbe seguito il suo corso e sarebbe stata presentata al Parlamento dal nuovo mini-stro Guardasigilli entro la fine del mese di febbraio (96).

Ma i contrasti interni alla stessa maggioranza di centro-sinistra (DC, PSDI, PSI, PRI), e quelli fra le diverse correnti in-terne alla stessa Democrazia Cristiana (dorotei e fanfaniani), a-vrebbero impedito al nuovo governo di occuparsi di quel tema in tempi brevi.

Era necessario, infatti, aspettare altri due anni prima che Oronzo Reale, riconfermato Guardasigilli, presentasse alla Ca-mera dei Deputati, il 6 febbraio 1968, il disegno di legge n.

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(93) La citazione è tratta da GUIDI, Discordi i giuristi sul delitto d’onore, cit. (94) Ibidem. (95) Tutti i particolari della vicenda si leggono in Il governo in minoranza alla Camera alla

votazione sulla scuola materna, in “La Stampa”, 21 gennaio 1966, p. 1 e Il governo Moro si è dimesso. Saragat inizia le consultazioni, ivi, 22 gennaio 1966, p. 1.

(96) Così A. GERALDINI, La riforma sul delitto d’onore al Parlamento entro la fine del mese, in “La Stampa”, 15 febbraio 1966, p. 14.

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4849 recante il titolo Modificazioni al Codice penale (97). È oppor-tuno ricordare, tuttavia, che il 19 aprile 1967 il deputato comu-nista Alberto Guidi, insieme ad alcune colleghe e alcuni colleghi di partito, si era fatto promotore di una proposta di legge volta all’abolizione dell’adulterio, del concubinato, dell’omicidio e delle lesioni a causa d’onore, oltre che della causa speciale di e-stinzione dei reati prevista dall’art. 544. La proposta in questio-ne, a suo giudizio, volta a completare la riforma dell’istituto familiare così come prevista dai progetti Spagnoli e Jotti avan-zati dal gruppo comunista, avrebbe avuto l’obiettivo di «rende-re operanti i rapporti di uguaglianza fra i sessi, sanciti dalla no-stra Costituzione, nell’ambito della visione di un tipo di fami-glia, che per essere società naturale, deve sorreggersi sulla unio-ne reale degli affetti» (98). Per dare piena attuazione agli artt. 3 e 29 della Costituzione italiana, Guidi sosteneva, dunque, la ne-cessità di superare il modello “gerarchico” della famiglia deline-ato dal codice del 1942 (99).

Ribadendo l’urgenza della riforma di alcuni istituti («e que-sta urgenza può essere soddisfatta più agevolmente proprio con una riforma parziale del codice penale» (100), avrebbe sostenuto nella sua Relazione alla Camera), il ministro Reale illustrava i contenuti del provvedimento che risultava strutturato in 13 ar-ticoli. Fra le principali novità (ad esempio, la modifica della de-____________

(97) CAMERA DEI DEPUTATI, IV Legislatura, seduta del 6 febbraio 1968, Disegno di legge presentato dal Ministro di Grazia e Giustizia (Reale Oronzo), Modificazioni al Codice penale.

(98) Cfr. CAMERA DEI DEPUTATI, IV Legislatura, Proposta di legge presentata il 19 aprile 1967, Abrogazione delle norme del codice penale concernenti i reati di adulterio, concubinato, omicidio e lesioni a causa di onore, e la causa speciale di estinzione dei delitti contro la libertà sessuale, attraverso il matrimonio, p. 1. Sul punto cfr. anche Parità tra i coniugi anche con l’eliminazione del reato di adulterio, in “l’Unità”, 8 maggio 1967, p. 6. Il 16 maggio 1967 la proposta di legge veniva deferita all’analisi della IV Commissione Giustizia.

(99) Sulla tutela costituzionale della famiglia si veda F. BONINI, La famiglia alla Costituente: strategie e modelli istituzionali, in Percorsi e modelli familiari in Italia tra ‘700 e ‘900, a cura di F. Mazzonis, Roma, Bulzoni, 1997, pp. 207-254. Sul punto cfr. anche NOVARESE, Donne e diritti: un lungo, difficile percorso, cit., pp. 144-145; EAD., Dalla disuguaglianza alle pari opportunità, cit., pp. 54-56; M.A. COCCHIARA, Segmenti del dibattito costituente sulla famiglia tra compromessi, ingerenze vaticane e protagonismo femminile (1946-47), in «Società e Storia», 135 (2012), pp. 119-155.

(100) Disegno di legge presentato dal Ministro di Grazia e Giustizia (Reale Oronzo), cit., p. 2.

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finizione del delitto politico, la disciplina dell’estradizione e la sospensione condizionale della pena), anche l’abrogazione del discusso art. 587, con l’inserimento della causa d’onore tra le circostanze attenuanti previste dall’art. 62 c.p. Frutto di una «e-sigenza vivamente avvertita dalla coscienza sociale», la cancella-zione di quella norma, secondo Reale, avrebbe favorito l’opera educatrice

della legislazione rispetto anche a certi sentimenti, a certe residue abi-tudini mentali, a certi cosiddetti valori che sopravvivono nel paese e che non debbono arrestare (come invece si sostiene da alcuni) il legi-slatore in una specie di timore reverenziale, anche perché, fortunata-mente, non appartengono alla maggioranza dei cittadini (101). Pene più severe, volte a scoraggiare una fattispecie criminosa

che, soprattutto in alcune regioni del paese, «si manifesta […] in forme tali da allarmare la pubblica opinione» (102), erano, inoltre, previste per gli autori del ratto a fine di matrimonio. E pur man-tenendo il principio del matrimonio riparatore enunciato dall’art. 544, il disegno di legge, capovolgendone la formulazione (103), in-troduceva un principio dal forte significato etico e morale, preve-dendo, inoltre, che la causa speciale di estinzione non potesse es-sere più estesa a coloro che avevano avuto parte nel reato.

Nella seduta del 13 febbraio 1968, la Camera decideva di deferire il provvedimento in questione alla IV Commissione Giustizia in sede legislativa (104).

Ma i tempi non erano ancora maturi. L’imminente consul-tazione politica, in calendario il 19 maggio 1968, ne avrebbe, di fatto, impedito la discussione in Parlamento. E la IV Legislatu-____________

(101) Ivi, p. 10. (102) Ivi, p. 9. (103) «Art. 544 – (Causa speciale di estinzione del reato). – Per i delitti preveduti dal capo

primo e dall’articolo 530, il matrimonio, che la persona offesa contragga con l’autore del reato, estingue il reato stesso nei confronti di questi; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali»: ivi, pp. 19-20.

