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La divisione delle competenze legislative in materia di lavoro tra Stato e Regione di F. Scarpelli - Associato di diritto del lavoro, Università degli Studi di Milano-Bicocca , M. Pallini - Ricercatore di diritto del lavoro, Università degli Studi di Milano , T. Vettor - Ricercatrice di diritto del lavoro, Università degli Studi di Milano-Bicocca (aggiornata al settembre 2002) 1. Premessa. Come è noto, la riforma costituzionale della legge n. 3/2001 ha destato critiche anche tra i sostenitori della prospettiva politico-istituzionale del c.d. "federalismo solidale" e in generale ha suscitato perplessità per alcune previsioni ambigue, considerate suscettibili di prestarsi a interpretazioni che facciano prevalere incontrollate tendenze devolutive e di frammentazione territoriale e istituzionale sulle esigenze di mantenimento - soprattutto sul terreno di alcuni diritti sociali fondamentali (lavoro, scuola, sicurezza, ecc.) - di una struttura di diritti eguale in tutto il Paese. La materia del lavoro, da questo punto di vista, è una di quelle per le quali si sono sollevate le polemiche più accese, tanto da indurre un certo numero di giuristi di sinistra a pronunciarsi per il "no" all'approvazione in sede di referendum popolare. Al centro di tali polemiche è soprattutto la formula inserita nel nuovo art. 117 Cost. relativa alle competenze in materia di lavoro, della quale parleremo tra poco. E' dunque particolarmente importante, e lo sarà ancor più nel prossimo futuro di fronte all'avvio del nuovo lavoro legislativo delle Regioni, cercare di fissare alcuni limiti interpretativi della nuova disciplina costituzionale, idonei ad evitarne un utilizzo strumentale e contrario allo spirito del legislatore che l'ha approvata. Tuttavia, nello stendere questa nota si è tentato di non limitarsi ad una lettura 'difensiva' e di evitare il rischio di atteggiamenti inconsapevolmente e rigidamente 'statalisti' (che peraltro appartengono storicamente alla cultura giuslavorista): se da un lato, dunque, si cercherà di individuare le linee e gli argomenti di una lettura idonea a salvaguardare l'unità e l'universalità dei diritti sociali e del lavoro, dall'altro si cercherà di individuare le strade per la migliore valorizzazione, anche sui temi del lavoro, delle potenzialità progressive della riforma, nella prospettiva di quel 'federalismo solidale' che ha animato i sostenitori della riforma stessa. La riforma pone una serie di questioni veramente complesse, sulle quali il dibattito è ancora all'inizio e già molto vivace. Non è dunque possibile in questo stadio offrire alcuna certezza; le considerazioni che seguono vanno intese come ipotesi interpretative, di lavoro e di successivi approfondimenti. Data la complessità e ampiezza dei temi, e al fine di consentire anche una lettura più rapida e agevole della nota, si è ritenuto opportuno separare graficamente (in corpo più piccolo) le parti nelle quali sono svolti alcuni approfondimenti del dibattito interpretativo, che possono essere saltate in prima lettura.

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La divisione delle competenze legislative in materia di lavoro tra Stato e Regione di F. Scarpelli - Associato di diritto del lavoro, Università degli Studi di Milano-Bicocca , M. Pallini - Ricercatore di diritto del lavoro, Università degli Studi di Milano , T. Vettor - Ricercatrice di diritto del lavoro, Università degli Studi di Milano-Bicocca

(aggiornata al settembre 2002)

1. Premessa.

Come è noto, la riforma costituzionale della legge n. 3/2001 ha destato critiche anche tra i sostenitori della prospettiva politico-istituzionale del c.d. "federalismo solidale" e in generale ha suscitato perplessità per alcune previsioni ambigue, considerate suscettibili di prestarsi a interpretazioni che facciano prevalere incontrollate tendenze devolutive e di frammentazione territoriale e istituzionale sulle esigenze di mantenimento - soprattutto sul terreno di alcuni diritti sociali fondamentali (lavoro, scuola, sicurezza, ecc.) - di una struttura di diritti eguale in tutto il Paese.

La materia del lavoro, da questo punto di vista, è una di quelle per le quali si sono sollevate le polemiche più accese, tanto da indurre un certo numero di giuristi di sinistra a pronunciarsi per il "no" all'approvazione in sede di referendum popolare. Al centro di tali polemiche è soprattutto la formula inserita nel nuovo art. 117 Cost. relativa alle competenze in materia di lavoro, della quale parleremo tra poco.

E' dunque particolarmente importante, e lo sarà ancor più nel prossimo futuro di fronte all'avvio del nuovo lavoro legislativo delle Regioni, cercare di fissare alcuni limiti interpretativi della nuova disciplina costituzionale, idonei ad evitarne un utilizzo strumentale e contrario allo spirito del legislatore che l'ha approvata. Tuttavia, nello stendere questa nota si è tentato di non limitarsi ad una lettura 'difensiva' e di evitare il rischio di atteggiamenti inconsapevolmente e rigidamente 'statalisti' (che peraltro appartengono storicamente alla cultura giuslavorista): se da un lato, dunque, si cercherà di individuare le linee e gli argomenti di una lettura idonea a salvaguardare l'unità e l'universalità dei diritti sociali e del lavoro, dall'altro si cercherà di individuare le strade per la migliore valorizzazione, anche sui temi del lavoro, delle potenzialità progressive della riforma, nella prospettiva di quel 'federalismo solidale' che ha animato i sostenitori della riforma stessa.

La riforma pone una serie di questioni veramente complesse, sulle quali il dibattito è ancora all'inizio e già molto vivace. Non è dunque possibile in questo stadio offrire alcuna certezza; le considerazioni che seguono vanno intese come ipotesi interpretative, di lavoro e di successivi approfondimenti.

Data la complessità e ampiezza dei temi, e al fine di consentire anche una lettura più rapida e agevole della nota, si è ritenuto opportuno separare graficamente (in corpo più piccolo) le parti nelle quali sono svolti alcuni approfondimenti del dibattito interpretativo, che possono essere saltate in prima lettura.

2. Sintesi dei contenuti della riforma (con prevalente riferimento ai temi del lavoro e della sicurezza sociale).

E' opportuno in primo luogo illustrare quali siano i principi di fondo del nuovo assetto istituzionale:

- il principio di parità tra i livelli di governo: lo Stato è oggi elemento costitutivo della Repubblica (art. 114) al pari delle Regioni, dei Comuni, delle Province e delle Città metropolitane; i limiti imposti alla potestà legislativa di Stato e Regioni sono i medesimi (art. 117, 1° comma: rispetto della costituzione, vincoli dell'ordinamento comunitario e internazionali); lo Stato non ha più un potere di controllo preventivo sulle leggi regionali, potendo entrambi gli enti impugnare le rispettive leggi avanti alla Corte costituzionale quando ritengano vi sia un eccesso di competenza (art. 127);

- l'inversione del precedente criterio di ripartizione delle materie di competenza legislativa statale o regionale; se in precedenza queste ultime erano tassativamente elencate, ora invece sono indicate le materie escluse dalla competenza regionale, e attribuite a quella esclusiva dello Stato o ripartita tra Stato e Regione; le materie per le quali non vi è espressa riserva, dunque, devono considerarsi di competenza esclusiva delle Regioni (anche se lo Stato conserva alcune competenze trasversali a tutte le materie - anche quelle non nominate dalla Costituzione - quali ad esempio la tutela della concorrenza, l'ordinamento civile e penale, la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali);

- la possibilità di diverse forme e condizioni di autonomia tra le Regioni (oggi prevista soltanto per le Regioni speciali) affidata in sostanza ad accordi tra Stato e singola Regione (art. 116);

- la non necessaria corrispondenza tra potestà legislativa, potestà regolamentare e funzioni amministrative (possibilità per lo Stato di delegare alle Regioni la potestà regolamentare anche nelle materia di propria esclusiva competenza legislativa, attribuzione di ogni altra potestà regolamentare alle Regioni, attribuzione delle funzioni amministrative in via principale ai comuni, ecc.);

- il principio di autonomia finanziaria e impositiva di ogni ente; istituzione di un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, correlato alla differente capacità fiscale territoriale.

Per quel che riguarda le materie del lavoro, l’assetto tripartito delineato dal nuovo sistema costituzionale (potestà legislativa riservata allo Stato, potestà legislativa concorrente tra Stato e Regioni sulla base della determinazione dei principi fondamentali riservata alla legge statale, potestà legislativa esclusiva delle Regioni) si sviluppa nel seguente modo.

Tra le materie riservate alla regolamentazione statale, troviamo (art. 117, 2° comma: si indicano solo quelle qui più rilevanti):

l) ordinamento civile e penale,

m) determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale,

o) previdenza sociale.

Tra le materie di legislazione concorrente ex art. 117, 3° comma (ed è il punto che solleva maggiori discussioni) vi è la "tutela e sicurezza del lavoro". Accanto ad essa, va ricordato il riferimento alla "previdenza complementare e integrativa".

Ulteriori riferimenti concorrono a definire i limiti delle competenze regionali in materia di lavoro, ovvero a indirizzarle:

- l’inserimento tra le materie di legislazione esclusiva dello Stato di quelle della "immigrazione" e della "tutela della concorrenza";

- il principio di cui al 7° comma dell’art. 117, secondo il quale "Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica" (nonché l’accesso alla cariche elettive);

- il principio di cui al nuovo art. 120, secondo il quale la Regione non può adottare provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose, né limitare l'esercizio del diritto al lavoro in qualsiasi parte del territorio nazionale.

Il riparto delle materie tra competenza legislativa statale e regionale deve dunque considerarsi, in primo luogo, non rigido, in quanto come già accennato lo Stato detiene alcune funzioni trasversali, tra le quali particolare rilievo va assegnato alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, che devono essere garantiti in maniera paritaria nell'intero territorio nazionale: si tratta di una prima importante barriera ai pericoli di abbattimento dei livelli sociali di tutela in alcuni territori, magari motivati dalla necessità di attirare risorse o garantire un migliore sviluppo economico.

Ciò premesso, nelle materie di nostro interesse come in molte altre si pone il problema non semplice di individuare i confini esatti tra le materie attribuite alle diverse competenze.

3. Il nuovo riparto di competenze legislative, regolamentari e amministrative con riferimento ai temi del lavoro. In generale.

