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1 ALDO MASULLO La filosofia e la libertà * dedico questa riflessione a due miei carissimi confilosofi, Giuseppe Cantillo e Marco Ivaldo [1.] L' «individuo vivente» è, avverte Hegel, «la contraddizione assoluta [absolute Widerspruch]», in quanto è a un tempo «esteriorità oggettiva» (il fuori di sé) e «identità con sé» (l'in sé, l'interiore a sé). Il sentimento di siffatta contraddizione è il dolore. Qui Hegel inserisce una annotazione folgorante, che sembra fatta per legittimare il principio stesso della sua filosofia: «Pur se qualcuno dice che la contraddizione non è pensabile, nel dolore del vivente essa è addirittura un'esistenza reale» (Wissenschaft der Logik, parte II, sez. III, cap. I B, ed. a cura di Moldenhauer e Michel, Suhkamp, Frankfurt a. M. 1969, vol. II, p. 481; tr.it. Moni, rev. Cesa, Laterza, Bari 1968, vol. II, p. 874). Mai con tanta nettezza come qui il pensiero dichiara di essere la vita stessa nel suo pieno manifestarsi a sé, nel suo compiuto apparire (inclusivo del a cui si appare), le cui traumatiche contraddizioni nessuna pretesa di continuità identitaria può illudersi di sanare. Pensare fortemente la contraddizione reale, non meramente logica, è riconoscerla nella sua inoppugnabilità di manifestazione, nella sua irriducibilità di fenomeno. Altro il pensiero autentico non è: «fenomeno-logia». Questa premessa, se si procede sul filo dell'analogia con la contraddizione reale dell'«individuo vivente» in genere, ci aiuta a misurarci con l'ancor più inquietante contraddizione specifica dell'individuo umano, che non solo biologicamente ma pure «moralmente» è vivente, partecipe dell'emancipazione «culturale» dall'immediatezza della natura. In italiano del resto l'aggettivo latino moralis, onde l'italiano «morale», corrisponde, tra l'altro, al tedesco geistig, che qualifica l'«intellettuale», lo spirituale, inteso non nel senso chiesastico, espresso invece da geistlich, bensì come pertinenza della sfera della cultura. Così ancor oggi nel linguaggio accademico col nome di «scienze morali» noi distinguiamo dalle «scienze naturali» i saperi filologici e storici. Qui comunque non interessa se non richiamare l'attenzione sulla «contraddizione reale» e perciò, come la precedente, logicamente insanabile, e annidata questa volta alla radice della vita morale. [2.] Fichte ci ha insegnato che non solo la vita morale ma la soggettività stessa non è possibile se non nella relazione, e dunque entro una pluralità di viventi. Heidegger, ispirandosi al concetto diltheyano di vita per trasformare in ontologia la fenomenologia di Husserl, ha messo in evidenza che l'Erlebnis, il rapporto vissuto con il mondo, non è tanto una «rappresentazione» quanto un'«affezione», perciò incomunicabile. Io aggiungerei che appunto perciò l'Erlebnis nella sua affettività di fondo non andrebbe a rigore detto «incomunicabile», come se soltanto per un caso * In questa relazione si trovano qua e là incastonati, come vecchi mattoni in un muro nuovo, in quanto teoricamente coerenti con l'attuale discorso frammenti di miei precedenti scritti.

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    ALDO MASULLO La filosofia e la libertà *

    dedico questa riflessione a due miei carissimi confilosofi, Giuseppe Cantillo e Marco Ivaldo

    [1.] L' «individuo vivente» è, avverte Hegel, «la contraddizione assoluta [absolute Widerspruch]», in quanto è a un tempo «esteriorità oggettiva» (il fuori di sé) e «identità con sé» (l'in sé, l'interiore a sé). Il sentimento di siffatta contraddizione è il dolore. Qui Hegel inserisce una annotazione folgorante, che sembra fatta per legittimare il principio stesso della sua filosofia: «Pur se qualcuno dice che la contraddizione non è pensabile, nel dolore del vivente essa è addirittura un'esistenza reale» (Wissenschaft der Logik, parte II, sez. III, cap. I B, ed. a cura di Moldenhauer e Michel, Suhkamp, Frankfurt a. M. 1969, vol. II, p. 481; tr.it. Moni, rev. Cesa, Laterza, Bari 1968, vol. II, p. 874). Mai con tanta nettezza come qui il pensiero dichiara di essere la vita stessa nel suo pieno manifestarsi a sé, nel suo compiuto apparire (inclusivo del sé a cui si appare), le cui traumatiche contraddizioni nessuna pretesa di continuità identitaria può illudersi di sanare. Pensare fortemente la contraddizione reale, non meramente logica, è riconoscerla nella sua inoppugnabilità di manifestazione, nella sua irriducibilità di fenomeno. Altro il pensiero autentico non è: «fenomeno-logia». Questa premessa, se si procede sul filo dell'analogia con la contraddizione reale dell'«individuo vivente» in genere, ci aiuta a misurarci con l'ancor più inquietante contraddizione specifica dell'individuo umano, che non solo biologicamente ma pure «moralmente» è vivente, partecipe dell'emancipazione «culturale» dall'immediatezza della natura. In italiano del resto l'aggettivo latino moralis, onde l'italiano «morale», corrisponde, tra l'altro, al tedesco geistig, che qualifica l'«intellettuale», lo spirituale, inteso non nel senso chiesastico, espresso invece da geistlich, bensì come pertinenza della sfera della cultura. Così ancor oggi nel linguaggio accademico col nome di «scienze morali» noi distinguiamo dalle «scienze naturali» i saperi filologici e storici. Qui comunque non interessa se non richiamare l'attenzione sulla «contraddizione reale» e perciò, come la precedente, logicamente insanabile, e annidata questa volta alla radice della vita morale. [2.] Fichte ci ha insegnato che non solo la vita morale ma la soggettività stessa non è possibile se non nella relazione, e dunque entro una pluralità di viventi. Heidegger, ispirandosi al concetto diltheyano di vita per trasformare in ontologia la fenomenologia di Husserl, ha messo in evidenza che l'Erlebnis, il rapporto vissuto con il mondo, non è tanto una «rappresentazione» quanto un'«affezione», perciò incomunicabile. Io aggiungerei che appunto perciò l'Erlebnis nella sua affettività di fondo non andrebbe a rigore detto «incomunicabile», come se soltanto per un caso * In questa relazione si trovano qua e là incastonati, come vecchi mattoni in un muro nuovo, in quanto teoricamente coerenti con l'attuale discorso frammenti di miei precedenti scritti.