(104) Cfr. CAMERA DEI DEPUTATI, IV Legislatura, Discussioni, seduta antimeridiana del 13 febbraio 1968, p. 43445.

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ra (1963-1968), quella che avrebbe dovuto inaugurare una sta-gione di progresso democratico e di riforme, si sarebbe conclu-sa con la percezione di un chiaro senso di “incompiutezza” di cui lo stesso presidente Moro, come ha sottolineato Francesco Bonini, avrebbe avuto piena coscienza (105).

6. 1977-1981: il lungo e complesso iter di approvazione della legge a-brogativa della causa d’onore e del matrimonio riparatore.

Pur prevista anche da altri disegni di legge volti a riformare il diritto penale (106), l’abolizione degli artt. 587 e 544 non veni-va, tuttavia, inserita nella novella del 1974 che, varata su inizia-tiva del V governo presieduto dal democristiano Mariano Ru-mor (14 marzo – 22 novembre 1974), modificava, in alcune parti, il codice penale (107).

Bisognava, quindi, aspettare ancora qualche anno prima che il Parlamento tornasse nuovamente ad occuparsi di quel delicato argomento.

L’occasione si presentava il 14 dicembre 1977 quando, do-po una vivace e partecipata discussione, il Senato approvava il disegno di legge Abolizione della rilevanza penale della causa d’onore, presentato su iniziativa della sua vice presidente, Tullia Roma-gnoli Carettoni, del gruppo della Sinistra Indipendente, da

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(105) Per un quadro storico-istituzionale del periodo compreso tra il 1963 ed il 1968 si rinvia a F. BONINI, Storia costituzionale della Repubblica. Profilo e documenti (1948-1992), con una Introduzione di P. SCOPPOLA, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1993, pp. 75-86; S. COLARIZI, Storia dei partiti nell’Italia repubblicana, Roma-Bari, Laterza, 1994, pp. 308-362; F. BONINI, Storia costituzionale della Repubblica. Un profilo dal 1946 a oggi, Roma, Carocci, 2007, pp. 61-72.

(106) Cfr., ad esempio, CAMERA DEI DEPUTATI, V Legislatura, seduta del 19 novembre 1968, Disegno di legge presentato dal Ministro di Grazia e Giustizia (Gonella), Riforma del Codice penale.

(107) Per introdurre le riforme in questione (le disposizioni relative al concorso di circostanza, al concorso formale di reati, al reato continuato, alla recidiva, alla sospensione condizionale della pena), il governo aveva fatto ricorso al decreto legge (11 aprile 1974, n. 99, Provvedimenti urgenti sulla giustizia penale), convertito dal Parlamento con la legge 7 giugno 1974, n. 220, pubblicata sulla «Gazzetta Ufficiale», n. 151 dell’11-6-1974.

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sempre impegnata a promuovere e sostenere iniziative volte alla tutela e alla difesa dei diritti e delle libertà delle donne (108).

È opportuno ricordare che il provvedimento in questione era parte di una precedente proposta (intitolata Norme per la tutela dell’uguaglianza tra i sessi) di cui la stessa senatrice veronese era sta-ta promotrice al fine di cancellare definitivamente tutte quelle forme «di discriminazione diretta o indiretta ai danni della don-na» (109) che, nonostante il disposto dell’art. 3 della Costituzione, continuavano ad essere vigenti nell’ordinamento giuridico italia-no. A seguito dell’introduzione della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), del conseguente referendum con cui gli italiani, nel 1974, avevano scelto di non abrogare, nonostante l’incalzante pressione di clero e organizza-zioni cattoliche, il divorzio e, soprattutto, dopo l’approvazione della legge 19 maggio 1975, n. 151 (Riforma del diritto di famiglia), che aveva finalmente sancito, tra l’altro, la parità dei coniugi e sostituito la patria potestà con la potestà genitoriale (110), la gran parte delle proposte formulate dalla senatrice poteva dirsi ormai superata. Rimaneva, tuttavia, ancora irrisolta la delicata questione della vigenza degli artt. 587 e 544 c.p., «l’una e l’altra norma strumenti certo di sopraffazione della donna» (111).

Accogliendo un suggerimento dello stesso governo, il Sena-to aveva ritenuto opportuno operare un intervento più radicale, volto all’eliminazione di tutte le disposizioni normative ispirate ____________

(108) Docente nelle scuole medie superiori, Tullia Carettoni Romagnoli (Verona, 30 dicembre 1918) era eletta al Senato, nel collegio di Mantova, dal 1963 al 1979, dove avrebbe lavorato a sostegno del nuovo diritto di famiglia e di altre leggi a favore delle donne. Parlamentare europea dal 1971, veniva eletta anche in occasione delle prime consultazioni a suffragio universale e diretto svoltesi nel 1979. Sul punto si rinvia alla schede approntate sul sito del Senato della Repubblica, in http://www.senato.it/leg/ElencoSenatori/Sena.html, ad indicem. Alcuni spunti interessanti si leggono anche in R.Y. CATALANO, La felicità è un pezzo di pane e cioccolata. Conversazioni con Tullia Carettoni Romagnoli, [s.l.], Narcissus, 2014.

(109) Cfr. SENATO DELLA REPUBBLICA, VII Legislatura, 214a seduta pubblica (pomeri-diana), Assemblea, Resoconto stenografico, 14 dicembre 1977, intervento di Bonifacio, p. 9359.

(110) Sul punto cfr., per tutti, NOVARESE, Donne e diritti: un lungo, difficile percorso, cit., pp. 146-148; EAD., Dalla disuguaglianza alle pari opportunità, cit., pp. 56-58.

(111) SENATO DELLA REPUBBLICA, VII Legislatura, 214ª seduta pubblica (pomeri-diana), cit., intervento di Bonifacio, p. 9359.

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alla logica, «che la nostra coscienza moderna respinge» (112), del-l’“onore sessuale”, base e fondamento degli artt. 587 e 544.