La riforma come si è visto non ha superato il criterio tradizionale di ripartizione “duale” (già adottato nella formulazione originaria dell’art. 117 Cost.), secondo cui le potestà tra organo statuale centrale e organi locali sono suddivise in base a materie e ambiti "oggettivi" statici e predeterminati. E' assente infatti un criterio politico-dinamico di distribuzione delle competenze legislative tra Stato e Regioni (così discostandosi degli originari intendimenti della Commissione bicamerale c.d. D’Alema). Non risulta "costituzionalizzato" il principio di "sussidiarietà" quale criterio di ripartizione delle potestà legislative. Questo principio - secondo la sua concezione classica - impone di privilegiare le competenze degli organi più vicini all’ambito e oggetto della disciplina. La sussidiarietà “verticale” non si risolve semplicemente in una preferenza tout court per le fonti di normazione non statuali, ma impone di individuare di volta in volta il livello ottimale di normazione. Si tratta quindi di un criterio di ripartizione dinamico che permette un esercizio “cooperativo” del potere legislativo da parte dello Stato centrale e delle Regioni (o degli Stati federati), che legittima entrambi a intervenire sulle medesime materie al fine di colmare le lacune del diverso livello di normazione e che opera quale criterio rigido di riparto delle competenze soltanto qualora si verifichino contrasti tra la disciplina statuale e quella regionale. La sussidiarietà è però un principio politico piuttosto che giuridico destinato a rispecchiare funzionalmente nella normazione legislativa i rapporti di forza contingenti tra potere centrale e locale. Quale criterio dirimente i conflitti di competenza tra poteri, quindi, essa sconta un elevato tasso di incertezza giuridica e pertanto per funzionare efficacemente necessita (come ad es. previsto nella Costituzione tedesca) di procedimenti istituzionali di formazione delle norme e dei meccanismi e soggetti di vaglio giudiziale che assicurino la partecipazione e un equilibrato peso sia allo Stato che alle Regioni.

La circostanza che rispetto al complesso disegno federalista della Commissione bicamerale siano stati accantonati sia il superamento del bicameralismo perfetto (con la creazione di una Camera delle Regioni), sia la previsione di una nuova composizione

della Corte Costituzionale che assicurasse il concorso delle Regioni alla nomina dei giudici costituzionali, ha conseguentemente imposto al legislatore la soluzione di salvaguardare le rispettive prerogative dello Stato e delle Regioni attraverso il tradizionale criterio - già utilizzato nella formulazione dell'art.117 Cost. del 1948 - della determinazione di ambiti e livelli di intervento esclusivi e nettamente separati.

Si ripropongono dunque tutti i difficili problemi interpretativi, con cui si è misurata per oltre 50 anni la giurisprudenza costituzionale per le diverse materie indicate dall'originario testo dell'art.117 Cost., per definire i confini "oggettivi" e "statici" delle materie di competenza statuale e quelle di competenza regionale.

Non sembra che permettano di superare questo problema in termini "funzionali" (come pure è sostenuto da alcuni autori) né l'attribuzione allo Stato della potestà di dettare "i principi fondamentali" nelle materie di legislazione concorrente né la (eventuale) partecipazione di rappresentanti delle Regioni al procedimento di formazione della legge statuale in dette materie prevista dall'art.11 della legge costituzionale.

Alla luce del nuovo rapporto assolutamente paritario tra legislazione regionale e legislazione statuale, inoltre, non pare che possa riproporsi quella tradizionale giurisprudenza della Corte Costituzionale che ha ravvisato nella riserva di legge statale relativa alla previsione dei principi fondamentali un potere incondizionato del legislatore centrale nella determinazione dei propri ambiti di competenza. Deve pertanto ritenersi non praticabile la soluzione interpretativa che ravvisi in qualsiasi previsione della legge statale la legittima determinazione di "principi fondamentali" anche quando si disciplinino aspetti applicativi, forme e tecniche di tutela, procedure di dettaglio attinenti le materie di competenza concorrente.

Un meccanismo interessante è quello dell'art.11 della legge costituzionale, il quale prevede che "Sino alla revisione delle norme del titolo I della parte seconda della Costituzione, i regolamenti della camera dei deputati e del Senato della Repubblica possono prevedere la partecipazione di rappresentanti delle Regioni, delle province autonome e degli enti locali alla Commissione parlamentare per le questioni regionali". Sulle leggi statali (o parti di queste) in materie di potestà concorrente, sulle quali questa Commissione abbia espresso parere contrario, l'Assemblea deve deliberare a maggioranza assoluta dei componenti. Tale norma offre la possibilità di un coordinamento e confronto tra gli interessi del potere centrale e del potere regionale certamente da cogliere e da valorizzare, ma non si può trascurare che al momento detta una mera facoltà rimessa al legislatore ordinario, che non può dunque essere elevata a criterio "funzionale" di riparto costituzionale degli ambiti di intervento dello Stato e delle Regioni nelle materie "concorrenti".

Il problema di determinazione degli ambiti di interevento legislativo dello Stato e delle Regioni nelle materie di potestà concorrente riveste estrema importanza e delicatezza per i temi del rapporto del lavoro (subordinato e autonomo), del mercato del lavoro e delle politiche pubbliche dell'occupazione, dell'assistenza e previdenza sociale in quanto il comma 3 dell'art. 117 Cost. prevede che "Sono materie di legislazione concorrente quelle relative a: …tutela e sicurezza del lavoro,…professioni,…previdenza complementare e integrativa".

Tale disposizione introduce una rilevante novità giacché attribuisce ora alle Regioni un’ampia potestà legislativa per profili rilevanti in tema di lavoro, occupazione e previdenza, di rilevanza e delicatezza tali da aver suggerito al Costituente del 1948 l’opportunità di attribuirne la competenza esclusiva al legislatore nazionale.

Nella formulazione originaria della Carta Costituzionale, infatti, l’unica materia "lavoristica" attribuita alla potestà legislativa concorrente delle Regioni ai sensi dell’art. 117 Cost. co. 1

era quella dell’istruzione e della formazione professionale. Il legislatore ordinario ha poi dettato "i principi fondamentali" che le Regioni sono tenute a osservare in tale materia con la legge-quadro 21 dicembre 1978 n. 845.

Il D. Lgs. 23 dicembre 1997 n. 469 - in virtù della delega conferita dalla c.d. legge Bassanini (n. 59/1997) - ha poi ulteriormente ampliato la competenza delle Regioni attribuendo loro anche la potestà legislativa in materia di collocamento e di politiche attive del lavoro. In questo caso si è trattato però di potestà legislativa "delegata" dallo Stato a norma dell’art. 117 co. 2 Cost. e pertanto da esercitarsi soltanto in attuazione delle disposizioni dettate in materia dal legislatore nazionale. Il legislatore delegante del 1997 ha tuttavia lasciato ampi ambiti di discrezionalità alle Regioni vincolando il Governo a dare attuazione alla delega nel rispetto del “principio di sussidiarietà” e dunque privilegiando il livello di regolazione più “vicino” agli interessi coinvolti. Il vincolo della sussidiarietà ha guidato l’Esecutivo nella determinazione delle competenze normative statuali in sede di attuazione della delega, limitando quanto possibile gli ambiti di intervento statuale e rimettendo in gran parte la disciplina della materia alla normazione regionale, ma era comunque rimasta integra la facoltà del legislatore ordinario di avocare nuovamente a sé ogni potestà normativa (primaria o secondaria e anche per aspetti di dettaglio) nelle materie oggetto della delega a mezzo di una successiva legge ordinaria. Pertanto, anche se le leggi dello Stato delegante si siano di fatto limitate a dettare disposizioni di carattere generale lasciando alle Regioni consistenti margini di discrezionalità, la potestà legislativa di queste ultime rimaneva strettamente finalizzata alla sola attuazione della disciplina statuale.

Nel contesto ordinamentale precedente alla modifica del titolo V della Costituzione, dunque, le Regioni erano prive di qualsiasi competenza legislativa esclusiva in materia di lavoro. Queste erano, invece, dotate soltanto di potestà legislativa concorrente a norma dell’art. 117 co.1 Cost. (secondo l’originaria formulazione) in materia di orientamento e formazione professionale e di potestà legislativa delegata ai sensi dell’art. 117 co. 2 Cost. in materia di collocamento e politiche attive del lavoro. Il legislatore ordinario aveva poi delegato alle Regioni, ai sensi dell’art. 118 co.2 Cost., anche la quasi totalità delle funzioni amministrative esercitabili in queste materie.

Anche sotto il profilo regolamentare e delle funzioni amministrative la competenza delle Regioni è ora stata ulteriormente ampliata. Il comma 6 dell'art.117 prevede infatti che "La potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega alle Regioni. La potestà regolamentare spetta alle Regioni in ogni altra materia". Il comma 1 dell'art.118 prevede poi che "Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l'esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza".

3.1 La potestà legislativa in materia di rapporto contrattuale di lavoro subordinato e autonomo: il limite della competenza statale sull'ordinamento civile.

L'attuale Governo appare aver optato per una lettura del nuovo testo dell’art.117 Cost. che riconosce alle Regioni il potere di legiferare anche in merito alla disciplina del rapporto contrattuale di lavoro. Nel Libro bianco sul mercato del lavoro in Italia del Ministero del Welfare viene infatti affermato - con una leggerezza e mancanza di supporto argomentativo francamente intollerabili, data la natura del documento - che “la potestà legislativa concorrente delle Regioni riguarda non soltanto il mercato del lavoro, in una logica di ulteriore rafforzamento del decentramento amministrativo in atto, bensì anche la regolazione dei rapporti di lavoro, quindi l’intero ordinamento del lavoro”.

Tale conclusione - per quanto è dato capire dalla laconica argomentazione offerta nel Libro bianco - sarebbe confortata dal fatto che nel nuovo sistema di riparto delle potestà legislative gli ambiti di intervento regionale nella disciplina del contratto di lavoro dovrebbero essere dinamicamente determinati sulla base del principio di sussidiarietà, che sarebbe stato adottato dalla riforma costituzionale quale criterio di riparto delle competenze tra Stato e Regioni “transitando dalla logica di garanzia a quella di funzionalità”.

