La giustizia del sangue

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IL SEGUITO DI "IL VELENO DEL CUORE" 1793. Una lettera disperata giunge dalla Francia, dove la Rivoluzione impazza. Intercettata da Venanzio, ora duca Rues de Martin, scatta il piano per salvare un innocente dall’inferno del Terrore. Eufrasia e Venanzio tramano nel buio, feroci e decisi a riscattare se stessi e il sangue offeso, irriducibili sfidano Dio, si confondono con le ombre di un tempo spietato e rischiano la vita al fianco di foschi personaggi in un mondo senza più regole, la giustizia a ergersi distruttiva con la libertà che scioglie cani randagi. Nella cupa atmosfera di una Parigi allo sbando, nell’aria fetida di una locanda malfamata, davanti alla ghigliottina, mentre Maria Antonietta guarda il popolo assetato di sangue, l’amore muove i due amanti e dal fango risorge con un inganno perfetto, con un gioco delle parti che trascinerà nella loro vita chi era destinato alla morte.

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Servizi Culturali è un'associazione di scrittori e lettori nata per diffondere il piacere della lettura, in particolare la narrativa italiana emergente ed esordiente. L'associazione, oltre a pubblicare le opere scritte dai propri soci autori, ha dato il via a numerosissime iniziative mirate al raggiungimento del proprio scopo sociale, cioè la diffusione del piacere per la lettura.

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DESCRIZIONE:

IL SEGUITO DI "IL VELENO DEL CUORE"

1793. Una lettera disperata giunge dalla Francia, dove la Rivoluzione impazza. Intercettata daVenanzio, ora duca Rues de Martin, scatta il piano per salvare un innocente dall’inferno delTerrore. Eufrasia e Venanzio tramano nel buio, feroci e decisi a riscattare se stessi e il sangueoffeso, irriducibili sfidano Dio, si confondono con le ombre di un tempo spietato e rischianola vita al fianco di foschi personaggi in un mondo senza più regole, la giustizia a ergersidistruttiva con la libertà che scioglie cani randagi. Nella cupa atmosfera di una Parigi allosbando, nell’aria fetida di una locanda malfamata, davanti alla ghigliottina, mentre MariaAntonietta guarda il popolo assetato di sangue, l’amore muove i due amanti e dal fangorisorge con un inganno perfetto, con un gioco delle parti che trascinerà nella loro vita chi eradestinato alla morte.

L'AUTORE:

Vincitrice del concorso Il Club dei Lettori 2008/2009 con ‘Il veleno del cuore’, Barbara Risolisi ripropone ai lettori con il seguito dello stesso, “LA GIUSTIZIA DEL SANGUE”, romanzostorico posto questa volta sul confine del sentimentale e dell’ucronia. Torna la passionedell’autrice per il periodo rivoluzionario francese, nonché il suo modo di vedere le coseuscendo dagli schemi prestabiliti. Barbara Risoli ha scritto anche:La grazia del Fato - 2009 - 0111 EdizioniL'errore di Cronos - 2008 - Runde Taarn EdizioniLa stirpe - 2008 - Runde Taarn Edizioni

Titolo: La giustizia delsangue Autore: Barbara Risoli

Editore: 0111edizioni Collana: Rosso CuorePagine: 214 Prezzo: 15,00 euro12,75 euro su www.ilclubdeilettori.com

Leggi questo libro e poi...- Scambialo gratuitamente con un altro [leggi qui] - Votalo al concorso "Il Club dei Lettori" e partecipa all'estrazione di unPC Netbook [leggi qui] - Gioca con l'autore e con il membri della Banda del BookO (che silegge BUCO): rapisci un personaggio dal libro e chiedi un riscatto perliberarlo [leggi qui]

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E' la nostra web tv, tutta dedicata ai libri. Se hai il video della tua presentazione, oppure un videotrailer del tuo libro, prima pubblicali su YouTube, poi comunicaci i link. Dopo aver valutato il materiale, lo inseriremo nel canale On-Demand di TeleNarro.

Se hai in programma una presentazione del tuo libro nel Nord Italia e non hai la possibilità di girare il filmato, sappi che c'è la possibilità di accordarsi con Mario Magro per un suo intervento destinato allo scopo. Contatta Mario e accordati con lui.

PARLANDO DI LIBRI A CASA DI

PAOLO ogni mercoledì alle 21 in diretta su TeleNarro

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La trasmissione di Paolo Federici dedicata ai libri. Ogni mercoledì alle 21 in diretta su TeleNarro. E' possibile vedere le puntate già mandate in onda sul canale On-Demand

BOOKINO il CONTASTORIE

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"Bookino il Contastorie" ti racconta un libro in una manciata di minuti. Poi, potrai proseguire la lettura online, su EasyReader.

E se il libro ti piace, potrai richiederne una copia in omaggio con l'iniziativa Adottaunlibro. Clicca su Bookino...

IL CASSETTO DEI SOGNI

(prima trasmissione prevista a FEBBRAIO 2010)

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A differenza di "Parlando di libri a casa di Paolo", questa trasmissione, condotta da Mario Magro e sponsorizzata dalla nostra associazione, tratterà solo libri della 0111edizioni. Anche in questo caso, i libri presentati sono scelti dal conduttore, che li seleziona fra una rosa di titoli proposti dalla casa editrice.

E' però possibile richiedere una puntata dedicata a un libro specifico, non compreso nell'elenco di quelli selezionati, accordandosi direttamente con il conduttore, Mario Magro.

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Con EasyReader puoi dare un'occhiata ai nostri libri prima di acquistarli. Sono disponibili online in corpose anticipazioni (circa il 30% dell'intero volume), che ti consentiranno di scegliere solo i libri che preferisci, evitando di acquistare "a scatola chiusa".

In più, con l'iniziativa Adottaunlibro, puoi richiedere in regalo il libro che sceglierai.

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In questo gioco a premi avvengono rapitimenti un po' anomali: le vittime sono personaggi di romanzi, che verranno poi "nascosti" in altri romanzi a discrezione dei rapitori e per la liberazione dei quali è richiesto un riscatto all'autore. Qui entra in gioco la "Squadra di Pulizia", che tenterà di liberare il personaggio per evitare all'autore il pagamento del riscatto. In questa fase sono anche previsti tentativi di corruzione da parte dei Puliziotti nei confronti dei rapitori... ma non è il caso di spiegare qui tutto il funzionamento del gioco... per il regolamento è meglio fare affidamento all'APPOSITA PAGINA. E' possibile giocare e andare in finale nei ruoli di RAPITORE, VITTIMA, PULIZIOTTO, GIUDICE e PENTITO.

In palio c'è un premio per ognuna delle 4 categorie. Il premio, di cui inizialmente viene specificato solo il valore massimo, viene scelto dai rispettivi vincitori dopo il sorteggio.

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Barbara Risoli

LA GIUSTIZIA DEL SANGUE

il seguito de IL VELENO DEL CUORE

www.0111edizioni.com

Collana Rosso Cuore

www.collanarossocuore.blogspot.com

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Collana Rosso Cuore

www.collanarossocuore.blogspot.com Diretta da Samanta Catastini e Cristina Contilli

LA GIUSTIZIA DEL SANGUE 2009 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2010 Barbara Risoli ISBN 978-88-6307-260-0

Copertina di Lorenzo Moneta

Finito di stampare nel mese di Marzo 2010 da Digital Print

Segrate - Milano

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Mi piacerebbe fosse accaduto

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INTRODUZIONE Leggere un romanzo scritto da Barbara Risoli è come avventurarsi in u n territorio inesplorato: una continua, sorprendente scoperta. E, come degli esploratori, bisogna procedere con prudenza. Stare in guardia. Osservar e in silenzio. E lasciarsi sorprendere. Lei è un’autrice di razza. Eufrasia e Venanzio rimangono den tro il lettore: non sono il c lassico bandito redento e la donzella in pericolo. Scordatevi questi stereotipi. Se è quello che cercate, questo libro non fa per voi. Sono due assassini. Ma anche due esseri umani. Nella loro concretezza spietata, nell a coerenza d ella loro condotta, essi sono veri. Reali. Non hanno un codice morale e non ne vogliono. Non sono ipocriti: si sono co -nosciuti e amati come anime affini. Questo, che e ra il dato sali ente del Veleno del cuore, primo volume della Risoli, è un tratto più sfumato in qu esto, tuttavia i protagonisti non perdo-no di mordente, anzi: diventano ancora più incisivi. Feroci. Eufrasia, in particolar modo, è una donn a che colpisce al cuore per la su a durezza e insieme per l a f ragilità che cerca di nasco ndere in ogni modo. Mentre nel p rimo volume di questa sag a la figura d ominante era proprio l’assassino prezzolato, Venanzio Sauvage, in questo è la Vedova, Zoraide, la bugiarda spudorata. Inoltre, in questo magnifico libro, le vicende di Eufrasia e Venanzio si in-tersecano con la Storia, quelle “ver a” e ciò accade in modo naturale, non forzato. Ogni personaggio ha il suo posto in questa vicenda, da Xavier alla piccola Genevieve, che impara fin troppo presto l’orrore della vita. È indiscutibile che l’Autrice abbia un linguaggi o ricco di sfumature, per nulla scontato, tanto da risultare co mplesso, così co me è fuori d alla di-scussione che i suoi personaggi siano negativi. Ma è un lim ite questo? A mio parere, n o. È un pregi o raro, in un panora-ma editoriale che premia lessico povero e personaggi insulsi. Perché il suo stile, come le sue storie, è unico. Impeccabile. Le frasi spezzate, l’ aggettivazione ricca rappresentano il tratto salient e dello stile della Risoli, sontuoso come un mosaico bizantino. Il suo è uno stile ricercato: non è roba per palati sem plici, in una parola. Perché questo libro, come il precedente , richiede una lettura consapevole,

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attenta che al la fine rico mpensa il le ttore con emozioni profonde e auten-tica passione. Perché i suoi sono libri da ricordare. E da amare. La grande bravura dell’ Autrice risied e in questo: nel trascinare il lettore nella storia e trasfor marlo in osservatore privilegiato. Portarlo per mano per le sale polverose della villa di Nanterre, sul ponte di una nave spazzato dal vento, tra i vicoli fangosi di una Parigi insanguinata, cupa e pericolosa, la terza, vera protagonista di questa storia coinvolgente e terribile.

Stefania Auci

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PROLOGO 4 giugno 1790 – Fort Royale – Martinica Comparve sulla porta della Chiesa con l’abito bianco ad avvolgere ancora il suo fascino. Era la prima volta che si m ostrava all a gente del l uogo, i fiati sospesi dalla fi erezza dei suoi passi che la portavano davant i all’altare. Senza voltarsi, Venanzio ne ascoltò il giungere frusciante. La scorse poi accanto a sé con la coda de ll’occhio. Aleggiò una tensione che solo lei sapeva creare. Xavier, tra gli invitati, non l e toglieva gli occhi d i dosso, il passato a turbarlo. Per lei aveva voluto il m eglio. Ufficialmente Zoraide Bois non era sua figlia, ma aveva voluto che il matrimonio di una comune donna del popolo francese scam pata alla Rivoluzione fosse il più sontuoso m ai visto nell’isola. Gli in vitati erano nobili del l uogo, scono -sciuti che no n sapevano n ulla di lei pur conoscendo il conte, con il quale avevano stretto salde amicizie e valide collaborazioni. Xavier rammentò la mattina nuvolosa di pochi anni addietro, la falcata decisa di Eufrasia, la sua determinazione, il suo sprezzo per le regole. Non era cam biata, nuo-vamente percorse da sola la navata e s’inginocchiò, stringendo il colorato mazzo di fiori voluto da Lisette. L’uomo si soffermò sulle sue mani, celate da bianchi guanti che nascondevano le unghie lunghe, le stesse che aveva-no fatto la differenza nella scopert a del cadavere martoriato di un’innocente morta al suo posto. Aveva perdonato, o meglio… aveva di-menticato, mantenendo la promessa fatta a Dio e Di o gli aveva r estituito la figlia accom pagnata da un uomo ne fasto, spoglia ta della sua nobiltà. Eufrasia era bellissima da offuscare la ragione, la sua forza interiore sape-va piegare, spezzare. Venanzio era l’unico capace d i tenerle test a, l’unico a somigliarle. Eufrasia des Fleuves non era morta, si m ascherava e stava diventando la duchessa Rues de Martin, un casato che il padre aveva in-ventato pagandolo per renderlo vero. Il prete parlò. Venanzio non si mosse. Eufrasia fissò il vuoto davan ti a sé. Continuava a sentire gli o cchi del cont e sulla schiena, ebbe il su o stesso senso di già vissuto. Rammentò la mattina del propr io primo matrimonio saltato, l’aria umida, la rabbia, la sfida al mondo, poi un bandito altezzoso a ridere di lei, a strapparle dall’ anima l’ultimo brandello di onestà con scelte a ssurde. Aveva ucciso a llora, non aveva vibrato il colpo sull’innocente che doveva sembrare lei, ma aveva ucciso.

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Il prete pronunciava frasi in latino volgendo lo sguar do ai presenti che si emozionavano, inconsapevoli d’ essere ospiti di una banda di nobili men-daci. Il prete officiava e Venanzio fissava di tant o in tanto i ricami della stola d’oro, sapeva riconoscere l’oro dal suo scintillio. I paramenti sacri, la coppa del vi no, l ’abside erano d’or o e d’argento, roba fine, pr eziosa. Rammentò la mattina in c ui la sua vita era cambiata. Non era accaduto la sera in cui aveva visto un angelo al proprio fianco in una locanda malfa-mata, la sua vita era cambiata quella mattina, quando aveva udito il pret e di allora pr onunciare il nome di Eufrasia des Fleuves, contessa di Saint-Malo. Una sferzata invisibile del destino lo aveva messo all’erta e lo stra-no sollievo per il rifiuto della ragazza gli aveva dato un senso di scampato pericolo. Era riuscito a di vertirsi. L’ aveva osserv ata uscire fi era. Si er a scostato veloce al suo passaggio. Po i l’aveva seguita segnando la propria sorte. Ognuno di lo ro ricordò, anche Lisette, che a quella donna misteriosa do-veva tutto, il titolo che portava senza avere neppure un cognom e, la ric-chezza, il rispetto, il prestigio. Aveva diciassette anni e Xavier superava la cinquantina, ma la dolcezza che le riservava non av eva età. Lisette lo os-servò con gli occhi lucidi, lui le sorrise teso con il timore che tutto potesse ricominciare. Il sac erdote pose la do manda di rito a Venanzio ch e final mente alzò gli occhi neri. Lo fissò ferm o, facendolo sussultare come se fosse il dem onio in persona. Fece volutam ente scintillare l’abisso scuro dello sguardo, sor-rise malefico inducendo il prelato a distogliere l’attenzione da lui. Era ele-gante, i bott oni di diam ante della giacca brillavano alla luce dei ceri; era ricco e aristo cratico, ma i l suo portamento, il suo atteggiamento erano quelli di un uomo distante da certe etichette, neppure la prestanza fisica lo salvava, era co me se qualcun altro si c elasse sotto una mascher a. Il sale disperso tra i capelli neri pareva argento. - Sì – rispos e. Gli sem brò d’ essere Aldo, quel povero illuso che avev a creduto di domare Eufrasia e che ora marciva in q ualche strada di Parigi in fermento o forse era morto nell’incapacità di esistere. Lui invece sapeva sopravvivere, riusciva dove chiunque fa lliva, dal nulla era risorto con for-za e astuzia: niente a che vedere con l’inettitudine di quel lontano ricordo, niente a che vedere con un volto attonito e incredulo. Il prete si rivolse a Eufrasi a che a sua v olta lo guardò. Era pallida, in con-trapposizione con l’u omo che stava sposando, eppure così simile a lui da renderla il suo opp osto femminile, un esem pio raro d’affinità ch e al reli-gioso non sfuggì, pur con dei risvolti che lo inquietavano.

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Formulò ancora la domanda di rito. Il gelo dilagò, proveniva dal conte co-stretto al silenzio, vittim a di eventi che non era riuscito a governare co me avrebbe voluto. Lui l’aveva voluta sposa sontuosa, imponendolo a Venan-zio. Non a veva incont rato reti cenza nel futuro genero, a mante dell’esagerazione come una gazza l adra davanti allo scintillio di un vetri-no, deciso a prendere tutto dalla vita , niente escluso, determinato a riscat -tare un passato vissuto nel fango. Lei attese, lo fece con inutile sadism o. Diede un’occhiata a Venanzi o che in attesa non la guardò. Colse un suo sorriso, ma non ne fu certa, i n realtà era fermo, pronto a scattare, a difendersi. Lo conosceva. Il cuore di Xavie r si fermò. Poi la sposa osservò il prete e annuì con il capo velato. - Sì – rispose. Il gelo alle spalle divenne fuoco. Venanzio finalmente volse l’attenzione a lei. Il profilo perfetto, malcelato dal velo bianco, gli tolse il fiato. Non aveva voluto ammirare la sua regalità e ora incontrava quegli occhi profondi, l’ espressione altera, come se tutto a vvenisse per dispetto. Prese l’anello sul cuscino di seta, le sf ilò il guanto se nza che lei re agisse, la guardò in faccia nonostante il tulle, mentre le infilava la catena del loro ingiusto amore. Eufrasia faticò a far en trare l’anello nel dito segnat o dalla vita del suo sposo. Venanzio ascoltò il prete che li dichiarava marito e moglie. Era distratto, quasi disinteressato. Erano sposati da se mpre loro, da prima di conoscersi. - Proprio non sai rinunciare al velo sul viso, Zoraide - le sussurrò in u n abbraccio romantico davanti ai presenti ansiosi. - Avete voglia di scherz are anche ade sso, Stolfo? – ribattè con un filo di voce. Era gravoso per entrambi rinunciare ai propri nomi. - I tuoi matrimoni sono sempre divertenti – la strinse a sé sgraziato, senza distogliere gli occhi dai suoi. - Non siate amaro, non oggi – si ribellò a un centimetro dalla sua bocca. - Stai sposando un figl io di nessuno c he sta facendo di te una duchessa, non lo trovi divertente? – era serio. - Non è la prima volta – gli ricordò. En trambi corsero alla notte sulla nave al largo di Saint-Malo, davanti al capitano della Bell e, pronti a farsi am-mazzare, perduti e decisi a non divi dersi. Poi tutto e ra andato esattamente al contrario. Ora er ano lì, a Fort Roy ale, davanti a un prete, consapevoli d’essere due reietti impenitenti, incapaci di provare rimorso, pronti a tutto, a re stare, a scappare, pe zzi coincidenti del gioco assurdo del destino. Si baciarono, gli ospiti sospirarono, più di tutti Xavier che si chiese quale senso avesse l’inganno nell’inganno che aveva accettato di portare avanti. La si mpatia per Venanzio lo avev a of fuscato, oppure aveva capito sin dall’inizio che era stata la sua sa lvezza? Osservò la figlia, scorse il suo

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volto riv olgersi ai presenti, mentre scendeva per abbandona re l’altare al braccio del marito. La vide felice. Era fe lice. Questo aveva voluto per lei. Era la sua unica figlia, Dio gliel ’aveva restituita con le mani insanguinate in cambio delle lacrime versate e di un’anima adesso screziata di colpa.

