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LA GIUSTIZIA VERSO LEQUITÀ SOMMARIO: Teoria della giustizia ; I. Nel tempo: 1 ricompensa; 2 punizione; II. Commutazione (Equivalenza) ; III. Nello Spazio: distribuzione (uguaglianza) ; IV. Uguaglianza Proporzionale ; V. La Giustizia è Logos ; VI. Tutti hanno diritti tranne me. Se l’umiltà è il supporto e il fondamento di ogni eccellenza, la cari- tà deve esserne il coronamento. Diremmo: l’umiltà, virtù di continuazione, se si confronta con la carità, diventa virtù di cominciamento in rapporto alla modestia; la carità è l’assoluto cominciamento e l’assoluta terminazione, l’alfa e l’omega! In questa virtù sublime sono implicite tutte le altre; a questa virtù nobile, corrisponde l’unico imperativo incondizionato, sufficien- te e categorico, quello di amare. Con questo si è detto tutto. Ad ogni modo oltre il comandamento dell’amore c’è ancora e sempre l’amore. Amare il prossimo, è l’unica cosa che ognuno di noi dovrebbe as- solutamente fare, la sola prescritta senza alcuna restrizione, la sola la cui assenza rende vana e falsa ogni ultimazione e la cui presenza rende ogni imperfezione perdonabile. L’amore è la cima della cima, acumen acuminis. L’amore è verità e vita di tutte le altre virtù. Se non c’è a- more, la sincerità diventa una scommessa formale, una verità calcola- bile peggiore della menzogna, per tutti i sofismi omicidi che giustifi- ca; il coraggio stesso, carità del principio, è tale solo per questo ele- mento di grazia non finale, ma iniziale. È lo spirito che vivifica la let- tera morta e riabilita ogni debolezza, attraverso il movimento divino dell’amore generoso, l’inizio e la fine, il primo e l’ultimo, il centro e la periferia, la quintessenza spirituale di ogni intimità e il foro intimo La revisione del capitolo XI De la justice à l’équité del libro Traité des vertus di V. Jankélévitch si deve a Giovanna Petrocco, dottore di ricerca presso l’Università degli Studi di Roma “Sapienza”.

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LA GIUSTIZIA VERSO L’EQUITÀ

SOMMARIO:

Teoria della giustizia;

I. Nel tempo: 1 ricompensa; 2 punizione;

II. Commutazione (Equivalenza);

III. Nello Spazio: distribuzione (uguaglianza);

IV. Uguaglianza Proporzionale;

V. La Giustizia è Logos;

VI. Tutti hanno diritti tranne me.

Se l’umiltà è il supporto e il fondamento di ogni eccellenza, la cari-

tà deve esserne il coronamento.

Diremmo: l’umiltà, virtù di continuazione, se si confronta con la

carità, diventa virtù di cominciamento in rapporto alla modestia; – la

carità è l’assoluto cominciamento e l’assoluta terminazione, l’alfa e

l’omega! In questa virtù sublime sono implicite tutte le altre; a questa

virtù nobile, corrisponde l’unico imperativo incondizionato, sufficien-

te e categorico, quello di amare. Con questo si è detto tutto. Ad ogni

modo oltre il comandamento dell’amore c’è ancora e sempre l’amore.

Amare il prossimo, – è l’unica cosa che ognuno di noi dovrebbe as-

solutamente fare, la sola prescritta senza alcuna restrizione, la sola la

cui assenza rende vana e falsa ogni ultimazione e la cui presenza rende

ogni imperfezione perdonabile. L’amore è la cima della cima, acumen

acuminis. L’amore è verità e vita di tutte le altre virtù. Se non c’è a-

more, la sincerità diventa una scommessa formale, una verità calcola-

bile peggiore della menzogna, per tutti i sofismi omicidi che giustifi-

ca; il coraggio stesso, carità del principio, è tale solo per questo ele-

mento di grazia non finale, ma iniziale. È lo spirito che vivifica la let-

tera morta e riabilita ogni debolezza, attraverso il movimento divino

dell’amore generoso, l’inizio e la fine, il primo e l’ultimo, il centro e

la periferia, la quintessenza spirituale di ogni intimità e il foro intimo

La revisione del capitolo XI De la justice à l’équité del libro Traité des vertus di V. Jankélévitch si

deve a Giovanna Petrocco, dottore di ricerca presso l’Università degli Studi di Roma “Sapienza”.

Dalla giustizia all’equità

di ogni intenzione alterocentrica. Quando dicevamo che «bisogna fare

il bene», si voleva dire che bisogna amare tutte le creature viventi.

Nulla è più semplice, né meno nozionistico. Il dono dell’amore, dice-

vamo, è simmetrico all’umile ricettività in uno stesso ordine di grazia

ed afferenza pura: umiltà e carità sono entrambe senza riflessione e

vuote non di sostanza (giacché l’uomo in grado di ricevere senza se-

condi fini ha sempre qualcosa da dare, anche se fosse egli stesso, co-

me dice Seneca1, specificatamente nel sacrificio), ma (vuote) di com-

piacimento e di meditazione. Nell’amore gratuito, la nudità del dono

disinteressato è naturalmente umile, poiché esige l’oblìo di sé,

l’abbandono di ogni glorioso compiacimento e la perfetta innocenza;

ma l’umiltà, se non è a sua volta direttamente e positivamente benefi-

ca, è il preludio e il prolegomeno negativo della carità, poiché implica

la morte dell’egoismo e si occupa del tutto naturalmente dell’Altro;

c’è di più: la grazia di una buona azione sviluppa nel beneficiario la

gratitudine; il gradimento, nell’uomo felice delle buone azioni non è

l’obbligo creato da un debito, bensì a modo suo, un dono gratuito, un

regalo in spirito accessorio. La carità è la positività e la ragion

d’essere dell’umiltà. Essa non ammira ma crea; non attende ma antici-

pa e previene; non è né pazienza né coraggio d’aspettativa e di tolle-

ranza, ma ardore virile; esce da se stessa, non per meravigliarsi passi-

vamente dell’altro ma per dare all’altro e, con un atto di volontà, por-

tare soccorso a questo altro che è Tu.

Teoria della giustizia

Poiché l’acte gracieux è innanzitutto indescrivibile, dobbiamo cer-

care di afferrarlo, attraverso una descrizione apofantica, a partire dal

proseguimento commutativo e mercenario: perché il quod del dono

gratuito e la sottile estrema punta dell’istante caritatevole è giustamen-

te la negazione di questo quid, la Giustizia. La cima appuntita della

carità è il risultato di una giustizia che si affila sempre di più? Si può

certamente tentare di comprendere lo scandalo come limite estremo

della verità: la giustizia ragionevole tenderebbe asintoticamente al pa-

radosso del dono ingiusto e irrazionale; ma il punto di tangenza si

1 De beneficiis

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colloca all’infinito. Modesta, Umile, Amante e Sicura – è questa la

gradazione che si tratta di ricostituire. Tra la giusta stima motivata che

si trova sul piano dell’amicizia e della modestia, l’ammirazione che è

sul piano dell’umiltà, l’amore e infine il dono che sono i segni eroici

della carità, in quale momento si enuncia la conversione, in quale

momento l’apertura?

I. Questo ci fa dubitare che si possa dedurre il quod dal quid: la

giustizia non è tanto una virtù quanto un’istituzione. La secolarità, la

maestà temporale, che la rendono su certi punti paragonabile alla

Chiesa visibile le danno, un posto assai particolare tra le altre forme di

cultura interiore; la Giustizia abita nei suoi palazzi, e questo domicilio

evoca più la casalinga fedeltà che il Coraggio vagabondo. Residenza e

permanenza sono due tratti distintivi della giustizia! Eros nomade, la-

druncolo campestre e fanciullo bohèmien non visse forse ai margini

delle leggi? La stessa pietra secolare di cui è fatto il palazzo dei re

serve ad edificare la casa della giustizia. La dimora della giustizia e la

roulotte dell’amore si oppongono come si oppongono la stabilità e lo

spirito nomade: perché l’amore non è mai istituito una volta per tutte e

non ha mai avuto bisogno di architetti. Ci diranno che la giustizia non

è «fatta», perché «si amministra», simile in questo al diritto che, se in-

dica un insieme statico di istituzioni, rappresenta anche l’ideale in op-

posizione al fatto, e il valore in opposizione alla forza. Ma la giustizia

è qui in lotta non, come la saggezza, contro le resistenze interiori della

nostra ipocrisia, ma contro le invasioni esterne dell’ingiustizia; imper-

sonale e obiettiva, esprime un certo ordine intelligibile, un ordine di

relazioni ragionevoli sulle quali la volontà dell’individuo non ha in-

fluenza: la saggezza è la progenie vivente dei saggi, ma l’impassibile

giustizia, con la sua bilancia e il suo viso di marmo, somiglia ai nume-

ri numerati di Malebranche …, che sussisterebbero anche se non ci

fosse alcuna intelligenza per pensarli. Non è una qualità, è un logos e

una statua; in altre parole, se non c’è saggezza in sé, vi è Giustizia a-

stratta, Giustizia trascendente che protesta, entità soprannaturale, veri-

tà eterna e principio immortale, contro l’ingiustizia degli uomini.

II. Allo stesso tempo, la giustizia è una virtù individuale e sociale:

personale, in quanto designa una certa disposizio

Dalla giustizia all’equità

κοινωνία, è virtù πρòς έτερον e 2; giusto e ingiusto sono ne-

cessariamente εν πλείοσιν, cioè presuppongono il plurale delle mona-

di. Ecco perché Platone dice che per far scoccare la scintilla della giu-

stizia3 bisogna sfregare l’uno contro l’altro i due modelli, individuale

e sociale, uno stesso testo è scritto a caratteri cubitali nel corpo sociale

e a piccoli caratteri nell’individuo che è una miniatura dello Stato;

l’armonia delle parti dell’anima è così copiata su un modello sociale

ed insieme cosmico. Il Gorgia, come la Repubblica, sottolinea

l’omologia a questo proposito dell’anima, della città e dell’universo.

Kόσμος, secondo le Leggi4, è una giustizia; cosmos è assetto ordinato,

armonia e concordia gerarchica; e anche l’οικειοπραγία della Repub-

blica, altrimenti detta «adeguatezza dell’attività», cos’è se non

l’equilibrio di un insieme disciplinato ed armonico? La giustizia in-

somma, è una combinazione che il dialettico deve dosare e determina-

re. Quanto alla sincronia delle tre parti dell’anima rispettivamente

preposte al Buon consiglio, al Coraggio e alla Temperanza, bisogna

osservare che essa crea in noi una divisione del lavoro del tutto paral-

lela all’armonia (appropriazione) dell’attività sociale. Senza dubbio la

grande Giustizia platonica è sintesi demiurgica e virtù delle virtù,

mentre, nel Menone5 e nel pluralismo di Aristotele, una virtù tra le al-

tre, non αρετή απλως, puramente e semplicemente, ma αρετή τις o

μόριον τι αρετής; Dio è giustizia, secondo la Repubblica, e sappiamo

con quale linguaggio entusiasta Proudhon6 invocherà questa «musa

della metafisica» allo stesso tempo pura ed empirica, ideale e reale,

intelligibile e sensibile, in cui riconosce sia l’Assoluto di Fichte che lo

Spirito di Hegel. Primordialità suprema, esclama, principio, centro e

fine del sapere! Ma attraverso l’ipostasi ed erigendola su un piedistal-

2 In rapporto all’altro, nel modo più assoluto: Eth. Nic. V I, 13 (16), 15. La giustizia

non è soltanto data καθ’αυτόν. 17: άλλος, αλλότριος. Cf. 6,6 e 2,10: όλης αρετης

χρησις πρός άλλον.

presiede alle κοινωνήματα. 3 République, IV, 434 e-435a.

4 Le Leggi, VI, 757 b.

5 Menone, 73 e. p-

. 6 De la Justice dans la Revolution et dans l’Èglise, § 8.

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lo, fa il contrario piuttosto che presentarla come una purezza individu-

ale e spirituale: gli uomini saranno giusti, quanto saggi, non dal pro-

fondo dell’anima, ma per la partecipazione ad una giustizia sinnomica,

che è come il Verbo delle loro intelligenze; chi accusa la virtù di su-

premazia non la rende più intima, ma la allontana: fa di essa un’entità

astratta. L’armonia delle virtù è, del resto, essa stessa virtù articolata,

integrazione e solidarietà di funzioni distinte7: la giustizia platonica

non è, come la saggezza, una sintesi antecedente, è piuttosto unisono

secondario del νους, del θυμός e dell’επιθυμία. La giustizia del cosmo

non è che una metafora, piuttosto è la giustizia interiore del cittadino

ad essere un’analogia polizoica della grande armonia macrocosmica,

astrale e sociale.

III. La giustizia non è soltanto soggettiva e oggettiva, individuale e

sociale; è allo stesso tempo etica e speculativa, è più un modo d’essere

dell’intelligenza che una disposizione morale del carattere. Alain8 sot-

tolinea che tra giustizia e giustezza esiste lo stesso parallelismo se-

mantico che c’è tra diritto e ‘dritto’: come il «corretto», contrapposto

alla complessità delle linee curve, evoca la semplicità intelligibile del-

la dirittura o «rettitudine», cioè la conformità alle «regole», allo stesso

modo, si dice «giustezza» di un calcolo che è «adeguato» alla verità,

di un ragionamento adeguato alla norma o di un canto senza note sto-

nate; qui l’ingiustizia non è tanto un peccato quanto un lapsus, qui

l’ingiustizia sarebbe qualcosa come un solecismo: ma solecismo è un

controsenso perché, restando a fior di sapere, non risuonerebbe pro-

fondamente sull’habitus della persona in generale. Può anche accade-

re che la correzione – τò ευ – si tenga interamente nell’osservanza di

regole formali e convenzionali, come ad esempio le regole di un gioco

o le regole del contrappunto: ma il fatto di essere «in regola» e di ave-

re per sé i testi, cioè di avere grammaticalmente ragione, non è

nient’altro che una legalità ipotetica e giuridica, una giustizia di carta

bollata, una fedeltà irreprensibile, ma senza effettività né spiritualità;

chi è irreprensibile dal punto di vista della polizia e delle autorità può

essere criticabile e scorretto dal punto di vista della coscienza morale;

chi è irreprensibile rispetto al codice può avere molto da rimproverar-

7 Le Leggi, IV, 423 d.

8 Preliminaires à l’Estétique, p. 217, 228, 231.

Dalla giustizia all’equità

si! Negativa, immanente, nozionistica, così è questa giustizia, formale

come un discorso senza contraddizioni. Ma la legalità ipotetica può far

posto ad una legittimità categorica, la correzione nozionale ad una ef-

fettività vera: allora, la giustizia diventa etica, cioè intenzionale; dà il

tono ad una cultura morale; questa giustizia, che resiste agli impeti

egoistici e unilaterali della passione, è sinonimo di probità e imparzia-

lità; più precisamente, designa una certa forma semplice e naturale

dello spirito, la consuetudine di fissare e di segnare l’ora giusta, senza

anticipare né ritardare, senza esagerazione né affettazione di sorta; il

tatto, il senso dell’opportunità e anche questa giustezza infallibile

d’accento, che dice ogni cosa quando è opportuno, entrano ugualmen-

te nella sua composizione; gusto e delicatezza dove si sa che Pascal ha

riconosciuto i segni stessi della civilizzazione morale. E pertanto risiede

sempre in questo disinteressamento, in questa obiettività purificata.

Dio conosce qualcosa di meccanico e d’implacabile che annuncia la

vita morale; un saggio non è un orologio ben regolato. La sincerità è

morale, l’umana sincerità che può essere ingiusta o approssimativa, la

fallibile sincerità che non esita a mentire per amore degli uomini: giac-

ché è il tribunale della coscienza e non l’esattezza letterale a fare la sin-

cerità. Ma l’uomo-cronometro non è un essere morale; gli manca un

po’ di questa calorosa inesattezza che rende il suono impuro e

l’arricchisce di armonie, – perché la corda per vibrare dolcemente,

chiede di non essere accordata con rigore troppo matematico; un suono

chimicamente puro e musicalmente asettico, cioè senza risonanze, sa-

rebbe insipido come l’acqua chiara. Si dice: né troppo, né troppo tardi,

né al di qua né al di là; e quindi anche il teorico del giusto-mezzo af-

ferma solennemente che se il naso ideale è il naso dritto, un naso leg-

germente aquilino o leggermente camuso non deturpa un viso9!

«summum jus summa injuria»! Non si può far stare una durata sulla

punta rischiosa e univoca del giusto tra due, sulla chance della cifra

tonda, del presente sfilacciato, e dell’accordo perfetto maggiore. «La

giustizia e la verità sono due punte così sottili che i nostri strumenti so-

no troppo smussati per esplorarli in modo esatto; se ci arrivano, ne

schiacciano la punta e si appoggiano tutt’intorno, più sul falso che sul

vero»10

. Ma sulle approssimazioni drastiche si può senza dubbio fonda-

9 La Politica, E 9, 1309 b, 21-30.

10 PASCAL, sezione II, fr. 82 sub finem.

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re una vita morale: inumana è la rigorosa, esatta giustizia che calcola la

simmetria al millimetro e la concordanza al comma. In realtà,

l’impeccabile giustizia non ha intenzione; gli manca d’essere un po’

folle e meno inesorabile per essere più umana, gli manca di inebriarsi,

come il perdono, con il vino dell’errore. Umana ebbrezza, troppo u-

mana! Gli spiriti forti non sperimenteranno mai questa ebbrezza ... La

giustizia impietosa conserva la mente fredda e non cede davanti alle

tentazioni dell’indulgenza propizia! È sempre la sobria verità, è la pro-

saica e seria verità che parla con la sua bocca e che la difende

dall’ebbrezza amorosa. Non mancano filosofi che deducono la giustizia

da un principio razionale e trascendente posto a priori; ne è un esempio

il simbolismo aritmologico di Pitagora che la identifica al numero qua-

drato, Littrè, che la deduce dal principio logico d’identità A = A e La-

pie che la riconduce al principio di causalità, si accordano per trattare

le verità pratiche come un caso particolare della verità speculativa:

all’Eros dionisiaco del Banchetto («in vino veritas») fa da pendant

l’uguaglianza geometrica del Gorgia ισότης γεωμετρική, sublimazione

dell’ισάκις ισον pitagorico11

; alla profetessa Diotima, la musa matema-

tica dell’uguaglianza geometrica. Il saggio sarebbe un contabile e un

agrimensore?

I. Nel tempo: 1 ricompensa; 2 punizione

La giustizia si caratterizza per la sua trascurabilità formale e «quid-

dativa», nel tempo, come nello spazio; nel tempo perché la sua fun-

zione è di conservare e di proseguire, nello spazio, perché la sua fun-

zione è di distribuire. Simile in questo alla spiegazione causale, la giu-

stizia attesta che la variabile Tempo è in realtà superficiale e non inci-

de seriamente sull’identità fondamentale: la giustizia salvaguarda in

ogni istante la continuazione dello stesso nell’ordine dell’essere e la

conservazione dello stesso nell’ordine dell’avere. Ma la spiegazione,

per sua natura speculativa, stabilisce che la causa e l’effetto sono es-

senzialmente, e da tempo immemorabile, una sola e medesima cosa,

malgrado le apparenze; in cambio, la giustizia, meccanismo regolatore

e compensatore, è alle prese con le volontà umane che ostacolano e

11

ARISTOTELE, Eth. Megal., I, i, 1182 a, 15.

Dalla giustizia all’equità

interrompono questa continuazione; quella riacquista l’identità mentre

questa la ripara e la riunisce. La giustizia, reagendo contro la storicità

dell’evento drammatico e le iniziative scandalose, neutralizza ciò che

è irrazionale e contingente nell’ingiustizia, – ma non decreta

l’inesistenza dell’ingiusta usurpazione: giacché l’ineguaglianza

dell’uguale è legata al delirio pleonessico degli uomini, alla loro in-

quietudine passionale, alla loro incorreggibile voracità; la giustizia

pertanto avrà l’ultima parola, perché nessuno ha ragione davanti ad

essa. La giustizia protesta contro la durata-divenire in nome della du-

rata-perennità o, più semplicemente, in nome della durata e questo in

due modi: in rapporto al passato, essa è il ripristino dello statu quo; la

giustizia rimette le cose nello stato, cioè disfa ciò che è stato fatto e

rifà ciò che è stato disfatto; essa restituisce, rimborsa e indennizza, –

non perché l’ordine preesistente sia più giusto, ma perché va da sé che

ciò che è continua, poiché essere e continuare ad essere, è un’unica

cosa; giacché ogni novità fa discutere e inserisce nell’intervallo il mi-

stero inquietante del cominciamento. Il male, tutto considerato, è una

sopravvenienza e un’iniziativa espressa. Per un conservatore, ad e-

sempio, il preesistente ha valore semplicemente perché già esisteva,

perché ha il merito di esistere. Come se esistere fosse meritorio! Il

passatista, insomma, applica all’essere e al già fatto l’idea di un merito

valevole soltanto per lo sforzo. Riguardo al futuro, la giustizia fa in

modo che i volubili mantengano le loro promesse, onorino i loro giu-

ramenti, rispettino i loro contratti; essa cattura il frivolo e il rinnegato

con la trappola della firma e della parola data; veglia affinché la fedel-

tà prevalga sulla tentazione di versatilità.