Questa lettura, a dire il vero, è stata prospettata anche da alcuni autori che, valorizzando il dato letterale della norma costituzionale, ravvisano nella potestà legislativa in materia di tutela e sicurezza del lavoro attribuita dal comma 3 del nuovo art.117 Cost. alla competenza concorrente delle Regioni, una “deroga” alla competenza esclusiva in materia di "ordinamento civile" attribuita al legislatore nazionale. La competenza regionale in materia si troverebbe pertanto in un rapporto di specialità (di species a genus) rispetto alla generale competenza statuale relativa all’ordinamento civile. Si prospetterebbe così la possibilità per le Regioni di legiferare non solo in merito agli aspetti pubblicistici e amministrativi, ma anche in merito agli aspetti civilistici del rapporto di lavoro, quantomeno con riguardo ai profili, che possono risultare amplissimi (se non omnicomprensivi), relativi alla tutela della posizione contrattuale della parte debole del rapporto e della obbligazione di sicurezza che grava sulla controparte datoriale. In questo modo la legge regionale diverrebbe lo strumento principe per realizzare quella flessibilità normativa del rapporto di lavoro che potrebbe consentire l’adeguamento della disciplina privatistica alle esigenze peculiari dei contesti territoriali, seppur nel rispetto dei principi fondamentali dettati dalla prima parte della Costituzione e dal legislatore ordinario.

A questa lettura se ne contrappone una diversa e più “minimalista” (sia pure graduabile a diversi livelli), secondo cui la potestà delle Regioni dovrebbe ritenersi volta a realizzare e disciplinare - “dall’esterno” del rapporto contrattuale tra due soggetti di diritto privato - gli strumenti, servizi, funzioni e sanzioni amministrative utili a tutelare la posizione del cittadino-lavoratore (o potenzialmente tale) nel mercato del lavoro, nonché a proteggere, con misure organizzative preventive e repressive, il diritto costituzionale all’integrità psico-fisica dello stesso (principalmente, si tratterebbe della disciplina propriamente pubblicistica ed amministrativa della tutela e sicurezza del lavoro). La previsione dell’”ordinamento civile e penale” tra le materie che il comma primo dell’art.117 Cost. (novellato) attribuisce alla legislazione esclusiva dello Stato precluderebbe, infatti, ogni soluzione volta a ravvisare nella formula in esame una competenza normativa delle Regioni anche per gli aspetti inerenti alla disciplina civilistica del contratto di lavoro.

Argomenti giuridici e di razionalità e funzionalità della regolamentazione legislativa, nonché di opportunità politica conducono a aderire a questa seconda interpretazione della norma.

In primo luogo, già sul piano letterale, la locuzione "tutela e sicurezza del lavoro" non può certamente considerarsi sinonimo di "diritto del lavoro", non almeno se di questo abbiamo una accezione moderna e non paternalista (ed è paradossale, sul piano culturale, che la destra si faccia portatrice di una visione meramente protettiva - si potrebbe dire, ironicamente, 'catto-comunista' - della disciplina giuridica del lavoro).

Il diritto del lavoro, inteso come sviluppo di una legislazione speciale che si è staccata dal corpo tradizionale del diritto dei privati, ha certamente avuto storicamente un segno progressivo, al cui interno la tutela della condizione contrattuale e sociale del lavoratore è stata una delle ragioni determinanti; ma se vogliamo, come dobbiamo, essere precisi, il diritto del lavoro si partisce in molti settori, aspetti e tecniche: alla legislazione sociale di fine ottocento si affianca la disciplina del rapporto di lavoro, di matrice civilistica, la disciplina delle relazioni sindacali, quella del lavoro pubblico, l’imponente disciplina previdenziale (non solo pensioni), la disciplina di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori, ecc. Le norme che regolano il rapporto di lavoro, dunque, non sono (soltanto) tutele del lavoro, ma regole di questo, e come tali rientrano nell’ordinamento civile dello Stato: la regolamentazione del contratto di lavoro, e dei rapporti collettivi e sindacali, non

è diretta esclusivamente alla tutela del lavoro ma è tesa a realizzare l’equilibrio – secondo gli assetti di politica del diritto di volta in volta possibili – tra i contrapposti interessi delle parti in causa; addirittura, più in radice, potremmo affermare che il diritto del lavoro (in senso civilistico) nasce prima di tutto per legittimare il potere dell’imprenditore sull’organizzazione produttiva, e nel contempo per limitarlo in funzione di tutela di valori di libertà, dignità e sicurezza della persona (art. 41 Cost). Il diritto del lavoro inoltre, con particolare evidenza a livello europeo ma anche, storicamente, a livello nazionale, è un pezzo importante del diritto della concorrenza, poiché fissa regole inderogabili per lo scambio tra lavoro e retribuzione, così direttamente o indirettamente influendo sul saggio di scambio del lavoro: l'unità dell'ordinamento civile, e l'affidamento allo Stato del compito di tutela della concorrenza (nonché, di nuovo, gli obblighi comunitari) impediscono dunque di legittimare soluzioni interpretative che aprano alle Regioni la possibilità di modulare le regole del lavoro in funzione di dumping sociale.

Questa lettura è in piena sintonia con gli approdi della giurisprudenza della Corte Costituzionale che - in relazione al vecchio testo dell'art.117 cost. - ha escluso la potestà legislativa delle Regioni in materia di rapporti interprivati. Ad avviso della Corte il c.d. “limite del diritto privato” si fonda sull’esigenza dettata dal combinato disposto degli artt. 2 e 3 Cost. di assicurare su tutto il territorio nazionale un’uniformità di disciplina e di trattamento riguardo ai rapporti intercorrenti tra i soggetti privati, trattandosi di rapporti legati allo svolgimento delle libertà giuridicamente garantite a detti soggetti dalla prima parte della Costituzione e al correlato requisito costituzionale del godimento di tali libertà in condizioni di formale eguaglianza. Il nuovo testo dell'art.117 Cost. appare recepire tale orientamento della Corte prevedendo espressamente (a differenza del testo del 1948) la materia dell'ordinamento civile alla potestà esclusiva dello Stato. Non appaiono condivisibili quelle interpretazioni che negano che nella dizione "ordinamento civile" possa ricomprendersi la disciplina privatistica nella sua interezza, ma soltanto il sistema delle fonti delle obbligazioni civilistiche e i principi fondamentali o piuttosto solo l'ordinamento dello “stato civile” e dei rapporti giuridici del civis che prescindono dalle attività economiche e imprenditoriali, i quali sarebbero invece disciplinati dal diritto commerciale. Si finirebbe in questo modo col dover ammettere (in ipotesi) una speculare competenza regionale anche in materia penalistica (l'art. 117 attribuisce alla competenza dello Stato anche "l'ordinamento penale"), la quale non sarebbe in alcun modo conciliabile con i principi della prima parte della Costituzione. Inoltre da un lato, nella terminologia giuridica per '"ordinamento" si intende comunemente l'insieme delle norme che disciplinano non soltanto la produzione della "regola" dei rapporti giuridici, ma anche la "regola" stessa, dall'altro la ripartizione del diritto privato tra diritto civile e diritto commerciale ha rilevanza soltanto a fini scientifici e didattici ma non ha alcuna valenza normativa. La dizione utilizzata dall’art.117 Cost. appare piuttosto far riferimento alla nozione unitaria della tradizione romanistica dello ius civile quale fonte di regolazione di tutti i rapporti intercorrenti tra i cives, indipendentemente dall’oggetto degli interessi disciplinati.

Il nuovo art. 117 Cost. potrebbe invece permettere una deroga all'esclusività della potestà statuale in materia di diritto privato laddove, al comma 2 lett. m), attribuisce a quest'ultima la “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che debbono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”. Vi è dunque uno spazio residuo attribuibile alla potestà concorrente delle Regioni in materia di diritti di natura privatistica dei cittadini, ma il riferimento a un comun denominatore di "prestazioni" fa ben comprendere come la deroga alla esclusività della potestà legislativa statuale in materia di diritto civile sia ammessa soltanto riguardo alla disciplina di diritti soggettivi (di pretesa o di libertà) nei confronti dell'amministrazione pubblica e non certo riguardo alle posizioni obbligatorie tra privati per le quali parlare di "livelli essenziali delle prestazioni" non avrebbe alcun senso. Se infatti può prospettarsi una valutazione comparativa tra contenuti ed efficienza dei servizi e delle tutele pubbliche che le Amministrazioni offrono per soddisfare i diritti sociali e civili dei cittadini, è improponibile una tale comparazione tra posizioni giuridiche nei rapporti inter-privati differenziate in base alle Regioni di residenza.

D'altronde questa appare l'unica soluzione sistematica che permetta di osservare "il limite territoriale" delle leggi regionali in materia civilistica. Anche nel nuovo contesto ordinamentale la legge regionale è destinata a esplicare i suoi effetti soltanto all'interno del suo territorio e pertanto non può incidere su rapporti che coinvolgono soggetti privati che risiedono in Regioni diverse o che possono risiedervi. La nuova versione dell'art.120 Cost. prevede infatti che "La Regione non può …adottare provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose tra le Regioni, né limitare l'esercizio del diritto al lavoro in qualunque parte del territorio nazionale". In assenza di criteri di determinazione della legge applicabile analoghi a quelli del diritto internazionale privato, dunque, potrebbe porsi in futuro il problema - allo stato irrisolvibile - di decidere ad esempio se in un rapporto di lavoro instaurato tra una società con sede in Veneto e un lavoratore residente e impiegato in una dipendenza in Calabria debba applicarsi la tutela del licenziamento (reintegratoria o risarcitoria) prevista da una o dall'altra Regione.

Ma anche volendo ragionare in una prospettiva "politica" l'opzione interpretativa che riconosce alle Regioni una potestà anche per gli aspetti privatistici della tutela e sicurezza del lavoro contrasta con gli intenti perseguiti con l’introduzione di una riforma in senso proto-federalista delle competenze legislative. E’ congenita a ogni forma di federalismo una competizione tra i diversi “soggetti sovrani” che costituiscono lo Stato "federale"; la maggiore autonomia, infatti, spinge questi a sperimentare soluzioni normative e organizzative differenziate per soddisfare al meglio le esigenze della comunità territoriale di cui si è espressione. Il termine di comparazione per valutare (e allo stesso tempo dimostrare) la bontà delle scelte adottate non può che essere costituito dai risultati ottenuti dalle altre Regioni. La maggiore responsabilizzazione personale, che grava i presidenti delle Regioni eletti - dopo la modifica introdotta dalla legge costituzionale n. 1 del 22 novembre 1999 - direttamente dai cittadini produce poi un effetto moltiplicatore di tale processo competitivo. Ma ammettere in materia di tutela del lavoro una “concorrenza ordinamentale” tra discipline regionali del rapporto contrattuale in un paese che, come il nostro, conosce condizioni socio-economiche profondamente differenti tra le aree territoriali, significherebbe esporsi inevitabilmente al rischio di “dumping sociale” indirizzando le Regioni verso una competizione normativa "in negativo" piuttosto che "in positivo". Le Regioni del paese meno sviluppate e meno attraenti agli occhi degli investitori non potranno che contrastare nel breve periodo il vantaggio delle Regioni più ricche (costituito dall’offerta da parte di queste di migliori servizi alle imprese ed agli utenti) offrendo una disciplina che preveda per le imprese minori oneri normativi ed economici dei rapporti di lavoro attivati nei loro territori, dando così il via a una difficilmente contenibile corsa al ribasso. La perequazione delle risorse economiche a disposizione delle Regioni, che lo Stato dovrebbe operare a norma del nuovo art.119 Cost. non costituisce di per sé uno strumento di bilanciamento sufficiente a scongiurare tale pericolo, salvo che non si arrivi a ipotizzare - al prezzo di tradire la filosofia della riforma in senso “federalista” e di annullare ogni effetto incentivante al contenimento e alla ottimizzazione della spesa pubblica - che tale perequazione possa eliminare quasi totalmente i differenziali di disponibilità economiche delle Regioni.