Il disegno di legge approvato il 14 dicembre disponeva, in-fatti, non solo l’abrogazione di questi ultimi, ma anche quella dell’art. 592, che disciplinava l’abbandono di neonato per causa d’onore, prevedendo, inoltre, all’art. 2, una diversa formulazione per l’art. 578 (relativo all’infanticidio per causa d’onore). Rubri-cato come Infanticidio in stato di alterazione psichica, il nuovo articolo delineava una figura autonoma di reato, che puniva la donna colpevole di aver causato la morte del proprio neonato con una pena che poteva variare da sei a dodici anni, senza prevedere al-cuna attenuante per quanti avessero preso parte al delitto (113).

La stesura di quest’ultimo articolo, nello specifico, si era ri-velata particolarmente complessa, ma alla fine le senatrici e i senatori di tutti gli schieramenti politici avevano trovato l’ac-cordo, pienamente consapevoli di aver fornito un contributo rilevante, come avrebbe sostenuto nella sua dichiarazione di vo-to il comunista Gianfilippo Benedetti,

all’ulteriore evoluzione di quella linea di politica della famiglia che da anni, non senza difficoltà e resistenze, si sta affermando soprattutto per l’impegno del movimento femminile e delle masse popolari nel più va-sto quadro di un obiettivo politico di riforma delle strutture e del co-stume della nostra società civile (114). Così strutturato, il provvedimento veniva, quindi, rimesso

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(112) Ibidem. (113) «Art. 578 – (Infanticidio in stato di alterazione psichica) – La donna che cagiona la

morte del proprio neonato immediatamente dopo il parto, ovvero del proprio feto durante il parto, trovandosi in uno stato di alterazione psichica, connesso col parto, che, pur non ricorrendo le condizioni dello articolo 89, ne riduca la capacità di intendere o di volere, è punita con la pena della reclusione da 6 a 12 anni. Ai concorrenti nel reato si applicano le disposizioni relative all’omicidio»: così l’art. 2 della Proposta di legge d’iniziativa del Senatore Romagnoli Carettoni Tullia approvata dal Senato della Repubblica nella seduta del 14 dicembre 1977, Abrogazione della rilevanza penale della causa d’onore (CAMERA DEI DEPUTATI, VII Legislatura, Documenti – Disegni di legge e relazioni, n. 1942, pp. 1-2).

(114) SENATO DELLA REPUBBLICA, VII Legislatura, 214a seduta pubblica (pomeridiana), cit., intervento di Benedetti, p. 9361.

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alla Camera che lo riceveva il 19 dicembre (115): passata all’esame dei deputati, però, la proposta di legge suscitava non poche per-plessità proprio in merito alla nuova formulazione dell’art. 578.

Ancora una volta, tuttavia, i contrasti interni ai partiti che supportavano il III governo guidato da Giulio Andreotti, il co-siddetto governo della non “sfiducia” (definizione volta ad in-dicare che il monocolore DC non si fondava su una maggio-ranza precostituita ma sulle astensioni di PSI, PRI, PSDI, PLI e anche del PCI (116)), avrebbero finito con l’influenzare negati-vamente le sorti di quel provvedimento.

Il 16 gennaio 1978, infatti, in un clima politico reso roven-te anche dal crescente numero di attentati firmati dai cosiddetti “terroristi rossi”, il presidente Andreotti rassegnava le dimis-sioni: si apriva, così, una lunga crisi che si concludeva l’11 mar-zo successivo quando lo stesso Andreotti, che aveva ricevuto dal Presidente della Repubblica Giovanni Leone l’incarico di formare il nuovo governo, scioglieva la riserva, dando vita al suo IV ministero, anche questo monocolore DC, che contava, però, sull’apporto di PSI, PRI, PSDI e del PCI. Veniva, così, varata la formula della “solidarietà nazionale” che avrebbe con-sentito al paese di fronteggiare l’emergenza terrorismo.

Ma in quel peculiare clima, ogni decisione in merito al-l’abolizione della rilevanza penale della causa d’onore veniva momentaneamente accantonata. Lo scioglimento anticipato delle Camere, poi, che avrebbe portato alle elezioni del 3 giu-gno 1979, comportava la decadenza della proposta.

Ma era proprio con l’avvio della nuova legislatura che si registrava la svolta che avrebbe portato all’approvazione della tanto attesa legge abrogativa degli artt. 544 e 587.

Il 5 luglio 1979, a pochi giorni dal loro insediamento, un ____________

(115) Sul punto cfr. CAMERA DEI DEPUTATI, VII Legislatura, Discussioni, seduta del 19 dicembre 1977, p. 13453.

(116) Sul punto si vedano BONINI, Storia costituzionale della Repubblica. Profilo e documenti, cit., pp. 101-106; COLARIZI, Storia dei partiti nell’Italia repubblicana, cit., pp. 472-476; BONINI, Storia costituzionale della Repubblica. Un profilo dal 1946 a oggi, cit., pp. 87-94.

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gruppo di senatrici e senatori dei gruppi Comunista e della Sini-stra Indipendente, ancora una volta su iniziativa di una donna, la giornalista Carla Ravaioli al suo esordio da parlamentare, pre-sentava il disegno di legge intitolato Abrogazione della rilevanza penale della causa d’onore. Si trattava, in realtà, di un provvedimen-to che riproduceva pedissequamente il testo già approvato dal Senato il 14 dicembre 1977. Una scelta che la stessa proponen-te aveva effettuato, nonostante alcune perplessità iniziali dovute prevalentemente alla formulazione dell’art. 578, al fine di poter usufruire della procedura abbreviata prevista dall’art. 81 del re-golamento del Senato e riuscire così, in tempi relativamente brevi, a «cancellare definitivamente dal nostro codice questa sorta di relitto giuridico di un anacronismo non si sa se più ver-gognoso o grottesco» (117).

Concorde nel riproporre l’abrogazione degli artt. 544, 587 e 592, la Commissione Giustizia del Senato che aveva esamina-to il disegno di legge presentato su iniziativa della Ravaioli ave-va, quindi, proposto che l’art. 578 (che tante perplessità aveva già suscitato sia tra i deputati che fra gli stessi senatori in quan-to, prevedendo lo stato di alterazione psichica connesso con il parto, in-troduceva una fattispecie delittuosa anomala, poco coerente con i principi basilari del diritto penale (118)), venisse così ri-formulato:

Art. 578 – (Circostanza attenuante) – La pena di cui all’articolo 575

può essere diminuita in misura non eccedente la metà per la madre

____________

(117) Cfr. SENATO DELLA REPUBBLICA, VIII Legislatura, 131a seduta pubblica (pomeri-diana), Assemblea – Resoconto stenografico, 15 maggio 1980, intervento di Ravaioli, p. 6969. La senatrice continuava così il suo intervento: «Mi è parso, insomma, che non si dovesse in alcun modo rinunciare alla procedura abbreviata di cui era possibile usufruire in base all’articolo 81 del Regolamento, per attendere l’approvazione di una legge complessa e per certi versi radicalmente innovatrice, come quella per la tutela della libertà sessuale. I tempi parlamentari li conosciamo tutti [...] rinviare ancora mi sarebbe parso colpevole, più che sbagliato» (ibidem).