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CAPITOLO I Francia – Anni dal 1789 a1 1793 In Francia tut to stava precipitando, il malcontento era stato acuito dal fal-limento degli Stati Generali, la borghesia acquistava un potere sempre più ampio, l’ aristocrazia e il c lero erano all’ angolo, i sovrani stessi in balia degli eventi, incapaci di ri bellarsi o di disporre il da farsi per salvare il vecchio regime e dare una cal mata ai sovversivi. C hi li sosteneva aveva quell’atteggiamento tipico di chi tiene il piede in due staffe, l a situazione si reggeva sul filo del rasoio che aveva iniziato a tagliare teste. I più capa-ci e intelligen ti avevano abbandonato il Paese per tempo, i più co raggiosi erano rimasti, i più perspicaci se ne st avano andando veloci. La nobiltà di sangue, ormai una colpa e motivo di controllo attent o, aveva i gi orni con-tati, questione di ore e il p opolo avrebbe sostenuto i detrattori del re . Il re era un pupazzo incredulo, fir mava qualsiasi cosa, n on obiettava, non si lamentava, di tanto in tant o emanava qualche legge dettata da co nsiglieri scaltri, alle strette come tu tto il resto. L a Francia er a una polveriera ch e stava offuscando l ’aria anche dei terri tori oltreoceano, accesi a l oro volta dalla recente rivoluzione americ ana che aveva sancito l’ indipendenza dell’America dall’Inghilte rra. Si potev a tranquillamente affermare che il mondo conosciuto di quegli anni era una palude torbida e certi personaggi, nel torbido, avevano deciso di pescar e meglio. Tutto si stava ribaltando, ciò che un te mpo era importante scemava e ciò che sino al giorno prima era irrilevante assumeva il prestigio e la dignità della grandezza. Il tentati-vo di fuga di Luigi XVI e la conseguente prigionia dell’intera famiglia re-ale aveva s ancito la caduta libera di una situazione ormai incontrollabile. In questo stagno purulento qualcuno ci guadagnava , tra essi Venanzio Sauvage, nuovo e d ichiarato duca St olfo Rues de M artin che nel giugno 1790 aveva potuto dare alla sua spo sa anche il titol o di duchessa, contro ogni aspettativa del passato. Doveva a Xavier quello che era divenuto, alla sua ricchezza e alla capacità di ottene re ciò di cui av eva bisogno. Quanto la parola non aveva ottenuto dalle au torità del posto, lo avevano fatto i soldi che aveva versato. L a somma più congrua era stata quella per il tito-lo: il re aveva firm ato la richiesta pochi mesi dopo il loro arrivo i n Marti-nica. Dopo tre anni erano diventati i proprietari terrieri più in vista: il con-te des Fleuves possedeva una nave da diporto per l’ esportazione del rhum

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prodotto dal duca Rues de Martin e del cacao delle piantagioni che appar-tenevano a entram be le famiglie. Il du ca vantava un’ altra nave che coa -diuvava la prima nelle esportazioni. Tuttavia, era ormai aprile, non giu ngevano velieri d alla madre p atria da dicembre. L’ ultimo marinaio che Xavier aveva avuto modo di ascoltar e alla Locanda del Porto aveva acc ennato a una voce n on confermata di un processo al re, ma non era riuscito a saperne di pi ù, anche perché l’uomo non era molto interessato alle sorti del Regno, pensava solo ad andare a donne e a bere. Non aveva insistito, certo di poter avere altre notizie entro un m ese o due, ma tutto era rimasto fermo e l’ansia di veder gi ungere all’orizzonte qualche imbarcazione stava diventando quasi un cattivo pre-sentimento per lui che, pu rtroppo, aveva sempre avuto una certa perspica-cia, ai limiti della veggenza 10 maggio 1793 – Fort Royale – Martinica Il rumore degli stivali sul pavi mento di marmo del corridoio distrasse Xa-vier. Alzò lo sguardo dal registro delle merci in partenza per l’Europa che avrebbero do vuto gi ungere a destinaz ione, salvo contrattem pi, nella se-conda metà di giugno. Il capitano dell’ Etrangé aveva appena dato le pro-prie dimissioni per motivi di salute e quello della Belle risultava introvabi-le da giorni. Era contrariato: la mancata consegna di un carico avrebbe comportato la perdita dei g uadagni, inaccettabile dopo tanto lavor o e spe-se. La raccolt a del cacao e della canna da zucchero era stata difficoltosa per alcune rivolte insorte tra gli schiavi, sedate con concessioni obbligate come l’innalzamento dei salari e altre i nezie che ave vano placato gli ani-mi. Questo costava, era la legge economica cui ave va sempre creduto, ca-pace anche di com plicare la gestione di un patrim onio. Non era un pro-blema trovare acquirenti, lo era mantenere le scadenze. Quei due sciocchi giovani lo avevano messo in difficoltà, trovare altri due fidati comandanti sarebbe stata un’impresa. L’imbottigliamento del rhum da parte della fab-brica del duc a era quasi term inato, lui p roblemi con gli schiavi n on ne a-veva mai, riusciva sempre a reperirne di nuovi da sostituire ai rib elli. A-veva continuato a essere segretamente un bandito dedito alla tratta clande-stina di uomini dall’altra parte dell’isola. Tuttavia, il conte sapeva che so-lo Venanzio Sauvage avrebbe potut o risolvere la questione del comando delle navi. Si chiese cosa avrebbe ch iesto in cam bio, un’ altra a bitudine che l’uomo non aveva perso.

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Uscì dalla stanza. Scorse la figura alta e snella di Eufrasia, la sua ombra si stagliava contro la vetrata illum inata d al tram onto caraibico, la brezza proveniente dalla porta d’ingresso lasciata aperta muoveva i lunghi capelli corvini sciolti. Vestita da uomo, con i pantaloni neri e la cam icia bianca, lo irritò: non sopportava quell’abitudine, come non aveva sopport ato mol-te cose in passato e per le quali si erano letteral mente scannati. Vestirs i come un uo mo per essere più com oda nelle sue vis ite alle piantagioni o, peggio ancora, nelle sue sortite nelle campagne per esercitarsi con la pi-stola era dav vero inaccett abile. Non poteva dire nulla, non era più nella posizione per potersi im porre, gli sembrava di essere nelle sue mani, nes-suno sull’isola sospettava la loro parentela, nessuno poteva sapere che Zo-raide Rues de Martin era in realtà Eufrasia des Fleuves, nobile di sangue, contessa di Saint-Malo. L’irritazione per quell’ abbigliamento scan daloso scemò, quando vide tra le sue braccia Lisette priva di sensi, la testa bionda appoggiata sulla spalla della figlia, il pallore visibile anche a distanza, il braccio sinistro ciondoloni come fosse morta. Un colpo lo centrò al cuore. Raggiunse le due donne p rendendo in consegna la moglie, senza che Eu-frasia gli i mpedisse di farl o. Temette di sentirla fredda, invece ne percepì il calore anche troppo elevato. - Cosa è successo? – chiese con una cal ma fuori luogo, incapace d i dimo-strarsi alterato davanti a lei che s cosse il capo e st ese le bra ccia: Lisett e era una piuma, ma la figlia era pur sempre una donna, neppure tanto forte, esile nella magrezza che i Caraibi le avevano regalato. - E’ svenuta, all’im provviso, mentre sparava a un bersaglio lon tano – spiegò. - Sparava a un bersaglio – sottolineò lui, ma non aggiunse altro, sapeva della loro fre quentazione e dei giochi di Eufrasia n ella convinzione che sapersi difendere era una priorità di quei tempi e nelle loro co ndizioni. La approvava, anche se non lo aveva mai detto. Percorse il corridoio, salì le scale con la moglie in braccio, seguito dalla figlia preoccupata quanto lu i per la salute di Lisette. Ultimamente av eva dei giramenti di testa ed era solita dormire un po’ troppo durante il giorno. Era pallida e non mangiava molto. L’uomo la posò sul letto dalle lenzuola candide e ric amate, aprì l a finestra, entrò un p o’ di r efrigerio dopo una gior nata particolarmente cal-da. Giunsero le serve, ordinò di chiam are un medico e di occuparsi della sve-stizione della contessa. Eufrasia alzò un sopraciglio, sorrise uscendo dalla stanza con lui. Quel sopraciglio propri o non riusciv a a frenarlo nei mo-menti d’imbarazzo, di diverti mento, di rabbia. Xavier la fulminò con uno sguardo inequivocabile, lei alzò il mento sfidante. Lo sentiva alle strette,

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questo le dava una sorta di soddisfazione. Il destino aveva messo suo pa-dre in una posizione così sco moda che a tratti vedeva in lui il desiderio di ribellione, di svelare ogni cosa a tutti per poterla punire co me tanti anni addietro gli aveva impedito di fare. Adesso era una donna, aveva ventotto anni, non c’erano più i presupposti per esercitare il potere paterno. Ascol-tarono l ’armeggiare interno. Eufrasia si appogg iò alla parete incrociando le braccia al seno celato dagli sbuffi de lla camicia, i polsini di pizzo esa-gerati in un’ eleganza che Xavier sapeva riconoscere, quella pacc hiana di Venanzio, atta a sbandierare un beness ere che avrebbe fatto meglio a mi-nimizzare. - Fate spogliare vostra moglie dalle serve? – gli chiese per ro mpere il si-lenzio. Xavier non rispose. - L’avete messa incinta e non la spogli ate voi? – lo guardò con gli occhi nerissimi in quel momento, inaspettatamente iniettati di disperazione, de-lusi. Il conte si chiese come potesse affermare con tanta certezza la gravi-danza di Lisette. Quel sospetto lo aveva avuto anche lui, era divenuto cer-tezza dopo i malori e i pianti sconnessi della giovane. Le donne incinte e-rano riconoscibili se si era abbastanza attenti. - Lo dirà il medico se è incinta – fu freddo. Ebbe l’impressione di voler far felice la figlia piuttosto che gioire di ciò che stava accadendo. Percepiva il suo astio, l’idea di un fratello che l’av rebbe sostituita le faceva male. Era duchessa, ricca, sposat a, ma fasulla, anche se nell e vene aveva i l sangue blu della nobiltà. Neppure il fratellastro avrebbe avuto il suo ste sso san-gue, puro ed eletto, perché sua madre non era stat a una serva, sua madre era stata una contessa della Normandia. - Non serve un medico per capire che cos’ha – sbottò sul punto di lasciarlo solo. Xavier la fermò con il solo pensiero. Si voltò per guardarlo nella pe-nombra del corridoio. - Mi meraviglia la tua sicurezza – la provocò. Quel gioco in f ondo gli mancava. - Vi meravigliate ancora? Eppure dovreste saperlo quante cose posso cela-re con un sor riso – lo pr ovocò a sua vol ta. In fondo quel gioco iniz iava a mancare anche a lei. Si fi ssarono, un tremito inaspettato screziò l’ abisso degli occhi della donna, la vide deglu tire, come a cacciare dentro un dolo-re. La comprese, era sempre stato così, non poteva nascondergli nulla, per farlo in passato aveva dovuto allontanarsi da lui, ma davanti alla sua auto-rità incrollabile Eufrasia non p oteva d ifendersi. Insistette silenzioso. La vide allontanarsi, la raggiunse con pochi passi e la rigirò verso di sé. Volle guardarla, ascoltare il suo respiro che tradiva le e mozioni da sempre, che traduceva i pensieri. La fissò, minaccioso aggrottò le sopraciglia, vestigia

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di un tempo, eroe incontrastato contro di lei, prima di Venanzio, prim a di Stolfo. Le entrò dentro con una facilità che non aveva più usato, manifestò la propria superiorità; la riportò indietro, le fece dimenticare d’essere spo-sata, di non a vere nulla da giustificare, di no n dover dare spiegazioni per ogni parola pronunciata. Silenzioso e potente la costrinse a parlare. - Conosco quei sintomi, due volte mi hanno piegata – sussurrò con un rin-ghio, a denti così stretti da condannarlo per averla costretta, con il legame del sangue, a stringersi un nod o attorn o al collo, si no allo stroz zamento della volontà. Xavier allentò la presa, di poco, abbandonò l ’espressione ferrea, assunse un’aria scettica. Lei si divincolò per incamminarsi verso le scale che l’ avrebbero portata al piano terra, poi al l’esterno, all’aria. S i morse il labbro inferiore chiedendosi p erché avesse detto pr oprio a suo padre ciò che teneva dentr o come una giusta punizione del Cielo, al quale non voleva credere indispettita dalla Sua grandezza. Solo Venanzio sape-va, solo lui l’aveva consolata, poi aveva fatto spallu cce dicendole che i n fondo non era ciò che voleva per loro, che era stato meglio così. Aveva mentito bene, come suo solito. Lo co nosceva, aveva finto di credergli. Giunse all’aria, fresca con gli Alisei a smorzare il calore del giorno, il ma-re a cantare per lei, il suicidio del sole a macchiare il cielo. Chiuse gli oc-chi, li asciugò così. S’incamminò verso la campagna dove avrebbe ritrova-to i cavalli. Sarebbe tornata al pal azzo sfarzoso del duca Stolfo Rues d e Martin, suo marito. Sulla banchina del porto Venanzio o sservava serioso le navi or meggiate, ascoltava il vociare concitato degli scaricatori che sistemavamo le casse di rhum nelle stive. La Belle era più grossa dell’Etrangé, ma meno veloce. Poco importava in quel momento, m ancavano i capitani e si chiese se s a-rebbero partite in tempo per le esportazioni previste. Un disguido davvero antipatico, il rischio di perdere una re ndita lo innervosiva. Abbandonò il porto sul suo cavallo nero dai fini menti scarlatti cavalcando veloce verso il palazzo del suo ‘segreto ’ suocero. Dovevano trovare una soluzi one, lui un’idea l’aveva. Attraversò le piantagioni con gli schiavi sotto il sole della mattina. Fu davanti al palazzo des Fleuves che appariva ancora addormen-tato. Ebbe un presentimento. Curare gli affari era un vero e proprio lavoro, risolvere i problemi lo era ancora di più, specialmente se per farlo doveva ricorrere all’illegalità. Stanchezza sulla stanchezza. Entrò senza alcun rispetto, senza farsi annunciare, come fosse di casa. Xa-vier tollerava a stento la s ua sfrontatezza, il rifiuto assoluto per l’etichetta che la nobiltà richiedeva. Vestiva pr eziosamente, sfoggiava diamanti al posto dei bottoni, ma con il padre di Eufrasia era solo un reietto maschera-

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to. Non finge va, non recitava, non si sforzava neppure di accont entarlo, aveva nelle mani il bene più prezioso , sua figlia, e se mbrava gi ocarci a piacimento con un’ironia che lo salvava sempre. Udì le serve nelle loro stanze borbo ttare indaffarate, frettolose eppure an-cora immerse nel tepore e nella penombra del risveglio. Non era da Xavier dormire tanto, m attiniero, instancabile , a volte era stato lui a strapparlo dalle coltri e dalle braccia di Eufrasia all’alba. S’insospettì come ogni vol-ta che qualcosa cambiava percorso, anche il minimo particolare non dove-va esser e sottovalutato, m ai. Sfiorò la pistola al fianco. Vide una delle serve di colore sgattaiolare nel corridoio in direzione delle scale. La fermò con uno sguardo. Si divertiva a far scintillare l’abisso del suo animo con le piccole donne, si divertiva a farlo anche con Eufrasia che non era piccola, che gli tenev a testa, ma che non re ggeva neppure lei tanto potere. La do-mestica si strinse ancora di più e attese che parlasse. Avanzò a passi falca-ti. - Ho urgenza di parlare con il conte des Fleuves – disse secco con un sor-riso tagliente che la fece vittoriosamente arrossire. - E’ con la contessa che h a avuto un ma lore – rispose tremando, l a mani scure a stringere un lenzuo lo pulito profumato di un aro ma tropicale. Ve-nanzio notò che tra i teli o cchieggiava una busta. Se ne im padronì fulmi-neo. La serva fece per i mpedirglielo. Con un colpo d’occhio vide che l a busta era sigillata con ceralacca rossa senza sigillo, anonima. - Non sapev o fosse i mpegnato con un problema se rio. Questa l’ ho fatta giungere io, affari da risolvere – fu veloce co me lo era stato nell’appropriarsi indebitamente di una cosa non sua. - L’ha portata un bambino – si sentì contraddetto. - Lo so. Più celere di me vista l’urgenza, ma non voglio che il conte venga turbato da questioni così profane. Si occupi della contessa, saprò attendere nello studio quanto sarà ne cessario – assunse un’aria così sicura e menda-ce che la serva non osò c ontrobattere. Corse via, dimentica subito della lettera, del bambino, della furbizia del duca. Venanzio raggiunse lo studio del conte, si sedette alla scrivania, appoggiò gli stivali infangati sul legn o lucido impolverando la perfetta pulizia del ripiano. Non c’era molta luce, abbastanza però per leggere ciò che qualcuno si era affrettato a far sapere a Xavier per vie traverse, m olto trav erse, e segret e, m olto segret e. Quel bambino era stato pagato profum atamente per evitare qualsiasi controllo, per non destare sospetti. La carta era piuttosto sgualcita come se fosse sta-ta addosso a qualcuno per molto tempo, direttamente sulla pelle. Non usò il tagliacarte per aprirla, c on il calcio della pistola infranse la ce ralacca. Estrasse il foglio.

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Eufrasia notò il cavallo del marito davanti all’ entrata del palazzo. Conclu-se che doveva trovarsi lì per affari, all’oscuro dello stato di Lisette. Quella notte non gli aveva detto nulla, fingendo di dorm ire al suo arriv o, come spesso faceva negli ultimi tempi per evitare il contatto con lui a causa del-la ferita che si portava dentro, do ppia, sanguinante, triste, ingiusta. Non aveva dunque avuto modo di raccontargli l’accaduto, perché il mattino era solita alzarsi prima, aspettare che u scisse e tornare a dorm ire qualche ora per non doverlo affrontare nei suoi slanci di passione. Non lo reggeva più, non avrebbe retto più nessuno dopo il male che aveva provato sino a pochi mesi addietro, dopo la gioia infranta ben due volte. Non era il suo deside-ro prim ario essere madre, ma saper e di non poter portare a ter mine una gravidanza la faceva sentire inadeguata, donna a metà. Forse avrebbe scel-to autonomamente di non avere figli, ma sarebbe stato un contr ollo suo, non del Cielo, quel Cielo che sentiva av verso. Sapere che Venanzio era a palazzo la irrigidì. Era certa che lui fingesse abilmente di non capire, men-tre in realtà sapeva leggere i suoi movimenti elusori, i silenzi o ppure i momenti di t ale rancor e d a renderla in avvicinabile. Era così brav a a f ar cadere qualsiasi intenzione, con furbizia o inimicizia, e otteneva sempre la lontananza che voleva. Ri schiare di rimanere nuovamente incinta era un incubo che non voleva pi ù vivere, ch e avrebbe evitato con ogni mezzo . Sarebbe fuggita ancora se fosse stato necessario, ma nelle mani di Dio non ci sarebbe più stata, mai più, com e aveva rifiutato tempo addietro di stare in quelle del padre. Strinse i pugni nella camminata decisa che le fece sali-re i gradini, ancora una volta il ru more degli stivali di cuoio sul marmo echeggiò nel corridoio. Nello studio Venanzio tese l’orecchio, distoglien-do gli occhi dalla lettera che stava le ggendo, riconobbe il passo della mo-glie. Non si mosse. La sentì salire al piano di sopra, in visita probabilmen-te a Lisett e. Continuò a leggere la l unga missiva particolareggiata e inte-ressante per certi versi. Dopo avere visto uscire alcune serve da lla stanza da letto dei conti, Eufra-sia bussò l eggermente ricevendo l’assenso a entrare. Comparve sulla por-ta. Xavier, a ccanto al letto, la guardò senza e spressione. Lisette e ra sve-glia, ma debole e affaticat a. Pallidissima la guardò, gli occhi azzurri sem -brarono ancora più grandi e un sorriso bam bino le incurvò le labbr a esan-gui. Con un gesto al padre fece intendere che se lo avesse ritenut o oppor-tuno se ne sarebbe andata subito. L’uomo scosse il capo. - Le farà bene un po’ di compagnia che non sia quella di un vecchio mari-to preoccupato – riuscì a essere ironico. Eufrasia fu certa di av erlo sentito

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scherzare, seppur lievemente, per la prim a volta nella vita. Stette al gioco e sorrise accondiscendente. - Non di te così, Xavier, sapete bene che voi per me non siete vec chio, la vostra compagnia mi colma di gioia – parve svegliarsi Lisette. - Amo sentirmelo dire, per questo ti pr ovoco – rispose ancora ironico. La figlia allargò legger mente gli occhi per osservarlo. Ebbe un attimo di fa-stidio, non si era mai dimostrato morbido con lei. Cancellò quella sensa-zione e si sedette accanto a Lisette che cercò la sua mano. - Lo avrei centrato quel be rsaglio, lo sapete – riuscì anche lei a essere ila-re, riferendosi al momento in cui la vista si era appannata e le gambe ave-vano ceduto. Eufrasia annuì scettica porgendole un sacchetto di seta pieno di dolcetti al cioccolato cucinati da Nora. - Tutti per te – le disse allegramente. - Li dividiamo? – scherzò la contessa memore della s ua repulsione per il cacao che oltretutto lei stessa controllava nella raccolta e nel trattamento. - Un’altra volta – fece spallucce. Xavier le osservò per alcuni istan ti, trovò quella scena strana mente piace-vole, la dolcezz a e la co mprensione della figlia erano qualcosa d’inconsueto per lui. La storia che le univa era a ssurda, l’amicizia che ora le legava era incredibile, la parentela che segretamente avevano era ridico-la, Lisette era la matrigna di E ufrasia, lei a volte la chiamava madre per farla arrabbiare. Ma succe deva di rado nel rispetto c he portava per la sua vera e defunta madre, alla quale sapeva di som igliare molto fisicamente, perché l’animo… no, quello non apparteneva a Belle. Come risvegliata da un pe nsiero dimenticato, Eufrasia lo guardò improv-visamente. - Mio marito vi sta aspettando al piano inferiore – disse deludendolo. Xa-vier sbuffò all’ idea di doverlo inc ontrare. Le loro conversazioni erano sempre così oscure e sospese tra il serio e il fac eto. In quel m omento non era molto lucido per ascoltarlo, anche se sapeva che la situazione al porto doveva essere risolta. Decise sen za entusiasmo di raggiungerlo. Si chiuse la porta alle spalle lasciando le due donne sole. Eufrasia sospirò sollevata, guardò nuovamente Lisette che non aveva rifiutato l’offerta dei do lcetti e ne gustava uno disgustan do lei che no n lo diede a vedere. Cacao, la cosa peggiore che Venanzio avesse potuto scegliere di coltivare! - Per essere una donna del popolo avvezza alla fatica e alle privazioni, Li-sette, sembri un po’ deboluccia, come fossi in fin di vita e sei solo incinta – la fulminò rivelando di sapere, di averlo sempre saputo fin dai suoi pri-mi malesseri. La contessa accennò un sorriso e arrossì. Non ebbe risposte