Proprio per scongiurare tali pericoli, è stato votato in sede di discussione in aula al Senato l'ordine del giorno c.d. Smuraglia (dapprima presentato sotto forma di emendamento, poi ritirato). Con questo voto il Senato ha voluto affermare la necessità che la nuova ripartizione delle competenze legislative sia rigorosamente interpretata in modo che non possa risultare in nessun modo lesiva dei diritti a tutela dei lavoratori affermati dalla prima parte della Costituzione rimasta invariata, primo fra tutti il principio di eguaglianza formale e sostanziale tra tutti i cittadini, indipendentemente dallo loro Regione di residenza. E' pur vero che il valore giuridico di tale indicazione è estremamente ridotto, ma può essere comunque valorizzato quale indice interpretativo del testo del nuovo art.117, soprattutto considerato che anche l’opposizione parlamentare di centrodestra in sede di discussione non ha sostenuto una posizione di merito alternativa, limitandosi invece a rilevare l’inidoneità dello strumento prescelto (la votazione di un ordine del giorno piuttosto che di

un emendamento) rispetto ai fini chiarificatori della portata della norma che ci si proponeva.

In conclusione, e salvo quanto si dirà innanzi sulla competenza concorrente, si può affermare che la disciplina contrattuale dei rapporti di lavoro subordinato rimane di esclusiva competenza della legislazione statale.

Assai delicato è il tema della salute e sicurezza dei lavoratori, della prevenzione e dei sistemi assicurativi per gli infortuni e le malattie professionali. Da questo punto di vista, l'utilizzo della locuzione "tutele e sicurezza del lavoro" nel nuovo art. 117 può generare consistenti interrogativi; a nostro parere, tuttavia, tale locuzione deve intendersi riferita appunto al concetto di sicurezza del lavoro (nel senso di sicurezza sociale, di impiego, sul mercato, ecc.) e non di sicurezza del lavoratore. O almeno, anche con riferimento a tale materia deve affermarsi che tutto ciò che riguarda la regolazione dei rapporti tra le parti (obbligo di sicurezza del datore di lavoro e tutta la disciplina prevenzionistica, in quanto specificazione dell'obbligo di sicurezza e del diritto alla sicurezza del lavoratore) appartiene alla competenza esclusiva dello Stato e non può essere oggetto di differenziazione regionale (prospettiva che apparirebbe pericolosissima, data la possibile tentazione di alcune forze politiche ed economiche di favorire le attività produttive abbattendo i livelli - già largamente ineffettivi - di sicurezza). Ciò non solo per il limite del diritto privato, ma nel caso anche in relazione alla rilevanza direttamente penalistica della materia, che egualmente attiene alla competenza statale. Ciò vale anche per quanto attiene alla disciplina degli obblighi assicurativi, rientrante sia nelle regole del rapporto di lavoro (anche per i rilevanti effetti sulla responsabilità civile del datore di lavoro) sia in quelle a carattere previdenziale.

Alla Regione, pertanto, possono eventualmente residuare spazi di regolazione integrativa e di rafforzamento del sistema di tutele della salute e sicurezza, in termini di formazione specifica, sostegno alla conoscenza applicazione dei sistemi preventivi, di aiuto alle imprese nell'osservanza delle complesse procedure di sicurezza, ecc.

3.2 Segue: diritto sindacale e contrattazione collettiva.

Le stesse argomentazioni valgono per tutto quanto attiene alla disciplina dei rapporti collettivi di lavoro, dei diritti sindacali (rappresentanza, attività sindacale nei luoghi di lavoro), del conflitto sindacale (sciopero), della contrattazione collettiva.

Le regole strutturali del diritto sindacale, infatti, appaiono certamente riconducibili all'ordinamento dei rapporti civili, sia pure con una posizione di peculiarità e specialità risalente alla particolare tutela costituzionale. I rapporti sindacali, di conflitto e di contrattazione collettiva attengono certamente al rapporto contrattuale tra datore di lavoro e lavoratore, ed anzi sono lo strumento essenziale e più importante predisposto dall'ordinamento per il riequilibrio delle condizioni di potere sociale e contrattuale tra i soggetti del rapporto. Una disarticolazione regionale di tali regole (ad esempio quanto ai diritti sindacali in azienda) pare inimmaginabile - oltre che politicamente eversiva - poiché da un lato inciderebbe sulla realizzazione di principi costituzionali e dall'altro altererebbe le stesse condizioni di sviluppo della concorrenza tra le imprese.

Qualche interrogativo potrebbe avanzarsi soltanto per due profili che direttamente o indirettamente coinvolgono l'interesse pubblico, in funzione del quale opera anche la Regione, ovvero quelli dello sciopero nei servizi pubblici essenziali e delle procedure di concertazione o dialogo sociale. Sotto il primo profilo, tuttavia, le regole dello sciopero nei servizi finiscono per incidere, per finalità di tutela di beni e interessi fondamentali prioritariamente tutelati a livello costituzionale, sulla possibilità e i limiti all'esercizio del comportamento (anch'esso costituzionalmente garantito) di autotutela del lavoratore, e quindi direttamente sul rapporto contrattuale: ragioni per le quali non pare ipotizzabile la fissazione di regole differenti, tra le Regioni, quanto alle regole del suo esercizio (ad esempio:

regole diverse in materia di procedure di fissazione delle prestazioni indispensabili, di poteri pubblici di precettazione, ecc.).

Quanto alla concertazione sociale, invece, ferma restando l'intoccabilità delle regole strutturali dell'organizzazione sindacale e della contrattazione collettiva, non sembra possa escludersi la possibilità per le Regioni di regolamentare eventuali procedure di consultazione, dialogo sociale, concertazione, al solo livello regionale (ad esempio istituendo processi di partecipazione delle organizzazioni sindacali all'elaborazione dei testi normativi regionali).

3.3 Segue: rapporti di lavoro autonomo. Le professioni.

Le considerazioni svolte al par. 3.1 valgono parimenti per i rapporti di lavoro autonomo e parasubordinato (species del contratto d'opera), ancor più saldamente collocati nell'area del diritto civile: la distribuzione di obbligazioni, diritti e tutele di natura contrattuale intercorrenti tra committente e lavoratore non potranno che essere dettate esclusivamente dal legislatore nazionale. Anche per tali rapporti è, quindi, da preferire l'interpretazione - qui adottata e del tutto plausibile tecnicamente - secondo cui la disciplina ordinamentale dei rapporti di lavoro, divisa tra norme codicistiche e norme di autonomia collettiva (tutt'altro che sporadiche nel mondo del lavoro autonomo e delle collaborazioni coordinate e continuative) debba essere considerata rientrante nella esclusiva potestà legislativa statuale. Questa proposta ricostruttiva consente in particolare di respingere quelle interpretazioni onnipervasive, peraltro solo adombrate dalla dottrina, secondo cui il riferimento a "professioni" accanto a "tutela e sicurezza del lavoro" ex nuovo art. 117, c. 3 avrebbe giustificato una migrazione della competenza esclusiva dello stato a quella concorrente dello stato e delle regioni di tutto il lavoro, non solo subordinato (cui sarebbe da ricondurre l'espressione "tutela e sicurezza del lavoro", ma anche autonomo (al quale si riferirebbe il termine "professioni"). Come è stato sostenuto da alcuni contributi, infatti, il termine 'professioni' nel contesto della legge di riforma costituzionale attiene solo ed esclusivamente alla parte pubblica o amministrativa di gestione delle stesse. Se così non fosse, le conseguenze sul piano sistematico non sarebbero di poco momento: così, ad esempio, dovremmo pensare che solo la species contratto d'opera professionale è passato alla legislazione concorrente, mentre il genus contratto d'opera sarebbe rimasto nell'ordinamento civile e quindi di competenza dello Stato.

Le regioni, peraltro, non potranno approfittare delle loro nuove competenze concorrenti in materia di professioni per introdurre nuove discipline, ad esempio dando avvio ad un proliferare di albi in ambito regionale. Analogamente, sul punto, si è dichiarata l'Autorità Antitrust: il richiamo dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato, in piena aderenza agli orientamenti dell'Organizzazione mondiale del commercio, ha in questi anni più volte ribadito che i requisiti di accesso alle professioni debbono essere tali da evitare che per loro tramite vengano surrettiziamente introdotte restrizioni di tipo quantitativo allo stesso accesso.

Le regioni non potranno in particolare sottrarsi ai vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario ex art. 117, c. 1° (v. supra), la cui legislazione sotto il profilo in discussione è nel segno di una liberalizzazione spinta delle professioni, ovvero per l'abbattimento in ambito europeo di ostacoli al libero esercizio dall'attività da parte dei professionisti. A tale proposito è bene ricordare che è delle scorse settimane una proposta della Commissione UE di raggruppare una quindicina di Direttive esistenti per meglio regolamentare il riconoscimento dei titoli e delle qualifiche professionali di coloro che intendono stabilirsi o esercitare la loro professione in un altro stato membro. La proposta in particolare conclude un ciclo di consultazioni con le categorie professionali iniziate lo scorso anno per individuare concretamente le azioni da intraprendere nell'ambito della strategia dell'Unione per i nuovi mercati del lavoro al fine di semplificare e consolidare le condizioni per il riconoscimento professionale e le prestazioni di servizio in seno all'U.E.

3.4 I rapporti di lavoro pubblico.

Appare molto complesso individuare gli ambiti di potestà legislativa statuale e regionale in relazione ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni.