(118) Sul punto si veda SENATO DELLA REPUBBLICA, VIII Legislatura, Relazione della 2a Commissione permanente (Giustizia) comunicata alla Presidenza il 9 maggio 1980 sul disegno di legge Abrogazione della rilevanza penale della causa d’onore, intervento del relatore Gozzini, p. 3.

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che ha cagionato la morte del neonato immediatamente dopo il parto, o del feto durante il parto, quanto le circostanze di cui all’articolo 62-bis abbiano avuto, in relazione alle condizioni di abbandono materiale o morale in cui il parto è avvenuto, incidenza determinante sulla com-missione del fatto.

In ogni caso la pena non può essere inferiore ad anni dieci. Ai concorrenti nel reato si applicano le disposizioni previste

dall’articolo 575 e seguenti (119).

Questa soluzione, secondo il relatore Mario Gozzini del gruppo della Sinistra Indipendente, offriva una serie di elementi positivi: cassava l’infanticidio come figura autonoma di reato, teneva in debito conto, nel motivare un’eventuale riduzione della pena, condizioni non soggettive ma oggettive (connesse, ad esempio, alla contingente situazione di emarginazione socia-le in cui la donna si poteva trovare al momento del delitto) e, soprattutto, stabiliva una pena minima di dieci anni a fronte di quella irrisoria di tre prevista per il reato di infanticidio per cau-sa d’onore (120).

In quella versione, la proposta di legge veniva approvata dal Senato il 15 maggio 1980.

Qualche giorno prima, il 12 maggio, il quotidiano “La Stampa” si soffermava ad illustrare le diverse fasi relative alla gestazione di quel provvedimento, evidenziando anche le diffi-coltà di carattere tecnico-giuridico che ne avevano fino a quel momento ostacolato l’iter, segno del vivo interesse che l’argo-mento suscitava nell’opinione pubblica (121).

Il 19 maggio la proposta approvata dal Senato veniva tra-smessa alla Camera che, l’11 giugno, decideva di deferirla alla IV Commissione Giustizia (122). ____________

(119) SENATO DELLA REPUBBLICA, VIII Legislatura, Relazione della 2a Commissione permanente (Giustizia), cit., p. 6.

(120) Sul punto cfr. ivi, p. 4. (121) Sul punto si vedano gli articoli di L. CURTINO, Ora il delitto perde l’“onore”, in “La

Stampa”, 12 maggio 1980, p. 7 e di G. CONSO, Un relitto storico, ibidem. (122) Si vedano al riguardo i relativi resoconti in CAMERA DEI DEPUTATI, VIII Legislatura,

Discussioni, seduta 19 maggio 1980, p. 14365, ed ivi, seduta dell’11 giugno 1980, p. 14745.

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Il 2 luglio, il presidente della Commissione, Luigi Dino Fe-lisetti (PSI), avviava la discussione sulla proposta di legge ap-provata dal Senato e su quella, recante la stessa intitolazione, presentata, su iniziativa di Giuseppe Tocco, da alcuni deputati socialisti l’11 agosto 1979 (123). Il progetto di questi ultimi pre-vedeva una diversa formulazione dell’art. 578: nelle loro inten-zioni, infatti, l’infanticidio commesso in uno stato di turbamen-to psichico doveva essere considerato al pari degli altri reati contro la persona, con l’esclusione delle aggravanti previste da-gli artt. 576 e 577 c.p. e con l’eventuale diminuzione della pena ai sensi del disposto dell’art. 89 c.p. (124).

Toccava ad una donna, la deputata democristiana Mariapia Garavaglia, il compito di svolgere la relazione sulle proposte di legge all’ordine del giorno. Ribadendo l’importanza dell’argo-mento trattato, «oggetto di animato dibattito sia all’interno del Parlamento, sia all’esterno nell’ambito della pubblica opinione», la relatrice concludeva il suo intervento esprimendo la propria prefe-renza per il progetto approntato e già votato dal Senato, sul quale, a suo giudizio, potevano convogliare numerosi consensi (125).

Alla discussione prendevano parte, fra gli altri, anche Fran-cesco De Cataldo, esponente del Partito radicale, e il democri-stiano Carlo Casini.

Pur condividendo le osservazioni di carattere socio-culturale alla base della proposta volta a cassare gli artt. 544, 587 e 592, De Cataldo si dichiarava contrario, in linea di princi-pio, a riforme novellistiche che, a volte, non si integravano per-____________

(123) Cfr. CAMERA DEI DEPUTATI, VIII Legislatura, Proposta di legge n. 557 presentata l’11 agosto 1979, Abrogazione della rilevanza penale della causa d’onore, pp. 1-2.

(124) «Art. 578 – (Infanticidio in istato di alterazione psichica) – La donna che cagiona la morte del proprio neonato immediatamente dopo il parto, ovvero del proprio feto durante il parto, trovandosi in uno stato di alterazione psichica, connesso col parto, che, pur non ricorrendo le condizioni dell’articolo 89 del codice penale, ne riduca la capacità di intendere e volere, è punita a sensi dell’articolo 575 del codice penale. Non sono applicabili le aggravanti di cui all’articolo 576 n 1) e 2), né quelle di cui all’articolo 577 e la pena è diminuita nella misura derivante dall’applicazione dell’articolo 89 del codice penale»: ivi, p. 2.

(125) Sul punto cfr. CAMERA DEI DEPUTATI, VIII Legislatura, IV Commissione Giustizia, seduta del 2 luglio 1980, pp. 188 e 190.

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fettamente con il corpo organico della legge che andavano ad aggiornare. Si diceva, poi, dubbioso circa la formulazione del-l’art. 578 dal momento che, a suo giudizio, nel caso in cui una madre si fosse macchiata del reato di infanticidio, era necessa-rio tenere nella giusta considerazione le circostanze di fatto e la situazione psicologica che lo avevano determinato (126).