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    la sua comunicabilità fosse di fatto impedita, ma andrebbe detto «incomunicativo», in quanto esso è per principio intrinsecamente estraneo alla comunicazione. I viventi praticano il commercio dei significati. Il vissuto è l'irriducibile solitudine del senso. Mi torna in mente un rigo di Thomas Dumm: «noi scriviamo e leggiamo per dirci come essere soli insieme» (Apologia della solitudine, tr. it. di Caterina D'Amico, Bollati Boringhieri, Torino 1910, p. 181). La logica, nell'incontro con altre logiche, si esercita ad annetterle assimilandole a sé, e di ciò si soddisfa. Ma la vita non si accontenta della sua ermeneutica né si lascia acquietare dall'esercizio logico. Essa rompe ogni argine da lei stessa inventato ed è irresistibilmente spinta fuori di ogni apprestata difesa, oltre ogni ermeneutica e ogni logica, nel mare aperto del patire che essa è, dei casi e delle occasioni che ne costellano il tempo. La vita è tanto inseparabilmente confitta al suo patir casi e occasioni, che questo patire si chiude su se stesso come una sigillata conchiglia, in cui rimane prigioniero, ed è appunto il sé che nessun io per quanto potente riesce, forzandolo, a penetrare. Il sé è la vita stessa, introversa, sentita, il suo puntuale e incomunicativo senso, in cui pur affonda la radice dell'io. Non v'è io che, pur non potendo disserrare il sé, ne sia svincolato, fuoriesca dalla chiusa riflessività del patire, sia indipendente dal sé ed evaso dalla propria solitudine. Provate a spiegare a un individuo, colpito da una malattia, attraverso quali oggettivi processi biochimici ciò sia potuto avvenire, e sia insomma del tutto «naturale». Il malcapitato vi risponderà gridando: «Ma perché proprio a me ?». «Patico» dunque va detto il modo d'essere del vivente umano, il cui pensiero dal sentire si svolge e in esso non cessa mai come vissuto di essere avvolto (su ciò la mia mai ininterrotta riflessione è riassunta nel libro Paticità e indifferenza, Il melangolo, Genova 2004, soprattutto alle pp. 118-144). La vita è ogni volta sempre e soltanto unica, il suo patire, cioè il suo sentirsi vivere, il suo esser tutta la vita chiusa dentro di sé, voce a cui echeggiando solo la sua voce risponde: nient'altro che «sogno» ovvero, più prosaicamente, «monade senza porte e senza finestre». Ogni vissuto di vivente è tutta la vita, che soltanto così sentendosi, come sé, è propriamente vita. Perciò in ogni momento del suo vivere l'individuo umano è solo. Tanto più egli lo è in quanto inevitabilmente gettato nella vita storica, dove l'intensità relazionale e lo svilupparsi della ragione in termini di calcolo logico e di commercio linguistico non fanno che potenziare la sua sensibilità nell'esperire, il suo patire la vita come totalità esclusiva di ciascuno dei suoi momenti, intollerabile impossibilità di una «intimità comune», della Innigkeit romanticamente idealizzata da Hölderlin. Peraltro non v'è senso della vita umana, della vita vissuta, che non sia storico, dunque senso del tempo - memoria e nostalgia - , riassumendo ogni volta in sé tutti i sensi vissuti nei momenti precedenti, e ogni volta tendendosi verso la possibilità, verso il non ancor vissuto - timore e speranza. Di tutto ciò era ben convinto Wilhelm Dilthey, allorché agl'inizi del '900 scriveva: «Solo all'ultimo momento della vita si può trarre una conclusione sul suo senso, che non si manifesta se non al suo compimento [...]» (Critica della ragione storica, intr. e tr.

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    di Pietro Rossi, Einaudi. Torino1954, p. 343). Dunque, se pur si vuole, mentre la vita è in corso, tentare di afferrarne il senso, non v'è altra per quanto ardua via se non anticipatamente pensare il compiersi della sua totalità. In questa prospettiva per Heidegger la vita, solo se è assunta nel suo «essere per la morte» (il che sul piano ontico e poi, condizionatamente a questo, sul piano ontologico, dischiude «la possibilità di un autentico poter-essere-un-tutto»), lascia apparire il suo senso (Essere e tempo [1927], § 53, tr. it. di Pietro Chiodi, Longanesi, Milano 1978, p. 324). Ora la «tappa finale», sia essa «l'anticipazione della totalità autentica» o l'effettivo morire, è comunque lo smascheramento dell'assoluta solitudine. La filosofia può criticamente rilevare la solitudine, anzi «dedurne» la necessità: può cioè debitamente convertire in una categoria pensata, «trascendentale», un fatto, la vissuta insuperabilità della solitudine. Il vivente pensante non può fare nulla di più che prendere piena coscienza della solitudine come «autenticità» della vita che egli vive: senza solitudine, non si darebbe «autenticità», la corrispondenza del proprio apparire al proprio essere. Dumm ha ragione. Se qualcuno scrive, io leggo. Lui ed io ci cerchiamo «per dirci come essere soli insieme». Le nostre solitudini non passano l'una nell'altra, non si compenetrano, non si fanno una. Possono solo farsi compagne. E' ora evidente la contraddizione reale, assoluta, della «vita morale», espressione con cui non può non intendersi il campo delle relazioni vissute, il campo oggettivo della libertà. Vita morale non può esserci, se gl'individui non sono più di uno, ognuno libero di fronte all'altro. A favore di chi infatti, o contro chi, io mi deciderei ? Verso chi mi sentirei in dovere ? Se io sono libero, nessuno può avermi dato la mia libertà, che, se mi fosse stata data, e fosse dipesa così dall'altrui generosa decisione, libertà non sarebbe. Tuttavia, come la mia non data ma originaria libertà si sarebbe potuta per la prima volta esercitare, svincolandosi dall'inerzia del determinismo naturale, se l'altrui già attiva libertà non l'avesse provocata o, per dirla con Vico, non ne fosse stata l'«occasione», o ancor meglio, per dirla con Fichte, non l'avesse coinvolta con la sua Aufforderung, con il suo «invito» ? L'attivarsi della mia libertà è la risposta al richiamo dell'altrui libertà. Eppure io sono «solo», e ognuno lo è. La vita naturale, si è ricordato con Hegel, mostra l' «assoluta contraddizione» tra la differenza costitutiva della sua oggettività e l'identità propria della sua soggettività. Una contraddizione non meno assoluta si manifesta nella vita morale, in quanto in un medesimo tempo essa è relazione tra viventi e solitudine del loro vissuto. Se della contraddizione intrinseca della vita naturale l'irrefutabile prova è il dolore, non si può negare che anche la contraddizione della vita morale è attestata da una «esistenza reale». La libertà, la quale implica la relazione mia con altri, nel momento della decisione è tutta mia, e solo mia: mentre io sono sotto il peso della mia ineludibile responsabilità verso altri, nessuna solidarietà d'altri sostiene la mia solitudine. «Esistenza reale» della contraddizione nella vita morale è l'angoscia che ci afferra dinanzi a una decisione seria da prendere. Ma lo è pure il rimorso, che giunge anche a scatenare gesti estremi, allorché è angoscia retrospettiva per una decisione malvagia, a suo tempo presa insieme con altri ma il cui ricordo è reso insopportabile dal

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    desolato senso della solitudine in cui dagli altri si è stati lasciati. Esemplare è il caso di Giuda Iscariota. Costui, come narra l'evangelista Matteo, resosi conto, dinanzi alla condanna di Gesù, della terribile gravità del suo gesto, riporta ai committenti il denaro del tradimento, imprecando per aver peccato contro il sangue innocente, e dinanzi alla loro sprezzante risposta che la cosa non li riguarda e se la veda dunque da sé, va ad impiccarsi. L'esito dell'azione malvagia, a cui, nata nella relazione con altri, viene rifiutata la solidarietà dei complici, schiaccia l'individuo nella disperata solitudine. «Solo» peraltro non è unicamente il colpevole, ma alla fine anche l'innocente. Rilke evoca Gesù nel giardino degli ulivi: «Io non ti trovo più. No, non in me. / E non negli altri. Non in questa pietra. / Io non ti trovo più. Io sono solo». Il fatto è che «tutti lascian solo chi si perde» (Poesie. 1907-1926, a cura di Andreina Lavagetto, Einaudi, Torino 2000, pp. 24-25 e 26-28). O forse, con ben più crudele verità, esser lasciati soli è perdersi. Dunque essere originariamente soli, come tutti noi siamo, è essere originariamente persi ? Relazionalità e solitudine sono le due contrarie e inseparabili facce della vita morale. Per la prima l'individuo si trova ad essere «socio», interessato perciò all' «ordine» della società. Per la seconda l'individuo è «l'unico», e il suo interesse non può essere che la sua propria «salvezza». [3.] La pluralità degl'individui è la prima condizione necessaria dell'umana libertà e quindi della vita morale, ma non ne è condizione sufficiente. Se non ci fosse in una dinamica relazione con me almeno un altro vivente pensante, la libertà non avrebbe per me alcun senso. Ma la relazione con altri non basta, non esigendo in quanto tale il coinvolgimento dell'interiorità. Fichte negli scritti tra il 1796 e il 1798 ha criticamente dedotto questa condizione, riassunta nell'incisivo principio che «nessuno diviene uomo se non tra uomini», ma alcuni anni dopo intuisce e illustra la seconda condizione che, sempre e soltanto insieme con la prima, è alfine sufficiente a fondare la realtà della vita morale. Si considerino le straordinarie pagine della Dottrina della scienza del 1804, in cui il ragionamento si sviluppa sotto il segno di un’eloquente metafora speculativa: «chi è giunto sull’ultimo gradino, non ha più bisogno della scala [Wer heraufgekommen ist, der kümmert sich nicht weiter um die Leiter]». E' la stessa metafora che più di un secolo dopo sarà utilizzata, quasi con le medesime parole, da Wittgenstein nella penultima proposizione del suo celebre Tractatus. Fichte avverte che la «dottrina della scienza» non è in sé un valore assoluto, ma è solo una via per ascendere al «sapere assoluto». Il «sapere assoluto» è l'unica cosa che abbia valore: «Solo nel sapere, in quello assoluto, sta il valore, e tutto il resto è senza valore [Nur im Wissen, und zwar im absolutem, ist Werth, und alles Uebrige ohne Werth] (Wissenschaftslehre del 1804, qui cit. dall'ed. di R.Lauth e J.Widmann, Meiner, Hamburg 1986, p. 254; nella tr. it. cur. da M.V. D'Alfonso, Guerini e Associati, Milano 2000, stranamente di tale proposizione, il cui posto sarebbe a p. 352, non si trova traccia). La conclusione, «secondo cui solo il giusto sapere o la sapienza [das rechte Wissen oder die Weisheit] hanno valore», Fichte ammette che sia «molto urtante adesso, nella