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per il sarcasmo della padrona, perché nonostante tutto, la considerava an-cora la sua padrona. Venanzio appoggiò la lettera sulla scrivania, il capo sullo schienale di vel-luto, gli occhi a fi ssare il soffitto dove un lampadario di cristallo scintilla-va ai pochi r aggi del sole che pene travano le verdi tende chiuse. Aveva bisogno di riflettere, ma non ne ebbe il tempo, la porta si aprì e com parve Xavier che lo fissò disappr ovando i piedi sulla scrivania, la sedia occupa-ta, la sua sola presenza sfrontata. Entrò. - Toglietevi dal mio posto, duca – ordin ò. Obbedì celere, afferrando m is-siva e busta per infilarle in tasca. Xavier tolse il fango con la manica della giacca di seta. Lo scrutò accusa-torio. - Abbiamo perso i capitan i, entrambi – andò subito al sodo l’ altro acco-modandosi davanti alla scrivania, mentre il conte si sedeva sul quello che pareva il suo trono. Non sembrò cogliere la gravità della situazione, conti-nuò a guardarlo serioso. - L’ idea che ho è azzard ata, ma potrebbe essere l ’unica considerando che… - continuò stanco dei suoi modi così austeri. Iniziava a comprendere la ribellione estrema di Eufrasia anni prima, ci voleva parecchia ironia per reggere quell’autorità, og ni tanto ci si sentiva es austi davanti a l ui. Era piuttosto pesante continuare a recit ate la parte dell’ indifferente, perché Xavier sapeva anche offendere. - Perché non me lo avete detto – lo interruppe. Il duca ebbe un secondo di titubanza, poi prese fiato. - L’ ho avuta solo sta mattina questa idea – ebbe l’ impressione c he non stessero discorrendo dello stesso argomento. Non continuò, lo osservò at-tentamente, sentì il giungere di qualcosa, anche se non sapeva esattamente cosa. Rammentò la presenza della moglie, probabilmente al piano di sopra da dove era giunto lui. Fece qualche conto, ma non tirò la somma. - Perché mia figlia ha perso due figl i e io non l’ho saputo? – sibilò gelan-do og ni centi metro del corpo del d uca. Paralizzò il suo respiro, gli fece sentire freddo, lo fece tremare, gli rammentò il dolore che ogni sospiro di Eufrasia gli aveva provocato, costringendolo a minimizzare per non ucci-derla dentro. Aveva desiderato un figlio da lei con ogni parte di sé, incon-fessabile e folle, ma lo aveva desiderato, aveva immaginato una vita dav-vero normale, protetta da un figlio, con un figlio da proteggere. Quelle pa-role, quel segreto svelato, lo fecero sentire nudo e tradito. Se era vero ch e Eufrasia des Fleuves avev a perduto du e gravidanze, era anche v ero che quelle gravidanze er a stato lui a provocarle. Aveva i mmaginato due volte

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il risultato dell’attesa, aveva sperato negli occhi della moglie per il piccolo e nel coraggio del padre. Raccols e a st ento la lucidità neces saria per non farsi pecora. Aveva davanti il lupo. - Perché vostra figlia è mia moglie, sono solito occuparmene io, nel m i-gliore dei modi, come ho promesso a lei e a voi in cambio di… - - Non m illantate, Stolfo. Mia figlia ha il sangue di una ferita ad allagarle gli occhi e v oi non vi siete prem urato di farmelo sapere perché i o potessi aiutarla – sbottò esasperat o. Si fissarono biechi, uno contro l ’altro, guer-rieri in una lotta inutile, la posta in gioco una donna: una moglie e una fi-glia. - Non è più vostra figlia – non demorse il bandito, perché questo era. - Non millantate! – ripeté il nobile alzandosi con le mani puntate sul tavo-lo, il fuoco ad annullare il verde degli occhi. - La verità non la potete cancellare, non lo può fare la copia perfetta di voi che ho sposato, no n lo p otete fare voi – non perse le staffe il duca, senza reagire all a r eazione del suocero. Non lo guardò pi ù, apparve annoiato. Fece per alzarsi. - Ho vol uto per lei il m eglio, vi ho v estito da pri ncipe per lei, credo che conoscere gli acc adimenti di una vita che credevo perduta sia il minimo che mi dobbiate – lo fermò. Non era lu cido, in poche ore gli erano cadute addosso troppe emozioni. Venanzio pensò alla lettera che si era premurato di carpirgli prima che la leggesse. Rite nne d’avere fatto la cosa migliore, anche se il tempo non era molto per agire. Ma quello era un altro discorso, ciò di cui stavano parlando era altro. Non si voltò e fissò il vuoto davanti a sé. - L’abito che porto me lo sono cucito addosso da solo, non cercate meriti che non avete, Xavier – si difese senza troppo entusiasmo. Sapeva di ave-re ragione, ma sapeva anc he che il conte ne aveva al trettanta, erano legati a doppio filo, erano fastidiosamente indivisibili adesso. - Quanto a vostra figlia, d ovete a me la sua salvezza, il gioco non lo a-vrebbe sostenuto sino in fondo senza di me, lo sapete. Non mi avreste mai permesso di sposarla se solo non fossi stato un u omo e non un bamboccio – concluse con la mano sulla maniglia. - Non soppor to il suo dol ore – lo ferm ò ancora Xav ier, lo avrebbe fatto all’infinito con la rabbia, il bisogno di sfogarsi, di incolpare, di trovare re-sponsabili ovunque per lavare una coscienza che sentiva pesante i n fondo al cuore. - Guardatela da un altro p unto di vista – lo invit ò i mmaginando quello stesso dolore chiuso nell’animo di Eufrasia. Xavier tacque.

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- I vostri conti sono pareggiati, forse Di o ascolterà anche le sue preghiere, se soltanto pregasse una v olta – sogghignò cinico. Non attese la r eazione. Uscì. Percorse veloce il co rridoio ora illum inato, il sole a specchiarsi sul marmo chiaro e lustro. All’esterno raggiunse il cavallo, vi salì e lo spronò con decisione. Cavalcò verso la vegetazione che circondava il palazzo d es Fleuves, s’inoltrò nell’ombra delle piante rigogliose, s ’immerse nel silenzio di u n m ondo che iniziava ad andargli stretto pur dandogli l’orgoglio e la felicità che an-ni addietro erano solo un s ogno distante. Quasi sfian cò l’animale sotto la sferza. Eufrasia, di ritorno dal palazzo del padre, entrò nella saletta. Er a mattina inoltrata, le serve stavano prepara ndo la tavola dove avrebbe pranzato so-la. Venanzio era solito occuparsi degli affari al porto tutto il giorno, quan-do le partenze erano imminenti. Si versò del rhum che sorseggiò lenta. So-spirò. Fece per sedersi sul la poltrona da vanti al ca mino spento. Il gelo la pervase. Fissò il marito con la freddezza che ulti mamente gli riservava anche a di-stanza. Adesso era vicino. S’irrigidì presa alla sprovvista, im preparata ad affrontarlo perché sapeva che le barri ere instaurate con lui avrebbero ri -chiesto, presto o tardi, un chiarimento. - Dove sei st ata? – chiese accavallando le gambe, gli stivali ancora infan-gati, il sigaro acceso ad appestare l’aria. - In visita a Lisette – rispose secca. - Lisette. Passi con lei intere giornate e vai in visita a Lisette? – fu sospet-toso. Eufrasia non rispose versandosi altro rhum. - Posa quel bicchiere e dammi delle spiegazioni che non siano abili elu-sioni, Zoraide – la riprese serioso, so migliante a qualcuno. Questo la infa-stidì ancora di più. Non rispose, ma posò il bicchiere. - Eri da tuo padre e voglio sapere il motivo – andò al sodo, ferito come lei dal risveglio di un ricordo. - Siete geloso di mio padre? – sorrise odiosa. Venanzio si alzò di scatto, le afferrò un braccio per guardarla e farsi guardare. - Non farmi indagare sulla tua vita, rischierei di scoprire brutte cose e non dire delle sciocchezze, rispondi alla mia domanda, per il momento posso accontentarmi – fu allusivo, meschino, non la offese, la preoccupò e basta. - Non ero da mio padre – sbuffò tentando di divincolarsi. - Sarò più chiaro, visto che oggi hai d eciso di fare la stupida. Per quale motivo hai detto al conte della perdita di due figli, dei nostri figli? – fu du-ro. Lei colse in quella frase un particola re che la turbò, che cancellò in un

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attimo la con vinzione finora consolatoria che lui quei due figli non li a-vesse mai voluti davvero. Li aveva defi niti nostri, loro, parte dei l oro so-gni. Aveva s empre mentito, lo aveva s empre saputo, ma esserne certa la addolorò ulteriormente. Si accorse di aver infranto un segreto, di avere co-involto in una tragedia chi poteva beni ssimo starne fuori senza conse-guenze. Abbassò lo sguardo e fu sul punto di piangere. - Non versare una sola lacrima, Zoraide, non prendermi in giro, le tue car-te false con me non possono fu nzionare - non cadd e nel tranello che per una volta n on sarebbe stato un tranello. Deglutì, rial zò gli occhi s u di l ui che sfidante allentò la presa. - Lisette è incita – rivelò. Si fissarono. L ’uomo decise di non andare oltre, lo sconquasso della m oglie doveva essere assoluto, in ballo c’era di tutto, da un erede che avrebbe preso il suo nome perduto a una maternità negata in contrappos izione con la gioia che il conte e Lisette stessa avrebbero provato. Di tutto, a Eufrasia stava cade ndo addosso di tutto, senza toccar-la, senza ferirla sulla pelle, semplicemente squarciandola dentro con insi-stenza vista la scorza di ferro che avvolgeva il suo cuore. Sarebbe crollata, presto avrebbe dichiarato forfait, nulla l ’avrebbe più salvata. Le diede le spalle, decise di lasci arla sola, non sapeva per quanto, forse giorni, forse ore. Non la guardò nepp ure, non volle voltarsi. Ancora una volta la mano si appoggi ò su una m aniglia. Ancora una volta si ri trovò a scappare da qualcosa a sc apito di se stesso. Anco ra una volta la sciava un tormento, prima quello di un padre, adesso quello di una moglie inconsolabile che non voleva essere neppure sfiorata. Gli eventi stav ano precipitando, lui non poteva fare nulla per f ermarli. La p orta si aprì con la spinta r abbiosa del piede che la schiantò contro il muro. - No – sentì dire con un filo di voce. Si fermò senza convinzione. - Non andate via – fu una supplica a farlo tremare, la stessa di anni addie-tro nella tetra stanza del palazzo di Rennes dopo averla amata, dopo averle aperto il cuore. Tutto allora era mutato in pochi minuti, si chiese se anche questa volta sarebbe accaduto, se valeva la pena crederci. La scr utò oltre la spalla, il bicchiere a ccanto a lei pi eno del liquore migliore della Marti-nica prodotto da lui. Perc orse la linea flessuosa dei suoi fianchi fasci ati dagli abiti maschili che era solita indossare sempre più spesso, come a vo-ler annullare la propria bellezza. Si soff ermò sui pizz i esagerati de lla ca-micia che gli apparteneva. Raggiunse gli occhi fer mi, li sc avò per alcuni attimi che parvero infiniti. - Stai spezzando il nostro incantesimo e se si spezza ogni cosa qui non ha senso, ogni castello crollerà e saremo soli, io solo e tu sola – le disse serio. - Sto cercando un appiglio – confessò oscura. Il duca si voltò.

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- Io sono il tuo appiglio – le ricordò. - Non lo so perché gliel’ho detto – rispose in ritardo alla dom anda che le era stata posta. - Non può fare più nulla per te, neppure se volesse, sei mia moglie adesso. Non potrai mai riscattare il male e l’inganno che gl i hai im posto, faresti meglio ad accettare il suo perdono perché lo ha promesso a Dio e non tor-nerà indietro. Non cercare la guerra di un tem po, non la co mbatterà, non commetterà il medesimo errore, non ti darà il sangue di allora, non ti con-cederà un solo passo. Non è stupido, non è stolto, sa valutare le cose e sa come muoversi. Avere davanti agli occhi un uomo come me tutti i giorni è la sua più grande sconfitta e avere ria vuto te è stato il suo più grande tri-onfo, non sta chiedendo altro – disse d’un fiato senza avvicinarsi. Eufrasia si sedette sulla poltrona. Era confusa, la era da mesi ormai. Solo allora l a raggiunse per sfiorarle una spalla, lei tremò. - Cambiati d’abito, Zoraide. Non pensare che un paio di pantaloni possano dissuadermi dallo sfiorarti se lo voglio fare. Indossa il tuo vestito miglio-re, ti aspetto all’esterno – la invitò. La invitò nel ver o senso della parola, anche se lei non comprese dove. Alzò gli occhi su di lui con le gote arros-sate, colta in flagrante nell’intenzione di rendersi meno appetibile. - Cosa volete da me? – fe ce una do manda sciocca. Venanzio ria cquistò per lei la sua espressione sorniona. Si allontanò, aprì per l’ennesima volta una porta. - Salviam oci, Eufrasia, faccia molo subito o sare mo perduti – sussurrò mordendo se stesso, calpestando un or goglio che ringhiò sotto il peso del-la capitolazione. - Non chiamatemi così – ruppe una magia precaria. - Salviamoci, se davvero il nostro è stato a more sin dall’inizio – la lasci ò sola. Xavier raggiunse il porto dopo avere quasi litigato con Venanzio. Non lo trovò a contr ollare le operazioni d’im barco. Lo fece lui cogliend o così il vociare di alcuni marinai provenienti dalla madre patria. Erano davanti al-la Locanda del Porto, sigari e bottiglie in mano, già brilli nonostante fosse mattina, gli occhi a correr e sul piazzal e per individuare le prosti tute di-sponibili a quell’ora dopo una notte di lavoro intenso. Stavano gi ungendo parecchie navi, il conte colse l’ occasione per cer care di ottenere qualche notizia. Si apprestò a un gruppo che parl ava francese e offrì loro da bere, ottimo espediente per stringere am icizia o per ottenere un po’ di at tenzio-ne che li distraesse dalle esigenze sessuali che non celavano.

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- Un m acello, signore! – disse uno dei tre ragazzi, sorseggiando il rhum direttamente da una delle bottiglie ordinate dal nobile e appoggiate su una botte esterna il locale. Xavier strinse lo sguardo per indurlo a continuare. - Nel vero senso della par ola! – intervenne uno dei compagni, più ubriaco degli altri. - Saltano le teste! – aggiunse il terzo barcollando. Il conte ebbe un brivido, conosceva la condanna a morte francese, era in vigore anche in Martinica, colonia francese appunto. - Sangue, san gue a fiu mi nelle piazze e in quella de la Révolution è stato versato il sangue più richiesto! – urlò il primo bevendo ancora. X avier lo vide estrarre un fazzoletto lercio e macchiato di mar rone. Non si m osse, quando glielo sventolò davanti come una bandiera. - Quanto mi date per questo, signore? – rise, i suoi amici lo seguirono in coro e bevvero in sincronia. Xavier non comprese. - Questo è il sangue del re, signore! – annunciò fiero . Il conte des Fleuves si ritrasse impercettibilm ente. Il sangue del re? Quale sangue? Quale re? Confusamente cercò un nesso in quelle parole dettare da alcool. - Della test a grondante di Luigi XVI! Io stesso ho i ntriso questo straccio! Ecco il sangue eletto di Ca peto! Lo volete comprare, signore? Costa mol-to, ma sono disposto a cedervelo per poco perché siete stato gentile, anche se i vostri abiti e i vostri modi sembrano quelli della razza bastarda del vo-stro re! – rise, rise sfacciato, sguaiato, seguito dai compari, completamente vinti dal rh um che Xavier ordinò nu ovamente per saperne di più. Pagò profumatamente anche quello straccio, lo prese tra le mani tremanti, lo os-servò tacito e lo infilò con noncuran za nella giacca. Sentiva il fuoco pro-venire dalla tasca, ma restò con quella gentaglia per ascoltare un resoconto inatteso dell’esecuzione di Luigi XVI, avvenuta il 21 gennaio 1793 in Pla-ce de la Rèvolution, a Parigi. L’uomo, e gli altri con lui, raccontarono det-tagliatamente l’ accaduto, loro erano stati presenti, a vevano assist ito, ba-gnato pezzi di stoffa nel sangue del re . Il più fortunato non lo aveva fatto in quello che colava sulla strada, ma aveva raggiunto il capo reciso, aveva osservato gli occhi sbarrati di un morto ancora caldo, quasi ancor a vivo diviso dal corpo. I dettagli furono cruenti, lo stomaco di Xavier si rivoltò a quelle parole, ma non v omitò, non se lo poté perm ettere. Ringraziò quei tre che neppure lo vedevano più dopo il terzo giro di bottiglie e salutò fret-tolosamente, dimentico dei lavori che si stavano svol gendo tra la Belle e l’Etrangé. Volle tornare a palazzo, aveva bisogno di aria, desiderava solo liberare il collo dal foulard che lo cingeva. Desiderava bere acqua, fresca, tanta, sciacquare il veleno che gli era salito in gola, l ’amaro di eventi che non aveva avuto m odo di conoscere a causa delle distanze. All’ interno

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della tenuta si liberò della giacca che gettò sul divano dello studio, aprì la camicia scoprendo il petto. Vuotò una brocca d’acqua, ne chiese dell’altra, era sudato, ansimante, stanco eppure a ttento, rimuginante, sconvolto. Il re era morto, ucciso dal popo lo, o meglio… da coloro che dicevano di rap -presentare il popolo. Il re era morto, Luigi XVI er a morto, lo aveva fatto dignitosamente sotto lo scherno del pubblico. Il re era morto, la Francia era in balia di ciò che ch iamavano Repubblica. Co s’era la Repubblica? Cos’era? Dov’era la giustizia se la bestialità umana poteva arrivare a tan-to? Dov’era la libertà, l’uguaglianza e la fraternità, i baluardi dei rivolu -zionari? Tutti erano uguali tranne coloro che avevan o addosso il marchio blu della nobiltà. Sudò fre ddo chiedendosi cosa sar ebbe accaduto se non fosse fuggito dalla Francia tre anni addietro, se non avesse salvato sua fi-glia, se non avesse accettato il gioco sporco di un assassino. Un assassino. Pensò a Venanzio Sauvage , a ciò che era divenuto, si chiese se poi lui era davvero così nefando se rapportato a ci ò che un’i ntera nazione stava di-ventando. Uccidevano senza ritegno, ch iunque si opponesse al regi me in-staurato, lo facevano anche con chi veniva se mplicemente sospe ttato di farlo, bastava la difesa verbale di un nobile per ritrovarsi accanto a lui da-vanti al boia. Erano tutti pazzi in Fr ancia, tutti invasati e folli, cani sciolti in vie angust e, macellai legalizzati che non concedevano tregua. Non sa-peva tutto. Non poteva sapere tutto con le notizie che arrivavan o con il contagocce. Dopo l’acqua bevve del rh um e dopo il rhum si sedette sulla sedia della scrivania, le mani in fronte, il volto chino sul legno lucido. Il re era morto, con lui la salve zza di intere famiglie. Xavier era francese, ave-va nelle vene sangue francese e si sen tì bestia come i francesi che lontano massacravano se stessi. Eufrasia comparve in cima alla scalina ta che portava all’ ampio piazzale. Venanzio tirò le redini del cavallo per osservarla, mentre scendeva sinuo-sa, avvolta dall’abito più bello che lui stesso le aveva chiesto di indossare . Il verde della stoffa le dava un’eleganza ricca e vaporosa, la brezza prove-niente dal mare sfiorava i veli e i capell i raccolti facendola sem brare una regina. Forse la era, il suo passo era regale. Per la gente lui era il nobile e lei la popo lana sconosciuta senza storia, m entre la realtà era un’al tra, oc-chi esperti l’avrebbero colta anche solo nel suo chinare leggermente il ca-po in un saluto. - Siete ridicolo, Stolfo. Cos’ è questa messa in s cena? – sbottò de ludente. La mezz’ora passata a prepararsi era ba stata per far r isorgere in lei la du-rezza nel com portamento. Era se mpre stato così, darle te mpo era l’ errore peggiore che si potesse f are con lei, per metterle di elaborare le proprie

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emozioni era un passo sbagliato. Il tem po era l’arma migliore per abbat-terla, il tem po mancante, quello che non c’era, i m inuti contati, gl i impe-gni imm inenti, le fughe roca mbolesche, questo sapeva piegarla, il resto era solo vita che lei sapeva distorcere. Le porse il braccio per farla salir e davanti a sé. Indispettita serrò le la bbra, la trovò ancora una volta bellis-sima, nostalg ico di lei e delle car ezze che avrebbe voluto darle anche lì, con i servi curiosi celati dietro ogni finestra. Al suo tacito rifiuto avvicinò il cavallo, le afferrò il braccio e la caricò letteralmente sulla best ia senza grazia. - Se sono ri dicolo, Eufrasia, vorrà dire che oggi ti divertirai molto e ride-rai. Un sorriso sulle tue la bbra potrebbe illuminare il giorno – le sussurrò all’orecchio. Diede un colpo di tallone che volle intenzionalmente destabi-lizzarla costringendola a cingergli la vita per non cadere. - C’è già il sole a farlo – polem izzò, una delle cose che le riuscivano me-glio. - Una piccola stella – sbuffò lui. Lanc iò lo stallone al galoppo sino a rag-giungere un’andatura sostenuta che divenne cavalcata veloce e pericolosa. Le mani di Eufrasia si stri nsero più forte a lui che stava ottenendo, come sempre, ciò che voleva. Attraversarono la foresta tropicale che divenne ombrosa e fr esca, percors ero sentieri che lei non conosceva. Eppure e ra solita inoltrarsi in cerca di posti isolati per sparare e perfezionare il pro-prio tiro. Ma quelle strade invisibili non le aveva mai fatte, qualche ramo le sferzò la s chiena. Iniziò ad avere paura, tentò di guardare il marito in-tento a seguire un tragitto preciso. - Non ti preoccupare, so fino a che punt o posso arrivare, conosco la forza delle tue bra ccia e la re sistenza dell a tua strett a – le disse a ntipatico. L’animale si fermò improvviso al tiro deciso delle redini, un nitrito la fece sobbalzare. Il silenzio li avvolse, un tepore per nulla afoso li abbracciò, poi i versi de gli animali nascosti rico minciarono a bisbigliare come se a-vessero preso paura per il frastuono di z occoli. Eufrasia si voltò e assistet-te a un miracolo della natura che non aveva mai neppure immaginato. Una cascata della quale solo ora udiva lo scrosciare impetuoso si gettava in un lago limpido e cosparso di ninfee. Rimase senza fiato. Osservò ogni parti-colare in pochi secondi, u na visione romantica e perfetta, un gio co della natura che faceva creder e nell’esistenza di Dio anche a lei che Dio non lo voleva pensare, non l o vo leva pregare, non l o voleva e basta. Aveva u n conto in sospeso con Lui e sapeva che non lo avrebbe mai pareggiato. - Andiamo via – ordinò secca. - Un luogo magnifico, non potevo non fartelo conoscere pri ma di andar-mene – scese da cavallo. Fece scendere anche lei che non poté evitarlo.