Anche Casini mostrava le sue perplessità sulla nuova stesura dell’art. 578. Favorevole all’abrogazione degli artt. 544, 587, 592, egli si soffermava, però, a svolgere una riflessione sull’eventualità che vittima e carnefice decidessero, in piena ed assoluta libertà e senza costrizione alcuna, di contrarre matrimonio:

perché escludere – seppur in linea teorica – che un sia pur grave episodio di violenza sessuale possa essere seguito da un matrimonio dettato, au-tenticamente, da una libera scelta? […] mi lascia alquanto perplesso l’idea che, in una materia così delicata, una libera scelta di carattere matrimonia-le non abbia alcun effetto; e la cosa mi preoccupa maggiormente poiché la querela, per fatti di questo genere, è irrevocabile e, conseguentemente, un eventuale perdono non potrebbe esprimersi in nessun modo (127).

Riflessione che, tuttavia, non lo portava a formulare ipotesi

o soluzioni alternative a quelle contenute nel disegno di legge in esame.

Nonostante gli auspici della relatrice, l’accordo sul nuovo art. 578 non veniva, però, raggiunto. Per questo motivo, su ri-chiesta del comunista Raimondo Ricci, la Commissione decide-va di rimandare la discussione sul tema ad un’altra seduta.

Il 30 luglio 1980, avendo constatato il persistere di opinioni di-vergenti, la Garavaglia chiedeva al presidente un ulteriore rinvio al fine di poter convocare un gruppo informale di studio che potesse dedicarsi alla ricerca di nuove e più condivisibili soluzioni (128). ____________

(126) Ivi, pp. 190-191. (127) Ivi, pp. 191-192. (128) «Propongo quindi di rinviare il seguito della discussione per dare la possibilità ad

un gruppo di lavoro informale di elaborare una formulazione che possa raccogliere il più ampio consenso da parte dei vari gruppi»: così CAMERA DEI DEPUTATI, VIII Legislatura, IV Commissione Giustizia, seduta del 30 luglio 1980, intervento di Garavaglia, p. 233.

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I lavori in Commissione riprendevano il 18 febbraio 1981. In quell’occasione la relatrice Garavaglia dava conto dei risultati del gruppo di studio che si era espresso per il mantenimento del vecchio art. 1 della proposta di legge (che prevedeva l’abro-gazione degli artt. 544, 587 e 592) e la sostituzione dell’art. 2 (che recava la discussa formulazione dell’art. 578) con un nuo-vo testo che, rubricato come Infanticidio, recitava:

La madre che cagiona la morte del proprio neonato immediata-

mente dopo il parto, o del feto durante il parto, quando il fatto è de-terminato da condizioni di abbandono materiale o morale connesse al parto, è punita con la reclusione da quattro a dodici anni.

A coloro che concorrono nel fatto si applica la pena prevista dell’art. 575 (129).

Il dibattito che seguiva l’esame dei singoli articoli così co-

me proposti dal gruppo di studio riservava alcune sorprese. I deputati del gruppo MSI-destra nazionale Enzo Trantino,

Antonino Macaluso, Antonino Tripodi e Pietro Pirolo, insieme al collega del gruppo misto Aldo Rizzo, presentavano, infatti, un e-mendamento volto a cassare dall’art. 1 il riferimento all’art. 544 c.p.

Sarebbe stato Rizzo, nello specifico, ad illustrare la motiva-zione che li aveva spinti a quella scelta: l’art. 544 non era diretta-mente collegato, a loro giudizio, con la causa d’onore e la sua a-brogazione avrebbe dovuto, quindi, essere presa in considerazio-ne in un contesto più ampio, volto alla valutazione ed eventuale revisione di altri istituti fra cui, ad esempio, la querela che, in base a quanto previsto dall’art. 542 c.p. (130), non poteva essere ritirata in presenza di reati che «offendono la libertà sessuale» (131). ____________

(129) CAMERA DEI DEPUTATI, VIII Legislatura, IV Commissione Giustizia, seduta del 18 febbraio 1981, intervento di Garavaglia, p. 490.

(130) «Art. 542 – Querela dell’offeso – I delitti preveduti dal capo primo e dall’articolo 530 sono punibili a querela della persona offesa. La querela proposta è irrevocabile. Si procede tuttavia d’ufficio: 1° se il fatto è commesso dal genitore o dal tutore, ovvero da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio; 2° se il fatto è connesso con un altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio» (Codice penale del Regno d’Italia, cit., pp. 139-140).

(131) CAMERA DEI DEPUTATI, VIII Legislatura, IV Commissione Giustizia, seduta del 18 febbraio 1981, intervento di Rizzo, p. 484.

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In linea con l’intervento di Rizzo, Casini esplicitava le ri-flessioni svolte durante la seduta del 2 luglio: pur ribadendo che l’istituto del matrimonio riparatore fosse espressione di una cul-tura ormai superata, egli sosteneva che l’abrogazione dell’art. 544 avrebbe finito per limitare la libertà di matrimonio fra vit-tima e carnefice. Per questo egli indicava due possibili strade: seguire la proposta di Rizzo e, quindi, cassare il riferimento all’art. 544 contenuta nell’art. 1 della proposta di legge in esame, o procedere, insieme alla sua abrogazione, a modificare il di-sposto dell’art. 542, prevedendo che il matrimonio potesse con-sentire la revoca della querela, «almeno per quanto riguarda gli effetti sul coniuge» (132).

Gli emendamenti presentati venivano, tuttavia, respinti e l’art. 1 della proposta di legge veniva approvato nella sua for-mulazione iniziale.

Ma il nodo più difficile da sciogliere continuava ad essere quello relativo alla nuova stesura dell’art. 578.

Numerosi, a questo proposito, gli interventi e gli emenda-menti dei deputati.

Era, in particolare, sulla pena prevista per la madre che si registravano diverse posizioni.