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    nostra epoca, interessata unicamente all'attività produttrice di opere esteriori [aüssere Werktätigkeit], e vi apparirebbe senza dubbio come un'inaudita novità» (Ibidem). Al sapere assoluto, sede unica del valore, Fichte contrappone, parlando di «attività produttrice di opere esteriore», il sapere tecnico, nella più ampia accezione di tale termine. Tutte le tecniche, anche le varie morali come tecniche di disciplinamento soggettivo, risultano in sé deserte di valore. Non è insignificante, a questo proposito, anzi rivelatore del giudizio sprezzante di Fichte per la positività di qualsiasi tecnica disciplinare, moralistica e giuridicizzante, ciò ch’egli scrive parlando di un certo «cristianesimo trasformato in dottrina della prudenza [Klugheitslehre] e in dottrina morale della prudenza [Klugheitssittenlehre]». A ciò fa da pendant l'avvertimento che «solo nella viva conoscenza retta e verace [bei der rechten und wahrhaft Erkenntnis] si dà spontaneamente una retta condotta», e che «colui, al quale la luce è interiormente apparsa, non potrebbe impedirsi, se pur lo volesse, di farla brillare esteriormente». Non è per nulla indifferente l'origine, la motivazione, della «retta condotta». Questa infatti, se nasce dalla prudenza egoistica o magari dal rispetto di sé in conformità di un imperativo categorico, produce «frutti morti e freddi [todte und kalte Früchte]», e si accompagna con una sorda ostilità per la legge. Invece, «soltanto se procede da una visione chiara [aus klarer Einsicht], avviene con amore e gioia [mit Liebe und Lust], e l'atto è ricompensa [belohnt] a se stesso» (Ibid., p. 256; tr. it., p. 354). Qui è ormai fuori gioco la «filosofia morale» dell'età di Kant, dalla cui crisi l'«etica» evita di farsi travolgere, eludendone il paradossale dilemma tra la morale religiosa e intollerante e la morale atea e tollerante però autodistruttiva. Fichte nel testo del 1804, solo qualche anno dopo la cosiddetta svolta «religiosa» del suo pensiero, ne corregge l'ambiguo linguaggio. Il suo non è più un problema di contenuti normativi e comportamenti obbligati, né di legittimazioni all'imperio sulle coscienze e di obbedienze o trasgressioni, di autorità e di codici, di doveri e diritti, di oscuri moventi e di apparenti motivazioni, di virtù come «abiti» e di spontaneità come interiorizzazione di comandi, né insomma, in linea di principio, di fondazioni teologiche oppure «naturali» o «razionali». Com'è ormai chiaro, la morale si costruisce nella relazione tra i viventi umani come tecnica di conservazione dell'ordine che la ragione fa ritenere indispensabile per la loro «sicurezza» mondana. Calzante è l'osservazione di Nietzsche: «Quando una persona ha consolidato i suoi costumi, con cui sopporta il suo ambiente e il suo ambiente lo sopporta, allora essa è morale. Fintanto che oscilla e nessuno può farci affidamento, non lo è ancora. L'uomo "morale" diventa "calcolabile", per esempio come uomo di partito: di qui il molto odio contro l'uomo immorale» (Opere, a cura di Colli e Montinari, Milano 1976-sgg., vol. V, tomo I, Frammenti postumi. Estate 1880, 4 [102]). L'etica è tutt'altro: non ammette la categoria della «calcolabilità». Risponde al grido dell'individuo che, nell'angoscia dell'irrimediabile solitudine cui è consegnato, invoca la «salvezza» della sua identità. Se ogni volta, in ogni incomunicativo vissuto suscitato dall'irruzione della differenza, io non mi «ri-conoscessi», sarei perduto, condannato alla solitudine di me isolato da me stesso. E' questo, nella celebre analisi di Hannah Arendt, «l'incubo di essere abbandonati da noi stessi» (Alcune questioni di filosofia morale, tr. it. Einaudi, Torino 2006, p. 56).

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    Secondo Fichte, dell'etica ha cura il pensiero, poiché essa stessa è la questione del pensiero. La sua comprensione va cercata non nella «visione» propria del sapere ordinario, ma «in un luogo più profondo [in der tiefer liegenden Einsicht]» (Ib., 273; tr. it., p. 375): se la visione soltanto in quanto essa è invisibile rende visibile l'oggetto, noi possiamo appropriarci del nostro vedere non come di un oggetto, vedendolo, bensì penetrandolo, afferrandolo «in un'intuizione ben più profonda di quanto io possa esprimere con parole». Questa è «la più interna essenza della pura visione come tale». Il vedente qui è «un essere che internamente si esteriorizza» [ein innerlich sich aüsserndes Sein]» (p. 259, tr. it., p. 358), ovvero che, quanto più profondamente è vivente dentro di sé, tanto più è incomunicativo. Traluce ormai la paticità del logo, il suo stare, come ogni vissuto, sotto il segno della primaria e radicale emozionalità del riferimento a sé. Il logo non solo è pensiero, ma è pensiero vissuto. Altrimenti la ragione non sarebbe il manifestarsi né, tanto meno, la libertà. Noi non siamo un «noi a sé [wir an sich]», bensì il «noi in sé [wir in sich]», il noi «puramente interno [rein innerlich]» (Ibid., p. 152; tr. it., p. 231). Noi, la ragione come illimitata comunicazione intersoggettiva, siamo questo «puro fatto assoluto», e più precisamente non «il semplice fatto, ma insieme la visione che questo fatto è la pura esteriorizzazione originaria e la vita della ragione, e così il fatto è genesi, e la genesi fatto» (Ibid., p. 273; tr. it., p. 374). Il «trascendentalismo» - logica del risalire, da modi ricorrenti di esperienza vissuta, al pensiero delle condizioni necessarie della loro possibilità - trova qui, nel caso appunto della comunicazione intersoggettiva, l’estremo punto d'approdo e l’invalicabile confine. Cos'è ciascuna di tali pensate condizioni necessarie di possibilità, se non ciò che ogni volta fonda e sostiene l'intera visione, ovvero la coscienza della coscienza come fenomeno dell'essere ? Essa contiene perciò in sé l'origine di tutte le condizioni di possibilità del fenomeno, mentre non v'è nulla che, a sua volta, contenga di essa le condizioni di possibilità. Invero, se qualcosa contenesse le condizioni di possibilità dell'originario, questo non sarebbe l'originario in quanto idealmente preceduto dalle sue condizioni di possibilità. Perciò l'enunciato del discorso filosofico «non ha valore che sotto la condizione di ciò che è primo [des Ersten]», cioè della visione non come una semplice «ragione» (fondamento, Grund), come «condizione della propria possibilità [Möglichkeitsgrund derselben]», ma come la «ragione assoluta», il «fondamento assoluto della sua stessa realtà [absoluter Wirklichkeitsgrund derselben]» (Ibid., p. 270; tr. it. p. 372-373). Alla ragione assoluta, per proclamarne l'assolutezza, non si presta la nostra parola. «Che la ragione sia immediatamente e assolutamente il fondamento [Grund] di una esistenza, e precisamente della sua esistenza, poiché di nient'altro può esserlo, significa: questa esistenza non è ulteriormente da fondare; non si può indicare una premessa genetica, a partire da cui si possa spiegarla, poiché l' esistenza sarebbe allora fondata non sulla ragione assoluta, ma su una ragione oggetto a sua volta di comprensione: invece si può dire soltanto che essa è fondata per mezzo della ragione. Un puro assoluto fatto» (Ibid., p. 272; tr. it., p. 373). La ragione assoluta siamo noi stessi, non in quanto parliamo della ragione, ma in quanto la viviamo, fino in fondo penetrandola, coscienza senza parole della ragione, ovvero silenziosa paticità del logo originario.