L’ottica della giustizia e quella del rimorso sono dunque esattamen-

te inverse: la giustizia è irreversibile e irrevocabile soltanto in rapporto

all’ordine primo, trattato o contratto, di cui ci prescrive l’osservanza;

ma essa non è né l’uno né l’altro in rapporto agli atti successivi: stabi-

lisce, al contrario, che questi atti sono usurpazioni superficiali e facil-

mente riparabili; questi, la sanzione o il risarcimento dei danni hanno

proprio lo scopo di annullarli, sia prescrivendo l’espiazione del crimi-

ne, sia risarcendo del danno la parte lesa. Inversamente è in rapporto

alla cosa prossima e immediata che il rimorso è irreversibile; ma que-

sta cosa prossima non è più un ordine normativo, è la colpa commessa

gratuitamente; il pieno di questa colpa ci separa per sempre dal vuoto

dell’innocenza originaria: è dunque l’innocenza che è l’irreversibile,

VLADIMIR JANKÉLÉVITCH

l’irreversibile di un’assenza o d’un passato irrimediabilmente compiu-

to. Quanto al pentimento, esso si comporta con l’intera cattiva azione

di come la giustizia tratta gli atti perturbatori, cioè la colpa invece di

paralizzare le buone opere riparatrici, si lascia al contrario annullare

da quelle. Oppure se è vero che una risposta affermativa ad ogni novi-

tà crea delle coscienze dilaniate e ostacola il grande interesse per ogni

novità appresa, non è meno vero che la giustizia, immobilizzando il

divenire, rinnega, a sua volta, la vocazione innovatrice da cui essa ha

origine: la giustizia opera come se l’ordine di cui si erige guardiana

fosse ingenerato, immemorabile e non-divenuto, come se i nostri atti

non avessero alcun peso. Ma essa dimentica così la forza istitutrice

che in ogni momento del tempo diventa per inerzia cosa stabilita.

Sempre il supporto! Il valore dell’ordine prestabilito, «ordo ordina-

tus», pur non avendo nulla di poetico, è paragonabile su questo aspetto

allo charme melanconico del passato: c’è anche qualcosa di estetiz-

zante in ogni tradizionalismo; il passato risiede completamente nel

mistero inesplicabile e nella trasparente profondità dell’essere-stato,

qualsiasi sia d’altra parte la cosa che fu; e il passatismo si smentisce

da solo in nome del passato, rinnega questo Oggi dove uno Ieri è già

chiuso, in cui il preterito acquista la sua patina, il suo profumo, la sua

proprietà pittoresca: perché ogni presenza è candidatura all’assenza, e

ogni Oggi è lo ieri di domani, e ogni Adesso è un passato da venire.

Non è forse nell’innovazione presente che ogni tradizione è iniziata,

che il participio-passato-passivo dell’ordine ordinato ha avuto origi-

ne? Giustamente la caratteristica dell’arte è di captare nel presente

stesso questa magia dei ricordi e di distinguere così la poesia dalla

prosa, non facendo della novità un pretesto per le nostre nostalgie, ma

gustando nell’istante attuale questo mistero dell’esistenza che la bana-

lità quotidiana ci nasconde e che si libera dell’ordinario per il sempli-

ce effetto del divenire; tutti gli uomini sono capaci di scegliere, in ri-

tardo e a cose fatte, la poesia retrospettiva del passato, – ma solo il po-

eta ed il pittore percepiscono sul momento il presente già passato; la

visione artistica è dunque in qualche modo un nascente rimpianto …

Delle due contraddizioni, quella della fedeltà passatista che, respin-

gendo l’attualità, rigetta il suo proprio principio, e quella del rinnega-

mento presentista, che resta fedele al principio della fedeltà, almeno

alla sua lettera, e che è infedele in nome della fedeltà come il sincero

diventa bugiardo per amore della verità, l’artista sceglie il secondo; si

Dalla giustizia all’equità

schiera per il principio del passato contro la lettera del passato, – per-

ché questa lettera è un prodotto di questo principio, perché il presente

è la fonte inesauribile del passato; l’artista si colloca nel rinnovamento

che è il laboratorio dei cari ricordi; all’attaccamento amoroso, mania-

cale e superstizioso preferisce la fedeltà spirituale. Come una nuova

fedeltà rinasce nell’infedeltà, e, se non proprio nell’egoistico e sterile

tradimento, quanto meno nella sincera conversione e nell’apostasia fe-

conda, così ogni giustizia divenne ingiusta alla sua origine. Ingiusta e

di conseguenza rivoluzionaria: perché l’ordine normativo non si predi-

spone altrove che nei fatti compiuti e nelle «situazioni acquisite» e

nella violenza irrazionale. Sì, il tradimento è perfido e dissolvente

(perché chi ha tradito tradirà), ma il rinnegamento è creativo. Oppure,

se si distingue tra Irrevocabile e Irreversibile, tra la decisione ormai

definitiva o per tutto il futuro ed il passato per sempre svanito, respin-

to nel nulla da una novità «a parte ante», bisognerà distinguere anche

due generi di spergiuro: lo spergiuro buono non rinnega l’impegno e

l’irrevocabile; ma lo spergiuro frivolo e traditore, ripudiando

l’irreversibile, cioè facendo come se non esistesse le nuova situazione

che si è creata dopo la sua promessa o il suo giuramento, compromette

la serietà e la vitalità della fiducia. La giustizia comincia dunque in

modo soprannaturale nell’improvvisazione di una violenza geniale e

creatrice. Ossia è concepita d’improvviso in un’iniziativa unilaterale

gratuita e senza controparte che in seguito la obbligherà: il fatto di

firmare o di giurare la decisione di pronunziare dei voti e, in un altro

ordine d’idee, la spontaneità illegittima del «primo occupante» sono

come i rimorsi della giustizia, l’iniziativa espressa che farà «preceden-

te» o giurisprudenza. Lasciateci divenire forti e noi ci incaricheremo

in seguito di aver anche ragione. La tattica dei violenti non è forse

quella di costruire dei fatti compiuti? Quando non sarebbe che per il

fatto che la violenza vittoriosa crea, per mezzo della sua vittoria, uno

stato di fatto ... In questo stato di fatto, si provano scrupoli assai gran-

di a prendere l’argomento, perché ne dipende la sorte della pace. La

guerra non è giuridica; ma è iurigena, sorgente di normatività e princi-

pio di una legalità nuova, ed è in questa che «la forza crea il diritto» o

più esattamente che il valore nasce dal fatto puro. Il primo re fu un

soldato felice. Ma la giustizia da poco divenuta nobile, nasconde vo-

lentieri le sue origini plebee: il fatto d’esistere è già per ogni istituzio-

ne un diritto acquisito e un titolo alla sua perseveranza, come il sem-

VLADIMIR JANKÉLÉVITCH

plice fatto d’essere da qualche parte e di occupare fisicamente un luo-

go è già per sé un motivo per restarci, rimanendo uguale, d’altra parte

ogni condizione. Ragione quiddativa, formale e propriamente giuridi-

ca! Perché il semplice fatto bruto, per esempio, che ci siano state sem-

pre delle guerre non è giustamente una ragione perché ce ne siano

nuove in avvenire: il valore normativo della guerra è d’ordine del tutto

diverso dal fatto storico della belligeranza e non lo si deduce da ciò; il

giorno in cui cessassero le guerre, si creerebbe un precedente nuovo,

un precedente di pace. Il fallimento di Hume e di ogni genetismo em-

pirico ci insegna in misura sufficiente che l’abitudine se rende

l’associazione sempre più facile, non gli creerà mai il privilegio della

relazione razionale. La giustizia, si dice, mantiene o ristabilisce

l’ordine. Ma quale ordine? Qualis, ποιος? Quello di un cimitero o

quello della vita? E perché questo piuttosto che ogni altro? E per quale

trasmutazione miracolosa un ordine nato fortuitamente dalla violenza

e dalla contingenza arbitraria acquisisce forza di legge? A iniziare da

quale momento comincia ad esistere in diritto? Al termine di quale

periodo lo si può considerare valido? Quanto tempo gli occorre per es-

sere santificato? Un formalismo ipotetico non risponde a queste do-

mande, perché prolunga semplicemente ciò che preesiste, senza mette-

re in dubbio l’origine radicale e la ragion d’essere dell’ordine esisten-

te. Non si vede ciò che in un momento o nell’altro consacrerebbe

all’improvviso la santità dell’ordine: il tempo giustificherà solo un

imperativo condizionale … Parlare qui di maturazione, è come parlare

metaforicamente. Se non si vuole essere sbalorditi dalle aporie mega-

riche, bisogna professare il circolo presumibilmente vizioso e conclu-

dere di nuovo: subito o mai! Bisogna osservare le leggi non in modo

assoluto ed in qualunque caso, ma solo «se» sono leggi buone. Di con-

seguenza la bontà dell’ordine è in ogni caso scrupolosa e comincia

sempre da sé: l’ordine «diviene» buono solo se la sua bontà è già sup-

posta a priori. Meglio ancora: anzi la giustizia non ha questo carattere

umilmente quoddativo che la fedeltà, in una certa misura, deve

all’amore: perché il fedele si affeziona spontaneamente alla cosa di cui

è amico, e tiene a questa cosa, non per inerzia della routine e del moto

continuo, ma per una scelta del suo cuore e della sua libertà; la giusti-

zia al contrario è completamente negativa e indifferente, cioè livella

gli interessi che ostacolano o favoriscono; la giustizia esiste unica-

mente in rapporto all’ingiustizia che vuole compensare e non si lega a

Dalla giustizia all’equità

nessuno. La fedeltà è un cuore protestante contro la sua propria disaf-

fezione e contro l’usura del divenire; la fedeltà, aderendo per volontà

ad un solo e stesso TU che è la seconda persona della sua predilezione

fedele, fa del passato un presente, dell’anziano un giovane e del vec-

chio un nuovo. In opposizione al ricordo, fedele, malgrado il tempo e

a dispetto degli anni, la giustizia è il tempo puramente e semplicemen-

te abolito; la giustizia, che non abbraccia il partito di nessuno e che

esclude ogni interesse preferenziale, rimane priva di realtà empirica

senza pregiudizi indotti o danni causati. Delle due giustizie, l’una che

ricambia nel tempo, l’altra che distribuisce nello spazio, la prima è e-

videntemente la più formale e la più ipotetica, perché non distingue in

base alla natura del contenuto restituito né al suo valore intrinseco.

Cominciate a rendere! E si vedrà in seguito se lo «statu quo ante» era

meglio ... Parlando di questa giustizia compensatrice, Aristotele, sotto-

lineandone il carattere formale, la chiama διορθωτικόν o

επανορθωτικόν, cioè correttiva perché è raddrizzatrice-di-torti e

perché rettifica la curva e la stortura: poco importa alla giustizia

diortotica se è la giustizia che ha spogliato il farabutto oppure se è

questo ad aver spogliato la giustizia; la giustizia diortotica considera il

fatto puro e semplice della spoliazione e non la massima di chi la

compie. Gli imbroglioni stessi hanno diritto alla restituzione dei loro

miliardi mal acquisiti nel caso in cui i miliardi fossero stati confiscati

illegalmente! Qualsiasi cosa sia stata fatta non disfarla; qualsiasi sia la

cosa detta mai contraddirsi: tale è il principio di questa giustizia

riparatrice e livellante, il cui solo scopo è di appianare, annullare, neu-

tralizzare; la sua ambizione si limita in apparenza a ristabilire ciò che

il delitto ha distrutto. Il libro IX delle Leggi testimonia questa funzio-

ne compensatrice. In questo, nulla impedisce a una giustizia gramma-

tica di restaurarne una spirituale; perché se l’abuso non ha altro merito

che quello di essere tradizionale, sono gli insorti, in spirito, gli uomini

d’ordine e sono gli uomini d’ordine, alla lettera, i veri insorti.

L’espiazione del Gorgia, facendo da contrappeso alla ύβρις, cioè alla

dismisura, resta in gran parte sul piano di questa giustizia chiusa, e

non è difficile ritrovare in essa la vecchia magia dei riti di purificazio-

ne. La legge di comunione e d’alternativa, livellando i dislivelli e pial-

lando le sporgenze del Fare, esige che ogni azione sopporti passiva-

mente il proprio contraccolpo. Ma il disordine d’ingiustizia non consi-

ste giustamente nel ripartire tra due teste la πραξις e il πάθος? Se qual-

VLADIMIR JANKÉLÉVITCH

cuno uccide, c’è qualcun altro che muore e chi è il paziente di questo

agente, la vittima di questo carnefice? L’atto ingiusto pretende così di

eludere gli effetti dello shock di ritorno: è dunque violentemente e di-

struttivamente ciò che l’atto gratuito, l’atto creatore, l’atto purissimo è

per generosità e disinteresse spontaneo. La violenza, l’astuzia e la

menzogna potrebbero in effetti definirsi come il regime asimmetrico e

zoppicante della relazione non reciproca senza correlazione, o della

subordinazione unilaterale senza coordinazione, dell’andare senza

ritorno: vedere senza essere visto, eludere il gioco altrui senza lasciar-

si eludere non è così che Baltasar Gracian caratterizza la sovra co-

scienza a senso unico del «penetrante-impenetrabile» e del «chiaro-

veggente-invisibile»? L’azione afferente non trova il suo contrappeso

in una reazione afferente. Non ci sono più due partners alla pari ed in

rapporto di scambio ma due avversari in stato di guerra. La sanzione

fa rientrare per forza questa gratuità cattiva, questa irreversibilità ag-

gressiva, nel diritto comune dell’alternativa e della mutualità; e poiché

il colpevole non acconsente al proprio suicidio, essa fa in modo che

subisca da chi commette, obbliga l’impunità a sopportare le spese del-

la sua iniziativa, a pagare il prezzo del suo gesto unilaterale. Questo si

chiama: espiare. Il crimine, insomma, vuole fare come Dio, il solo ca-

pace di interrompere la continuità e la necessità dell’esistente: la giu-

stizia richiama all’ordine della finitudine questo atto falsamente mira-

coloso e gli risponde a tono. È così che fino al midollo, l’arco riflesso

compensa la disuguaglianza perturbatrice creata dal provocante, detto

altrimenti, equilibra l’azione con la reazione: questa giustizia spinale,

facendo come un giro della morte, risponde all’eccitazione attraverso

il movimento, annulla la differenza centripeta con la differenza centri-

fuga. I riflessi, naturalmente difensivi, assicurano così la conservazio-

ne e la continuazione dell’esistente attraverso l’assimilazione di ogni

differenza e la riparazione di ogni disparità. Aristotele pensa a una cir-

colarità di questo genere quando invoca αντιπεπονθός pitagorico, la

reciprocità e la giustizia di Radamante, la compensazione o ricompen-

sa (αντίδοσις, ανταπόδοσις) che compie l’equazione, do affinché tu

dia.

Pertanto, l’infernale Radamante, cioè il tempo disfatto, cioè

l’antapodose non possono nulla contro l’irreversibile del divenire.

Πάντα ρει. L’efferente non si ripiega sull’afferente per annullarlo: non

è suscettibile di avere la stessa estensione, ma gli succede, e sempre

Dalla giustizia all’equità

nello stesso senso che è il senso della possibilità futura: il ritorno an-

nulla l’andare nello spazio, ma gli succede e dunque lo prolunga nel

tempo. Il divorzio separa i coniugi cioè disfa il matrimonio, ma non fa

in modo che non si sia mai stati sposati, non restituisce il celibato agli

ex sposi. Non rende loro la pariglia nemmeno sotto la stessa forma. La

bilancia della giustizia disfa la cosa fatta (res facta) ma il fatto-d’aver-

fatto (fecisse) è indisfattibile, in altre parole, non si può fare in modo

che non sia stato fatto né che sia non-fatto (infectum); perché la tem-

poralità o quoddità del tempo non si può annientare! Più semplice-

mente ancora: l’atto secondario (cioè la reazione) non è mai della stes-

sa natura del primario; come il sentimento è una riflessione sulla sen-

sazione, e come il risentimento è un sentimento sul sentimento, così la

reazione è un’azione su un’azione e di conseguenza un’azione alla se-

conda potenza, un’azione più astratta e mediata, un’azione con un e-

sponente. Anche la vendetta conclusa è a questo riguardo meno con-

clusa rispetto alla rigenerazione pura e semplice; anche la rappresaglia

vendicativa, la vendetta riflessa interrompe il circuito dilatorio della

reversibilità. Non si può fare come se non fosse successo niente. Ren-

dere il male per il male, non è più riparare ma è raddoppiare il primo

male con un altro male, aggiungere al male dell’errore il male del ca-

stigo che non lo cancella minimamente; uccidere l’omicida non fa re-

suscitare la vittima ma significa fare due vittime al posto di una (Pa-

scal). Così in gratitudine un servizio reso non compensa un servizio

ricevuto ma si aggiunge ad esso: le due buone azioni si raddoppiano

senza annullarsi. Si dirà che almeno la punizione sopprime la causa

del primo disordine: pertanto se questo taglione più o meno simbolico

che, lungi dall’annullare lo squilibrio, lo raddoppia, non desse il via

alla palla di neve delle vendette indefinite e si ripercuotesse, si tratte-

rebbe ancora della sola prevenzione dei disordini futuri e non

dell’abolizione del fatto compiuto. Certamente il colpevole prova e

subisce per ciò che inflisse ... ma non è tutto il mistero della «patolo-

gia» che questa impotenza d’una punizione costantemente postuma e

inevitabilmente ritardante? E non è tutta la logica del machiavellismo

purista quella di lasciar morire il Bene in nome del Bene stesso? Qui

si vede bene come il mistero può servire da pretesto ai sofisti. In real-

tà, è il mistero stesso che moralizza questa primaria giustizia sordida:

la sua inutilità è già un disinteressamento, una timida apertura; il dolo-

re, proprio perché non ha una misura comune con il peccato, diventa

VLADIMIR JANKÉLÉVITCH

un simbolo, una consacrazione e l’avvento della colpa in un ordine

giuridico: segna allo stesso tempo l’irreparabilità della situazione ante-

riore al delitto e l’impossibilità morale della nuova situazione, in qual-

che modo, è l’ellisse di questa insolubile contraddizione; una ripara-

zione nascente ma abortita, rimuove un disordine che non può intera-

mente compensare.

La punizione è la riparazione fittizia dell’irreparabile. È ciò che la

rende tragica, inefficace e stazionaria. Lo stesso, dopo il crimine, sarà

eternamente un altro, ma l’altro non avrà impunemente modificato la

continuazione dello stesso: l’espiazione fa deviare la punta violenta

dell’attentato e dà al male un’altra forma, una forma assurda, inutile e

morale. No, non si dirà che la cattiva azione sia avvenuta senza conse-

guenze incancellabili, né che abbia avuto ripercussione sul colpevole.

L’azione ingiusta non si diffonde nel mondo per imprimervi la sua

impronta, ma rimbalza per una ripercussione o un riflesso spontaneo,

sulla figura del suo autore, o piuttosto (poiché la superficie

dell’essere plastica e malleabile) è lo stesso influsso afferente che svi-

luppa il proprio riflusso indotto, è l’azione stessa che sviluppa la sua

retroazione, la sua causalità a rovescio. «Chi vuole influenzare viene

subito influenzato dal risultato della sua influenza». Bergson, si sa, at-

tribuisce grande importanza a questi giochi ironici della retroazione,

così dannosi per la presenza egemonica della causa: la causa è

l’effetto del proprio effetto, l’effetto è la causa della propria causa!