Mentre i comunisti Angela M. Bottari, Adriana Fabbri Se-roni, Raimondo Ricci, Ersilia Salvato e il socialista Antonino Carpino ne chiedevano la riduzione (minimo tre, massimo dieci anni), argomentando che il numero degli infanticidi si era, nel tempo, sensibilmente ridotto e che la madre, alla luce della nuova ratio che ispirava il provvedimento in questione, doveva essere considerata anche vittima oltre che colpevole (133), gli ____________

(132) Ivi, intervento di Casini, p. 486. (133) «Il numero degli infanticidi al momento del parto è notevolmente diminuito nel nostro

paese; vi sono solo alcuni e rari casi, dietro ai quali si nascondono grandi drammi […] non pos-siamo, quindi, proprio alla luce di questa nuova ratio, che considera la madre che commette l’in-fanticidio essa stessa una vittima, prevedere la comminazione di una pena superiore a quella già prevista dal codice Rocco. Questo risulterebbe grave e strano agli occhi dell’opinione pubblica, che non comprenderebbe più quale sia la linea da noi seguita»: ivi, intervento di Bottari, pp. 490-491. Sul punto, supra A.M. BOTTARI, La legge sulla violenza sessuale: tra ricordi e riflessioni, pp. ***-***.

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esponenti della destra Trantino, Macaluso, Tripodi e Pirolo in-sistevano, invece, per inasprirla (minimo cinque, massimo dodici anni) proprio perché, trattandosi di un reato poco diffuso, biso-gnava punire più severamente chi lo avesse commesso (134).

Un ulteriore punto di disaccordo, ad esempio, emergeva in merito alla definizione della pena da comminare ad eventuali concorrenti nel reato.

In considerazione dell’importanza dell’argomento trattato e, soprattutto, dell’opportunità di giungere a soluzioni il più possi-bili condivise, il presidente decideva di rinviare la discussione in modo da consentire un ulteriore approfondimento della materia.

I lavori della Commissione riprendevano il 4 marzo. Auspicando il ritiro di tutti gli emendamenti presentati, la

relatrice Garavaglia illustrava la nuova versione dell’art. 578 che avrebbe dovuto sostituire la precedente:

Art. 578 – Infanticidio. La madre che cagione la morte del proprio

neonato immediatamente dopo il parto, o del feto durante il parto, quando il fatto è determinato da condizioni di abbandono materiale o morale connesso al parto, è punita con la reclusione da quattro a dodici anni.

A coloro che concorrono nei fatti si applica la pena della reclusione non inferiore a 21 anni. Non si applicano le aggravanti stabilite dall’arti-colo 61 del codice penale (135).

Questa formulazione, secondo la deputata democristiana,

in linea con il nuovo modello di famiglia delineato dalla novella del 1975, considerava il reato di infanticidio come fattispecie autonoma e non un’attenuante specifica dell’omicidio (questo «affinché non appaia che la soppressione di un “piccolo uo-____________

(134) «Per quanto riguarda l’entità della pena, voglio utilizzare le argomentazioni della collega Bottari per mettere in rilievo che, pur non avendo più il reato di cui ci stiamo occupando una ricorrenza allarmante, può essere consumato da chi, per età, è passibile di godere dei benefici previsti dal codice, mentre dovrebbe essere punito con maggiore rigore»: ivi, intervento di Trantino, p. 491.

(135) CAMERA DEI DEPUTATI, VIII Legislatura, IV Commissione Giustizia, seduta del 4 marzo 1981, intervento di Garavaglia, pp. 507-508.

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mo”, sia per ciò stesso un reato minore rispetto alla soppres-sione di un adulto» (136), precisava la relatrice) e prevedeva una pena sufficientemente clemente per quella madre omicida che si fosse però trovata in condizioni molto peculiari (l’abbandono materiale o morale), accertabili dal magistrato. Agli eventuali concorrenti nel reato, invece, sarebbe stata comminata una pu-nizione diversa, decisamente più severa.

Anche questa nuova formulazione sollecitava un vivace di-battito.

Sia gli esponenti del gruppo comunista che quelli del mo-vimento sociale italiano ribadivano le posizioni emerse nella se-duta precedente: i primi continuavano a chiedere una riduzione della pena per la madre, mentre i secondi un inasprimento della medesima (137).

Particolarmente interessante l’intervento di Rizzo, secondo cui la nuova formulazione dell’art. 578 mirava al raggiungimen-to di due obiettivi: l’abolizione della causa d’onore e, ferma re-stando l’equiparazione dell’infanticidio con l’omicidio, l’intro-duzione di una diversa fattispecie giuridica per la quale la previ-sione di una pena più mite era giustificata solo dall’esistenza di oggettive condizioni di abbandono morale e materiale in cui si sarebbe trovata la madre colpevole di quel reato. Proprio per questo motivo egli suggeriva che il nuovo articolo fosse rubri-cato come Infanticidio in condizioni di abbandono materiale e morale: la sua proposta trovava l’immediato sostegno del democristiano Gianfranco Sabbatini.

Rizzo, inoltre, criticava la soluzione proposta dalla relatrice Garavaglia in merito alla pena da irrogare agli eventuali concor-renti nel reato: pur trattandosi di fattispecie autonoma, la pena prevista per quanti vi avessero preso parte era identica a quella comminata a quanti si fossero macchiati di omicidio. A suo

____________

(136) Ivi, intervento di Garavaglia, p. 507. (137) Sul punto si vedano gli interventi di Bottari e di Macaluso: ivi, rispettivamente pp.

508 e 513.

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giudizio, invece, era necessario operare, tra i concorrenti nel re-ato, una netta distinzione fra chi vi aveva preso parte «per age-volare la madre» e chi, invece, ad esempio, lo aveva fatto «per motivi di lucro» (138). Mentre per i primi, che a suo giudizio, a-vevano finito per “sposare” le peculiari condizioni di abbando-no previste dall’art. 578, la pena avrebbe dovuto essere più mite (minimo sei, massimo quindici anni), per i secondi, invece, era giusto prevedere lo stesso trattamento riservato ai colpevoli di omicidio (non meno di ventuno anni).

Contrario alla proposta di Rizzo si dichiarava il radicale De Cataldo, il quale riteneva che fissare una pena diversa per i con-correnti nel reato significava «smantellare alla base il nostro si-stema in materia di concorso nel reato» (139).

Le perplessità manifestate dai differenti gruppi politici evi-denziavano la complessità dei problemi (sia di carattere tecnico che di coordinamento con l’ordinamento vigente) ancora da ri-solvere. Per questo motivo, si decideva di concludere la seduta con un ulteriore rinvio.

L’11 marzo, finalmente, si giungeva alla redazione di un te-sto condiviso.

Dopo la lettura di tutti gli emendamenti e subemendamenti presentati, era Ricci a riassumere quanto ancora restava da fare: definire la pena da comminare alla madre che commetteva in-fanticidio trovandosi nelle peculiari condizioni previste dal nuovo art. 578 e fissare il trattamento da riservare agli eventuali concorrenti nel reato (140).