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    Non si riannoda tutto ciò all'enigmatico ma ingiustamente sospetto tema kantiano del «fatto della ragione», che è appunto il fatto etico ? Nella meditazione fichtiana, a questo punto appare con chiarezza che il «fatto della ragione», con cui s’identifica l’etica, è sì un «fatto» perché è assolutamente primario, non legittimato da alcuna «deduzione razionale», e tuttavia non è un bruto fatto, accidentalmente occorso e ottusamente opaco all'intelligenza, ma è straordinariamente trasparente, del tutto intelligibile, poiché non è altro che noi, il nostro stesso pensarlo. Non ci si riavvia in tal modo a esplorare lo spazio dell'etica per intendere, al di là dei significati delle formule normative della morale, la loro ragione prima, il loro senso e dunque, in ultima analisi, ravvivarne la motivazione profonda ? L'interesse alla «salvezza» più che all'«ordine» è qui appieno evidente. Fichte non abbandona il linguaggio della svolta religiosa, bensì lo usa, depurato dell’ambiguità, con un tono nuovo. «Il fine ultimo è che l'uomo arrivi alla vita eterna [zum ewigen Leben], al possesso di questa vita, alla sua gioia e alla sua beatitudine». La vita eterna però non è se non, «entro noi, il riconoscere la legge originaria e la sua immagine eterna, il puro riconoscere; e questo riconoscere invero non solo conduce alla vita, ma è la vita [bei uns, das Urgesetz und sein ewiges Bild, e r k e n n e n ; bloss e r k e n n e n ; und zwar führt nicht etwa nur dieses Erkennen zum Leben, sondern es ist das Leben]» (Ibid., p. 255; tr. it., p. 353). Il senso dell'etica dunque è la libertà originaria, che si ri-conosce. La sua motivazione è la «salvezza», la liberazione dell'uomo a se stesso, la sua restitutio in integrum, alfine richiamato dall'esilio della macerante «solitudine», riammesso in un'ideale comune «intimità». Un grande studioso di Fichte, Didier Julia, scrive che «è stato necessario attendere una maturazione generale della coscienza filosofica, perché la Wissenschaftslehre [del 1804] finalmente trovasse una risposta sensibilizzata al suo messaggio» (Préface alla trad. franc. della Wissenschaft del 1804, Aubier, Paris 1967, p. 13). A me sembra che questa «maturazione» risponda all’occasione del nostro presente. Oggi, nell'occhio di un ciclone epocale e globale, si scopre tutta la debolezza della pur paludata strumentalità delle «filosofie morali» e, al di là di tutte le dogmatiche delle positive morali storiche, al di là delle mistificazioni fondamentalistiche e delle computistiche ragionevolezze utilitaristiche, si riapre finalmente lo spazio dell'etica. [4.] La «filosofia morale» ovviamente non può non essere una filosofia della libertà, accanto a molte altre filosofie, come la filosofia della scienza, o la filosofia dell'arte, o del gioco, o dell'educazione, o della religione, o della politica, e così via. I «filosofi morali», professionalmente intesi, si occupano di «fondare», vale a dire giustificare con argomentazioni persuasive, razionali o per lo meno ragionevoli, la necessità che la vita umana venga governata da qualche sistema di regole generali imposte alla volontà di tutti. Il che comporta d'indagare sull'autorità legittimata a stabilire le regole, sulla natura dell'obbligazione al rispetto di esse, sulla necessità logica della loro universalità, sulla relatività psicologica del rapporto dei destinatari con esse, sulla funzione delle «virtù». Su questo piano è inevitabile la polarizzazione tra metafisici e critici, o come pur si potrebbe dire tra fondamentalisti e possibilisti. Nel nostro tempo la scienza matematico-sperimentale e i suoi connessi sviluppi tecnologici introducono modificazioni sempre più profonde nel rapporto dell'uomo

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    con la natura, soprattutto con il suo stesso corpo, e per inevitabile conseguenza nel rapporto dell'individuo con il potere regolamentare sociale. Complementarmente irrompono le specializzazioni della «filosofia morale», prima fra tutte la cosiddetta «bioetica». In questi nuovi territori euristici i «filosofi morali», sia metafisicamente sia criticamente ispirati, fungono da tecnici. Quando, per la sopravvenuta disponibilità di più incisivi strumenti e metodi operativi e la mancanza di corrispondenti modelli di condotta, la legittimazione di pratiche modificatrici dell'umano viene posta in crisi, i «filosofi morali» si trovano impegnati come tecnici nell'elaborare risposte-guida, e a loro si chiede l'apprestamento di veri e propri manuali «deontologici». Ora, qualsiasi percorso si segua nella complessa sfera di ricerche tradizionalmente inteso con il nome di «filosofia morale», dalle «deduzioni dei principî» alle analisi empiriche delle condotte, alle argomentazioni normative, è impossibile che non vi si trovi implicita l'idea della libertà. Appartiene dunque alla «filosofia morale», in ultima o in prima istanza, il compito critico di porre in modo esplicito la domanda se a proposito della condotta umana si possa veridicamente parlare di libertà. Sulla risposta affermativa si regge, o per la negativa cade, la possibilità di ogni discorso di competenza della «filosofia morale», la quale corrispondentemente significa qualche cosa o è vuota di senso. Certamente anche su tale estrema questione i «filosofi morali» tecnici non possono evitare di cercare risposta, al di là della filosofia, nella psicologia empirica e nelle sue strumentazioni tecnologiche, in breve nelle «neuroscienze». Queste sottopongono il problema della libertà al trattamento sperimentale. Però, con tutta la mobilitazione tecnologica, non riescono a concludere se non che la coscienza della decisione, così come segnalano gli esperimenti di Benjamin Libet, è preceduta di mezzo secondo dall'attività cerebrale inconscia che avvia l'azione (Dick Swaab, Noi siamo il nostro cervello, tr.it. di D. Santoro, Elliot, Roma 2011, pp. 372-374). E' evidente che questi neuroscienziati si pongono il problema di una libertà, pensata ancora nell'obsoleta versione del «libero arbitrio», cioè come isolato atto di una pura coscienza, senza corpo e senza storia. Essi sembrano aver dimenticato che, già nel primo Settecento, Vico aveva contro Cartesio definito la libertà come esercizio per «tener in freno i moti de' corpi per o quietargli affatto o dar loro migliore direzione» (Scienza nuova del 1744, in Opere, a cura di A. Battistini, Mondadori, Milano 2005, p. 578, cpv. [Nicolini] 388), dunque funzione essenziale della vita storicamente vissuta. A questo punto l' «etica» viene irresistibilmente in primo piano. Al di là di tutte le meritorie ricerche, generali e specialistiche, dei «filosofi morali», e proprio perché tutto ciò, di cui essi si occupano, ha senso solo se la libertà è reale, dobbiamo interessarci della libertà, cominciando con il prendere atto che essa non si dimostra, ma si mostra. La libertà si mostra in ogni nostro inizio di atto decisionale. Ma nell'esercizio filosofico essa matura. L' «etica» è la filosofia pura e semplice, la filosofia senza specificazioni, la filosofia che nella sua autenticità è la libertà stessa statu nascentis. Pensare è immettere libertà nel mondo. La vita è sostenuta dal calcolo, ma non è vita, vita animata, anzi vita umana, se non in quanto è apparirsi, presenza a sé; se non in quanto è vissuta, soggettività. Essa invero avvolge l'insensata aridità dei calcoli con il vibrante velo d'immagini, che la reattività