L’uomo non è forse punito dallo stesso linguaggio che usa? Ebbene, il

castigo è in qualche modo la materializzazione fisica del controcorren-

te che, in virtù dell’Alternativa, neutralizza presto o tardi la violenza

centrifuga: la sanzione ingrossa l’onda del riflusso e rende la nostra

limitatezza tangibile e visibile agli occhi di tutti. Così, dunque chi uc-

cide ne morrà e morirà della stessa morte che infligge: il morto che ha

fatto gli rimanda la sua morte ed egli riceve questa morte, lui il falso

angelo, il perfido angelo, il debole demiurgo, nella carne della sua

propria vita. Come il padrone subisce il contraccolpo che riversa in

parte l’apparente irreversibilità della sua relazione dispotica, così la

causa causata, – e causata dal suo proprio effetto, subisce il movimen-

to paradossale di rimbalzo che compensa quaggiù in questo mondo

ogni eziologia, circolarizza ogni causalità, mutualizza l’azione immu-

tuale, trasforma l’influenza unilineare in influenza ciclica. Ecco che

cosa succede quando si vuole fare come Dio, quando il motore mosso,

Dalla giustizia all’equità

mosso dal mobile che esso muove, causato dall’effetto che esso causa,

pone se stesso come motore primo e come atto puro, quando la creatu-

ra mista, creatrice creata, derivante da una giustizia alternativa, usurpa

questa grazia di dare e riprendere che appartiene soltanto al creatore

non creato. Il violento si arroga il diritto di togliere la vita, lui che non

può darla, lui che non è il principio del cominciamento, vuole diventa-

re quello dell’annientamento; il mezzo-stregone gioca con il fuoco e si

brucia nel voler bruciare, cioè il soggetto diventa per se stesso il

proprio oggetto, esso è l’accusativo della sua stessa operazione ed è

attivo e passivo contemporaneamente. Non è così che Bergson spiega-

va la sofferenza? Essere agente paziente e dolorosa semicoscienza, ec-

co la conseguenza di una giustizia diortotica, che non potendo riparare

il male, castiga il malfattore … Tra la violenza impunita e il potere di

volere a volontà, tra l’ingiustizia non compensata e il potere di fare ciò

che non si è mai voluto, tra l’atto non espiato e il potere non soltanto

di eluderne le conseguenze, ma di annichilirne la quoddità stessa, si

trova proprio la giustizia punitiva. Si risponderà che questo non risana

niente. Ma senza dubbio è più giusto così ... Tale è suvvia! la miseria

della nostra condizione, tale è la derisione dell’irreversibile: due morti

simmetriche e correlative sono un disordine minore rispetto a questo

morto scompagnato, questo morto non vendicato, non redento, scan-

dalosamente sottratto alla bilancia del riscatto; perché lo scandalo per

eccellenza dipendeva dalla scioccante disparità o imparità di una vit-

tima che non può più resuscitare né guarire. L’idea di «purifacazione»

è qui una semplice metafora; la redenzione attraverso il sangue, di cui

parla Joseph de Maistre nell’Éclaircissement sur les sacrifices, è una

semplice figura retorica: in effetti non c’è ragione intelligibile perché

la prima morte ne richieda una seconda; la seconda morte, la morte

giuridica è in più e per altro la misteriosa correlazione è soddisfatta

dal momento in cui la morte commessa uccide chi l’ha commessa.

L’ingiustizia non è «lavata» perché essa è moltiplicata per due, ma lo

scandalo è rimosso. Oppure il cattivo pagatore che possiamo essere

noi, il debitore insolvente, il frodatore disonesto pretende di «soffrire»

meno di quanto egli infligga, e di falsare l’alternativa. L’ingiusto in

questo caso è un baro. È agevolato in questa truffa dal suo potere uni-

lateralmente soprannaturale e in un certo modo zoppicante:

all’apprendista stregone, al demiurgo sacrilego Dio ha lasciato una li-

bertà asimmetrica, la libertà di volere, sottraendogli l’altra, la libertà

VLADIMIR JANKÉLÉVITCH

di non aver voluto ciò che egli ha voluto: perché il voluìsse, cioè il fat-

to di aver una volta voluto, determina il destino ... L’uomo non è libe-

ro dalla sua libertà, poiché la libertà iperbolica, la libertà a doppio ta-

glio, gli è rifiutata. La sua dignità è perciò fatta di un bizzarro miscu-

glio di forza e di debolezza: è forte da poter uccidere, e debole in un

primo tempo, di poter morire, debole in seguito per il fatto di non po-

ter resuscitare ciò che distrugge. Questo giustifica la paradossale in-

commensurabilità del castigo morte o dolore per la colpa castiga-

ta: il castigo è di un ordine diverso dalla colpa; il castigo, pena fisica,

e la colpa, fatto morale, sono assolutamente eterogenei e non compa-

rabili; l’ingiustizia e la sanzione dell’ingiustizia sono totalmente a-

simmetriche; il castigo non ripara la colpa, che può essere irreparabile,

ma «punisce» il colpevole; non colpisce la materialità dell’atto ma

l’impalpabile, l’inespiabile disposizione dell’agente. Il solo fatto di

aver voluto, di aver avuto l’intenzione, ci obbliga già moralmente a

rendere conto. È quanto esprime il rimorso; ed è anche quanto dimo-

strano gli stessi disordini compensabili: la giustizia in effetti non si

limita ad assicurare il risarcimento, ma punisce addirittura l’intenzione

dell’agente, cosa che è nell’ordine della qualità. In una buona azione,

diciamo, c’è un In-più inestimabile che non si risarcisce e che non ci

dispensa mai gratitudine, un non-so-che puramente spirituale che cin-

ge di aureola i contorni del servizio reso e per il quale, diciamo grazie

anche dopo sciolta l’obbligazione rispetto al quale non siamo mai libe-

ri, anche dopo saldato il debito; in ogni colpa c’è parimenti un surplus

infinito e il fatto doloroso è solo tagliato sulla misura di questo sur-

plus, e questo avvenimento è una esperienza personale del soggetto

colpevole; il soggetto è interno al suo dolore come lo fu nell’effettuare

il suo atto: in modo che riconoscenza e punizione si spostano entrambi

dal benefizio e dal misfatto sulla benevolenza e sulla malevolenza e

dalla materia sulla maniera. Non è più il grezzo disordine che importa

ma l’iniziativa del disordine, il fatto che qualcuno ha iniziato e, per

primo, ha disturbato la continuazione dell’ordine; giacché è questa la

priorità, la colpa. La giustizia repressiva, per quanto sia così neutraliz-

zante, implica già lo squilibrio dell’irreparabile e dell’irrimediabile,

dell’irrevocabile e del non rimborsabile; Aristotele stesso la ritiene

termine medio tra i due estremi dell’αδικειν e dell’αδικεισθαι, conce-

derebbe volentieri al dolorismo del Gorgia l’esistenza di questa a-

simmetria irrazionale: è più grave commettere il danno che subirlo; è

Dalla giustizia all’equità

meglio essere derubati che essere ladri; la conseguenza di questi para-

dossi è la seguente: il «giusto mezzo» della giustizia è più vicino al di-

fetto che all’eccesso, è più vicino al Meno che al Troppo. Che dire se

non che non c’è esatta simmetria tra fare e subire? Il principio

d’identità qui è in difetto: l’uno non subisce tutto ciò che l’altro ha

commesso, ma qualcosa si perde per strada: c’è dispersione o sottra-

zione dell’avere nel senso che l’avere non passa semplicemente dal

derubato al ladro; l’avere derubato non priva veramente la vittima né

giova veramente al ladro; o meglio, ciò di cui la vittima è stata spo-

gliata non rappresenta tutto quello di cui si appropria l’ingiusto; o me-

glio il torto subito dallo spogliato non corrisponde al torto che il de-

predatore ha fatto a se stesso. È dunque l’aver più che è grave non

l’aver di meno perché il Meno è la semplice conseguenza accidenta-

le del Più: l’ingiustizia è essenzialmente pleonessia (da pleon) prima

per questa proprietà altrui di cui si appropria violentemente o usurpa

fraudolentemente, ma soprattutto per l’ordine che altera; perché

l’alterazione è un’intenzione mentre la proprietà è una cosa. Come

stupirsi che a dispetto dell’alternativa non si ritrovi la stessa quantità

nel subire e nel fare? È perché non è cosi importante risarcire la vitti-

ma quanto castigare l’ingiusto. Con il primo proprietario leso

l’ingiustizia innesca una feconda asimmetria del male che l’espiazione

non compenserà più.

II. Commutazione (Equivalenza)

La calma superficie della giustizia non è soltanto resa ineguale da

questi brutali disordini, ma per i mille squilibri che il bisogno in ogni

momento fa nascere tra gli uomini. Il livellamento della novità qui non

appare più come compensatore di una spoliazione, ma come regolato-

re di scambio. È questa giustizia che Aristotele chiama αλλακτική e

san Tommaso commutativa, perché presiede alla commutazione dei

servizi nelle transazioni economiche; essa è logos dei contratti o come

dice Proudhon, giustizia sinallagmatica; e non violenza, ma commer-

cio; non correzionale ma contrattuale. Aristotele dice che precede lo

scambio anziché seguirlo, intendendo con ciò che non riequilibra ciò

che è deviato, ma ne stabilisce la linearità: non è dunque una repres-

sione della guerra ma una regolazione della pace; non è sanzione, ma

VLADIMIR JANKÉLÉVITCH

piuttosto prevenzione. Esige l’equivalenza del valore dato e della mer-

ce ricevuta. Richiama tre annotazioni: per prima cosa, l’equivalenza

non si stabilisce come l’uguaglianza, tra persone ma tra cose; giacché

non si considera, sul mercato, la qualità morale dell’agente, ma soltan-

to il valore dei prodotti: sotto questo aspetto, la giustizia degli «affari»

è più formale ancora e più sordida della giustizia penale; questa, inca-

pace di riparare, deve accontentarsi di punire, punizione che nasce dal-

la nostra impotenza davanti all’impossibile; quella, invece, assicura in

anticipo l’equilibrio degli interessi; la sua efficacia, in liti dove non si

tratta che di denaro, cioè di grandezze numeriche e di operazioni re-

versibili, rende inutili i simboli morali, gratuiti e retrospettivi della pe-

na; è di lei e non della diortotica che dobbiamo parlare con Aristotele:

la legge non considera l’intenzione ma solo il danno, (βλάθος); la leg-

ge è indifferente alla qualità e al merito delle persone; questa giustizia

è la giustizia di un egoismo astratto, di un «homo œconomicus» che

vuole possedere danaro secondo quanto rientra facilmente nei suoi di-

ritti. Da un’altra parte, l’uguaglianza si rapporta a degli stati isomorfi

vale a dire a dei modi d’essere considerati intransitivamente, mentre

l’equivalenza confronta o scambia valori in occasione di certe opera-

zioni determinate e in certi rapporti «d’affari determinati»;

l’equivalenza designa l’uguaglianza in atto, cioè l’uguale «valenza»,

nella negoziazione inter-umana, dei prodotti scambiati; quella non ri-

guarda dunque una situazione statica, ma una molteplicità di crisi in-

termittenti e tensioni discontinue in cui l’eguale è, ogni volta, espres-

samente affermato e rivendicato contro gli impeti dell’istinto pleones-

sico, contro l’avidità degli egoismi che rende impari e la malafede de-

gli accaparratori; quella, serve da risposta alle aggressioni di un impe-

rialismo che vuole prendere sempre più di quanto gli spetta. In ciò è

una protesta continuamente rinnovata. In terzo luogo, il carattere della

gratuità nascente e appena percettibile della commutazione:

l’equivalenza è l’uguaglianza non di due esseri ma di due valori cioè

di due poteri; due valori possono essere morfologicamente eterogenei,

sono «equivalenti» se possono la stessa cosa: ciò che li avvicina allora

non è la loro similitudine di forma, ma una possibilità o una virtualità

funzionale che permette di calcolarli per la stessa somma di denaro

(perché il denaro è il termine medio cioè l’intermediario che media

questa assimilazione degli eterogenei); ci sono, dunque, un’infinità di

valori differenti, che rappresentano un’infinità di bisogni e d’oggetti di

Dalla giustizia all’equità

godimento che valgono lo stesso prezzo; è quello che prova già, nel

semplice baratto, l’intenzione di cambiare: ogni contraente preferisce

rispettivamente quello che riceve a quello che dà, e di conseguenza lo

scambio per lui non è una giustizia ma un «buon affare» nello squili-

brio delle prestazioni; ma come il tuo partner preferisce giustamente

quello che tu offri a quello che lui ti offre, come se quello che tu offri

è quello che lui chiede e come se quello che tu chiedi è quello che lui

offre, i due buoni affari complementari faranno per il terzo imparziale

una giustizia; due preferenze, anziché rivaleggiare, s’incastrano una

nell’altra per un fortunato miracolo, e compongono una reciprocità e

una giustizia di scambio. Che guadagno per ciascun contraente d’aver

interesse a privarsi (di qualcosa) pur sembrando fare un favore! Noi

siamo, sia nell’acquisto sia nella vendita, il benefattore della nostra

controparte, il benefattore pagato; ma viceversa siamo, anche se

commercialmente sdebitati verso di lui, il suo tributario in gratitudine

per il genere di regalo pagante che ci ha fatto … È la causalità reci-

proca di queste due generosità interessate, di questi due egoismi gene-

rosi e solidali che fa qui tutta la giustizia. Lo scambio, infine, non è

identità analitica ma diversità sintetica: non è la «stessa cosa» sebbene

sembri la stessa. Il momento del sacrificio, cioè del libero spossessa-

mento, è già rappresentato in questo contratto utilitario, simmetrico e

bilaterale in virtù del quale non si riceve che a condizione di lasciare

(qualcosa) perché niente si ha per niente; c’è sempre un momento du-

rante il quale il negoziatore del mercato di scambio si separa e si priva

del suo avere, un istante che è per così dire il minuto d’angoscia

dell’alternativa; quand’anche non è di soluzione di continuità tra il da-

re ed il prendere, ed anche quando il dare ed il prendere sono esatta-

mente simultanei nel do ut des della compensazione immediata, nes-

suno elude la decisione vertiginosa di privarsi al momento di pagare:

si sa ciò che si lascia un godimento in atto, un possesso effettivo

non si sa sempre ciò che si prende. No, non è mai evidente che non ci

si perderà niente: tra il Prendi e l’avrai, il passaggio dal vuoto scavato

al vuoto colmato lascia socchiuso un rischio molto debole, una minu-

scola avventura, una possibilità unica di bancarotta che noi affrontia-

mo in piena fiducia; ma come i due vantaggi sono incomparabili e cia-

scuno l’uno all’altro assolutamente preferibilì, bisogna che una specu-

lazione razionale, anticipando il futuro, ce lo renda presente e faccia di

questa alea una scommessa sicura, un’avventura per ridere. Lo scam-

VLADIMIR JANKÉLÉVITCH

bio sintetico tra eterogenei è il vero nervo della comunità civile,

πολιτική κοινωνία, κοινωνία αλλακτική; e Aristotele aggiunge ancora:

è il bisogno che fa la coesione della società commutativa, η χρεία …

πάντα συνέχει. Due medici non fanno una κινωνία; ma un medico e un

lavoratore, alla buon’ora! Oppure per parlare il linguaggio di Dur-

kheim: lo scambio fa maturare la solidarietà «meccanica» e ne fa una

solidarietà «organica», cioè compone un’armonia di complementari

fondata sull’associazione reciproca e sullo scambio dei servizi; così si

compie il passaggio dal vecchio principio empedocleo «similia cum

similibus» al principio moderno, eccitante, polemico «contraria cum

contrariis»; la dialettica d’Alcmeo di Crotone con le sue coppie di

qualità opposte, la medicina allopatica, l’έρις di Eraclito preludono a

questa filosofia della feconda differenza. Аι ιατρειαι διά των εναντίων

πεφύκασι γίνεσθαι. È così che la funzione moderatrice e regolatrice

della terapeutica chiamata Giustizia non è d’abbondare nel Sempre-di-

più ed il crescendo degli eccessi, né di aggravare freneticamente la

forza con la forza e la debolezza con la debolezza, ma di compensare

la debolezza con il rafforzamento e la forza con l’indebolimento, di

temperare la ricchezza insolente con l’impoverimento proporzionale e

di neutralizzare la povertà scandalosa con un arricchimento correlati-

vo. La guarigione procede da contrario a contrario. Si direbbe che i di-

scorsi successivi del Symposio platonico fanno alternare i due principi

inversi, fino al momento in cui Diotima, la donna, assicura il trionfo

del secondo: Pausania e Agatone rappresentano ancora il vecchio

principio che presiede all’agglutinazione degli omogenei: lo stesso

raggiunge lo stesso, invece d’incastrarsi nell’altro. Chi si piglia si as-

somiglia! Gli uomini con gli uomini! i chiacchieroni con i chiacchie-

roni … Τά ομοεθνή πρός άλληλα. Al contrario Erisimaco con la sua

medicina pitagorizzante, Aristofane con il mito dell’androgeno che è

una teratologia lirico-burlesca, scoprono l’attrazione dei dissimili e

l’accoppiamento reciproco dei complementari, cioè l’armonia o sinfo-

nia dell’acuto e del grave. Βοήηθειν τω θερμω επί τό ψυχρόν … Il ca-

stigo a suo modo (κόλασις) non pretende forse di guarire la malattia

con l’antitodo? Eκ των διαφέριντων καλλίστη αρμονία. Dai dissimili

nasce la più bella armonia. Svelando infine la verità esoterica di tutti

questi miti, Diotima è la sacerdotessa d’Eros fecondo e mediatore che

non può essere che eterosessuale; e la sua teoria dell’immortalità nel

parto s’accorda bene con la «maieutica» di Socrate per non raggiunge-

Dalla giustizia all’equità

re preoccupazioni sociali sempre più imperiose con Platone; il plurali-

smo cooperativo della Repubblica fonda un governo e una comunità,

ξυνοικία, sulla complementarietà dei servizi scambievoli e la specia-

lizzazione delle funzioni; qui Armonia acquista tutto il suo significato,

Armonia è regolazione o ingranaggio reciproco delle parti. È vero che

ora è σωφροσύνη ora δικαιοσύνη è definita nel quarto libro come

concerto e concordia: la temperanza perché è η διά πασων συμφωνία,

sinfonia generale, sottomissione delle passioni alla ragione e accordo

perfetto di tutti i cittadini per sapere chi deve comandare; la giustizia

perché è la consonanza d’ottava che si unisce sulla lira, secondo una

pacifica proporzione, il grave, l’acuto e il medio, la Prudenza che can-

ta nel grave e che comanda, l’επιθυμητικόν la Bramosia che obbedisce

nell’acuto, il Coraggio nel mezzo; questo ottacordo della giustizia in-

teriore dove le tre μέρη dell’anima, la λογιστικόν, l’επιθυμητικόν e la

θυμοειδές, la ragione, la bramosia ed il coraggio cantano sinfonica-

mente, è la figura della divisione del lavoro sociale, esclusiva di ogni

confusione (πολυπραγμοσύνη ου αλλοτριοπραγμοσύνη). Nello stesso

ordine d’idee l’eugenica del Politico è assai occupata a regolare i fe-

condi incroci che risultano dalla sintesi dei temperamenti contrari. Il

libro delle Leggi ha senza dubbio in vista la stessa giustizia armonica

quando esclude dallo Stato la sterile omosessualità in nome del ma-

trimonio, della mutualità coniugale e della demografia. Non che se-

condo il femminismo della Repubblica la donna porti già all’uomo il

messaggio insostituibile dell’Assolutamente altro: ma basta che ella

esca dal gineceo; una dialettica diviene possibile dal momento che il

maschio non si duplica da solo, ma si completa per mezzo del sesso

opposto: la polarità arricchente, la tensione dei sessi, lo scambio e il

contrasto tra lo stesso e l’altro (έτερος) l’innovazione, infine seguono

all’identità e alla tautologia balbuziente. Diké non fa forse per lo

scambio dei prodotti e dei beni ciò che Eros fa per le persone? Eros e

Giustizia sono entrambi principio mercuriale, principio della comuni-

cazione degli uomini e della circolazione delle merci, cioè Commercio

e Iatrica; così come Hermes sono in relazione ma come Asclepio gua-

riscono; di conseguenza fondano la pace, la simbiosi commerciale e

l’amicizia attiva. E poiché l’uomo giusto, riconciliato con se stesso at-

traverso la musica e la ginnastica, ridiviene, secondo la magnifica e-

spressione di Platone, amico di se stesso, φίλος γενόμενος εαυτω, gli

uomini giusti tra loro firmeranno il patto dell’ομολογία e della riconci-

VLADIMIR JANKÉLÉVITCH

liazione: come i serpenti arrotolati intorno al regolo destro del caduce-

o, i tortuosi e gli ostili trovano infine nella giustizia la regola

dell’uguale, e questa regola fa della giungla una città. L’ordine seriale

di Proudhon e il sistema «armonico» o societario di Fourier prolun-

gheranno l’utopia platonica: la Falange vorrà essere questa città della

concordia, questa unità diversificata che realizza, nella differenziazio-

ne, l’ingranaggio degli eterogenei e l’accordo dei complementari. È

ciò che la dottrina sansimoniana chiama Separazione dei compiti e

Combinazione degli sforzi. Se non fosse così, le due Afrodite di cui

parla Platone, l’Afrodite triviale e l’Afrodite celeste, sarebbero l’una e

l’altra principio dialettico dell’attrazione reciproca e della messa in

rapporto.