Per facilitare la trattazione della materia, il vice presidente Sabbatini proponeva che la votazione sull’emendamento pre-sentato dal relatore nella seduta precedente avvenisse per parti separate.

Per prima cosa veniva messa ai voti, ed approvata, la pro-____________

(138) Ivi, intervento di Rizzo, p. 510. (139) Ivi, intervento di De Cataldo, p. 515. (140) CAMERA DEI DEPUTATI, VIII Legislatura, IV Commissione Giustizia, seduta

dell’11 marzo 1981, intervento di Ricci, p. 524.

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posta di Rizzo (su cui si erano dichiarati d’accordo sia il relatore che il rappresentante del governo) di rubricare il nuovo art. 578 come Infanticidio in condizioni di abbandono materiale e morale.

Dopo aver respinto l’emendamento Bottari (in base al quale la pena da comminare alla madre doveva essere compresa tra i tre ed i dieci anni), la commissione passava, quindi, alla votazione, e conseguente approvazione, del primo comma dell’articolo così come proposto dalla relatrice Garavaglia nella seduta del 4 marzo.

Mentre il secondo comma veniva approvato recependo il subemendamento presentato da Ricci (141), il terzo riproponeva la stesura iniziale proposta dalla relatrice. Si arrivava, così, alla redazione definitiva che recitava:

Art. 578 – Infanticidio in condizioni di abbandono materiale e morale. La

madre che cagione la morte del proprio neonato immediatamente dopo il parto, o del feto durante il parto, quando il fatto è determina-to da condizioni di abbandono materiale e morale connesso al parto, è punita con la reclusione da quattro a dodici anni.

A coloro che concorrono nel fatto di cui al primo comma si appli-ca la reclusione non inferiore ad anni ventuno. Tuttavia, se essi hanno agito al solo scopo di favorire la madre, la pena può essere diminuita da un terzo a due terzi.

Non si applicano le aggravanti stabilite dall’articolo 61 del codice penale.

Così formulato, il testo veniva trasmesso alla I Commis-

sione Affari Costituzionali perché lo esaminasse. L’ultimo atto in Commissione Giustizia della Camera si

svolgeva il 15 aprile. Dopo aver riferito il parere favorevole del-la I Commissione Affari Costituzionali (che suggeriva di rifor-mulare il secondo comma in modo da eliminare «la disparità di trattamento tra i concorrenti al fatto ed assicurare una determi-nazione della pena in modo preciso ed univoco» (142)), il presi-

____________

(141) Ivi, p. 531. (142) CAMERA DEI DEPUTATI, VIII Legislatura, IV Commissione Giustizia, seduta del

15 aprile 1981, intervento del presidente Felisetti, pp. 561-562.

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dente Felisetti lasciava la parola alla relatrice Garavaglia la quale comunicava:

D’intesa con i rappresentanti dei vari gruppi ritengo che sia più

opportuno mantenere il testo dell’articolo 2 da noi approvato in via di principio nel corso della precedente seduta e non accogliere, quindi, il suggerimento – per altro avanzato in termini non vincolanti – della I Commissione affari costituzionali (143).

La proposta di legge veniva, quindi, sottoposta a votazione

a scrutinio segreto. Dei 26 presenti, ben 24 esprimevano parere favorevole: solo due, i radicali Marco Boato e Adele Faccio, si astenevano (144).

7. Aprile-agosto 1981: l’epilogo

L’iter legislativo del provvedimento abrogativo del matri-monio riparatore e della causa d’onore si avviava, così, alle bat-tute finali.

Sempre il 15 aprile 1981, il vicepresidente della Camera dei Deputati, il democristiano Oscar Luigi Scalfaro, comunicava all’Assemblea che la IV Commissione Giustizia aveva approva-to il progetto di legge n. 1699 intitolato Abrogazione della rilevan-za penale della causa d’onore, presentato su iniziativa della senatrice Carla Ravaioli (145).

Qualche settimana più tardi, il 29 aprile, il vice presidente ____________

(143) Ivi, intervento di Garavaglia, p. 562. (144) Ivi, p. 562. Oltre ai due astenuti, avevano preso parte alla votazione Guido

Alberini (PSI), Angela M. Bottari (PCI), Antonino Carpino (PSI), Gianuario Carta (DC), Raffaele Costa (PLI), Germano De Cinque (DC), Renato Dell’Andro (DC), Luigi Dino Felisetti (PSI), Bruno Fracchia (PCI), Mariapia Garavaglia (DC), Tarcisio Gitti (DC), Maria Teresa Granati Caruso (PCI), Salvatore Mannuzzu (PCI), Gianpaolo Mora (DC), Pierluigi Onorato (PCI), Franco Orione (DC), Ernesto Pucci (DC), Alessandro Reggiani (PSDI), Raimondo Ricci (PCI), Vitale Robaldo (PRI), Raffaele Russo (DC), Gianfranco Sabbatini (DC), Ersilia Salvato (PCI), Luciano Violante (PCI).

(145) Cfr. CAMERA DEI DEPUTATI, VIII Legislatura, Discussioni, Resoconto steno-grafico, seduta del 15 aprile 1981, p. 28946.

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del Senato, il democristiano Tommaso Morlino, informava l’As-semblea di aver ricevuto il testo approvato dalla Camera dei De-putati (146): nella seduta del 6 maggio, il presidente Amintore Fanfani (DC) ne annunciava il deferimento alla II Commissione Giustizia (147), dove il dibattito si avviava il 22 luglio seguente.

Il primo a prendere la parola era il democristiano Giovanni Silvestro Coco, il quale evidenziava alcune perplessità sulle mo-difiche che i colleghi deputati avevano apportato al testo che il Senato aveva approvato il 15 maggio dell’anno precedente. Egli criticava, in particolare, il mantenimento dell’infanticidio come fattispecie autonoma di reato, ricordando come l’impostazione originaria fosse, invece, quella di cassarlo dall’ordinamento, in-dividuando, a tal proposito, alcune peculiari condizioni (l’ab-bandono morale e materiale) che potessero essere considerate come attenuanti delle pene previste per l’omicidio. Riflessioni, queste, che venivano condivise anche da Osvaldo Di Lembo, suo collega di partito.