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Toccò terra con le sue mani a sorreggerle i fianchi. Quella frase la bloccò. Dimenticò il desiderio di spezzare l’incantesimo che sentiva attorno a sé. - State cercando di comm uovermi o cosa? - si fece sospettosa, gli inganni di Venanzio erano sempre astrusi. - Commuoverti? Credo che negli ultim i tempi la mia presenza sia per te insopportabile e il destino m i sta invitando a partite. Accetto l’ invito vo-lentieri, se questo lenirà la tua tristezza, consolerà la tua malinconia e ren-derà le tue notti e le tue mattine meno pesanti – le sorrise così convincente che sembrava dicesse cose opposte. Ciò che udiva er a doloroso, t utto da tempo lo era ed era stanca di soffrire. Indietreggiò di un passo, lo osservò recriminante. - Che gioco è? – era diffidente. - Nessun gioco, Eufrasia, solo la ve rità. Credi forse che io non sappia quanto sia gravoso per te r iuscire a levarti prima di me, sco mparire chissà dove e attendere che io esca per tornare tra le coltri? E t utto questo per il timore che io possa chiederti ciò cui ho diritto. O forse pensi che io non sappia che non dormi affatto, quando mi avvicino a te nel cuore della not-te? Non puoi dorm ire, devi stare sveglia per essere pronta a respingerm i. E’ matematico, no? – la prese in giro, d ava idea di in fischiarsene allegra-mente di quella realtà pesante per un u omo come lui. Eufrasia non lo con-traddisse, non aveva argomentazioni sufficienti. - Ne sembrate compiaciuto – soffiò. - Il mondo è pieno di donne – lasciò scintillare lo sguardo com e sapeva fare nei momenti in cui do veva abbatterla. In quel momento era d eciso a farlo. Lei non rispose, gli diede le spalle pe r ritrovarsi davanti ancora quella ca-scata che ai raggi del sole alto era persino aurea. - Nessuna come te, s’intende, ma so a ccontentami – aggiunse con una ri-satina che la ferì. L’uomo si sedette sotto un albero, s i accese un sigaro in attesa che fosse lei a dire qualcosa, a rompere il ghiaccio che c’ era tra lo-ro. Passarono alcuni minuti, lo guardò di sottecchi. In contrò il suo sorriso suadente, lo vide estrarre dalla giacca una piccola bottiglia piatta. - Da bere, Eufrasia? Momenti come questi richiedono un sostegno, giusto? – gliela porse sfidante. - Dove andrete? – non raccolse la provocazione. - In Francia – la esaudì. Appoggiò l’offerta accanto a sé. - Siete pazzo o cosa? – corrucciò le sopraciglia. - Disperato può andare? – assaporò il sigaro, sbuffò un fum o esagerat o che il vento leggero le riversò addosso. - Disperato voi - questa volta fu lei a ridere.

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- Posso soffrire co me tutti voi, sai? – continuò a trovare in quel sigaro un appiglio sicuro. - Non vi capisco e in questo m omento non m’interessa farlo. Riportatemi a casa, non mi piace questo posto – - Troppo romantico, induce in tentazione? – la fissò. - Inutile espediente per un uomo che non vuole parlare chiaro – lo rimbec-cò. - Cosa vuoi sapere, Eufrasia? – era annoiato. - Cosa andate a fare in Francia? Quale urgenza vi costringe a tornare lad-dove potreste morire per mano della Rivoluzione? – - Sei informata, mi meravigli ogni giorno di più, ma tu sai che con la mor-te ci vado a braccetto ogni giorno e non la tem o. In Francia ci v uole uno come me, nessun altro può riuscire la ddove chiunque fallirebbe – s i vantò oscuro. - Ditem i perché dovete andare in Fr ancia! – si sp azientì. L’ombra della sua assenza solo in quel momento iniziò a sfiorarla cupa, l’ idea di atten-derlo, di non sapere nulla di lui, di po terlo vedere tornare morto oppure non tornare affatto. - Non posso, ma si tratta di un affa re importante – concluse spegnendo il sigaro nel terreno. - E mi avete portata qui per dirmi addio? – quasi pianse, ma non lo fece. - Non sarà domani, solo tra qualche gi orno, tanta fretta di liberarti di me? – la stoccò. - Non voglio liberarm i di voi, perché lo dite? – pa rve im provvisamente una bambina con il tim ore d’essere lasciata al buio. L’ uomo la r aggiunse senza che lei, finalmente, si ritraesse. - Perché sei mia moglie e rifiuti di fare l’amore con me – non tergiversò, non era p ossibile per lui usare mezzi term ini, era sem pre stato così, dall’inizio, da quando erano due sconosciuti capaci di comprendersi. - Ho perso due figli - mugugnò per giustificare se stessa. - E’ successo un anno fa – le fece notar e. Lei tacque. Era successo tredici mesi addietro l’ultima volta. Non ebbe risposte, abbassò gli occhi e conti-nuò a immaginare la casa vuota, il letto vuoto, il tavolo vuoto, la mancan-za di quell’aroma di tabacco incancella bile. Tutto le sarebbe mancato di lui, lo com prese nel momento in cui realizzò di poterlo perdere per se m-pre. Gli occhi divennero lucidi e per q uesto ancora più pr ofondi nel loro nero quasi cieco. Cercò di non far scendere una lacrima che invece sfuggì al controllo, indispettita si voltò, detestava perdere il controllo della situa-zione con il diamante della sofferenza a mostrarsi prepotente.

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- Non so quando partirò, potrebbe esser e prima del previsto – la distrasse alle spalle, le m ani ad avvolgerle il ve ntre nel tentativo bloccato di salire. Non insistette, le sfiorò il collo con un bacio lieve, q uasi di ricognizione. Percepì il pulsare fr enetico del cuore, lentamente la v oltò verso di sé per guardarla e asciugarle con il pollice quella lacrima bastarda. - La vostra vendetta – concluse lei senza nervo, stoicamente sconfitta. - Un dovere che chiama, null’altro. Le mie vendette sono ben altra cosa – le sorrise convincente, commosso da quella donna così determinata eppure così fragile in certi momenti, così abbattibile se ci si impegnava. - Voi non conoscete il do vere, Venanzio – disse. Er ano anni che non pro-nunciava il suo vero nome. Lui lo f aceva spesso, quando era certo di non essere udito, lei invece a veva se mpre fa tto cred ere di averlo c ancellato dalla memoria. - Saprai cavartela – sorvol ò. Annuì insospettendolo. Non era da lei arren-dersi così fac ilmente, i cas i erano due: o era davvero felice di liberarsi d i lui oppure… e conoscendola la seconda opzione era la più probabile. - Non lo fare, Eufrasia, il t uo sangue è blu, il mio è rosso, ricordalo sem-pre. Io posso tornare a essere chi ero, tu torneresti a essere chi non dovre-sti – le sussurrò all’orecchio rivelando ancora una volta la sua capacità di prevedere i suoi pensieri. - Non vi asp etterò – sbottò i mprevista, raggiunse la bottiglia di cristallo sull’erba e la scolò quasi in un sors o con un nervosismo che tradiva il suo cervello in fermento. - Lo so – concluse Venanzio diretto verso il cavallo. - Non m i costringete a fa re la moglie devota in attesa del cavaliere che torna! – esclamò esasperata, aiutata dall’alcool che scioglieva il suo orgo-glio. - So anche q uesto, volevo esserne solo certo. Resti qui e torni a piedi op-pure accetti un passaggio al castello fun esto del tuo sposo cattivo? – la prese in giro, continuava a farlo, aveva un’ aria strana, come se non temes-se nulla, come se avesse rinunciato alla lotta, come se ritenesse vano qual-siasi tentativo con lei. - Mi ci avete portata e con voi tornerò – rispose, riuscendo a salire usando la staffa come leva. Lui annuì e le cinse la vita con delicatezza inconsueta. - Davvero insolito il nostro modo di chiudere un rapporto – commentò tra sé, lei si voltò per scontrarsi con un suo amaro sorriso. - Siete voi a volerlo – ringhiò. Non sapeva esattamente su quale l ivello si trovasse la lo ro assurda co nversazione. La stava l asciando. Mentre traev a questa conclusione, il bacio che le rubò le tolse il fia to senza darle il tem-po di reagire o forse semplicemente era ciò che aspettava da mesi. Non lo

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abbracciò, serrò le mani alla sella, mentre lui la strinse più forte e la desi-derò, ma non avrebbe fatto quella m ossa, certo di cadere nel tranello vero di una donna co mplicata e fragile come cristallo. Se l ’avesse infranta non avrebbe trovato una magia per rimetterne insieme i pezzi. - Nessuno di noi due lo vuole – disse tirando le redini, voltò l ’animale. Cavalcò verso la dim ora che un tem po era stata il lo ro sogno e che ora, chiusi dentro come due prigionieri, era il loro incubo.

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CAPITOLO II Chica er a la domestica mulatta più anziana dei de s Fleuves. No n dimo-strava i suoi cinquant ’anni, considerando la vita di una serva alla fine del 1700. Silenziosa e attenta, si prendeva cura del palazzo grata al conte per averla presa a servizio. Si diceva foss e una strega. Non la era. S emplice-mente conosceva molti ri medi per lenire il dolore e curare l ’animo. L’arrivo dei nuovi francesi a Fort Ro yale aveva significato per lei abban-donare i campi e assu mere ciò che potev a essere definito un ruol o di go-vernante. Nora, colei che serviva i duchi Rues de Martin, l’aveva aiutata a entrare in sintonia con la nobiltà del continente. Aveva imparato alla svel-ta. Persino l’abito scuro con il grem biule bianco che le erano stati imposti le sem bravano eleganti rispetto agli stracci che era solita indossare nei campi, quando qualcuno aveva avuto la piet à di farla lavorare. Da tre anni la sua vita era mutata, ringraziava Dio per questo, giurando fedeltà ai pa-droni. Xavier si fidava di lei, fu questo il motivo per il quale Eufrasia la scelse per sapere quel che c’era da sapere. Ancora in visita a Lisette, dopo aver passato la notte nel porticato del pro-prio palazzo, si fermò nel corridoio e guardò oltre la finestra. Vide giunge-re il marito che a sua v olta si accor se della su a presenza dal cavallo all’esterno. Si ritrasse per non farsi scorgere. Si chiese cosa fosse venuto a fare da suo padre, erano soci in a ffari, certo, ma non si erano particolar-mente simpatici nella tolleranza che il conte gli riservava. In quel momen-to Chica passò. La fer mò, assumendo quell’aria superiore tipica d ella sua posizione capace di inti morire i servi. Con un gesto del capo le chiese di seguirla in una delle stanze che sapeva vuote. - Pulisci il corridoio, in ginocchio, davanti allo studio del conte, quando il duca sarà dentro – le ordi nò seccamente meravigliandola. Non era la sua padrona, non aveva voce in capitolo al l’interno della casa del con te. Cor-rucciò le sopraciglia scure. - Ho un abito che sarei intenzionata a gettare via, di seta, prezioso, rifinito di rubini. Sarà tuo se mi obbedisci – la corruppe o al meno tentò d i farlo. La serva fedele al padre, non era intenzionata a giocarsi tanta fiducia. - Non ti sto chiedendo di ingannare il tuo padrone. Voglio sapere cosa mio marito ha da dirgli. Lava d i gomito e ascolta ogni pa rola, poi m i riferirai tutto. Oggi pomeriggio ti aspetterò ne l mio palazzo per pagarti il servizio – fu più chiara.

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- Perché questa richiesta? – sussurrò la donna trov ando in lei una vaga malinconia. - Non deve i nteressarti, la tua reputazi one non verrà intaccata e mi arre-cherai un fav ore che sola non potrei mai ottenere – sbuffò seccata, non sopportava d’essere nelle mani di un servo. - Vostro m arito non vi pa rla, duchessa? – indagò invece Chica c ome s e riuscisse a leggerla dentro. - Mio marito si diverte a far mi amare sorprese, lo conosco e so co me pre-cederlo. Nulla di m ale, Chica, solo un gioco tra noi – sorrise forzosa. La donna la scrutò accettando quell’incarico. - Siete triste, duchessa, e un inganno sull’ inganno non vi porterà gioia – la fulminò. Con la mano la cacciò via, l’ altra comprese d’averla colpita. Eu-frasia uscì dalla stanza per raggiungere Lisette, con la quale avrebbe am a-bilmente conversato, mentre Chica carpiva il segreto di Venanzio, il moti-vo per il quale le av eva fatto sapere che presto se ne sarebbe andato. La contessa, riversa sul letto, pallidissi ma come sempre, le sorrise quando la vide entrare e stese le mani per farsele stringere. - Zoraide, voi siete la m ia luce in questi giorni terribili – si lam entò, sul ciglio di un precipizio che Eufrasia non credeva pericoloso. Ma Lisette era debole, Lisette sembrava consumarsi g iorno per gio rno. Trem ò all’idea che potesse morire. - Giorni terribili, Lisette? Presto sarai madre, non sono giorni terribili, so-no gior ni di attesa – le sorrise sul ci glio del letto, la gonna vaporosa dell’abito blu a lim itare i movimenti dopo gi orni di libertà con abiti ma-schili. - Credete che sopravvivrò, mi sento così indifesa, non riesco a mangiare come dovrei - piagnucolò. Eufrasia le porse un altro sacchetto pieno di dolcetti al cioccolato. - Regalo di Nora – la prese in giro . Lisette non esitò a co minciare a man-giare. - Dipende da cosa ti si offre, no? – le diede un buffetto sul naso. Le se m-brava d’essere una sorella per lei, le piaceva prendersi cura del suo anim o affranto, a tratti riusciva a regalarle l’allegria che in lei non esisteva più da tanto tempo. Xavier alzò gli occhi dal registro e vide il duca entrare co me suo solito, senza bussare, senza salutare, senza educazione. - Cosa volete? – ringhiò. Era ancora risentito con lui per il segreto che a-veva mantenuto.

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- Le navi sono pronte per la part enza – annunciò, sedendosi sulla poltron-cina e mettendo impunemente i piedi sulla scrivania. - Togliete i vostri luridi stivali dal mio tavolo – ordinò seccato. - Non sottilizzate, conte. Vi ho detto che le navi sono pronte a salpare. Cosa pensate di fare? – lo sorprese. Cosa aveva intenzione di fare? Era lui che avrebbe dovuto dirglielo. I capitani erano stati reclutati? L ’idea azzar-data era stata realizzata? Glielo chiese in silenzio. - Dovremo arrangiarci – fu oscuro. - Parlate chiaro, Stolfo! Sono stanco delle vostre mezze parole – sbuffò. - Avete ricev uto una lettera e… - vide uno straccio sulla scrivania, mac-chiato di sangue, sapeva r iconoscere il sangue anche se vecchio e rappre-so. Posò i piedi a terra. Si sporse per osservarlo meglio. - Che accidenti è? – sbottò schifato. Alzò gli occhi su di lui. - Siete stato male? O forse Lisette… - azzardò preoccupato. Xavier scosse il capo, afferrò il lem bo di stoffa per osservarlo anch’egli con una sorta di disgusto. - E’ sangue – disse. - Lo vedo – sospirò il duca. - E’ il sangue del re – chiuse gli occhi tristemente. Venanzio ebbe un atti-mo di esitazione, sapeva d a dove veniva, più o meno, ma faceva poca dif-ferenza. - Come lo avete avuto? – lo interrogò. - L’ho comprato, i plebei lo vendo no al miglior efferente – rivelò malin-conico. Il duca scosse il capo incredulo. - Raccapricciante – commentò. In cambio ebbe un’occhiata di sfida. - Non guardatem i così, io non ho mai intriso fazzoletti nel sangue delle mie vittim e, onestamente delle mie vittime non m e ne è mai im portato nulla – si vantò. In quel momento a Xa vier parve la persona più retta del mondo se rapportata a coloro che invece si erano gettati sulle stille del do-lore per farne dei trofei. Distolse lo sguardo dall’ assassino che av eva da-vanti nell’inconfessabile stima che gli riservò senza volerlo. - Avete ricev uto una lettera – lo distra sse. Xavier vide la busta e gliela strappò di mano con rabbia. - L’avete aperta – sibilò . Estrasse la lettera e vide subito che era scritta piuttosto fitta. - E’ giunta in un momento già difficile per voi e… - - Avete aperto una lettera indirizzata a me! – batté il pugno sulla scrivania. - Non polemizzate, conte. Leggetela, dopo vi sem brerà un’ inezia la mia invadenza, credetemi – lo zittì. Si accese il sigaro con noncuranza . L’altro sbuffò, posò gli occhi sulla calligrafi a ordinata. Lesse. Lesse sil enziosa-

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mente in un incalzare d’int eresse e disdegno che cambiò il colore del suo volto a più riprese, che lo fece sbianc are, arrossare, poi sbiancare di nuo-vo. Lesse con il fiato gross o, con il tre more delle mani a far vibrare il fo-glio sotto l o sguardo fisso di Venanz io che quella let tera la s apeva a me-moria. Poteva capire quali punti turbavano di più il suocero, quali descri-zioni potevano farlo stare quasi male. La descri zione della gente che si avventava con bestialità sul sangue del re lo fece trasalire e scrutò istinti-vamente lo straccio intriso che aveva accanto. Quando lesse la firma fina-le, si appoggiò allo schienale esaust o, il respiro rum oroso, a scatti come quello di E ufrasia. Erano proprio simili, Venanzio sorrise constatandolo. Xavier rifletté lungam ente, dim entico di lui e della propria vita, con un salto mentale tornò in Francia, a Parigi, in una via maleodorante che ri-cordava bene. - E’ un massacro – commentò miseramente. - Uno scannamento tra porci, poca roba. Quella lettera è giunta per salvare qualcuno. Avete intenzione di risponde re all’appello o preferite ignorare tutto e struggervi sul quel feticcio che rappresenta la fine del vostro intero ceto? – lo riprese annoiato il genero. - Uno scannamento tra po rci, non avete altro da dir e, Stolfo? In Francia stanno assassinando chi unque respiri e voi vi annoiate, voi fum ate il vo-stro sigaro come se nulla vi sfiorass e! – si arr abbiò senza un motivo, co-nosceva quell’ uomo, i suoi m odi, ma in quel m omento il senso d’impotenza lo pervadeva, l’ingiustizia lo spezzava, l ’impossibilità di po-ter agire lo faceva sentire misero. Lui, il conte des Fleuves sentiva le mani legate. - Non sono legate le vostre mani, avete tutti i mezzi necessari per rispon-dere a quella richiesta e ri uscire nell’ impresa – lo svegliò il duca di mo-strando di saperlo leggere come un libro aperto. Sobbalzò e ritrovò il pro-prio essere, la propria indole, si accorse di avere in lui un appoggio inspe-rato. Si alzò per versarsi un bicchiere del buon rh um delle distillerie del duca Rues de Martin. - Non mancherò, Saux conta su di me - sussurrò. - Lasciateglielo credere che può contare su di voi e f atelo muovere al me-glio, l’impresa richiesta non è impossibile per chi non ha sangue blu nelle vene – sbuffò il fumo del sigaro con platealità. Xavier lo guardò oltre la spalla. - Quando partiremo, Xavier? – si sentì chiedere. Corrucciò le sopraciglia. - Non crediate di potercela fare da solo, voi non dovrete scoprirvi, sarò io a fare il lavoro sporco e posso garan tirvi che non fallirò – sorrise sornione il bandito.