III. Nello Spazio: distribuzione (uguaglianza)

Nello spazio, la giustizia salvaguarda l’uguaglianza di principio di tut-

ti gli agenti morali. Questa volta non si tratta più d’Avere, ma

d’Essere; non di merci ma di persone. Capiamoci dunque: la giustizia

distributiva è già contenuta nella giustizia correttiva in tanto che que-

sta è retribuzione penale del delinquente secondo il suo demerito. Nel-

le liti civili, ricordiamolo, lo statu quo puro e semplice può essere ri-

stabilito fintanto che non ci sia stata mala fede né frode intenzionale:

tutti i torti si riparano, si risarcisce il proprietario leso, quanto percepi-

to in più si rimborsa senza lasciare tracce o cicatrici; e a rigore gli in-

teressi della somma indennizzano il creditore per il pregiudizio arreca-

to. Ma quando si tratta di colpa irreparabile, il misterioso e personale

dolore del castigo è lì non più per riparare qualcosa, ma per punire e

fare soffrire qualcuno: non esige più che la cosa in generale sia restau-

rata, res, proprietà o ordine impersonale, ma vuole che il colpevole

paghi nominativamente, il colpevole, cioè io e non un altro e non ha

importanza chi o qualcuno in generale: perché non è la stessa cosa che

il punito sia Pietro o Paolo, perché non è indifferente che il punito sia

questo o quello. Certamente ogni vittima espiatoria ne vale un’altra:

ma il colpevole non è una vittima espiatoria qualunque ... Il colpevole

è responsabile dell’esercizio della libertà personale. E pertanto il nome

del colpevole non è che un dettaglio irrisorio e una vana precisazione!

Il castigo personale non opera più questo miracolo di resuscitare la

Dalla giustizia all’equità

vittima. Questa assurda precisazione, questa clausola di lusso accusa

di falso il sistema magico del vicariato o del sostituto «emissario» che

si addossa i peccati altrui; e di conseguenza non è il risultato che con-

ta, ma l’essere intenzionale del colpevole … E d’altra parte il castigo

«segna il colpo»: questa formalità profondamente assurda della desi-

gnazione personale sottolinea la serietà di ogni iniziativa e, aumentan-

do l’eco e la ripercussione centripete dei nostri atti, esalta la nostra re-

sponsabilità etica. L’esecuzione capitale, nella sua liturgia barbara, è

certamente senza rapporto con la vittima che pretende di vendicare;

giacché la violenza legale e la violenza criminale non hanno alcuna

misura comune; la morte del criminale che è una cerimonia, una sini-

stra cerimonia, non somiglia al crimine; la morte del criminale, morte

giudiziaria, non somiglia alla morte della vittima più di quanto il fuo-

co della fiamma non somigli all’immagine del fuoco: ma questa inu-

tile insostituibile morte, tiene conto della nuova situazione che si è

creata a partire dal crimine. La complicazione del castigo, nella giusti-

zia distributiva, è considerata da un punto di vista estrinseco, cioè nel

rapporto del criminale, non a sé ma agli altri: poiché l’uguaglianza

non dice nulla sulla connotazione intrinseca dell’individuo, ma sembra

designare prima di tutto un carattere astratto e quantitativo di ogni es-

sere in rapporto agli altri; non si applica, dunque in prima apparenza, a

ciò che ognuno possiede d’originale, ma a ciò che essi hanno in co-

mune e che li rende omogenei e intercambiabili; la giustizia conserva-

trice assicura la perennità e il diritto di un essere uguale a sé attraverso

la durata, ma la giustizia distributiva considera la relazione propria-

mente detta, che vuole sempre un plurale, o almeno un duale. Tutte le

persone hanno diritto a priori allo stesso trattamento: si tratta dunque

di giustificare questo ingiustificabile attentato all’integrità, alla libertà

o all’esistenza di una di quelle che chiamiamo punizione; bisogna ren-

dere ragione del destino a parte che viene riservato al colpevole. Di

conseguenza la distanza dall’uguaglianza all’equivalenza è la stessa

che esiste dall’essere all’avere: lo scambio è l’uguaglianza superficiale

di due averi locali e pellicolari resi incessantemente ineguali attraver-

so gli atti che turbano l’equilibrio dello statu quo; in realtà non è M

che è uguale a N, è M prima ed M dopo che sono uguali ed è N che è

uguale a se stesso, N ed M risiedono ciascuno nel loro rispettivo iso-

lamento e nel loro contegno. È perché niente impedisce ad una giusti-

zia scrupolosa di commutazione di tessere su una disuguaglianza in-

VLADIMIR JANKÉLÉVITCH

trinseca di condizioni e destini: lo scambio, l’operazione economica

unilaterale e senza profondità non colpisce la struttura dei rapporti so-

ciali propriamente detti; il ricco resta murato nella sua ricchezza ed il

povero nella sua povertà, l’uno e l’altro, d’altronde, senza comunica-

zione transitiva con il partner: monadi borghesi, che sviluppano fianco

a fianco i loro destini immanenti nell’ignoranza l’uno dell’altro, nella

mancanza di curiosità e nell’assenza di simpatia. Da ciò questa indif-

ferenza innata di tutti verso ciascuno che talvolta si scambia per un

segno di tolleranza e di civiltà quando invece non è che la risultanza

dell’egoismo. Ciascuno per sé. Arricchitevi. Lasciate fare, lasciate

passare. Si salvi chi può! Gli affari sono affari … Restituite al miliar-

dario i soldi che gli avete preso, perché la «giustizia» esige, sembra,

che il miliardario protegga i suoi miliardi. Tale è il regime della dia-

spora liberale, quel regime che i san simoniani chiamano antagoni-

smo, perché non è che una polvere di solitudini parallele. Un raduno

di IO senza rapporto fra loro non forma un NOI. In effetti non c’è altra

comunità nel libero scambio che quella che si produce nel mercato at-

traverso l’incontro locale di mercanti e clienti, di venditori e di acqui-

renti riunitisi per scambiarsi i loro prodotti. Una circolazione attiva di

ricchezze a fior di vita privata, ecco tutta l’etica della commutazio-

ne. Che i commercianti traffichino secondo la giustizia dello scambio!

Che l’offerta e la domanda s’incastrino armoniosamente! E l’onestà

liberale, che è discreta ed astratta, non chiederà nulla di più. Imperso-

nale, formale e del tutto giuridica, la giustizia commutativa vuole rap-

porti più legali che legittimi: rispetta lo stato di fatto dell’ingiustizia e

non tocca niente d’essenziale; anche il ricco deve averne per il suo de-

naro; anche i truffatori hanno diritto di non essere derubati, hanno di-

ritto come la povera gente alla loro porzione di lenticchie; la legge e-

sige che essi siano protetti nella loro truffa! Ricco o povero, non è ne-

cessario che l’acquirente perda nello scambio perché egli deve ritrova-

re alla fine dei conti, anche sotto un’altra forma, l’equivalente di quan-

to ha messo. La quoddità qui non è in causa! Ciascuno protegga quan-

to possiede, il ricco le sue proprietà fondiarie ed il povero la sua logo-

ra giacca; ciascuno conservi il suo avere, qualunque sia il valore dello

stato di fatto da conservare, anche se la ripartizione è dubbia, scioc-

cante o scandalosa. Una giustizia che si pretende giusta senza conte-

stare il fatto stesso dello stato di fatto, una legge che si dice legale li-

mitando ogni rispetto al rispetto del catasto non sono forse essenzial-

Dalla giustizia all’equità

mente ipotetiche? Rigore e probità nella commutazione non servono

che a ricoprire di una apparenza derisoria di normativa la più cinica

delle ingiustizie. La giustizia d’uguaglianza rimaneggia profondamen-

te questa probità automatica del contratto contestando la qualità etica

dei contraenti, apre le porte e le finestre delle monadi, cessa di consi-

derare l’operazione astratta dello scambio in sé, sradicata dai consu-

matori che scambiano: l’uguale dignità o rispettabilità delle persone

passa avanti all’equivalenza fisica delle merci; la giustizia commutati-

va sfiora la superficie dell’esistenza ammettendo le ineguaglianze così

come sono; la giustizia distributiva esclude questa verecondia sospetta

della commutazione; equità nascente, istituisce la redistribuzione vio-

lenta e l’uguaglianza rivoluzionaria che umanizzeranno l’aritmetica

implacabile dello scambio. Certo l’uguaglianza, per quanto seria, è es-

sa stessa un concetto aritmetico, formalista e senza valore morale.

L’uguaglianza non ha valore morale, ma in compenso è soddisfacente

per la ragione ed intelligibile perché rappresenta il rapporto più sem-

plice e più economico, quello che si esprime attraverso l’unità; il prin-

cipio di economia, in effetti, semplifica la pluralità delle persone ed

insieme neutralizza il cambiamento. La formulazione della giustizia

sarebbe, in questo senso, del tutto negativa: il n’y a pas de raison fin

quando uno abbia più dell’altro; quello che i greci chiamano

i-

stribuzione disuguale, ogni pleonessia richiedono espressamente

d’essere giustificate: giacché il comparativo del PIÙ o del MENO apre

sempre la porta all’indeterminato ... Una parte scandalosamente più

grande o più piccola delle altre crea questioni: questo abuso obbedisce

a motivazioni inconfessabili, oppure si spiega, crediamo, per qualche

ragione speciale che deve permettere di ridurre la disuguaglianza, co-

me se la disuguaglianza fosse un sotterfugio ed una complicazione

dell’uguaglianza. La disuguaglianza non va dunque da sé, ma è come

il male o il dolore, il Problema da risolvere, la complicazione irrazio-

nale e scioccante di cui bisogna rendere ragione. A priori, e a meno

che non si specifichi il contrario, le porzioni si presumono uguali; di

modo che la disuguaglianza è l’ingiustizia per eccellenza, in ogni caso

la più stridente, e la più scandalosa. L’egualitarismo compensatore,

regolatore e moderatore, livellando tutto quello che eccede, togliendo

tutto quello che è di troppo per trasferirlo a chi non ha abbastanza, u-

niformando le diversità, sfrondando ogni privilegio, inserisce

VLADIMIR JANKÉLÉVITCH

l’eterogeneo della qualità nell’omogeneo della quantità. La giustizia,

dea dell’equilibrio, avrà solo un peso ed una misura. E, d’altra parte

questa semplicità così ragionevole è più un voto che un fatto. La natu-

ra non è «naturalmente» giusta, e il naturalismo che la consulta vede

iscritta sul suo viso la lotta spietata per la vita e l’aspra selezione, cioè

l’oppressione, la violenza, la disuguaglianza. Si indovina il partito che

i sofismi razzisti e aristocratici traggono da queste constatazioni ... Si

adduce che non esiste una biologia ugualitaria. Ma al contrario, riten-

gono, i nemici dell’uguaglianza, che sia la fatica a rendere uguali i di-

versi: la fatica non è forse depressione vitale, dissoluzione e miseria

comune, livellamento nell’indifferenziazione minerale? L’istinto di

preponderanza è più naturale dell’istinto di parità: lungi dal rivendica-

re una uguaglianza astratta e disinteressata, l’istinto d’uguaglianza è

piuttosto il rifiuto egoista e unilaterale di ammettere la superiorità

dell’altro, o di giudicare se stesso inferiore; questo istinto non è forza-

tamente il rifiuto d’avere più degli altri o di lasciargliene di meno. Si

chiama semplicemente gelosia. L’uguaglianza che rivendica è

un’uguaglianza a senso unico: io sono almeno uguale cioè io non sono

inferiore a nessuno. Il mito del nobile non si radica forse in un istinto

immemorabile? La relazione gerarchica o dispotica accentua

l’inclinazione della pendenza che facilita come per naturale legge di

gravità, la trasmissione degli ordini; ed il linguaggio stesso non è forse

in origine, secondo quanto afferma Pierre Janet, il rapporto sociale di

un comandamento ad una obbedienza, una comunicazione di volontà

per interiezione e per imperativo? La subordinazione che è dislivello e

declivio, regola questa caduta dal superiore all’inferiore: la subordina-

zione è dunque più concreta della coordinazione degli uguali; giacché

la correlazione, essendo reversibile, presuppone termini reciproci ed

intercambiabili e collocazioni del tutto qualsiasi in uno spazio isotropo

... Su questo piano orizzontale in cui tutti i siti sono equivalenti dove il

flusso troverebbe la differenza di potenziale necessaria per passare da

uno all’altro? In questo senso, è l’uguaglianza che gela ed immobiliz-

za la transazione sociale, attraverso l’equilibrio d’indifferenza in cui

trattiene gli associati; ed è, al contrario, la feconda disparità che avvia

e cava d’impiccio la transazione grazie al Troppo differenziale, gene-

ratore di malcontento, d’instabilità e di squilibrio. Questo eccesso che

rende diseguali rassomiglia al clinamen di Epicuro senza il quale non

accadrebbe mai niente: ricaricando nella comunità gli accumulatori di

Dalla giustizia all’equità

gelosia, di disprezzo, di rancore e di gratitudine, ricostituendo i debiti

non saldati, le obbligazioni non sciolte e i rapporti di dipendenza, ri-

svegliando lo zelo e la feconda emulazione, il grammo-di-troppo mo-

bilita un’attiva circolazione che mette fine al marasma statico degli

uguali. O forse al contrario bastava esprimersi così: l’uguaglianza è

certo l’ideale, e la disuguaglianza proprio come la stessa ingiustizia,

non è sociale se non nella misura in cui avvia e mobilita un processo

di eguaglianza mediante il quale la disuguaglianza sarà appianata, an-

nullata, livellata. Soprattutto, abbandonata a se stessa, la disuguaglian-

za non fa che crescere ed abbellirsi «freneticamente», in virtù di que-

sta tendenza proliferante e cancerosa che chiamavamo, quanto a noi,

legge di valanga. La disuguaglianza non è uno stato, ma un movimen-

to; o se si preferisce, è meno una situazione che una tendenza, e si va

amplificando e accelerando senza tregua attraverso una specie di dia-

lettica vertiginosa. Non bisogna aspettare che la disuguaglianza si ar-

resti da sola sul pendio fatale dell’inflazione e della maggiore offerta:

ma, al contrario, sarà sempre più ineguale e mostruosamente ingiusta,

ingiusta all’infinito, ingiusta da morirne. Questa febbre, questa eb-

brezza che permettono, fuori da ogni «didascalia» un apprendistato

della virtù, mettono in gioco una specie di causalità circolare: la disu-

guaglianza-effetto, in questo ciclo infernale, diviene la causa di una

disuguaglianza doppia, come l’uomo in collera che si irrita per la sua

stessa collera o l’ubriacone che si inebria della sua stessa ebbrezza o

l’amante che ama amare, che odia odiare e si esalta senza misura per-

ché la causa della passione, causa secondaria e mediata, è la sua stessa

passione. Questo crescendo in progressione geometrica è paragonabile

ad un effetto cumulativo d’intossicazione ... Ma la vendita non è qui

come nel caso dell’amore e dell’umiltà, il generoso crescendo della

causa sui: la vendita della disuguaglianza è piuttosto un peso ed una

caduta accelerata ed una precipitazione nell’abisso. È un geotropismo

morale, è l’attrazione dal basso e dalla profondità che sgomentano

l’esagerazione mostruosa continuamente in crescita il cui nome è in-

giustizia. Così l’ingiustizia si oppone all’uguaglianza come

l’indeterminatezza galoppante alla determinatezza univoca. Sì, il da-

naro va ai ricchi, e la fortuna a chi è felice; ed il successo va al suc-

cesso, che non ne ha bisogno, quando dovrebbe andare all’insuccesso

per compensarlo e consolarlo; l’insuccesso attirerebbe il suo contrario

se ci fosse una «giustizia» in questo mondo, ma attira il suo simile

VLADIMIR JANKÉLÉVITCH

perché una prima sconfitta rende la sconfitta stessa sempre più facile;

ed è così che una sfortuna non viene mai da sola, ma costruisce altre

sfortune quando non sarebbe che per effetto di una psicosi da insuc-

cesso: il timore dell’insuccesso non genera forse il temuto insuccesso?

È ciò che dice la teoria dello smarrimento in Renouvier, ciò che Alain

stesso ci spiega abilmente. Invece di negare questa ironia

dell’ingiustizia immanente, il finalismo e la teodicea farebbero meglio

a prendere in considerazione l’inclinazione teratogonica, cioè creatrice

di mostri, che abita la coscienza e la vita stessa: ogni immagine tende

a divenire allucinante ed ogni idea a divenire ossessionante; ogni atto

sarebbe un’abitudine, ogni sentimento una passione ed ogni ricordo

un’idea fissa se noi non fossimo attenti, ogni istinto vuole essere solo,

vuole essere tutti gli istinti; come un gas occupa tutto lo spazio dove è

rinchiuso, così la passione, spingendosi al limite, occupa tutto il cam-

po della coscienza; il dogmatismo dell’affermazione e l’ingenuità del-

la fede testimoniano sufficientemente a loro volta questo radicalismo

estremista e passionale. L’imperialismo e l’esclusivismo della tenden-

za sono ovunque minacciosi. Dovunque veglia la tentazione del super-

lativo. Questo assolutismo, che dovrebbe essere desiderio di purezza e

d’intransigenza, non partorisce nella nostra condizione anfibia, che

mostruose caricature. Restiamo prigionieri della nostra mediocrità

quidditativa. La disuguaglianza è uno di questi mostri dell’eccesso e

della frenesia: il ricco che contrasta con il povero, l’ipertrofia che sta

accanto all’atrofia, il grande accanto al mingherlino, il grande sempre

più affamato di grandezza nella sua bulimia inestinguibile (perché i

nutrimenti, anziché saziare la bramosia, esaltano la sua fame improv-

visa e violenta) e accanto al grande sempre più grande, il mingherlino

sempre più mingherlino ... – c’è qualcosa di delirante, di grottesco e di

buffonesco in questi contrasti: l’uomo ingiusto è veramente in preda

alla febbre dell’amplificazione, all’esaltazione del comparativo e

dell’insaziabile pleonessia. L’avarizia, afferma Nicolas Gogol, ha una

fame da lupo: più divora, e più è insaziabile. Ma bisogna notare che se

l’isosthénia (equilibrio), sopprimendo il privilegio e l’emulazione,

fabbrica delle coscienze equilibrate, una disuguaglianza infinita, a sua

volta, impedisce alla scintilla di scoccare tra due poli: non c’è più rap-

porto, ma solitudine, se una illimitata sproporzione, se una incommen-

surabilità schiacciante fanno del dialogo un monologo; il plurale ed il

duale vogliono l’uguaglianza relativa, e pertanto la comparabilità della

Dalla giustizia all’equità

scala, e l’ordine comune di grandezza. D’altra parte, la concorrenza

stessa di queste pretese contraddittorie mantengono il posto di ciascun

regolatore automatico; gli imperialismi simultanei si neutralizzano re-

ciprocamente. Ma se la disuguaglianza sfrenata è foriera della cata-

strofe, le passioni contrarie a loro volta mantengono un fragile equili-

brio, un equilibrio di disaccordi, un equilibrio nella tensione e nella

guerra. Come gli istinti, le passioni e i valori vanno ciascuno fino alla

fine di se stessi e non trovano in sé una ragione spontanea per arrestar-

si sulla china del crescendo, non rimane che una soluzione: fare appel-

lo ad un terzo, ad una istanza trascendente, ad un logos mediatore e

moderatore e equilibratore per arbitrare l’insolubile concorrenza dei

maxima. Questo logos che fa cessare l’eguaglianza del piacere in pre-

da alla follia della frenesia è la ragione conciliatrice. Questo logos è

giustizia e misura. La giustizia non è l’uguaglianza stessa, ma

l’incessante ristabilimento di una uguaglianza incessantemente scon-

fitta dai mostri dell’esagerazione. Poiché è l’uguaglianza che viene

forzata e che esiste βία, cioè attraverso la violenza, occorre un mecca-

nismo compensatore ed artificiale per ristabilire in ogni momento

l’equilibrio rotto, correggere la dissimmetria rinascente, frenare

l’accelerazione infernale della pleonessia. Il diritto passa il suo tempo

a ridistribuire e ad aggiustare le parti rese continuamente disuguali at-

traverso l’accaparramento. E notiamo che il giusto logos non è, come

l’invidia, un livellamento verso il basso né un’assimilazione

nell’universale mediocrità piccolo-borghese, ma è l’Eguaglianza geo-

metrica, cioè imparziale e disinteressata: σύ δέ πλεονεξίαν οίει

… «È che tu trascuri la geometria!» La

gelosia, figlia del complesso d’importanza e del risentimento, è la re-

golazione egocentrica dei latifondi; regolazione impotente, simbolica

e puramente affettiva; la gelosia è l’intenzione negativa di abbassare

l’altro, l’intenzione odiosa di umiliarlo: non è un’intenzione positiva

di giustizia. La giustizia non vuole, come l’invidia, né abbassare il su-

periore fino a sé, né, come l’emulazione, elevarsi al livello del supe-

riore; non è né disprezzo altrui

φιλοτιμία): la

giustizia non vuole niente per sé; la giustizia esclude ogni inquieta cu-

pidigia, ogni concupiscenza passionale. Essa è distaccata

dall’interesse egoistico al punto d’essere a volte più vicina all’umiltà

disegualitaria e gerarchica piuttosto che all’invidia egualitaria: giacché

VLADIMIR JANKÉLÉVITCH

l’ingiusta e generosa umiltà, accettando la sua posizione inferiore, re-

sta aperta al non-io. Oppure è il disinteressamento che importa, e non

l’uguaglianza formale. Si tratta di estirpare il principio stesso del pri-

vilegio, e non di confiscare i privilegi altrui. La giustizia, che è senza

passione, ristabilisce l’uguaglianza delle razioni. È una sola ed uguale

giustizia che trattiene la cieca deduzione sempre pronta a sprofondare

fino alle estreme conseguenze della sua assurda logica e disinganna

l’uomo sempre tentato di rendere freneticamente attuale il possibile.