Concludendo l’intervento, Coco sottolineava, tuttavia, che i senatori democristiani, nonostante le «molte obiezioni da a-vanzare», sarebbero stati disposti anche a votare a favore del provvedimento al fine di approvarlo in tempi brevi (148).

L’esigenza di giungere al varo definitivo del testo di legge veniva sottolineato anche dalla comunista Giglia Tedesco Tatò la quale rimarcava come la soluzione adottata dai deputati in tema di infanticidio fosse ispirata, da un punto di vista sanzio-natorio, a criteri ancora più rigorosi di quelli fissati dai senatori.

Alcune riserve sulle modifiche apportate dalla Camera ve-nivano sollevate pure dal vice presidente della Commissione,

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(146) Si veda, a questo proposito, SENATO DELLA REPUBBLICA, VIII Legislatura, 268a seduta pubblica, Resoconto stenografico, seduta antimeridiana del 29 aprile 1981, p. 14501.

(147) SENATO DELLA REPUBBLICA, VIII Legislatura, 275a seduta pubblica, Resoconto stenografico, seduta pomeridiana del 6 maggio 1981, p. 14769.

(148) SENATO DELLA REPUBBLICA, VIII Legislatura, 2a Commissione permanente (Giustizia), 41° resoconto stenografico, seduta di mercoledì 22 luglio 1918, intervento di Coco, p. 508.

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Cesarino Dante Cioce (PSDI), il quale riteneva, tuttavia, che fosse opportuno approvare il testo nella stessa formulazione adottata dalla Camera al fine di evitare che «venga ancora ri-mandato l’adempimento di una esigenza che il Paese avverte da tempo» (149).

Dello stesso avviso si dichiarava anche il relatore Gozzini (che tornava ed evidenziare le due principali riserve suscitate dal testo approvato dai deputati, la scelta, cioè, di mantenere l’infanticidio come fattispecie autonoma e la diminuzione della pena per la madre), il quale era convinto che l’approvazione di quel testo rappresentasse un vero e proprio

atto dovuto verso l’opinione pubblica che ritiene essere già stata a-brogata la causa d’onore e che si trova più avanti di quello che il Par-lamento ha fatto. Rimandarlo alla Camera vorrebbe dire, probabil-mente, un ritardo di molti mesi e un possibile irrigidimento della po-sizione dei due rami del Parlamento (150). Alla replica di Gozzini si aggiungeva, inoltre, quella del

Sottosegretario di Stato a Grazia e giustizia, il deputato Giu-seppe Gargani (DC), il quale ribadiva la necessità di concludere l’iter legislativo del provvedimento: egli esortava, dunque, i se-natori ad evitare «ulteriori perdite di tempo» per non inasprire i rapporti fra i due rami del Parlamento (151).

Dopo aver respinto un emendamento soppressivo dell’art. 578 presentato da Alessandro Agrimi (152), la Commissione ap-provava prima l’art. 2 nel testo modificato dalla Camera dei De-putati e, subito dopo, il disegno di legge nel suo complesso. ____________

(149) Ivi, intervento di Cioce, p. 509. (150) Ivi, p. 511. (151) «Come appartenente a una Camera, prima ancora che come rappresentante del

Governo, io ritengo che una conclusione la si debba trovare, forse davvero per non inasprire i rapporti […] comunque ormai l’iter è stato abbastanza lungo per cui sarebbe opportuno che il Senato evitasse ulteriori perdite di tempo»: ibidem.

(152) Sul punto cfr. ivi, p. 512, dove tra l’altro il senatore democristiano sosteneva: «variamo una riforma semplice dicendo che, finalmente, è abrogato dal codice penale ogni riferimento alla causa d’onore e gli articoli relativi non sono sostituiti, ma abrogati».

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Il giorno seguente, il vice presidente del Senato comunica-va all’Assemblea l’avvenuta approvazione del disegno di legge da parte della Commissione (153).

Il 5 agosto 1981, a poco più di un mese dall’insediamento del primo presidente del Consiglio laico dopo il 1945, il repub-blicano Giovanni Spadolini, il cui governo, che si reggeva gra-zie al sostegno di DC, PSI, PSDI, PRI e PLI, dava avvio alla formula del pentapartito (154), il capo dello Stato Sandro Pertini promulgava la legge n. 442 intitolata Abrogazione della rilevanza penale della causa d’onore, che veniva pubblicata sulla «Gazzetta Ufficiale» n. 218 del 10 agosto successivo.

Strutturata in due articoli, essa decretava, finalmente, la cancellazione dal codice penale degli artt. 544, 587 e 592 e la sostituzione del vecchio art. 578 con il nuovo testo che intro-duceva la fattispecie dell’infanticidio in condizioni di abbandono mate-riale e morale.

La causa d’onore veniva, così, definitivamente espunta dall’ordinamento giuridico italiano: si trattava di un’innova-zione profonda, dalla grande rilevanza sociale oltre che giuridi-ca, in netta contrapposizione con l’impianto delineato dal codi-ce Rocco che, come abbiamo visto, si basava sul principio della subordinazione della donna rispetto all’uomo, attribuendo a quest’ultimo la proprietà del corpo femminile.

Eppure, a tutt’oggi, a distanza di oltre trent’anni dall’en-trata in vigore di quel provvedimento, nonostante l’introduzio-ne, nel 2009, del reato di stalking e, nel 2013, della legge contro il femminicidio (155), sono ancora tanti, troppi, i fidanzati, i ma-riti e gli amanti gelosi o respinti che pensano di poter legitti-____________

(153) Cfr. SENATO DELLA REPUBBLICA, VIII Legislatura, 297a seduta pubblica, Resoconto stenografico, seduta del 23 luglio 1981, p. 15853.

(154) Cfr. BONINI, Storia costituzionale della Repubblica. Profilo e documenti, cit., pp. 110-112; COLARIZI, Storia dei partiti nell’Italia repubblicana, cit., pp. 578-579; BONINI, Storia costituzionale della Repubblica. Un profilo dal 1946 a oggi, cit., pp. 97-99.

(155) Sul punto, oltre alle riflessioni conclusive (L’attualità e le sue pulsioni) di CAVINA, Nozze di sangue, cit., pp. 208-210, si veda G. MOSCHELLA, La disciplina legislativa sulla violenza di genere nell’ordinamento italiano: luci e ombre, in questo stesso volume, pp. ***-***.

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mamente esercitare varie forme di abuso e di violenza, arro-gandosi un inesistente diritto di “possesso” e di “controllo” sulle donne che sostengono di amare.