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- Voi siete pazzo – storse il naso. Vena nzio lo raggiunse e gli si parò da-vanti. - Potrà pure darvi un senso di ribrezzo sentirvelo dire, ma io sono un as-sassino, sono stato pagato da quelli come voi per ammazzare in tem pi non sospetti. So strisciare, celarmi, faccio parte di quella bolgia da fogna, ho il loro stesso sangue m arcio nelle vene , parlo il l oro linguaggio, c ammino come loro, p enso come loro, saprò ingannarli co me s’inganna un bambi-no. Voi dovrete solo attendere ed e ssere pronto allo scatto finale per la fu-ga – gli sibilò in faccia. Xavier so cchiuse gli occhi per reggere il suo im -peto e conob be forse per la prima volta la vera natura del genero, scorse nel bagliore ferino dei suoi occhi la fero cia che ne aveva fatto un a ssassi-no e che ave va abbagliato Eufrasia. Era un animale, tremò dentro renden-dosene conto . Poi la fiamma di quello sguardo scuro scem ò magnanima dando il passo al solito mezzo sorriso ingannevole. - Non vi permetterò di farvi tagliare la testa – concluse Venanzio. - Non sarà come dite voi – non volle tacere il conte. - Sarà molto peggio, lo so, ma vedrò di regolarmi di conseguenza – ribattè il duca afferrando lo straccio intriso del sangue del re. - E sarà il sangue a farci riconoscere, i loro complici sapranno chi sta dalla loro parte e lo sapranno q uando vedranno il colore d el sangue – fu mac-chinoso. Pane per i suoi denti affilati tutto quell’intrallazzo! Xavier lo fis-sò, sapeva di non poterlo fer mare, sapeva che aveva organizzato tutto prima ancora di incontrarlo, che aveva in testa un percorso preciso, sapeva tutto, tranne il proprio ruol o, ma avrebbe saputo anch e quello e lo sapeva perfetto, come ogni inganno di Stolfo o meglio… di Venanzio Sauvage. - Domani, conte, all’ alba ed entro un mese saremo in Francia. I gesti giu-sti, le azioni sincronizzate e tornere mo in Martinica in com pagnia – con-cluse, appoggiando la mano sulla maniglia. - Perché lo fate? – lo fermò - Ve lo devo – - La verità, Stolfo – lo apostrofò. - Voglio andarmene, questo lu ogo è stretto e no n ho più la gi oia a tratte-nermi. Voglio andarm ene e riscattar mi, vi devo anche questo. E poi non voglio sapervi m orto, Zoraide non lo sopporterebbe – lo esaudì. Non lo trattenne e rimase a pensare. Venanzio uscì, notando la serva del co nte che lustrava con veemenza il pavimento, l’acqua a bagnarle la gonna nera. Alzò lo sguardo verso le sca-le e sospirò. Eufrasia a volte sapeva essere sciocca.

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Le navi erano pronte come aveva detto il duca poche ore prima. Xavier a cavallo le osservò, si soffermò sugli equipaggi intenti nelle ultime faccen-de prima di lasciar e la Ma rtinica in direzione di un paese che av rebbero preferito evitare. Abitualmente erano comandati da capitani privi di titolo nobiliare, aleggiava tra lor o il ti more che questa vol ta un nobile potesse dirigerli e per questo metterli a rischio d i vita. Tornò cavalcando al palaz-zo dove Lisette lo attendeva per la cena che avrebbero consumato in ca-mera. Il medico era stato perentorio: non avrebbe dovuto alzarsi sino alla fine della gravidanza. Si chiese con quale coraggio le avrebbe fatto sapere che sarebbe partito. Era forse lo scoglio più alto quello, ma lo avrebbe su-perato. Un urlo assordante lo colpiva al cuore, il senso della giustizia lo azzannava, una pietà illi mitata lo st ava dilaniando, solo immaginare cosa stava accadendo l o faceva sentire piccolo davanti alla bestialità um ana. Aveva conosciuto un uomo terribile capace di ammazzare un innocente per soldi e ne aveva fatto il suo migliore amico, facendolo du bitare di se stesso. Ora tutto pareva nullo, la crudeltà u mana oltreoceano era più forte del senso di colpa che da anni lo f aceva sobbalzare di notte e trasalire di giorno. Perse in quella corsa ogni rem ora verso se stesso, ripensò a sua fi-glia, alle sue scelte mostruose, a V enanzio Sauvage, al suo passat o male-detto. Ringraziò Dio che ancora una v olta gli stava dando l’arma migliore per vincere, quell’arma era il duca Stolfo Rues de M artin. Scese che il ca-vallo non era neppure fermo e raggiunse la stanza della moglie che lo at-tendeva come si attende la luce. Entrò, la guardò lungamente, teneramen-te, il dolore a salirgli in gola, il rimpianto, la nostalgia già a bussare contro il petto per entrare e farlo sanguinare. Si sedette accanto a lei e le serve portarono davanti alla donna il vassoio con la cena. - Xavier - so spirò la giovane neppure ventenne. Er a sempre più pallida. Lasciarla gli fece credere di poterla anc he perdere. L e accarezzò la guan-cia fredda, sorrise rassicurante. - Zoraide è stata con me tutto il giorno – lo informò. Sua figlia er a stata a palazzo quel giorno? Le sue visite stavano diventando un po’ troppo fre-quenti per il suo m odo d’esser e. Ebbe una prem onizione, la sensazion e che Eufrasia non la raccontasse proprio giusta. Non s i fidava di lei , aveva cessato di farlo da molto tempo. Non mostrò i propri dubbi, spiluccò della frutta, non aveva fame. - Cosa vi disturba? – Lisette colse in lui un’espressione cupa. Xavier scos-se il capo, sapeva di no n poter rimandare. Se davvero Venanzio aveva di-sposto per il meglio, il giorno dopo sar ebbe partito. Ma come poteva far-lo? Sua moglie stava male.

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- Presto dovrò lasciare la Martinica – sparò, non volle tergiversare. Lisette trasalì e si agitò, m a un ab braccio la pla cò, il cuore di entra mbi a battere così forte da sfiorarsi in quel contatto. - Mi lascerete sola? – si lamentò presa solo da quel pensiero. - Poco tempo – farfugliò. Egoista, si sentì anche egoista. Cosa sarebbe an-dato a cercare in Francia? Quale riscatto voleva ottenere? Pensava davve-ro di potersi lavare la coscienza c on il sangue delle strade di Parigi? De-glutì. - Le navi son o ferme e i capitani dissol ti nel nu lla, io sono capitano e lo sarà anche Stolfo se vogliam o che la produzione di questi ultim i sei mesi non vada perduta – balbettò con la gola gonfia. Stringerla significava per-cepirne la fragilità, pareva fatta di cr istallo, smise di farlo nel tim ore di spezzarla. - In Francia? – alzò il volto arrossato, gli occhi azzurri come il cie lo ades-so macchiato del sole morente. - No! Non in Francia, si tr atta di un affare fuori dal controllo della madre patria, per questo ci voglio io e il mio titolo - sorrise falsamente, evitando-le una preoccupazione che avrebbe pot uto dannegg iarla. Lisette sospirò rincuorata. Si asciugò gli occhi con il polso e sorrise infantile. Era un a bambina, non c’era nulla da fare. La baciò delicata mente, pose lo sguar do sul ventre ancora piatto i mmagi-nando quell ’erede che il destino gli stava riservando, chiuse gli occh i nell’immagine meravigliosa del giorno i n cui sarebbe nato. Una sferza lo fece tremare pensando a Eufrasia, al suo silenzio, alla sua presenza assen -te. Cancellò quel cruccio, continuò a stare accanto alla sua splendida don-na bambina che era tornata a esser e ciò che in passat o le era stato negato in una locanda malfamata. Desiderò stare con lei, sdraiato, nel buio, ad a-scoltare il suo respiro, a sfiorare i suoi sogni, a darle quella sicu rezza e quel calore di cui aveva bi sogno, che gl i chiedeva ogni giorno con il solo sorriso delle labbra sottili. Così fu pe r lui che sapeva essere l’ulti ma notte accanto a Lisette. Poi l’ avrebbe ricordata ogni m inuto e quando la morte lo avesse messo al muro il suo pensiero sarebbe stato per lei. Forse non sarebbe accaduto, forse tutto sarebbe a ndato liscio, forse. Chiuse gli occhi in un sospiro all’unisono con la sposa addormentata e non dormì, non lo avrebbe fatto per mesi. Chica entrò nella di mora sfarzosa dei duchi Rues de Martin, si guardò in-torno estasiat a. Il lusso e l ’esagerazione scintillante f urono per lei appa-ganti. Non vi era mai entrata, Nora era sempre venuta al pala zzo del pa-drone. Percorse il corridoio in m armo bianco, poi si fermò in attesa che la

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duchessa si presentasse. Erano quelli gli accordi. Percepì un rum ore. Comparve davanti a lei come un fantasma. Ve stiva con un abito bordeaux che la faceva sembrare un abitante della notte. Era notte e si guardò intor-no. Portava con sé un vestito nero dai ricami scintillanti, la guardò seriosa, ma non crudele, non cattiva. - Ti ascolto – disse secca. Chica racc ontò la conversazione che aveva udi-to, non dimenticò nulla, a nche se ogni parola per Eufrasia non aveva un senso pieno, era come se Venanzio avesse intenzionalmente parlato in co-dice. Ciò che colse fu solo che dovevano partire e farlo presto, ch e dove-vano nascondersi per co mpiere una missione difficile che il conte non a-vrebbe potuto espletare mentre il duca si. Ci pensò su e chie se altri chia-rimenti alla serva che non poté rispond ere, forte della propria memoria aveva solo ripetuto ci ò che aveva udito. Soddisfatta le porse il pattuito, Chica ne fu felice, i rubini applicati avevano un valore i mmenso. Prese in consegna l’ abito e lo osservò nella penom bra. Sorr ise a quella donna e-nigmatica, oscura, dagli occhi grandissimi e neri come la pece. Lentamente estrasse dalle tasche enormi due sacchet ti e un nastro rosso. Eufrasia si adombrò. - Portate con voi questo nastro, duchessa, vi porterà fortuna, ha il colore del sangue – si fece suadente. Lei lo prese tra le dita affusolate. - Cosa ti fa credere che io debba andare via? – si fece sospettosa. - La vostra paura, duchess a – fece un inchino rispettoso. Insistette perché prendesse anche i due pacchettini che contenevano delle boccette. - Il liquido rosso stillatelo ogni giorno sulla lingua sino a quando si esauri-rà, quello incolore è un veleno che dà morte apparente per il tempo di una notte, potrebbe servirvi - aggiunse. Euf rasia le afferrò un polso per impe-dirle di andarsene. - Perché vuoi che io beva il tuo intruglio? – sibilò. - Lenite il vostro dolore, placate la paur a. Mi date molto per un servizio misero, è il mini mo che io possa fare per ricam biare il vostro dono - f u ancora oscura. Lei sbuffò esausta. - Prenditi cura di Lisette nel migliore dei modi, Chica. Il conte si fida di te e io con lui, quella donna è piegata e non ne comprendo il motivo – sorvo-lò, anche se quelle due pozioni la interessarono molto. - Il passato la sta piegando, duchessa, e io cancellerò il suo passato – sor-rise la donna così dolcemente che Eufra sia si sentì tranquilla. Non la fer-mò più, quando se ne andò. Chica le riservò uno sg uardo adorante per il regalo fattole in cambio di poca cosa. Rimase immobile nel corridoio, riascoltò dentro ciò che l’aveva più turba-ta. La paura. La paura la stava muovendo o la stava immobilizzando. La

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paura del futuro vu oto, di perdere chi amava. Chi amava. Strano m odo di amare il suo, strano modo di difendersi, strano tutto di lei che stava mu-tando, che si preoccupava per suo pad re, per Lisette, per Venanzio, di-mentica di se stessa. Cancellò quelle remore, si concentrò su ciò che i due uomini si erano detti. Raggiunse la camera, il marito doveva esser e al por-to. Salì le scale, nascondendo ciò che l e aveva dato Chica tra le pieghe della gonna ampia. Giunta nella stanza osservò l’armadio ricolmo d’abiti e toccò con la mano quelli neri che non aveva mai voluto gettare, nonostan-te le richieste di Venanzio. Sentì una nostalgia assurda addosso. Rammen-tò i giorni in cui era la Vedova, inavvicinabile, velata e forte, fortissima, capace di uccidere per amore, mentre ora… lo stava uccidendo l’amore, lo stava facendo a pezzi. Si spogliò, indossò la camicia da notte scura. Respi-rò pesantemente, osservò il nastro rosso che Chica le aveva dato. Il colore del sangue. Scosse il capo, posò lo sgua rdo sulle boc cette. Si sedette da-vanti alla specchiera, petti nò i lunghissimi capelli neri, non l i tagliava dal giorno in cui aveva messo piede in Martinica, le arrivavano oltre il fondo-schiena, er ano lucidi co me la notte . Guardò ancora la boccetta con il li-quido rosso e istintiva mente la pr ese in mano, l’aprì, ne versò due gocce sulla lingua. Vino. Chica la prendeva in giro. Era vino, sapeva riconoscere il vino, anche se il sapore era fortemente fruttato. Sorrise. Ripose la boc-cetta con prudenza. Qualc osa le dic eva di fare ciò c he la s erva l e aveva detto. Per lenire il dolore. Per lenire il dolore di un distacco inevita bile. Si portò la testa sulle braccia appoggiate al mobile. Chiuse gli occhi. I l dolo-re. Si guardò allo specchio, gli occhi sci ntillanti e fieri, le sopracciglia ri-gide e quella destra leggermente inarcata in un’ espressione che ormai era leggenda. La porta fece rumore. Guardò il riflesso dietro di sé. Sobbalzò, fece per alz arsi, ma de morse con una rassegnazione che la uccise dentro. Non funzionava il vino di Chica. Venanzio entrò dandole una fugace oc-chiata. Notò poi l’armadio aperto, gli abiti scuri. Sorrise tra sé. - Presto potrai indossarli nuovamente, se le cose assumeranno i risvolti che speri – fu am aro immaginandola vedova, ma vedova vera questa vol-ta. Lei si voltò di scatto adirata. - Siete disgustoso – lo accusò ferita. - Sono quello che sono, Eufrasia! Sono cambiato per te, ma non ne è valsa la pena – ribattè. - Non raccontate storie! Siete divenuto ciò che siete per voi stesso, prim a di ritrovarmi, prima di… – - Taci, ti prego! – si seccò. - No, non taccio! Non finché non mi direte cosa andate a fare in Francia –

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- La cosa non deve interessarti, non so no faccende da donne – la offese, si divertiva a colpirla in ogni punto debole. - Andate a f arvi ammazzare, voglio sapere il motivo – sbuffò. Venanzio sogghignò cercando una s acca dove mettere gli abiti per il viaggi o immi-nente, un baule era già stato caricato sulla nave. - Voi e mio padre – precisò. - Non ti ha soddisfatto il resoconto della serva che hai corrotto? Un po’ come ai vecchi tempi, no? L’hai pagata per un servizio, mi meraviglio che non hai assoldato un assassino per rivivere forti em ozioni – le fece saper e di sapere. Lei trasalì. - Pulire un pavimento già pulito non è st ato molto furbo da parte sua, pro-babilmente l’idea è stata tua che i pa vimenti non li hai mai lavati – la sti-lettò. - Voi mi odiate – si impuntò come una bambina, ciò che non era mai stata. - Quelli che odiavo li ho già ammazzati tutti – sbottò. Fece per u scire, la partenza era prevista per la mattina dopo. - Dove credete di andare? – lo rincorse nel corridoio. - Dove pensi che vada un uom o che sta per im barcarsi? – le strappò una lacrima, sempre una, mai di più. - Siete un bastardo – ringhiò. - O un eroe, dipende dai punti di vista – Continuava a farle male, era abile e crudele, del resto non era mai stato un santo e lei er a riuscita a fare ciò che aveva fatto con suo padre: cavarne fuori la parte peggiore. - Vi rifiutate di com prendermi – si lam entò appoggiata al muro contro la luce della luna che occhieggiava dalla vetrata dal fondo dell’andito. - Patetica – concluse certo d’esser preso in giro. - Mi rimpiangerete, se davvero avete intenzione di non tornare più – - Sono mesi che ti rimpiango, Eufrasia. Non sarà il resto della vita a farmi paura – chiuse il discorso. Se ne andò laddove ogni uomo era solito andare prima di i mbarcarsi. Eufrasia corse sino all’ inizio della scalinata e lo os-servò uscire. Pianse e questa volta non fu una lacrima, ma un mare di pau-ra. Paura. Av eva paura. C hica la oss essionava con il suo volto scuro e le parole lungimiranti. Paura, paura, paura. No, non voleva avere paura. Pau-ra di vivere l a stessa disperazione di tredici mesi prima, paura di non ve-derlo più. Paura di diventare una suora. Una suora? Scosse il capo confu-sa, quel pensiero e un vortice di ricordi la travolsero. “Non voglio divenire suora, no… e se non voglio non la sarò. Non voglio rimanere sola e se non voglio così sarà. Non voglio e non lo farò” pensava discordante.

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Non c’era uomo al mondo che potesse imporle il proprio volere, fosse sta-to suo padre, fosse stato suo marito. No, non vol eva avere paura, no! Rientrò nella stanza veloce e veloce fece mente locale. Sentì dentro qual-cosa, guardò le boccette, corse con gli occhi ovu nque. No, non avrebbe avuto paura. Il sole era alto e gli equipaggi pronti a salpare. Le vele spiegate dei velieri si lasciavano sfiorare da un vento fa vorevole. Un mese di navigazione sa-rebbe stato tranquillo, le tempeste erano più frequenti in luglio e agosto da quelle parti. Era metà maggio ed entr o giu gno avr ebbero visto le coste della Francia in fiamme. Xavier sc ese da cavallo, un servo nero portò all’interno dell’Etrangé i bagagli per poi prendere in consegna l’animale e riportarlo alla tenuta del nobile. Entr ò nella Locanda del Porto e vi trovò Venanzio appoggiato sul bancone a fu mare un sigaro con la tra nquillità che si addiceva al suo carattere. Un a donna si allontanò da lui, quando vi-de il conte, c ome se sapesse qual era il loro vero grado di parentela. Xa-vier la osservò defilarsi provando un fastidio che non celò. - Dunque, avete deciso di seguire il mio consiglio – lo salutò Venanzio senza guardarlo. - Dove avete passato la notte? – chiese fermo il conte. - Lo volete sapere co me uomo o co me padre? – sussurrò l’ultim a parola. La risposta fu eloquente pur senza ammettere nulla. - Ma cosa diavolo credete di fare? – lo accusò seccamente. - C’è un piccolo particolare che non ho mai considerato accecato dal fa-scino di Zoraide… - lo interessò con uno sbuffo quasi animale. - Vi so migliate come due gocce d’ acqua, solo che io non sono voi e lei non è me e quindi… - - Siete ubriaco – tagliò corto Xavier. - Sapete ben e che non mi posso perm ettere neppure questo, cont e. Sono lucido e consapevole di essere stato a letto con una prostituta perché vo-stra figlia mi nega la compagnia di una moglie – sparò. Ormai erano gi or-ni che sparava, iniziava a prenderci gusto. Il suocero non ebbe parole. Le grida dei portuali li riportarono alla r ealtà, veloci si misero dritti per por-tarsi accanto alle due navi cariche e pronte per il viaggio. - Per accelerare i tempi ho dovuto stivare anche parte delle riserve di rhum pregiato. Non è un pro blema, vero? – ruppe il silenzio Venanzio. Xavier approvò e dispose i due equipaggi che si misero ai loro posti. - Sarà la migliore moneta di scambio, credetemi – rise il duca salendo sul-la Belle di c ui era ancora proprietario. Ca mminò sulla passerell a con il passo di un uom o deciso e rabbioso, non si voltò neppure verso la terr a

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che era stata la sua fortun a, non si chiese se sarebbe tornato, sape va che non lo avrebbe fatto. Niente lo aspettava, ogni tentati vo era andato a vuo-to, perdere p er lui era insopportabile . Non sarebbe tornato laddove aveva perduto la sua lotta, no n sarebbe tornato davanti al suo nem ico vincitore. Non si voltò, mai, neppure quando l ’ancora risalì rum orosa, lo sguardo all’immensità dell’oceano che lo salutava beffardo i n un ritorno che mai avrebbe ipot izzato. La Belle, se ppure più grande, avrebbe seguito l’Etrangé, guidata da un vero capitano che di mare e navigazione ne sape-va. A distanza avrebbero diretto quella piccola flotta. Il vento si fece so-stenuto, come a voler affr ettare il loro viaggio, come se Dio fosse impa-ziente. I gabbiani li accer chiarono in una specie di parata trionfale, Ve-nanzio sorrise ascoltando i loro versi neppure tanto piacevoli. Erano degli avvoltoi, per come la vedeva lui. Xavier dal canto suo non riusciva a t ogliersi dalla tesa il pianto sconnesso di Lisette e la pietosa bugia di un viaggio nella vicina Giamaica. Improba-bile, ma lei ci aveva creduto. Pensò a Eufrasia che non aveva avuto la gen-tilezza di salutarlo. Tutto era stato profondamente triste e si chiedeva co-me Venanzio riuscisse a ridere in certi momenti, come aveva potuto mori-re tra le braccia di una donna a pagam ento, mentre sua moglie era destina-ta a una solit udine certamente lunga. C he avessero dei problemi non era un m istero, visto l’ accaduto, ma… vols e l’ attenzione alla poco distante Belle e lo scorse sul pont e, agghindato da nobile ba ldanzoso, i d iamanti dei bottoni a scintillare sotto il sole , i capelli screziati di sale a muoversi lievi all’aria di un oceano impervio e aleatorio. Ordinò agli uomini le ma-novre d’obbligo e riuscì con il passaparola a dare gli stessi ordini alla Bel-le. Il duca fece spallucce, f also capitano non era in gr ado di gestire un ve-liero ed era st anco. Si ritirò senza fr etta in quella che era stat a la cuccett a di Eufrasia la notte in cui a vevano tentato la sortita verso l’America. Ebbe un attimo di nostalgia, ma soprassedette. Entrò. Vide subito il piccolo letto sul quale l’aveva amata in una follia scherzosa che lei aveva accettato con la freschezza di un’ età che aveva ancora, erano passati pochi anni. Si se -dette su quell o stesso letto stretto, fu mò il suo sigaro con tranquillità. Lo spense poi in terra e si sdraiò con le mani alla nuca. Faceva caldo, la giac-cia era pesante, la tolse sbuffando. Si addormentò esausto dopo una notte intensa e insonne ovv iamente. Sognò, ma non seppe ricordare cosa, riaprì gli occhi scorgendo una notte assoluta oltre l’oblò aperto. La brezza fresca lo sfiorò, si stiracchiò come un gattaccio stanco. - Ve la farò pagare per ciò che avete a vuto il coraggio di fare stanotte – lo sorprese una voce che lo fece tras alire. Si sedette di scatto, la ma no alla pistola che non aveva mai smesso di portare al fianco.