Qui la giustizia significa pudore e sobrietà. Essa ci guarisce dai nostri

tic e dalle nostre manie; la disparità nata dalle egemonie febbrili cede

ad una amicizia che è ragionevole e socievole allo stesso tempo. La

mitologia greca saluta la venuta del regno di Zeus e di un politeismo

armonioso dove le attribuzioni si distribuiscono equamente tra le divi-

nità, secondo un principio analogo all’appropriazione dell’attività

(οικειοπραγία). Una «direzione collegiale» rimpiazza la soffocante

monocrazia! Giacché come la tirannia di Pisistrato è respinta nel pas-

sato dalla felice democrazia, che è ragione e libertà, così il tetro incu-

bo dell’età di Crono (Saturno), punteggiata da violenze ed abusi, usur-

pazioni e parricidi, si dissipa al sole mattutino dell’Olimpo: ciascuno

ora riceverà il dovuto nella città, ciascuno avrà la sua parte di questo

sole di giustizia universalmente dispensato a tutti gli uomini ... Che i

prigionieri escano solamente dalle loro caverne per contemplarlo in

faccia, il bel sole intelligibile, il sole dell’Uguaglianza geometrica che

ha fatto cessare lo stato di guerra e mutare i lupi in cittadini,

l’inimicizia in amicizia! «L’uguaglianza geometrica è potente tra gli

dei e tra gli uomini». E diremo ancora: la giustizia è la luce diffusa del

grande giorno meridiano che distribuisce il proprio posto a tutti i corpi

e che è onnipresente nello spazio, non più la luce sfolgorante nelle te-

nebre della notte, giacché questa, come il chiaroscuro di Rembrandt,

non schiarisce l’uno (il chiaro) che per ispessire l’ombra intorno

all’altro (lo scuro). La vergine sobria, lucida, saggia, nata adulta dal

cervello della Giustizia, simbolizza dal canto suo la temperanza ben

misurata o simmetria ben temperata che è giustizia all’interno: Atene è

stata il rifiuto di ogni ΰβρις, il divino pudore e lo spazio intermedio tra

gli estremi; oppone i suoi cortei armoniosi, regolati secondo il nume-

ro, al tumulto bacchico delle coribanti; rappacifica, questa figlia di

giustizia, il cannibale in lite; civilizza il ciclope senza πολιτεία,

l’uomo da un solo occhio, l’uomo non-matematico, ebbro e brutale. Il

Dalla giustizia all’equità

ricordo dell’oppressione è soffocato tra i misteri notturni. Nemesi in-

carna per i Greci non la bassa gelosia umana, mediocrizzante, ma la

divina Gelosia, che è normativa, poichè trattiene il tiranno dagli ecces-

si dell’ambizione sacrilega e mantiene ogni creatura entro i limiti della

legge. Per l’uomo tentato di rivaleggiare con gli dei e di misconoscere

i suoi limiti, Nemesi traduce il terrore superstizioso della riuscita trop-

po grande, della fobia della chance troppo felice e della prosperità

troppo insolente. Dal momento che la vittoria vi favorisce, è il mo-

mento di tremare. Attenzione al crollo! Nemesi riconduce «l’eutichia»

(fortuna) a limiti più modesti. Ma essa non è soltanto la timidezza del-

la felicità, è anche la giustizia compensatrice incaricata di indebolire i

forti e d’impoverire i ricchi. Nemesi non è dunque senza rapporti con

Temi ... Adrasto, un dito sulla bocca, invita il trionfatore indiscreto al

pudore ed al ritegno, al fine di non tentare questa legge di compensa-

zione di cui Azais ci minaccia, detto altrimenti al fine di non offrire un

margine troppo ampio ed un fianco troppo vulnerabile alle rivincite

dell’alternativa.

Giacché la felicità porta infelicità, come l’infelicità porta la felicità!

Pertanto il ritegno (εποχή) presuppone un impulso primario e spon-

taneo, senza il quale non avrebbe nulla da contenere; e Nemesi stessa,

allegoria tutta morale, è una divinità tardiva. Bisogna arrendersi

all’evidenza: il classicismo è una conquista sulla notte; ed il giusto lo-

gos non è un primo movimento, ma una volontà seconda. La scelta

cieca e passionale è questo primo movimento, che cede allo slittamen-

to della predilezione e che esagera ogni antitesi: l’azione, cioè

l’opzione, è sempre disuguagliante in questo, perché suppone

l’interesse differenziale e preferenziale; come la corrente, per passare,

ha bisogno della differenza di potenziale, così l’azione militante, per

trasformare la materia e sfogare nel mondo, ha bisogno della disparità.

L’azione, polarizzata dal suo progetto, è sempre un pò unilaterale ed

impari; ma il logos è onnilaterale e sinottico. Il logos si calcola: è

dunque tanto secondario quanto l’opzione è spontanea; al di là della

volontà impulsiva, dell’eudemonia e dell’interesse, ci lascia scoprire,

all’orizzonte, i panorami infiniti della giustizia e della ragione specu-

lativa. Di fronte a queste vaste sinossi si comprendono gli scrupoli e le

esitazioni del saggio: astenersi e contenersi, ecco il prezzo dei tenta-

tivi d’assestamento attraverso il quale il logos si ravvede e rinuncia ad

ogni promozione privilegiata. Non si saprebbe quindi rimproverare

VLADIMIR JANKÉLÉVITCH

all’uguaglianza d’essere costruita piuttosto che data. L’uguaglianza è

un’esigenza ideale e non un fatto, ma è giustamente (un che cosa) in

ciò che è normativa. Moralità e razionalità non sarebbero là per ratifi-

care l’esistente? Al contrario sono là per rifiutarlo e raddrizzarlo. Il

dovere, diciamo, non si propone di confermare la natura, ma di invali-

darla ... Se non ci fosse che da confermarla, che bisogno si avrebbe di

un «dovere»? Ed in che cosa potrebbero consistere allora la sua voca-

zione o la sua esigenza? La naturalità non è un argomento in suo favo-

re, ma piuttosto una obiezione! La disuguaglianza, s’insiste, è naturale

… Ma anche la bestialità è naturale; ed è pertanto lo scandalo da far

cessare, perché disonora ciò che di umano c’è nell’uomo, poichè e of-

fende la sua «ominità». È qui l’anti-essere che è un elemento del vero

essere; l’essere essenziale oppone una smentita paradossale all’essere

naturale. La giustizia ripulisce la natura dalle sue idre di Lerne, dai

suoi mostri troppo reali e da tutti gli orchi dell’eccesso. Certo bisogna

tener conto di una tendenza livellante che è una «frenesia» proprio

come le «frenesie» disuguaglianti e che non è meno naturale; Lalande

la eccepisce sotto il nome di dissolutezza, alla differenziazione spen-

ceriana: secondo lui le società tendono irresistibilmente verso

l’assimilazione democratica proprio come l’energia tende verso la sua

stessa degradazione; la barriera delle caste si scioglie per effetto della

moda, dell’imitazione e della densità urbana al punto di non lasciare

sussistere che semplici differenze di livello. Ma bisognerebbe piut-

tosto esprimersi così: le persone, diverse secondo l’avere, si eguaglia-

no radicalmente secondo l’essere. La rinunzia ad un avere inessenziale

condiziona questa ugualizzazione essenzializzante. Costosa è

l’espropriazione, difficoltosa l’essenzializzazione! Il comunismo, sop-

primendo la proprietà, vuole che le proprietà non alterino in nulla

l’essenza fondiaria dell’Esse, ed in questo è umanista. Questo esse es-

senziale, che è ipseità, e di conseguenza qualità, non comporta a dire il

vero né il più né il meno: ma è l’uguaglianza delle appartenenze che,

nell’ordine dell’avere, corrisponde meglio alla natura qualitativa del

nostro Essere lasciandola trasparire nella sua nudità e nella sua dignità

ontica; senza dubbio perché l’uguale, rendendo inutile il confronto

numerico delle grandezze, fa

dimenticare la quantità: non ci sono più né grassi né magri; non ci so-

no che uomini. Certi si lagnano delle astrazioni ugualitarie e livellanti

sotto il pretesto che esse le trasformano in numeri intercambiabili; ma

Dalla giustizia all’equità

essi riconoscono con ciò che tutto il loro Essere consiste nel loro Ave-

re: perché essi non sono che ciò che hanno; perché il loro Ipse è res o

sostanza, cioè cosa posseduta, ma non soggetto possedente; perché in-

fine sono un al-di-fuori senza un al-di-dentro, una facciata senza in-

terno ed un complemento senza soggetto: la riunione di una cravatta,

di un cappello vuoto e di centomila libbre di profitto. C’è lo stesso

rapporto tra l’universalismo dell’Essere e le disuguaglianze quantitati-

ve dell’Avere, che tra l’ecumenismo dell’amore amante ed il favoriti-

smo dell’amore amato: perché se tutti possono amare o volere, tutti

non possono essere amati. Il movimento attivo è un dinamismo ed una

operazione, e di conseguenza è, almeno a titolo di virtualità, un talento

comune a tutti gli uomini universalmente e senza eccezione; ma lo sta-

to passivo, essendo cosa, è un privilegio riservato a qualcuno ed ine-

gualmente ripartito tra gli uomini come i profitti, le proprietà e gli o-

nori. Oppure è il genere umano intero che, dal punto di vista della giu-

stizia, è suscettibile di avere la stessa estensione dell’«élite». La giu-

stizia distribuisce dunque parti uguali, perché l’ineguaglianza ironica

del ricco ed del povero non smentisca troppo scandalosamente la fra-

ternità profonda dei loro destini. Indicando ciò che ho e che voi non

avrete, la disuguaglianza, in regime di concorrenza e di penuria, sepa-

ra persona da persona, isola i mandarini ed i volgari, ολιγοι e πολλοί, e

sottrae dalla massa una minorità di favoriti. D’altra parte, se gli uomi-

ni s’identificano dal loro essere, che è l’universalmente umano in cia-

scuno di loro, essi si differenziano dai loro modi d’essere, cioè dai lo-

ro modi ed attributi, i quali, essendo accidentali possono essere o non

essere, e dissociare così il superiore dall’inferiore. La legge

dell’alternativa vale dunque nel suo rigore per l’avere, ma non è arit-

meticamente valida per l’essere: dal punto di vista dell’avere gli uo-

mini si contendono un patrimonio finito, e in modo che la razione ac-

caparrata dagli uni è prelevata sulla parte degli altri; l’Essere, lui, è

ecumenicamente dispensato a tutti gli uomini, e ogni parte individuale

rigenera la totalità dell’umana condizione; ed allo stesso modo

l’amore che un cuore generoso porta agli uni non diminuisce

d’altrettanto l’amore che deve agli altri: perché le sue risorse sono i-

nesauribili e le ricrea miracolosamente nella misura in cui le spende;

ciò che viene dato non è mai di meno; qui non più proprietari, e di

conseguenza non più guerre ne pleonessia. L’uomo essenziale è

l’uomo della pace. È ciò che gli Stoici, affermando l’uguaglianza degli

VLADIMIR JANKÉLÉVITCH

errori, avevano già intuito. Il Vangelo, d’altronde, considerando la vita

umana come assolutamente preziosa, ammette implicitamente ciò che

Kant professerà filosoficamente: il valore infinito e la finalità catego-

rica di ogni persona. Cicerone stesso diceva con forza: la morte di una

celebrità e quello di un pezzente non sono due morti disuguali: «non

aliofacinore dori homines, alio obscuri necantur». Il fatto che la vitti-

ma sia un illustre accademico non aggiunge niente alla gravità

dell’omicidio, il fatto che questa vittima sia un povero scaricatore di

porto sconosciuto non rende il crimine meno odioso: l’intenzione o-

micida è unica decisiva in questi argomenti. Alla lettera, la morte di

qualcuno è un affare metafisico. Balzac mette sulla bocca di Rastignac

questa aporia di Rousseau: se uno si potesse arricchire uccidendo in

Cina, per sua semplice volontà, un vecchio mandarino senza muoversi

da Parigi … lo si ucciderebbe? L’aporia diventa un caso di coscienza

per Bergson, e Ivan Feodorovich, nel grande passaggio che precede la

parabola dell’Inquisitore, la risolve allo stesso modo di Bergson:

l’armonia dell’universo non vale le lacrime di un solo bambino, a sup-

porre che il supplizio di un

innocente sia il prezzo con cui bisognia comprare la felicità di tutto il

genere umano; Io ve lo dico, è pagare troppo cara la verità. E Karama-

zov, scelse come Bergson: salti pure il pianeta, ma che il fanciullo non

abbia a soffrire a causa della giustizia. Perché gli si sacrifichi così tut-

ta l’umanità, il piccolo fanciullo non ha minimamente bisogno

d’essere importante: il più umile, il più anonimo dei fanciulli ne vale

già la pena! Beninteso, e riguardo al logos aritmetico, la nostra scelta è

pura demenza, perché il genere umano vale di più, pesa sulla bilancia

un peso più gravoso di un fanciullo solo; ma se, secondo la ragione di

Leibniz e di Bentham, quella della Theodicea come quella

dell’utilitarismo, bisogna preferire la maggioranza alla minoranza e

tutti ad uno solo, il dolore di uno solo, nell’ordine paradossale ed an-

che paralogico della carità, è incompensabile ed incommensurabile a

qualunque altra (ragione). Mille godimenti, ci dice Petrarca, non val-

gono un solo tormento; e ugualmente, Schopenhauer spiega che la vo-

luttà di tutti non compensa le torture di un solo suppliziato ... Le rego-

le normali della preponderanza quantitativa, secondo le quali (i più

prevalgono sui meno) il PIÙ prevale sul MENO, qui sono parados-

salmente in difetto! Il dilemma implicito in questa «supposizione im-

possibile» è lo stesso tipo del caso di coscienza: quando l’alternativa

Dalla giustizia all’equità

ci induce a sacrificare sia il genere umano ad un fanciullo, sia un fan-

ciullo innocente al genere umano, si può ben dire che lo scontro è in-

solubile e l’opzione lacerante tra i due doveri; sono due imperativi u-

gualmente assoluti e, allo stesso tempo, tragicamente disgiunti, in-

compatibili e incomparabili! L’ultimatum con cui questa karamazo-

viade ci addossa al muro rende la scelta allo stesso tempo impossibile

e necessaria. Come la certezza matematica è sempre massima e super-

lativa, così le ultime petizioni dell’ipseità dipendono dalla legge del

Tutto-o-Niente: se l’astronomo è vicino ad un secondo, Ivan Feodoro-

vich, (lui) è vicino ad un fanciullo, perché non ci sono errori trascu-

rabili, non «all’incirca» e non quasi quando è il dolore di qualcuno che

è in questione; un millimetro di troppo, una minuscola paglietta, un

decimale dimenticato, ed ecco forse tutta la costruzione a terra. Co-

me una sola ed umile angoscia sperduta in qualche angolo del mondo,

una piccola sofferenza non soccorsa, non riscattata ed ecco con che

cosa avvelenare fino alla fine dei tempi l’economia di questo mondo.

Inteso, non si tratta del millimetro stesso, perché sono i maniaci che

contano i millimetri ed i meschini che contano i secondi e gli avari che

contano i centesimi; e questa minuzia va giustamente d’accordo con l’

approssimazione di un cuore disonesto … Di certo, la megalopsichia

vera non è così meticolosa; di certo, un cuore generoso non guarda

tanto per il sottile, un cuore generoso non sta attaccato al centesimo!

Non si tratta del centesimo, si tratta del destino della persona sulle

spalle della quale nessuno ha il diritto di arrotondare un totale, perché

la persona è un assoluto, un impero da sola. Un impero e non un de-

cimale. L’uguaglianza fondiaria degli umili e dei potenti in rapporto

all’acqua del battesimo esprime a suo modo, nel linguaggio dei cri-

stiani, che l’assoluto non comporta dei gradi e che ciascuno ne vale un

altro dal momento in cui (ciascuno) ha una dignità infinita ed un prez-

zo inestimabile ed inapprezzabile, un valore non valutabile. Tutti, di-

ciamo, possono volere, e di conseguenza nessuno può essere scusato

di non volere, visto che il potere-di-volere dipende dalla nostra libertà,

giustamente dalla nostra stessa volontà; il volere, per una regressione

infinita, rinvia al voler volere, e poi al volere di questo voler-volere,

cioè finalmente al volere tout court; In vista dell’aseità e della circola-

rità della causa sui, il volere è così la fine e l’inizio, l’omega e l’alfa.

Tutti possiedono dalla nascita questo talento dell’intenzione e della

buona volontà che, dopo tutto, non è altro che la volontà di volere.

VLADIMIR JANKÉLÉVITCH

Tutti possiedono le risorse sufficienti per amare, considerato che que-

ste risorse non sono nemmeno «risorse» ma semplice essenza del no-

stro Essere. E come l’attitudine qui si confonde con l’esistenza in

atto, si può ben dire che non ci sono analfabeti morali, né illetterati del

dovere. Non ci sono profani, non altro che chierici e questi sono tutti

alla pari in chiericato. No, Impossibile non è morale! Le grandi cata-

strofi che rapinano e sconvolgono l’esistenza fino alla sua effettività

radicale ristabiliscono, sotto i titoli, gli epiteti e le decorazioni,

l’uguaglianza fondiaria di tutti gli uomini riguardo al destino; sotto le

disuguaglianze aggettivali e le disparità inessenziali, il pericolo della

morte mette a nudo in ciascuno l’assoluto dell’ipseità monadica. A di-

re il vero gli assoluti, in quanto assoluti e rispettivamente infiniti, non

sono né uguali né disuguali. Oppure il genere umano è paradossal-

mente una pluralità di assoluti! Tutti nelle stesse condizioni! Tutti fra-

telli e compagni nel pericolo! La donna ritrova prima dell’uomo, nelle

cose d’amore, questa uguaglianza essenziale e ne soffre molto di più.