Il d.lgs. 29/93 e le successive modificazioni (ora raccolte nel testo unico del D.lgs. 165/2001) hanno operato una "contrattualizzazione" del rapporto di lavoro pubblico; rimangono tuttavia ancora rilevanti aspetti della disciplina dell'organizzazione del lavoro che, pur incidendo indirettamente sul contratto individuale, non possono essere ricondotti al piano negoziale e conservano l'originaria natura pubblicistica: ad. es. gli atti di macrorganizzazione e di definizione delle dotazioni organiche (art.6 d.lgs. 165/2001), le procedure concorsuali e le condizioni di accesso (art.36), la rappresentanza unitaria delle amministrazione in sede di contrattazione nazionale di comparto (art. 46), il procedimento di contrattazione collettiva e i controlli preventivi e successivi di sostenibilità finanziaria della spesa (artt. 47 e 48), gli effetti della contrattazione collettiva nazionale sull'efficacia della legislazione regionale (art.2).

La disciplina negoziale del rapporto si intreccia con quella pubblicistica dell'ordinamento e dell'organizzazione in modo così inestricabile che il legislatore è stato costretto ad impedire continui e paralizzanti conflitti di giurisdizione attribuendo numerose materie alla giurisdizione esclusiva del giudice ordinario ed attribuendo a questi uno speciale potere di disapplicazione dell'atto amministrativo (cfr.art.63 d.lgs. 165/2001).

La novella costituzionale aggiunge ora alle problematiche della definizione del riparto della giurisdizione, anche quelle di definizione delle competenze statuali e di quelle regionali. Da un lato, infatti, l'art.117 Cost. come si è visto ha attribuito alla potestà esclusiva del legislatore statale la materia dell'ordinamento civile, dall'altro, assegnando al legislatore statale soltanto l'ordinamento e l'organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali, ha implicitamente riservato alle Regioni una competenza esclusiva riguardo all'ordinamento e all'organizzazione degli enti non statali, ambito in cui paiono riconducibili proprio tutti quegli aspetti della disciplina del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni che hanno conservato una natura pubblicistica e amministrativa. La novella costituzionale sembra quindi aver privato di qualsiasi valenza giuridica la previsione dell'art. 1 comma 3 del d.lgs. 165/2001 secondo cui le disposizioni dello stesso avrebbero dovuto essere considerati "principi fondamentali ai sensi dell'art. 117 della Costituzione" (vecchio testo) ed ha - conseguentemente - reso gran parte di queste "derogabili" da parte delle Regioni (D'AURIA, Il lavoro pubblico dopo il nuovo titolo V (parte seconda) della Costituzione, in LPA,2001,757), se non persino incostituzionali in quanto in violazione delle competenze esclusive delle Regioni in materia di organizzazione amministrativa (ZOPPOLI, La riforma del titolo V della Costituzione e la regolazione del lavoro nelle pubbliche amministrazioni: come ricomporre i "pezzi" di un difficile puzzle, in LPA, 2002).

E' indubbia l'estrema difficoltà nel tracciare un sicuro confine tra gli ambiti attinenti al rapporto contrattuale di competenza statuale e quelli attinenti all'organizzazione di competenza regionale, tanto da far prospettare (ZOPPOLI) la necessità di abbandonare il riparto dualistico "per materie" (contratto individuale / organizzazione) e l'adozione di un riparto "per funzioni" che in un disegno "cooperativo" tra Stato e Regioni per un verso limiti la potestà statuale in materia di rapporto contrattuale alla disposizione delle "linee ordinamentali" (definizione delle fattispecie astratte e degli effetti, delle categorie qualificatorie, degli schemi contrattuali tipici, delle cause di estinzione) riconoscendo alle Regioni degli ambiti (pur molto contenuti) di disciplina degli aspetti accessori del rapporto, per altro verso permetta alla legge statale di intervenire in merito all'organizzazione amministrativa regionale ove ciò sia necessario per garantire "i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali", "la tutela della concorrenza" od ancora "la perequazione delle risorse finanziarie".

Sebbene il riparto per materia risulti assai difficile da operare e sia opportuno valorizzare ogni momento e meccanismo di cooperazione tra Stato e Regioni nella formazione della legge (primo

fra tutti la facoltà di prevedere la partecipazione di rappresentanti delle Regioni alla Commissione parlamentare per le questioni regionali introdotta dall'art.11 della legge costituzionale), ciò però non impone necessariamente di attribuire alle Regioni una potestà legislativa in relazione al contratto di lavoro che intercorre tra queste e i loro dipendenti. In questo modo ci si troverebbe piuttosto costretti a misurarsi con un'operazione ermeneutica di pari complessità: dover distinguere le linee ordinamentali dagli elementi accessori della disciplina legale del rapporto civilistico. In vero lo stesso d.lgs. 165/2001 già distingue nettamente gli ambiti di normazione legislativa regionale in materia di aspetti organizzativi da quelli relativi alla disciplina del rapporto contrattuale: mentre per i primi il legislatore statale si è limitato a dettare delle disposizioni di principio (le amministrazioni pubbliche definiscono, secondo principi generali fissati da disposizioni di legge e sulla base dei medesimi, mediante atti organizzativi secondo i rispettivi ordinamenti, le linee fondamentali di organizzazione degli uffici; individuano gli uffici di maggiore rilevanza e i modi di conferimento della titolarità dei medesimi; determinano le dotazioni organiche complessive - art. 2, comma 1), per i secondi ha invece precluso qualsiasi spazio di normazione ad opera delle Regioni (I rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel presente decreto - art. 2, comma 2). Ciò che risulta realmente imprescindibile è invece verificare se quei principi dettati dal legislatore statale in merito all'organizzazione degli enti non statali possano oggi essere giustificati alla luce del nuovo riparto di competenze al fine di garantire i livelli essenziali di diritti civili e sociali in tutto il territorio nazionale o di controllare la spesa pubblica locale e di perequare le risorse pubbliche (cfr. in questo senso D'AURIA). Nei casi in cui tali esigenze risultino insussistenti la potestà legislativa delle Regioni relativamente alla sua organizzazione e a quella degli enti locali operanti nel loro territorio non può che ritenersi assoluta.

Molto probabilmente il nuovo riparto di competenze legislative mina la legittimità costituzionale dell'obbligatorietà della rappresentanza unitaria dell'ARAN nel comparto Regioni-Enti in sede di contrattazione collettiva nazionale (in questo senso ZOPPOLI, D'AURIA), ma ciò non significa che si debba necessariamente addivenire al superamento nella sua interezza del meccanismo di contrattazione collettiva nazionale e decentrata disciplinato dal d.lgs. 165/2001; la Corte costituzionale infatti è parsa condividere la ricostruzione sistematica in termini esclusivamente privatistici dei peculiari caratteri della contrattazione collettiva del pubblico impiego (efficacia erga omnes, effetti "abrogativi" delle disposizioni legali sopravvenute, meccanismi di controllo della spesa) proposta da parte della dottrina giuslavoristica.

4. Ipotesi sulla competenza regionale concorrente in materia di lavoro.

Analizzati i limiti della competenza regionale, e le ragioni dell'esclusione da tale competenza della regolazione diretta dei rapporti di lavoro, si deve ora provare a delineare, 'in positivo', le materie sulle quali può svilupparsi legittimamente (e ci si augura virtuosamente, secondo linee di miglioramento dei sistemi di tutela del lavoro e dei lavoratori) la regolazione legislativa a livello regionale.

E' affermazione comune quella secondo la quale la legislazione concorrente - fermi dunque alcuni principi generali traibili dalla legislazione statale - in materia di "tutele e sicurezza del lavoro" riguardi in primo luogo la disciplina della gestione pubblica e privata del mercato del lavoro: funzionamento degli istituti di governo e indirizzo della domanda e offerta di lavoro, del collocamento, della formazione, nonché tutte le funzioni di vigilanza amministrativa e ispettiva sull'impiego del lavoro. Tale competenza a nostro parere non deve essere letta in maniera riduttiva, in una prospettiva meramente burocratica e amministrativa, ma va intesa come affidamento di un vero e proprio ruolo di regolazione e governo attivo del mercato del lavoro, nel senso più ampio, in grado di incidere sulle caratteristiche della domanda e dell'offerta a livello territoriale.

Il limite di competenza di tali interventi, nel rispetto dei principi sopra delineati, sembra essere solo quello della disciplina esterna agli obblighi e diritti delle parti del rapporto sul piano civilistico. Fissare il confine tra disciplina esterna e interna al rapporto, in realtà, può talvolta non essere semplice: si pensi agli obblighi in materia di collocamento, assunzione di soggetti appartenenti a certe fasce, ecc., che a nostro parere possono rientrare nelle competenze regionali e che spesso determinano l'insorgere di diritti ed obblighi che si riflettono anche sulla posizione delle parti. Si tratta tuttavia di effetti indiretti che scaturiscono, in genere, da obblighi imposti al datore di lavoro per la tutela di interessi di carattere generale, e quindi comunque da discipline originariamente esterne al rapporto di lavoro (con meri riflessi interni al rapporto, che quasi sempre si concentrano sulla fase di costituzione del rapporto stesso); su tale profilo, peraltro, dovrebbero incidere significativamente i principi generali stabiliti dalla legge statale (i quali, ad esempio, dovrebbero fissare le percentuali minime dell'obbligo di assunzione o occupazione di certi soggetti, ecc.). Diverso sarebbe per discipline che abbiano quale oggetto diretto il rapporto obbligatorio, l'assetto di diritti ed obblighi delle parti del contratto di lavoro, che deve considerarsi appartenente all'ordinamento civile e dunque estraneo alla competenza regionale di tutela del lavoro.

Sulla base di tali osservazioni, e scontando inevitabili margini di incertezza per ogni singolo profilo, possono ipotizzarsi i seguenti terreni di sviluppo della regolazione legislativa concorrente Stato - Regioni.

· Servizi per l'impiego, agenzie di mediazione e di fornitura di lavoro temporaneo;

· sistema di composizione delle controversie di lavoro;

si fa riferimento ai soli aspetti strutturali e di gestione amministrativa, poiché le regole sostanziali degli istituti della conciliazione e arbitrato rientrano certamente nella competenza esclusiva statale, sia in quanto direttamente incidenti sui rapporti tra i soggetti del rapporto, sia per gli aspetti connessi alla giurisdizione civile;

· andamenti del mercato e percorsi di formazione

con possibilità di collegamento anche ai sistemi di istruzione base, che pure sono considerati nell'elenco di materie a legislazione concorrente, dove la formazione può ora interagire più direttamente con le regole stesse del mercato, finanche con istituti di flessibilità;

· promozione dell'occupazione dei soggetti appartenenti alle fasce deboli o categorie protette;

sulla base dei principi generali stabiliti dalla legge statale la legislazione regionale potrebbe regolare gli aspetti relativi alla formazione, all'inserimento mirato, all'adeguamento a tal fine dei servizi di impiego e delle stesse imprese, agli aspetti incentivanti, ecc.;

· politiche di integrazione della manodopera extracomunitaria;

sono esclusi ovviamente tutti gli aspetti relativi all'immigrazione, permessi di soggiorno per motivi di lavoro, ecc. che ricadono certamente nella competenza esclusiva dello Stato; fermo tale aspetto, anche in questo caso si tratterà degli aspetti esterni al rapporto di lavoro - rapporto che nel caso non sarebbe regolabile non solo per il limite della competenza esclusiva statale, ma anche per il principio di parità di trattamento in relazione alla cittadinanza - ovvero delle politiche di formazione specifica, di sostegno delle soluzioni abitative, di mediazione interculturale, ecc.