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    emozionale e fantastica intesse, e che attraverso il linguaggio, come genialmente intuì appunto Vico, diviene comunicativa e umana, si fa pensiero. L'uomo non solo sente, ma cerca di farsi un'idea del suo sentire, essendo interessato, per bucare la sua solitudine, a comprenderlo come una possibilità comune agli altri, anzi a tutti gli altri, il senso appunto della vita che si vive. In virtù del linguaggio, che permette di comunicare per simboli, mettendo in comune gli orizzonti di senso della vita, il più proprio dell'umano non è certo il calcolo, che pur indispensabilmente lo regge, ma l'essere-nel-mondo: lo stare con altri in relazione di punto di vista e orizzonte, non solitariamente percettiva ma comunitariamente «ideale», nel che appunto originariamente si dispiega il pensiero. Il pensiero, non in quanto semplice «ragione», particolare funzione tecnica di calcolo, ma atto umano integrale, è «e-sistenza», «star-fuori-di-sé», svincolarsi dall'immeditato vivere, incessante uscir fuori dal sé in cui ogni volta si è usciti, e intanto, affacciati nello spazio impersonale del «simbolico», farne parola con gli altri e innanzitutto con se stessi. L'essere dell' «e-sistenza» è il paradossale stare-nell'uscir-fuori. In ciò si esercita la «trascendenza», non teorizzata, astratta, ma vissuta, concreta. La mente è anche calcolo, ma nell'economia della vita mentale il pensiero non è il calcolo. Pur continuando a vivere, come ogni vivere, del naturale funzionamento del calcolo, il pensiero lo oltrepassa, eccede la vita, trascende l'immediatezza funzionale della sua fisicità. Calcolo sono le operazioni della vita. La vita però, in forza del solo calcolo, non farebbe che sopravvivere. Se la vita vive, cioè si rinnova e si accresce, «si evolve», lo deve a pur minimi errori di calcolo, a irregolarità nelle sequenze, a imprevedibili anomalie dei determinismi, in altre termini all'irriducibilità della contingenza, al senza causa, alla «grazia». (Su ciò, il mio libro Il tempo e la grazia, Donzelli, Roma 1995). Soprattutto, come vita umana, la vita non potrebbe vivere, se incessantemente il pensiero non la traesse fuori dall'effettività del reale che essa attualmente è, per proiettarla nella fantasia del possibile, che essa attualmente non è. [5.] Oggi il pensiero è costretto a misurarsi con l'invadenza della tecnica, lanciata non solo verso il divenir sistema ma verso il ridurre a sé, al proprio sistema, l'intero sistema sociale, come ha prospettato il sociologo Jacques Ellul. Questi, mostrando di non condividere affatto le tesi ottimistiche, secondo le quali «attraverso il Video si accede alla libertà, alla scelta, all'autonomia», pessimisticamente conclude che siffatte tesi già «attestano come l'uomo sia interamente "da questa parte" del sistema e non ci sia più alcun "al di là" del sistema, a partire da cui esso possa esser "guardato" e criticato [...]». Infatti «il processo di crescita tecnica comporta o la distruzione dell'universo estraneo o la sua assimilazione» (Le Système technicien [1977], Le cherche midi ed., Paris 2004, tr. it. di G. Carbonelli, Il sistema tecnico, Jaca Book, Milano 2009, p. 388).). Alla domanda «cosa l'uomo divenga nel sistema tecnico, e se si possa conservare la speranza tanto spesso idealisticamente formulata che l'uomo "prenda in mano", diriga, organizzi, scelga e orienti la Tecnica», la risposta di Ellul tronca dubbio e «speranza»: «l'uomo a cui si attribuisce il potere di scelta, di decisione, di iniziativa, di orientamento» è «un uomo ormai totalmente sommerso nella sfera tecnica». Si tratta

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    così di un uomo strettamente «conformato»: la cultura, lo svago, il desiderio, le scelte, tutto è «tecnicizzato» (Ibid., p. 182). La libertà stessa alla fine risulta «tecnicizzata», ridotta a calcolo, strumento, scelta indotta: dunque non è più libertà. Intanto ora sappiamo bene che l'aperto spaziare della mente, il suo «oltrepassarsi» verso un punto di vista da cui guardare a se stessa (la «riflessione» e la «critica»), il suo confrontare le cose tra di esse e con se stessa (il «giudizio» e la «valutazione»), il suo levarsi quanto più possibile in alto sopra la vita per scrutarla dentro sempre più a fondo, in una parola la sua «trascendenza», soltanto tutto ciò garantisce l'umano contro la riduzione ad efficientissima ma apatica «indifferenza» di macchina calcolatrice. Centrale nella cultura della prima metà del secolo scorso è stato il riconoscimento della «trascendenza» come il più proprio segno dell'umanità della mente. Certamente l'uomo non sta nel mondo come un contenuto in un contenitore. Non sta inerte in un luogo, tanto meno in una propria oggettiva identità; bensì, pur restandovi, ne fuoriesce: la rompe, si sporge fuori, si apre a ciò, nel mezzo di cui si trova e in relazione a sé gli dà significato. Egli non solo, come tutti gli altri esseri animati, re-agisce agli stimoli esterni e del suo stesso corpo, ma - a dirlo con la pregnanza del verbo greco - «patisce» (πάσχει) la sua vita, provandone a fondo la forza, e sempre in un modo o nell'altro reagendovi, fecendosi insomma «soggetto», esposto ai colpi del mondo ma anche consapevole attore e modificatore di esso. L'uomo immaginando progetta, inventa risposte inedite, insomma in un senso forte «agisce», diviene cultura, trama di istituzioni: così si fa storia, tessitura di passioni e azioni narrabili. In altri termini, non v'è «pensare» senza «percipiente sentire»: non si può pensare se non ciò che si è provato, vissuto (memoria remota e prossima, e tanto prossima da non distinguersi dal presente), o si fantastica, s'immagina dunque come possibile. L’originario atto che ci fa umani è il mai completabile esercizio di «assaporare» ogni immediato sentire, il percepire ancor gravido di emozioni, e così provarne il gusto, spremerne il succo, in breve saperlo. Di questi innumeri «assaggi» la mente del singolo seleziona i tratti più promettenti, li fissa come «simboli», preziosi riferimenti, infine li assime come «limiti» e «valori» nel flusso di scambio con gli altrui punti di vista. Di essi la mente si serve come di fermi «punti d'appoggio», su cui fare leva per sollevarsi sul mondo («reale») e così nel proprio autostabilizzante moto («ideale») trascenderne l'inarrestabile instabilità. E' questo il trascendere, di cui prima si è fatto cenno: non intellettualistica astrazione ma «fenomeno», originaria «intenzione» soggettiva che l'astrazione tenta di fissare in un oggetto. Se ne trova la precisa segnalazione in una pagina di Karl Jaspers: «Il mondo in se stesso non possiede alcun punto d'appoggio, anzi in sé è in costante rovina, anche se questo fatto sulla base della esperienza può essere solo mostrato e non dimostrato» («mostrato» e «non dimostrato»: concretamente vissuto e non costruito in astratto). In sostanza, «il trascendere nasce nell'inquietudine, che si prova davanti alla fugacità di tutto l'esserci e senza il trascendere sarebbe ineliminabile» (Philosophie, III, Metaphysik, Berlin-Göttingen-Heidelberg 1932; tr. it. Metafisica, di U. Galimberti, Mursia, Milano 1972, p. 61). L'umano peraltro consiste non solo nel fenomeno della «trascendenza», ovvero del trascendimento evocato da Jaspers, ma anche nell'altro, e inseparabile, aspetto della sua