Le distinzioni che rendono disuguali le donne sono in effetti relativa-

mente superficiali ed accidentali rispetto alle distinzioni che gerar-

chizzano gli uomini e che l’ambizione mascolina aspira ad esagerare e

a spaziare sempre di più; la disuguaglianza delle donne non tiene so-

lamente allo spessore del lavoro, ma al favore della buona sorte. Que-

sto non era sfuggito a Schopenahauer: le donne sono elette, e questa

scelta della grazia giustifica in certa misura le speranze romantiche

delle donnette; non c’è molta differenza tra la regina e la sua camerie-

ra, se questa donna è bella, di quanto invece non ce ne sia tra il re ed il

suo cameriere. La gelosia femminile, l’idea femminile della «rivale»

deriva dal fatto che gli uguali, augurandosi la differenziazione monda-

na e la felice sorte che li favorirà, sopportano con impazienza la loro

uguaglianza … Ma ciò che per le donne è una conseguenza dell’amore

può per tutti gli uomini risultare dalla guerra, dal naufragio,

dall’infelicità e dalla morte; una donna abbandonata, regina o pastorel-

la, non è altro che una semplice donna, una donna che soffre, una

donna come tutte le donne, una donna la cui vocazione è quella

d’amare e d’essere amata; allo stesso modo il pericolo mortale essen-

zializza e quoddifica i disuguali rivelando agli uomini minacciati la

loro comunanza di destino. Le creature finite si uguagliano in confron-

to all’infinito come tutte le fanciulle della terra in rapporto al principe

azzurro. La giustizia egualitaria, virtù quidditativa, ha dunque in defi-

Dalla giustizia all’equità

nitiva il suo fondamento nel Quod dell’ipseità. L’elemento razionale

del giusto logos non si giustifica fino in fondo che nell’irrazionale del-

la carità: tuttavia ammettiamolo: se l’uguaglianza è la formula di un

certo rapporto semplice tra le parti, non dice nulla di queste stesse par-

ti: non dice se sono grandi o piccole, vili o preziose, ma dice giusta-

mente che sono uguali: dice Tanto all’uno quanto all’altro, ma non di-

ce Quanto perché essa non si interessa al Poco o al Molto. Che le parti

siano uguali, qualsiasi esse siano! Nella relazione formale scompare,

indifferente, la personalità dei relativi: tali le equazioni del matemati-

co dove non ci sarebbe, secondo Bergson, nulla da cambiare se il tem-

po stesso passasse due volte più veloce o due volte più lentamente; vi-

sto che i matematici non fanno accezione della qualità dell’intervallo

né del contenuto delle esperienze vissute … E tuttavia l’uguaglianza è

ben «qualcosa» benché non sia «cosa», benché non sia un certo ordi-

ne razionale o una disposizione intelligibile degli elementi e, se non

essa stessa una grandezza, almeno una proporzione determinata tra

due grandezze ... Diversamente, la forma avrebbe un’esistenza speci-

fica al di fuori delle cose delimitate? Ecco dunque la contraddizione

nella quale giriamo: l’uguaglianza, in quanto logos e pensiero raziona-

le, è già in se stessa una verita; l’uguaglianza, per avere un valore, de-

ve in più essere vera. L’uguaglianza è, in un primo senso, ipotetica

come lo statu quo del fatto compiuto, fatto che ha forza di legge perché

giustamente è «compiuto». Non importa quale uguaglianza sia giusta,

per esempio, l’uguaglianza nella miseria; la proletarizzazione univer-

sale, il livellamento verso il basso che deriva dall’invidia non produ-

cono ancora giustizia; è impossibile che la giustizia non faccia acce-

zione della qualità dell’uguale, cioè del livello in cui l’uguaglianza si

stabilisce; non è l’uguaglianza in sé, che importa. l’uguaglianza vuota

ed astratta, l’uguaglianza ad ogni costo, perché l’uguaglianza per esse-

re giusta deve anche essere vera: lo scopo del socialismo, principal-

mente, non è d’impoverire i ricchi per arricchire i poveri, che sarebbe,

come abbiamo detto, (cambiare ricchi) ed invertire l’ingiustizia senza

estirparla oppure non si guadagna nulla nel fatto che i vecchi primi

divengano i nuovi ultimi, ed i vecchi ultimi divengano i nuovi primi,

ne di degradare tutti, ricchi e poveri, al rango del proletariato straccio-

ne, per la sola soddisfazione di sopprimere la disuguaglianza e sotto il

pretesto che ci saranno sempre degli straccioni: lo scopo del socialismo

è quello di abolire la miseria in generale; si tratta di essere giusti, cioè

VLADIMIR JANKÉLÉVITCH

non logici ma umani. Per fortuna l’uguaglianza ha già un valore ed un

contenuto nella misura in cui essa libera l’ipseità dalle appartenenze

che sole rendono disuguale l’umano dell’uomo. La giustizia del puro

statu quo attinge semplicemente nei costumi e nelle tradizioni empiri-

che, non importa quale fatto sia idoneo a divenire legale ammesso pe-

rò che esista (la sola condizione è giustamente che esista); ma la giu-

stizia di uguaglianza, quando ricerca una uguaglianza legittima e ve-

ramente assiologica, deve costruire il suo ideale e rispondere ad una

esigenza propriamente normativa.

IV. Uguaglianza Proporzionale

Gli uomini, uguali secondo l’Essere, si differenziano superficial-

mente e materialmente secondo l’Avere, moralmente secondo il Fare,

e bisogna intendere per «fare» le iniziative discontinue che le nostre

volontà assumono nella durata e che sporgono sulla continuazione

dell’essere: le iniziative delle volontà intraprendenti ricamano le loro

variazioni sul tema fondamentale della Quiddità; quest’ultimo, desi-

gnando in noi la radice ontica dell’ipseità che la morte mette a nudo,

esclude l’elogio e il biasimo per chiunque è empiricamente, nozionisti-

camente collocato nella sua continuazione quidditativa: poiché non

c’è nessun merito speciale ad essere ciò che si è; ma dal punto di vista

metempirico dell’origine radicale, che fa apparire la gratuità

dell’esistenza, nessuno viene dispensato dall’onorare nel suo prossimo

la dignità dell’uomo. Tuttavia, non avremmo mai l’idea dell’uguale se

la «piccola quoddità» delle intenzioni, differenziando la grande Quod-

dità dell’essere, non ci permettesse di classificare, di gerarchizzare, di

scaglionare i gradi. Tripla è la disuguaglianza che ci differenzia: la

prima disuguaglianza attiene al velle-nolle, non al fare o al raggiungere

un risultato, ma al volere o non-volere il quale è assolutamente libero;

questa alternativa, fonte del bene e del male, è per così dire

l’imitazione o miniatura dell’atto creatore che decide della nostra

quoddità e ci colloca come esistenti. Ma, nella disgiunzione dell’essere

e del non essere, la scelta ci è data già fatta, da sempre decisa in favore

dell’essere: l’essere che si pone la domanda d’Amleto esiste già;

l’esistente preesisteva alla sua domanda, poichè se la pone! Ad ogni

modo, la presenza dell’inquisitore stesso era la risposta! Nella libertà

dell’uomo, al contrario, la scelta rimane in sospeso. Se la possibilità

del non-essere prende in rapporto all’essere la forma di un avrebbe-

Dalla giustizia all’equità

potuto retrospettivo, lei è per la libertà umana un che-può-essere ed

una virtualità a venire. La seconda disuguaglianza attiene al voler-

volere, che è insieme effetto e causa del volere, causa come facoltà di

volere, effetto come abitudine di volere; allo stesso modo, e per parla-

re il linguaggio mitico di Er il Panfilio, l’atto di libertà prenatale con il

quale l’uomo sceglie il suo carattere intelligibile, quest’atto è un fare

tra due modi di essere: «a parte post» l’atto libero pone il dato metem-

pirico che, come una fatalità o una predestinazione, deciderà a priori

della nostra natura: il cattivo, per esempio, vuole e rivuole la sua mal-

vagità e la rivuole sempre più facilmente, con una velocità di caduta

continuamente accelerata, e, come dice Kierkegaard, un «impetus» ac-

cresciuto, e agisce secondo questa malvagità perché ormai è divenuto,

«un malvagio». Ma «a parte ante», ha scelto male perché egli era già

malvagio; ha scelto con cattiveria la sua malvagità. L’uomo che vuole

diventa, a forza di volere, benevolo o malevolo, res volens, sostanza

volente; ma se ha voluto di questo o quella maniera, è perché era già

nato capace di volere così, dato che la libertà presuppone almeno il

«fatto» di essere libero. Questo è il cerchio: la nostra libera malevo-

lenza ci costruisce secondariamente, con l’aiuto del peso di gravità

dell’inerzia, una natura maligna; ma se la cattiva volontà ha mal voluto,

è senza dubbio perché la sua natura era già predisposta alla malvagità.

Quanto alla terza disuguaglianza, che attiene al potere-di-volere, non

bisogna cercarne l’origine altrove se non nel corpo, il corpo appassiona-

to, principio di ogni limite umano, con il suo albero nervoso e i suoi re-

cettori diversamente sensibili: avendo la stessa vocazione morale e

stessa responsabilità, gli uomini non possono le stesse cose perché non

hanno gli stessi mezzi: (Esse) si differenziano per l’ossatura e la musco-

latura, per l’acuità dei loro sensi, per la loro idiosincrasia, per la loro

costituzione e il temperamento dei loro umori; e questo senza parlare

delle differenti eredità che rendono ancora di più lo svantaggio in par-

tenza, vale a dire, appesantiscono la tara e aggravano la patologia. Tut-

to ciò che appartiene al finito, comportando una grandezza, comporta il

più ed il meno; tutto ciò che, come la carne, è pesante impenetrabile e

massiccio si lascia graduare su una scala numerica dove non si fa ac-

cezione che alla quantità. Secondo Cicerone e Seneca è la «materia»

ascoltate: le circostanze esterne (età, ricchezza, salute ...) che diffe-

renziano l’azione: il sostanzialismo ammette un optimum o Honestum

invariabile che si differenzia per effetto delle «exteriora», rendendo

VLADIMIR JANKÉLÉVITCH

possibile la tabella delle sanzioni sociali; così l’errore diventa «major

minorve». Infatti la disparità «discrimen» comincia al livello degli

aggettivi o possessi dell’ipseità; non è che il processo accrescitivo sia

un’imperfezione, come lo propone (uno statismo eternitario) una stati-

cità eterna ... Diciamo più semplicemente: la virtù è una, mentre i suoi

epiteti sono disgiunti. In due parole: il libero benvolere e malvolere,

già diversi l’uno dall’altro, diventano sempre più facili e difficili dap-

prima per il voler-volere, che rappresenta il mistero della valanga o

causalità in cerchio, poi per il potere-di-volere, che introduce, con la

carne egoista, tutti i gradi del poco e del molto. Di queste tre disugua-

glianze solo la prima richiama una giustizia autentica, una giustizia

che risponde con un si o con un no, e che esclude le gradazioni scalari,

e che dunque non saprebbe essere «distributiva»: perché volere è libe-

ramente derogare o non derogare dalla propria vocazione di uomo; in

questo senso tutte le colpe sono uguali: detto altrimenti l’intenzione,

che è l’inizio dell’inizio e il potere sempre possibile, non comporta che

il tutto-o-niente. Ma la terza disuguaglianza, l’ostacolo creaturale

dell’alternativa, esprime a sua volta questa giustizia tagliente, intransi-

gente, semplicistica che conosceva soltanto la contraddizione

dell’essere e del non-essere e ripartiva tutte le volontà in buone e cat-

tive; il corpo, facilitando più o meno il ben volere descrive la disgiun-

zione acuta, e con il corpo l’egoismo, la concupiscenza, la resistenza

degli istinti e l’inerzia dei pregiudizi. Il merito, in questo senso, misu-

ra empiricamente l’intensità del ben volere, che si apprezza attraverso

il rapporto del risultato ottenuto all’ostacolo superato; questa relazio-

ne, che rappresenta il nostro sforzo ed la nostra fatica esprime sia la

presenza sia l’assenza della buona volontà. Il valore etico dell’agente,

responsabile della sua dignità soprannaturale, è cosi funzione di due fat-

tori: il fatto della sua volontà o non-volontà che, ne decide in un colpo

solo, e il fatto della materia resistente o inerte che permette di graduar-

ne la quantità; ci saranno pertanto peccati mortali e peccatucci, gesti

generosi, ma sinistri ed incompiuti; ci verrà fatto il conteggio non solo

di ciò che è stato fatto, ma anche di ciò che è occorso fare per farlo: e

della nostra riconoscenza infinita per questo prezioso e precario movi-

mento dell’intenzione anche se fosse il risultato di un intenzione fallita.

Il volere ed il Fare coinciderebbero senza dubbio in un essere perfetta-

mente pure ed innocente: o meglio il volere sarebbe tutta azione, senza

niente d’inespresso né di sottinteso o di tradito, mentre l’Agire, in

Dalla giustizia all’equità

cambio, sarebbe veramente essenziale invece d’essere l’agitazione il-

lusoria dell’interesse e della vanità. Ma per l’uomo di carne e di men-

zogna l’agire che non è lavoro, traspirazione e contrazione muscolare

è un pugno nel vuoto: è dopo il peccato che Adamo, secondo la Bib-

bia, è condannato alla maledizione dello lavoro faticoso; l’azione non è

più, come nella gioia, l’irraggiamento gratuito e spontaneo dell’essere,

ma è un modo negativo di colmare il margine che separa il devant-étre

e l’io reale; non agiamo più secondo come siamo ma facciamo altra co-

sa, troppo o non abbastanza, e il nostro essere supera sempre l’agire

deviato, indebolito, fermato a metà strada da questo stato di alienazio-

ne e di scissione; e poiché il rendimento si esprime con una frazione,

bisognerà dire che il nostro volere ha un rendimento, che questo ren-

dimento presuppone un’economia, che questa economia implica un ca-

lo da minimizzare e una percentuale da incrementare. Il volere non fi-

gurerà integralmente nel suo atto. Qualsiasi cosa sia, gli agenti morali,

egualmente preziosi di diritto, sono ripagati di fatto in modo differente,

la gamma delle razioni e la tabella delle sanzioni sono appena abba-

stanza varie per compensare i loro dissimili meriti. Sapendo che da una

volontà antecedente, cioè teoricamente a priori, noi gli dobbiamo a tut-

te lo stesso trattamento, applicheremo loro, per una volontà conseguen-

te, cioè a posteriori, una certa scala di ricompense: la giustizia distri-

butiva tenta di tariffare i diritti e di frazionare le ricompense benché le

ipseità meritevoli o immeritevoli siano infinite, sempre totali e fonda-

mentalmente uguali tra loro. Per gli Stoici, la giustizia è εν

απονεμητέοις come il coraggio εν υπομεντέοις. Si sa che Aristotele

oppone la διανεμετική alla διορθωτική, la ripartitiva alla correttiva,

proprio come la proporzione geometrica si contrappone

all’uguaglianza aritmetica e come l’ανάλογον si contrappone

all’equidifferenza, l’analogia o proporzionalità che qui designa non

l’uguaglianza assoluta delle parti, ma un’uguaglianza di rapporti

ισότης λόγων: la parità semplice che relaziona direttamente un agente

con l’altro fa luogo qui ad un rapporto mediato e intransitivo che è

relazione dei rapporti e che è di conseguenza astratto o complesso, che

è un rapporto con esponente, che è rapporto alla seconda potenza; per

la giustizia dianometica (distributiva) una legge, un’equazione intelli-

gibile si liberano dall’irregolarità e dall’incoerenza. Prima il rapporto

rispettivo di ogni agente alla sua parte è costante. In seguito il rapporto

degli agenti tra loro è uguale al rapporto delle parti tra loro, di modo

VLADIMIR JANKÉLÉVITCH

che l’ineguaglianza delle parti esprime e riflette esattamente la disu-

guaglianza delle persone. Come gli uguali si comportano differente-

mente, la διανομή, per una specie di compensazione allo specchio, li-

vella tutti gli sconfinamenti e ripartisce tra gli uomini il simmetrico

inverso dei loro scarti; calcolando e misurando gli zigzag di ogni con-

dotta in rapporto alla retta orizzontale della norma, essa afferma impli-

citamente l’uguaglianza fondamentale delle persone, «Suum cuique

tribuere»: Ulpiano e Cicerone sono qui d’accordo, grazie a questa ri-

serva che il «suum» è «Jus» per il primo e «Dignitas»» per il secondo.

«Cuique suum», a ciascuno il suo dovuto non, è vero, il suo dovuto

assoluto che è infinito e lo stesso per tutti, ma il suo diritto relativo,

specificato e reso singolare dalla materia. Ad ognuno secondo le sue

opere e le sue capacità, diceva la dottrina di Saint-Simon. E Louis Bu-

chez: a ciascuno seguendo i propri bisogni, rettifica Louis Blanc.

L’essenziale, in ogni caso, è il Secondo e il κατ’άξια razionale, mentre

la Ratio o Logos calcola la legge delle funzioni e i rapporti dei rapporti.

La giustizia è l’istanza mediatrice che, mediante la ripartizione propor-

zionale, ristabilisce tra le solitudini una relazione di socievolezza, e, in

questo spazio sociale, proietta l’invisibile diseguaglianza delle perso-

ne.

V. La Giustizia è Logos

Distribuzione, scambio o riparazione, la giustizia nei tre casi è la

conservatrice del valore; la giustizia è una protesta razionale contro la

violenza, contro l’istinto egoista e contro l’avidità pleonessica. Ogni

volta che si manifesta, nel cristianesimo come nel socialismo, entra in

lotta non per raddoppiare la forza ma per compensare la debolezza; è

già a suo modo la muta rivincita, soprannaturale e presto o tardi inelut-

tabile, del vinto che ha per lei il buon diritto; protegge la donna

dall’uomo, l’operaio dal suo datore di lavoro e la debolezza disarmata

dalla violenza furibonda. È anche nel contrasto scandaloso del diritto

umiliato, calpestato, misconosciuto e della pirateria trionfante che il

suo ideale e la sua dignità esplodono manifestatamente. La santità della

giustizia, secondo un vecchio canto religioso russo, è legata alla vittoria

dell’ingiustizia: «Al giorno d’oggi» leggiamo alla fine del Libro della

Colomba «l’ingiustizia ha vinto la giustizia, la giustizia se ne è andata

nell’altro dei Cieli e l’ingiustizia è rimasta sulla terra umida, è caduta

sul nostro cuore ardente». Tuttavia, l’infelicità e l’impotenza della ve-

Dalla giustizia all’equità

rità corrispondono ad un pathos un pò romantico senza dubbio ed un

pò drammatico per una norma così inflessibile: perché sarebbe assurdo

e ridicolo, contraddittorio e disperato che si possa allo stesso tempo a-

ver ragione e non aver ugualmente la forza di esistere, che il miscono-

scimento sia obbligatoriamente il prezzo del buon diritto e della verità.

Per quale ragione sarebbe necessario che la giustizia fosse infelice? Ci

dicono, è vero: quaggiù la prosperità dei malvagi e degli impostori,

l’impunità dei furfanti, quaggiù il mondo dei valori alla rovescia e

l’ingiustizia immanente, a più tardi il ristabilimento del mondo dalla

parte giusta … più lontano del futuro più lontano, e cioè dopo la fine

dei tempi; cioè giammai; beati i giusti infelici, perché saranno ricom-

pensati ... dopo la morte! Ora queste sicurezze sull’aldilà, queste pro-

messe e queste consolazioni escatologiche non ci bastano; questa glo-

riosa speranza non saprebbe occupare il posto di una giusta regola. Non

bisogna che il mettere in ordine si faccia attendere fino all’ultimo giu-

dizio; non bisogna che il mondo a posto sia «l’altro» mondo! La voca-

zione della giustizia è d’avere l’ultima parola quaggiù su questa terra.