· politiche di pari opportunità e azioni positive;

· incentivazioni all'occupazione;

· sistemi di ammortizzatori sociali integrativi di quelli predisposti dalla disciplina di rilievo nazionale (v. infra, in merito alla previdenza sociale);

· gestione dei licenziamenti collettivi e delle eccedenze di personale;

sono ovviamente esclusi tutti gli aspetti relativi alla disciplina della sospensione in cassa integrazione, delle riduzioni del personale (cause, procedure collettive, criteri di scelta, ecc.), così come gli interventi previdenziali base (indennità di mobilità), cioè quelli attualmente regolati dalla legge 223/1991; nulla sembra impedire, tuttavia, l'integrazione a livello regionale dei sistemi di protezione e soluzione delle situazioni di crisi ed eccedenza (ammortizzatori sociali integrativi), di promozione di piani sociali nella gestione del personale eccedente (ad es. politiche di out-placement territoriale), di gestione dei percorsi di mobilità, ecc.

· regolazione esterna degli istutiti di flessibilità (contratti formativi, lavoro temporaneo, percorsi scuola-lavoro);

anche in questo caso, potrebbe trattarsi dei soli aspetti di incentivazione, promozione dell'incontro tra domanda e offerta di lavoro flessibile, politiche di formazione, ecc.

· ordinamento e funzioni dei sistemi di vigilanza sul lavoro, di contrasto alle forme di irregolarità, politiche di emersione del lavoro nero, ecc.;

· una funzione regolativa assai interessante, potenzialmente, è quella riguardante il mondo dei "nuovi lavori" autonomi (in particolare: collaborazioni coordinate e continuative);

anche in questo caso gli aspetti relativi al rapporto di lavoro rimangono, come si è sottolineato, saldamente ancorati alla legislazione esclusiva dello Stato. Le Regioni tuttavia - data anche l'accentuata differenziazione per aree economiche e territoriali di questo genere di lavori (il cui sviluppo è fortemente connesso alle caratteristiche del sistema produttivo, delle pubbliche amministrazioni, ecc.) - possono svolgere una funzione regolativa importante su tutti gli aspetti esterni al rapporto contrattuale, e in particolare innescare un virtuoso processo regolativo a partire dai 'bisogni' direttamente espressi da tali soggetti: sostegni alla formazione a autoformazione; sostegno ad esperienze di organizzazione solidaristica e di mutuo soccorso; sistemi di sicurezza integrativi per eventi invalidanti (malattia, infortuni, gravidanza); accesso facilitato a crediti e finanziamenti, ecc.

Tali tipi di intervento sono anzi da considerare auspicabili soprattutto per una categoria di lavoratori rispetto ai quali uno dei punti di maggiore criticità della loro condizione lavorativa è rappresentato dai costi per la formazione/aggiornamento: costi utili e necessari ai fini della loro permanenza nel mercato del lavoro e che raramente, per non dire mai (tranne nei casi delle professioni c.d. liberali), trovano ristoro nei compensi pattuiti con la controparte (rectius, il committente). In tal modo le regioni potrebbero rendersi attrici di una decisa svolta dei tradizionali sistemi di Welfare verso sistemi di sicurezza sociale - fra l'altro in piena sintonia con gli auspici comunitari in tema di politiche per l'occupazione - verso un sistema c.d. di Training State.

In questo quadro c'è spazio per una valorizzazione della mediazione sindacale, la quale dovrebbe porsi in un’ottica essere sempre più fattiva con le amministrazioni del governo locale anche sui temi del lavoro autonomo. Vi sono già alcune esperienze significative in tale direzione: tra le più recenti, la sottoscrizione di un protocollo di intesa tra la regione Liguria e la Nidil-Cgil, il cui scopo è quello di inaugurare a livello regionale un'attività di

monitoraggio dei bisogni formativi dei collaboratori e delle collaboratrici coordinati e continuativi, e, a seguito della quale, dovranno essere progettati percorsi di formazione specifici per questi stessi lavoratori e lavoratrici.

5. Previdenza e sicurezza sociale.

Come si è ricordato, la materia della previdenza sociale rientra nella competenza legislativa esclusiva dello stato, mentre alla competenza concorrente di regioni e stato spetta la previdenza complementare e integrativa. Il primo ostacolo da superare consiste dunque nel pervenire ad una definizione del significato dell'espressione previdenza sociale.

Tale espressione, in via di prima analisi, allude alla manifestazione più tipica dello Stato sociale. Parlando di azione sociale dello Stato si fa, peraltro, spesso ricorso anche al concetto di sicurezza sociale, un concetto che, per verità, si presenta ancor più indeterminato di quello di previdenza sociale (v. oltre), al cui significato qui solo accenniamo anche in considerazione del fatto che a questa espressione (sicurezza sociale) il legislatore costituente non ha fatto ricorso esplicitamente (tale concetto peraltro attraversa implicitamente molte delle espressioni utilizzate; in aggiunta a quelle di cui qui si discute v. ad esempio "tutela e sicurezza del lavoro"). Se infatti alla nozione di sicurezza sociale si riconoscono tutte le implicazioni che sono proprie di quel concetto - quali quelle in particolare che attengono alla sicurezza economica di ciascuno, alla prevenzione dai rischi sociali, allo sviluppo della persona umana e alla effettiva partecipazione dei lavoratori all'organizzazione del paese - di estensione in estensione si può arrivare a comprendervi tutte le attività proprie della politica sociale: dalla tutela dell'occupazione alla tutela del reddito, dalla tutela dell'ambiente all'edilizia, dall'istruzione alla giustizia, alla difesa, alla cultura, alla tutela del tempo libero e così via. La sostanziale indeterminatezza di questo concetto ha come effetto quello di negare una sua pratica utilizzabilità almeno sotto il profilo giuridico. Il concetto di sicurezza sociale si può allora affermare vale in realtà più come formula ricostruttiva di esperienze sociali e giuridiche, le quali, seppur accomunate dalla generica finalità di tutela della persona umana in relazione a bisogni essenziali della vita individuale e collettiva, permangono assolutamente eterogenee (cfr. M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, G. Giappichelli, 2001).

Anche con l'espressione previdenza sociale si intendono sicuramente una pluralità di significati. Infatti, sebbene il diritto della previdenza sociale risulti dotato di riconosciuta autonomia scientifica e didattica, permangono tuttora sostanziali incertezze sia circa alcuni connotati della materia, sia circa la stessa delimitazione della 'porzione' di ordinamento giuridico cui allo stato con tale espressione ci si possa riferire. Tuttavia qualche elemento di convergenza a fini qualificatori è rintracciabile nelle diverse prospettazioni teoriche. Autorevole dottrina è prevenuta infatti a delineare i confini della materia in riferimento a quelle attività di redistribuzione della ricchezza in presenza di effetti dannosi socialmente rilevanti, per la disciplina delle quali l'ordinamento preveda tecniche e strutture specifiche. Tra questi predomina sicuramente l'assicurazione sociale che dunque ben può fungere in una prospettiva pragmatica da elemento aggregante per la qualificazione e l'identificazione dell'intera materia (cfr. Cinelli, op. cit.). Più precisamente la previdenza diventa un meccanismo sociale laddove "innanzitutto l'assicurazione costituisce obbligo derivante ex lege (e non da contratto) e in quanto con questo meccanismo assicurativo obbligatorio vengono introdotti aspetti di mutualità che prescindono in tutto o in parte dal mero rapporto quantitativo definito dalle scienze attuariali tra premio o contributo assicurativo e prestazione promessa, e calcolano la prestazione previdenziale in base anche ad altri criteri, appunto sociali" (cfr. U. Rescigno, Stato sociale e principio di sussidiarietà, http://www.costituzionale,unige.it/rescigno.html). La previdenza sociale, in questa accezione, è, in particolare, espressione di quanto previsto dall'art. 38, c. 2, Cost., il quale chiaramente impone al legislatore di istituire e disciplinare assicurazioni obbligatorie in misura tale che i lavoratori abbiano sufficienti mezzi in caso di infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia, disoccupazione involontaria. Prescrive poi che a gestire tali assicurazioni obbligatorie siano organi o istituti predisposti dallo

Stato (e cioè la gestione sia fatta o direttamente dallo Stato mediante suoi organi, o indirettamente mediante appositi istituti, tipo l'Inps) oppure istituti integrati dallo Stato (e cioè organizzazioni private con garanzia statale nei confronti degli assicurati, in modo che il diritto al trattamento previdenziale previsto dalla legge o maturato non venga meno in tutto o in parte per inadempienza del soggetto assicurato).

Tornando al tema che qui interessa è allora possibile concludere che la competenza esclusiva dello Stato di cui all'art. 117, c. 2, lett. o) si esplichi nei confronti della previdenza sociale obbligatoria di cui parla l'art. 38 Cost.

I temi affrontati (previdenza, assistenza, salute) sono indubbiamente espressione di quelli che vengono definiti diritti sociali e come tali innervano la struttura dello Stato sociale. Non è qui il caso di soffermarsi sulle caratteristiche che lo Stato sociale ha assunto storicamente o assumerà in futuro. Il tema dei diritti sociali rileva in particolare nell'ambito dell'art. 117, c. 2, lett. m) ai sensi del quale rientra nella competenza esclusiva dello Stato la "determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale". I limiti suddetti (ancorché di difficile definizione, v. R. Bifolco, Federalismo e diritti, in Groppi T. - Olivetti M., La Repubblica delle autonomie, G. Giappichelli, 2001; A. Ruggeri, Neoregionalismo e tecniche di regolazione dei diritti sociali, in Diritto e società, 2001, n. 3, p. 202) dovrebbero essere concepiti in termini non solo "qualitativi" ma anche quantitativi (v. G. Balandi, Il sistema previdenziale nel federalismo, in LD, 2001, n. 3, p. 479 ss). La presenza di questa norma dovrebbe consentire di immaginare nelle materie indicate di competenza concorrente (e quindi almeno per le materie della previdenza complementare e della salute) un doppio limite costituito dai principi fondamentali, ma anche da quello derivanti dall'art. 117, c. 2, lett. m).