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    originaria intersoggettività, a suo tempo argomentata da Fichte. Invero, come già si è accennato, il trascendimento e l'intersoggettività non sarebbero possibili l'uno senza l'altro. Come potrei uscire dall'isolata immediatezza del vivere, senza il mio esser nato come coscienza in relazione, senza la sollecitazione di altri, e come potrei aprirmi a questi altri se il mio esser-ci non consistesse nel trascendere la mia chiusa identità corporea e aprirmi alle comunicanti presenze del mondo ? L'umano si attua solo nell'«universo in espansione» di una monadologica pluralità non so se «senza porte», ma certamente non «senza finestre», nell'aperto degl'incontri e degli scontri. La piena consapevolezza di ciò è messa criticamente a fuoco, nel secolo scorso, dall'esistenzialismo fenomenologico. A proposito di «trascendenza» non merita tanto di essere ricordato di Martin Heidegger il testo del 1967, in cui lo sfondo metafisico, sia pur problematico, si esibisce nella dichiarazione che «l’essere è il trascendens puro e semplice» e, se pur si concede che «l’essere traluce [lichtet sich] all’uomo nel progetto estatico», lo si fa con l'avvertenza che «nel progettare, chi getta non è l'uomo, ma l'essere stesso» (Brief über den Humanismus, in Wegmarken [1967], Klostermann, 2 ed., Frankfurt a.M., pp. 333-334; tr. it. Lettera sull'"umanismo", in Segnavia, a c. di F.Volpi, Adelphi, 2 ed., Milano 1987, pp. 289-290). Piuttosto, per l'innovativa intonazione decisamente antropofenomenologica va qui di Heidegger riletto il testo del 1928: «L'esserci dell'uomo può rapportarsi a "se" stesso, in quanto tale, solo se oltrepassa sé nell’in-vista-di». Così «tutti i comportamenti sono radicati nella trascendenza». In essi vive la libertà: «L’oltrepassamento verso il mondo è la libertà stessa» (Vom Wesen des Grundes, in Wegmarken, cit., pp. 161-162; tr. it. cit., pp. 119-120. In fondo, pensare è vivere senza il semplice coincidere con la vita che si sta vivendo, bensì eccedendola con uscite laterali e soste sia pur temporanee, e-stasi della mente: è stare immersi nella vita ma non sommersi da essa, non lasciarsi essere ma interrogare. La «trascendenza» non contraddice anzi caratterizza la rigorosa fedeltà all'empiria e, insieme, al pensiero che vivendola la riconosce e l'interpreta. Il «fenomeno», l'umano manifestarsi a sé, è «trascendenza», libertà. Peraltro, nel riconoscersi «trascendenza», apertura all’«oltre», il singolo non può più chiamarsi fuori dalla sua relazione con gli altri, né eccepirsi come «non coinvolto». La sua libertà non può dirsi esente dal «ri-spondere», dichiararsi «non responsabile». Dalla «trascendenza» discende il principio eticamente decisivo. La condizione che, nella pratica del vivere, rende possibile la relazione con gli altri, e rende ognuno responsabile, è la fiducia. L'onestà del religioso si fonda nella sua fede in Dio. L'onestà del non credente si regge sulla sua fiducia nell'altro uomo. Ora proprio la «trascendenza» del pensiero è avviata ad estinzione dal processo di tecnicizzazione. Ellul amaramente conclude che «l'uomo della nostra società non possiede alcun punto di riferimento intellettuale, morale, spirituale, a partire da cui possa giudicare e criticare la tecnica» (Op. cit., p. 387). [6.] La tecnicizzazione, sopprimendo la «trascendenza», bandisce la fiducia e ad essa sostituisce il controllo. Come rileva Mario Perniola, «la "sicurezza" dell'Occidente non è più garantita dal diritto internazionale, dalle Nazioni Unite, dal pacifismo, dai diritti dell'uomo», insomma dalla fiduciosa possibilità della libertà contrattuale, ma soltanto dalla potenza «"impossibile, eppure reale" del controllo capillare e totale del pianeta,

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    assicurato dalle nuove tecnologie informatiche» (Miracoli e traumi della comunicazione, Einaudi, Torino, 2009, p. 127). Il tema della fiducia coinvolge, sotto nuova luce, il senza-fondo della libertà. Heidegger nel corso del 1942-43 si propone, come si sa, di capire perché, nella lingua greca, il contrario di ἀλήθεια sia ψεῦδος, che non designa nascondimento, bensì inganno. Egli certo si trova perfettamente a suo agio con l’idea che la dimenticanza sia velamento, lo star nascosto dell’essere (Parmenide, tr. di Gurisatti, a cura di F.Volpi, Adelphi, Milano 1999, p. 75). Ma, date le sue premesse teoriche, ben più arduo è spiegare il fatto che il contrario di ἀλήθεια sia ψεῦδος. Heidegger ricorre alla storia del passaggio dallo ψεῦδος greco al falsum latino e all’opposizione tra il verum come «forza che regge» (il dominio: imperiale prima, ecclesiastico poi) e il falsum che (per la radice comune con il greco σϕάλλω) rinvia al «cadere». Egli infine conclude con l’interpretazione sottilmente fobica dell’ «ἀλήθεια murata nel bastione romanico, formato da veritas, rectitudo e iustitia» (32). La veritas, per Heidegger, esprime dunque l’idea della verità quale volitiva decisione, funzione di autorità, effetto di violenza ordinatrice, in contrasto con l’idea greca dell’ἀλήθεια quale remissiva apertura allo svelarsi dell’essere come un dono. La complicata argomentazione ermeneutica di Heidegger appare qui piuttosto fuori tema. Se infatti l' ἀλήθεια è l’uscita del ricordo autentico dal nascondimento dell’oblio, dunque un muoversi, risulta più appropriato, e più semplice, ammettere che la negazione dell’ ἀλήθεια non può consistere in uno stare, il nascosto, bensì in un muoversi maldestro, in un’errata reminiscenza, in un’uscita-dal-nascondimento fallita, in ultima analisi in uno ψεῦδως, un inganno . Si ribadirebbe, in via inversa, che il significato primigenio di verità è semplicemente il non essere ingannati nel ricordarsi di sé, sia come individui sia come popoli: nella reminiscenza personale, il non essere ingannati proprio da sé, come nella reminiscenza collettiva il non essere ingannati da coloro che parlano in veste di viventi latori delle memorie, come sono ad esempio, secondo la celebre diffida platonica, i poeti e i narratori. La verità è il valore di tutto ciò che, apparendoci, non c’inganna. Il valore viene conferito ad una verità dalla coscienza di chi crede in essa. Ancora una volta il linguaggio è assai autorevolmente suggestivo. L’aggettivo verus deriva infatti da una radice iranica che significa credere (A.Hernout e A.Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine, Klincksieck, Paris 1932, p. 1053).). Non si crede in ciò che è vero, ma è vero ciò in cui si crede. Il che non vuol dire affatto ridursi agli estremi irrazionalismi del fideismo o del pragmatismo, bensì all’opposto capire razionalmente, fino in fondo, che il valore di verità è opera soggettiva: ovviamente, non arbitraria bensì sorretta da tutti i possibili accorgimenti strumentali (criteri, metodi, calcoli, analogie) offerti dalla logica dimostrativa e, perché no ?, dalla sperimentata intuizione. «Credere» in una verità vuol dire essere in coscienza convinti di avere adottato tutti gli strumenti, ragionevolmente possibili nella situazione storica data, per difendersi dall’errore, cioè per non lasciarsi ingannare. Questa è la «criticità». La verità è funzione di credenza criticamente maturata. Perciò essa non è mai assoluta, se non nella nostra credenza intellettualmente onesta.

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    Si mostra qui in modo evidente che la verità, il non essere ingannati, infine dipende dalla decisione di non ingannare, neppure se stessi. Insomma il valore di verità prima che ad una divinità o a un enunciato scientifico viene, nella vita quotidiana, attribuito da un uomo alle parole di un altro uomo. La prima virtù necessaria perché la vita umana sia possibile è la buona fede, il dire la verità: ai concetti oggettivi della «verità» e della «buona fede» corrispondono gli atteggiamenti soggettivi della «veracità» di chi parla e della «fiducia» di chi ascolta. Questi sono le origini di quelli. Anche di ciò restano tracce nel linguaggio. Nel lessico inglese, per esempio, nome della «verità» è truth e nome della «fiducia» è trust. Risulta altresì evidente che la garanzia della verità, la sicurezza di non essere ingannati, non si radica altrove che nella coscienza del singolo, nella mia coscienza. Non vi sono argomentazioni, dialoghi, convenzioni, e nemmeno altre operazioni intersoggettive, le quali possano da sé fondare il valore di verità, se non vengono, grazie alla mia credenza e ad essa soltanto, accreditate come sostegni della verità. Quando di fiducia, di energia del credere, in una giovane mente non resta più nulla, la vita è finita. Il 21 maggio 2010, un diciassettenne di San Donà di Piave, suicida, lasciò scritto su "Facebook": “Sono stanco di tutto. Non mi fido più di nessuno” Il pessimistico detto Homo homini lupus, con ben più intima pena riformulato nella evidente allusione ad una pattuita fede tradita, induce un Malatesta a fare scolpire, equamente divisa su due portali di una sala del castello di Gadara, la disperata iscrizione Maledictus homo qui confidit in homine. Se il tempo è patire d’esser fatti bersaglio della differenza, il venir inguaribilmente feriti nella continuità d’essere della propria identità, esposti al moltiplicarsi dei frammenti di sé e al rischio della loro improbabile ricomponibilità, la verità è l’unica nostra possibilità di compensare la perduta unità dell’essere con la più rigorosamente organizzata e regolata ovvero coerente e concorde molteplicità dell’apparire. In questo paradossale significato, del tutto diverso dall’originario, può ripetersi: veritas filia temporis. La verità come bisogno di stabilizzazione è una potente contromisura avverso la patita destabilizzazione sempre all'opera per la violenza del tempo. Si tratta allora, non tanto di storicisticamente riconoscere la dinamica relazione tra la scienza e il suo contesto epocale, quanto di antropologicamente intendere che l’essenza della verità è l’antagonistica filiazione del tempo (la verità stessa del detto veritas filia temporis è figlia del tempo!). Tra verità e tempo un rapporto antagonistico è possibile appunto perché l’una è la reattiva filiazione dell’altro, ed essi sono dunque omogenei. Il tempo ch’io sono - un bersaglio, ogni volta colpito dall’accadere di me a me stesso - è solitario. Non meno solitaria è la verità, che in definitiva non dipende se non dalla mia credenza, e di cui pertanto, se restare ingannati è la rovina, io ed io soltanto ne sono dinanzi a me responsabile. Soltanto la verità, figlia del tempo, può opporsi al tempo. Essa vive per il nostro desiderio radicale, per la nostra volontà di credere nel nostro essere, nel nostro durare nonostante il tempo. Ma questo non è che il nostro manifestarci a noi stessi, l’apparire, o, per richiamare la nozione heideggeriana da cui qui si son prese le mosse, il nostro «disoccultarci», il mostrarci finalmente a noi stessi, perché non in altro che nel nostro mostrarci è il nostro essere.