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La vide. Nella penom bra dell’angolo più distante la vide. Le mani incro-ciate al petto, la ca micia da uomo sbuffante, i pantaloni scuri. Ma ciò che vide bene di lei fu lo scintillio degli occhi. Si alzò minaccioso. - I giochi sono fatti, Stolf o. Evitare gesti inconsulti perché non potete tor-nare indietro – avanzò verso di lui. - Credi di av ermi meravigliato? – la sbeffeggiò, cer cò un sigaro, ma la mano della donna lo fermò afferrandogli il polso. - Affatto, avete messo su una co mmedia grandiosa, il solito palco da tea-trante per trascinarmi con voi – non cel ò di avere capito. Si fissar ono du-ramente, ma si capivano, Dio solo sapeva quanto. S i scrutarono co me un tempo, con il sangue di quel tem po, con la follia di quei giorni. Eufrasia non interruppe il contato con lui, serrò l a mano e conficcò le unghie nella pelle senza che l’uomo manifestasse dolore. - Mi è costato un occhio farti credere che ho passato la notte con una pro-stituta – si liberò di lei. - Mi costa la dignità farvi credere che vi credo – si sedette sulla sedia della piccola scrivania. Era tutto piccolo in quella cabina. - Penso che sarebbe opportuno dirmi cosa state combinando voi e mio pa-dre, visto che ci sono dentro fino al collo. Per quale motivo sto andando in Francia a rischiare la lama del boia? E’ un m otivo im portante oppure è una delle vostre commedie? – fu grezza nel parlare e nel muoversi. - Saprai tutto a tempo debito, tu pensa a muoverti come ti dico io – tagliò corto, finalmente trovò il sigaro tanto agognato. Stava tornando tutto com e prima. Il sapore dell’i nganno, della complicità dava un senso a quel viaggio senza sen so. Eufrasia lo osservò, mentre il caldo lo costringeva a levarsi la camicia. - Puoi fare la stessa cosa, non mi scandalizzo – la invitò ironico. - Non siate ridicolo – non lo accontentò, estrasse u na bottiglia di rhu m dall’armadietto del capitano. Lo aprì per berne un sorso a collo. - Non sem bri una duchessa – le fece notare respirando l ’aria proveniente dall’oblò. - Non la sono – rise di sé. Non la riconosceva. Non era vero che aveva in-scenato una commedia, non era vero che l’aveva voluta a bordo e non era vero che aveva speso un occhio per fingere di andare con una prostituta, lo aveva fatto davvero. Sbuffò tra sé, ma si sentiva felice, sentiva lei addosso pur distante e trasformata nuovamente in qualcosa che non era la sua vera apparenza. La regina di pochi giorni prima, sulla s calinata, ora s embrava un uomo avvezzo alle bevute pronto a uccidere. Euf rasia sapeva uccidere, la sua bellezza la rendeva insospettabile. La scrutò oltre la spalla nuda, lei

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alzò la bottiglia in un tacito brindisi. Le t olse dalle mani il rhum e lo ripo-se nell’armadietto. - Grazie – sussurrò inaspettato. Eufrasia ebbe un colpo al cuore. L o inter-rogò silente. - Nessuno di noi lo voleva – aggi unse. Chinandosi verso il m obile si era avvicinato al suo viso. Ne sentì il calore, percepì il profumo intenso di una donna che a vrebbe vol uto prendere subito, senza chiedere, sen za avere paura. Gli occhi così vicini da scavarsi a vicenda. - Ve lo avevo detto che non vi avrei aspettato - aprì una porta, o meglio, la socchiuse. Venanzio tentennò, brutta cosa il tim ore di spezzare u n incan-tesimo. - Ho cr eduto una cosa dive rsa – sussurrò. Le rispar miò gli occhi a ddosso per dirigerli in un vuoto senza confini. - Voi non siete solito credere, voi siet e sempre certo – lo stuzzicò cercan-do lo stesso vuoto. - Giusto - sorrise tagliente, se stesso a tutti gli effetti. - Giusto – ripeté lei. Lo bloccò piantando un piede contro il muro. - Cosa vuoi, Eufrasia? – accettò l’assedio. - La mia vita – ringhiò tagliente, se stessa a tutti gli effetti. - Quale vita? La prima, la seconda o la terza? – la pr ese in giro, la gamba rigida a pressargli il retro delle ginocchia. - La migliore – gli impedì di liberarsi. Si fissarono rabbiosi eppure langui-di. La mano del duca le sfiorò il m ento, le loro bo cche si unirono in u n morso che fu bacio secco, diretto, profondo e volgare. Eufrasia non si irri-gidì, lui se ne accorse. La guardò ancora e ancora. - Un assaggio, Eufrasia, solo un assaggio per ricordarti cosa ti stai perden-do da mesi – le disse ilare, facilmente si liberò della sua labile presa con la gamba. Uscì dalla cabina, aveva caldo, troppo per respirare la stessa aria della moglie che rimase immobile. Eufrasia fissò la porta, anch’essa piccola. Si lasciò andare all’indietro sul-la sedia. Si sentiva leggera, il sapore di tabacco in bocca, il profumo di un uomo sulla pelle delle labbra. Sorrise. La navigazione fu abbastanza tranqu illa, solo qualche bonaccia aveva ral-lentato la cavalcata delle onde. Eufrasia usciva quan do il bu io la poteva celare, qualora il conte l’ avesse scorta avrebbe creduto si trattasse di un marinaio. Legava i capelli con il nastro rosso di Chica per mascherare la propria sagoma, quando la luna illuminava un po’ troppo le navi e il mare. Se ne stava sul ponte, seduta a terra , appoggiata all’albero maestr o, respi-rava l’aria del mare intorno a sé che sem brava proteggerla in un abbraccio

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distante, senza scampo. La notte in m ezzo all’oceano era fres ca, il caldo che sopportava di giorno nella cabina veniva lenito. Si perdeva ad ascolta-re il discorrere scurrile degli uom ini che neppure a vevano n otato la sua presenza, che non sapevano di lei. Venanzio aveva assunto la sua solit a aria baldanzosa, le portava il pasto di giorno, m entre lasciava che l o con-sumasse nel buio di notte. La scherniva e la osservava di sottecchi, ricor-dandole spesso quanto la t enebra le fo sse più conge niale e quanto il nero in ogni sua f orma continuasse a essere il suo elem ento primario. Lei non raccoglieva, di tanto in tanto lo ig norava o gli riservava delle occhiate di compatimento. Era una sfida che se mbrava essere ricominciata. I loro si-lenzi, i discorsi freddi e distaccati li fa cevano sentire paradossalmente più vicini, simili come una volta, quasi sconosciuti eppur e così perfetti in una ferocia che era pronta a scattare contro la crudeltà che sapevano attenderli. Non avevano paura, non della Francia in fiamme, non dei fiumi di sangue, non della m orte che sibilava nello sci ntillio delle lame che calavano ful-minee. Non avevano paura della Rivoluzione, ne avevano di se stessi. Evi-tavano da gio rni di avvicin arsi troppo, d i sfiorarsi, di guardarsi. Se lo fa-cevano era p er scontrarsi a parole, assurdi m a uniti. Erano un mosaico spezzettato che se messo insieme sarebbe stato un q uadro meraviglioso e ingannevole. Eufrasia fissava le stelle sopra di sé nel ricordo che amava coltivare, per-correva il legno del ponte rivedendosi il giorno in cui la Belle era salpata alle volte delle Americhe che poi era stata la Martinica, suo padre sul pon-te austero, Venanzio accanto a lui, complice perfetto di un uomo retto che aveva inclinato la spalla per lasciar scivolare la giustizia in nome dell’amore che nonostant e tutto le av rebbe riservato sem pre. Volse lo sguardo verso l’Etrangé e lo vide nel barlume della luna, aveva una buona vista, poteva distinguerne il profilo. Pensò a Lisette e al fatto che non ave-va fatto nulla per dividerli, perché suo padre era felice, glielo leggeva nel sorriso raro, nel verde inte nso degli occhi. Era felice co me la er a stata lei il giorno in cui aveva scoperto di poter amare, di essere amata. Era felice, nulla avrebbe spezzato quella felicità. E ra partita per lui, per non per met-tere che la fo llia di cui aveva sentito parlate lo abbattesse; era partita per Venanzio, per non perm ettere che la follia dalla quale veniva lo risuc-chiasse in un vortice fam iliare. Era partita per salvare tutti, mentre lei non si sarebbe salvata, lo sentiva. Sarebbe tornata forse, ma il male che Dio le aveva imposto niente l o avrebbe cancellato. So gghignò tra sé, amara ep-pure eroica in una co ndanna che no n discuteva, che pagava con stoico senso della giustizia. Giusto, tutto giusto. Sospirò e scorse l’o mbra di Ve-

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nanzio accanto a sé. Bacia to dalla luna la fissava ser ioso. Si sedette e le porse la bottiglia di rhum. - Davvero lo vuoi sapere? – ruppe il lo ro silenzio con il sigaro i n bocca, dopo avere annusato il rhum . Eufrasi a sorseggiò br evemente, poi lasciò dondolare la bottiglia dalle mani molli tra le gambe flesse. - Se volete che io m i muova come mi dite voi, devo sapere in che direzio-ne andare – sorrise. Aveva gli occhi lucidi. - Luigi XVI è morto – disse Venanzio senza enfasi. - Ghigliottinato – lo precedette. - La condann a per i nobili e per coloro che credono di poter t ornare alle origini – aggiunse. - La condanna alla quale siete scam pato per anni e che ora andate a cer-carvi – continuò. - Quando poserò il piede sulla mia te rra, Eufrasia, ces serò d’essere chi fingo d’essere, il mio nome sarà Venanzio Sauvage, tornato dall’inferno – la turbò, ma non lo diede a vedere. - Ricordalo sempre – La donna non lesinò un altro sorso. - La nostra azione dovrà essere veloce, sincronizzata, efficace. Un solo er-rore e non potremo più gu ardaci negli occhi – conti nuò. Per poco non le andò di traverso il nettare della memoria perduta. Lo scrutò. - Sei disposta a mettere in gioco la tu a vita per un bam bino? – la stilettò inaspettato. Alzò quel suo sopracciglio odioso, sorrise scettica. - Mi state prendendo in giro? – si ribellò. Il termine ‘bambino’ la scuoteva dentro. Era scappata da Lisette barrica ndosi dietro altre intenzioni ed e-goismi. Venanzio scosse il capo in segno di diniego. Eufrasia pensò. Luigi XVI era morto. Luigi XVI era morto. Morto. Il co-lore del sang ue sarebbe stato il loro se gnale. Il loro segnale. Pre se fiato. Luigi XVI era morto, in gennaio se non ricordava male dai discorsi uditi dai servi ignoranti che non sapeva no neppure chi fosse Luigi XVI. E se Luigi XVI era morto, chi era il suo erede? Luigi X VII. Luigi X VII. Rea-lizzò in un momento. Lui colse il suo lampo di genio con un sorriso. - Insolito des tino il t uo, madre negata alla ricerca di un bam bino che la giustizia sta uccidendo – rise divertito, inutilmente pesante. Madre negata. Madre negata. Si offese. Cercò il conf orto del rhum. La mano del duca la fermò, gli oc chi neri le en trarono dentro come saette brucianti, a gevolati dal bagliore bluastro della luna che era intensa e prodiga di sensazi oni. La brezza li sfiorò entrambi. - Madre negata, ma non donna negata. Ri cordalo, tu sei una donna che va oltre – le sibilò in faccia.

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- A metà – fu secca. Cer cò ancora di bere, ma lui la privò della bottiglia per appoggiarla distante. - Non m orirai per questo, non l o permetterò. Sarò n el mio mondo dove sono padrone – la avvertì. - Voi siete padrone ovunque – lo lusingò. - Non senza di te – la mano ad avvolgerle il fianco, perdendosi t ra i pizzi della camicia. - Non toccatem i – fu im prevista raggelandolo. Non le diede la soddisfa-zione di dimostrarsi sorpreso da quel rifiuto, il prim o così esplicito da quando abile lo sfuggiva. Eufrasia non lo guardò, gli occhi fermi a fissare il vuoto notturno davanti a sé senza ve derlo, il corpo rigido com e sass o freddo, la bottiglia distante ad agitarla segretamente. - Sono d’ accordo – parò il colpo il m arito immobile. Colse sulle sue lab-bra un vago sorriso. - Toccarti è un po’ poco – aggiunse. Le fu addosso così velocemente d a non permetterle di difendersi. Niente secondi, niente tempo. Non le con-cesse nulla, neppure la parola che divor ò con un bacio profondo e un ab-braccio serrato, le tolse respiro e ragione. Nessun tentennamento, nulla per lei che stava facendo del male a se stessa. Ne controllò la ribellione soffo-cata dal proprio peso che le im pedì di muoversi. Ascoltò i suoi si ngulti di rabbia sotto le labbra di ferro che continuarono a ru barle un bacio che fu ancora una volta, com e ai vecchi te mpi, un m orso senza dolore, senza sangue. Poi la guardò, i raggi della luna a far scintillare le gocce di sudore che le imperlarono la fronte, il vento dell’oceano a nascondere senza suc-cesso l’ansimare spaventato, la notte a specchiarsi nell’abisso dello sguar-do atro. - Non ti permetterò di cont inuare questo gioco senza senso – le ringhiò in faccia con l’alito di tabacco, la scin tilla della deter minazione a fare d ei suoi occhi saette. - Non ho mai giocato – rispose con un filo di voce che divenne un graci-dio sgraziato. Eufrasia tentò nuovamente di liberarsi, ma era immobilizza-ta, vittima del desiderio di un uomo che la desiderava da mesi ormai. - E’ un gioco crudele che ucciderà solo te, ma ora hai finito, per sempre – non cedette con i sensi a renderlo meno compassionevole. Lei scalciò co -me un somaro testardo senza ottenere nulla. - Sei con me. Perché? – la interrogò roco. Non ebbe risposta. - Te lo dico io – ottenne il suo profilo rassegnato. - Perché mi ami e se mi ami… mi avrai – s entenziò come se st esse be-stemmiando. - Siete ridicolo – fu la misera reazione.

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- Allora ridi, Eufrasia des Fleuves! Ridi forte – la rim beccò intimamente offeso, ma non persuaso. Le mani a sbottonare faticosamente quella cami-cia che avrebbe dovuto conoscere perché era sua. - Non fatelo, non vogl io… - sussurrò ringhiante quanto lui, lasciò quella frase in sosp eso cercando i suoi occhi certa di poterlo abbattere con la propria tempesta. - Li vo levo quei due fig li, Eufrasia – si bloccò, quando l ’ultimo bottone cadde per uno strappo secco. Lei perse la saliva, non pianse, lo fissò. - State mentendo – - Ho cessato di farlo in questo momento – amm ise a denti stretti, gli sguardi uno nell’altro, le anime ad avvicinarsi per un contatto elettrico che le avrebbe lacerate. - State mentendo, bastardo! – escl amò. Venanzio lasciò che i suo i pugni flebili lo colpissero al petto senza togliergli il fiato. - Li volevo e ho m entito, quando ti ho detto che non erano il nostro desti-no, ho m entito quando ho sorriso rincuorato, ho pianto da solo quando ti sei addormentata confortata dalla mia gioia – confessò tutto, inutil e conti-nuare a fingere, farlo non aveva portato alcun vantaggio, no n li aveva sal-vati. Ma lei era con lui, lei stava attraversando l’oceano con l ui, avrebbe affrontato la Rivoluzione per lui, per il timore di perderlo. Non poteva la-sciare tutto in sospeso, non voleva pe rderla. Quelle parole la placarono e liberarono un dolore che divam pò e lo scottò, spezzar ono ogni sua difesa. Molle tra le sue braccia lasciò ch e l’avvolgesse nuovamente in un dondo-lio che la riportò al pomeriggio in cu i lo aveva amato per la prima volta. Si lasciò cullare come una bambina sconfitta, ancora cedette alla tenerezza alla quale sapeva rinunciare pur avendone un cieco bisogno. Confusa e fe-rita non era in grado di ragionare, di valutare le mosse del marito, di fron-teggiare le em ozioni e la disperazione che final mente, dopo m esi, l’avevano travolta e scoperta. Deglu tì appoggiata al petto dell’uomo. Aprì gli occhi incontrando u n diamante dell a camicia ap erta. Aveva la stessa luce di una lacrima. Non lo sfiorò. - Perché avete voluto che lo sapessi? Mi avete tolto l’ unica consolazione che avevo – si lamentò rauca. - Non hai bis ogno di alcuna consolazione, non hai colpe da espirare, non sei responsabile di nulla. Volevo quei due bambini, con i tuoi occhi, con il mio coraggio. Il dio d i tuo padre pareggia sempre i conti. Sia. Se davvero questo è il destino che ci ha riservato, non cercherò più un fi glio da te, te lo posso giurare sul mio sangue – fece una prom essa che lei colse sino i n fondo. Volle guardarlo nuovamente in faccia.

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- L’unica cosa che non av ete venduto – sussurrò seria. Lui inclin ò il capo senza capire. - Il vostro sangue – precisò strappa ndogli un sorriso amarissimo. Venan-zio annuì. La compassione che sentì dentro nei confronti della m oglie smorzò le in-tenzioni di pochi istanti pri ma. Non s mise di cullarla, di acc arezzarle i lunghi capelli sciolti dalla colluttazione . Raccolse il nastro rosso e glielo porse. Eufrasia lo prese tra le dita. Ricordò Chica, le sue pa role. Avrebbe potuto portarle fortuna. Guardò il m arito che si era se duto accanto a lei, i gomiti sulle gambe flesse, una tristezza stanca sul volto incolto.