La riserva alla legislazione statale della previdenza obbligatoria apre comunque l'interrogativo su un possibile ruolo, anche in tale settore, delle Regioni (salvo quello che sia delegato dalla stessa legge statale). Infatti, accanto al sistema pensionistico nel suo complesso e a quello assicurativo per gli infortuni e le malattie professionali, vi sono molte prestazioni a carattere previdenziale e/o di sicurezza sociale (ad es. tutela disoccupati, prestazioni collegate a malattia, maternità, congedi parentali, assistenza ai familiari, ecc.) che potrebbero rientrare anche nella competenza regionale nella prospettiva della tutela e sicurezza del lavoro; rispettato il doppio limite ora sottolineato, potrebbe in questo campo affermarsi la competenza della legislazione regionale.

Peraltro, l'espressa attribuzione della "previdenza complementare e integrativa" alla potestà legislativa concorrente delle Regioni sembra proprio legittimare queste ultime ad integrare - appunto - i livelli di protezione garantiti dalla legge statale in tutto il territorio nazionale. La dizione "previdenza integrativa", utilizzata dal secondo comma dell'art. 117 Cost. in contrapposizione alla "previdenza sociale" attribuita dal primo comma alla potestà esclusiva dello Stato, non deve esser riduttivamente intesa circoscrivendo gli ambiti di potestà delle Regioni all'integrazione dei soli trattamenti pensionistici di vecchiaia (secondo l'accezione utilizzata nel d.lgs. 21 aprile 1993 n. 124 e nelle successive modifiche di questo), ma può essere intesa come attribuzione alle Regioni del potere di integrare ogni aspetto del sistema previdenziale statale sia con la previsione di prestazioni più generose sia con l'introduzione di istituti aggiuntivi.

Una differenziazione in melius della disciplina legislativa regionale non potrebbe d'altronde esser ritenuta lesiva del principio di eguaglianza tra cittadini laddove siano effettivamente garantiti in tutte le Regioni soddisfacenti "livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali"; non deve infatti essere equivocato l'aggettivo "essenziali" che va correttamente inteso nel senso di "imprescindibili" livelli di prestazioni e non certo nel senso di "minimi" o "ridotti" standards comuni; non vi è insomma nel nuovo testo dell'art.117 cost. alcuna opzione del legislatore costituzionale per uno "Stato minimo". L'eguaglianza formale non vincola però alla assoluta uniformità al di sopra di tale soglia, ma lascia spazio a una parziale differenziazione normativa che possa costituire motore e stimolo a una competizione "in positivo" tra le varie Regioni, strumentale a un

progressivo innalzamento del livello di "eguaglianza sostanziale" in tutto lo Stato. Inoltre l'art.116 Cost. permette alle Regioni di negoziare con lo Stato centrale ulteriori ambiti di intervento normativo giungendo anche fino a sollevarsi dall'onere di osservare i principi fondamentali statuali. Anche in questa ipotesi però non potranno non essere garantiti quei livelli di prestazione che la legge statale valuta imprescindibili in tutto il territorio.

Il successo di questo disegno è legato a un'efficace e oculata disciplina da parte del legislatore ordinario dei criteri di contribuzione da parte delle Regioni al fondo perequativo di cui all'art.119 Cost. e di redistribuzione a favore di quelle svantaggiate alla ricerca del punto di equilibrio tra l'esigenza di colmare il gap di risorse disponibili tra Regioni ricche e Regioni povere e quella di non annullare con queste risorse ogni incentivo competitivo che la differenziazione produce.

Un eventuale intervento della Regione in funzione di integrazione dei trattamenti previdenziali implica, peraltro, che esso si ponga in aderenza ai principi e alle regole del diritto comunitario (v. art. 117, c. 1, v. supra). Infatti, sebbene la materia della sicurezza sociale non venga considerata esplicitamente nel Trattato di Roma del 1957, l'azione dell'U.E. (in particolare della Corte di Giustizia) in merito a questo argomento non può dirsi certo marginale. E' bene ricordare come l'Europa assegni al tema della previdenza sociale una particolare importanza e ciò in quanto mezzo di garanzia della libera circolazione delle forze di lavoro. Essa in particolare interviene sotto il profilo del coordinamento e dell'armonizzazione delle legislazioni degli stati membri, facendosi guidare da due principi cardine fondanti lo stesso patto comunitario: il principio di parità e il principio di reciprocità, che del primo è il corollario. Il principio di parità implica assoluta e globale equiparazione tra cittadini e stranieri comunitari in materia di sicurezza sociale. Pertanto, trattamenti regionali in violazione di questi principi sarebbero censurabili.

L'intervento delle regioni sui temi qui trattati rinvia, inoltre, ad un'ulteriore serie di problematiche e solleva interrogativi cui solo accenniamo, e che meriterebbero ulteriori approfondimenti: alludiamo alla definizione dei criteri di attribuzione delle prestazioni integrative, i quali comunque non potranno frapporsi alla libera circolazione dei lavoratori in ambito europeo, e all'eventuale definizione di un diritto interregionale, inteso a risolvere problematiche di coordinamento e contrasto tra le discipline di più Regioni.

5.1. Competenza concorrente. Previdenza complementare e integrativa / Tutela della salute.

Fra le materie affidate alla legislazione concorrente compare, come si è ricordato, il riferimento alla previdenza complementare e integrativa, ma anche quello alla tutela della salute.

La modifica costituzionale porta a concludere che alla previdenza complementare istituita dal legislatore italiano negli anni '90 non viene riconosciuto quel carattere di essenzialità proprio della previdenza sociale obbligatoria. Vero è, però, che i regimi privati di previdenza complementare, ancorchè disciplinati sulla base di criteri propri del diritto comune, sono da collegare in maniera stretta ai regimi previdenziali obbligatori e in senso lato alla politica sociale. La ratio della attuale regolamentazione generale per legge, e come elemento strutturale del sistema previdenziale della previdenza complementare si radica, infatti, nella crisi del Welfare State, fenomeno comune ai paesi di area occidentale, ma con caratterizzazioni particolari nel nostro paese, stanti la diffusa disoccupazione e le difficoltà della finanza pubblica e di quella delle imprese a sostenere la spesa sociale: donde l'esigenza di alleggerire il sistema pubblico di parte della spesa sociale e, nel contempo, di reperire risorse da investire in iniziative private e pubbliche, atte ad innescare nuovi processi produttivi e, quindi, nuova occupazione (e, con essa nuovi contribuenti).

Il nuovo art. 117 non ha certo contribuito a semplificare il quadro delle competenze neanche in punto di tutela della salute, tipico diritto sociale che come tale esso può essere fatto implicitamente

rientrare anche in quella parte dell'art. cit. disciplinante la competenza esclusiva dello Stato (e più precisamente sia nell'ipotesi di cui all'art. 117, c. 2, lett. o), ma anche lett. m).

Coerentemente all'impostazione seguita in queste note (v. supra), è da ritenere che con l'espressione "tutela della salute" sia da intendere non la materia della tutela della salute e sicurezza nel lavoro, materia che, come si è cercato di argomentare, è da ricondurre nell'alveo della competenza esclusiva dello stato almeno per tutto quanto attiene la determinazione degli standard di protezione (mentre per quanto riguarda l'azione di controllo e di vigilanza sulle condizioni di igiene e sicurezza del lavoro nulla osta a che si ricada nella competenza concorrente regionale).

A tale espressione si connette semmai la potestà legislativa concorrente delle regioni in materia sanitaria. Il tema della sanità solleva una serie di complesse problematiche, che tuttavia esulano dagli obiettivi della presente nota.

5.2. Forme atipiche di lavoro e previdenza complementare: le opportunità intrinseche al nuovo sistema per i lavoratori autonomi.

In materia di previdenza complementare, sempre che risulti prevalente l'interpretazione che esclude lo stretto legame tra previdenza pubblica (obbligatoria) e previdenza privata (facoltativa) e la possibilità di un apprezzamento - dato dall'interazione tra queste due forme previdenziali - sul piano socio-politico, si aprirebbero quindi spazi legislativi alla Regione, nei limiti, naturalmente dei principi fondamentali riservati alla legislazione dello Stato (v. art. 117, c. 3). A questo proposito vi è già chi considera il decentramento se accompagnato da un profondo 'rinnovamento culturale' delle parti sociali, un'occasione fruttuosa in particolare per i lavoratori autonomi.

Le forme pensionistiche complementari, come noto, possono essere istituite altresì per raggruppamenti sia di lavoratori autonomi sia di liberi professionisti, anche organizzati per aree professionali e per territorio. Per questi lavoratori, tuttavia, tali forme complementari non sono decollate. Ad esse piuttosto aderiscono quei settori del mondo del lavoro che sono organizzati nel reticolo tradizionale delle relazioni industriali e fruiscono dei benefici contrattuali e delle prerogative dei sistemi di sicurezza sociale. Più chiaramente, rimanendo in una logica parallela alla contrattazione nazionale di categoria (come di fatto è avvenuto) la previdenza privata finisce per non sviluppare tutte le sue potenzialità. Probabilmente se le parti sociali accettassero di misurarsi anche con tipologie di lavoro autonomo a livello territoriale confrontandosi con le Regioni, anche queste forme previdenziali potrebbero aderire meglio alla complessa realtà sociale.

Del resto, è principalmente al tema della previdenza sociale che il legislatore ha guardato nel momento in cui ha voluto progettare un intervento a tutela del lavoro autonomo e, in particolare, parasubordinato, ancor oggi privo, sul piano delle regole lavoristiche, quasi del tutto privo di una tutela immediatamente e dirittamente applicabile. Essa (la previdenza sociale), in particolare, si fa apprezzare per avere, ancora una volta, preceduto il diritto del lavoro nella regolamentazione di fenomeni di nuova rilevanza sociale (ancorchè essa risulti criticabile sul piano della tecnica definitoria utilizzata, v. art. 5, d.lgs. 38/2000, come modificato dall'34, l. 342/2000).

5.3. Competenza esclusiva della Regione. Assistenza.

In materia di assistenza le modifiche apportate alla Costituzione dalla l. n. 3/2001 consentono di affermare l'attribuzione di un ruolo determinante in capo alle regioni. L'assistenza pare infatti attribuita alla competenza esclusiva regionale.