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    La verità è appunto il nostro manifestarci a noi stessi. Se il nostro manifestarci è tutto ciò che siamo, la paura di «essere ingannati» non è se non il terrore di perderci. Perciò l’energia dell’umano, della tutt’altro che passiva paticità, è passione di salvezza. Essa segnala che l’apparire, non potendo non essere un apparire-a, comporta il chi ai cui occhi si offre l’apparire. Ma questo chi, questo noi, è un elemento dell’apparire stesso. Il chi, il noi appunto, nell’immanenza dell’apparire è la trascendenza, l’affacciarsi su di sè, senza di cui il mostrarci-a-noi, che è tutto il nostro esistere, non sarebbe. L’apparire è l’umanità della vita: è la vita e, dentro la vita, tutt’uno con essa, è il suo gioioso o amarissimo assaporarsi, il suo sapere. La vita insomma si mette a distanza dalla sua naturale immediatezza. Essa così si libera dalla notte del suo biologico fungere e comincia a intra-vedersi. Balena l'aurora della libertà. La libertà è assoluto inizio, non si origina da altro. Da nulla essa nasce, tuttavia non nasce nel nulla, bensì solo in un pieno di viventi, tra sorprendenti occasioni d'incontro di ogni «e-sistenza» con le altre, in un inarrestabile gioco di relazioni. L'umanamente vivere non è gratuito agire, né causale subire, bensì un intenzionale re-agire, un cogliere occasioni, un rispondere alla provocazione dell'altrui libertà. La figura dell' «invito», in cui si formula la geniale intuizione fichtiana più volte ricordata, ci lascia l'insuperato modello di comprensione della libertà. La libertà non si dice: se semplicemente detta, è un nome senza soggetto, anche se può funzionare potentemente da detonatore emotivo tanto nelle oneste retoriche di nobili cause quanto nelle retoriche fraudolente di cialtroneschi imbonitori di popoli. La libertà o si esercita o non è. Essa è «esercizio», grecamente ἂσκησις. Il suo esercizio sistematico è appunto l'etica. La «filosofia morale» parla, tra l'altro, della libertà. L'etica invece è la libertà stessa. E lo è perché è filosofia, non filosofia di questo o di quell'oggetto, non sapere tecnico come tanti altri, ma «pura filosofia». Questa non è, come tra il serio e il faceto sentenzia Croce, un' «asinità» (purus philosophus purus asinus), un parlare a vuoto, un dire senza significare alcunché di concreto. Essa invece è l'incessante esercizio alla concretezza del vivere, come il Socrate platonico insegna. Che cosa può sottintendere l'espressione popolare «prendersela filosoficamente», se non l'idea che il filosofo sia esercitato a vivere pensando e perciò, mantenendosi allenato come un ginnasta, sappia gestire con calma le contrarietà ? ovvero l'idea che il filosofo sia esercitato a vivere in intima libertà e perciò non si lasci asservire dalle passioni irragionevoli che riducono l'uomo a lupo per l'altro uomo ? La filosofia è l'esercizio interminabile che nutre e rafforza la libertà, senza la quale non si può né comandare né obbedire. [7.] Su questo punto un chiarimento è decisivo. La filosofia come esercizio ad aver cura di sé non va preso nel significato corrente di esclusiva attenzione ad un «io» identificato, come tagliente ironizza Fichte, con «la nostra cara persona» (Zweite Einleitung in die Wissenschaftslehre, in F.s Sämmtliche Werke, Berlin 1845-6, I, p. 503). L'esercizio, in cui consiste l'impegno filosofico, non è affatto il concentrarsi dell'io su di sé nell'ingannevole prospettiva di non perdersi. Al contrario l'esercizio filosofico attiva la deconcentrazione dell'io da sé (da un «sé» che è solo la speculare proiezione dell'io stesso), e il concentrarsi piuttosto sull' «altro» - che non è il «non-io» bensì, per

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    evocare la poetica fantasia goethiana, «il regno delle madri», il sottosuolo profondo dove l'essere proprio di ogni vita pensante, inseparabilmente intrecciandosi con le altre forze della realtà, rende possibili il soggettivarsi del mondo e l'oggettivarsi del soggetto, insomma l'umanità dell'esistere. Ciò che salva non è la cura del sé, bensì la noncuranza dell'angusto sé-persona e la cura assidua dell'altro da sé, del sé terminale del mondo. E' molto significativo quel che osserva Pierre Hadot: «Foucault ha incentrato la sua idea di pratiche di sé più su di un certo atteggiamento dell'individuo, che ha chiamato estetica dell'esistenza... Io invece tenderei a essere...più sensibile alla nozione...della filosofia come esercizio spirituale». Insomma, egli conclude, «io auspico che il filosofo si situi di più nella prospettiva dell'universo, dell'umanità nella sua totalità o dell'umanità come altro» (La filosofia come modo di vivere, conversazioni con J.Carlier e A.I.Davidson, tr.it. di A.C.Peduzzi e L.Cremonesi, Einaudi, Torino 2008, pp. 256-7). L'etica non è legislatrice come lo sono la morale e il diritto, non impone leggi, non dà comandi: è, kantianamente, inalienabile desiderio di desiderare, volontà di volere. Kantianamente invero la volontà di volere è atto della ragione pratica pura, scevra di ogni elemento «patologico», il che ha indotto spesso a considerarla un semplice pur se sublime «ideale». A ben riflettere però si comprende che la dichiarata «purezza» della ragione pratica non è se non l'eloquente avvertimento che la volontà non può volere ciò che, facendola serva d'altro, le impedirebbe di continuare a volere. Oggi, sullo sfondo di un'antropologia profondamente trasformata dalle «scienze umane» novecentesche e infine dalla consapevolezza della «paticità» del soggetto, si scopre che la volontà è «pura» non per la pretesa «purezza» garantita da un'assoluta sua estraneità alle condizioni empiriche, ma solamente in quanto, affrontando «sul campo» le forze ostili, sconfigge il pericolo di non poter più volere e, riscattata così dalla compromissione, si «purifica». Alla fine i due tanto diversi e troppo spesso contrari obiettivi dell'azione, l'ordine e la salvezza, la relazione dei molti e la solitudine dell'uno, la riduzione dei conflitti e la riduzione del dolore, mostrano d'essere complementari: il loro concorrere è non solo possibile ma necessario. La relazione dei molti non è una sommatoria di forze, ma ha il suo fondamento nell'origine relazionale della soggettività. Dal momento che «nessuno diventa uomo se non tra uomini», come Fichte riassume, e dunque ognuno porta in fondo a sè l'originario vincolo con l'altruità, si comprende il rilievo di Vico nella III Orazione inaugurale (1701): «Non esiste nessuno tanto scellerato, malvagio e infame, che non conservi ed alimenti una qualche particella di giustizia per la conservazione della città», come «attestano perfino gl'infami nel rispettare le leggi della loro nefasta libertà». Paradossalmente, la costituzione intersoggettiva, propriamente «culturale», di ogni individuo umano non può non trovare il suo invalicabile limite e la sua «scandalosa» contraddizione nel nocciolo duro della solitudine «naturale», paradossalmente resa angosciante proprio dalla coscienza che grazie alla «cultura» se ne ha. Si è di fronte ad una «contraddizione reale», ancora più inquietante della generale «contraddizione reale» biologica tra oggettività e soggettività del vivente, rilevata da Hegel. La contraddizione tra la «comunitarietà» - l'apertura relazionale fondativa dell'umanità di ogni individuo della specie umana - , e la «paticità» - l'inespugnabile