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CAPITOLO III 20 giugno 1793 - Saint-Malo – Francia Xavier guardò la distante Saint-Malo con la n ostalgia di chi t orna dopo anni di assen za credendo di trovare la gioia di un tem po. La consapevo-lezza di trovare ben altro fu per lui una lama al centro del petto. Le ancore di entrambe le navi caddero rum orose nelle profondità del mare, invisibili agli occhi di chi certa mente controllava l’ orizzonte. Saint-Malo era as se-diata dai rivoluzionari come ogni altra città, la lettera era stata precisa nel dare la panoram ica della situazione. N on si sarebbero avvicinati al porto. Venanzio, con una scialup pa, lo raggiunse a bordo d ell’Etrangé. Sul pon-te, entrambi osservarono la nebbia di un tramonto umido. La per manenza in mare non aveva permesso di sapere come si erano sviluppati gli eventi, ma tutto lasciava presagire che stavano precipitando. - Saux vi attende - disse Venanzio. - Una trappol a mortale raggiungerlo nella dimora dei servi del suo palaz-zo. Non posso permettermi di morire – rifletté il nobile con la rabbia sotto i denti serrati. - Conosco il posto giusto per un incontro – lo interessò il bandito. - Avvertirete voi il marchese? – lo interrogò freddamente il conte. - Questa notte, con il favore del buio. Allontanate la vostra nave. Io farò lo stesso, raggiungeremo la terra ferma con la scialuppa – quasi ordi nò il ge-nero. - Siete certo di p oterlo fare? – verificò Xavier. Poco più di un mese di na-vigazione non era bastato per metabolizzare i rischi che avrebbero corso. - Io no di certo – sorrise sornione. - Ma qualcun altro sì – dichiarò e fece per andarsene. - Dio ci ricom penserà – s ussurrò il conte. Venanzio si fer mò e lo scrutò oltre la spalla. - Ricompenserà voi. A me alleggerirà la pena e può bastarmi – rise. Era un modo per rompere la tensione, per credersi forte più di Dio, capace di reg-gerne l’ ira. Iniziava a cre dere in Dio: l’ avanzare dell’età, la m orte a due passi, le perdite incancellabili erano molto convincenti. - Dovremo essere prudenti, non è un gioco – ricordò fermo Xavier.

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- Non lo sarà – afferm ò. Raggiunse nu ovamente la scialuppa per tornare sulla Belle dove lo attendeva Eufrasia che aveva osservato il loro incontro dall’oblò della cabina. Quanto rientrò lei si voltò con gli occhi allargati. - Stanotte – disse l’uomo. Aprì un vecchio baule contenente abiti miseri, stracci per tornare a essere Venanzio Sauvage. - Incontrerete Saux? – chiese lei, memore dell’amicizia del p adre con il vecchio marchese. - L’intenzione è quella – ripose frettoloso, indossando i vestiti che lo rese-ro così distante da ciò che era sempre stato ai suoi occhi. Eufrasia ebbe un attimo di perplessità. Quello era il pezzente che aveva incontrato tanti anni addietro in una locanda malfamata di Saint-Malo, il vero Stolfo Rues de Martin, miserabile con la barba in colta, i capelli arruffati e sfi orati dal tempo. Lo vide infilare nella cint ura di corda un pugnale con il manico avvolto da un nastro rosso e celare nella tasca capiente dei pantaloni al gi-nocchio una pistola a pietra sempre utile, suo stru mento di lavoro in pas-sato. - Se vi fermeranno, cosa direte? – fa rfugliò apprensiva. Un conto era fin-gere la ric chezza, navigarci, millantare, beffare forti del potere del soldo; un conto era apparire un disgraziato in balia degli eventi, senza difese. L’uomo si guardò intorno in cerca di qualcosa. Eufrasia lo interrogò silen-te. - Polvere – asserì. L ei sorrise e portò la mano su un mobile, non pulivano mai i ripiani più alti. Gli mostrò il palmo lurido. Venazio sorrise soddisfat-to, si imbrattò della polvere che cercava peggiorando il suo aspetto. Era già buio. Veloce si apprestò alla porta. Eufrasia lo raggiunse altrettan-to veloce. Il gioco iniziava ad assumere la concretezza del rischio. - Dovrò esse re cel ere, un solo rallentamento e le mie mosse potrebbero essere individuate. Sarò di ritorno per l ’alba - le disse, sfiorandole il men-to con il dito sporco. Lei alzò il sopraciglio. - Vi amo – lo bloccò. Erano mesi che non pronunciava quelle parole, mesi che le sognava senza mai chiederle. Rimase segretamente turbato, deside-roso di tornare indietro, di ricominciare dal momento in cui l’ aveva vista piangere per la perdita d i un fi glio, dal giorno in cui aveva asciugato l’ultimo suo pianto. Anelò cancellare il piano che aveva in testa, infi-schiarsene della giustizia, fare spa llucce, ripartire v eloce verso l ’oceano nero, poi ver so la sua casa scintillante. Ma non poteva tornare indietro, il grido disperato di un prigioniero senza difese lo assordava come assorda-va Xavier e coloro che quel prigionier o lo volevano libero. Sorrise stra-namente dolce, le sfiorò le labbra c on un bacio inconsueto, delicato come una carezza.

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- Attenta, Eufrasia! Potrei anche creder ti un giorno – la prese in giro per infrangere la paura che li attanagliava. La moglie non raccolse, era seria e per questo bellissima. - Non vi permetterò di farvi ammaz zare – sbottò sta nca della sua ironia. Un abbraccio im provviso le diede ciò che aveva chiesto, il dista cco le strappò di dosso la sicurezza delle sue parole. Vide la porta chiusa, ascoltò il silenzio. Le mancò il fum o del si garo nonostante fossero passa ti pochi secondi. Venanzio risalì sulla scialuppa e vogò ve rso l’Etrangé dalla quale discese Xavier. Si diressero a r emi verso la costa. Non c’ era la luna, le azioni era-no agevolate dalla tenebra assoluta. Conoscevano Saint-Malo, ci erano na-ti. Il bandito vi aveva strisciato per anni, sapeva dove andare, quali erano i punti meno controllabili, più im pervi, più facili da raggiungere. S’inoltrò nella nebbia sotto lo sguardo stretto d i Xavier che come lui remava lenta-mente per evitare rumori sospetti. L’ordine era stato di tacere, di non attirare l’attenzione in alcun modo, spegnere ogni luce, rimanere all’erta e fuggire qualora fossero stati affian-cati. Gli equipaggi di entrambe le navi avevano obbedito, buon deterrente era sapere che a terra c’ era in atto un massacro capillare che non rispar-miava nessuno ultim amente, nobili o plebei. Celata dal buio, Eufrasia strinse le mani sulla balaustra del ponte, il silenzio era dilagante, la nebbia aveva inghiottito sia Ven anzio che Xavier. Era co nsapevole che quella notte sarebbe stata lunghissi ma. Non conosceva il pi ano di Venan zio, sa-peva solo ch e avrebbe evitato il peggi o e difeso suo padre con la vita se fosse stato necessario. Sbuffò infastidita dal continuo tre mito che la scuo-teva dentro. Aveva capito qual era lo scopo finale, perché il marchese Saux, vecchio collaboratore del padre, lo aveva chia mato, i mplorato e perché Venanzio era con lui: ci voleva un uomo capace di m uoversi nel fango. Tornò nella cabina e bevve del r hum a sorsate per poi sedersi sulla sedia e respirare affannosamente. In qua le guaio era anda ta a cacciarsi? Quale altra prova il Cielo aveva in serbo per lei? Aprì il cassetto, guardò le due boccette di Chica. Versò alcune gocce di vino fittizio sull a lingua. Osservò quella trasparente contro la lu ce della luna che aveva deciso d i mostrarsi dopo essersi nascosta dietro la nebbia fitta. Se era vero che tutto aveva un senso, quale ne aveva quel re galo assurdo di una donna che nep-pure conosceva? Si alzò, la test a a girare un po’ . Sfiorò la pistola che an-che lei aveva sem pre al fianco insiem e al pugnale con il m anico avvolto dal nastro rosso di Chica.

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Dell’aria entrò muovendole i capelli. Il vento della R ivoluzione giungeva sino al largo, amaro, olezzoso di sangue con i lamenti di innocenti e dere-litti, di ricchi e poveri straziati sotto la ghigli ottina cantilenante. Scattava, scattava, versava vita, allagava strade, macellava anime e cuori sull’altare dell’eguaglianza, della fraternità, della libertà. Ma qualcuno non era libero con la colpa di un n ome sbagliato. Ebbe un m oto di rabbia che le diede una visione t erribile. Pensò alla regi na, al senso di i mpotenza che doveva provare. Pensò al passato, allo sfarzo, ai privilegi che erano stati anche i suoi. Lo sguardo cadde sul baule che V enanzio aveva lasciato aperto. Vi-de e pre se la lettera carpita al p adre per privarlo dell’ unica prova che a-vrebbe potut o incastrarlo in caso di cattura. Venanzio non lasciava mai nulla al caso. La le sse. Er a prodiga di particolari ch e le causarono delle smorfie di di sgusto. La le sse, la rilesse. La ri mise al suo posto. Ansi mò. L’incapacità di stare ferma, di aspettare, di valutare, pr ese il sopravvento. Raccolse le cose che aveva portato con sé. La Belle aveva quattro scialup-pe. Guardò il cielo, quand o fu sulla por ta della cabina, i marinai i ntenti a scrutare l’oscurità, ignari della sua presenza. Avvezza a non m ostrarsi, e-vitò d’essere vista rasentan do le pareti di legno. Veloce gettò la barca in mare sincronizzando l’azione con la risacca del mare contro la chiglia. - La Locanda du Tem ps – sussurrò con un sorriso di compatimento sulle labbra tese. La Locanda du Tem ps la conosceva bene, il proprietario, un illetterato ignorante, aveva fatto un gioco di parole stupido che non faceva ridere nessuno. Ricordò quel debosci ato idiota. Ricordava anche un certo Simon che fa ceva il ciabat tino e che aveva se mpre giocato d’ azzardo con lei nella bisca clandestina gestita ne lla locanda. Li ricordava tutti i suoi ‘amici’ tenuti a bada con la pistola alla gola, spennati ogni sera ai tem pi della sua permanenza a N anterre. La Locanda du Te mps si trovava vicino alla prigione del Tempio, le Temple. Ecco il gioco di parole scemo di quel deficiente che presto avrebbe rivisto. Venanzio approdò su una spiaggia pie na di alg he maleodoranti celata da un gruppo di scogli e da una folta vegetazione. Seguito da Xavier, percor-se degli anfratti erbosi, si no a raggiun gere l’acquitrinosa foce del fiume Rance. Percorsero a ritroso la corrente e arrivarono a destinazione. - Il castello della contessa – disse il g enero camminando. Xavier chiese spiegazioni. - Non conoscete il castello della contessa? – ridacchiò. - Di contessa a Saint-Malo ce n’ era una sola – sbott ò il conte tenendo i l passo del duca che in fondo non era poi tanto più giovane di lui, dieci anni li separavano.

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- E aveva un castello segr eto - lo inte ressò, ma la c uriosità durò poco, la caverna in cui si erano riparati ai tempi della simulazione dell’omicidio di Eufrasia si mostrò sotto una luna luminosa che avev a rotto nuvole e neb-bia. Xavier si fermò. - Posso immaginarlo cosa avete combinato qui – lo zittì prima che inizias-se con le sue elucubrazioni a volte volgari. - Malizioso, conte! Nulla di ciò che credete, solo un accordo conveniente allora, ma questo lo sapete già, non vog lio annoiarvi – rispose l’altro. En-trò spostando il fo gliame e ritrovando l’ambiente, come se il tem po non fosse passato, come se la Rivoluzione nel ‘castello del la contessa’ non po-tesse penetrare. Accese un fuoco a fatica con l’ acciarino, il fogliame che aveva trovato all’interno si infiammò illuminando la grotta. Non c ’erano i segni del loro passaggio, non ne avev ano lasciati, ma c’era il profumo dei ricordi, il sapore della nostalgia, l’immagine sfocata di una donna vestita a lutto immersa in una nuvola nera, c on i guanti e il velo scuri. Venanzio cacciò via quei sentori, non era il momento di lasciarsi prendere da qualsi-asi cosa che non fosse il compimento del piano. - Sarà qui e voi attenderete - disse fretto loso già sull’uscita della c averna. Anche se Xavier aveva indossato abiti mi seri, il suo aspetto restava quello altero di un aristocratico. Poi era c onosciuto, la vita politica e l ’ideologia fisiocratica che sosteneva lo avevano sempre messo in vista, si ricordava-no di lui anche perché famoso per essere presente negli affari, ma non nel-la vita m ondana. Si ricord avano del co nte Xavier des Fleuves e del fatto che, m orta la figlia, non a vesse ered i, quindi ricchissi mo, ottim o partito per qualsiasi donna in età da matrimonio e n on solo. Aveva ragio ne Ve-nanzio, sarebbe stato un fa ro nella notte se si fosse presentato su una sola di quelle strade controllate e battute dalle Guardie Municipali. Il bandito si allontanò dirigendosi verso il palazzo del marchese S aux ap-parentemente deserto, espropriato da lle nuove regol e, destinato presto a ospitare qualche altro saccente po litico che brandiva libertà. Per il mo-mento era solo disabitato e i realisti, perché questo erano i com plici di Xavier, coloro che volevano il re, erano riuniti negli alloggi che erano stati dei servi. Percorse le strad e deserte: qualche cane ra ndagio, un gatto in amore, una prostituta annoiata che gli propose uno s conto, due beoni ap-poggiati ai muri diroccati. Una ronda. Venanzio si bl occò per un secondo. Una ronda della Guardia Municipale . Inevitabilmente lo ferm arono, l’ordine era quello di farlo con chiunque risultasse straniero. Eppure il suo aspetto non era certo sospetto. Erano in tre, valutò subito le possibilità che avrebbe avuto di ucciderli senza subi re conseguenz e. Li vide av anzare,

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fulmineo si avvicinò a un o dei beoni addormentati per terra. Prese la sua bottiglia. Sbuffò e la gettò in terra infrangendola. I tre militari gli si pararono davanti, lui alzò lo sguardo, erano altissim i. Forse ex guardie reali. - Un goccio di vino neppure a pagarlo! Averceli i soldi! Fate la carità a colui che torna alla sua terra natia? – non esitò a recitare la parte dell’uomo perduto, parte che conosceva visto che in passato non era st ata affatto una recita. - Ma davvero? E chi sarest i tu che torni alla terra nat ia? – gli chie se uno dei tre. - Non lo ricordo, dicono di me che sono pazzo, ma so di essere nato qui – ridacchiò patetico. Posò lo sguardo scuro sulla prostituta poco distante che sbadigliava. - Dove stai andando? – si intromise il secondo. - Da lei, sembra m i stia aspettando, si annoia e io le donne non le annoio mai – fu sguaiato. Il terzo scosse il capo con com passione, incitando i compagni a lasciarlo perd ere, mentre lui si dirigeva verso la donna che a l suo giungere platealmente zoppo, si mise all’erta. - Muovi un passo, dì una sola parola e ti taglio la gola – le sussurrò avvol-gendola con un abbraccio inequivocabile che convinse i soldati. Si chiese-ro se quella a vrebbe accettato di lavorare senz a essere pagata, poi fecero spallucce e continuarono la ronda. Venanzio ne ascoltò i passi, mentre pressava la punta del pugnale al collo della donna che non respir ava per la paur a. Le labbra sulla spalla nuda si allontanarono. Quando le p orse monete d’oro il timore scemò dagli occhi stanchi e cerchiati. - Stasera l a fortuna ti sorr ide, chiunque tu sia. Vedi di tacere se vuoi che venga ancora a trovarti – la salutò i ndifferente incamminandosi nella dire-zione oppost a ai militari. Doveva correre se non voleva incrociarli nuo-vamente, come un’ombra percorse le strade misere di una città addormen-tata sino al palazzo del marchese Saux. Scavalcò senza difficoltà i cancelli piegati dalle insurrezioni a colpi di falce e vanga. Attraversò il vasto par-co, rasentò l’edificio scuro sino a trovare gli alloggi dei servi. Nessuna lu-ce acc esa. Tutto com e previsto. Si avvicinò alla porta tarlata dell’appartamento centrale e piantò il pugnale sul legno che tremò. Attese, appoggiato al muro di fianco all’entrata. Passarono pochi minuti, l’uscio si aprì. L’uom o guardò il p ugnale con il nastro rosso che ne avvol geva il manico. Si sporse e vide Venanzio. - Voi? – chiese il marchese Saux. Era invecchiato, stanco. Lui lo salutò con un gesto del capo.

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- Il duca Rues in questa faccenda? – su ssurrò incitandolo a entrare, guar-dandosi intorno nel tim ore che qualcuno potesse vederli. All’ interno er a buio, ma percepì la presenza di altre persone. - Non lo sapete che il vostro sangue è u na condanna a morte? – lo riprese il vecchio marchese con la voce rotta. - Il m io sangue è il m igliore che potevate trovare, sono q ui per co nto del conte des Fleuves – dichia rò come se lui non fosse affatto sfiorato dalla sorte maligna che invece sconvolgeva la nobiltà presente. - Dunque ha accettato? – chiese qualcuno. - La giustizia è part e del conte – fu lusinghiero. Si accorse d’ essere since-ro. - Dove si trova? – chiese Saux sedendosi. Era un po’ ingrassato, una di-sperazione illim itata gli gravava a ddosso. Venanzio sapeva riconoscere quello stato d’animo. - Al castello della contessa – rispose codificando la loro conversazione. Il castello della contessa, nessuno sapeva dove fosse, come era giusto. La luna ancora una volta c i mise del suo entrando nella stanza scura, mo-strando così gli altri uom ini presenti. Non li conos ceva, ma notò che o-gnuno di lor o aveva un nastro rosso, f osse all a cint ola, alla pist ola, alla spada. Il colore del sangue. Eufrasia aveva indossato la giacca nera di Venanzio sulla ca micia bianca. Quando sottrasse un cavallo davanti alla chiesa minore di Saint-Malo, chi la vide la credette un uom o. I capelli raccolti dietro la nuca, celati dai ve-stiti non avevano dato adito a dubbi. Un uom o alto e magro aveva rubato il cavallo del parroco, povero e misero con la Rivoluzione che non ricono-sceva alcun diritto alla Chiesa. Eufrasia aveva in mente un percorso preci-so, qualche vittima doveva pur esserci per salvare chi era più vittima di tutti gli altri. Sarebbe giunta nei pressi di Parigi all’alba se avesse incitato la bestia a d overe. Si inoltrò nei bo schi evitando l e strade principali, si fermò di tanto in tanto per ascoltare il silenzio e per non imbattersi in ron-de o posti di blocco. La notte era sempre un buon deterrente per il dovere, le guardie no n erano diver se dai ser vi, se potevano lavoravano il meno possibile. Era di notte che bisognava a gire, di giorno erano tut ti all’erta, intenti a dimostrare il proprio valore. Ricordava ogni incrocio, bivio, abitazione o palazzo, parco o fontana. Ra-sentò tutto come un’om bra, meditava il da farsi, mentre si nascondeva. Era certa di poter rivedere Venanzio alla Locanda du Temps. Dividersi era il gioco m igliore per confondere gli avversari, se davvero avessero avuto degli avversari, perché l’at tenzione sarebbe stata attirata da altri com plici

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occulti. Era un gioco che poteva riuscire, anche se non aveva idea di come avrebbero potuto penetrare la prigio ne del Tempio, le Tem ple. Una cosa alla volta. Int anto doveva portarsi sul posto, valutare i margini di movi-mento, considerando che il marito avrebbe fatto la stessa cosa. Pensando e cavalcando, sudando con l a giacca pesante per la tem peratura di un’estate afosa, giunse prima del pre visto a Nanterre. Non fece fatica a riconoscere il paesino vicino a Versaill es, quindi a Parigi, dove aveva intessut o il suo più grande inganno. A Nanterre non temette di percorrere quasi l’unica via disponibile che la fece passare davanti alla vecchia villa. Vide la Chiesa che aveva sfruttato per il suo contra bbando, lo stesso che aveva ar mato quella Rivoluzione. Un senso di disgusto nei propri confronti la indusse a frenare il cavallo. Fissò la chiesa che all’interno era accesa. Come era fa-cile cambiare e vedere i fatti in maniera diversa: allo ra non gliene im por-tava niente di cosa stesse facendo, ci ò che le serviva erano i soldi per non soccombere, non si era mai soffermata a valutare le conseguenze delle proprie azion i. Allora era tutto così di verso: ebbe la visione di s é, della Vedova cinica e fredda, della donna ve lata e inavvicinabile che giocava dietro un rispetto neppure dovut o. Scese. Non esitò a entrare nel luogo di culto in cerca del parroco che era s eduto davanti all ’altare spogliato degli addobbi preziosi, ridot to a un pezzo di marmo con un crocifisso di ferro storto. Gli stivali fecero rumore sul pavimento di legno. Il prelato si voltò. Vide una ragazza alta e snella vestita da uomo, con un viso di una bellezza disarmante. Notò al suo fianco la pistola e il pugnale. Si soffermò sul pu-gnale, strinse gli occhi acquosi e le an dò incontro continuando a guardare il pugnale. - Chi siete? – le chiese sorpreso di vedere quel nastro rosso addosso a un a donna. Faceva parte dei sovversivi occulti, conosceva il segno di ricono -scimento, ma non si sbilanciò. - Non ricordate il mio volto? – gli sorrise. - No davvero, mademoiselle – scosse il capo il prete. - Mademoiselle – sottolineò. Si fissarono. - Madem oiselle – ripeté l ui. Il salto all’indietro f u subitaneo: lo strano modo di chiamare la propria padrona da parte della p iccola serva bionda in un momento in cui erano certe di essere sole… e la riconobbe. - Siete tornata alla vostra dimora ora che la Rivoluzione impazza? – chiese preoccupato. Lei fece spallucce. - Ho avuto modo di curarla con zelo, come il vostro incaricato ha disposto tre anni fa. E ’ una proprietà libera dalle leggi, non siete nobile, n on rien-trate nell’esproprio – le fe ce sapere. Il suo incaricato? Il conte des Fleu-ves. Si guardò intorno confusa, non ci mise molto a capire cosa era acca-