In direzione di un significativo esplicito decentramento si muove del resto, nel solco della l. n. 59/97 e del d.lgs. 112/98, la recente legge n. 328/2000 "Principi generali del sistema integrato di interventi e servizi sociali". Tale legislazione assegna un ruolo strategico in particolare a Regioni e Comuni, ai quali spetta, mediante la redazione di Piani, rispettivamente regionale e zonale, la determinazione in concreto degli obiettivi e dei livelli delle prestazioni precedentemente definite a livello statuale in rapporto alle specifiche esigenze delle diverse comunità locali. Tali determinazioni, quindi, si muovono entro prestabiliti livelli assistenziali la cui definizione compete allo Stato. La collocazione della materia dell'assistenza entro i confini della competenza esclusiva della regione, come precedentemente è stato sottolineato, quindi, non è ostativa alla presenza di una legislazione statuale in funzione della determinazione dei livelli delle prestazioni essenziali alle quali la Regione potrà derogare in termini migliorativi.

Anche gli approfondimenti del capitolo assistenza esulano dagli obiettivi di questa nota.

6. Altri limiti alla legislazione regionale. Tutela della concorrenza, libertà di circolazione, costo del lavoro, sostegno dell'occupazione, aiuti pubblici alle imprese.

La disciplina regionale in materia di tutela del lavoro e dell'occupazione non potrà comunque confliggere con i principi di tutela della concorrenza e di libera circolazione dei lavoratori e delle imprese, che il nuovo testo costituzionale importa dalla normativa comunitaria. Dall'esame di quest'ultima e - ancor più - della giurisprudenza della Corte di Giustizia si possono individuare possibili punti di frizione tra discipline legali finalizzate al sostegno dei livelli occupazionali e reddituali differenziate per Regioni e tutela di pari condizioni di competizione tra i soggetti imprenditoriali.

Come sopra ricordato, la Corte Cost. ha già in passato rilevato come una differenziazione regionale della disciplina privatistica non solo è destinata a incidere - in modo inconciliabile con il principio di eguaglianza formale - sui diritti fondamentali dell'autonomia negoziale e della proprietà privata, ma anche sulla libertà di impresa di cui all'art. 41 Cost.. Verrebbe, infatti, alterata la concorrenza tra i soggetti imprenditoriali, i quali, pur liberi in virtù dell'art. 120 Cost. di operare in qualsiasi territorio regionale, sarebbero fortemente condizionati, quanto a competitività, dalla disciplina regionale applicabile ai rapporti di lavoro dei loro dipendenti. La "costituzionalizzazione" della tutela della concorrenza, che ha trovato espressa previsione nell'art. 117, comma 2, lett. e), e l'attribuzione di questa alla potestà esclusiva del legislatore statale sono elementi che confortano ulteriormente la correttezza (e l'opportunità) di una interpretazione che riservi al potere centrale la disciplina del rapporto contrattuale di lavoro.

L'uniformità della disciplina legale del contratto del lavoro, comunque, non preclude sotto il profilo tecnico-giuridico che si possa addivenire ad una contrattazione collettiva in ambito regionale che, derogando - anche in senso peggiorativo per i lavoratori - le previsioni del contratto nazionale, comporti una parziale diversità del costo del lavoro nel territorio nazionale. Questi contratti "regionali" sarebbero perfettamente compatibili con la disciplina comunitaria e nazionale della concorrenza; dovrebbe invece valutarsi se gli stessi possano considerarsi rispettosi del dettato degli artt. 36 e 39 Cost. quanto alla sufficienza e proporzionalità della retribuzione convenuta e all'effettiva rappresentatività dei soggetti collettivi stipulanti.

Per quanto invece attiene ad interventi della legislazione regionale volti ad incidere (direttamente o indirettamente) sul costo del lavoro si pone necessariamente nel contesto nazionale il medesimo problema con cui da tempo ci si confronta in sede comunitaria: far coesistere tutela della concorrenza ed efficaci aiuti pubblici (diretti e indiretti) alle imprese volti all'incremento dell'occupazione. Si deve escludere, infatti, che il nuovo rapporto di pari sovranità tra Stato e Regioni possa far qualificare le leggi regionali che attribuiscano aiuti pubblici alle imprese come "misure generali" (in relazione al solo ambito regionale) ex se compatibili con il mercato comune, e

non più come misure "selettive" per territorio (in relazione all'ambito nazionale) che sono invece ammissibili soltanto se riconducibili alle ipotesi di deroga previste dall'art. 87, par. 2 e 3, del Trattato.

La Corte di Giustizia ha già avuto modo di chiarire sia che il sistema ordinamentale interno degli Stati membri è indifferente ai fini dell'applicazione della disciplina comunitaria a tutela della concorrenza, sia che debbono ritenersi "aiuti concessi dagli Stati" ai sensi dell'art. 87 del Trattato tutti gli aiuti finanziati direttamente o indirettamente da risorse pubbliche senza che rilevi quale sia l'ente (centrale, regionale, locale) erogatore (cfr. Corte di Giustizia, sentenza 7.5.1998, Viscido/ Ente Poste Italiane; Tribunale di I grado, sentenza del 15.6.1999, Regione autonoma Friuli Venezia Giulia/Commissione).

La nozione di "aiuto di Stato" ai sensi dell'art. 87 TCE è poi estremamente ampia, ricomprendendo "ogni vantaggio economicamente apprezzabile accordato a un'impresa attraverso un intervento pubblico, vantaggio che altrimenti non si sarebbe realizzato" (TESAURO, Diritto comunitario, Padova 2001, 651); non soltanto dunque la concessione di sovvenzioni ma anche ogni provvedimento "derogatorio" che riduca gli oneri che gravano sul bilancio di un'impresa (ad es. un'agevolazione fiscale, uno sgravio d'interessi, una tariffa preferenziale, un prestito o una garanzia). Una legislazione regionale (pur ammissibile in base alla ripartizione per materie dell'art. 117 cost.) di aiuti pubblici alle imprese volti all'incremento dei livelli occupazionali o al mantenimento degli stessi in fasi di crisi aziendale o di mercato appare, dunque, avere tutti i caratteri di una misura territorialmente selettiva secondo le previsioni del Trattato e, pertanto, incompatibile con il mercato comune e la disciplina della concorrenza tra imprese degli Stati membri.

Le Regioni potrebbero adottare norme di sostegno alle imprese a mezzo di aiuti diretti o indiretti soltanto qualora si trovino nelle condizioni dettate dall'art. 87 par. 2 e 3 del Trattato che legittimano la deroga al divieto generale di misure territorialmente differenziate. Potrebbero, pertanto, adottare queste misure le Regioni che debbano "… ovviare ai danni arrecati dalle calamità naturali oppure ad altri eventi eccezionali" (art. 87, par. 2 lett.b) o in cui "…il tenore di vita sia anormalmente basso, oppure si abbia una grave forma di sottoccupazione" rispetto alla media europea (art. 87, par. 3 lett. a) oppure risultino svantaggiate rispetto alla media nazionale e necessitino di "aiuti destinati ad agevolare lo sviluppo di talune attività o di talune regioni economiche, sempre che non alterino le condizioni degli scambi in misura contraria al comune interesse" (art.87, par. 3 lett. c).

La Commissione ha adottato degli orientamenti ai sensi dell'art. 88 TCE per precisare ed esplicitare i criteri di valutazione dell'ammissibilità di aiuti pubblici in deroga al divieto generale di cui al par. 1 dell'art. 87. La Commissione ha distinto i c.d. "aiuti regionali", che sono necessariamente legati a progetti imprenditoriali di investimento (cfr. "Orientamenti in materia di aiuti di Stato a finalità regionale" in GU C 74, 10.3.1998 p. 9; "Disciplina multisettoriale degli aiuti regionali destinati ai grandi progetti d'investimento" in GU C 107, 7.4.1998, p. 7), dai c.d. "aiuti all'occupazione" che sono volti ad incrementare o a salvaguardare i livelli occupazionali prescindendo da progetti di investimento strutturale ("Orientamenti in materia di aiuti all'occupazione" GU C 335, 12.12.1995, p. 4). In entrambi le ipotesi la Commissione ha adottato dei parametri meno restrittivi per l'ammissibilità di aiuti volti all'"incremento" dell'occupazione rispetto a quelli finalizzati al solo "mantenimento" dei livelli occupazionali, prevedendo che questi ultimi possano essere concessi soltanto qualora le Regioni siano caratterizzate da tenori di vita e livelli occupazionali sensibilmente più bassi rispetto alla media europea e non anche - come nell'ipotesi di aiuti che realizzino un incremento "netto" di posti di lavoro - rispetto alla media nazionale.

L'adozione di queste misure da parte delle Regioni è in ogni caso soggetta alla procedura di notifica e di esame preventivo da parte della Commissione ai sensi dell'art. 88 TCE. La nuova sovranità delle Regioni e il rapporto di pariordinazione con lo Stato sembrerebbero legittimare le stesse a richiedere autonomamente (senza il ricorso alla mediazione dello Stato) l'autorizzazione

preventiva della Commissione. Parrebbe, infatti, confortare tale conclusione la circostanza che siano stati attribuiti alla potestà legislativa concorrente i "rapporti … con l'Unione europea delle Regioni" (art. 117, comma 3 Cost.).

Eventuali misure regionali di sussidi economici erogati direttamente agli inoccupati ed ai disoccupati, anche se differenziati su base territoriali, non confliggerebbero invece con i principi di tutela della concorrenza stabiliti dagli artt. 87 e ss. del Trattato UE quando non si traducono in fatto in un vantaggio economico indiretto per le imprese. In tal caso le Regioni possono non soltanto offrire dei servizi, ma anche garantire sussidi economici a sostegno del reddito sia dei giovani in cerca di prima occupazione sia dei lavoratori disoccupati o parzialmente occupati. Anche in questo secondo caso, in cui tali prestazioni economiche assumono natura propriamente previdenziale in quanto volti a tutelare il rischio di "disoccupazione involontaria", non sembra che la previsione dell'art. 38 Cost., secondo cui a tale tutela "… provvedono organi e istituti predisposti o integrati dallo Stato", possa precludere un intervento regionale. Tale norma, infatti, posta in rapporto sistematico con il nuovo art.117 Cost., non pone una riserva di legge statale assoluta ma impegna lo Stato a fornire i livelli essenziali di prestazione lasciando alle Regioni la possibilità di integrarli anche con nuove forme di sostegno (vedi sopra, il par. 5).