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    chiusura incomunicativa dell'individuo stesso, ben più dolorosa per la coscienza che la «cultura» ne rende possibile - , costituisce la rottura antropologica radicale. La libertà sembra a rischio. La «comunitarietà» potrebbe essere ridotta al problema dell' «ordine», alla normalità come metro con cui ogni uomo è «calcolabile», a quella «banalità» che in assenza di un pensiero critico non è neppure «del male», anzi è la conformità alle regole in uso, è «morale». La «paticità» a sua volta, pagato l'idoneo tributo alla banale normalità, potrebbe prendersi il lusso d'ignorare, salvo il suo, il destino di tutti gli altri. Alla libertà si sostituirebbe nel primo caso la comodità dell'adeguarsi al potere, nel secondo caso l'indifferenza alla vita degli altri. Hannah Arendt mi sembra dica una parola decisiva. A chi osservasse che «gli assassini del Terzo Reich non soltanto conducevano una normalissima vita familiare, ma passavano il proprio tempo a leggere Hölderlin e ad ascoltare Bach» e, concludendone che anche i criminali possono avere «sensibilità e attenzione per le cose più alte della vita», chiedesse se queste «non sono anch'esse capacità mentali e spirituali», Arendt risponderebbe: «Certo che lo sono. Ma esse non hanno niente a che fare con il pensiero, che è un'attività e non la fruizione passiva di qualcosa» (Op. cit., p. cit.). Questa risposta, per quanto variamente discutibile, è di fondamentale importanza, perché sottintende che la libertà è prodotta dal pensiero. Il che non contraddice l'idea, fermamente ribadita in queste pagine, che la libertà non può nascere da nulla se non da se medesima. Infatti il pensiero che produce la libertà è già esso libertà. Harendt, quasi a riassumere i punti salienti dell'intera sua riflessione, conclude che «la mia condotta con gli altri dipende in larga misura dalla mia condotta con me stesso», ma puntualizza: «Non si tratta di appellarsi a doveri o obbligazioni: si tratta invece di appellarsi alla nostra capacità di pensiero e di ricordo, una capacità che noi possiamo sempre perdere». Non si poteva con più semplicità e chiarezza suggerire la distinzione tra la morale, il cui valore di riferimento è l' «ordine», e l'etica, il cui valore di riferimento è la «libertà», quel modo di essere soggetti che, se non lo genera il pensiero, niente lo genera. La Harendt connette con il «pensiero» il «ricordo»: non si può ricordare quel che non si è pensato, né pensare senza ricordare ciò, in risposta a cui il pensiero si è attivato. Il che è vero. Ma io credo che l'idea del ricordo sia significativa in un senso ben più essenziale, non psicologico bensì antropologico. Il fichtiano principio che «nessuno diventa uomo se non tra uomini» avverte che la relazione originaria, la prima volta dell'incontro con l' «altro», è costitutiva della «comunitarietà» dell'individuo umano e, incancellabile dalla sua memoria profonda, lo vincola inscindibilmente ad ogni «altro» gli capiti poi d'incontrare. Nella logica della morale, il «dovere» non è che un «debito» impostomi dalla forza, ideologica o fisica, del potere sociale. Ben diverso senso esso assume nell'orizzonte dell' etica. Qui il «dovere» è lo stesso interno configurarsi della mia libertà, il segno del mio orientamento nel mondo. Io, originatomi come io nel rapporto con almeno un altro io, sono un «singolo», non in quanto sono solo, bensì al contrario perché individuato nel vivo del processo comunicativo. Il «dovere» dunque è il mio modo dell' «abitare» la «comunità» umana, la quale è il luogo delle relazioni, libere perché mai il pensiero cessa di pensarne la forma essenziale.

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    Il «dovere» s’annalza dall’angusta sfera tutta giuridicistica della morale all'anarchico spazio dell'etica, solo quando non della servitù è figlio, ma della libertà. Allora io lo vivo non come «debito» verso l'esigente creditore estraneo, bensì come appassionata «cura» per l'alter-ego, per il «secondo io», che nella «comunitarietà» ogni individuo umano è per me. Il vincolo che qui mi muove non è l’obbligazione di un «debito», ma l'interiore potenza di un interesse, del più forte di tutti gl’interessi: l’ inter-esse per il mio alter ego, nella cui sorte ne va di me stesso, un interesse dunque tanto irresistibile quanto spontaneo. Ci si accorge ora del supremo paradosso. La «contraddizione reale» antropologica, tra solitudine radicale e relazione originaria, si scopre essere la condizione della libertà. Senza l'invalicabile frontiera della solitudine radicale del singolo, di soggetti non ve ne sarebbero molti, ma uno solo, unico. Peraltro senza l'irresistibile coinvolgimento della relazione originaria neppur quest'unico sarebbe soggetto, poiché la soggettività solo nella relazione si costituisce. Il paradosso è tutto qui: l'umano si origina soltanto nella contraddittoria condizione di relazione tra insuperabili solitudini. Tuttavia la logica è salva: la relazione non è tra gl'incomunicativi e perciò solitari vissuti, ma tra i viventi che parlano e lottano, non è tra gli uomini in quanto privatissimi «singoli» ma tra gli uomini in quanto pubbliche «persone». Se la soggettività umana è paticità, vita che viene patita nel suo venir pensata, è evidente che il patire è l'incunabolo della libertà. Il vivente non può comunicare i suoi vissuti ma, diventando umano nella relazione con altri viventi umani, si è esercitato a scambiare le parole, a «pensare» i suoi vissuti. Perciò egli, che non può comunicare i vissuti, comunica i pensieri con cui li ha pensati. Così, si trasfigurano in comuni idee le singolari esperienze vissute. La libertà comincia a fare i suoi passi. Del resto, non sono le «utopie» temerari pensieri, passi della libertà, con cui si custodiscono nell'ideale le novità che i tempi immaturi rifiutano di ammettere nella effettiva realtà ? Su tutto ciò che è umano, solitudine e relazione battono le ali della libertà. Non ne saldano la frattura. Però, sanatane la frattura, non vi sarebbe più l'umano, dunque neppure la libertà. [8.] Mi sembra giunto il momento di concludere. Spero che mi sia consentito, data la mia età e il lungo servizio su una cattedra di filosofia morale, esplicitarvi il senso di questa mia riflessione, che mi avete dato il privilegio di comunicarvi e avete avuto la benevolenza di ascoltare. Come «filosofi morali» abbiamo certamente il dovere giuridico e morale di far bene il nostro mestiere, di rispettare ciò che è proprio della nostra professionalità di studiosi e di professori, occupandoci di tutte le cose che ho citate nel § 4. Ma su di noi, nella presente dolorosa e confusa µεταβολή del mondo, incombe il dovere, non d'ufficio bensì interiore, di promuovere in noi e negli altri, al di là di ogni dotta «filosofia morale», l'esercizio della filosofia senza aggettivi. Il che vuol dire il severo allenarsi al dialogo critico, al reciproco aiuto nel purificarsi dagli errori, in breve alla libertà, la quale, come s'è detto, o nasce dal pensiero o non nasce affatto. In modo particolare la nostra età di transito esige che «fortissimamente» si pensi. Pensare il più fortemente possibile è vitale. Qui il «forte», si badi, non è nel senso contro cui polemizzò il «pensiero debole», ma nel senso «etico», nel senso in cui ai

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    due estremi della storia filosofica dell'Occidente hanno praticato l'esercizio del pensiero un piccolo uomo come Socrate e una fragile donna come Hannah Arendt.