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duto. Il padr e non aveva venduto la sua casa di Nanterre. Ma allora, il baule pieno di preziosi che era stata la sua dote da dove veniva? Comprese che veniva dalle ricchezze di famiglia. Un tuffo al cuore la convinse anco-ra di più che non stava sbagliando. Era sua figlia, forse c’era una logica in tutto questo, ma non poteva capire sin o in fon do perché lei figli non n e aveva. La vecchia v illa di Nanter re sarebbe st ata perfetta, né vicina né lontana, ottimo rifugio ancora una volta intoccabile. Entrando sentì il m orso della nostalgia, assurda e stupida. Sorrise, qu ando rimase sola. Si sedette sulla poltrona. Il prete e ra stato bravo, aveva trattato quella ca sa come se qual-cuno ci vivesse ancora. So spirò. Desiderò solo dorm ire, erano giorni che non chiudeva occhio. Si addorm entò lasciando che la luce della mattina entrasse nella stanza senza svegliarla, scaldando l ’aria, asciugandola. La vecchia villa di Nanterre… il suo reg no segreto. La vecchia villa di Nan-terre… Xavier si alzò, quando con la luce del mattino vide i tre uo mini accompa-gnati da Venanzio. Erano vestiti miseramente, ma l’espressione ne tradiva le origini, il loro dolore segnava i volti di rabbia e voglia di riscatto. Saux abbracciò il collaboratore di un tem po, lo ringraziò più volte per avere ri-sposto all’appello che gli avevano fatto giungere tramite una serie di pas-saggi attraverso l’Inghilter ra, la Sp agna per giunger e in Martinica. Un o dei due uomini con lui era un nobile di Rennes, Xavier non lo conosceva , ma Venanzio lo rammentava bene, era il padre di una bambina che la ma-dre aveva tentato di infilargli nel letto. L’altro era una Guardia Municipale in borghese, tale Lepitre, destinato in istanza al Tempio. Ci sarebbe entra-to due gi orni dopo. Venanzio si sedette in terra come tutti gli altri, ma mentre per lui era cosa usuale, i tr e ospiti sembravano imbarazzati dalla situazione. Anche il conte non si sottilizzava, propenso solo al rag giungi-mento dello scopo finale, era disposto anche a strisciare. Nonostante la lettera fosse stata molto chiara, raccontarono tutto nuova-mente, aggiungendo gli ul timi accadimenti. Le informazioni che giunge-vano dal Tempio erano inquietanti. La totale mancanza di rispetto nei con-fronti della famiglia reale era dolorosa per i realisti e per chi era umano in una nazione che sembrava avere preferi to la bestialità alla pietà. La mo-narchia era crollata, indubbiamente, i diritti di sangue, il sangue stesso non avevano più importanza, l o sfregio co stante nei confronti dei nobili era all’ordine del giorno. I titoli nobiliari erano stati annullati, non ci si poteva più fregiare del no me, molti nobili no n avevano un cognom e e allora ve-niva loro attribuito dai Com uni. Eclatante il caso de l conte che e ra stato

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chiamato Philippe Egalitè. Ogni manifestazione di simpatia, qualsiasi pro-pensione al ri spetto della p ersona veniva condannata, la ghi gliottina cala-va persino sui rappresentat i di quello Stato tanto difeso. Al Te mpio qual-cuno aveva osato dire che forse non er a il caso di i nsistere t anto su du e donne e due bambini dopo la morte del re, la reazione era stata inconsulta. I superstiti della famiglia r eale erano sotto assedio, controllati e tenuti re-clusi in maniera animalesca. - Si vocifera che presto anche la regina sarà messa sotto processo- aggiun-se alla fine Saux. - La regina verrà messa sotto processo sicuramente e le taglieranno la testa – si intromise secco Venanzio, purtroppo molto obiettivo nella veduta del-le cose. - Non ci è stato possibile salvarla, l ei s tessa ha rifiu tato la fuga senza i suoi figli – sospirò il barone Voisè, parlando per la prima volta. Venanzio lo scrutò pensando alla moglie. - E’ in corso un complotto per salvare il re – confessò Saux. - La no mina di Hanriot a capo della Po lizia ha messo all’erta le spie, ci tengono d’occhio più di p rima, il cane deve dim ostrare quanto v ale sin dall’inizio – si lamentò riferito a un uomo che non amava, passato da una parte all’altra con estrema facilità. Certo, la fuga del re avrebbe messo in cattiva luce la Repubblica e i suoi aust eri rappresentanti. Era una s ituazio-ne difficile, con un piano già fallito una volta per liberare i sovrani. - Lasciate che ci controlli – sbottò im provviso Xavier. Venanzio posò gli occhi su di lui interessato. Non voleva introm ettersi più di tanto, anche perché sapeva più o meno cosa fare e quando agire. - Siete impazzito? – si ribellò Voisè spaventato. - Che sospettino e ci seguano senza scoprire nulla. Distraeteli, date adito a qualsiasi tipo di cert ezza mentre… - il conte volse lo sguardo a Venanzio che, con il sigaro in bocc a, sembrava più interessato alle proprie unghie sporche piuttosto che alla vita del s ovrano. Finse di s vegliarsi allargando gli occhi su di loro. - Mentre? – sorrise malefico eppure co sì affidabile per gente di sperata come quella, a esclusione di Xavier che disperato non era affatto, che sen-tiva di essere armato sino ai denti, di essere forte, di potercela fare. - Mentre voi agirete nell’om bra insospettabile – fu più chiaro scandaliz-zando gli amici. - E’ un nobi le, lo noteranno subito – asserì S aux. Venanzio ri dacchiò. Tornò su un ’unghia che p ortò sotto i d enti. Xavier tentennò, cercò velo-cemente di valutare se parlare o tacere.

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- Potete anche dirlo, conte . Non è un pericolo di questi te mpi svelare chi sono veramente – lo autorizzò. I tre guardarono prima l’uno e poi l’altro. - Basta che nessuno di voi abbia l’ardire di tradirmi, perché quando sapre-te chi sono veramente non sarebbe auspicabile farsi un nemico come me – aggiunse serio. Si sentiva più forte del solito e fu ap pagante. I nobili te-mettero qualcosa senza sapere cosa. - Voi siet e il duca Rues – sussurrò Sa ux che lo conosceva. Lo ri cordava bene, era colui che aveva salvato parte dei suoi inve stimenti dalla depres-sione di Xavier. - Lui è Venanzio Sauvage – tagliò co rto il conte. Non poterono evitare un passo indietro dopo essersi alzati di scatto con un sospiro mozzato. - Ah! Faccio ancora paura? – constatò divertito estraendo il pugna le scin-tillante con plateale sadism o. Non dissero una parola, attoniti interrogaro-no il nobile più retto e one sto tra loro. Era incredibile che andasse a brac-cetto con il delinquente pi ù feroce e spietato che si rammentasse. Di Ve-nanzio Sauvage si parlava ancora, i popolani dicevano che non era morto, che sarebbe tornato a dare manforte alla Rivoluzione perché lui il sangue lo sapeva versare bene, come aveva fatt o con la figlia del conte des Fleu-ves, martoriata e sgozzata come una bestia. E Vena nzio era vivo, lo era sempre stato, tra loro, con loro, uno di loro. Saux ricordò la sera in cui lui stesso aveva parlato del bandito: ne aveva sottolineato il nome, aveva fatto spallucce dando l’impressione di non te merlo affatto. Aveva parlat o di se stesso, solo ora lo comprendeva. Gli diede un’occhiata recriminante. - Suvvia, marchese! Una bugia innocente! Dovete a me la possi bilità di salvare quell’innocente, non sottilizzatevi su certi particolari – fu ilare al-zandosi. - Ci avete preso tutti in giro allora – - Mi riscatterò, ve lo garantisco. Non sono forse colui che vince laddove tutti falliscono? – sorrise suadente co me se si rivolgesse a una donna. Il marchese ricambiò il suo sorriso. - Certo. Speriam o che non falliate la ddove tutti vincerebbero – ripeté la frase di anni addietro, strinse con la bestia più bestia della Francia un patto che aveva il sangue blu del re come sigillo. - Non è questa la situazione – concluse Venanzio. Us cì all’aperto, la mat-tina era calda e assolata. Non aveva mantenuto la promessa fatta ad Eufra-sia, non sarebbe tornato sulla nave, l’alba era già passata da un pezzo. Lo specchio della stanza che un tempo era stat a il suo rifugio rifletté per-fettamente l’ immagine che aveva las ciato di sé su quelle vie. Volteggiò nell’abito nero a lutto. Si osservò soddisfatta, sfiorò le armi sotto la stoff a

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spessa. Si avvicinò, guardò il viso un po’ stanco, teso, la sua ansi a era di-versa da quel la che poteva essere presunta, la sua era l’ansia di ri vedere Venanzio che non sapeva della sua decisione, come non la sapeva il padre all’oscuro della sua presenza. Si studiò lungamente, calò il velo sul volto e assunse automaticamente la postura contrita capace di garantirle il rispetto di chi la guardava. Tornar e a essere la Vedova era un buon espediente per non alimentare troppi sospetti. Raggiun se il cavallo nella stalla e uscì all’aperto con il calore a colpirla im pietoso attirato dalla stoffa scura. Non sarebbe stato facile muoversi nella cal ura estiva, ma ci sarebbe riuscita nelle vie o mbrose e malsane di Parigi . Spronò la bestia con decisione e cavalcò sulla strada dissest ata dalle rivolte, dalle scorribande, dalle infini-te lotte che ancora infuria vano sporadiche nelle vie della Capitale e nelle campagne. L’o dore del male e della disperazione si confondeva con la polvere e l’ afa. Rasentò sentieri, passò davanti ai cancelli aperti di Ver -sailles, ora aperto a chiunque volesse entravi, baluardo misero della gloria di un tempo, dell’ingiustizia della nobiltà con i suoi p rivilegi. Vi avevano fatto uno zoo squallido e poco inter essante. Abbassò il capo per non guar-dare troppo, vestigia di un passato che dava solo tristezza, uno spaccato del degrado i n cui il popol o, la Nazi one, gli alti ideali erano finiti. Aleg-giava un tanfo costante di sangue, questa l’im pressione. I tem pi degli in-ganni rapportati al presente le apparvero inezie. Parigi si este se davanti a l ei. Rimase immobile per alcuni istanti a osser-varla. Non sembrava pericolosa. Scese da cavallo, alzò il velo per mostra-re il viso contrito. Celarsi del tutto non era prudente, non temere di far ve-dere la faccia era un buon salvacondotto con chi era addetto alla sorve-glianza. Camminò lentamente, il cavallo accanto con il fiato grosso per la cavalcata. Si infilò in cupi anfratti, l ungo le strade principali. Diede un’occhiata fuggevole alla cattedrale di Notredame ripensando alla sera della vigilia del Natale 1788, quando un uom o era stato ucciso lì davanti, mentre un altro era stato mes so alle strette in un vicolo cieco poc o distan-te. Sorrise ripensando al volto di Venanzio davanti alla morte certa, quella volta lei lo aveva salvato, e ra sempre andata fiera di quell’impresa. Conti-nuò a camminare sino a raggiungere la Locanda du Temps. Si ferm ò, in-travide la porta stretta e tar lata, dipinta malamente di rosso, aperta per far entrare una frescura inesistente alle due del pomeriggio. Non entrò subito, volse l’attenzione a ciò che troneggiava quasi davanti al locale: la prigione del Tem pio, inespugnabi le, massi ccia, serrata a doppia mandata, così grossa e pesante, medievale e minacciosa. Deglutì da vanti alla tetr a mae-stosità di ciò che un tempo era stata la sede dei Templari, monaci guerrieri di Cristo e dei suoi segreti. Era una storia che nessun aveva mai capito si-

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no in fondo, ciò che ne ri maneva era una fortezza con le torri altissi me, pietrose, le f inestre sottili , ammiccan ti. Adesso era l’ inferno di Parigi, l’inferno della famiglia reale rinchiusa lì dentro, sequestrata dai riv oluzio-nari, umiliata e offe sa. Ebbe un gesto di stizz a. Dentro di sé si chiese co-me la crudelt à umana potesse a ccanirsi tanto su delle persone. Anche lei aveva ucciso, un’innocente era stata massacrata al suo posto, aveva spesso sentito il ri morso morderla dentro. Era riuscita a cancellare quel sentore scomodo, ma ciò non toglieva che l’ accaduto era stato terribile. Come dunque si po teva arrivare a tanto sen za alcun rim orso, nella conv inzione di avere subito un’ingiustizia per il semplice fatto d’essere nati uomini del popolo? Non comprendeva sino in fon do le ragioni dei rivoluzionari, co-me non avev a compreso sino in fond o le ragioni dei privilegiati ai tem pi della gloria dell’aristocrazia. Forse suo padre ci aveva sempre visto giusto, essere dei nullafacenti non avrebbe portato a nulla. La Storia gli stava dando ragione. Ebbe un moto di stima nei confronti di colui che fronteg-giava da sempre. Osservò la locanda e pre se fiato. Il cava llo rimase nei pressi della piazza davanti all’entrata della prigione, lei lentamente avanzò verso quel piccolo regno malfamato che era stato suo. Tentennò un po’. Dentro era cambiata, aveva pene e dolori, avev a paura di sbagliare, cose che allora non conce-piva neppure. Serrò i pugni tra le pieghe della gonna nera. Calò il velo. Fu davanti alla porta. La sua ombra oscurò la già scura atmosfera del locale semivuoto. Gli avventori si voltarono. L’oste fece la stessa cosa. Entrò del vento, insolito in quella stagione, fresco per l’ ora torrida. Ci fu un sibilo che seppe di amara premonizione, ma nessuno lo notò. Il volto dell’oste si illuminò. Xavier risalì sull’Etrangé dopo avere disposto i movimenti della Belle con ordini precisi ai marinai che non avrebbero dovuto per nessun motivo al-lontanarsi dalla nave maestra. Alcuni di loro furo no mandati con le scia-luppe disponibili sulla costa per scaricare più casse di rhum possibili. Ve-nanzio li avre bbe attesi per stipare la m erce nel castel lo della conte ssa. Il rhum a disp osizione sarebbe stato un’ottim a moneta di scamb io nella Francia allo sbando con pezzenti ves titi da com andanti e comandanti in preda al pani co. Il band ito avrebbe pe nsato al resto, m entre lui avrebb e dovuto solo attendere al largo delle acque di Saint-Malo. Un uomo avreb-be fatto la spola tra la nave e la grotta a giorni prestabiliti, ogni c osa sa-rebbe stata sotto control lo, mentre Sau x e Voisè av rebbero dovuto muo-versi, poi riti rarsi in un gioco rischioso e ingannev ole. Tutto era stato di-sposto con attenzione, lui e Venanzio avevano un piano con buoni margini

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di movimento. Lui e Ven anzio, lui e … la bestia più bestia della Francia. Ma lo aveva dalla sua parte, questa era una vittoria quasi garantita. Le an-core risalirono rumorose, nella notte ancora una volta i due velieri si mos-sero, perdendosi nelle acque distanti ep pure vicine che avrebbero protetto la loro incolumità e per messo di ag ire in tem pi rapidi qualora fosse stato necessario. Xavier si posizionò sul pont e, la brezza notturna a sfiorargli il viso incolto per i giorni pesanti, per l’insonnia, per la tensione e per l’ansia di finire quel lavor o presto, m olto presto. Av eva altro cui pensare che a se stes so, aveva la mente che correva distante , che immaginava il futuro, che lo disegnava con la de licatezza di un artista. Ce l’ avrebbero fatta, si, avrebbero vi nto perché… la bestia più be stia della Francia er a dalla loro parte. Sorrise alla luna ammiccante, pregò ancora una volta Dio, lo faceva spesso da quando Eufrasia era risorta dalle ceneri di un male che ora era solo ricordo. Lo pregava s ilenzioso, senza mai varcar e la soglia delle sue case, ma lo pregava e lo sen tiva accanto, perché Dio era giusto e se Venanzio era con loro… forse Dio lo voleva, forse Dio avrebbe perdo-nato anche lui. Forse… Venanzio si era organizzato dopo avere trovato un carro sul quale caricare alcune delle cass e. Lo aveva rubato, come tutto ciò che gli serviva, come il cavallo zoppo di un contadino che i nvece di lavorare dor miva, lamen-tandosi poi d ella povertà e della fame. Era anche vero che con l’aria che tirava l’entusiasmo probabilmente era poco, si passav ano i giorni migliori a manifestare, a protestare, a istigare alla rivoluzione dim entichi di m an-giare, di produrre. Era una situazione p aradossale nella libertà os annata e lentamente perduta con il cappio della devozione al nuovo regime che non era antico, ma era f eroce. Poco male, il torbido che si spianò davanti agli occhi attenti del bandito e ra più torbid o del previsto, questo avr ebbe gio-cato a suo vantaggio. Lento sul carretto trainato da un ronzino claudicante percorse la st rada che lo avrebbe portato nei pressi di Parigi. Ci avrebbe messo più di quando galoppava avanti e indietro per adempiere ai servizi richiesti o per scovare Eufrasia nell a sua tana a Nanterre. La villa d i Nan-terre doveva esser ci ancor a, magari libera da inquili ni, anche per ché chi poteva pagare una pigione di quei tempi? Solo lui, anche se non sembrava a vederlo. Che Xavier l’avesse davvero venduta non lo aveva mai creduto, una proprietà così poco a ppariscente poteva anche starci nei progra mmi aleatori di un uom o come il conte. Spes so si era chiesto che fine avesse fatto quella casa dei misteri, non gli aveva chiesto i documenti di vendita, mentre per il suo sfarzoso palazzo di Rennes tutto era risultato a posto. Xavier non l a raccontava giusta, ma sa peva che il suo silenzio celava un ennesimo gesto m agnanimo nei confro nti della figlia. Sorrise pensando a

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quei due esseri così si mili e così as surdi, alla distorsione caratter iale d i Eufrasia che non aveva rinunciato al lato disonesto d i sé anche se figlia di un uomo retto. Se solo Xavier si fosse limitato a volerle bene, senza na-scondersi dietro atteggiamenti austeri, forse ora lui non sarebbe stato lì, non avrebbe avuto la donna più bella del mondo, non sarebbe sopravissuto ai propri inganni. Ma Xavier aveva ball ato bene tra i l dire il fare, mentito bene in una verità apparente, sistemato le cose perfettamente. La missione in atto era il coronamento della sua lealtà e della sua giustizia. La villa di Nanterre si rivelò ai suoi occhi di sera, il tramonto rosso sangue a colorare il cielo, l’odore di un ince ndio poco distante a im pestare l’aria cancellando il fetore delle vie disastrate. Entrò nel piccolo giardino con il carro, aprì le stalle. Celò ogni cosa all’interno dove notò della biada fresca e i segni di una presenza recente. Forse qualche mendicante aveva riparato lì. Non ci pensò m olto, e ntrò nell’ abitazione che n on era stata chiusa. Un’imprudenza o forse no, solo una cosa logica in un mondo dove confini e sicurezza erano irrilevanti ormai. Nel corridoio percepì un aroma, sottile e impossibile, ma lo percepì nitidam ente. Ebbe un c olpo al cuore . Che il Cielo non volesse che dav vero la sua sensazione fosse vera. S alì le scale. Era ancora stanco, voleva riposare, entrò nella camera da l etto. Vide abiti maschili su una sedia, abit i femminili neri riversi sul letto. Alzò g li occhi al soffitto esasperato. Vide ciò che avrebbe preferito non vedere . Aveva sperato che Eufrasia si limitasse ad attenderlo senza mai crederlo davvero. Il suo sorriso sin troppo dolce quando l’aveva salutata e l’inconsueta doci-lità degli ultimi istanti passati insiem e gli avevano f atto capire che alla fi-ne la donna avrebbe toccato la terraferma e avrebbe fatto in modo d’essere parte integrante del piano. Si sentì sciocco per aver tentato di ignorare il pericolo cui la moglie era disposta ad andare incontro. La pensò, intensa-mente. Eufrasia il peri colo lo sapeva evitare, piuttosto era l ei a essere pe-ricolosa, ovunque andasse, qualunque cosa avesse in mente di fare. Scrutò l’esterno rassegnato eppure intimamente compiaciuto, l’amava per la loro somiglianza, per quella sua capacità d’essere insospettabile. Scansò i ve -stiti e si sdraiò sul letto. Era davvero esausto, non dormiva da ore ormai, il viaggio era st ato pesante con il cavallo zoppo che non poteva fare più di tanto. Il cuore a tratti tremava stra namente. Si addormentò senza neppure ribellarsi, ci avrebbe pensato dom ani al da farsi, do mani avrebbe agito, domani avrebbe iniziato, domani… CONTINUA...