Ma come l’esistenza effettiva non è mai contenuta analiticamente nel-

la verità, bisogna che la forza si aggiunga al diritto come un supple-

mento irrazionale e gratuito, se si vuole che la giustizia non sia una no-

zione, ma un fatto. La giustizia, dice Alain, non ha armi, come inver-

samente la forza non ha diritto; e pertanto il cavaliere Rolando ha una

spada. La giustizia attenua dunque l’ironia e il paradosso della verità

senza forza; unisce all’essenza l’esistenza storica. Grazie ad essa è la

violenza che sarà debole, precaria, tesa, impacciata; e il diritto, al con-

trario, che sarà, diciamo non violento, ma forte come si deve, dato che

la potenza non è che l’irradiazione ontologica della sua verità, del suo

slancio fino all’effettività; il soccorso che riceve da lei la verità plato-

nica mette buon ordine alla dissociazione anormale e pessimistica del

valore e della forza, dell’ingiustizia e dello scacco; la giustizia, appor-

tando alle buone cause ipotetiche l’aiuto categorico dell’effettività,

rimette a posto i princìpi e ristabilisce il corso normale e naturale delle

cose. Che l’ingiustizia sia punita ed infelice, e non solo nelle fiabe! Che

la verità sia lieta, come nella Biblioteca rosa! Che il diritto abbia buone

armi, per farsi rispettare dalla brutalità delirante! E che la storia raccon-

ti, come in Hegel, la lunga e sicura ascesa della supremazia! Zeus, forte

giustizia e giusta forza, ha incarnato per una nazione ragionevole que-

sta sconfitta dell’insolenza, del disordine e della menzogna: il coraggio

VLADIMIR JANKÉLÉVITCH

regolato mette in fuga le prodezze barbariche che è una rabbia impo-

tente, e ristabilisce un ordine saggio, un κόσμος: invece della violenza

folle di sé, incarnata dall’uomo collerico, infuriato, timico o toracico,

ecco l’uomo giusto e forte, che protegge la sua compagna anche da se

stesso. Il regno delle favole sarà finalmente di questo mondo, e quag-

giù, da subito: questo braccio della giustizia immanente, secolare, ese-

cutiva, risarcisce in contanti la vittima dei cannibali. Socrate non ha

avuto troppa pena a sventare il paralogismo che si nasconde

nell’equazione del diritto e della forza professata dai giovani cinici del

Gorgia e della Repubblica, Callicle, Trasimaco, Glaucone e Adimante.

Il diritto, è la forza. L’identificazione da parte della copula non rifiuta

forse da sola il sofisma incluso in questo paradosso sensazionale? Per-

ché se il diritto implica la forza in ciò che implica il potere di esistere, e

se anche la forza è, in qualche modo, la fonte del diritto in quanto come

l’ideale germoglia nei fatti e procede dalla violenza creatrice, non si

può affermare senza assurda contraddizione che la forza è tutto il dirit-

to e gli è coestensiva. Guardate piuttosto i modelli di questa brillante

gioventù: Archelao, il tiranno di Macedonia, vantato da Polos, Gygés,

l’uomo dell’anello citato da Glaucone; prendono le parti di Zethos il

cacciatore contro quelle del musicista Anfione, e disprezzano la lira di

Ermes come sfidano la vergine saggia; sostituiscono la giustizia con la

legge della giungla ed il diritto con il Faustrecht. Sventatamente Calli-

clés, il più sfrontato di questi scapestrati dinamici, invoca il plagio di

Ercole, senza comprendere che Ercole rappresenta non il beneplacito e

il diritto arbitrario del più forte, ma piuttosto il diritto armato e musco-

loso, la forza al servizio del diritto, la buona clava della beneficenza. È

quella che Trasimaco chiamava giustizia del pancrazio? Fare ciò che si

vuole, in piena libertà, e senza i margini stretti della norma, come il

mago dal talismano, ecco senza dubbio l’estremità dell’onnipotenza,

ma questo estremismo porta al suo contrario; ma l’inversione di que-

sto estremismo ci rivela ancora di più l’impotenza dell’onnipotenza:

perché se la giustizia senza forza non può nulla, la forza senza giusti-

zia è più debole, in definitiva, di un diritto disarmato; tant’è vero che

la giustizia non solo santifica la comunità ma la fortifica. Anche i bri-

ganti tra loro devono osservare regole di giustizia se vogliono riuscire

nel loro brigantaggio! Soprattutto Platone, denunciando la confusione

del κρείττων e del βελτίων che commettono tutti quei giovani violenti,

scioglie subito l’imbroglio: l’identità morale della giustizia sgonfia i

Dalla giustizia all’equità

paradossi scioccanti; si può essere ισχυρότερος e μοχθηρότερος,

αμείνων e ήττων … Non presentiamo forse qui, in apparenza e provvi-

soriamente, il chiasmo evangelico cioè la disgiunzione cristiana della

virtù e della felicità? Aσθένεια e αδυναμία, debolezza e impotenza non

sono necessariamente ingiustizia, e si può trionfare in fatto senza pre-

valere in diritto. Ma bisogna dire di più: questa denuncia di una vio-

lenza inconsistente e senza verità, questa dissociazione tra essenza ed

apparenza non significano affatto che il mondo dei valori sia una mon-

do atossico; proprio come Socrate l’ironico ha incarnato la forza del

debole, i monelli trionfanti che hanno un bel portamento e hanno per

sé le apparenze, rappresentano la debolezza della forza. Il debole è

Calliclès! La sua forza è solo una facciata: perché il violento, simile

all’uomo in collera, è un debole … Lo spirito giuridico di un Platone e

di un Tucidite si oppone qui con clamore alla fisica della forza rappre-

sentata dai giovani pragmatici: φύσει e νόμω, secondo la natura come

secondo la legge, è meglio subire l’ingiustizia che commetterla. Ma in

realtà non vuol dire vincere né soccombere. Sala-

mina è rimasta la rivincita delle forze affermative e tutte quante imma-

nenti a questo mondo, alla vita di quaggiù, Salamina dove morì Serse,

il despota brutale, simbolo dell’eccesso pretenzioso e presuntuoso. Sa-

lamina che vide la ragione mettere in fuga la quantità cieca e i tori

dell’arroganza e la giustizia del pancrazio. Il diritto non è dunque più

la forza di quanto il Bene non è il piacere; pertanto la fede in una forza

«legittima» e, per contrasto con la povera ragione del più forte, la fede

nella forza del più ragionevole, questa fede anima un certo «naturali-

smo ideale», che è, come l’edonismo razionale, specificatamente pla-

tonico. La giustizia è il metro e l’ordine sovrano che mette a dovere

l’istinto della preponderanza e che rettifica i bilanci truccati. Essa è il

rimorso dello spirito che ha cambiato la via rettilinea contro gli zigzag

della passione. E calma in questo la febbre guerriera. Perchè dice Ari-

stotele, c’è guerra tutte le volte che gli uguali hanno parti ineguali o i

disuguali ottengono parti uguali .

Quando una vuole più di quanto gli spetti, quando si è rotto una volta

l’equilibrio dell’uguaglianza, niente può frenare la vertigine della ple-

onessia imperialista. Salamina, non è soltanto la forza intelligente e il

partito di Anfione, è la pace nella luce. Scartando gli estremi parziali e

partigiani, la giustizia è il principio stesso del Logos; la giustizia è

mediazione o arbitraggio tra gli istinti prevaricatori: dai punti di vista

VLADIMIR JANKÉLÉVITCH

autistici e passionale essa sostituisce l’istanza disinteressata del terzo,

cioè del giudice, il quale è, come dice l’Etica a Nicomaco, il diritto in-

carnato. La giustizia, come la sincerità, rinuncia a sfruttare l’occasione

del momento, la fortuna inconfessabile sulla quale il bugiardo e il truf-

fatore si gettano con avidità. Onore a chi ama la giustizia, anche senza

speranza. Maledizione a chi ama la giustizia nella misura in cui questa

sedicente giustizia li favorisca. Noi abbiamo già incontrato la magistra-

tura ragionevole all’interno dell’individuo, che garantisce la sovranità

utilitaria dell’eudemonia sul piacere e il sacrificio dell’istante dalla più

lunga durata; eccola ora all’opera tra gli individui stessi. Quando essi

sacrificano l’uno Eterno Presente l’altro il Me, l’Io i due Logos sacrifi-

cano senza dubbio una specie d’assoluto; ma come il Me l’Io, in quan-

to ipseità, rappresenta l’unità ultima di una monade, l’unicità di una

vita e la totalità di un destino, la sua cancellazione davanti all’ordine

universale in nome di un logos solo non è, più in nessun modo «nel

suo interesse»: è la massima stessa che è, questa volta, disinteressata e

che alla chiusa imparzialità sostituisce una imparzialità imparziale, un

disinteressamento aperto, una rinuncia infinita, una giustizia. Rinun-

ciare a ciò che si ha di più prezioso a vantaggio di ciò che vi è di più

sacro in generale tra gli uomini, è questo prendere le parti degli altri

contro le proprie. Se non si tratta ancora d’amare l’altro per lui stesso,

non si tratta maggiormente di volere la felicità dell’altro come un mez-

zo per la propria felicità. Si tratta molto di più, si tratta della verità ar-

rogante, che è molto al di là di ogni pragmatismo; certo la giustizia e-

sige l’abbandono dei miei diritti esorbitanti e dei miei privilegi piutto-

sto che il sacrificio della mia ipseità, la giustizia esige delle concessioni

più che un suicidio; pertanto non è (come nel logos utilitario) l’ipsetà

stessa che viene sacrificata e a favore di chi è chiesto il sacrificio, non è

la stessa che è la vittima ed il beneficiario: io sono la vittima, ma il be-

neficiario è un altro diverso da me; un altro o altrui e non il mio futu-

ro, vivrà grazie alla mia dedizione; la giustizia non è dunque più un

movimento circolare ma una vocazione aperta, e senza ritorno,

sull’infinito dell’alterità. Il logos egocentrico ritrova l’altro seconda-

riamente, per combinazione e trasferimento, e si impone il pretesto

della posterità e dell’entourage per ritornare dopo giri e circonlocu-

zioni all’ego-proprio; l’altruismo di questo logos non è che un alibi

dell’egoismo, una perifrasi e un sofisma: percorrendo il grande cer-

chio dell’alterità, il logos egocentrico cerca prima di tutto delle scusan-

Dalla giustizia all’equità

ti e dei pretesti per la sua filautia vergognosa. Ma il logos senza punti

di vista, il logos se non eterocentrico, almeno monolaterale, va diret-

tamente all’ipseità di ogni uomo e all’ominità di tutti gli uomini. Non

diciamo logos che per fissare le idee, perché non si tratta più del giu-

dizio, si tratta del nostro modo di trattare gli uomini; perché questo giu-

dizio è un atto, una decisione; perché giudicare non è soltanto affermare

il diritto, ma dargli la forza di esistere. Il fondamento di questa verità,

si sa che Proudhon lo scopre, con Renouvier e Kant, nella «prerogati-

va personale», cioè nella dignità infinita della persona e nella conside-

razione dovuta ad ogni soggetto d’inerenza: meum, tuum, et suum sono

come i pronomi di questo soggetto sovrano, il diritto stando alla perso-

na come gli attributi al sostantivo o al centro d’azione monadico. È

contraddittorio a priori e scandaloso che l’uomo rinneghi i suo modi

essenziali, non abbia in se stesso la legge dei propri usi e costumi. Op-

pure, tutti gli individui trovandosi nello stesso caso, tutti legislatori

sovrani, giustizieri e semidei, ne consegue che dei soggetti distinti

compongano in realtà un’essenza unica. Ciascuno è tutti, a seconda

del caso specie e persona, collettività e individuo, popolo e cittadino,

uomo e umanità. Questo è il fondamento della relazione reciproca che

si stabilisce tra simili dissimili, similari per le loro condizioni quoddi-

tative, ma eterogenei per i loro talenti, le loro industrie e le loro fun-

zioni. La giustizia non è dunque un cosa, ma un rapporto, o meglio una

correlazione, cioè una relazione «reciproca», essa obbedisce così al

quinto assioma di Proudhon: niente è controbilanciato da niente. Que-

sto patto veramente giuridico identità divisa o solidarietà dei correla-

tivi è il fondamento stesso dell’associazione: due persone ragionevoli

formano un’unica persona che si pone come doppia e che concepisce

un bene comune, fine dei loro fini e sforzo dei loro sforzi; così Prou-

dhon afferma che un misfatto, in regime di contratto sociale, è sempre

doppio: la giustizia è bilaterale, o non esiste; ciò che esprime già la ra-

dice comune a jugum-jungo-juxta-juvo-jubeo, radice sempre legata

all’idea di congruenza, di «connessione» e di adeguamento; la gram-

matica è un sistema di coppie e di transazioni, e la sua predilezione

per le forme duali rime, parallelismi, distici, opposizioni, antonimie

- svela in essa il grande dualismo giuridico; la logica stessa, in quanto

copulativa, è la segretaria della giustizia; tutto va per pari, tutto cospira

e consente secondo la geometria esatta dell’equilibrio. In questo bilan-

cio della dignità e del rispetto del diritto e del dovere, del credito e del

VLADIMIR JANKÉLÉVITCH

debito, sia Renouvier che Proudhon non sono lontani dal riconoscere

il principio dell’alleanza perpetua. Rapporto strano quello in cui, il de-

bito essendo uguale al credito, la differenza di potenziale si riportereb-

be a zero se non ci fosse eterogeneità sostanziale tra i consociati: giac-

ché tale è, senza alcuna subordinazione, il «rapporto» perfettamente

reversibile e reciproco degli uguali; il rispetto che mi devo e il rispetto

che lui mi deve, il rispetto che io gli devo e il rispetto che egli deve a se

stesso sono termini simmetrici: ciascuno è giudicante e giudicato, a-

gente e paziente, ed il credito dell’uno è il debito dell’altro. Oppure se

si ammette che ci sono doveri verso se stesso: il rispetto che io devo

all’altro è una forma del rispetto che io mi devo, e il rispetto che l’altro

mi deve è una forma del rispetto che egli deve a se stesso, essendo il

dovere una conseguenza del diritto; ma reciprocamente il diritto deriva

dal dovere, cioè che il rispetto di sé, per me come per lui, è una forma

di rispetto per l’altro. Il rispetto che egli mi deve e quello che io devo a

me stesso, il rispetto che si deve e quello che io gli devo non dunque

che un solo ed identico rispetto. Quest’unico rispetto appare tetramor-

fo: perché lo si riconosce nel rispetto che io mi devo in virtù della mia

dignità unilaterale e che rappresenta il mio diritto (cioè il suo dovere);

nel rispetto che lui mi deve e che è il suo dovere (che è il mio diritto);

nel rispetto che egli deve a se stesso e che è il suo diritto (che è il mio

dovere); nel rispetto infine che io gli devo e che è il mio dovere (che è

il suo diritto). In definitiva, diritto e dovere coincidono, il primo essen-

do il rispetto al quale io pretendo di aver diritto e che rivendico come

tale, il secondo, il rispetto che riconosco di dovere al mio prossimo.

Non fate agli altri ciò che non vorreste che altri facciano a voi: Alteri

ne facias quod ab alio oderis fieri tibi … perché questo assioma bibli-

co ha, sotto una forma negativa, tutta l’evidenza del principio

d’identità; perché è contraddittorio infliggere ad altri ciò che non si

vorrebbe subire, essendo l’inviolabilità del mio prossimo e la mia due

casi particolari dell’unica dignità umana. Con quale eloquenza appas-

sionata Proudhon descrive questo «riconoscimento della sua propria

umanità» che l’uomo prova davanti al suo simile, e questa specie di

vergogna che anche noi proviamo davanti all’umiliazione di qualcuno,

di fronte l’offesa e la spregevole ingiustizia: il testimone dell’offesa si

sente egli stesso offeso; il testimonio dell’offesa, a meno che non in-

tervenga contro questa, si sente colpevole come se fosse lui stesso

l’offensore! L’affronto innominabile riguarda tutti gli uomini, e il sa-

Dalla giustizia all’equità

dico stesso che ne è l’autore è segretamente un masochista: il torturatore

gioca a fare la vittima, e trova una sorta di diletto nella sua posizione

ambigua di oggetto-soggetto; insieme con quello che schernisce egli

viene «dileggiato, deriso, insultato». L’offesa riguarda dunque

l’offensore stesso, non per un effetto secondario di contraccolpo o di

boomerang che la farebbe rimbalzare dall’offeso sull’offensore, ma

perché in virtù della fraternità essenziale dei carnefici e delle vittime,

l’offensore si offende letteralmente lui stesso nell’offeso; per esempio,

tenere un discorso falso per ingannare il suo simile, è come mentire a

se stesso. Fichte scrive: l’uomo non è uomo che tra gli uomini. Così

chiunque abusi del suo prossimo nega se stesso ... Contraddizione due

volte assurda! Alle bestie, dice Proudhon, l’uomo dà la caccia e tende

trappole, usa con loro violenza e perfidia; le spoglia, le sfrutta, le ven-

de e le mangia senza rimorsi, senza che esse turbino il suo cuore e la

sua ragione. Ma in ogni uomo l’uomo riconosce e rispetta la propria

dignità; e si adira contro l’indegno che accetta d’essere insultato: è che

non si tratta più qui, come nello «sproloquio panteista», di un oscuro

parentado o consanguineità vitale, ma di una vera identità di ragione e

di essenza. Così si sovrappone alla volontà primaria, che è egoista, li-

bidinosa e cannibale, il dettame ragionevole di una seconda volontà, di

una volontà giuridica; l’onestà diviene la nostra seconda natura, e

l’esitazione la più scusabile nel restituire un deposito ci appare già co-

me una vergogna che disonora l’esitante; «il godimento della ricchezza

mal acquisita non vale un quarto d’ora della mia stima». Ridistribu-

zione egualitaria dei beni incessantemente resa ineguale dall’avidità,

la giustizia impone all’uomo ritmi impersonali, anonimi e imparziali;

ci crea una sorta di automatismo senza debolezza, un’inflessibilità che

risiede tutta nel sacrificio delle predilezioni momentanee e dei privile-

gi unilaterali; ognuno diviene capace di prendere le difese del suo

prossimo contro se stesso, e se occorresse anche contro il prossimo

stesso. Diventiamo più realisti del re e più preoccupati degli interessi

dell’altro di quanto non lo sia l’altro stesso; tutto ciò, del resto, in no-

me della verità piuttosto che a vantaggio personale di qualcuno; per-

ché il vantaggio di Pietro o di Paolo, anche se non è il mio, è ancora

un’ingiusta povertà. La giustizia è così perfettamente disinteressata

che evita di accordare, anche all’altro, il minimo favore preferenziale,

il minimo privilegio ingiustificato. Il mio altruismo non serve ad ec-

cedere nel tuo egoismo.

VLADIMIR JANKÉLÉVITCH

L’uomo-arbitro, l’uomo senza «debolezze» né umane preferenze sa-

rebbe dunque di diritto un uomo quasi soprannaturale, un uomo lette-

ralmente «snaturato». Quello che Aristotele definisce, impersonalmen-

δίκαιον έμψυχον si confonde, al limite, con la statua della

giustizia. Quest’uomo di marmo non ha più passioni né ego. Ha tra-

sceso ciò che Spinoza chiamerà la conoscenza del primo genere. Nella

repubblica dei giusti ogni contraente prende l’abitudine di mettersi al

posto dell’altro, di immaginare il compagno al suo posto, di invertire e

scambiare i ruoli: non si tratta qui di una miracolosa estroversione che

permetterebbe all’amico di capire l’amato e di simpatizzare estatica-

mente con lui di identificarsi con lui facendo fondere l’ostacolo: si trat-

ta piuttosto di una perfetta reciprocità e di una prospettiva ragionevole

che per di più già tutta adattata ai molteplici punti di vista dei moltepli-

ci egocentrismi. Fare del bene a tutti, amici e nemici, non è affatto

giustizia ma carità: tali sono nel Vangelo, il paradosso dell’amore, il

miracolo della generosità e la follia del perdono. Fare del male a tutti,

amici e nemici, è pura cattiveria. Fare del male ai propri amici e del be-

ne ai propri nemici è semplicemente il chiasmo della perversità. Ma fare

del bene a propri amici e del male ai propri nemici, non è più l’effetto

della giustizia: si riconoscono piuttosto qui i riflessi diretti e assai attesi

della mercenarietà volgare e del taglione volgare, per i quali amare

l’amico e odiare il nemico, fare del bene al benefattore e del male al

malfattore, ripagare ciascuno con la propria moneta è l’ultima parola

dell’onestà commutativa e della saggezza ragionevole.

L’imperturbabile giustizia, in verità, non ama né odia nessuno, non è

né benefica né malefica. Da questo punto di vista il convezionalismo di

Cefalo nella Republica, la virtù virile del Menone e la virtù demotica e

mercantile e mercenaria del Fedone, che scambia il piacere con il pia-

cere, ignorano ancora la carta della grande giustizia astratta. E quanto a

Trasimaco, egli dichiara molto chiaramente che il capo comanda per se

stesso, e non per il suo servitore: il capo in questo somiglierebbe al bo-

varo che non cerca il bene dei suoi buoi, ma il proprio: questa caricatu-

ra di giustizia, questa giustizia unilaterale e con una gamba sola è la

vera giustizia reciproca come l’amore amato all’amore amante …

Non opponiamo e l’egoismo viziato, guasto,

«unilaterale» dell’έρώμενος? Un boaro tra i servitori e le bestie si la-

scia nutrire e lusingare. Un uomo tra gli uomini, cioè tra i suoi pari, ha

dei doveri verso di essi perché tra quelli è rispettato. Non è più solo ma

Dalla giustizia all’equità

in società. Si, una giustizia che è correlazione e reciprocità autentica e

vera equazione, una giustizia che non è claudicante, né dissimmetrica

prende, nel bisogno, le parti dei suoi nemici. La giustizia di Trasima-

co, è la città dei poliziotti, degli adulatori e dei bugiardi, quella in cui,

nel discredito generale, la frode si sostituisce alla garanzia. La giusti-

zia una volta riconosciuta ha tolto ogni ragione d’essere all’inganno.

La trasparenza della giustizia ha allontanato il fantasma della perfidia,

della diffidenza e del sospetto. Di fronte a qualsiasi insulto contro

l’uomo, l’insurrezione è dunque il più sacro dei doveri ... Quello che

la Dichiarazione dei 93 chiamerà resistenza all’oppressione, Platone

l’ammetteva già: il rifiuto è qui la disobbedienza legittima e la protesta

dell’insorto contro la giustizia del pancrazio.

VI. Tutti hanno diritti tranne me

Qualcosa pertanto ci avverte contro questo cartello della giustizia

disinteressata. Al primo egoismo Proudhon dice imprudentemente che

la giustizia sostituisce un altro egoismo simmetrico ed inverso del pri-

mo egli lo farebbe a posta perché non definirebbe diversamente la sor-

dità di un tale giustizia. Un egoismo con esponente, un egoismo secon-

dario merita il nome di giustizia? Noi abbiamo già contestato la so-

spetta simmetria del dovere e del diritto. Non è nella misura in cui il

tuo dovere è il mio diritto che io posso esigere un tale dovere: ciascuno

ha, infatti dei doveri verso di me, e l’ironia è che io non posso, sul pia-

no dei principi, avvalermene. Altrimenti detto, il vostro dovere ed il

mio diritto sono per me indipendenti, e sono solidali soltanto per il te-

stimone che dal di fuori li contempla l’uno e l’altro simultaneamente,

e dall’alto considera il loro reciproco adattamento: perché l’armonia

d’ingranaggio dei doveri e dei diritti non ha senso se non nell’ottica

speculativa o in una «scopìa» contemplazionistica. A ciascuno è per-

messo di sapere che tutti gli uomini in generale hanno una dignità, tutti,

e di conseguenza io stesso, tutti gli uomini compreso io stesso: perché

io sono, dopo tutto, uno di questi uomini; sono almeno un uomo tra gli

altri, il fatto di ricordarlo non è mancare di modestia. Ma soltanto

l’altro ha il diritto di riconoscere subito il mio diritto! Non è in effetti

nella prospettiva dello spettatore disimpegnato che il mio credito è la

conseguenza del vostro debito; vera per lo spettatore, la verità positiva

del mio merito diventa paradossalmente falsa per l’agente e in prima

persona. Siccome non si possono avere tutte le sfortune in una volta, i

VLADIMIR JANKÉLÉVITCH

diritti che risultano per me dal dovere di tutti gli uomini saranno il mio

guadagno fortuito e la mia felice fortuna; ma questa buona fortuna è un

segreto che l’attore stesso non deve sapere, pena la perdita della sua

innocenza e della sua sincerità; tuttavia, e a condizione che io non ne

sappia nulla né mi adoperi a tale scopo, non mi è proibito approfittare

di fatto di questa occasione; non mi è proibito raccogliere in fretta e

furia e «di nascosto» questo frutto accidentale, supplementare, inspe-

rato di una obbligazione che è mia come lo è di tutti gli uomini; di

modo che io sarò risarcito senza aver preteso ricompensa. Per esem-

pio, al dovere di dedizione che obbliga verso di me il mio prossimo

non corrisponde per me stesso l’esercizio di alcun diritto; al contrario

io considero che il mio prossimo, da parte sua, ha diritto alla mia dedi-

zione; io gli concedo un diritto che io rifiuto a me stesso, che non ri-

conosco come mio diritto, o quanto meno che disconosco; incompren-

sibilmente, scandalosamente e persino ingiustamente, questo diritto

che appartiene a tutti non è il mio. Così posto (ma sss! evitiamo di par-

larne e di pensarci, affinché la coscienza del nostro diritto, diventando

cortesia, non renda sospetto il nostro sentimento del dovere), qualcosa

ci resta acquisito: la dedizione degli altri lascia effettivamente intorno a

me un certo margine di libertà e come un’ampiezza d’agire che è preci-

samente il mio diritto. Guai alle coscienze impure che adocchiano i

doveri altrui! Si è dimostrato qui che il vero NOI viene fuori dal fascio

di queste solitudine laboriose, di questi fervori paralleli e completa-

mente innocenti. L’errore di Proudhon è dunque manifesto: non è in

trascendenza che il dovere preesiste al diritto, ma piuttosto è

nell’immanenza kantiana. Il proudhonismo qui giungerebbe ad affer-

mare la positività primaria, impersonale, universale e sostanziale del

diritto: il mio dovere, in questo monadismo, appare secondariamente

come la conseguenza privativa o negativa dei diritti altrui e reciproca-

mente il dovere altrui risulta dai miei diritti fondamentali; il dovere di

ciascuno sarebbe l’ombra proiettata su ciascuno dai diritti di tutti. A

ragionare così, è la sovrabbondanza ed è l’aumento dei diritti che crea-

no il caso fortuito chiamato dovere. Il dovere dunque non sarebbe senza

rapporti con lo stato di disaccordo che noi chiamiamo plurale degli as-

soluti o Assoluto plurale: in una città dilaniata dall’incomponibiltà

delle monadi, dalla concorrenza degli interessi e dallo sporadismo dei

diritti, non c’è posto per tutti; le ipseità rivali s’intralciano e si distur-

bano a vicenda e si tengono reciprocamente a bada: il dovere esprime-

Dalla giustizia all’equità

rebbe indirettamente questo disagio e questa scucitura. A credere nel

sostanzialismo semplicistico di questa filosofia del soggetto al nomina-

tivo, di questa filosofia in prima persona, il mio diritto, che è

l’archetipo di tutto il resto, costituisce il vostro dovere; il vostro diritto,

che è il secondo paradigma, costituisce il mio dovere; il dovere non è

che la dignità dell’altro che s’impone al mio rispetto: i miei doveri mi

rimandano così al ragionamento di questo principato umano che è mio

quanto vostro, perché è ecumenico. E diremo, noi, tutto il contrario:

che il dovere è positivo e primo; che la reciprocità è incompleta e che

c’è dissimmetria del debito e del credito. Il primato del dovere cessa

di essere paradossale se si rinuncia all’idea sostanzialista di un ego nu-

cleare bardato di attributi e di epiteti. Per ciò che riguarda il dovere, è

piuttosto il diritto che diviene aggettivale! Certamente, il vostro diritto

è il mio dovere, come il mio dovere è il vostro diritto. Ma il vostro do-

vere, a sua volta, non è il mio diritto che per caso, indirettamente e un

pò vergognosamente; d’altra parte i doveri degli altri non mi riguarda-

no, i doveri degli altri non sono un mio affare, e non devo occuparme-

ne; non sono incaricato di badare al posto loro all’osservanza dei loro

doveri: soli incombono i miei doveri verso di loro; tutto il resto non è

che ipocrisia! E quanto al mio stesso diritto, non è mio diritto che per i

terzi. C’è dunque reversibilità tra il mio diritto ed il tuo diritto, ma non

tra il tuo dovere ed il mio diritto. Dire: io ho dei doveri unicamente

perché il compagno ha dei diritti, è sottintendere che io non avrei alcun

dovere se egli non avesse dei diritti; ma pretendere l’inverso, dire che

l’altro ha dei diritti unicamente a causa dei miei doveri, o che io ho dei

diritti unicamente grazie ai suoi doveri, e per una fortuna miracolosa,

è pressoché scioccante: perché è da intendere che egli non avrebbe di-

ritti, l’infelice, se io non avessi doveri, o meglio che se non avesse do-

veri, a mia volta non avrei alcun diritto; fortunatamente per me (e per

lui), egli ha dei doveri (ed anche io). Abbiamo fortuna! In realtà nessuno

dei due perché non è vero unilateralmente; o ciò che è lo stesso: le due

eziologie debbono completarsi l’un l’altra: diritto e dovere sono cia-

scuno a seconda del caso causa ed effetto. Certo il mio dovere preserva

e salvaguarda di fatto i diritti delle seconde e delle terze persone; ma a

meno d’essere cosa frivola e derisoria, bisogna che i diritti dell’uomo

abbiano ancora un altro fondamento, indipendentemente dal mio do-

vere; questi diritti non sono semplici pretesti destinati a permettermi di

esercitare i miei doveri; questi diritti esistono in sé e originalmente,

VLADIMIR JANKÉLÉVITCH

perché sono inerenti la dignità della persona umana: altrimenti non

crederei un solo istante alla serietà del mio dovere verso di voi, e la

mia intenzione di portarvi soccorso non sarebbe più neanche sincera ...

il diritto altrui è lo scopo innocente, la mira intenzionale del mio dove-

re! Qualora ciò non fosse che perché di tutti i miei doveri il più essen-

ziale è il dovere di rispettare il diritto e la libertà del mio prossimo. La

sola clausola decisiva è dunque la persona della coniugazione: sono

l’Io ed il Tu che cambiano tutto ... C’è niente di più ridicolo? Dicia-

molo meglio: dovere e diritto rappresentano, quello là in fondo e que-

sto in rilievo, due facce di una stessa realtà; il mio dovere ed il tuo dirit-

to sono in realtà dati insieme, quello come forma vuota e gratuita del

mio compito, questo come materia e contenuto di questo compito. Que-

sto è in definitiva il profondo mistero, il paradosso ingiusto della vita

morale: il Me non ha, per sé, che doveri; non esiste che l’altro che ab-

bia dei diritti; o ancora: tutti hanno diritti, tranne me (che è «inesatto»).

Questa eccezione a mie spese ratifica l’eccezione inversa al mio profit-

to che mi designa irrazionalmente, io l’unico, come il portatore privi-

legiato dell’obbligazione. La nobiltà impone! La scandalosa ingiusti-

zia che mi lede trova la sua compensazione nell’insigne onore che mi

viene concesso. Tutti hanno diritti tranne me, ma beninteso il filosofo

sa che anch’io ho diritto al rispetto, che sono, come tutti gli altri, fine

in sé. Pertanto dall’amore dell’altro per me io non posso concludere

per conseguenza alla legittimità del mio amor proprio; l’amor-di-sé

non si deduce come un caso particolare dall’amore generale che tutti

devono portarsi gli uni agli altri. E viceversa io sono il solo che abbia

dei doveri: ma come ciascuno altro, essendo Te per me, è un Io per se

stesso, questo privilegio del dovere è letteralmente ecumenico … La

contraddizione non è che più paradossale tra la verità del logos e lo

scandalo del sacrificio. La verità è consigliera di modestia: secondo lei

io non conto che per uno, ma conto lo stesso per uno; e se non sono

tutto sono almeno l’uno degli «altri» e una persona come ciascuna

persona, La carità protesta contro la ragionevole modestia, come essa

protesta contro l’ipertrofia autistica: io non sono un ego unico al mon-

do, ma non sono nemmeno «un altro» come gli altri, un autre entre les

autres, un altro anonimo tra altri, cittadino, abbonato, o contribuente:

sono, se non per i miei diritti, almeno per i miei doveri, centro prospet-

tico dell’universo e debitore di un debito inestinguibile; il Te ed il Me

non sono né due casi particolari di una stessa coniugazione né due ca-

Dalla giustizia all’equità

tegorie astratte, ma due ordini eterogenei, due persone e due mondi: la

prima persona (l’io, il me) ha tutti gli oneri e la seconda persona tutti i

diritti; certo, nell’ottica del logos la prima è essa stessa seconda per la

seconda se mi identifico con il tuo punto di vista, la seconda divenendo

la prima; e la prima è terza per tutte le altre persone se, per un acco-

modamento che è «terziarizzazione» impersonale, sostituisco all’ottica

unilaterale una sinossi omnilaterale e ai punti di vista parziali una vista

imparziale: perché il Me non è in sé, ma soltanto per sé, né il te in sé

ma soltanto per me … Ma questo è un segreto che il me deve ignorare

sotto pena di fariseismo: o più esattamente, conosce l’egoità del te, non

come obbligato a sua volta e tenuto a tutte le dedizioni, ma come sof-

ferente e degno di ogni sacrificio. Questa egoità che non è mia e che

ha una metà soltanto di dignità personale i diritti senza i doveri, è

giustamente quello che io chiamo il Tu ed il Te. Un Te ed un Me senza

doveri. Un Me è un Te senza diritti. Di modo che la dignità

dell’individuo si ripartisce su due teste: tutto l’onore da una parte, tutti

gli oneri dall’altra; a te i diritti, a me gli oneri, le prove; è nella meta-

empiria che si ricompone l’ipseità totale, che le due innocenze com-

plementari e impermeabili dell’amante e dell’amato si fondono una

nell’altra; è nella città ideale dei giusti e dei puri spiriti che la coscien-

za del diritto-proprio e il sentimento del dovere-proprio sono in ragio-

ne diretta l’uno dell’altra, e non ragione inversa, allora la coscienza

del diritto esalterà il sentimento del dovere anziché obnubilarlo. Allo

stesso modo: il rispetto-di-sé non è un caso particolare del rispetto

dell’altro, né il rispetto dell’altro non è un caso particolare del rispet-

to-di-sé; bensì questi due «rispetti» sono assolutamente l’uno eteroge-

neo all’altro. Il Me che si riconosce come il te d’un altro me, subito

s’impietosisce, si mette in posa e fa l’interessante; cioè diventa l’altro-

di-se-stesso per sdoppaiamento o cosciente destinazione: il compiaci-

mento ha pervertito in lui l’innocenza dell’intenzione amante; questo

me alienato in sé lascia sfuggire il suo te, il suo amato, la sua alterità

amica, e monologa tristemente nel dialogo fittizio dell’amor-sui. Così

respingiamo una giustizia dell’uguale che sarebbe intermediaria tra il

più dell’egoismo e il meno dell’umiltà: la vera giustizia aperta reagi-

sce contro il πλεον della pleonessia e della pleonusia, ma non reagisce

contro la vuota carità; non ha orrore di questo vuoto; e diremo ancora

che essa sta al logos come l’umiltà sta alla modestia o come la mendi-

cità sta alla povertà. La modestia richiede la verità, ma lei non vuole

VLADIMIR JANKÉLÉVITCH

altro che la verità, lei non mi vuole né superiore né inferiore al mio si-

mile, e nemmeno più umile di quanto non sia necessario; essa tiene in

serbo i nostri diritti e fa la sua parte, la sua ragionevole parte,

all’egoismo, giacché non c’è «ragione» di negarsi iperbolicamente

quando si ha la propria dignità di uomo: questa dignità (decus) non è

forse il minimo rispettabile in ognuno di noi? Io non mi preferisco a

nessuno, ma non preferisco nessuno. Ora la giustizia-carità, essa, e-

stende il me fino al limite metempirico dell’essere e del non-essere,

limite che, oltre ogni minimo, contraddice l’esistenza stessa

dell’agente: poiché vivere per l’altro e morire per l’altro

(υπεραποθνήσχκειν) coincidono in questa fine estrema punte

dell’anima, in questo presque-rien acuto che è una morte d’amore; la

giustizia-carità annichilisce assurdamente l’essere del me a forza di

svilirlo. Una giustizia tangente all’assoluto non si distingue più dal

sacrificio! È facile comprendere perché questo squilibrio a mio danno,

perché questa ingiusta eccezione di cui mi rendo vittima volontaria,

sono la condizione stessa del vivo rapporto del me al te. La logica del

logos dice: Tutti, io incluso; e la mancanza di ragione dell’amore: tut-

ti, eccetto me. Se ho della mia dignità una coscienza un pò troppo

compiacente, il rispetto che mi è dovuto non mi dispenserà dal rispetto

che io devo? Come prevenire nell’insolente e nel presuntuoso questa

riserva mentale che limita in anticipo la portata dell’omaggio reso al

prossimo? Se c’è debito e credito e se le due somme sono uguali, la re-

lazione si annullerà ed i compagni saranno tenuti lontano dalla «stanza

di compensazione» del logos, da questa specie di clearing-house razio-

nale che, facendo il bilancio dell’attivo e del passivo, rappresenta un

punto di vista sovra-personale al di sopra delle persone. Ora, non è il

risultato finale che importa, come in una somma algebrica di grandezze

positive e negative, ma è l’intenzione e lo sforzo di ciascuno rispetti-

vamente. Non c’è né contabilità né quantum materiale; ma c’è un ob-

bligo inesauribile che ognuno prova da parte sua e quanto a sé perso-

nalmente, come se fosse il solo obbligato, il solo infinitamente debito-

re, ed inferiore a tutti gli altri. Il vostro rispetto ed il mio si raddoppia-

no, si rinfiammano e si confermano l’un l’altro attraverso una legge di

valanga invece di immobilizzarsi reciprocamente come due forze u-

guali e contrarie: perché questi rispetti sono indipendenti l’uno

dall’altro ed eterogenei l’uno all’altro; e si uniscono l’uno all’altro

quando dovrebbero sottrarsi l’uno all’altro. Tutta la reciprocità amoro-

Dalla giustizia all’equità

sa consiste in questo regime paradossale del raddoppiamento: la «frene-

sia» dell’asta o del rilancio al quale il crescendo dell’amore obbedisce

sembra sfidare l’usuale aritmetica. L’innocente riceve l’amore che il

suo prossimo gli porta non come una cosa dovuta o meritata che lo di-

spenserebbe dalla reciprocità, ma come una grazia inattesa che inaridi-

sce il suo amore. In questo modo l’amore che è letteralmente l’aldilà

della verità, risolve in atto ed all’infinito molti dibattiti insoluti:

l’amore mette fine alla questione dell’ipseità contraddittorie, tutte vi-

tali e complete, tutte quodditativamente uguali e quidditativamente di-

suguali, che si fanno concorrenza le une alle altre, - perché ogni mo-

nade, come un «imperituri in imperio» basta a se stessa, a meno che

delle concessioni reciproche non creino tra le monadi l’equilibrio della

serena astensione stanca; l’amore risolve così il discorso delle due pro-

spettive contraddittorie: quella oggettiva, del terzo che attribuisce pari

dignità a tutti gli uomini, e quella del soggetto per sé, che ignora i pro-

pri diritti non attribuendosi altri privilegi che quelli della sofferenza e

del dovere. Plenitudini piene di se stesse si respingono: ma il vuoto

dell’errore innocente e benevolo rimette in marcia la circolazione

dell’amore; l’amore ricuce lo scucito e ciò che è sporadico delle ipesi-

tà, concilia il mistero monodico, inspiegabile tanto nel rapporto dal me

al te quanto nella generazione, riconcilia con lui stesso il dissidio

dell’Assoluto plurale. Così l’amore sistema tutto. Si comprende me-

glio ora perché l’umiltà mobilita e rimette in marcia i rapporti sociali.

Ci sono ipseità, ma non ci sono «diritti» rivendicabili, e ogni pretesa,

nella giustizia aperta, è ingiusta ... (Molto) Ancora meglio: tutta la mia

dignità è forse quella di ignorare il mio diritto, e giustamente di non

reclamare il rispetto dell’altro come un diritto. I miei diritti mi spetta-

no che vuol dire: il mio attivo è un passivo e i miei poteri sono degli

oneri. La nobiltà obbliga ed impegna. L’uomo creatura mista subisce

fin nella sua dignità morale il riflusso dell’alternativa, l’uomo ha i do-

veri dei suoi diritti: il fatto d’avere un diritto gli crea l’obbligo di eser-

citarlo e di mostrarsene degno e di essere all’altezza del suo proprio po-

tere; ma egli non ha i diritti dei suoi doveri, il dovere non dando diritto a

niente. La sua dignità impone all’uomo una responsabilità e gli crea

dei doveri. L’ipseità, immanente e trascendente insieme al soggetto

stesso, non è dunque soltanto ciò che io sono, ma ciò che ho; la mia

essenza morale più intima somiglia ad una specie di tesoro prezioso

che mi sarebbe affidato: questo avere che io sono, questo essere che io

VLADIMIR JANKÉLÉVITCH

ho riesuma tutto il mistero inesplicabile della mia responsabilità.

L’ipseità è un fardello, il fardello del destino umano nella mia persona

... Come questo indisponibile, questo indomabile ipse non ingannereb-

be l’egoismo sostanziale e statico? Come non lo spingerebbe invite-

rebbe all’oblio di sé ed all’innocenza?